I cappellani militari nel 2° dopoguerra

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I cappellani militari nel 2° dopoguerra
Mimmo Franzinelli
Cappellani militari1
Alla conclusione della Seconda guerra mondiale – nel corso della quale furono mobilitati 3219 cappellani (183 caddero nel corso del conflitto) – l’Ordinariato militare d’Italia dovette combattere per la propria sopravvivenza, contrastando la propensione, diffusa anche in ambienti governativi, ad affidare la cura spirituale delle
Forze armate ai religiosi diocesani. Il rapido sopravvenire della guerra fredda, unito a discrete pressioni vaticane, valse a mantenere in vita il corpo ecclesiastico-militare sotto l’energica guida di monsignor Carlo Alberto Ferrero di Cavallerleone,
l’ecclesiastico piemontese di sentimenti monarchici cui la Santa Sede aveva affidato l’Ordinariato l’estate 1944, inducendo al ritiro il suo predecessore, mons. Angelo Bartolomasi, eccessivamente compromesso col fascismo2.
I cappellani inseriti nei ruoli del servizio permanente effettivo proseguirono nella quasi totalità la carriera castrense, mentre per i loro colleghi la smobilitazione
comportò il ritorno ai conventi e alle parrocchie, contestualmente all’analisi delle
singole posizioni per sanzionare i casi di collaborazionismo, in analogia a quanto avveniva per ogni altro appartenente all’esercito. Monsignor Ferrero riservò all’Ordinariato militare l’esame del comportamento del suo clero e adottò criteri di giudizio generosi: per superare l’esame bastava presentarsi alla commissione ecclesiastica. Si verificarono peraltro situazioni spinose per quei religiosi il cui impegno
filofascista era notorio e che furono pertanto congedati dal servizio attivo. L’episodio più imbarazzante riguardò padre Eusebio (al secolo Sigfrido Zappaterreni), cappellano delle Brigate nere utilizzato in operazioni di propaganda nazifascista; condannato a vent’anni per collaborazionismo, fu rilasciato grazie alle pressioni del suo
arcivescovo, con l’intesa di espatriare; liberato nell’ottobre 1946, si stabilì in Argentina, dove coordinò i reduci della RSI fedeli alla memoria del Duce.
L’arcivescovo e la sua curia si sforzarono di riprendere il controllo dei componenti la struttura ecclesiastico-militare, operazione complicata dalla pluralità e dalla dispersione degli itinerari individuali. La curia castrense diramò direttive vincolanti su una serie di questioni, introducendo ad esempio il nullaosta preventivo per
le pubblicazioni a sfondo memorialistico. Illuminante, a questo riguardo, l’iter editoriale del diario di padre Romualdo Formato, cappellano a Cefalonia: monsignor
Ferrero ne vincolò l’edizione a stampa alla cancellazione di brani dai quali il letto-
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re avrebbe ricavato impressioni drasticamente negative sui tedeschi, autori dell’eccidio di gran parte della guarnigione italiana3.
Terminata la guerra, l’Ordinariato riconvertì faticosamente la propria struttura,
adeguandola all’assistenza spirituale di un Esercito fortemente ridimensionato. Al
dicembre 1945 il numero dei cappellani rimasti in servizio non raggiungeva le duecento unità, numero che si sarebbe ulteriormente assottigliato nel volgere del quinquennio. Mancò, da parte della curia, una riflessione autocritica sul corpo dei cappellani, che si era allineato al fascismo e aveva legittimato il militarismo mussoliniano. Ci si attestò sull’intransigente difesa delle prerogative istituzionali;
emblematico il rifiuto opposto alla revoca dei gradi, delle onorificenze al valore e
delle pensioni concesse dal regime agli ecclesiastici volontari in Spagna coi legionari italiani schierati con i franchisti: la curia accusò settori del parlamento «di volere in quelli [i cappellani] rimproverare e punire la Chiesa nella sua espressione gerarchica, per avere essa destinato alcuni fra i suoi sacerdoti alla assistenza spirituale
di questo o di quel gruppo di anime »4. Non fu possibile scongiurare il provvedimento sgradito, ma in una successiva fase politica l’Ordinariato ribaltò la situazione5. Eguale impegno venne profuso contro il disconoscimento del servizio prestato
nelle Forze armate della RSI, mentre si negò l’equiparazione retroattiva allo status
di cappellano militare ai religiosi aggregatisi alle formazioni partigiane, in quanto
privi di nomina della curia castrense.
Monsignor Ferrero, sorretto da una spiccata visione teocratica e da una concezione aristocratica della società, insofferente della dialettica del sistema democratico, contestò la divisione degli ambiti tra politica e religione: la Chiesa doveva indirizzare le scelte della classe di governo. In più circostanze il presule criticò Alcide
De Gasperi per il dialogo con i partiti della sinistra e l’alleanza con formazioni laiche (specialmente il Partito repubblicano). Nella seconda metà del 1945 il presule
s’incontrò con Vittorio Emanuele e con Umberto di Savoia, relazionando poi alla
segreteria di Stato vaticana in senso filomonarchico6. L’arcivescovo militare disconobbe la vittoria repubblicana al referendum istituzionale e scrisse al nunzio apostolico: «Oggi il Re Umberto II ha lasciato l’Italia riconfermando, nel Suo accorato e rovente proclama, che il Governo ha compiuto in questi giorni un gesto rivoluzionario e non ha osservato i limiti della legge. Di fronte a simile dichiarazione
l’animo di ogni italiano non può non rimanere profondamente pensoso e domandarsi se e quale sia la legittimità del Governo attuale e delle deliberazioni che esso
può prendere»7. La Repubblica era considerata lo strumento degli anticlericali per
scristianizzare l’Italia. Un colloquio col presidente del consiglio, avvenuto il 13 novembre 1946, all’indomani di una tornata elettorale amministrativa favorevole alle
sinistre, fu imperniato su «l’apprensione che regna negli animi dei benpensanti nel
veder decrescere le aderenze alla Democrazia Cristiana la quale sconta anche, così,
i suoi errori tattici, preparando un ben triste avvenire alla vita politica della nostra
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Patria». Secondo Ferrero, la DC si era incautamente «coalizzata con gli altri partiti antifascisti nell’infierire contro i fascisti» e si era «pronunciata per la repubblica
quando non vi era nessuna necessità»8.
L’arcivescovo seguì con apprensione e frustrazione lo sviluppo dei negoziati per
il trattato di pace, da lui definito «iniquo»; nell’estate 1947 lanciò un drammatico
appello al cardinale Francis Spellman: «A questo popolo si stanno preparando ignominiose violenze, in nome di un diritto [quello delle potenze vincitrici] che non è
altro che frode e per l’avvento di una pace che non sarà altro che iniquità e sterminio»9; in quella circostanza l’ordinario militare degli Stati Uniti deluse le aspettative del confratello.
Il clero militare si occupò della sorte dei soldati italiani scomparsi durante la
campagna di Russia: i cappellani animarono i raduni delle famiglie dei dispersi che,
prive di notizie dei loro cari, ignoravano la falcidia della ritirata e li ritenevano rinchiusi nei lager sovietici10. Tra le varie iniziative intraprese ebbe notevole rilievo il
convegno dei cappellani reduci di Russia svoltosi il 24-27 gennaio 1947, strutturato su tre temi: i risvolti spirituali dell’Armir, la prigionia italiana nell’URSS e l’atteggiamento sacerdotale nei confronti del comunismo ateo; ai lavori congressuali
partecipò il generale Gariboldi; i convenuti furono ricevuti in udienza particolare da
Pio XII11. Alcuni religiosi reduci dalla prigionieri pubblicarono le proprie memorie, con positivi riscontri editoriali12.
L’arcivescovo militare si preoccupò anche della moralità pubblica, sensibilizzando i ministri Scelba, Gonella e Andreotti alle «oscene nudità» delle statue del Foro
italico (ex Foro Mussolini); il reverendo sollecitò « quei restauri che sono imposti
da elementari esigenze di moralità e di correttezza» e propose che «alle novanta statue sia aggiunto, a copertura degli organi genitali ora indecentemente visibili, un
adeguato schermo – possibilmente sia in marmo che in lamiera di colore bianco
per non destare eccessiva attenzione – che riconduca le statue ad essere, se non gentile espressione di grazia e di pensiero, almeno elemento di rispetto morale della cornice del Foro Italico»13. Il governo risolse la questione nel senso indicato.
L’arcivescovo incappò a metà luglio 1948 in una disavventura: durante le proteste popolari seguite all’attentato al segretario comunista Palmiro Togliatti fu sequestrato nei pressi di Colle Val d’Elsa (Lucca) da una trentina di esagitati militanti social-comunisti, che lo rinchiusero nella sede della Camera del lavoro, per rilasciarlo soltanto dopo che i dirigenti sindacali garantirono per lui: l’ecclesiastico uscì dalla
cittadina su un’auto dalla quale sventolava la bandiera rossa14. Superata la brutta
esperienza, Ferrero raccomandò al capo di Stato Maggiore dell’Esercito l’assegnazione di cappellani militari ai Carabinieri, come misura da intendersi «anche contro le forze del disordine»15.
Nel 1949 l’arcivescovo contestò le commemorazioni ufficiali del centenario della Repubblica romana, deplorando «che la maggioranza cattolica del Consiglio co-
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munale di Roma consentisse ad una rievocazione dalla quale, comunque la si svolga, non può essere tolta una penosa risonanza anticlericale, anzi antipapale» e rilevando il «crescente insinuarsi della Massoneria nella vita pubblica italiana e, in particolare, nelle amministrazioni-chiave della Nazione »16. All’inizio degli anni Cinquanta la massoneria rappresentava per l’Ordinario militare una grave minaccia,
considerato – secondo quanto confidò al nunzio apostolico – «il diffondersi della
“massoneria” nel complesso delle attività statali italiane e in particolare (per quel che
mi consta) fra le Forze armate, cresce in maniera preoccupante: i segni indubbi aumentano di numero e di aggressività»17. La liberomuratoria trovava accoliti tra gli
alti ufficiali e gli uomini di governo, agevolata dalla solidarietà dei confratelli statunitensi. Tra i personaggi invisi a monsignor Ferrero vi era il repubblicano Randolfo Pacciardi, ministro della Difesa dal 1948 al 1953, «il quale se anche non fosse
iscritto alla massoneria pure è notorio amico dei massoni e non nasconde, sebbene
sempre corretto nella forma con me e con altri rappresentanti dell’Episcopato italiano, i suoi sentimenti notoriamente irreligiosi sino al punto da essere considerati
atei!»18. L’inverno 1950-51 monsignor Ferrero polemizzò duramente col generale Alessandro Trabucchi, titolare del VII comando militare territoriale e autore della circolare che richiamava i cappellani all’adempimento dei compiti di assistenza spirituale ed eventualmente materiale: «All’infuori di queste due attività, che sono poi
quelle connesse alla missione sacerdotale, il cappellano militare ha soltanto il dovere della perfezione della propria condotta e del costume da imporre, senza coazione, il proprio prestigio; non tocca a lui né stimolare le virtù guerriere, né eccitare
all’odio contro nemici terreni: sono queste facoltà del comandante militare che non
sono comunque cedibili »19. L’arcivescovo reputò « di eccezionale gravità, infondato, ostile, illegittimo» la direttiva del generale e protestò col ministro della Difesa,
senza ottenere peraltro soddisfazione.
L’attività dell’Ordinariato militare risultò conforme alla situazione della guerra
fredda: si concretizzò tra l’altro in iniziative contro i partiti di sinistra e l’Associazione nazionale partigiani d’Italia, nonché nel condizionamento della Democrazia
cristiana da posizioni di destra. L’ultima battaglia di monsignor Ferrero riguardò le
elezioni politiche generali del 7 giugno 1953, a sostegno della riforma maggioritaria
del sistema elettorale, per consolidare un modello centrista nel quale la DC attuasse docilmente le volontà d’oltre Tevere. Egli esortò i cappellani al massimo impegno affinché la Democrazia cristiana e le liste a essa collegate riportassero la maggioranza assoluta dei suffragi, evitando nella misura del possibile il voto a sinistra
(«grave colpa», punita con «gravissime sanzioni spirituali della Chiesa») e a destra
(«dispersioni che andrebbero a vantaggio soltanto o di forze corrosive o ingannatrici
o inefficaci»)20. La sconfitta – sia pure di misura – della coalizione governativa fu
vissuta dall’arcivescovo come un dramma personale, anche perché dalla Santa Sede
gli si fece comprendere l’opportunità di dimettersi. Al provvedimento non furono
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estranee manovre curiali contro il presule, innescate da qualche cappellano a lui contrario. Con l’abbandono di monsignor Ferrero – avvenuto nel novembre 1953 – si
concludeva l’epoca, contraddistinta da una doppia transizione: dalla guerra alla pace e dai governi ciellenisti al centrismo.
La Santa Sede designò ai vertici dell’Ordinariato militare il veneto Arrigo Pintonello, già capo del servizio di assistenza spirituale al Corpo di spedizione italiano
in Russia21. Si trattava di un sacerdote di mentalità reazionaria, proveniente da una
famiglia strettamente legata al regime fascista. La strategia rigidamente centrista e
confessionale di Ferrero (che guardava alla Democrazia cristiana come a un interlocutore critico) fu rimpiazzata da una linea filofascista, di rimpianto dell’Italia littoria. Le direttrici della politica ecclesiastica di monsignor Pintonello accentuarono l’impegno anticomunista in un’ottica militante, sopravvalutarono ulteriormente il pericolo anticlericale, incaricarono i cappellani del controllo sul comportamento
dei giovani di leva tanto sul piano religioso (combattendo nel modo più deciso ogni
tentativo di proselitismo dei protestanti) quanto a livello politico (contrastando nelle caserme gli elementi di sinistra). Ai primi sintomi dell’opposizione al servizio militare per motivi morali, manifestati da alcuni testimoni di Geova chiamati alla visita di leva, l’Ordinariato reagì con misure di polizia, mediante schedature e invocazione di provvedimenti repressivi. Isolati segnali di presenza acattolica nelle Forze
armate, rappresentati da giovani militari aderenti a gruppi protestanti, procurarono forti preoccupazioni e furono affrontati in un’ottica punitiva. Nella seconda metà
degli anni Cinquanta si verificò la saldatura tra i vertici dell’Ordinariato e settori
del mondo militare schierati su posizioni oltranziste. La collaborazione dei cappellani alla campagna di schedatura avviata dal generale Giovanni De Lorenzo nelle caserme (ma anche nella società civile) è il segnale più eloquente di una strategia che
alla testimonianza evangelica sostituiva la salda alleanza con i centri del militarismo, nella condivisione di un approccio d’ordine per la soluzione dei problemi sociali. Monsignor Arrigo Pintonello si era esplicitamente schierato con quanti contestavano da posizioni di destra radicale la politica dei governi centristi e individuavano per la società italiana modelli di matrice militarista.
Tra le realizzazioni di monsignor Pintonello spicca la fondazione a Monte Sacro (Roma) dell’Accademia dei cappellani militari, per favorire le vocazioni ecclesiastiche in seno alle Forze armate.
La legge n. 512 del 1° giugno 1961 su stato giuridico, avanzamento e trattamento economico dei cappellani segnò il culmine della fase di rafforzamento dell’Ordinariato, cui seguirono un ventennio di travagli e discussioni sulla stessa ragion
d’essere del corpo. I fermenti del Concilio Vaticano II, con l’insistenza sul tema della pace, provocarono frizioni tra i cappellani e una parte del clero, in particolare
nella diocesi di Firenze. Il casus belli riguardò l’obiezione di coscienza al servizio militare, che nel 1962 costò l’arresto al giovane cattolico Giuseppe Gozzini, poi con-
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dannato a sei mesi di carcere. Don Luigi Stefani, già cappellano militare nella campagna di Russia, commentò con favore la sentenza, che venne invece stigmatizzata
da padre Ernesto Balducci con parole di fuoco contro il coinvolgimento dei cattolici nelle guerre, che il 15 ottobre 1963 gli costarono la condanna a otto mesi (confermata l’anno successivo dalla Cassazione). Seguirono laceranti polemiche intestine al clero, culminate nella lettera-aperta ai cappellani militari – diramata il 23 febbraio 1965 da don Lorenzo Milani agli ottocento ecclesiastici toscani – di radicale
rigetto della presenza sacerdotale tra le Forze armate. La straordinaria eco del documento costrinse i cappellani a una posizione difensiva: l’arcivescovo di Firenze,
monsignor Florit, convocò i dirigenti del clero castrense toscano, cui raccomandò
il silenzio, per non mostrare le divisioni intestine. La Lettera al clero fiorentino del
cardinale Florit (14 aprile 1965) sconfessò con linguaggio diplomatico le posizioni
di Milani, Balducci e altri sacerdoti fiorentini, riaffermando il tradizionale magistero della Chiesa sulla «presunzione di diritto in favore dell’autorità» e rilevando che
l’obiezione di coscienza non costituiva una priorità «nella vasta panoramica del pensiero cattolico». Monsignor Giovanni Antonietti, presidente dell’Associazione nazionale cappellani militari in congedo, indirizzò un documento al governo e ai parlamentari di totale contrarietà al riconoscimento dell’obiezione di coscienza, ricondotta a «comodi scrupoli religiosi o umanitari che sono poi solamente quelli della
viltà e del volgare egoismo».
A inizio 1966 l’Ordinariato fu affidato a monsignor Luigi Maffeo, che adeguò
la sua diocesi alle prescrizioni conciliari, istituendo il Consiglio pastorale centrale.
Colpito da una grave malattia, nel maggio 1971 fu sostituito da monsignor Mario
Schierano, già cappellano nella Seconda guerra mondiale e internato in un lager tedesco nel 1943-45. Durante gli anni Settanta la smilitarizzazione della Polizia di Stato si accompagnò all’abrogazione dei cappellani, cui l’Ordinariato reagì con un
un’impegnativa battaglia difensiva del corpo. L’iniziativa di maggiore risonanza fu,
nel 1975, la celebrazione a Roma dell’Anno santo internazionale dei militari, alla presenza di tutti i vicari castrensi.
L’episcopato di monsignor Gaetano Bonicelli (un ecclesiastico impegnato in
campo sociale su posizioni progressiste) segnò negli anni Ottanta l’uscita da una posizione di emergenza e l’affermazione dell’Ordinariato militare come realtà consolidata, non più minacciata dalle contingenze politiche italiane. Tra le ragioni dello
sviluppo registrato dall’assistenza religiosa alle Forze armate vi era l’azione di Giovanni Paolo II, assai più propenso di Paolo VI alla valorizzazione dell’Ordinariato
militare. Emblematiche le periodiche udienze concesse dal pontefice ai vicari castrensi: il 9 ottobre 1980 in occasione del loro primo convegno mondiale e poi in
ulteriori occasioni. Il 26 aprile 1986 il papa ha promulgato la Costituzione apostolica Spirituali Militum Curae.
Durante la gestione Bonicelli (1981-89) i cappellani militari hanno assistito le
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truppe italiane dislocate in Libano; la presenza ecclesiastica caratterizzò le successive missioni armate all’estero, in Iraq come nell’Afghanistan. A monsignor Bonicelli è succeduto nel dicembre 1989 Giovanni Marra, sostituito nel gennaio 1996 da
Giovanni Mani; ad Angelo Bagnasco, nominato nel giugno 2003, è seguito di lì a
un triennio l’attuale ordinario militare, Vincenzo Pelvi, alla guida della «chiesa con
le stellette», con un organico di 204 persone.
La revisione del Concordato (18 febbraio 1984) ha confermato le prerogative dei
cappellani, la cui funzione è stata rafforzata dalla Santa Sede con l’approvazione degli Statuti dell’Ordinariato militare in Italia (6 agosto 1987). L’arcivescovo militare,
nominato dal presidente della Repubblica su designazione del pontefice, è equiparato al grado di generale di corpo d’armata. Nel 1997 ministero della Difesa e Ordinariato militare hanno istituito la Scuola allievi cappellani militari.
Note
1 Indichiamo qui, a mo’ di bibliografia generale sul tema, alcuni titoli: In pace e in guerra sempre e solo Pastori. Contributi
per una storia dei cappellani militari italiani, Ordinariato militare per l’Italia, Roma 1986; Mimmo Franzinelli, Il riarmo dello spirito. I cappellani militari nella seconda guerra mondiale, Pagus, Treviso 1991; La spada e la croce, a c. di Giorgio Rochat, Società di Studi Valdesi, Torre Pellice 1995; Chiesa e guerre dalla benedizione delle armi alla «Pacem in Terris», a c. di
Mimmo Franzinelli, Riccardo Bottoni, Il Mulino, Bologna 2005.
2 Carlo Alberto Ferrero di Cavallerleone (1903-1969), ordinato sacerdote nel dicembre 1928, lavorò presso la Santa Sede
in veste di minutante della sezione liturgica della Santa congregazione per la Chiesa orientale. Negli anni Trenta frequentò
nei palazzi vaticani Alcide De Gasperi, impiegato presso la Biblioteca vaticana. Fornito di una solida cultura umanisticoletteraria, Ferrero fu nominato ordinario militare il 28 ottobre 1944.
3 L’edizione a stampa del diario di padre Romualdo Formato (L’eccidio di Cefalonia, De Luigi, Roma 1946, poi riedito da
Mursia) è mutilata di diversi passi presenti nel dattiloscritto originale, conservato nell’Archivio Storico dell’Ordinariato militare (d’ora in poi AOMI).
4 Cfr. la documentazione conservata in Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei ministri 1948-1950, fasc. «Mantenimento prerogative cappellani militari in Spagna».
5 Il governo Parri sancì anche per i cappellani la revoca delle onorificenze e delle pensioni relative alla partecipazione al conflitto civile spagnolo, mentre la legge n. 178 del 6 maggio 1953 stabilì – su domanda degli appartenenti alla disciolta Milizia – il riottenimento delle decorazioni.
6 Cfr. le lettere dell’arcivescovo militare a monsignor Domenico Tardini, segretario della Santa congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari, 20 luglio e 12 novembre 1945 (AOMI, fascicolo personale Carlo Alberto Ferrero di Cavallerleone).
7 Monsignor Ferrero a monsignor Borgoncini Duca, nunzio apostolico in Italia, Roma, 14 giugno 1946, oggetto: «Notifica nomina Ispettore e dubbi sulla legittimità della “Repubblica Italiana”» (AOMI, Miscellanea Marchisio).
8 Diario di monsignor Ferrero, 12-13 novembre 1946 (AOMI).
9 Memoriale di Ferrero a Spellman e (per conoscenza) al ministro della Difesa, al comandante generale dei carabinieri, al
capo della polizia e al nunzio apostolico in Italia, 14 luglio 1947 (AOMI, fasc. personale Carlo Alberto Ferrero di Cavallerleone).
10 Cfr. Mimmo Franzinelli, Religione e guerra fredda: i cappellani militari e il problema dei prigionieri italiani nell’Unione
Sovietica, in «Studi piacentini», n. 16, 1994, pp. 53-80 e – per un quadro d’insieme – Maria Teresa Giusti, I prigionieri italiani in Russia, Il Mulino, Bologna 2003.
11 Cfr. la documentazione depositata in AOMI, b. 47, fasc. «Ritiri mensili e convegni».
12 Cfr. Guido Maurilio Turla, La nostra e la loro prigionia, Istituto tipografico editoriale, Milano 1948 (riedita da Longanesi con il titolo Sette rubli per il cappellano); Giovanni Brevi, Russia 1942-1954, Garzanti, Milano 1955; Pietro Alagiani, Le
mie prigioni nel paradiso sovietico, Paoline, Roma 1956; Pietro Leoni, Spia del Vaticano, Cinque Lune, Roma 1959.
13 Monsignor Ferrero al ministro dell’Interno Mario Scelba, 31 luglio 1948 (AOMI, Miscellanea Marchisio, b. L 12, fasc.
«Foro Italico»).
14 Sull’episodio cfr. Mimmo Franzinelli, Epurazione, smobilitazione e riassetto del clero castrense italiano (1945-1948), in «Il
Presente e la Storia», n. 53, giugno 1998, pp. 51-53.
15 Cfr. la lettera di monsignor Ferrero al capo di Stato Maggiore dell’Esercito, 9 agosto 1948 (AOMI, b. L 12, fasc. «Legislazione 1937-1948»).
16 Monsignor Ferrero a monsignor Borgoncini Duca, 9 febbraio 1949 (AOMI, Miscellanea Marchisio, b. 7, fasc. « Repubblica Romana»).
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17 Monsignor Ferrero al nunzio apostolico, 22 luglio 1950 (AOMI, b. 113, fasc. «Massoneria»).
18 Ibidem.
19 Circolare del comandante del VII Comiliter ai comandanti di Corpo dipendenti, 9 novembre 1950, oggetto: «Definizione del campo d’attività dei cappellani» (AOMI, b. 43).
20 Circolare di monsignor Ferrero ai cappellani militari, 23 maggio 1953, oggetto: «Direttive per le elezioni politiche del
7 giugno» (AOMI, b. 42).
21 Arrigo Pintonello (1908-2001), ordinato sacerdote nel 1932, prestò servizio nell’ospedale militare di Pola nel 1935-37, venendo quindi trasferito all’Esercito e assegnato al presidio di Brunico. Nel giugno 1940 assunse le mansioni di cappellano
di collegamento tra la curia castrense e lo Stato Maggiore; promosso cappellano militare capo, nell’agosto 1941 guidò il
servizio di assistenza spirituale del corpo di spedizione in Russia. Rimpatriato a inizio aprile 1943, passò alle dipendenze
del quartiere generale del Comando supremo. Dopo l’armistizio passò a disposizione dell’Ordinariato. Nel dopoguerra fu
rettore del seminario di Salerno. Dal novembre 1953 al gennaio 1966 rivestì l’incarico di arcivescovo militare. Fermamente contrario alle riforme introdotte dal Concilio Vaticano II, fu vicino alle posizioni del cardinale Lefebvre e dalla metà
degli anni Sessanta operò su posizioni contrastanti con la linea della Santa Sede. Tra le sue iniziative vi fu la messa annuale in suffragio alle camicie nere della Milizia.