“I FRATI VADANO PER IL MONDO”

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“I FRATI VADANO PER IL MONDO”
“I FRATI VADANO PER IL MONDO” Dimensione missionaria della Regola Francescana di Fra Luciano MARINI Roman, 2 ottobre 2008 Alcuni scrittori del primo francescanesimo chiamano Francesco “Homo novus”. E davvero spesso le sue scelte di vita erano nuove, controcorrente come quella di non chiudere i suoi frati nel convento, ma di mandarli per il mondo. (FF 366). Scegliere la vita consacrata allora significava “Exire de saeculo, se carcerari”, fuggire dal mondo, città del maligno, per rifugiarsi nella cittadella alternativa, il monastero, la città di Dio. “ I frati vadano per il mondo, scrive invece Francesco, in povertà e letizia, a due a due, per portare a tutti le odorifere parole del mio Signore”. Prima di proporle e di scriverle per i suoi fratelli, Francesco ha vissuto lui stesso queste parole; e non è stata una scelta facile. L’esperienza di Francesco Fin dai primi anni dopo la sua conversione Francesco visse un conflitto interiore che durerà a lungo: doveva ritirarsi nelle grotte e negli eremi per vivere una vita di penitenza e di contemplazione o invece andare tra gli uomini a predicare la conversione ed il Vangelo? Aveva certo sentito il crocifisso di S. Damiano che gli diceva: “Va, Francesco, e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina”. E poi quella volta che, nella chiesa della Porziuncola, aveva sentito proclamare il Vangelo di Matteo sulla missione degli apostoli (cap. 10), era balzato in piedi e aveva gridato: “Questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore” (FF 356). Ma poi sentiva dentro di sé struggente il desiderio di ritirarsi in solitudine per stare con il suo Signore, “parlare con l’amico, supplicare il Padre, scherzare amabilmente con lo sposo” (FF 682), come scrive il Celano. Non sapendo che cosa scegliere, Francesco chiede umilmente consiglio a frate Silvestro, sacerdote, e a sorella Chiara; e ambedue gli danno la medesima risposta: “Dio non ti ha chiamato solo per te stesso, ma eziandio, scrivono i Fioretti, perché tu abbia a salvare le anime per le quali Cristo è morto” (FF 1845). Ed eccolo allora infaticabile sulle strade dell’Umbria e della Toscana a predicare il Vangelo, fino alla fine, quando con le stigmate nel suo corpo, quasi cieco, si fa condurre su un asinello per città e villaggi a predicare la conversione e a portare pace e riconciliazione (FF 1355). Per imitare Gesù Francesco aveva capito che “non può dirsi amico di Cristo chi non ama e non cura le anime per le quali Cristo è morto”(FF1168). E’ il desiderio di imitare Gesù che lo spinge a dedicarsi ai fratelli. Gesù è il primo missionario, colui che il Padre ha mandato (mittere, missio) a portare la buona notizia del suo amore per ogni uomo; è venuto per dare la sua vita per noi, per farci partecipi della sua vittoria sul peccato e sulla morte. Ma Gesù ha voluto chiamare altri uomini a collaborare alla sua opera: “Ne chiamò alcuni perché stessero con lui e per mandarli…”(Mc 3,14) e alla fine della sua avventura terrena, prima di salire al Padre, consegna loro e ai suoi discepoli di tutti i tempi, il suo ultimo mandato: “Andate in tutto il mondo, annunciate il Vangelo ad ogni creatura”(Mt 16,15), continuate voi l’opera che io ho iniziato, perché ogni uomo possa gustare la salvezza ed entrare nel Regno di Dio. Chi incontra Cristo non può tenerlo per sé, deve annunciarlo; “Va dai miei fratelli e di’ loro …”(Gv 20,17) dice Gesù alla Maddalena che lo aveva incontrato risorto il mattino di Pasqua. Va, porta agli altri quello che hai trovato, quello che riscalda il tuo cuore, illumina il tuo cammino. “Quello che abbiamo visto, quello che abbiamo udito, quello che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunciamo anche a voi …” (1Gv 1,1). E Paolo gridava: “Guai a me se non annunciassi il Vangelo”(1 Cor 9,16), ho nel cuore un fuoco che non posso contenere, il fuoco della missione con il quale incendiare il mondo, perché ogni uomo abbia speranza e vita. Francesco missionario E’ la stessa passione che brucia il cuore di Francesco: “Voglio portarvi tutti in Paradiso, voglio annunciare a tutti le odorifere parole del mio Signore, perché non c’è nessun altro salvatore, redentore, signore se non il Signore nostro Gesù Cristo”. Sorprende come gli orizzonti della missione di Francesco non siano ristretti e chiusi dentro i confini del paese da lui conosciuto, ma già ai primi compagni egli dice: “Andate a due a due per le varie parti del mondo e annunciate agli uomini la pace e la penitenza … (FF366). E al Cardinale Ugolino che gli rimproverava di aver mandato i frati oltre le Alpi, Francesco con forza risponde: “Credete voi che Dio abbia suscitato i frati solo per queste regioni? Io vi dico che Dio ha scelto e mandato i frati per il bene e la salvezza delle anime di tutti gli uomini del mondo, e non solo ai paesi dei fedeli, ma anche in quelli degli infedeli”(FF1758). Nel 1211 egli stesso tenta di andare nelle terre dei non cristiani, prima in Oriente e poi in Marocco. Nel 1217 il Capitolo Generale decide le prime spedizioni di frati oltremare e nel 1219 Francesco stesso parte per la Siria e l’Egitto dove incontrerà il sultano Melek el Kamel. La regola Mi sono forse dilungato in queste che potrebbero apparire premesse, ma mi pare invece che siano necessarie per poter comprendere i testi della Regola che Francesco ha poi proposto ai suoi fratelli. La Regola infatti non è tanto un documento giuridico fatto a tavolino, quanto piuttosto la codificazione di un’esperienza di vita che frate Francesco ed i primi suoi compagni hanno cercato di vivere seguendo il santo Vangelo. Senza questa conoscenza non sarebbe pienamente comprensibile il testo della Regola. Inoltre per meglio comprendere lo spirito della Regola definitiva (RB), credo sia utile tenere sempre presente anche il testo della Regola chiamata “non bollata (RnB)”. Senza entrare nel problema della storia e del rapporto delle due redazioni della regola è comunque certo che ambedue i testi hanno come ispiratore ed autore il Serafico Padre e quindi si illuminano e chiariscono a vicenda. Guardiamo allora più da vicino alcuni brani della RB che, mi sembra, espongano chiaramente qual’ è la dimensione missionaria e pastorale della Regola francescana. Capitolo terzo: … come i frati debbono andare per il mondo. Consiglio poi, ammonisco ed esorto i miei frati nel Signore Gesù Cristo che, quando vanno per il mondo, non litighino ed evitino le dispute di parole, né giudichino gli altri; ma siano miti, pacifici e modesti, mansueti ed umili, parlando onestamente con tutti, così come conviene. E non debbano cavalcare se non siano costretti da evidente necessità o infermità . In qualunque casa entreranno prima dicano: Pace a questa casa. E secondo il santo Vangelo potranno mangiare di tutti i cibi che saranno loro presentati.(FF 85‐86) La prima parte di questo capitolo tratta della recita del divino ufficio e del digiuno, nella seconda invece Francesco “consiglia, esorta ed ammonisce” su come i frati debbono comportarsi quando vanno per il mondo. Andare per il mondo. E’ già un’indicazione forte. Andare per il mondo, come già ricordavo, era una novità in quel tempo per le persone che si consacravano a Dio che, invece, per realizzare la loro vocazione, fuggivano il mondo per ritirarsi negli eremi o chiudersi nei monasteri. Francesco accoglie “sine glossa” la parola del Vangelo, l’ultimo mandato di Gesù ai suoi, prima di salire al cielo: “Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura”(Mc 16,15). Parole che Papa Innocenzo terzo aveva ripetuto a Francesco e ai suoi primi compagni che si erano presentati a lui per l’approvazione della loro forma di vita(FF 375). “Andare per il mondo” era, per i primi francescani, non piantare radici, non avere proprietà di dimore o di chiese, ma “come pellegrini e forestieri” (FF26) camminare sulle strade degli uomini, come faceva Gesù che “non aveva dove posare il capo” (Mt 8,20). Una norma questa, presto disattesa, adattata alle mutate esigenze di una comunità sempre più numerosa e strutturata. Ma lo spirito di queste parole deve restare in quella che oggi chiamiamo “itineranza francescana” per cui ogni francescano sa che non deve piantare radici né nei luoghi e neppure negli uffici che gli sono affidati, ma deve essere sempre pronto a lasciare, a partire, ad andare là dove l’obbedienza lo chiama. La sua vita è donata, è a servizio dei fratelli e del Regno. (FF 46) Itineranza francescana non solo personale, ma anche delle istituzioni. Opere, attività, chiese, parrocchie, strutture realizzate con fatiche e sudori possono o debbono essere lasciate senza recriminazioni, se certe circostanze lo richiedono per un bene maggiore, pronti ad andare là dove c’è un bisogno più grande, c’è bisogno di un supplemento di generosità. Lo stile missionario francescano “Tutti i frati predichino con le opere e con la vita”(FF 46), aveva scritto Francesco nella RnB. Egli sa bene che, se la vita non è evangelica , ogni predicazione o missione resta sterile. Ed eccolo allora elencare dapprima le cosa che non si debbono fare perché contraddicono il Vangelo che annunciamo e poi invece gli atteggiamenti che rendono efficace ogni annuncio. “Non litigare, non contendere con parole, non giudicare” sono espressioni prese dalle lettere dell’apostolo Paolo là dove invece invita alla carità verso tutti. Questi atteggiamenti negativi nascono dall’orgoglio, dalla prepotenza, dal non rispetto del fratello, ”sono in odio a Dio”, aveva scritto nella RnB, quando aveva fatto il decalogo delle cose da evitare per far rilucere la carità e l’amore. (FF36‐37) Queste invece le attitudini positive che ogni frate deve avere per essere testimone ed annunciatore credibile del Vangelo, là dove svolge la sua missione. “Miti e pacifici, modesti, mansueti ed umili”: sono eco delle beatitudini evangeliche, quelle che Gesù ha proclamato dal monte, quelle che Lui per primo ha vissuto e Francesco, che vuole solo imitare il Maestro, non può che riproporle ai frati, come stile della loro missione. “Parlando a tutti “oneste”, dice il testo latino, cioè con schiettezza, senza ambiguità, doppiezza, ma limpidi, sinceri, trasparenti; “a tutti”, cioè senza esclusioni per ceto, cultura, religione. E Francesco aggiunge ancora: “Non vadano a cavallo, se non costretti da necessità o infermità”. Viaggiare a cavallo allora era privilegio dei nobili e dei ricchi; i poveri usavano solo, come dice l’espressione popolare, il cavallo di S. Francesco, cioè a piedi. Mi pare che tutte queste espressioni della RB che abbiamo ascoltato possano essere compendiate in una parola sola. La caratteristica dell’apostolo francescano è la MINORITA’ che è mitezza, umiltà, distacco, stare con la gente umile, non appropriarsi di nulla. Anche il n. 86 delle Fonti mi sembra contenga un duplice insegnamento per l’apostolo ed il missionario francescano. “In qualunque casa entreranno prima dicano: Pace a questa casa. E secondo il santo Vangelo potranno mangiare di tutti i cibi che saranno loro presentati”. Non è solo un saluto, un augurio, è una missione: il francescano è inviato a portare e a costruire pace. Pace che è Gesù stesso: ”Cristo è la nostra pace” (Ef 2,14). Pace è l’insieme di tutti i beni messianici promessi da Dio al suo popolo. Accogliere Gesù e il suo Vangelo è possedere questi beni; pace è riconoscere Dio come Padre che ha progetti di bene per noi che siamo suoi figli; ma se siamo figli dello stesso padre, allora siamo fratelli. Pace allora è perdono, riconciliazione, solidarietà. Pace e giustizia sono campi della nostra missione francescana, particolarmente per noi, frati di Assisi, la città scelta dalla Chiesa come il luogo del dialogo tra le culture, le religioni, i popoli. A noi è consegnato “lo spirito di Assisi” che non è uno dei tanti slogan di moda, ma un compito quanto mai attuale nella società frantumata del nostro mondo. Infine l’ultima espressione di questo Capitolo terzo della Regola da cui abbiamo cercato di cogliere le provocazioni forti per la nostra missione. “E secondo il santo Vangelo potranno mangiare di tutti i cibi che saranno loro presentati”. Anche queste semplici parole mi sembra contengano un forte insegnamento. Le regole sul digiuno per i monaci di quel tempo erano quanto mai rigide e complesse, Francesco invece riconosce la libertà evangelica offerta da Gesù per la missione dei 72 discepoli (Lc 10,8), e lascia intravvedere anche l’invito ad un altro atteggiamento importante per il missionario: il sapersi adattare ed accogliere ogni uso e costume della gente presso la quale egli vive. E’ quello che oggi chiamiamo “inculturazione”. L’accettare ogni cibo è segno di rispetto, accettazione, condivisione del modo di vivere, di pensare, di pregare del popolo in mezzo al quale ti trovi; è il non voler imporre all’altro la tua cultura, le tue usanze, il tuo modo di vivere. Troppo spesso nella storia delle missioni non si è portato solo il Vangelo, ma si è imposta anche una religiosità, un modo di pregare, di esprimere la fede che non ha tenuto sufficientemente conto della ricchezza spirituale e della cultura dei popoli evangelizzati. Oggi si è capito che essere missionari significa entrare in punta di piedi nella storia e nella cultura di un popolo, camminare con la gente alla quale non solo dobbiamo portare, ma da cui anche dobbiamo ricevere perché da sempre Dio opera nel cuore di ogni uomo e di ogni popolo. Capitolo nono: Dei predicatori “I frati non predichino nella diocesi di alcun vescovo qualora dallo stesso vescovo fosse loro proibito. E nessun frate osi predicare al popolo se prima non sia stato esaminato e approvato dal ministro generale di questa fraternità e non abbia ricevuto dal medesimo l’ufficio della predicazione. Ammonisco anche ed esorto gli stessi frati che nella loro predicazione le loro parole siano ponderate e caste a utilità e a edificazione del popolo, annunciando ai fedeli i vizi e le virtù, la pena e la gloria con brevità di discorso poiché il Signore disse sulla terra parole brevi”(FF 98‐99). Ai tempi di S. Francesco l’ignoranza religiosa era molto diffusa nel popolo cristiano. Si predicava solo nelle cattedrali e nelle chiese collegiate e, per di più, in latino, lingua che ormai il popolo non comprendeva più perché stavano nascendo le lingue nazionali. Il basso clero era spesso ignorante e qualche volta non ineccepibile nei costumi. Sorgevano qua e là predicatori ambulanti che alle volte sconfinavano nell’eresia e la cui predicazione era solo attacco violento alla gerarchia e alla chiesa. Il Concilio Lateranense IV aveva emanato precise norme in cui si imponeva ai Vescovi di tenere sotto controllo i predicatori. Francesco aveva ottenuto per sé e per i suoi frati da Papa Innocenzo III° la facoltà di predicare a tutti, con l’esempio e la parola, la penitenza e la conversione. Ma il Serafico Padre, sia nel capitolo XVIII della RnB(FF 46‐47), come in questo capitolo della RB vieta drasticamente ai frati di predicare in quelle diocesi in cui sia stato proibito loro dal Vescovo. Anzi nel Testamento (FF 112) afferma anche che non vuole neppure predicare nelle parrocchie di quei sacerdoti che non vogliono. E’ un atteggiamento eloquente: Francesco sa che il Signore lo ha mandato per la salvezza delle anime, ma vuole essere sempre in profonda comunione con la chiesa di cui si proclama “suddito e sottomesso”(FF 109). Egli vuole essere di aiuto ai sacerdoti, ai quali spetta la cura pastorale delle anime. Certo, la situazione oggi è profondamente mutata nella società e nella chiesa; spesso anche noi frati siamo pastori di anime nelle parrocchie, ma resta sempre fondamentale il vivo rapporto con la chiesa guidata dal Vescovo, sempre nel segno della minorità, del servizio, mai della concorrenza o della autonomia e della indifferenza. Così, mi pare, si è sempre comportato Francesco e così ha insegnato ai suoi fratelli. La minorità esige anche che ogni ministero sia fatto nell’obbedienza (“esaminato ed approvato dal Ministro”) e non sia invece una ricerca di una propria affermazione personale. E non deve mai diventare un diritto, un possesso di cui nessuno ci può privare (FF 46‐49). Anche l’invito a discorsi semplici e brevi è esortazione a non ricercare se stessi, il plauso ed il successo nel servizio e nella missione, ma solo il bene dei fratelli e la gloria di Dio. Capitolo dodicesimo: Di coloro che vanno tra i saraceni e gli altri infedeli “ Quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare tra i Saraceni e tra gli altri infedeli, ne chiedano il permesso ai loro ministri provinciali. I ministri poi non diano a nessuno il permesso se non a quelli che riterranno idonei ad essere mandati”.(FF 107) Ed eccoci all’ultimo capitolo della RB nel quale è più esplicito il discorso sulla “missione ad gentes”. Nella RnB Francesco pone, prima del capitolo sui predicatori, quello “Di coloro che vanno tra i saraceni e gli altri infedeli”. Per lui sembra non ci sia grande differenza nella missione dei frati tra il predicare ad Assisi oppure tra gli infedeli; si tratta sempre di annunciare il Vangelo, prima con la vita e con l’esempio e poi con la parola. E’ comunque fortemente significativo che in ambedue le stesure della Regola ci sia un capitolo apposta sulla missione tra coloro che non credono in Cristo. Francesco è il primo fondatore di ordini che prevede nella regola la missione tra i non cristiani e mentre nella seconda redazione il testo è più stringato e giuridico, nella prima, quella non bollata, egli abbonda nelle citazioni della Bibbia, descrive anche le modalità della missione e parla inoltre del martirio, desiderio ardente che muoveva il cuore dei primi francescani verso la missione. “Per divina ispirazione” La vocazione alla missione ad gentes è frutto di una chiamata particolare, una vocazione nella vocazione. E’ Dio che ispira nel cuore di alcuni frati il desiderio di lasciare, partire, donare tutto se stessi per portare il Vangelo in terre lontane, a chi ancora non conosce il Signore Gesù. E’ sentire come rivolte a sé le parole del Signore: “Io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” (Lc 10,3), pronti a perdere la propria vita per il Vangelo. Il martirio è una prospettiva non estranea per i missionari anche oggi; sono decine ogni anno i sacerdoti, i religiosi, i laici che in terre di missione vengono uccisi perché annunciano Cristo e stanno dalla parte degli ultimi. “I Saraceni e gli altri infedeli” Saraceni erano chiamati tutti i seguaci dell’Islam contro i quali la chiesa di quel tempo era impegnata per frenare la loro avanzata in terre cristiane, dopo che avevano già conquistato il Medio Oriente, Palestina compresa. Papi, Concili e regnanti cristiani avevano optato per la via della forza, le crociate per opporsi all’avanzata musulmana, ritenendo velleitaria ogni altra strada. Infedeli invece erano chiamati tutti coloro che non credevano nel Dio unico e trino o in Gesù unico Signore e Salvatore dell’umanità. “Chiedano il permesso” Se nella RnB è il singolo frate che deve fare discernimento sulla sua vocazione missionaria prima di chiedere il permesso, nella RB invece, sembra che il discernimento più importante sia quello del Ministro Provinciale che deve valutare attentamente se il frate sia idoneo alla missione, abbia le qualità necessarie e solo allora potrà accordare il permesso di partire per la missione. Questo cambiamento è forse dovuto al fatto che alcune delle prime missioni dei frati fuori dall’Italia, non erano state adeguatamente preparate ed erano andate incontro a forti difficoltà. Il discernimento sulla vocazione missionaria deve comunque essere fatto sia dal frate come dal Ministro per evidenziare se ci sono autentiche ragioni evangeliche nella scelta della missione e se il frate possiede le qualità umane e spirituali necessarie. La questione del permesso ai frati che vogliono andare in missione avrà ulteriori cambiamenti; nella seconda metà del ‘200 sarà di competenza del Ministro Generale e successivamente, con le Costituzioni Narbonensi, addirittura del Capitolo Generale. Infine saranno i Papi stessi che affideranno a dei frati il compito di aprire nuove missioni. Modalità della missione Nella RnB (FF 43) Francesco suggerisce ai frati missionari due momenti, due modalità di svolgere la missione tra gli infedeli. La prima è così descritta: ‐ “non facciano liti o dispute”, è un richiamo a quanto più ampiamente scritto per tutti i frati quando vanno per il mondo ‐ “siano soggetti ad ogni umana creatura per amore di Dio” quindi anche umili servitori di infedeli e saraceni ‐ “Confessino di essere cristiani”, dicano la loro fede in Cristo Gesù e la loro appartenenza alla chiesa. Il secondo modo è questo: ‐ “quando vedranno che piace al Signore” a tempo debito, quando vedono l’opportunità e sentono che il Signore glielo suggerisce ‐ “annunzino la Parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose e nel Figlio Redentore e Salvatore”; ai musulmani che credono in un unico Dio, annuncino la SS. Trinità e Gesù che non solo è un profeta, come dice il Corano, ma è l’unico Salvatore e Redentore dell’umanità. ‐ “ e siano battezzati e si facciano cristiani”, propongano il battesimo che ci fa discepoli di Gesù, membri della chiesa ed eredi del Regno. Possono apparire cose semplici ed invece sono davvero straordinarie! Proprio riferendosi a queste espressioni della RnB il teologo gesuita P.J. Dupuis ha scritto: “Per la prima volta nella chiesa viene formulato con chiarezza un metodo di approccio al mondo musulmano pienamente ispirato allo spirito evangelico”. Parole straordinarie quelle di Francesco, ma anche contro corrente perché il Concilio Lateranense IV° aveva emanato un decreto in cui si invitava la cristianità tutta alla crociata; all’aggressione musulmana si doveva rispondere con la violenza cristiana! Ed ancora il Concilio proibiva ai cristiani di sottomettersi ad autorità musulmane, pena la scomunica. “La mentalità della cristianità dell’epoca voleva lo sterminio dei musulmani” mentre Francesco “pensava invece alla vittoria evangelica della loro conversione” e per questo invita a presentarsi agli infedeli con umiltà, sottomessi e rispettosi di ogni autorità. Si può allora comprendere perché nella redazione finale della Regola, quella “bollata dal Papa”, le espressioni della RnB siano state abbandonate! Assieme al desiderio di “portare a tutti le odorifere parole del Signore” e a quello di dare la vita nel martirio per Cristo (FF 45‐46, 1169‐1175), la missione francescana era dunque anche un’alternativa pacifica alla poco evangelica proposta delle crociate nel rapporto con i musulmani. E’ la strategia del dialogo quella di Francesco; non vuole polemizzare con chi non crede in Cristo, rispetta la loro coscienza e credenza, sa che anch’essi credono in un unico Dio e ha fiducia nella loro buona fede. Basta leggere il racconto dell’incontro con il sultano a Damiata nella testimonianza del contemporaneo Giacomo da Vitry (FF 2212ss), per convincerci che questo era il modo di essere missionario per Francesco. Purtroppo non sempre anche i primi missionari francescani hanno seguito l’esempio del Fondatore nel loro approccio missionario ai musulmani! “Chi perderà la sua vita per causa mia…” Sempre nel capitolo XVI della RnB sui frati che vanno in missione, Francesco propone una lunga serie di testi biblici per esortare al martirio. Il desiderio di dare la vita per Cristo è una delle motivazioni più forti per Francesco e per i frati che vogliono andare in missione. “Decise di partire per i paesi degli infedeli per diffondere, con l’effusione del proprio sangue, la fede nella Trinità … Era il frutto del martirio quello che maggiormente lo attirava, era il merito di morire per Cristo, quello che egli bramava sopra ogni altra opera”, scrive S. Bonaventura (FF 1171‐
1172). Non è certamente disprezzo della vita o masochismo, ma appassionato amore al Signore, desiderio di ricambiare l’amore con il quale Lui per primo ci ha amati, dando la sua vita per noi sulla croce. E’ lo stesso desiderio che porterà Don Fernando de’ Buglioni, monaco agostiniano di Coimbra, a lasciare il bianco abito dei monaci per rivestire il saio francescano con il nome di Frate Antonio; il desiderio di andare tra i saraceni per annunciare il Vangelo e dare la vita per il Signore Gesù. Quando Francesco seppe dei primi cinque suoi fratelli uccisi per la fede in Marocco, esclamò: “Ora posso dire con sicurezza di avere cinque veri frati minori”. Non solo dunque i missionari, ma tutti i francescani “ricordino che si sono donati e hanno abbandonato il loro corpo al Signore Gesù Cristo e, per suo amore, si devono esporre ai nemici visibili ed invisibili, poiché così dice il Signore: “Chi perderà la sua vita per me, la salverà per la vita eterna.” (FF 43) In missione da francescani Vorrei ora raccogliere quanto siamo andati riscoprendo nella vita e nelle parole del Serafico Padre per tracciare un ideale stile francescano di essere apostoli e missionari. E’ lo sforzo che si è cercato di fare anche nel primo Congresso Missionario dell’Ordine in India nel 2005. “Omnis franciscanus missionarius esto” ha scritto Papa Pio XI, ogni francescano è, deve essere missionario, sa che il Signore lo ha chiamato per mandarlo, perché sia testimone di lui in mezzo agli uomini. La missione, anche tra i non cristiani, è nel DNA del nostro essere seguaci di Gesù, sulle orme di S. Francesco. Prima ancora che con le parole e le attività il francescano è missionario con la sua vita: siano cristiani, evangelicamente umili, pacifici, miti, sottomessi a tutti. E’ nella categoria del “segno”, della semplice presenza, della trasparenza, la missione francescana, prima ancora che con l’annuncio, il servizio, le attività. Una grande passione per Dio. Non si va in missione per fare del bene, per aiutare i poveri; il francescano va in missione prima di tutto perché ha il cuore ricolmo di Dio. “L’amore di Cristo ci spinge”, scrive S. Paolo (2Cor 5,14), è un fuoco che non si può contenere, è il desiderio che tutti possano conoscere, accogliere, amare quel Cristo che riempie la mia vita, sazia ogni mia attesa, apre il mio cammino alla speranza. Il primato di Dio, la preghiera, l’ascolto della Parola nella vita personale e comunitaria sono la prima testimonianza ed il primo servizio da offrire in ogni missione francescana. Una grande passione per l’uomo. “Vorrei essere anatema per i miei fratelli,”scriveva S. Paolo (Rm 9,3) e Francesco gridava: “Voglio mandarvi tutti in Paradiso” e si consuma per la salvezza degli altri (FF 1355). E’ il bisogno dei fratelli la misura del nostro donarci. Il missionario francescano vive con la gente semplice, prima ancora che per la gente, va là dove c’è bisogno di un supplemento di generosità, non ha né oro né argento, ma un amore grande che si fa compassione, condivisione per accendere speranza anche nei cuori più feriti. Rispetta ogni cultura, si adatta ad ogni mensa, prega in ogni lingua, sa riconoscere i segni della presenza di Dio in ogni terra. A due a due. Il missionario francescano non è il solitario, generoso avventuriero che vuole realizzare un suo progetto di bene, ma è uomo di comunione. Parte inviato da una comunità per creare o inserirsi in un’altra comunità e testimoniare la comunione fraterna operando assieme ai fratelli per dilatare questa esperienza autentica di chiesa‐comunione. Programmare, decidere, operare assieme, valorizzando le capacità di ognuno, senza ritagliarsi spazi di indipendenza, progetti autonomi ed esclusivi. “Guarda come si amano”, dovrebbe esclamare la gente che ci avvicina; è questo annuncio che dobbiamo portare: si può vivere assieme da fratelli, anche se diversi. Testimoniare la fraternità significa anche diventare operatori di riconciliazione, di dialogo, di pace; è lo “spirito di Assisi” che dalla Tomba del Serafico Padre il francescano è chiamato a portare in ogni angolo della terra, senza schierarsi, essere uomini di parte, escludere individui e categorie. Senza bisaccia. C’è una parola indissolubilmente legata a Francesco e al francescanesimo: povertà. Povertà, o meglio minorità non è prima di tutto non avere tanti soldi, ma è umiltà, semplicità, rinuncia al protagonismo, alla ricerca del successo personale, di un proprio spazio di potere. E’ non sentirsi superiori agli altri, non imporre i propri progetti, le proprie sicurezze, le proprie idee. Il missionario francescano allora cammina accanto ai fratelli rispettando la loro cultura, storia, ritmi, usanze in uno sforzo costante di inculturazione. Offre gioiosamente il suo aiuto, sa coinvolgere gli altri, li fa protagonisti del loro progresso, è contento quando possono fare a meno di lui. Questa è vera minorità che sente poi anche la necessità di una vita sobria, senza comodità, che sa anche affrontare il sacrificio e la rinuncia in mezzo a fratelli che forse non hanno neanche il necessario per sopravvivere. La minorità domanda anche di stare con i poveri, i dimenticati, gli emarginati, “nelle periferie della storia”, come si dice oggi. Stare con i poveri, vivere come i poveri, operare per i poveri: sono tre modi complementari di essere “minori”, nello stile di Francesco. Povertà e minorità è ancora “espropriarsi”, non avere nulla di proprio, né luoghi , né uffici, né diritti; è itineranza di chi vuole solo servire là dove il bisogno dei fratelli lo chiama. Infine minorità è accettare la croce che può essere il sentirsi inutili, rifiutati, messi da parte; “non abbiamo più bisogno di te”(FF 278) si sente dire Francesco nell’episodio della perfetta letizia. La logica della croce può giungere fino al martirio, a dare la propria vita per il Vangelo e per i fratelli. E la schiera dei francescani missionari martiri è lunga e giunge fino ai nostri giorni. Dal nostro entrare nella croce Dio saprà poi far sorgere un nuovo mattino, la vittoria della Pasqua. In letizia e speranza. Un’ultima nota vorrei aggiungere a questo ideale ritratto del missionario francescano. Nel nostro mondo così spesso segnato dalla noia, dalla paura, dall’angoscia e dalla tristezza, Francesco ci invita ad essere portatori di gioia, di letizia e di speranza. Non è facile né qui nei nostri paesi e tanto meno per quei missionari che vivono tra popoli oppressi dalla miseria, dalla fame, dalla violenza. Non una gioia chiassosa e superficiale per evadere dalla cupa realtà, ma una letizia profonda che nasce dalle certezze della fede, fiorisce dalla tomba del Cristo Risorto, vincitore della morte e del male. Saper far leva sul positivo, far crescere i germi del bene, sdrammatizzare le situazioni, saper donare un sorriso, sono atteggiamenti semplici che dicono l’ottimismo cristiano e che possono aprire i cuori alla speranza e alla buona notizia del Vangelo. Così è vissuto Frate Francesco fino alla fine quando malato, piagato, con gli occhi spenti dalla cecità, canta lo splendore di frate sole, i colori della madre terra, la gioia di chi perdona e di chi muore. Conclusione Ho cercato di cogliere dalla vita e dalle parole di Francesco nella Regola, gli stimoli e le provocazioni che possono illuminare anche la missione di noi francescani di oggi, per farci capaci di tener viva la profezia che il Poverello di Assisi è stato per la chiesa e per la società del suo tempo. Forse possono apparire ideali lontani, un po’ utopistici. Ma è necessario ogni tanto far brillare davanti a noi l’ideale, guardare in alto per non cedere alla tentazione di adagiarci nella mediocrità e nel compromesso, per ricaricarci di speranza e di coraggio. Una schiera senza numero di fratelli e sorelle prima di noi hanno camminato alla luce di questo ideale, portando frutti splendidi di santità e di bene in mezzo a tanti popoli. Il cammino continua; il Signore, la chiesa, il mondo hanno ancora bisogno di veri figli di Francesco d’Assisi che tengano accesa la speranza di un mondo nuovo. Ascoltiamo le parole del Padre e fratello nostro: “Siamo stati mandati al mondo intero per comunicare le fragranti parole del nostro Signore Gesù Cristo, perché con la parola e con le opere diamo testimonianza della sua voce e facciamo sapere a tutti che non c’è altro Dio fuori di Lui.” (FF 18ss)