Il valore (legale) della laurea - cnu

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Il valore (legale) della laurea - cnu
Il valore (legale) della laurea
lunedì 06 febbraio 2012 | Ernesto Benelli | 7 commenti
Nonostante la recente smentita del Presidente del Consiglio (Corriere on line del 27 gennaio)
l’idea di abolire il valore legale dei titoli di studio, sicuramente concepita a partire dalle
migliori intenzioni, è un progetto in contrasto con consolidati principi del nostro ordinamento
giuridico e sociale (I) che, se adottato nella sua estrema configurazione, potrebbe aumentare
le iniquità sociali (II)I. Una proposta in contrasto con alcuni principi giuridici e sociali
Abolire il valore legale del titolo di studio superiore, la laurea, significherebbe l’automatica
equiparazione, nell’astratto mondo del “puro diritto”, di persone in situazioni
concretamente differenti.
In altri termini , tale proposta, comporterebbe automaticamente la rottura del principio
repubblicano di uguaglianza nell’accesso alle pubbliche cariche, garantito dalla
Costituzione e proprio a tutti i paesi dell’Europa Occidentale.
Inoltre, rendere le lauree giuridicamente semplici “pezzi di carta” (almeno per quanto
riguarda i concorsi pubblici), oltre a non modificare la situazione pregressa per il settore
privato, avrebbe la conseguenza di incrinare quel principio costituzionale, ma anche di
buon senso civile e di alto valore civico, in forza del quale la Repubblica rimuove gli ostacoli
di ordine materiale che impediscono un’uguaglianza effettiva tra i cittadini. Difatti, avere
lauree senza valore legale privilegerebbe, almeno in un primo momento, quelle università
che oggi godono (a torto o ragione) del più alto prestigio sul mercato del lavoro, escludendo
ipso facto tutte le altre, penalizzando cosi coloro che, per le più svariate ragioni, hanno
svolto il proprio corso di studi presso facoltà meno “quotate”.
La proposta suddetta, però, non è solo contraria tali principi fondamentali ma si dimostra,
alla stregua di molti progetti del Governo, come portatrice di profonde iniquità sociali.
II. Una proposta iniqua
La cancellazione del valore legale della laurea o di altri titoli di studio acuirebbe le
diseguaglianze sociali tra coloro che posso permettersi un corso di alto livello a forte valore
aggiunto e quelle persone che ne sarebbero escluse. Ciò anche perché il Governo,
appoggiandosi solo su concetti puramente vetero-liberali, non ha considerato(o non ha
voluto prendere atto ) la necessità di porre in essere un sistema accademico
autenticamente selettivo e non discriminatorio.
Risulta evidente che le deduzioni del Governo si basano sul postulato secondo cui i titoli
universitari non possano essere tutti uguali, poiché tale uguaglianza non darebbe ragione
di situazioni di fatto differenti.
Dalla suddetta affermazione scaturisce la volontà di porre in essere un ranking tra gli
atenei e, di conseguenza, una tabella di conversione dei voti attribuiti agli esami di profitto,
in base alla quale un 30 attribuito da un professore di un’università X equivarrebbe ad un
25 nella stessa materia ma attribuito da un’istituzione meglio classificata.
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Tale ragionamento presta il fianco ad alcune considerazioni :
La compilazione di tale ranking interuniversitario non è esente da pericoli di
conflitto di interessi tra gli stessi docenti, rettori o presidi, chiamati a giudicare
istituzioni di colleghi, oltre ad essere una pratica la cui efficacia non è assolutamente
provata. Difatti, classifiche internazionali come quella di Shanghai hanno da sempre
sollevato molte critiche per i “fumosi” metodi valutativi (soprattutto per le facoltà di scienze
umane) e per la palese inefficacia nel quantificare il parametro più importante: la corretta
trasmissione del sapere da docente ad allievo, la cui valutazione è per definizione frutto di
molte, troppe, variabili.
Trasporre un analogo sistema valutativo alle nostre università, non servirebbe dunque a
stilare una classifica di quegli atenei in cui il sapere venga trasmesso in modo migliore
rispetto ad altre. Anzi, ciò tradurrebbe un’implicita gerarchizzazione del sapere e della
conoscenza, che verrebbe surrettiziamente divisa tra erudizione di “serie A” e di “serie B”.
I voti degli esami di profitto risentono delle stesse succitate incongruenze, come poter
valutare un 30 in una università di “provincia” (ma ha senso parlare di atenei di “provincia”
in un Mondo in cui le nostre più prestigiose istituzioni accademiche sono esse stesse
considerate inefficienti e provinciali?) rispetto allo stesso voto attribuito presso
“un’importante” centro studi di una grande città? E se per una qualche bizzarria del
destino il giovane che studi nella “piccola” facoltà meritasse veramente quel voto?
Inoltre, rinchiudere i giovani in “ranking” universitari si rivelerà profondamente
esiziale per il loro stesso avvenire. In Francia, dove esiste de facto un sistema di ranking
universitario estremamente rigido, è stato più volte dimostrato che un giovane (magari
appartenente a qualche altra minoranza “visibile”) che si diplomi, spesso per cause
indipendenti dalla sua volontà in un ateneo di “seconda fascia”, avrà molte più difficoltà ad
inserirsi nel mondo del lavoro rispetto ad un suo coetaneo che per diversi motivi si sia
laureato in più rinomate istituzioni. Il primo andrà ad accrescere le fila degli scontenti e
degli emarginati, con risultati nefasti per l’economia e lo stesso ordine pubblico (si
rimanda, tra l’altro alla recente “rivolta” delle banlieues).
La classificazione degli istituti di istruzione, conseguente alla perdita del valore
legale della laurea, è uno dei fattori coadiuvanti l’immobilismo sociale. Difatti,
specialmente nel nostro paese, come anche in altri del resto, le “migliori” università in
molte materie “forti” sul mercato del lavoro (in primis economia e giurisprudenza) sono
private e, ad oggi, prevedono solo un blando sistema di borse di studio ed altri aiuti ai
meno abbienti. Ergo, solo i ragazzi provenienti da classi sociali facoltose o comunque
culturalmente più preparate (spesso tuttavia vi è coincidenza tra queste ) potranno sperare
di accedervi con ragionevoli possibilità di successo, cercando di ripetere lo stesso percorso
dei loro padri. In Francia, gli studenti che frequentano l’Ecole Polytechnique o la Haute
école de commerce o ancora l’Ecole normale supérieure, discendono per la stragrande
maggioranza da classi medio-alto borghesi, tant’è che in tempi recenti sono stati introdotti
concorsi speciali di ammissione per studenti provenienti da classi sociali più disagiate,
proprio per ovviare a tale problema.
Infine, l’idea che sottrarre il valore legale alla laurea permetta “all’uomo medio” di
presentarsi con successo ai concorsi pubblici è, alla luce di comprovate esperienze in
alcuni Stati esteri (Francia in testa), un’autentica utopia. Difatti, solo coloro che possiedano
le migliori conoscenze saranno in grado di affrontare con successo prove di esame spesso
molto complesse, che dovrebbero essere imparziali e “pulite”(ma nel caso dell’Italia
sappiamo che non è sempre cosi) .
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In definitiva, il problema della nostra università non passa certo per l’abolizione del valore
legale del titolo di studio ma tramite una profonda riforma del nostro sistema di istruzione.
In tal senso, alcune proposte potrebbero essere :
Una maggiore selettività di professori e personale docente, in primis, mediante una
revisione completa delle modalità di selezione e accesso alle carriere accademiche, anche
con l’ausilio di commissioni di esame composte da docenti stranieri.
Un più ampio ed efficace meccanismo di borse di studio (il modello americano in questo
potrebbe aiutare di molto) accompagnato da un contestuale abbattimento delle tasse
universitarie.
Una maggiore selezione per l’accesso a tutte le facoltà, test d’ingresso e numeri chiusi
dovrebbero essere generalizzati.
Un irrigidimento delle disciplina degli esami di profitto : la pratica della “rinuncia” al voto,
caso unico in Europa, dovrebbe essere debellata a favore di esami “secchi” a date fisse e
non negoziabili. Inoltre, per garantire una maggior corrispondenza tra voto di esame e
conoscenza della materia da parte del candidato, sarebbe opportuno (come avviene in
Francia per il locale esame di maturità) che l’esaminando sia valutato da commissioni
esterne all’università in cui è iscritto.
Un miglior accompagnamento degli studenti lavoratori tramite appelli ad hoc ed un
riconoscimento effettivo dell’esperienza di lavoro anche per l’acquisizione di titoli
accademici.
Una riduzione del numero delle università (80 sono evidentemente troppe) e
contestualmente una più importante redistribuzione dei fondi a favore dell’insegnamento
pubblico. Le università pubbliche dovrebbero diventare la vera punta di diamante del
nostro sistema accademico perché uno Stato moderno, pur incoraggiando la libertà di
insegnamento, non può permettersi di abbandonare l’istruzione di alto livello a privati di
ogni genere e convinzione.
Cosi com’è, purtroppo, la proposta del Governo, seppur rinviata sine die, è un regalo alle
due istituzioni accademiche da cui proviene buona parte dei membri dell’esecutivo. Esse,
senza dubbio, sarebbero tra le poche entità in grado di far valere il proprio nome
“commerciale” sul mercato del lavoro, nell’inevitabile periodo di assestamento che segue
ogni riforma.
Per concludere, la decurtazione del valore legale alla laurea, con le conseguenti classifiche
paventate, avrebbe come estrema conseguenza la disarticolazione di un importante servizio
pubblico qual’è quello universitario, il quale deve essere di alta qualità, accessibile e diffuso
su tutto il territorio nazionale. I nostri giovani dovrebbero avere la possibilità di entrare in
una qualsiasi università del nostro paese consapevoli del gran carico di lavoro che li
attende ma coscienti dell’alta qualità dell’istruzione impartita.
Ernesto Benelli
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