Il Corpo che siamo - Gente di Fotografia
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Il Corpo che siamo - Gente di Fotografia
Il Corpo che siamo Kerry Mansfield Giusy Randazzo. Ci sono fotografie che permettono di andare oltre la semplice visione, che isolano i pensieri imprigionandoli sotto il faro possente della nostra riflessione. Non possiamo fingere di non aver visto. Non a noi stessi, almeno. Non possiamo fuggire. Non possiamo sottrarci dall’obbligo di meditare, che certe immagini impongono. Non si tratta di semplice interpretazione del dato narrativo. C’è un in più: un quid che arriva silente e ci scuote sino alle ossa. Vuole attenzione. Vuole essere definito, decodificato, nominato, classificato. Riconosciuto. Pensato. Compreso. Così per Aftermath, il portfolio di Kerry Mansfield, qui proposto. Le immagini scuotono, pungolano, sollecitano. Esortano la ragione a muoversi lungo percorsi inesplorati o poco battuti. Le immagini ti afferrano, ti catturano, ti sorprendono impreparato. E non c’è niente da fare. Bisogna fermarsi. E meditare. «Come fotografa, ho trascorso la maggior parte della mia carriera osservando in modo attento e profondo lo spazio che abitiamo. L’idea di Casa –quello che significava e come io la avvertivo- assillava i miei pensieri. Quasi tutti i miei scatti riguardavano lo spazio in cui viviamo e le cose con cui viviamo»1. È ovvio. Siamo gettati sin dalla nascita in quel grande interno architettonico che si chiama Terra. I fotografi ne sono consapevoli molto più degli altri. La nostra presenza non è passata inosservata: abbiamo inciso le nostre orme a volte con opere d’arte, altre con cicatrici profonde. Così è nato il Mondo che altro non è se non la Terra edificata dall’uomo. Uno spazio che nasconde brutture e bellezze tutte umane. A esso è da sempre rivolta la macchina fotografica. Di più: sia che faccia da sfondo sia che ne sia il protagonista, non possiamo sottrarre la sua presenza dall’immagine. Essa è imprescindibile, ineliminabile, inemendabile. Poiché per l’immagine sarà sempre necessario uno spazio che l’accolga o come soggetto ritratto o come strumento per veicolarla. Noi dunque siamo dentro questo interno al di là di ogni possibile volontà. L’ovvio però ci impedisce di comprenderlo sino in fondo. Siamo abituati alle strade, alle costruzioni, ai veicoli, ai centri commerciali. Siamo persino abituati alla natura come non naturale: l’accogliamo dentro casa –nei vasi, nei giardini, nelle aiuole- come se fosse un’ospite, dimenticando che siamo noi ad abitarla ed essa a essere abitata. La natura è casa. È l’ovvio che ci ha ingannati e ci inganna, tanto da non permetterci neanche di comprendere che c’è un altro dato imprescindibile nel nostro abitare, nella possibilità di fruizione dell’immagine, nell’opportunità di esistenza delle cose. Siamo noi. Ma noi non in quanto Io presuntuosi e creduloni, Io arroganti e superbi, Io goffi e insicuri; Io cattivi e ingannatori. Ma in quanto Sé. In quanto corpi viventi e vissuti. «Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo. È il tuo corpo»2. «Ma all’età di 31 anni una diagnosi di cancro al seno mi ha costretto a ridefinire la mia idea di casa. È inutile dire che essa è giunta come uno shock. Ho dovuto imparare a muovermi e a mangiare correttamente. Come molti della mia età mi sentivo indistruttibile, non avevo mai pensato che il fondamento più importante del nostro abitare potesse essere perso. Di fronte al processo nichilistico e radicale sia dell’operazione sia della chemioterapia, la mia idea di “dove” io esisto è cambiata rivolgendosi all’interno» (KM). È il corpo che noi siamo che permette al mondo di esistere mentre lo abita. Noi non abitiamo nel corpo e col corpo sulla Terra e nel Mondo. Noi siamo il corpo il cui luogo naturale è la Terra. Nietzsche ricorda che «corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro; e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo»3. Di più: afferma il filosofo di Röcken che c’è più ragione nel corpo che nella nostra migliore saggezza. È forse falso? È grazie all’Io che il nostro cuore non dimentica di battere e i nostri polmoni di respirare e le nostre gambe di camminare e il nostro sangue di scorrere? È il nostro Io con le sue lauree o i suoi diplomi o la sua beata ignoranza che sa come ogni organo debba essere collegato affinché l’intero gioisca, ami, soffra, viva? E gli occhi di Kerry nella malattia -durante quel processo che lei stessa definisce nihilistic e radical- si fanno più belli, profondi, saggi. La sofferenza emerge senza ostentazione. Trasuda con discrezione. Il mondo è in silenzio. Parla la Casa. Il corpo che Kerry è. Lei esiste due volte. Diviene spettatore di se stessa e si proietta nel futuro in cui la sua casa sarà nuovamente sicura. Noi che guardiamo rappresentiamo quel domani. Dalla prima all'ultima foto c'è il passaggio nell'inferno e il ritorno in Terra. Lei rinasce più bella. Ma non perché la sofferenza serva a qualcosa. Sarebbe pura demagogia. No, ma perché adesso è più di un Io, è un Sé alla maniera di Nietzsche. Una donna che si irradia nell'interezza del suo corpo. La grande fotografa che è in lei ci fa dono di tanta grazia. Come un Prometeo redivivo, che ha rubato il fuoco sacro della vita, ci fa dono ancora una volta della speranza. E la traduce in bellezza pura, attraverso una poetica dell'immagine la cui cifra sta nell'essenzialità dello sguardo, nella semplicità di un corpo che, attraversato dal dolore, diviene Il corpo. Queste immagini, ognuna di esse, ritraggono il Mondo nella sua più dolorosa e autentica bellezza. Sono immagini universali. «Quando i dottori hanno cominciato con i loro coltelli e con i farmaci a rompere la struttura fisica nella quale vivevo, la relazione tra il Sé cellulare e il sé metafisico è divenuta lapalissiana. Il mio corpo potrei non essere io, ma senza esso io sono interamente qualcos'altro. Sapevo che l’immagine che avevo sempre avuto di me stessa sarebbe andata in frantumi. Che cosa sarebbe emerso era un mistero. Spinta da questa inconsapevolezza, ho preso la macchina fotografica per autodocumentare la catarsi che avrebbe provocato il trattamento. Non c’era nessuno mentre io facevo queste foto, tranne un me che si stava dissolvendo e la macchina fotografica. E così ha avuto inizio una storia che avrebbe potuto terminare in diversi modi; questo capitolo, il trattamento, ha già fatto il suo corso» (KM). Noi siamo il nostro corpo, noi siamo il tempo che il nostro corpo è. Ma noi non lo sappiamo abbastanza. Pensiamo che il nostro Io abiti dentro il corpo esattamente come fosse un abitacolo. Eppure della persona che amiamo non ci basta la sua idea, non ci basta la sua voce, non ci basta la sicurezza con cui dice di riamarci, non ci basta il ricordo e neanche l’immagine. Di chi amiamo vogliamo la presenza fisica e ci disperiamo, ci ammaliamo, ci addoloriamo se questo contatto è impedito. Noi siamo il corpo. L’ovvio ci impedisce di comprenderlo, di renderci consapevoli di quanto aborriamo la morte non soltanto perché abbiamo terrore della Grande Estranea ma anche perché siamo profondamente innamorati di noi stessi, di questo corpo che siamo, di questo corpo fondamentale per il nostro abitare. «Non posso ancora affermare che va tutto bene, tuttavia posso dire: “Queste sono le immagini della mia Casa – come essa era”, e con una piccola dose di fortuna come mai più tornerà a essere» (KM). Note 1 Dall’introduzione al portfolio, sito personale dell’artista (http://www.kerrymansfield.com). La traduzione è mia. Le altre citazioni tratte dallo stesso luogo saranno segnalate con le iniziali dell’artista. 2 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, “Dei dispregiatori del corpo”, Adelphi, Milano 2008, p. 33. 3 Ibidem