Wanda Ferragamo Miletti è dal 1960 il presidente

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Wanda Ferragamo Miletti è dal 1960 il presidente
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LA LADY
DI CUOIO
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GIANLUCA TENTI
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[ DI
GUGLIELMO DE MICHELI
Wanda Ferragamo Miletti è dal 1960 il
presidente del Gruppo fondato dal marito
Salvatore: «È tutto merito suo», dice. Ma è
lei che ha portato l’azienda di famiglia alla
conquista del mondo. Non solo con le scarpe
WANDA FERRAGAMO MILETTI (IN QUESTA PAGINA) È IL PRESIDENTE DEL GRUPPO SALVATORE FERRAGAMO: È AL TIMONE DELL’AZIENDA DI FAMIGLIA DA 45
ANNI, DALLA SCOMPARSA CIOÈ DEL MARITO E FONDATORE SALVATORE. NELLA PAGINA A FIANCO, L’INTERNO DI UNA SCARPA IN CUI SI VEDE IL GUARDOLO CUCITO.
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ché mentre prende carta e penna per rispondere a un dirigente di un colosso americano di
vendite che ha detto in un’intervista che il lusso è finito («Un
certo lusso sfrenato non piace
più, ma non possiamo certo calpestare il nostro gusto estetico
votato al bello e alla qualità»,
precisa), mentre siede dietro la
scrivania che è stata del marito,
la signora Ferragamo ha un pensiero costante per la famiglia:
«Vengo in ufficio tutti i giorni»,
rivela. «Non perché abbia bisogno di lavorare, ma la mia esistenza è legata all’azienda che mio marito creò. Voleva che qui lavorassero tutti i figli. Così è stato».
Mentre parla, leggo un profilo aziendale. Ferruccio Ferragamo è amministratore delegato della Salvatore Ferragamo Italia Spa; Leonardo
Ferragamo è amministratore delegato della società di famiglia che controlla le attività diversificate del Gruppo (tra queste, anche la Lungarno Hotels che festeggia il decennale); Massimo Ferragamo è presidente della Ferragamo Usa; Giovanna Gentile Ferragamo è vicepresidente della Salvatore Ferravamo Italia; Fulvia Visconti Ferragamo è responsabile delle collezioni accessori (foulard, sciarpe, cravatte e bijoux)
e presidente della Blue Home Spa (tessuti per l’arredamento e per la casa); James Ferragamo (figlio di Ferruccio) coordina le attività di merchandising; Diego di San Giuliano (figlio di Fiamma) è responsabile dello sviluppo prodotto scarpe donna; Angelica Visconti (figlia di Fulvia)
sta seguendo un percorso di training in azienda. A loro si unisce il ricordo di Fiamma di San Giuliano Ferragamo, che entrò in azienda a 16
anni e, unica tra i figli, lavorò un anno sotto le direttive di Salvatore. Il
suo debutto nell’arte del padre fu la presentazione della prima collezione
ufficiale di calzature, a Londra, nel 1961. Da allora, e fino alla sua
scomparsa (1998), è stata la responsabile della creazione, produzione, vendita di scarpe da donna e del settore pelle (borse, valigeria, accessori per
uomo e donna). A lei fu tributato il prestigioso Neiman Marcus Award
nel 1967, vent’anni dopo la premiazione del padre. Leggo queste note
e ricordo una bella fotografia di David Lees, il fotografo di Life che radunò la famiglia Ferragamo sul tetto di questo palazzo.
«Abbiamo cresciuto i nostri figli con equilibrio», spiega donna Wanda.
«E anche quando sono entrati in azienda hanno ricevuto, tutti, lo stesso trattamento. Hanno iniziato a lavorare nello stesso ruolo, con lo stesso stipendio. Poi, con gli anni, abbiamo effettuato alcuni investimenti
RITRATTO DI FAMIGLIA DI WANDA FERRAGAMO MILETTI (IN CENTRO) CON TUTTI I FIGLI E DUE NIPOTI: DA SINISTRA, JAMES STANDING, GIOVANNA GENTILE
FERRAGAMO, DIEGO DI SAN GIULIANO, LEONARDO FERRAGAMO, FULVIA VISCONTI FERRAGAMO, FERRUCCIO FERRAGAMO (SEDUTO) E MASSIMO FERRAGAMO.
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«Ieri mi ha telefonato donna
Franca (Ciampi, ndr). Mi ha detto: “Ho 84 anni”. Le ho risposto:
“Anch’io”. Allora lei ha ripreso:
“Come sta?”. Ho detto: «Ho 42
nipoti... (pausa), eppure devo
escogitare qualcosa per i regali di
Natale. Qualcosa che vada bene
per tutti. Grazie a Dio hanno tutto. Ma bisogna stare attenti. Pensi, una volta ho scritto un biglietto al piccolo Diego: Volevo mandarti dei soldi, ma era arido. Sa
che cosa mi ha detto? Grazie per
il pensiero, ma non è arido».
Quando uno si trova così, davanti alla scrivania di una donna affascinante
come Wanda Ferragamo Miletti e l’intervista scivola subito nella confidenza può considerarsi fortunato. Fuori dalla finestra di Palazzo Spini Feroni il sole brilla nel cielo terso di Firenze. È una splendida mattinata di tarda primavera, di quelle che riconciliano con la vita, e donna Wanda apre lo scrigno della casa di moda Salvatore Ferragamo per
Monsieur. Lei è il presidente di un gruppo che ha chiuso l’anno solare
2004 con un fatturato consolidato di 549 milioni di euro (+5% rispetto al 2003). Numeri importanti per la moda italiana, anzi per il vero Made in Italy considerato che tutta la produzione di questa griffe, a differenza di nomi altrettanto altisonanti che si fregiano di difendere l’italianità
ma poi producono all’estero, viene realizzata esclusivamente nel nostro
Paese. Ma la vera ricchezza di questa conversazione non è nei numeri
quanto, piuttosto, nei valori che Wanda Ferragamo rappresenta.
«Abbiamo un bel gruppo per il futuro», dice, riferendosi alla pattuglia
di nipoti. «Ma non vogliamo che siano in molti nell’azienda. Voglio piuttosto infondere tanta cultura imprenditoriale, a iniziare dal comportamento. Ho un progetto. Voglio dividerli in gruppetti da portare in campagna per affrontare con loro quattro argomenti. Primo: tutti i maschietti, da nove anni in su, devono sapere che cosa vuol dire essere gentleman in ogni azione, a iniziare dal rispetto verso gli altri, dal comportamento che devono avere con i genitori e col personale dipendente.
Il valore fondamentale, voglio dirgli, è la lealtà di base. Secondo: la cultura, intesa come conoscenza e chiave d’accesso alla vita adulta. Terzo:
Dio, amore e i principi cristiani che appartengono alla nostra esistenza. E alla fine, voglio incontrare tutte le giovani madri per ricordar loro che in famiglia l’uomo comanda, nel rispetto reciproco, e la donna
ha una grande responsabilità nella crescita dei figli». È questo l’aspetto che più seduce di donna Wanda. Quello intimo, familiare. Sì, per-
l
Gruppo viene realizzata nel nostro Paese
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Vero made in Italy: la produzione del
immobiliari. Ma il mercato, si sa, non è omogeneo. Così sono riuscita,
qualche anno fa, a trovare un equilibrio finanziario, con qualche ragguaglio. Perché i figli sono tutti uguali. E io, oggi, non ho più neppure un’azione della società». Alzo lo sguardo sopra un mobile antico e vedo un’immagine di calore familiare, con Salvatore che insegna al piccolo
Leonardo come si crea una scarpa. E poi vedo questa affascinante donna di successo che da 45 anni porta avanti l’azienda di famiglia rispettando la massima: «Mai adagiarsi sugli allori». È grazie a lei, rifletto, che
il nome di Salvatore Ferragamo ha conquistato il mondo.
Quasi stesse leggendomi nel pensiero, donna Wanda riprende la conversazione: «Tutto è merito di quello lassù, Salvatore», dice. «Mi è
sempre stato vicino in tutti questi anni. Non avevo idea che un uomo
potesse fare i sacrifici che ha fatto lui. Lei immagini, la sua famiglia aveva 14 figli. Ma non disponeva di grandi mezzi. Così i genitori concentrarono tutte le loro risorse per far studiare il primogenito, Agostino, che
prese la laurea e ottenne una cattedra a Firenze. Però quel figlio era malato e morì presto, facendo precipitare la famiglia in una forte depressione. Persero in un colpo solo il più grande dei figli e i risparmi di una
vita. Per questo i suoi fratelli emigrarono in California dove lo Stato concedeva le terre gratuitamente pur di farle coltivare. Un nucleo della famiglia Ferragamo si stabilì a Santa Barbara e quella fu la fortuna di mio
marito». In che senso? «Quando i parenti scrivevano una lettera al
paese natale, Bonito in Campania, chiedevano: “Che cosa fa il piccolo
Salvatore?». I genitori, che si facevano aiutare per poter rispondere, spiegavano: “Ha molta passione per imparare a fare il calzolaio, sotto casa
c’è una bottega dove sta imparando il mestiere”. E come risposta dall’America arrivò un invito: “Deve venire qui, perché ci sono altre possibilità”. A 16 anni Salvatore emigrò». Era il 1913, un periodo in cui,
com’è scritto in una cartolina al museo di Ellis Island, molti erano attratti dalla promessa di trovare un Nuovo mondo fatto di strade d’oro.
Ma quando gli emigranti sbarcavano nella baia di New York, scoprivano che non solo le strade non erano d’oro, ma anche che le strade non
erano poi molte. E capivano presto che a costruirle sarebbero stati
proprio loro. Questo penso mentre cerco d’immaginare quel viaggio, quel
lungo peregrinare. Di un giovane, già orfano di padre, che a soli nove
anni, ripeto nove anni, era entrato nel primo negozio di un ciabattino
con un sogno: riuscire a fare le scarpe più belle del mondo. Quel ragazzo
che un giorno sarebbe diventato il calzolaio delle stelle.
«Viaggiò su un piroscafo, in terza classe tra cattivi odori e gente di tutti i tipi», racconta donna Wanda. «Il biglietto glielo procurò uno zio prete. Lui si vestì in maniera elegante, e viaggiò con i soldi necessari per arrivare in America. La legge era molto rigida. Ogni emigrante doveva avere con sé 10 dollari. Ma lui non ce la faceva a restare in terza classe. Così pagò una differenza di 2 dollari per viaggiare in seconda. Quando ar-
rivò a New York e i poliziotti americani salirono a bordo per controllare che ogni passeggero disponesse dei soldi necessari per sbarcare, rigirò i dollari e li mostrò arrotolati. Non erano più dieci, ma ce la fece».
Quella di Salvatore Ferragamo potrebbe sembrare una favola. Invece è
una storia, vera, costellata di sogni, sfide e successi. Ma anche di delusioni e difficoltà. Di fallimenti, sì perché Ferragamo fallì all’alba degli
anni 30, ma anche di quella forza che solo chi è padrone di un mestiere, chi ha volontà ed è disposto ad affrontare sacrifici riesce a tradurre
in energia per ripartire e vincere di nuovo.
«Quando sbarcò a New York», riprende il discorso donna Wanda, «una
sorella, l’unica che si era stabilita nella East Coast, a Boston, doveva andare a incontrarlo al molo. Ma una volta arrivata lì non lo riconobbe, se
lo aspettava trasandato. Così, se ne tornò col marito a casa, sconsolata.
Salvatore invece c’era, eccome, su quella nave. Mi raccontava, mi sembra ieri, che aveva anche un bastoncino, era elegante. Così scese a terra e, senza conoscere l’inglese, si fece capire da un poliziotto che gli disse di andare a Boston a cercarsi i parenti. E così fece. Ma, dopo poco,
attraversò l’America e raggiunse gli altri fratelli a Santa Barbara dove
trovò anche un ambiente più caloroso. Quello da grandi pastasciutte della domenica, per intenderci». Una manciata di miglia separa Santa
Barbara da Hollywood. Ma quella che diventerà la Mecca del cinema
in quel periodo è soltanto il sobborgo della città chiamata El Pueblo
de Ñuestra Senora la Reina de Los Angeles de Porchiuncula. Appena
20 anni prima dell’arrivo del giovane Salvatore, la signora Daeida
Wilcox, moglie del proibizionista Harvey Wilcox, aveva chiamato la
propria casa Hollywood (bosco di agrifoglio) rubando il nome all’abitazione di un’amica e regalandolo, di fatto, al mondo intero. E solo nel
1907 era arrivata la prima compagnia di produzione cinematografica
per girare il film drammatico The Count of Monte Cristo.
Proprio il 1913 è il momento giusto. È l’anno in cui, attraverso l’acquedotto del fiume Owens, si rende disponibile una regolare fornitura
d’acqua a tutta la zona. E, con l’acqua, crescono i residenti e arriva anche il primo lungometraggio prodotto da Jesse Lasky e Cecil B. De Mille, proprio a Hollywood. «In realtà», spiega Wanda Ferragamo, «Salvatore
doveva lavorare nell’agricoltura. Ma si ostinò a tal punto da spingere il
fratello a presentarlo al direttore di una fabbrica di scarpe. Solo che al
termine dell’incontro, dopo aver visto come venivano prodotte 20mila
paia al giorno, disse al fratello: “Ho in mente tutta un’altra cosa. Qui fanno le punte delle scarpe come delle gran patate, il tacco è pesante come piombo”. Riuscì, quindi, a trovare un piccolo spazio, in un sottoscala.
E sedusse le attrici con il suo tacco alto, con il colore». Trascorsi dieci
anni dall’arrivo in America, Salvatore Ferragamo aprì l’Hollywood
boot shop, che sarà scelto da clienti come Mary Pickford, Rodolfo Valentino, John Barrymore jr, Douglas Fairbanks e Gloria Swanson.
IN ALTO, UN MODELLO STRINGATO SALVATORE FERRAGAMO CON LAVORAZIONE TRAMEZZA. CON WANDA FERRAGAMO MILETTI, LA SALVATORE FERRAGAMO È
PASSATA DALLA MONOPRODUZIONE DI CALZATURE AL TOTAL LOOK. IL GRUPPO HA CHIUSO IL 2004 CON UN FATTURATO CONSOLIDATO DI 549 MILIONI DI EURO.
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IN QUESTE PAGINE, WANDA FERRAGAMO MILETTI OSSERVA UNA SCARPA DA DONNA, UNO DEI MODELLI REALIZZATI DALLA SALVATORE
FERRAGAMO. SULLO SFONDO, LA SPLENDIDA VISTA CHE SI GODE SU FIRENZE DA PALAZZO SPINI FERONI, SEDE DEL GRUPPO DAL 1938.
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ta assegnato a un creatore di calzature, in una serata che vedrà premiati
da Stanley Marcus, Norman Hartnell, Christian Dior e Irene di Hollywood). All’inizio degli anni 50, l’azienda conta 700 dipendenti che producono a mano, quotidianamente, 350 scarpe. Il successo torna ad avere il profumo dell’internazionalità. Nel negozio di via Tornabuoni si fermano i divi del cinema: da Greta Garbo («Entrò con un paio di vecchi sandali di corda e ne uscì con 70 paia di scarpe», scrive Salvatore
Ferragamo) a Sofia Loren, Anna Magnani («Non ha curato abbastanza i suoi piedi da ragazza; adesso richiede che l’arco del piede sia
ben sostenuto», annota il calzolaio delle stelle), fino ad Audrey Hepburn e all’altà società dei duchi di Windsor. Nello stesso periodo si afferma la prima meccanizzazione della produzione, limitata alle fasi
meno elaborate perché i passaggi più delicati «devono essere fatti sempre manualmente e sotto stretto controllo umano».
Donna Wanda schiude il proprio scrigno di memorie: «In
quegli anni non facevamo molto vita mondana. Parlavamo.
Molto. E più lo conoscevo più lo amavo. Per la sua generosità. Per la sua signorilità. Solo dopo il nostro matrimonio
ho viaggiato molto e ho avuto la fortuna di avere una visione del mondo più grande. Ma è a Firenze che tutto è
nato. Perché Firenze? Perché qui mio marito Salvatore
si fermò dopo aver conosciuto Torino, Genova e Milano. Ovunque andasse studiava la città, parlava con artigiani e operai. Naturalmente riconosceva che le sue idee
erano sconvolgenti, soprattutto per l’epoca. Ma lui era
così. Amava la chiarezza. E solo a Firenze trovò artigiani
che rispondevano come lui voleva: non si preoccupi, ce la
facciamo». Tutto sembra come in un bel film quando, nell’estate del 1960, scompare Salvatore. Wanda si ritrova all’improvviso senza il marito, con sei figli e un’azienda avviata. È il momento più difficile. Anche per la società creata dal marito. «Il mio fu un atto dovuto, di gratitudine e ammirazione, di stima per Salvatore», spiega. «Quando ci siamo sposati io avevo 18 anni, lui 42».
Che cosa la affascinava in quest’uomo? «Ero curiosa di sapere tutto di lui, della sua vita, di un uomo affascinante che era già
sulla vetta. Io venivo da una famiglia borghese, mio padre era medico.
Ma lui, Salvatore no. Era incredibile che cosa aveva dovuto fare. È sempre stato molto generoso, anche se ha ricevuto molte delusioni. Una volta trovai nel nostro bagno una mattonella dove era scritto: “Non far male che è peccato, non far bene che è sprecato”. La mattina dopo lui aveva corretto la scritta in: “Far bene anche se è sprecato”. Mi parlava dei
suoi viaggi, dell’America. Avevo un sentimento misto tra curiosità e timore. Ma con lui al fianco ero sicura. Ricordo il primo viaggio a Dal-
IN ALTO, UNA SEZIONE DI UNA SCARPA FERRAGAMO CHE EVIDENZIA LA TRAMEZZA, LAVORAZIONE ARTIGIANALE CHE CONSENTE DI OTTENERE, NEL COLORE
E MATERIALE DESIDERATI, 50 TAGLIE PER OGNI MODELLO E SEI LARGHEZZE DI PIANTA PER OGNI NUMERO, IN PRATICA UN QUASI FATTO A MANO SU MISURA.
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Il segreto del successo sono le sue stesse mani. Perché lui sa come si fa
una tomaia, come deve essere una rifinitura del fiosso (la parte stretta e incavata della suola della scarpa tra la pianta e il tacco), come deve essere modellata una suola. Dedica grande attenzione alle calzature femminili, fino ad allora accollate e rigide, e le rende comode ed eleganti. Crea i primi sandali, ispirati alle produzioni cinematografiche sulla storia antica. Travolto da improvviso (per quanto meritato) successo, capisce che è necessario organizzare il lavoro in maniera adeguata
alle crescenti richieste. Ma in California la manodopera americana non
è in grado di seguirlo. Ed è per questo che torna in Italia.«Dopo 13 anni di lavoro riprese il piroscafo. E decise di stabilirsi a Firenze», ricorda Wanda Ferragamo. «una città ricca di artigiani. Il successo, mi
ha sempre ripetuto e poi l’ho capito anch’io, è legato a tanti bravi artigiani che mettono ancora oggi, come molti anni fa, il
loro grande impegno nel lavoro. Certo, ci vuole sempre a capo di un’azienda qualcuno che spinge, ma l’importante sono le maestranze». Sull’asse Firenze-Stati Uniti, per un
biennio, dal ’27 al ’29, il nome di Salvatore Ferragamo diventa definitivamente sinonimo di stile e qualità. Anche se
la crisi economica del ’29 bloccherà i rapporti col mercato americano, portando al fallimento dell’azienda.
Convinto delle proprie potenzialità, Ferragamo non si
perse d’animo. Si rimboccò le maniche e iniziò a lavorare col
mercato interno. Gli affari ripresero. Tanto che nel 1936, non
ancora quarantenne, affittò due laboratori e un negozio nel Palazzo Spini Feroni, in via Tornabuoni a Firenze. E non si fermò neppure davanti alle sanzioni mussoliniane. Anzi, risalgono
proprio a quegli anni le creazioni che saranno poi più imitate:
le zeppe di sughero, solide e leggere. Legno, fili metallici, rafia, feltro e resine sintetiche simili al vetro furono alcuni tra i
materiali innovativi che Ferragamo sostituì, con fantasia e studio, al cuoio e all’acciaio banditi dall’autarchia. In due anni di
duro lavoro questo genio, fiorentino per scelta, riuscì a pagare
una prima rata d’acquisto dell’intero palazzo e acquistò Villa Il
Palagio a Fiesole per farne la residenza privata. Nel 1940 sposò
Wanda Miletti che lo seguì a Firenze e dalla quale avrà sei figli, tre
maschi (Ferruccio, Leonardo e Massimo) e tre femmine (Fiamma, Giovanna e Fulvia). Per vent’anni la loro unione sarà una testimonianza della forza dell’amore. Costellata di successi professionali. Nel dopoguerra, infatti, le scarpe di Salvatore Ferragamo diventano uno dei simboli dell’Italia che torna a vivere: sono gli anni dei tacchi a spillo rinforzati in metallo, resi famosi da Marilyn Monroe, dei sandali in oro,
del sandalo invisibile con tomaia in filo di nylon (nel 1947 Ferragamo
vincerà il Neiman Marcus Award, l’Oscar per la moda, per la prima vol-
i i figli lavorassero qui: e così è stato...
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Mio marito Salvatore voleva che tutti ti
las e New York. Durò un mese
e non volevo tornare a casa, nonostante avessi tre figli a Firenze. Stavano bene, lo sapevo. Salvatore mi dava i soldini e io li
centellinavo per girare la città.
Li finivo con l’ultimo taxi. Ricordo bene quel viaggio, col piroscafo. Eravamo in prima classe, c’era con noi Christian Dior».
Il viaggio iniziò da Southampton e, per raggiungere l’America, erano necessari cinque giorni di navigazione. «Oggi il mondo va troppo veloce», nota Wanda Ferragamo.
«Si perde anche il dialogo. Addirittura, per parlare con i miei figli serve quasi l’appuntamento. Invece per prendere una decisione serve il dialogo, lo scambio di opinioni, bisogna ponderare».
L’orologio della memoria riporta all’estate del 1960: «Salvatore mancò a Forte dei Marmi, dove ci eravamo trasferiti per aiutarlo a rimettersi dopo un’operazione. In quel momento, oltre al dolore, avevo sei
bambini… Ci spostammo in Valdarno dove avevamo casa. Mio marito aveva comprato quella fattoria perché adorava la campagna. E proprio lì decidemmo di trasferirci dopo la sua morte. I bimbi stavano tutti con me. Ma non sapevo che cosa fare. Mi sentivo senza forze. Per reagire iniziai a camminare, tanto. Andavo a piedi fino a Vallombrosa. Fu
in queste camminate che all’improvviso mi sentii forte. Quel giorno pioveva e dovevo cambiare i bambini. Una, due volte. Così decisi che dovevamo andare a comprare degli stivaloni a Figline. Entrai nel negozio, il proprietario mi riconobbe. Chiese: “Salverete l’azienda?”. Risposi:
”Sì”». Osservo questa donna che con piglio deciso incalza: «Mi sentii
una leonessa. Il 1° settembre riapriva la fabbrica dopo la pausa estiva.
Trovai una forza che non era mia. Ero semplicemente incosciente. Non
sapevo far niente, non avevo mai lavorato, avevo la terza media. Invece quel giorno sono andata nel suo ufficio e, non ci crederà, a quel tavolo mi sembrava tutto facile. Era come se al mio fianco ci fosse Salvatore. E ancora oggi so che è qui accanto a me. So che mi aiuta a prendere le decisioni. Non avevo mai disegnato, non m’intendevo di amministrazione. Ho avuto fortuna nel trovare collaboratori fedeli. Ho cominciato a viaggiare. New York ha detto molto per me. Tutto è servito per formarmi. Ma sono convinta che tutta questa forza, tutto questo coraggio, li ho ricevuti da mio marito. Nella casa che è sempre stata una cattedrale dell’amore, così come nel lavoro».
Dal settembre 1960 Wanda Ferragamo Miletti è alla guida del gruppo. Grazie a lei la Salvatore Ferragamo è passata dalla monoproduzione
di calzature al total look. Per la sua attività ha ottenuto molti ricono-
scimenti: nel 1982 è stata insignita del premio Donna internazionale dell’anno; quattro anni dopo, nel 1986, le è stata conferita la laurea honoris causa in
Lettere dalla City University di
New York; dal 1987 è Cavaliere
del lavoro della Repubblica italiana; nel 1991 ha ricevuto a New
York il Fashion Group Award e
l’anno seguente a San Francisco
il Mary Ann Magnin Award; nel 1995 è diventata Honorary officer of
british empire (Obe); nel 1996 ha ricevuto la laurea honoris causa in
Scienze economiche dalla New York University; nel 1997 ha ricevuto
dal presidente della Repubblica italiana il premio Qualità Italia.
Tra la moltitudine di attestati che ha ricevuto, vale la pena di ricordare la nomina a New York di Imprenditrice dell’anno relativamente al
2002. Per questo, prima di congedarmi da lei, trovo assolutamente naturale chiederle qualche sensazione sul futuro della moda, del made in
Italy e dell’abbigliamento maschile: «L’uomo», spiega donna Wanda,
«deve essere sempre in ordine. Importante. Deve vestire elegante, sia
che indossi un abito classico sia che vesta casual. Deve vestire bene per
rispetto degli altri, ma prim’ancora di se stesso. Ma è nelle riunioni e
nel lavoro in modo particolare che questo suo abbigliamento testimonia il modo di rapportarsi ai colleghi, agli altri. Quanto al futuro della moda, vedo un mondo che sarà sempre di più in continua evoluzione.
E oggi, mi creda, è veramente molto più difficile di allora. Alla Salvatore Ferragamo abbiamo la fortuna di avere dei collaboratori fedelissimi. Quando arriva un manager che vuol conquistare un potere, divento una belva. Dovrebbero imparare prima di agire, attingere dal Dna
della ditta. Ci sono tante aziende nel mondo, ma ognuna ha un qualcosa di diverso. Ed è proprio su quel qualcosa di diverso che deve continuare a costruire, a investire, a credere». Insisto però: e il made in Italy?
Quello vero, intendo… «Sui prezzi non si può trattare», continua
Wanda Ferragamo Miletti. «Se un cliente è alla ricerca della qualità del
prodotto e della creatività, oltre a un servizio è chiaro che tutto questo ha un costo. Quanto invece al concetto di made in Italy, ho una sola idea: made in Italy vuol dire fatto in Italia, vuol dire saper rinnovare una tradizione felice fatta di pittori, di musicisti, di scultori, di inventori. Lo vedo come un grande festival di creatività che si rinnova ogni
giorno. E noi abbiamo un dovere: riuscire a imprimere nei nostri giovani che cos’è l’Italia, qual è il nostro gusto innato. Perché quando in
una società non ci sono più i valori con i quali è stata creata, non ci sono risultati. E se non ci sono risultati, non c’è futuro».
IN ALTO, WANDA FERRAGAMO MILETTI CON UNA DELLE CREATURE DEL GRUPPO CHE HA ORGANIZZATO UNA SFILATA A PALAZZO STROZZI PER LA MANIFESTAZIONE
«IL GENIO FIORENTINO», KERMESSE CHE SI È CONCLUSA LO SCORSO 7 GIUGNO CON GLI INCONTRI PER RICORDARE IL GRANDE PASSATO DELLA TOSCANA.
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