Ultime notizie mondo dal 1 al 15 Ottobre 2006
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Ultime notizie mondo dal 1 al 15 Ottobre 2006
Ultime notizie dal mondo 1/ 15 Ottobre 2006 (http://www.rivistaindipendenza.org/home.htm) a) Sul nucleare un’occhiata in Corea del Nord (10 ottobre), alle sanzioni che le sono state comminate (15 ottobre), alle reazioni da Pyongyang (13 ottobre) e a come l’ha presa la Cina (10 ottobre) alle prese con la sua «società armoniosa» (14 ottobre). Da non perdere, per le sue valenze geopolitiche immediate che fanno riflettere, il ritorno dei progetti nucleari dell’Egitto (6 ottobre) incoraggiati da Washington. Una chicca su Israele, che rilancia: dopo l’esperimento in Corea, attaccare l’Iran (11 ottobre). In relazione vedi anche USA / Iran al 2 ottobre. b) Sull’Afghanistan si intensificano segnali allarmanti per gli occupanti. Interessante un’intervista a Peacereporter.net di un comandante talebano. Sullo sfondo quel che dice (1 ottobre) il comandante NATO in loco, generale David Richards, ed altre sparse, d’accompagno per il quadro d’insieme (5 ottobre). c) Medio Oriente. Israele si ritira non da tutto il Libano. Protesta il ministro degli Esteri libanese (1 ottobre) e il primo ministro Siniora (7, 13 ottobre). Hezbollah dice la sua (3 ottobre). Corrono sempre più insistenti, inquietanti e non inaspettate, voci sul ruolo dell’Unifil in Libano (3 ottobre). Ricostruzione a tempi di record di Hezbollah ed effetti politici (12 ottobre). Sull’estrema destra danese che sbeffeggia Maometto, dice la sua Hezbollah (10 ottobre). In Palestina micidiali armi sperimentali (12 ottobre) ad opera di Israele (un filmato dell’inchiesta sul sito di Rainews24 Gaza, ferite inspiegabili e nuove armi). d) Sparse, ma significative: • Irlanda del Nord. Partire dall’Accordo di Saint Andrews, in Scozia, (14 ottobre) per poi collegarsi al 4 e al 12 ottobre. • America Latina. Le presidenziali in Brasile (2 ottobre). Proposte delle FARC in Colombia con relativo scandalo paramilitare di ordinaria amministrazione nell’entourage di Uribe (3 ottobre). Un’intervista a Rafael Correa, uno dei candidati alle presidenziali in Ecuador con notizie illuminanti su quella realtà (14 ottobre) da leggere anche con occhi italiani. Sale la tensione, a Oaxaca, in Messico (2 ottobre). Botta e risposta su una base USA in Paraguay (2, 8 ottobre). Voci di golpe in Bolivia (12 ottobre) e reazioni in Venezuela (13 ottobre) con chavisti in piazza in vista delle presidenziali di dicembre (9 ottobre). • Tensioni tra Russia e Georgia (2, 7, 10 ottobre). Un’occhiata alla Polonia su basi USA e corridoi energetici (1 ottobre) e alla morte della giornalista Politkovskaya (Russia / Cecenia al 7 ottobre). Tra l’altro: Gran Bretagna / Iraq (13, 15 ottobre) Germania (2 ottobre) Unione Europea / USA (7 ottobre) Somalia (1, 10 ottobre) Iraq (11 ottobre) USA (7 ottobre) USA / Cuba (10 ottobre) 1 • Euskal Herria. 1 ottobre. Cinque manifestazioni in contemporanea in altrettante località basche. Così la sinistra abertzale (patriottica, ndr) lancia la campagna «Euskal Herriak autodeterminazioa» per l’autodeterminazione quale soluzione reale al conflitto e contro il blocco del processo negoziale. • Polonia / USA. 1 ottobre. Creazione di una base missilistica USA in Polonia e accordi per l’accesso a fonti energetiche aggirando Mosca e Teheran. È quanto si prospetta dopo gli incontri negli USA del primo ministro polacco Jaroslaw Kaczynski lo scorso settembre a margine della quattro giorni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Kaczynski ha incontrato George W. Bush, Dick Cheney, Condoleezza Rice, il presidente della Commissione Affari Esteri del Senato Richard Lugar, e rappresentanti del Congresso Ebraico Americano. La Polonia, nella NATO dal 2004, risulterebbe così un tassello sempre più centrale della strategia di Washington, che mira a formare un “cordone sanitario” tra gli Stati dell’Europa orientale e dell’Asia centrale e a circondare militarmente, isolandola economicamente, la Federazione Russa (con, allo stesso tempo, una proiezione offensiva verso Pechino). Vedasi, in tale contesto, l’ingresso dei paesi dell’Est nella NATO, la ‘filosofia’ del progetto geopolitico GUAM (Georgia, Ucraina, Azerbaigian e Moldavia) e dell’oleodotto e gasdotto Baku-Tbilisi-Ceyhan e Baku-Tbilisi-Erzurum. Il tutto, of course, supervisionato militarmente da Washington. In Polonia è comunque presente un’opposizione alla NATO e alla partecipazione alla guerra in Iraq, rappresentata da diversi gruppi tra i quali spicca per dimensioni Samoobrona (Autodifesa). • Polonia / USA. 1 ottobre. Le connessioni tra ambito militare ed energetico è probabilmente uno dei temi al centro della visita di Jaroslaw Kaczynski negli States. Come riferisce l’agenzia di analisi geopolitica Stratfor, gli Stati Uniti sono interessati –in continuità con la decisione unilaterale del 2001 di cancellare il Trattato ABM (1972) con la Russia– alla creazione di una base di missili antibalistici in Polonia sotto loro diretta sovranità e con controllo esclusivo sui comandi dei missili. Inizialmente, per ragioni in gran parte geografiche, la prima scelta di Washington per l’impianto di basi missilistici è stata la Repubblica Ceca, ma i contatti di merito allacciati con Praga non hanno avuto finora buon esito, soprattutto per la debolezza dell’attuale governo, pressato da gruppi di opposizione popolare. In convergenza con gli auspici di Kaczynski, che ha espresso preoccupazione sui missili russi presenti in Bielorussia non lontano dalla frontiera polacca, Washington intende sostenere progetti energetici volti a rifornire Varsavia di petrolio e gas. Ovviamente non russo. Sono queste presumibilmente le “garanzie di sicurezza” richieste da Kaczynski come merce di scambio per lasciare mano libera all’impianto di basi statunitensi in territorio polacco. • Polonia / USA. 1 ottobre. Putin ha già fatto capire di voler usare i rifornimenti energetici come arma di pressione economica/politica sugli Stati europei e su quelli dell’ex spazio sovietico. La stessa Gazprom è saldamente in mano al Cremlino, e ricorrendo a massicci investimenti e alla corruzione di funzionari e politici locali si è assicurata il controllo di quote crescenti di ex compagnie petrolifere di Stato (ad esempio in Slovacchia e Lituania) sfruttando le privatizzazioni imposte dalla Unione Europea. L’8 settembre 2005, benedetto dal cancelliere tedesco Schröder e dal presidente russo Putin, è stato sottoscritto un accordo tra il colosso energetico Gazprom e una cordata teutonica composta da Eon e Wintershall (controllata del gigante della chimica Basf) per la creazione di un gasdotto sottomarino di 1.200 Km (finanziato al 51% dai russi e al 25% dai tedeschi) che collegherà il terminale baltico russo di Vyborg allo scalo di Greifswald, nell’ex DDR. Questo porterà direttamente in Germania –si prevede per il 2010– il gas degli immensi giacimenti della penisola di Jamal. La cosa inquieta profondamente Varsavia, che guarda con preoccupazione all’intesa 2 tra i suoi storici nemici e teme inoltre di perdere molta influenza. Non potendo più minacciare di interrompere le forniture energetiche russe verso gli Stati europei, quest’arma di contrattazione con il Cremlino verrebbe meno. La Polonia, la cui domanda energetica attuale è soddisfatta per il 62% da carbone e per il 37% da petrolio e gas fornito prevalentemente da Mosca, sostiene dunque progetti di approvvigionamento alternativi. • Polonia / USA. 1 ottobre. Tre sono le principali opzioni strategiche appoggiate da Varsavia, nessuna escludente l’altra, tutte sostenute da Washington ma piuttosto care. Stratfor parla di un appoggio di Washington ad un eventuale programma civile nucleare polacco o alla costruzione di impianti di rigassificazione sul mar Baltico. L’opzione che ha trovato maggior spazio sui media polacchi guarda a sud-est, al trasporto delle risorse energetiche del Caspio. In alternativa alle condutture energetiche russe ed anche iraniane, oltre alla succitate pipelines tra Azerbaigian, Georgia e Turchia, si mira a completare la linea di approvvigionamento con l’Ucraina. Da Baku (Azerbaigian) parte anche una conduttura petrolifera diretta al porto georgiano di Supsa, Mar Nero. Da qui il greggio viene caricato su petroliere dirette al porto ucraino di Odessa per transitare nella pipeline Odessa-Brody (frontiera polacca). Varsavia vorrebbe cambiare l’attuale direzione del transito della conduttura Odessa-Brody (utilizzato dal gennaio 2003 in senso inverso per l’ultimo tratto, per la commercializzazione del greggio russo sui mercati europei, dopo l’attraversamento degli stretti turchi del Bosforo e dei Dardanelli) e allungarla fino alle raffinerie polacche di Plock e da qui al porto di Danzica, sul mar Baltico, per inviare infine agli Stati europei il petrolio estratto nei paesi del Caspio a scapito delle vie di transito russe. Ne deriverebbe anche un accresciuto peso politico di Varsavia all’interno dell’Unione Europea. Un’operazione comunque costosa, così come quella cui contribuisce anche Varsavia: è il gasdotto “Nabucco”, al quale prendono parte diverse compagnie statunitensi, che scorrerà per 3400 km dalla Turchia all’Austria (via Bulgaria e Romania) per poi proseguire verso la Polonia, situata così alla fine di una lunga conduttura. • Somalia. 1 ottobre. «Se le Corti attaccano Baidoa, potremmo intervenire in Somalia». E ancora: «Gli islamisti somali –appoggiati dall’Eritrea e sostenuti da combattenti provenienti dall’Afghanistan e da vari paesi arabi– minacciano l’Etiopia. Ma militarmente sono ancora troppo deboli». Si è espresso così, ieri, davanti a giornalisti della stampa internazionale, il primo ministro etiope Meles Zenawi in merito alla fragile situazione del 3 Corno d’Africa e sullo scontro con gli islamisti che controllano da giugno Mogadiscio. In questo momento il governo provvisorio (TFG) controlla unicamente la città di Baidoa. Sulla presenza da mesi in Somalia di truppe di Addis Abeba, presenza denunciata dalle Corti e da molte fonti internazionali, Zenawi smorza ma non nega: «Ci sono istruttori etiopi a Baidoa. Addestrano elementi delle forze di sicurezza del TFG. Si tratta della normale formazione di una nuova forza di sicurezza. Ma, al momento, non c’è una nostra presenza militare in Somalia. Se ci fosse, non sarebbe occultabile, né avremmo interesse a farlo». Alcune settimane fa, le Corti hanno minacciato di dichiarare la guerra santa contro l’Etiopia, se non avesse smesso di interferire con i loro affari interni. Sempre da Mogadiscio, rivendicano il controllo dell’Ogaden, la regione etiope di frontiera, abitata da popolazione di etnia somala. Sia in Ogaden che in Oromia, nel sud, il governo etiope è confrontato da movimenti di opposizione armata, mentre si parla di defezioni e arresti nell’esercito etiope («Avevamo degli infiltrati, e abbiamo fatto pulizia in casa», dice Zenawi). • Israele / Libano. 1 ottobre. Completato nella notte il ritiro delle ultime unità israeliane dal Sud del Libano. Evento accolto con esultanza dalla popolazione locale e dal governo di Beirut, dopo l’irritazione causata dai rinvii delle settimane scorse. Dal ripiegamento è rimasta esclusa una singola località, Ghajar, contesa da quasi 40 anni. Immediata la reazione di Hezbollah: si tratta di una forma di «occupazione», contro la quale i suoi guerriglieri hanno «diritto di far fronte». Il ministro degli Esteri libanese, Sallouk, ha affermato che «se Israele non si ritira da Ghajar vuol dire che vuole avere problemi nel Sud del Libano». • Afghanistan. 1 ottobre. «Al Qaeda non c’entra niente. Gli shaheed (martiri, cioè gli attentatori suicidi, ndr) sono afgani che si vogliono vendicare contro gli americani per le sofferenze che hanno subito, per i lutti e le umiliazioni che hanno vissuto per colpa loro. Li conosco tutti, conosco le loro storie. Per esempio, quando i soldati americani fanno i rastrellamenti e fanno irruzione nelle case, spesso prendono le giovani donne e si divertono con loro per ore. Chi subisce queste cose, chi le vede e le sente raccontare si ribella. Per questo decide di venire da noi». A parlare così, in un’intervista esclusiva per Peacereporter.net, è il comandante talebano mullah Yunus Saheb, responsabile del reclutamento e dell’addestramento degli attentatori suicidi: «i volontari vengono da noi e noi forniamo loro cinture e giubbetti esplosivi e spieghiamo loro come uccidere il maggior numero di soldati nemici. Abbiamo più di 300 persone che aspettano di sacrificarsi per la jihad». • Afghanistan. 1 ottobre. «Karzai non governa l’Afghanistan perché non ha nessun potere reale. Lui è solo una marionetta in mano agli americani, un loro megafono che ripete tutto quello che essi dicono. Così pure il parlamento, dove siedono solo amici degli americani. L’autorità del governo Karzai è limitata ai centri urbani: tutto il resto del territorio –le campagne, le montagne, i deserti– è sotto il nostro controllo. Qui la gente, se ha un problema, viene da noi, non va dal governo». Questa l’opinione del capo talebano sul governo fantoccio afgano. Sulla possibilità di una negoziazione con gli USA, Saheb parla chiaro: «Non l’abbiamo cominciata noi questa guerra. Noi eravamo nelle nostre case, nel nostro paese quando gli americani sono arrivati, ci hanno cacciato e hanno imposto il loro potere. Noi abbiamo il diritto di difenderci, di difendere le nostre case e la nostra terra. Se qualcuno entrasse a casa vostra e vi buttasse fuori, cosa fareste? Noi non vogliamo che gli infedeli occupino il nostro paese e non abbiamo niente da negoziare: se ne devono andare via!». Una politica che avrebbe il consenso della maggior parte della popolazione. «Gli afgani sono stanchi di 30 anni di guerre provocate dagli stranieri, di essere invasi da eserciti stranieri. Sono stanchi di vedere le loro case distrutte e le loro famiglie decimate dai bombardamenti aerei. Sono stanchi di vedere la propria terra occupata da truppe 4 straniere. È proprio perché sono stanchi che sono pronti a combattere. La gente sta dalla nostra parte: molti preferiscono non ammetterlo pubblicamente, ma è così». • Afghanistan. 1 ottobre. «La nostra forza cresce di giorno in giorno perché la gente ci sostiene sempre di più. Ultimamente abbiamo inflitto pesanti perdite alle forze USA, molto maggiori di quelle che loro ammettono. Per questo, per non sostenere più un così pesante costo di vite, gli americani hanno deciso di ritirarsi dal sud. Se ne vanno perché hanno paura. Con l’arrivo degli inglesi, dei canadesi e altri per noi non cambia nulla: sono forze di occupazione e noi le combattiamo. Agli inglesi faremo ripassare la lezione che gli abbiamo dato 120 anni fa». In merito alla presenza di soldati italiani a Kabul ed Herat, il comandante talebano afferma con una precisazione: «Come dice il Corano, non importa da dove provenga chi occupa il tuo paese. Importa solo se sia o meno contro l’Islam. Per noi non c’è alcuna differenza tra americani e italiani: sono occupanti infedeli e noi li combattiamo. Un discorso diverso vale per gli italiani che vengono qui senza armi, per scopi unicamente umanitari: questa gente non è nostra nemica perché aiuta il nostro popolo, al contrario dei soldati italiani che aiutano gli americani». • Afghanistan. 1 ottobre. Il comandante talebano respinge poi alcune delle accuse lanciate al loro gruppo dai media. Ad esempio sulle stragi di civili: «Dicono sempre che i nostri attacchi causano la morte di tanti civili. Ma non è vero. Gli afgani che muoiono nei nostri attacchi sono sempre poliziotti, soldati o funzionari governativi, ma poi dicono che sono civili per fare propaganda contro di noi. Noi non vogliamo uccidere i civili: quando colpiamo lo facciamo sempre solo dove ci sono truppe straniere o gente del governo. Ma a volte capita, purtroppo, che qualche civile passi di lì e quindi finisca ucciso anche lui». O sull’oppio come principale fonte di finanziamento: «Non è vero. È il governo Karzai che trae vantaggio dall’oppio, non noi talebani. Tutti sanno che il fratello di Karzai, Akmad Wali, è uno dei principali trafficanti d’oppio del Paese. Il governo afgano è coinvolto nella produzione e nel traffico di oppio, sia a livello locale che a livello centrale. Gli americani lo sanno ma non hanno mai mosso un dito per contrastare il business dell’oppio: dicono che è difficile, ma la verità è che non vogliono farlo. Perché?». Sul perché, poi, in cinque anni, le forze USA, la CIA, non siano stati capaci di catturare il mullah Omar, risponde: «Perché il mullah Omar è Amir-ul-Mominin, capo di tutti i fedeli. E tutti i fedeli lo proteggono e sono disposti a sacrificare la propria vita per difenderlo. Per questo non lo troveranno mai, nonostante le grandi somme di denaro offerte come ricompensa». • Afghanistan. 1 ottobre. Il comandante talebano parla pure dei fatti dell’11 settembre 2001, esprime il suo parere sulle vere motivazioni dell’intervento statunitense aggiungendo qualche ‘simpatica’ considerazione sulla “ricostruzione” del Paese: «Nelle Torri Gemelle è morta solo gente innocente, civili. A Osama non interessa uccidere questa gente. I suoi obiettivi sono Bush, il governo USA e la gente che lavora per il governo USA. Ma nessuno di questi è morto nelle Torri Gemelle. Quell’attacco è stato opera dello stesso governo americano, che ha usato aeroplani guidati da un computer. Bush aveva bisogno di un pretesto per invadere l’Afghanistan, l’Iraq e altri paesi islamici. Gli americani sono venuti in Afghanistan solo per penetrare in un’area militarmente ed economicamente strategica, un’area molto vicina a Paesi ostili come Cina e Iran, ma anche alle repubbliche centrasiatiche ex sovietiche ricche di petrolio e gas. Gli americani hanno detto che sono venuti qui per aiutare il popolo afgano, per ricostruire il Paese, ma non hanno nemmeno ricostruito quello che loro stessi hanno distrutto con i propri bombardamenti!». Fatta salva la giusta solidarietà a tutti i popoli contro le aggressioni esterne, i taliban comunque non sono cambiati: «Se torneremo al potere, non cambieremo niente, perché siamo fieri di quello che abbiamo fatto. Quando ci torneremo, ristabiliremo le stesse leggi, le semplici e 5 giuste leggi del Corano che esistono da 1.400 anni. La lapidazione, il taglio delle mani, le esecuzioni in pubblico sono molto efficaci per la prevenzione dei crimini perché la gente vede quello che succede ai criminali e non commette gli stessi errori. Le donne? Le abbiamo rispettate secondo i dettami del Corano. Gli afgani erano felici sotto i talebani. Solo agli americani non andava bene, perché loro sono contrari alle leggi islamiche». • Afghanistan. 1 ottobre. Che la situazione sia quantomeno molto incerta per gli occupanti lo dimostra l’intervista di qualche giorno fa al britannico Channel Four da parte del comandante della NATO, generale David Richards: per sconfiggere i taliban sarà necessaria una campagna di non meno di tre-cinque anni. Lo stesso Richards, l’ultimo giorno di luglio, appena arrivato, aveva sostenuto che i taliban non sono terroristi ma «insurgents». Quel che Richards non ha avuto il coraggio di dire, come altri osservatori sul terreno, è che lo sciogliersi di ogni speranza di vittoria per gli occupanti, e la percezione sempre più diffusa tra la popolazione locale che gli «stranieri» sono degli invasori, vanno sempre più di pari passo. • Colombia. 1 ottobre. Mobilitazioni, nei giorni scorsi, contro il governo. Oltre un milione di persone sono scese in piazza in 32 città contro la firma del Trattato di Libero Commercio (TLC) con gli Stati Uniti, prevista per il 22 novembre, e contro i tagli alla sanità e all’istruzione. I progetti dell’esecutivo, sostiene la parlamentare Piedad Córdoba, mirano a «vendere la salute, privatizzare l’istruzione, mettere all’asta le risorse naturali, bloccare lo sviluppo del paese con il TLC». • Germania. 2 ottobre. Bipartito CDU-SPD e cancelliera in crisi anche sulla politica estera. In Germania i massmedia parlano di elezioni anticipate e prefigurano nuove coalizioni. Sul fronte estero il primo nodo è l’intervento dell’esercito tedesco di fronte alle coste del Libano. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha dichiarato in Parlamento che la missione dei militari e dei poliziotti tedeschi sarebbe quella di disarmare Hezbollah. A nome della Resistenza libanese, Hassan Nasrallah l’ha criticata direttamente ricordando che le truppe al comando dell’ONU «non potranno limitare i movimenti di Hezbollah né il suo equipaggiamento di armi». A questo si aggiunge la precaria situazione delle truppe d’occupazione in Afghanistan. Sono arrivate in Germania allarmanti notizie circa carenze del materiale necessario per reggere gli attacchi dei taliban quando questi –e lo si dà con tutta probabilità– raggiungeranno il nord del paese, dove è dispiegata la Bundeswehr. Finora nessun governante ha parlato di un piano B nel caso sia necessario ritirarsi dall’Afghanistan. • Russia / Georgia. 2 ottobre. Sono stati liberati i quattro ufficiali russi arrestati mercoledì scorso a Tbilisi, in Georgia, con l’accusa di spionaggio. I quattro, riferisce l’agenzia ItarTass, sono stati consegnati al presidente di turno dell’OSCE, il ministro degli Esteri belga Karel de Gutch, e partiranno per Mosca stasera. Per il Cremlino, l’arresto è stato un atto di «terrorismo di Stato» dell’esecutivo di Tbilisi. Il presidente russo Vladimir Putin ha quindi paragonato il presidente georgiano, Mijail Saakashvili, a Lavrenti Beria, dirigente sovietico nell’era di Stalin e responsabile diretto delle sue campagne contro la dissidenza. Sempre nel corso del Consiglio di Sicurezza della Russia convocato per la circostanza, Putin ha lanciato un avvertimento: «Stanno cercando di pizzicare la Russia dove più le duole, cercano di provocarla», ha detto riferendosi ai responsabili georgiani; «pensano di essere al sicuro sotto l’ombrello dei loro patrocinatori stranieri (USA e NATO, ndr). Ma sarà realmente così?», ha concluso sibillinamente. Il divorzio tra Tbilisi e Mosca fa seguito al fenomeno delle «rivoluzioni colorate» del 2003 che ha portato la repubblica caucasica nelle braccia della NATO e dell’Unione Europea. 6 • Russia / Georgia. 2 ottobre. L’ordine è di «sparare per uccidere» per difendere le proprie basi. Lo ha impartito il comando dell’esercito russo che ha annunciato sabato la sospensione del ritiro delle sue truppe dal territorio georgiano. Questo, sulla carta, dovrebbe essere completato a fine 2008 secondo un accordo bilaterale firmato l’anno scorso. Mosca ha evacuato il suo personale diplomatico dalla Georgia. • Russia / Georgia. 2 ottobre. «Ci si sarebbe potuti muovere in un altro modo, senza motivazioni elettoraliste». Dà un colpo al cerchio ed uno alla botte Salome Zourabichvili, ex ministra degli Esteri e dirigente dell’opposizione georgiana “Via della Georgia”. Da un lato sostiene che l’arresto delle presunte spie russe «è una manifestazione naturale di affermazione nazionale. La Russia deve capire che non può trattare un paese vicino come ai tempi dell’URSS». Dall’altro rileva che «c’è una parte di manipolazione della situazione a fini elettorali (si vota a giorni per le municipali nel paese, ndr). Il governo, sempre più impopolare, ha optato per lo sciovinismo e l’affermazione eccessiva di fronte alla Russia. E questo tira». Secondo Zourabichvili, «il governo georgiano avrebbe potuto prendere e consegnare le spie alla potenza responsabile, facendo passare adeguatamente il messaggio senza necessità di attizzare le tensioni con dichiarazioni ed atti di nessuna utilità». Ciò non toglie, aggiunge, che «i russi sono russi. Non ci si può aspettare altra reazione da una potenza che ha sogni neoimperalisti». Si dice convinta che «la tensione andrà scemando lentamente. Ma il governo georgiano, comportandosi come ha fatto, ha preso dei rischi nella sua politica con la Russia». Per una politica dettata dalla vicinanza geografica con la Russia, sostiene, «sono necessari la fermezza ed il dialogo». Chi pagherà questa crisi? «Principalmente i georgiani che vivono in Russia come i georgiani che risiedono nel proprio paese e che soffrono una grave crisi economica e sociale. Non c’era necessità di arrivare a questo». • Russia / Polonia. 2 ottobre. Mosca avverte Polonia e NATO. Il Cremlino, che lega l’arresto di sue supposte spie con l’intensificazione delle relazioni tra Georgia, NATO e Stati Uniti, ha avvertito ieri che la dislocazione di un sistema di difesa antimissile della NATO in Polonia «potrebbe avere un effetto negativo sulla stabilità strategica, la sicurezza regionale e le relazioni tra Russia e Polonia». Varsavia ha replicato dicendo che la questione del sistema di difesa antimisisle «non è ancora chiusa». • Palestina. 2 ottobre. Sospese le attività di tutti i ministeri e delle istituzioni governative. L’annuncio di Ghazi Hamad, portavoce del governo palestinese guidato dal movimento di resistenza islamico Hamas, ha fatto esplicito riferimento come «causa» agli attacchi contro la sede del governo in Cisgiordania. Hamas ha accusato direttamente il presidente dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese), Mahmud Abbas (Abu Mazen), di essere responsabile delle tensioni e divisioni tra la popolazione palestinese con il suo tentativo di indurre gli islamisti a cedere alle pressioni occidentali e a riconoscere Israele. • USA / Iran. 2 ottobre. Piano di attacchi aerei contro l’Iran. Ne parla Sam Gardiner, stratega statunitense che in passato si è impegnato a predisporre tutte le procedure diplomatiche e militari volte a permettere l’operazione Iraqi Freedom, e che ora parla di fallimento diplomatico per il caso Iran. Secondo lo stratega, la guerra a Teheran sarebbe di fatto già iniziata con missioni segrete di ricognizione all’interno dell’Iran. Gli attacchi aerei della prossima guerra colpiranno anche i siti nucleari, oltre alle basi dell’aviazione militare –di cui alcune raggiungibili da Baghdad in un quarto d’ora di volo– campi d’addestramento, controlli di difesa aerea, missili balistici di media gittata e missili anti-nave, sottomarini, imbarcazioni militari. L’agenda di Bush non si limiterebbe perciò a ritardare i piani nucleari di Teheran, e Israele sta facendo le maggiori pressioni su Washington per un attacco all’Iran 7 prima che questo ottenga tecnologie nucleari. Il 15 giugno scorso Teheran ha stipulato un accordo con Damasco che prevede l’intervento militare della Siria in soccorso dell’Iran nel caso in cui questo fosse aggredito. • Messico. 2 ottobre. Tamburi polizieschi contro i rivoltosi di Oaxaca. Sorvoli di aerei ed elicotteri dell’esercito e della polizia federale potrebbero essere preludio ad un già annunciato assalto. Da diversi mesi la città, capitale dello Stato messicano di Oaxaca, è scenario di una rivolta popolare che ha costretto i poteri ufficiali alla fuga. Si chiedono le dimissioni del corrotto governatore, Ulises Ruiz, del PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale). La rivolta, iniziata con una mobilitazione degli insegnanti che chiedevano salari adeguati alla propria dignità professionale, si è poi estesa alla totalità dei settori popolari della città. L’Assemblea Popolare dei Paesi di Oaxaca (APPO) ha instaurato un embrione di potere popolare ed esige le dimissioni di Ruiz quale condizione irrinunciabile per negoziare con il governo. Hermann Bellinghausen, inviato speciale del quotidiano messicano La Jornada, scrive che l’operazione aerea è stata vista da molti come un messaggio di avvertimento e dissuasione, da altri come voli di riconoscimento preludio ad un possibile intervento militare in città. «La città di Oaxaca è tutta una sola ed immensa barricata e la popolazione si trova in uno stato di forte tensione». • Brasile. 2 ottobre. Al ballottaggio. Tra un mese si saprà il nome del presidente del Brasile. Ieri Lula non è riuscito a raggiungere il 50%+1 dei suffragi necessari a garantirsi la rielezione: si è fermato a 46.661.622 voti (48,61%), mentre il socialdemocratico Geraldo Alckmin ha ottenuto 39.968.037 voti (41,64%). A seguire Heloisa Helena, del Partito Socialismo e Libertà, 6.575.000 (6,85%) e Cristovam Buarque, del PDT-DF, 2.538.829 (2,64%). Circa il 15% dei 126 milioni di elettori si è astenuto. Il PT (Partido dos Trabalhadores, Partito dei Lavoratori) di Lula ha conquistato il governo solo in quattro dei 27 Stati in gioco, perdendo in particolare San Paolo, Rio de Janeiro e Minas Gerais. Anche i dati delle presidenziali non sono confortanti, visto che una settimana fa la rielezione era data per sicura. A voltare le spalle a Lula è stato in particolare lo Stato di San Paolo, il più grosso collegio elettorale del paese: quasi dodici milioni di paulisti hanno votato per Alckmin, quattro milioni in più rispetto a Lula. In questi quattro anni di gestione il PT è rimasto invischiato in una serie di casi di corruzione che hanno appannato la sua immagine di «partito dell’etica». A fargli perdere consensi c’è anche la scelta di una politica neoliberista che ha posto di fatto il governo a fianco delle élites tradizionali del paese: il capitale finanziario ha conosciuto i maggiori guadagni della sua storia, mentre i settori produttivi sono rimasti soffocati dagli alti tassi d’interesse. Modesti i risultati della lotta alla povertà, bandiera storica del PT. Secondo i dati della Fondazione Getulio Vargas, la popolazione povera è scesa dal 26,7 al 22,7%. 42 milioni di persone continuano a vivere, o meglio a sopravvivere, con l’equivalente di due dollari al giorno; un brasiliano su tre è disoccupato o campa grazie all’economia informale. Nelle periferie urbane si accalcano milioni di emarginati. Se i programmi sociali hanno alleviato la miseria, come quello denominato Bolsa Familia (alimenti e denaro alle famiglie più povere –interessati 45 milioni di brasiliani– con impegno del capo famiglia a mandare i figli a scuola, pena la perdita del beneficio), non hanno però modificato il quadro sociale. • Brasile. 2 ottobre. «Lula ha sbagliato nella distribuzione della ricchezza per tre motivi», sostiene Joao Paulo Gonçalves, della direzione nazionale del Movimento Sem Terra. «In primo luogo ha mantenuto la politica economica del suo predecessore Fernando Henrique Cardoso. Questo è stato il suo peccato capitale. In secondo luogo, non potendo contare su una maggioranza al Congresso, per poter approvare le leggi ha stretto un’alleanza molto complessa con settori della società fortemente conservatori ed estremamente corrotti. E in 8 terzo luogo, non ha un progetto per il Brasile. O meglio, il progetto di Lula è il lulismo, che esiste solo nella sua testa». • Brasile. 2 ottobre. L’ex operaio, Lula, non ha perso solo l’appoggio dei Sem Terra. Anche una parte del suo partito lo ha abbandonato e il primo ottobre ha votato per la senatrice Heloisa Helena, pasionaria «trotzkista-cristiana» (è lei che si definisce così) dell’ultra-sinistra radicale. Lei ed una consistente minoranza del gruppo parlamentare del PT –una trentina di deputati della novantina eletta nel 2002– aveva quasi sempre parlato e in qualche occasione votato contro i progetti presentati dal “suo” partito e dal “suo” governo. Dall’invio di caschi blu brasiliani in missione a Haiti alla controversa legge sulla previdenza sociale che costò l’espulsione finale, nel dicembre 2003, a lei e a tre deputati: allora Heloisa tirò fuori un video con gli interventi di Lula al Congresso, quando il PT opponeva ad una analoga riforma di Cardoso le stesse parole, gli stessi argomenti. Insieme ad altri dissidenti diede vita, nel dicembre 2004, al Partito del Socialismo e della Libertà (PSOL). Pur non avendo alcuna possibilità di vittoria, ha dato, in queste elezioni, non pochi grattacapi al suo ex compagno di partito, con una campagna incentrata sulla lotta alla corruzione e sulle critiche al governo, usando espressioni molto forti: «farsa neo-liberista», «gruppo criminale travestito da governo», «servo dei banchieri», Lula quale «capo di un’organizzazione criminale capace di rubare e ammazzare chi minaccia i suoi piani di potere». • Brasile. 2 ottobre. Heloisa Helena, la pasionaria «trotzkista-cristiana» del PSOL si dice soddisfatta e con la coscienza tranquilla per «aver combattuto una battaglia giusta». Ad Alagoas, però, il piccolo stato nordestino in cui è nata 44 anni fa, dove ha studiato in un collegio di suore, dove si è laureata in epidemiologia e ha insegnato alla scuola per infermiere dell’università federale di Maceió, il suo seggio al senato di Brasilia (che dovrà lasciare nel 2007) è stato vinto, domenica scorsa, dal redivivo Fernando Collor de Mello, l’ex presidente ladrone che scippò la vittoria proprio a Lula nel ballottaggio dell’89, cacciato a furor di popolo e di parlamento alla fine del ‘92. «Gli alagoani hanno votato Collor a causa delle ruberie di Lula», dice. Ora il neo-senatore Collor si proclama lulista e assicura che aiuterà Lula nel ballottaggio, ricambiato con le parole di Lula: «Sono sicuro che Collor, grazie all’esperienza maturata quando è stato presidente della repubblica, farà un lavoro eccezionale al senato». • Brasile. 2 ottobre. Luci e ombre nella politica estera di Lula di questi anni. Da un lato ha mirato a rafforzare le relazioni Sud-Sud attraverso il G-20, l’alleanza con India e Sud Africa, ed i rapporti commerciali con la Cina. Dall’altro c’è la missione militare ad Haiti – fortemente sponsorizzata da Washington– di cui condivide il comando con la Francia. Per non parlare delle pressioni che Brasilia ha dovuto esercitare su governi amici, come quello di La Paz, per salvaguardare gli interessi della compagnia petrolifera Petrobras. • Paraguay. 2 ottobre. Niente più immunità ai soldati USA. Marcia indietro del presidente Nicanor Duarte. L’annuncio è del ministro degli Esteri Rubén Ramírez: dall’anno prossimo, i soldati USA di stanza nel paese non godranno della totale immunità. Nel 2005 il governo di Asunción, su richiesta di Washington, aveva garantito l’immunità ai 400 militari statunitensi entrati nel paese per compiervi esercitazioni, addestramento e “missioni 9 umanitarie”. Ora ci ripensa: «Non è possibile concedere questo tipo di immunità nel quadro della Convenzione di Vienna, che è riservata a diplomatici e funzionari amministrativi», ha detto il ministro Ramírez. Il cambiamento di rotta è stato spiegato in termini di reinterpretazione giuridica. Secondo analisti, la decisione sarebbe stata dettata dalla volontà di migliorare i rapporti con gli altri Stati della regione (Argentina, Brasile, Uruguay, Venezuela) critici per la concessione vista come l’inizio di una stabile presenza USA in territorio paraguayano. Vi sarebbero poi ragioni economiche: mentre Brasilia ha offerto aiuto in campo sociale e Caracas si è impegnata a fornire petrolio, Washington non ha promesso alcun beneficio in cambio della cooperazione militare. Non mancano motivazioni interne, elettorali. Il capo dello Stato mira ad una rielezione nel 2008, previa modifica della Costituzione che proibisce un secondo mandato. In quest’ottica lo “sgarbo” all’amministrazione Bush significa anche un colpo al vicepresidente Luis Castiglioni, principale alleato di Washington in Paraguay nonché unico esponente politico in grado di opporsi alle ambizioni di Duarte. • Libano. 3 ottobre. «La resistenza continua finché non sarà completo il ritiro israeliano». Lo ha detto ieri Naim Khassem, numero due di Hezbollah, a poche ore dal ritiro delle truppe israeliane da una decina di centri libanesi a ridosso del confine ma non dalle due strategiche località dove si incontrano i confini tra Israele, Libano e Siria. Il mancato completamento del ritiro israeliano dal sud del Libano, dove l’esercito di Tel Aviv ancora controlla il centro di Ghajar e le fattorie di Sheba (luoghi strategici per la vicinanza alle fonti del Wazzani e dell’Hasbani e per ragioni militari), darà ad Hezbollah «il diritto di far fronte all’occupazione». «Riteniamo la comunità internazionale», ha continuato l’esponente di Hezbollah in un’intervista al quotidiano progressista As Safir con una prima critica alle Nazioni Unite, «responsabile della continuazione dell’occupazione israeliana». Gli ha fatto eco il «moderato» esponente del movimento sciita Amal, alleato e concorrente degli Hezbollah, Nabih Berri, attualmente presidente del parlamento: «La nostra resistenza rimarrà totale fino a quando Israele manterrà posizioni in territorio libanese». • Libano. 3 ottobre. Pronti ad intervenire anche senza esercito libanese. L’Unifil avrebbe due «regole di ingaggio», una ufficiale e l’altra riservata. Secondo l’agenzia francese Afp, per la prima il suo ruolo si limiterebbe al sostegno dell’esercito libanese, mentre per la seconda avrebbe anche il potere di arrestare eventuali militari Hezbollah, di fermare veicoli «sospetti» e aprire il fuoco contro chiunque venga visto girare armato nella regione. In altri termini le forze ONU dell’Unifil avrebbero la possibilità di «usare la forza al di là dell’autodifesa per fare in modo che l’area di operazioni ONU (a sud del fiume Litani ndr) non venga utilizzata per attività ostili di qualsiasi natura». Il comandante del contingente francese, interrogato in proposito, ha sostenuto che «non si tratta di disarmare gli Hezbollah o di cercare le loro armi ma di impedirgli di muoversi». Più in generale, se l’esercito libanese non dovesse intervenire, allora le truppe Unifil avrebbero vasti poteri di intervento: «Se ad esempio dovessimo incontrare dei miliziani armati», ha sostenuto un ufficiale dell’Unifil, «e se questi si arrendessero allora li consegneremmo all’esercito libanese; se dovessero resistere, possiamo aprire il fuoco». Il tutto sulla base della risoluzione 1701 secondo la quale la zona a sud del fiume Litani non dovrà più vedere una presenza della resistenza libanese. Sarebbero queste le assicurazioni che avrebbero convinto i comandi israeliani a ritirare i propri soldati, sabato scorso, da una decina di villaggi in territorio libanese ma allo stesso tempo a rimanere nella parte libanese del paese di Ghajar, alle pendici del Golan, diviso a metà dalla «linea blu», il confine tra i due paesi stabilito dall’ONU, e a minacciare nuovi raid nel Libano del sud. In altri termini se la resistenza libanese riprenderà le sue azioni per liberare, come ha promesso, i territori ancora occupati da Israele, le forze dell’Unifil 10 dovrebbero impedirglielo con la forza. La favola delle truppe di interposizione sta lentamente lasciando il campo alla realtà di una forza armata incaricata di difendere gli interessi di Israele in Libano e contro la resistenza libanese. • Libano. 3 ottobre. Il comandante in capo dell’esercito libanese, generale Michel Sleiman, ha esortato ieri i suoi uomini «ad essere pronti a rispondere ad ogni aggressione o violazione israeliana» del cessate il fuoco. • Libano. 3 ottobre. Le ingerenze internazionali per un disarmo degli Hezbollah stanno esasperando sempre più il conflitto interno al Libano. Ieri c’è stato un nuovo scontro armato a Beirut sulla Cornish al- Mazra’ah, nei pressi della moschea Abdel Nasser, tra un centinaio di seguaci (sunniti) della Hariri Inc., il partito-azienda «Al Mustaqbal», e un gruppo di militanti sciiti di Amal. Il bilancio dello scontro, durato più di mezzora, sarebbe di un morto ed una ventina di feriti. • Sri Lanka. 3 ottobre. Riprendono i colloqui di pace tra esercito di liberazione delle Tigri Tamil (LTTE) e governo dello Sri Lanka. Le Tigri hanno così accettato l’invito, già recepito dal governo, del mediatore norvegese Jon Hanssen-Bauer. Secondo il Colombo Page, le Tigri avrebbero accettato di riprendere i colloqui per una soluzione al conflitto, ma disconosceranno il cessate il fuoco del 2002 se continueranno gli attacchi dell’esercito. • Colombia. 3 ottobre. Le FARC propongono uno scambio prigionieri e l’apertura di un processo di negoziazione politica del conflitto. Lo scrivono in una «Lettera aperta ai membri dei tre poteri dello Stato», inviata ieri e pubblicata oggi nel loro sito Internet. Le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), la guerriglia attiva più antica e potente della Colombia, offrono il rilascio di 59 catturati (tra militari e politici) per circa 500 guerriglieri prigionieri. La lettera viene diffusa il giorno dopo in cui Raul Reyes, portavoce ufficiale dell’organizzazione, ha specificato che le FARC sono in attesa del decreto con il quale Uribe smilitarizzi i municipi di Florida e Pradera, dove dovrebbero avere luogo le trattative per lo scambio. Se lo scambio avrà successo, le FARC sono disposte a «ricercare accordi per superare il conflitto sociale e armato» in atto dal 1962 nel paese. Esigono come condizioni il ritiro dell’esercito dai dipartimenti di Putumayo e Caquetá (sud), la sospensione degli ordini di arresto contro i dirigenti della guerriglia e che il governo «solleciti la comunità internazionale a sospendere la qualifica come organizzazione terrorista» delle FARC. Tra le questioni da negoziare ci sono, prosegue la guerriglia, la riforma agraria, un’assemblea costituente, il Trattato di Libero Commercio (TLC) ed i trattati di estradizione con gli Stati Uniti. Uribe non esclude la via dell’assemblea costituente, ma condiziona questo processo a che le guerriglie (FARC ed ELN) abbandonino prima le armi. • Colombia. 3 ottobre. Uribe si dice pronto ad incontrarsi con Manuel Marulanda, detto Tirofijo, massimo esponente delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), ben protetto nella boscaglia della cordigliera orientale. «Se ciò fosse necessario per arrivare alla pace», ha dichiarato il presidente colombiano Alvaro Uribe a Radio Caracol, facendo seguito alla «Lettera aperta ai membri dei tre poteri dello Stato» delle FARC. Ha quindi autorizzato l’alto commissario per la pace, Luis Carlos Restrepo, a intavolare colloqui con il gruppo guerrigliero per la creazione di «una zona d’incontro». A tale scopo si è decisa la smilitarizzazione, per 45 giorni, dei municipi di Pradera e Florida, a sud-est della capitale. Questi stretti limiti di tempo, precisa Uribe, intendono evitare che le FARC approfittino di una fase di colloqui prolungata «per rafforzarsi militarmente». Ha 11 quindi aggiunto che il concretarsi di questa zona d’incontro deve basarsi «su garanzie di buona fede, una cessazione delle ostilità e sui requisiti proposti dai tre paesi europei (Spagna, Francia e Svizzera, ndr)». Gli esecutivi di questi paesi, che hanno costituito lo scorso dicembre una commissione internazionale, hanno suggerito come sede del dialogo un paese nel sudest della Colombia, previo ritiro della Forza Pubblica, e la partecipazione della comunità internazionale come istanza di verifica. La Francia è interessata soprattutto a liberare la sua famosa connazionale, la leader ecologista franco-colombiana Ingrid Betancourt (nelle mani delle FARC da quasi cinque anni). La strada per arrivarvi è comunque piena di ostacoli. Anche per il coinvolgimento degli USA, poco propensi agli scambi di prigionieri: mentre nelle carceri statunitensi sono reclusi due comandanti guerriglieri, Simon Trinidad e Sonia (estradati con l’accusa di narcotraffico), nella selva colombiana sono detenuti tre agenti CIA catturati dopo l’abbattimento, nel febbraio 2003, del loro aereo-spia. È la prima volta che il presidente colombiano viene meno alla sua politica di mano dura contro la guerriglia. Uribe ha dovuto abbandonare il «categorico rifiuto di rinunciare anche ad un solo centimetro del suolo patrio» ed accettare le condizioni della guerriglia, pur proclamando di non volere rifare un Caguancito (riferimento alla regione del Caguán, il territorio dove per quasi tre anni, dal febbraio 1999, si realizzò il fallimentare negoziato tra le FARC e il governo di Andrés Pastrana). Analisti ritengono che, con questa mossa, Uribe voglia deviare l’attenzione da alcuni scandali che coinvolgono l’apparato statale e dall’evidente impasse del suo programma politico-sociale. • Colombia. 3 ottobre. Al soldo dei paramilitari. Tre, per ora, i senatori sotto inchiesta per presunti vincoli con i gruppi paramilitari. I loro nomi sono stati trovati nell’archivio di un computer sequestrato a Ignacio Fierro Don Antonio, braccio destro di Jorge 40, il famigerato capo delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia). I tre parlamentari (Zulema Jatin, della formazione di governo “Partito Sociale di Unità Nazionale”; Dieb Maloof, di “Colombia Viva” e David Char, di “Cambio Radicale”) avrebbero ricevuto l’appoggio dei paramilitari durante la campagna elettorale. «Buona parte della classe politica colombiana, soprattutto della regione del Caribe e di altre regioni del paese, costituisce la vera dirigenza del narcoparamilitarismo», ha affermato il senatore Gustavo Petro, del Polo Democratico Alternativo. È un’ulteriore prova degli stretti rapporti tra ambienti ufficiali e gruppi armati di estrema destra. Tra le prove presentate, la registrazione di una conversazione telefonica tra un capitano dell’esercito e un paramilitare: l’ufficiale chiede al suo interlocutore di uccidere due cittadini qualsiasi facendoli passare per guerriglieri (il delitto è puntualmente avvenuto e ora il capitano è in carcere per omicidio aggravato). Intanto il Ministero della Difesa ha dovuto ammettere che era vero quanto pubblicato l’8 settembre dal quotidiano di Bogotá, El Tiempo: l’attentato dinamitardo che il 31 luglio nella capitale aveva provocato la morte di un civile e il ferimento di una ventina di soldati era stato preparato da quattro ufficiali. L’azione terroristica avrebbe dovuto essere sventata in tempo e dimostrare così la prontezza dell’esercito nella lotta contro la guerriglia, ma qualcosa era andato storto e l’ordigno non era stato disattivato. • Irlanda del Nord. 4 ottobre. L’IRA sta adempiendo ai suoi impegni nel processo di pace. Lo sottolinea l’ultima relazione della Commissione di Verifica. L’Esercito Repubblicano Irlandese (IRA), conclude il documento, «persegue fermamente una strategia politica» e la dirigenza dell’organizzazione repubblicana «tanto tramite dichiarazioni pubbliche come con ordini interni» esercita un’attività politica non armata. In dichiarazioni ad una radio irlandese, Jeffrey Donaldson, del DUP (Democratic Unionist Party), ha riconosciuto che la relazione della Commissione evidenzia progressi e soddisfa le aspettative del DUP in relazione «alla criminalità e alle attività paramilitari dell’IRA». Ha quindi concesso che la relazione «crea un contesto che facilita l’avanzamento politico» e che si sta «arrivando alla 12 fine di questo periodo di transizione dal conflitto alla pace». Ha rilevato però che esistono altre questioni sulle quali il suo partito desidera vedere progressi prima di accettare la creazione di un Esecutivo multipartitico. Le nuove precondizioni unioniste si riferiscono alla accettazione e partecipazione del Sinn Féin alle strutture poliziesche e la riforma delle istituzioni nordirlandesi. Entrambi i punti presentano problemi per i repubblicani; quello della sua partecipazione nelle strutture di controllo poliziesco può essere approvato solo in un’assemblea straordinaria del partito. • Afghanistan. 5 ottobre. «Oggi la International Security Assistance Force (ISAF, ndr) a guida NATO ha espanso le operazioni nell’est dell’Afghanistan. La NATO ora eseguirà la missione del mandato ONU in tutta la nazione, costruendo sugli sforzi della coalizione a guida USA». Lo ha comunicato il segretario generale della NATO, Jaap de Hoop Scheffer. La NATO comanda già le forze impegnate nel nord, nell’ovest e nel sud del paese asiatico, nonché nella capitale Kabul. Adesso l’Alleanza Atlantica controlla militarmente con la sua Forza internazionale d’assistenza e sicurezza (ISAF) l’intero Paese. Con 12mila soldati in più, l’ISAF può contare attualmente su 31mila uomini in rappresentanza di 37 Paesi, tra i quali l’Italia che ha inviato 1.900 soldati. Solo 8mila soldati USA, impegnati nella caccia ad Al Qaeda, continueranno a operare al di fuori della missione NATO. Il passaggio di consegne è avvenuto presso il quartier generale di ISAF alla presenza del presidente afgano Hamid Karzai, del comandante dell’ISAF, il generale britannico David Richards, e del generale USA Karl Eikenberry, che aveva il comando delle forze della coalizione internazionale. • Afghanistan. 5 ottobre. Il generale britannico David Richards, comandante della NATO in Afghanistan, passerà a febbraio il testimone ad un alto ufficiale statunitense e quindi il comando della NATO/ISAF sarà inserito, insieme a quello di Enduring Freedom, direttamente nella catena di comando del Pentagono. Nel 2003 la NATO si è fatta carico della sicurezza a Kabul e nelle zone meno conflittive del nord e dell’ovest. L’Alleanza ha assunto il comando delle operazioni nel sud, bastione talebano, alla fine di luglio ed ora si estende all’est, zona di frontiera con le aree tribali pastun del Pakistan dove, insieme alla crescente presenza militare talebana, agiscono capi tribali pastun e contrari all’occupazione come Gulbudin Hemkatyar. L’accelerazione verso questa fase di ISAF è stata voluta dagli USA con l’intento di dare una scossa agli alleati NATO e coinvolgerli più decisamente in combattimento. Ciò nonostante, rilevano non pochi osservatori, la situazione in Afghanistan resta precaria e potrebbe precipitare nel giro di pochi mesi se non di settimane. • Afghanistan / Canada. 5 ottobre. Ad Ottawa cresce l’opposizione alla guerra. Il 59% dei canadesi, stando a un sondaggio della Decima research, pensa che i militari di Ottawa stanno morendo in una battaglia che non potrà mai essere vinta. I risultati del sondaggio sono arrivati a poco più di una settimana dalla visita in Canada del presidente afgano Hamid Karzai. Proprio ieri altri due soldati canadesi sono morti e cinque sono rimasti feriti, colpiti dalla guerriglia nella provincia di Kandahar. Sale così a 39 il numero di militari di Ottawa caduti dall’inizio dell’invasione del paese da parte delle truppe USA, alla fine del 2001. • Afghanistan. 5 ottobre. «80mila profughi in più». La denuncia è dell’ONU. I combattimenti degli ultimi mesi tra le truppe dell’ISAF –la forza a guida NATO con dentro anche soldati italiani– e guerriglieri afgani hanno prodotto tra gli 80-90mila profughi interni. La notizia è stata data ieri dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. I «nuovi» rifugiati vanno ad aggiungersi ai 116mila profughi creati dalle guerre precedenti. 13 • Italia / Argentina. 6 ottobre. Il governo italiano collaborò con i torturatori argentini. Ieri, nell’aula bunker di Rebibbia, prima udienza dibattimentale contro Alfredo Astiz e altri 4 militari argentini accusati di aver sequestrato, torturato e assassinato, durante la dittatura militare, cittadini italo-argentini. Testimoni del giorno Italo Moretti ed Enrico Calamai, rispettivamente giornalista Rai ed ex console italiano in Argentina durante il golpe. Si parla di corresponsabilità del governo italiano, si fa il nome di Gelli, impegnato a mettere in contatto la giunta militare con imprese pubbliche e private in Italia. Calamai ricorda il gran numero di giovani e madri che passarono per il consolato dopo essere stati cacciati dall’ambasciata d’Italia a Buenos Aires. Ambasciata informata dell’imminente golpe, al punto da dotarsi, preventivamente, di doppie porte antisfondamento per evitare l’occupazione di cittadini italo-argentini che cercavano scampo dalla repressione, come era avvenuto qualche anno prima nell’ambasciata italiana in Cile. • Egitto. 6 ottobre. Il Cairo ha progetti nucleari. Utilizzando gli stessi argomenti dell’Iran («uso pacifico dell’energia nucleare»), ma senza trovare da parte dell’Occidente nessuna opposizione, l’Egitto ha confermato che intende costruire centrali nucleari, dopo aver sospeso da oltre due decenni questo tipo di progetti. L’annuncio, in tal senso, è del ministro dell’Elettricità, Hasan Yunes, in un’intervista ieri al settimanale governativo Al Musauar. Yunes ha dichiarato che «abbiamo già concluso gli studi preliminari per l’opzione nucleare». Ieri l’ambasciatore USA al Cairo, Francis Ricciardone, citato dall’agenzia ufficiale Mena, ha detto che prossimamente arriveranno in Egitto esperti statunitensi per assistere i tecnici egiziani. L’Egitto ha firmato nel 1968 il Trattato di Non Proliferazione nucleare. • Egitto. 6 ottobre. Perché l’Egitto, nel pieno della crisi USA-Iran sul nucleare, rilancia proprio ora i suoi programmi per la produzione di energia atomica? In minima parte ci sono ragioni economiche: con la richiesta di energia in continuo aumento, il governo potrebbe contribuire a coprire una parte del fabbisogno e diminuire la dipendenza dal petrolio. E poi esportare, incassando valuta pregiata, buona parte del greggio, che oggi è a disposizione del consumo interno ad un prezzo minimo per non incidere sul basso reddito della popolazione. • Egitto. 6 ottobre. Principali sono le ragioni geopolitiche e fortemente sponsorizzate da Washington. «La questione Iran è alla base di questa mossa dei Mubarak», sostiene l’analista egiziano Hani Shukrallah, ex direttore del settimanale Al-Ahram. «Il Medio Oriente sta affrontando una crisi molto grave e il pericolo di una nuova guerra è reale, se si tiene conto della politica della “guerra preventiva” portata avanti dell’attuale Amministrazione USA con i risultati disastrosi che sappiamo. Dobbiamo perciò considerare l’enorme prestigio di cui ora gode l’Iran tra le masse arabe, egiziani compresi, per la sua fermezza contro Stati Uniti e la sua determinazione nel voler continuare il programma nucleare. Senza dimenticare i recenti successi militari di Hezbollah, alleato di Teheran, contro Israele». Il regime egiziano, secondo Shukrallah, ha rilanciato il suo programma nucleare anche allo scopo di contenere la popolarità del presidente iraniano Ahmadinejad, scendendo proprio sul suo terreno: il possesso della tecnologia atomica. Il quotidiano Wafd, organo ufficiale dell’omonimo partito, con un’intervista al professor Hamed Rushdi, ex capo del Comitato nazionale per l’energia atomica, è arrivato a ipotizzare un piano USA-Egitto volto ad aprire la strada ad un attacco militare statunitense alle centrali iraniane. Secondo Rushdi, l’obiettivo è quello di dimostrare che il programma iraniano sta provocando una corsa al nucleare in tutto il Medio Oriente ma anche che gli USA non sono contrari alla produzione di energia atomica da parte di un paese arabo-islamico e che pertanto la crisi in atto è dovuta solo alle «intenzioni segrete di Teheran». In ogni caso il programma nucleare egiziano è destinato a rimanere per anni solo un dibattito. Secondo Rushdi, infatti, scienziati 14 e tecnici nucleari egiziani da oltre venti anni lavorano all’estero e le università in tutto questo tempo hanno puntato su settori diversi. Serviranno perciò almeno altri 10-15 anni per realizzare i propositi nucleari. • Unione Europea / USA. 7 ottobre. La UE consentirà l’accesso alle agenzie d’intelligence USA di 34 dati personali dei circa 40 milioni di persone (calcoli dell’Associazione Internazionale del Trasporto Aereo) che viaggiano, ogni anno, alla volta degli Stati Uniti. Si tratta di agenzie che hanno competenza in materia «antiterrorista». L’accordo è stato raggiunto ieri. Bruxelles, reticente finora a consegnare questi dati (numero di telefono, elenco viaggi effettuati, destinazione, prenotazione, cambio di prenotazione, se si tratta di andata o di andata/ritorno, agenzia o agente di viaggio che ha fatto da tramite per il biglietto, forma di pagamento, se con carta di credito ed in caso il numero di questa, indirizzo di posta elettronica, eccetera), perché vìolano le leggi europee di protezione dei dati, si è piegata ancora una volta alle pressioni di Washington. In cambio l’Unione Europea (UE) ha chiesto un «adeguato livello di protezione (!!!, ndr)» di questi dati. Washington, però, ha fatto sapere che si riservano la possibilità di condividere i dati con paesi terzi «quando sia necessario», ha riferito Jonathan Faull, uno dei principali negoziatori europei dell’accordo. Disposizioni legali annesse al testo autorizzano comunque ad aggiungere ulteriori e sempre più personali dati «se sono necessari». Già le autorità doganali e di frontiera statunitensi escludono, dalla lista degli ingressi, possibili «terroristi» sulla base di dati «sensibili», come l’origine etnica, opinioni politiche, credenze religiose, affiliazioni sindacali, tendenze sessuali o dati sanitari. A partire da fine anno, poi, cambieranno anche le modalità d’accesso ai dati. Prima l’amministrazione statunitense entrava nelle banche dati delle compagnie aeree, ora saranno queste a consegnare direttamente i dati. E già si apre un più invasivo fronte di intervento: sinora i dati potevano essere conservati per un massimo di tre anni e mezzo, ma Washington già sostiene che vecchie informazioni «possono essere cruciali» per identificare legami tra possibili «terroristi». • Palestina. 7 ottobre. Abu Mazen scioglierà il parlamento e convocherà elezioni politiche anticipate se non ci sarà accordo con Hamas sulla formazione di un governo di unità nazionale. Lo ha affermato oggi, ai cronisti a Ramallah, Azzad Ahmad, capogruppo parlamentare di Fatah, il partito del presidente Abu Mazen. Hamas afferma invece che la costituzione conferisce al presidente il potere di sciogliere il governo ma non il parlamento e di convocare elezioni politiche anticipate. La legge fondamentale palestinese, che istituisce un regime presidenziale nei Territori, non è esplicita al riguardo. Mercoledì Abu Mazen ha dettato condizioni e lanciato un ultimatum ad Hamas, affermando che se entro due settimane non sarà stato trovato un accordo sulla formazione di un nuovo governo che accetti i criteri della comunità internazionale farà uso delle proprie prerogative costituzionali. Diversi dirigenti del Fatah premono sul presidente perché sciolga il governo di Hamas, ne formi uno d’emergenza e convochi elezioni politiche anticipate. Secondo alcuni analisti questa mossa potrebbe però provocare la rivolta delle milizie di Hamas e creare una situazione di forte rischio di guerra civile nei Territori. • Israele. 7 ottobre. I coloni sionisti hanno sostenuto ed approfittato dell’aggressione al Libano per appropriarsi di ulteriore terra palestinese. In Cisgiordania i coloni hanno ampliato 31 «posti di frontiera» negli ultimi mesi, secondo una relazione pubblicata ieri ed elaborata dalla ONG “Paz Ahora”. Secondo l’organismo il governo israeliano ne è al corrente e, nonostante lamentele di facciata, incoraggia questa politica. L’esecutivo Olmert ha tra l’altro offerto alloggiamenti per 952 unità familiari nelle colonie della Cisgiordania fino all’agosto scorso, mentre l’anno scorso erano stati 235. 15 • Libano. 7 ottobre. Proseguono le violazioni di Israele tanto che il primo ministro libanese filo-USA, Fouad Siniora, ha chiesto a Kofi Annan di esercitare «pressioni su Israele» per far cessare i sorvoli aerei sul Libano. Durante una conversazione telefonica con il segretario generale dell’ONU, Siniora ha sollecitato la fine di tutte «le violazioni ai danni della terra, del cielo e del mare libanesi», sottolineando la «necessità della fine dell’occupazione a opera di Israele di parte del villaggio di confine di Ghajar», per poter giungere a un accordo di cessate il fuoco. • Russia / Cecenia. 7 ottobre. La giornalista russa, Anna Politkovskaya, nota per i suoi reportage molto critici nei confronti della guerra in Cecenia e dell’amministrazione del presidente Vladimir Putin, è stata assassinata nella sua abitazione a Mosca. Lo ha reso noto l’agenzia di stampa Interfax. Anna Politkovskaya aveva raggiunto la notorietà internazionale nell’ottobre del 2002 quando, insieme al corrispondente del Sunday Times, era entrata nel teatro Dubrovska di Mosca convincendo il gruppo militare ceceno a liberare alcuni ostaggi in cambio di acqua e viveri. I ceceni la conoscevano già, tanto è vero che l’avevano inserita nell’elenco delle persone con cui erano disposti a trattare. • Russia / Cecenia. 7 ottobre. La giornalista della Novaya Gazeta aveva condotto approfondite inchieste sulla violazione dei diritti umani nel conflitto ceceno, inchieste poi raccolte in un libro dall’eloquente titolo “Cecenia disonore russo”, pubblicato in Italia da Fandango. La Politkovskaya non aveva fatto sconti a nessuno. Aveva denunciato il sistema di corruzione ed il regime di terrore con cui soprattutto l’esercito russo martoria la popolazione civile a colpi di estorsioni, stupri, campi di concentramento, torture ed esecuzioni sommarie. Reportage ricchi e documentati che le sono valsi un premio giornalistico all’estero, due arresti in patria ed un tentato avvelenamento che ha tenuto la scomoda giornalista lontana dagli eventi di Beslan. Le sue inchieste hanno recato fastidio al regime russo, insinuando ad esempio seri dubbi sulla tesi del coinvolgimento del «terrorismo islamico in Cecenia» enfatizzata da Putin per giustificare la repressione e concentrandosi sul ruolo dei militari di Mosca nell’alimentare il conflitto e nello spingere molti civili ad abbracciare la resistenza per vendicarsi delle torture e delle morti di familiari ed amici. • Russia / Georgia. 7 ottobre. Non si allenta la crisi diplomatica tra Russia e Tbilisi dopo che, la scorsa settimana, la Georgia ha arrestato, ed in seguito rilasciato, quattro ufficiali russi accusati di spionaggio militare. Circa 200 georgiani sono stati imbarcati su un volo speciale a Mosca dopo che le autorità russe ne hanno decretato espulsione e rimpatrio immediato in Georgia, in base alle leggi sull’immigrazione. Sempre oggi la polizia moscovita ha chiesto a tutti gli istituti scolastici della capitale russa la lista degli allievi di nazionalità georgiana, per individuare altri immigrati clandestini provenienti dal paese caucasico. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha detto che la Russia privilegia la «via diplomatica» per risolvere la controversia con la Georgia e, dopo aver accusato di nuovo Tbilisi di mettere in atto una «politica anti-russa», ha aggiunto sibillinamente: «Tbilisi sa che è necessario che le nostre relazioni riprendano un corso normale». • USA. 7 ottobre. La lista nera contro il “terrorismo” approntata dall’amministrazione USA è zeppa di errori. È quanto si afferma in un rapporto, risalente al mese scorso ma reso noto solo oggi, redatto dall’Ufficio di Supervisione del governo di Washington. Secondo il documento, sono ormai oltre 30mila coloro che hanno chiesto all’agenzia per la Sicurezza nei Trasporti USA di essere depennati, dopo aver avuto problemi nell’attraversare le frontiere, nel prendere voli di linea o essere stati fermati per mere violazioni delle norme in materia stradale. Tra questi c’è il senatore democratico Edward Kennedy, che a metà 16 dell’anno subì un pur lieve ritardo nel partire in aereo poiché il suo nominativo figurava sulla lista dei presunti terroristi. Quest’ultima è stata stilata dal Servizio Doganale e di Vigilanza alle Frontiere di concerto con il Dipartimento di Stato, anche sulla base dei contributi forniti dagli organi di polizia statali e locali • Messico. 7 ottobre. Marcos convoca due incontri internazionali «dei popoli zapatisti con i popoli del mondo». Il primo dal 30 dicembre 2006 al 2 gennaio del 2007, nella località di Oventic; il secondo dal 21 al 31 di luglio del 2007 nei cinque «caracoles» della zona zapatista del Chiapas. Il primo incontro è a cavallo del Capodanno, il dodicesimo dalla sollevazione zapatista. Si tratta della prima iniziativa dopo il viaggio negli Stati del Messico seguito alla campagna elettorale messicana, vinta (con brogli) dal conservatore Calderon, campagna elettorale da cui il Subcomandante si era chiamato fuori, organizzando la sua «Otra campana». • Paraguay. 8 ottobre. Gli Stati Uniti sospenderanno le operazioni di assistenza medica alla popolazione rurale effettuate fino a una settimana fa. Lo ha comunicato l’ambasciatore USA, James Cason. È la ritorsione di Washington dopo la decisione del presidente Nicanor Duarte di revocare –a partire dall’anno prossimo– la totale immunità ai militari USA di stanza nel paese. Nel 2005 il governo di Asunción aveva concesso l’immunità ai 400 militari statunitensi entrati in Paraguay per compiervi esercitazioni, addestramento e “missioni umanitarie”. • Venezuela. 9 ottobre. Imponente manifestazione a Caracas dei sostenitori del presidente venezuelano, Hugo Chávez, per la sua rielezione come Capo dello Stato. Ne parla l’edizione italiana di Granma. Chávez propone per il prossimo mandato l’ampliamento dei suoi programmi sociali, includendo i servizi di salute e d’educazione gratuiti, e l’approfondimento del carattere socialista dei cambiamenti avviati con la sua presidenza nel 1999. Rosales, candidato unitario dell’opposizione, offre un avvicinamento agli Stati Uniti e la ripartizione di parte dei redditi derivati dal petrolio con una carta di credito. Il Capo dello Stato, che accusa gli oppositori d’essere candidati dell’impero USA, ha dichiarato che l’alternativa che si presenta a 16 milioni di venezuelani è tra socialismo e capitalismo. Ha aggiunto che solo il socialismo potrà eliminare i mali della società venezuelana, come disoccupazione e miseria, e garantire case, salute, educazione ai 26 milioni di abitanti del paese. Al momento Chávez è in testa in tutti i sondaggi per le elezioni del prossimo 3 dicembre, con più del 50% delle intenzioni di voto. Rosales tocca appena il 17% e gli altri candidati raggiungono cifre minime. • Somalia. 10 ottobre. «Truppe etiopiche hanno invaso il territorio somalo», accusano le Corti islamiche che ieri hanno proclamato la jihad, guerra santa, contro l’Etiopia. Addis Abeba nega qualsiasi coinvolgimento di propri militari nel conflitto che oppone le Corti al Governo Nazionale di Transizione (TNG) con sede a Baidoa. Testimoni oculari, citati da agenzie internazionali, hanno però testimoniato che i militari governativi che ieri mattina hanno occupato, senza colpo ferire, la cittadina di Burahakaba, importante centro di comunicazione che i miliziani islamici (allontanatisi senza combattere) avevano preso a giugno, erano appoggiati da contingenti etiopici «dotati di armamento pesante». È il primo contrattacco delle truppe governative dopo l’espansione degli islamici; ma è anche il primo intervento indiscutibile dell’Etiopia in Somalia. Burahakaba è a 60 km a sud est di Baidoa, dove provvisoriamente risiedono le istituzioni del TNG, internazionalmente riconosciute, ma molto deboli sul territorio. Ed è un centro importante per il controllo della strada che da Baidoa porta a Mogadiscio, 245 km a sud est. La notizia è confermata sia dal TNG che dalle Corti. 17 • Libano / Danimarca. 10 ottobre. Di nuovo offese all’Islam. Una emittente televisiva pubblica danese ha trasmesso oggi un filmato sul concorso indetto nei giorni scorsi dai giovani attivisti del Partito Popolare danese, di estrema destra e anti immigrati, per ridicolizzare il Profeta dell’Islam, Maometto, raffigurandolo nel modo «più avvilente». In seguito anche altre due emittenti televisive danesi hanno trasmesso immagini dello stesso filmato, dove si vede Maometto ora rappresentato come un cammello che beve birra, ora nelle fattezze di un cammello che urina, ora come un terrorista ubriaco che bombarda Copenaghen. Proteste del movimento libanese Hezbollah che ha sollecitato la stessa Danimarca e l’Europa ad impedire che si ripetano episodi del genere e a punire coloro che ne sono responsabili. In un comunicato, Hezbollah sostiene che quelle immagini «offendono e insultano un miliardo di musulmani nel mondo» e che «c’è un ben preparato schema per offendere l’Islam e i musulmani attraverso la perpetrazione di vergognosi atti del genere, trasmettendoli e difendendoli in nome della ‘libertà di parola’». Atti di questo tipo, secondo il movimento di resistenza libanese, «suscitano grappoli di odio tra le popolazioni». • Georgia. 10 ottobre. A cinque giorni dal voto amministrativo si ignora ancora l’esito. Fonti governative attribuiscono al partito del presidente Mikhail Saakashvili tra il 58 e il 77% nelle diverse province, con una bassissima affluenza alle urne (al di sotto del 35%), segno del malessere crescente, per le condizioni economiche, seguito alla cosiddetta rivoluzione delle rose del novembre 2003. Da quando nel gennaio 2005 Mikhail Saakashvili è stato eletto presidente, la Georgia si è rivolta con sempre maggiore insistenza verso l’Occidente. Una delle ultime mosse è stata la richiesta di «dialogo intensificato» a premessa dell’accesso a pieno titolo nella NATO. • Georgia. 10 ottobre. Per vincere con tranquillità il presidente Saakashvili ha giocato due carte. La prima è stata l’anticipo di un mese delle elezioni, annunciato 38 giorni fa, che ha reso più complicata la campagna dell’opposizione e meno efficace il monitoraggio internazionale (OSCE e UE hanno potuto inviare poche decine di osservatori e solo negli ultimi giorni, mentre per tutto settembre la tv ha fatto strame delle regole democratiche –tipo «par condicio», per intendersi– dedicando massicce campagne promozionali agli uomini pro-regime, come il sindaco di Tbilisi Gigi Ugulava). La seconda carta è stata la sfida a Mosca, avviata con la richiesta di entrare nella NATO e arrivata al climax con l’arresto e la condanna per «spionaggio» di alcuni militari russi di stanza a Tbilisi. I russi sono stati quasi subito restituiti a Mosca, ma la reazione del Cremlino è stata –come previsto– così violenta da regalare a Saakashvili un’aura di «eroe nazionale», di Davide che osa sfidare Golia, con sicuro impatto emotivo su una popolazione sensibile ai temi nazionalisti. • Georgia / Russia. 10 ottobre. La reazione del Cremlino non accenna a placarsi. La furia di Putin sta andando al di là del previsto, e le possibili ripercussioni di questa sfida sulla gente comune georgiana cominciano ad apparire così severe da essere controproducenti ai fini del consenso interno perseguito da Saakashvili. La Russia ha infatti messo in campo un blocco totale delle comunicazioni aeree, terrestri e navali con il suo vicino del sud; ha fermato il traffico postale e quello di merci; ha smesso di concedere visti d’ingresso ai georgiani, dimezzando la validità di quelli già in essere; ha vietato i trasferimenti di denaro via banca verso la Georgia; ha iniziato una campagna di «ripulitura», così l’ha definita, tra gli emigrati georgiani sul suolo russo, chiudendo molti locali con vari pretesti ed arrestando centinaia di persone con documenti irregolari. Ora, in Russia vivono e lavorano circa un milione di georgiani; le loro rimesse a casa costituiscono, secondo alcuni, un quinto del Pil. Le misure messe in atto da Mosca equivalgono a uno strangolamento brutale dell’economia ed ancora non si parla della leva più pesante in mano ai russi, cioè il controllo pressoché totale sui 18 flussi di energia (gas ed elettricità) utilizzati dal paese caucasico. Se la Russia dovesse mettere in atto un blocco anche di questi flussi, per Tbilisi la situazione diventerebbe insostenibile; l’unica garanzia per i georgiani è data dal fatto che un blocco del genere si ripercuoterebbe con pari gravità sull’Armenia, che invece è una fedele alleata di Mosca nella regione. Sull’energia la posizione della Georgia è in bilico tra il vantaggio di ospitare una tratta dell’oleodotto della British Petroleum dal mar Caspio al mar Nero e la schiavitù dell’energia elettrica fornita dalla Russia. • Georgia / Russia. 10 ottobre. Tbilisi impedisce l’atterraggio di georgiani espulsi dalla Russia. Il presidente georgiano, Mijail Saakhasvili, lo ha ordinato ieri alle autorità aeroportuali. Mosca ha rimandato indietro in Georgia, con un aereo di linea, circa 150 immigrati senza documenti. La misura si inscrive nel clima di tensione tra Tbilisi e Mosca di questi giorni. • Georgia / Russia. 10 ottobre. C’è anche il nodo delle «regioni separatiste» (Abkazia e sull’Ossezia del sud), che intendono separarsi dalla Georgia e le cui tendenze sarebbero fomentate da Mosca. Proprio l’Unione Europea e gli USA, che vorrebbero disperatamente appoggiare Saakashvili, rischiano di dargli un colpo mortale lasciando che il Kosovo vada verso l’indipendenza dalla Serbia, evento che non solo Mosca ma anche l’ONU e lo stesso “ministro degli esteri” europeo Javier Solana vedono come un precedente tale da autorizzare inevitabilmente un analogo percorso per Abkhazia e Sud Ossezia. La Georgia è considerata dagli USA un avamposto dell’Occidente nel Caucaso, un punto di forza per quella politica imperiale di «Grande Medio Oriente allargato» proclamata nel 2004 da George W. Bush ed oggi sempre più alle corde. • Pakistan. 10 ottobre. Da Musharraf per fermare i taliban. David Richards, comandante NATO in Afghanistan, è da ieri a Islamabad per colloqui con il presidente pakistano Musharraf. I due s’incontreranno oggi, dopo che nei giorni scorsi erano filtrati documenti d’intelligence secondo cui i servizi pakistani (ISI) stanno appoggiando la recrudescenza della guerriglia talebana nel confinante Afghanistan. • Cina / Corea del Nord. 10 ottobre. Un gesto «sfacciato». Così Pechino ha condannato il test nucleare di Pyongyang. Il lessico è rivelatore dello scacco della diplomazia cinese nel proprio cortile di casa, diplomazia che pure non sta sbagliando una mossa in nessuno scacchiere del pianeta. Da sempre Pechino respinge la politica delle sanzioni dure contro il regime coreano, privilegiando diplomazia e dialogo. Nel 2003, però, l’interruzione per tre giorni dei rifornimenti di petrolio cinese alla Corea del nord (diplomaticamente giustificati con la manutenzione degli oleodotti) piegò Pyongyang a maggiori concessioni riguardo i negoziati a sei sul nucleare. Chi fornisce il 70% degli aiuti in combustibile e alimentari tiene per il collo il paese che li riceve. Eppure la Cina a casa propria ha ristrettissimi margini di manovra e sulla penisola coreana solo due opzioni. Se chiude gli occhi davanti al nucleare nord coreano vedrà crescere intorno a sé potenze nucleari, Corea del sud e Giappone, assai meno malleabili dell’immiserito regno di Kim Jong Il. Se si unirà al pugno duro e alle sanzioni a oltranza, rischia di vedersi cadere addosso i pezzi di un regime che verrebbe sostituito da uno Stato per nulla amico. E non sarebbe l’unica conseguenza. Un dilemma che per ora Pechino sta scegliendo di risolvere prendendo tempo e limitando al massimo l’effetto delle sanzioni, senza osteggiarle apertamente. A Pechino c’è chi ha la consapevolezza sgradevole che, al dunque, la dirigenza nordcoreana, alla peggio, potrebbe voler discutere direttamente con gli Stati Uniti la propria resa, in termini di patti di non aggressione e di aiuti. Intanto, visto come sono andate le cose con l’Iraq, a Pyongyang 19 hanno fatto evidentemente questo ragionamento: è meglio avere le armi nucleari che non averle ma essere accusati di possederle e poi essere attaccati. • USA / Cuba. 10 ottobre. Gli investigatori cubani Manuel Hevia ed Andres Zaldivar hanno sottolineato la responsabilità della CIA nell’esplosione avvenuta nel cielo di Barbados nell’ottobre 1976 di un aereo di linea cubano (73 morti). Lo riferisce il sito Granma International. Luis Posada Carriles, il terrorista anticastrista responsabile dell’attentato, aveva avvertito un funzionario della CIA prima di portare a termine l’attentato. Risulta da un documento ufficiale desecretato a Washington. Altri documenti della CIA recentemente resi pubblici mostrano l’aperta complicità dell’amministrazione USA nell’omicidio dell’ex ministro della Difesa di Salvador Allende, Orlando Letelier. Questi morì a Washington (insieme alla sua assistente statunitense) per l’esplosione di una bomba collocata sulla sua auto. In un cablogramma della CIA vengono riportate le dichiarazioni di Posada Carriles, che – riferendosi al delitto – loda la «bella figura» fatta dall’organizzazione (la CIA). Il terrorista, la cui estradizione è richiesta dal Venezuela, rimane per ora negli Stati Uniti, dove è accusato solo di ingresso illegale e violazione delle leggi sull’immigrazione. Ha ammesso la sua responsabilità in un libro di memorie, dove spiega che gli elementi d’interesse della CIA erano i gruppi di sinistra, militari, politici e settori della popolazione infiltrati dalla CIA. • Italia. 11 ottobre. Washington preme su Roma perché investa maggiormente nella Difesa. «L’Italia e gli Stati Uniti hanno sempre compreso la indispensabilità della NATO e i valori condivisi sono il cuore dei legami transatlantici tra Stati Uniti, Italia e altri alleati europei» ma con le spese per «la difesa che scendono ben al di sotto dell’1% del Pil, per l’Italia sarà sempre più dura mantenere il suo ruolo centrale nell’Alleanza sia in termini di missioni sia di influenza strategica». Lo ha detto l’ambasciatore statunitense Ronald Spogli parlando al convegno internazionale del NATO Defence College sul tema “Nuove prerogative della NATO nel XXI secolo”. Spogli ha sottolineato che «i segretari generali della NATO Robertson e Scheffer, e recentemente l’Agenzia europea di difesa hanno espresso preoccupazione per la diminuzione dei bilanci della difesa in molti paesi alleati. Sfortunatamente l’Italia è il primo membro di questo gruppo». • Germania / Unione Europea. c a n c e l l i e r e M e r k e l h a s p r o p r i a d e t f a r u s c i r e d n u o v a e u r o p e a . M u t i l i z z a r e d i t u r n o d e G e r m a n i a a v m e t à d e l a f f r o n t a r e «A b b i a m o t r a t t a t o p r i m a d e l e l e z i o n i e u r e p e r q u e s i m p e g n a r c i », M e r k e l a l t 11 ottobre. A volte ritornano. t e d e s c o A n g e o t t o l i n e a t o e r m i n a z i o n e a l l ’ i m p a s s e C o s t i t u z i o e r k e l i n t e n l a p r e s i d e n l l a U E c h e r à n e l l a p r i 2 0 0 7 p l a q u e s t i o n b i s o g n o d c o s t i t u z i o n a l e p r o s s i o p e e d e l 2 0 0 t o i n t e n d i a h a d e t e r m i n e d i u I l l a l a a l a n e d e z a l a m a e r e . e l l e m e 9 , m o t o n a 20 s e d u t a G r a n d e K o a l i t i d e l g o v e r n C o a l i z i o n e o n ) . o ( G d e l l a r o s s e • Israele / Corea del Nord / Iran. 11 ottobre. Il nucleare nordcoreano? Bisogna attaccare l’Iran. Per Israele la tecnologia nucleare nordcoreana verrà passata all’Iran. E allora bisogna attaccare subito Teheran. Dopo aver appreso la notizia dell’esperimento nucleare nordcoreano, Tel Aviv (che possiede centinaia di bombe atomiche ma rifiuta che il suo nucleare sia monitorato dall’AIEA) ha scatenato una campagna di pubbliche relazioni. L’ambasciatore di Tel Aviv negli Stati Uniti ha lanciato l’allarme da Washington: «Ora che la Corea del nord ha dimostrato le proprie capacità nucleari, potrà collaborare con l’Iran», ha dichiarato Danny Ayalon. Tutti i quotidiani israeliani ieri hanno evidenziato, come ad esempio ha scritto Ha’aretz citando una fonte anonima del governo Olmert, che «il test nordcoreano può accelerare il programma nucleare di Teheran, sulla base dell’assunto che uno Stato con armi nucleari è immune da attacchi contro le sue installazioni nucleari». Dunque, chiede la stampa israeliana, Teheran va fermata prima che sia troppo tardi. Resta un ultimo ostacolo per punire il principale nemico di Israele in Medio Oriente: la Russia, che con Teheran coopera sul nucleare, oltre ad avere un importante interscambio economico. La prossima settimana il premier Olmert volerà a Mosca dove incontrerà il presidente russo Vladimir Putin. L’obiettivo è convincerlo che è arrivata l’ora di Teheran. • Iraq. 11 ottobre. L’Iraq sarà diviso in tre entità. Passa in parlamento una controversa legge per trasformare il paese in una struttura federale che concede agli sciiti a sud e ai sunniti al centro un’ampia autonomia regionale simile a quella di cui godono i curdi a nord. Il principale partito sunnita ha boicottato il voto. I deputati presenti –140 su 275– hanno votato il progetto, approvandolo a maggioranza. I parlamentari che si oppongono al disegno federale come previsto nella nuova legge hanno boicottato la seduta. Si tratta in particolare di molti deputati sunniti, di quelli che fanno riferimento al giovane esponente radicale sciita Moqtada al Sadr, di alcuni componenti sciiti della maggioranza di governo che fanno capo al partito Fadila e alcuni deputati della lista dell’ex premier sciita Iyad Allawi. Una clausola del testo approvato oggi prevede comunque che essa non entri in vigore prima di 18 mesi, per consentire una revisione della Costituzione. • Iraq. 11 ottobre. La decisione di dare una svolta federalista all’Iraq è targata USA. Ci stanno lavorando in segreto almeno dallo scorso marzo. Quando si dice “in segreto” significa che i sessanta membri della Commissione di Studio sull’Iraq hanno avuto il divieto di parlare alla stampa perfino per dire dove e quando si riuniscono. L’unico che abbia parlato finora è stato il capo della Commissione, che è venuto allo scoperto circa una settimana fa. L’ex segretario di Stato James Baker è intervenuto in tv comunicando il piano della Commissione per cercare di risolvere l’impantanamento in Iraq: dividere il Paese in tre regioni semi-indipendenti. L’idea, che peraltro era stata già ventilata nei mesi scorsi da politici del partito d’opposizione nonché dallo storico Peter Galbraith nel libro The End of Iraq, doveva essere presentata dopo le elezioni di novembre, ma il continuo peggiorare della guerra, nonché il calo continuo di popolarità del presidente hanno convinto Baker a buttare in piazza le linee di massima del suo programma. Inizialmente George Bush aveva resistito alla creazione della Commissione. Ma a giugno si è rassegnato a incontrarsi con i suoi membri, alcuni dei quali sono fedelissimi del padre, l’ex presidente George Bush senior. Alcuni analisti pensano anzi che la vera mente dietro la nascita di questa Commissione sia proprio lui, Bush senior. E il fatto che a dirigerla sia stato chiamato Baker, amico fidatissimo della famiglia, farebbe pensare che il padre stia cercando di aiutare il figlio a uscire dal pantano iracheno. 21 • Iraq. 11 ottobre. Baker e i suoi esperti suggeriscono di trasformare l’antica Mesopotamia in una federazione di tre regioni semi-indipendenti. La regione curda al nord, quella sunnita al centro e quella sciita al sud. La soluzione ha però scatenato immediate critiche, anche perché non si capisce che cosa avverrebbe di città come Kirkuk, Mosul e Bagdad, che sono multietniche e sarebbe quasi impossibile dividerle secondo quelle linee. Poi c’è il fatto che i curdi avrebbero il 60% del petrolio, gli sciiti il 40% e i sunniti nulla. Baker propone come soluzione che i profitti del petrolio, così come la difesa nazionale, vengano gestiti da un governo centrale, che avrebbe pochi altri compiti. L’ex segretario di Stato suggerisce anche la convocazione di una conferenza internazionale ai massimi livelli, tipo quella che si tenne nel 1995 a Dayton (Ohio) per risolvere la questione della Bosnia. La conferenza dovrebbe servire soprattutto per ottenere da Siria e Iran l’impegno a non intervenire sul nascente Stato federale iracheno. A questo proposito, Baker sta per recarsi in Iran, primo vip USA a visitare Teheran, con tanto di permesso di George Bush, da almeno cinque anni. • Iraq. 11 ottobre. The Lancet stima in 655mila gli iracheni finora morti a causa dell’invasione del marzo 2003. L’autorevole rivista medica britannica pubblico oggi sul suo sito elettronico questo suo studio statistico. Il totale di morti equivale al 2,5% di tutta la popolazione del paese. Lo studio è stato realizzato con un metodo di inchiesta patrocinato dalla Università Johns Hokpins (USA). • Iran. 11 ottobre. «Le grandi potenze comincino il disarmo nucleare da loro stesse». Lo ha detto il portavoce del governo iraniano, Gholamhossein Elham, ribadendo che il suo Paese è contrario alle armi nucleari, ma rifiutando di condannare il test atomico nordcoreano di lunedì. «La Repubblica islamica», ha proseguito Elham, «ha sempre dichiarato la sua opposizione alle armi nucleari e alla loro proliferazione. Se le grandi potenze sono serie a questo riguardo, anche l’Iran seguirà con tutti i mezzi il caso». Ma «il miglior modo di opporsi alle armi nucleari», ha aggiunto il portavoce del governo di Teheran, «è che le grandi potenze comincino il disarmo da se stesse». • Ucraina. 11 ottobre. I cinque ministri del governo legati alla vecchia «coalizione arancione» hanno presentato oggi le loro dimissioni. Ne dà notizia l’agenzia di stampa russa Interfax. A fare da detonatore alla crisi sono state le dichiarazioni di Viktor Yanukovich a settembre a Bruxelles, riguardo il fatto che il suo governo non avrebbe accelerato l’entrata dell’Ucraina nella NATO. Il presidente Viktor Yushenko, costretto a una scomoda coabitazione con un esponente della vecchia guardia filorussa, il premier Yanukovic, resta così il solo protagonista della “rivoluzione” del novembre 2004 in posizione di potere. Nei giorni scorsi, il gruppo parlamentare (80 i componenti) del partito filo-occidentale Nostra Ucraina del presidente Yushenko avevano ritirato l’appoggio al governo guidato dal premier filo-russo Viktor Yanukovich. Il presidente del parlamento, il socialista Alexander Moros, ha affermato che l’uscita di Nostra Ucraina dalla maggioranza non significa che è in atto una crisi di governo. «Credo che il presidente Yushenko ed io troveremo presto un accordo, facendo uno sforzo congiunto nei negoziati per formare una coalizione con Nostra Ucraina», ha detto il capo del governo Yanukovich. La decisione di Nostra Ucraina pone fine al breve periodo di unità che ha portato il filo-russo Yanukovich, massimo dirigente del Partito delle Regioni, prima forza del paese, alla carica di primo ministro, appoggiato da socialisti e comunisti, oltre appunto a Nuova Ucraina stessa. • USA / Iraq. 11 ottobre. Washington non ridurrà le truppe almeno fino al 2010. Lo ha detto ieri il generale in capo dello Stato maggiore dell’esercito, Peter J. Shoomaker. Attualmente gli Stati Uniti dispiegano nel paese circa 150mila soldati. L’anno scorso diversi ufficiali dell’esercito avevano caldeggiato la riduzione degli effettivi fino a 100mila entro fine anno. 22 L’aumento della violenza nel paese ha già rimesso tutto in discussione. • Irlanda del Nord. 12 ottobre. Il Sinn Féin esige il trasferimento del controllo della Polizia. Il presidente del Sinn Féin, Gerry Adams, è arrivato ieri in Scozia con una delegazione repubblicana di diciotto persone per partecipare alle intense negoziazioni della tre giorni. In conferenza stampa, alla vigilia degli incontri, Adams ha affermato che «i repubblicani vogliono una Polizia onesta e legittima ed una giustizia trasparente e responsabile», ma ha ribadito che l’appoggio repubblicano alla legge e all’ordine non si produrrà come risposta alle «richieste unioniste». Il trasferimento del controllo della Polizia all’Assemblea di Belfast culminerà nella trasformazione della Polizia da «braccio armato dello Stato» ad «un servizio per il popolo». Ciò nonostante, l’ultima parola dei repubblicani sarà detta in una riunione straordinaria della base che avallerà o meno tale decisione. • Palestina. 12 ottobre. Le «nuove armi» sperimentate sui palestinesi durante l’operazione militare israeliana “Pioggia d’estate” potrebbero avere un nome. Il nucleo di inchieste di Rainews24, recatosi a Gaza, ha individuato in un progetto USA di bombe a diametro ridotto combinate col Dime, il Dense inert metal explosive, la plausibile spiegazione delle misteriose ferite riscontrate. Nel luglio scorso, mentre l’attenzione mondiale era puntata sui bombardamenti in Libano, sulla Striscia di Gaza piovevano strani ordigni. Producono danni che i medici non capiscono. Analisi scientifiche indipendenti commissionate ai laboratori dell’Università di Parma da Rainews24 su frammenti e polveri fornite dai medici di Gaza hanno confermato la presenza di carbonfibra e tungsteno, i due elementi caratteristici del Dime. Il filmato dell’inchiesta è da oggi disponibile sul sito di Rainews24 (Gaza, ferite inspiegabili e nuove armi). • Palestina. 12 ottobre. Anwar Abu Houli ha 43 anni e per anni ha fatto il paramedico a Deir Al Balah, guidando le ambulanze durante le incursioni militari. La mattina del 19 luglio, mentre presta soccorso alle vittime di un’esplosione fra gli stretti vicoli di Mughazi Camp, dal cielo, probabilmente da un drone israeliano, viene sganciato un ordigno. Plana davanti a lui con un leggero sibilo, non fa rumore neanche quando tocca terra. All’improvviso la detonazione. Anwar si ritrova a terra, con una gamba tagliata all’altezza dello stinco, il corpo lacerato da microscopici tagli interni e da una polvere che sembra rimanergli sotto la pelle, ustionandolo. Durante il trasporto all’ospedale la polvere gli aggredisce la carne, coagula i vasi sanguigni, devitalizza i tessuti, come «invecchiandoli». I medici si ritrovano impotenti di fronte alla rapida necrosi e non possono che amputare, senza trovare alcuna scheggia che spieghi tagli e ustioni. Anwar Abu Houli è uno dei pochi sopravvissuti palestinesi colpiti dal Dense inert metal explosive (Dime). • Palestina. 12 ottobre. Si chiamano Small diameter bomb e Dense inert metal explosive (Dime). Piccole dimensioni, effetto circoscritto, usabili su zone abitate senza sollevare troppe proteste. In realtà sono più letali delle precedenti cluster bomb: frammenti cancerogeni, tagli e ferite che non si rimarginano. Tracce del suo uso in Afghanistan, Iraq, Territori occupati palestinesi, Libano. Il Dime è formato da una carica interna in lega di tungsteno (quello delle lampadine, tanto per capirne conduzione e reattività). Libera nell’aria una polvere incandescente che, cadendo sul proprio peso specifico, aggredisce l’obiettivo con una certa angolazione provocando innumerevoli tagli e ferite senza superare i 4 metri di gittata. Alla carica inerte viene combinato un involucro esterno in fibra di carbonio, più leggero ed economico del metallo, invisibile ai raggi x. Una volta esploso si polverizza in microparticelle invece che in schegge. Pur essendo capace di penetrare il cemento armato, la fibra di carbonio non offre eccessiva resistenza alla detonazione 23 dell’esplosivo contenuto, aumentandone di fatto l’efficacia, al punto che i primi prototipi hanno distrutto gli strumenti di misurazione dei laboratori militari. Un Dime sarebbe inoltre capace di seguire il proprio obiettivo mobile grazie alla propria leggerezza e ad un sistema di controllo Gps. Dunque: alta precisione, esplosione circoscritta, nessuna scheggia. • Palestina. 12 ottobre. Test finora intrapresi nei laboratori militari di Maryland avrebbero dimostrato, secondo il New Scientist del febbraio 2005, una mortalità del 100% sulle cavie: esposte ai frammenti di tungsteno, nel giro di 5 mesi sviluppavano tutte la stessa rara forma di cancro, il rabdosarcoma. Ma accantonando le ipotesi sulla tossicità del tungsteno, rimangono preoccupazioni più urgenti. Se quanto testato a Gaza era Dime, come sembra altamente probabile, gli effetti prodotti sembrano più gravi di quelli delle vecchie bombe in acciaio. Poche centinaia di schegge vengono sostituite da una lacerante nube di particelle incandescenti che penetrano, tagliano e ustionano le vittime fino alle ossa. Nel giro di pochi minuti provocano la necrosi di interi arti, infine si depositano all’interno del corpo senza possibilità di estrazione. Il tutto in uno scenario asimmetrico, nel quale da una parte c’è un essere umano, dall’altra una bomba sganciata da un drone pilotato a distanza, e dove aumenta il numero delle vittime invisibili: gli invalidi permanenti. Ottenere il massimo dei risultati e il minimo delle perdite, questo l’imperativo. E, viste le ridotte dimensioni delle Dime, le munizioni incamerabili da ogni velivolo si quadruplicano automaticamente. • Libano. 12 ottobre. Ricostruzione record targata Hezbollah. Lo scrive Michele Giorgio su il Manifesto di oggi. Gli islamisti guidano le «riparazioni» di Beirut. Grazie anche a Chávez. Striscioni a favore del leader venezuelano campeggiano sulle rovine della televisione degli Hezbollah. «Gracias Chávez, sei un grande leader arabo» afferma la scritta sotto un poster del presidente venezuelano all’ingresso di quella che un tempo era la sede della televisione Al-Manar di Hezbollah. Parole polemiche verso quei leader mediorientali che si sono rivelati meno «arabi» di Chávez nel sostenere il popolo libanese durante i 34 giorni di offensiva israeliana. Accanto all’alfiere della riscossa sudamericana contro l’imperialismo USA, non manca un ritratto enorme di Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah; molti milioni di arabi di tutte le fedi vedono in lui il simbolo della «resistenza» a Israele e USA. Il ritmo di lavoro è sostenuto. Dove appena qualche settimana fa c’erano colline di macerie e distruzioni, oggi ci sono cantieri e mezzi pesanti al lavoro per ridare una abitazione a migliaia di famiglie (25mila secondo cifre ufficiose) rimaste senza un tetto. • Libano. 12 ottobre. La casa dove viveva Nasrallah continua ad essere un cumulo di macerie, quasi a voler dire che qui non si fanno differenze e che ridare un tetto al leader non è prioritario. Non resta più nulla di ciò che un tempo erano l’ufficio e la residenza del sayyed Mohammad Fadlallah, ayatollah degli sciiti libanesi. Dall’altra parte della strada, a pochi metri di distanza, svetta ancora il campanile della chiesa greco-ortodossa che la domenica si riempie dei fedeli cristiani residenti ad Haret Hreik e Bir Al-Abed, le «roccaforti di Hezbollah», come amavano ripetere giornali e televisioni quasi a voler giustificare la devastante offensiva aerea israeliana. Qui invece vivevano e sono tornati a vivere semplici cittadini, operai, commercianti, insegnanti, libanesi di religioni diverse che in comune hanno una cosa: un reddito troppo basso per potersi permettere la vita scintillante del centro e dei quartieri ricchi di Beirut. Sventolano comunque tante bandiere gialle di Hezbollah ad Haret Hreik e Bir Al-Abed, anche per testimoniare l’impegno di Nasrallah nel mantenere le promesse. «Il sayyed (Nasrallah, ndr) ci ha detto che presto avremo una nuova casa e noi siamo certi che manterrà la parola», dice Hussein Kateb, un commerciante, sposato con tre figli, che ha perduto tutto durante i 34 giorni di guerra. «Abbiamo già ricevuto i soldi necessari per pagare l’affitto dell’appartamento dove ora viviamo e non possiamo certo lamentarci», aggiunge tra i cenni di approvazione dei presenti. 24 • Libano. 12 ottobre. La corsa contro il tempo di Hezbollah ha l’evidente obiettivo di dimostrare non solo la sua efficienza ed organizzazione ma anche la capacità di essere una «forza nazionale», al servizio di tutto il Paese e non solo dei musulmani sciiti. «Hezbollah ha consegnato a tutte le famiglie rimaste senza casa, comprese quelle cristiane e sunnite, un assegno di 12mila dollari che copre per un anno il costo dell’affitto di un appartamento e sta facendo tutto il possibile per costruire migliaia di case per gli sfollati. Abbiamo aperto centinaia di cantieri in tutto il paese», riferisce Ali Ashtan, un funzionario della “Jihad alBinah”, l’impresa di costruzioni di Hezbollah. È chiaro che l’eventuale successo di questa gigantesca operazione in corso –possibile grazie alle donazioni e ai generosi finanziamenti giunti dall’Iran– andrebbe ad aggiungersi alla “Nasr min Allah”, la “Vittoria Divina” su Israele, evocata da Nasrallah dopo la guerra e che lo scorso 22 settembre circa un milione di libanesi (e non erano tutti sciiti) hanno celebrato a Beirut. • Libano. 12 ottobre. L’impegno massiccio di Hezbollah nella ricostruzione avrebbe peraltro un impatto forte anche sulla scena politica nazionale. Dà maggior peso alla sua richiesta di dimissioni del governo Siniora e di formazione di un esecutivo di unità nazionale nel quale i partiti del fronte antisciita e antisiriano («14 marzo») abbiano meno potere, meno influenza. A partire da «Mustaqbal» di Saad Hariri (figlio dell’ex premier assassinato Rafiq Hariri), alleato degli Stati Uniti ma messo in grave imbarazzo dall’aperto sostegno offerto da Washington all’offensiva israeliana che ha causato la morte di quasi 1.300 libanesi e distruzioni immense. «(Saad) Hariri pensava con le sue imprese e quelle dei suoi alleati sauditi di arricchirsi ancora di più attraverso la ricostruzione del Libano ma la Jihad alBinah lo ha impedito», commenta Ali Ashtan mentre si dirige al tendone eretto da Hezbollah nella zona dove un tempo sorgeva il quartier generale del partito. • Libano. 12 ottobre. Non fanno bene alla stabilità del governo Siniora in carica le polemiche sulla gestione della ricostruzione divampate dopo le dichiazioni al vetriolo rilasciate da Fadl Shalak, il dimissionario capo del “Comitato per la Ricostruzione e lo Sviluppo” (CRS) del Libano. Shalak, che pure accanto ad Hariri aveva svolto un ruolo centrale nella ricostruzione del paese dopo la guerra civile (1975-90), ha accusato il governo di aver «gonfiato» i danni alle infrastrutture in modo da poter avere fondi supplementari dalla comunità internazionale. Secondo l’ex responsabile del Crs, per ricostruire le strade, i ponti, le reti idrica ed elettrica, il governo ha bisogno di non più di 600 milioni di dollari e non di un miliardo di dollari (i Paesi donatori hanno promesso fondi per 896 milioni di dollari). Shalak ha accusato non meglio precisati esponenti del governo di avere rapporti con importanti imprese edili. Il nuovo capo del Crs, Nabil Jisr, respinge le accuse e precisa che i 98 milioni di dollari già investiti nella ricostruzione, sono stati assegnati seguendo i criteri scelti dai paesi donatori. • Libano. 12 ottobre. Con la fine del ramadan esploderà il contrasto tra chi sostiene il progetto USA-francese-saudita e chi il campo «patriottico». Ne sono convinti molti osservatori. Da un lato ci sono i sostenitori di una «pace separata» con Israele senza relativo ritiro dalla West Bank, dalle fattorie di Sheba e dal Golan siriano, e cioè il clan Hariri, i maroniti falangisti e i drusi di Walid Jumblatt, appoggiati dalle forze multinazionali; dall’altro la resistenza degli Hezbollah ed il generale maronita Michel Aoun, con un programma «nazionale» di difesa dell’unità del paese, rapporti di buon vicinato con Damasco, rifiuto di ogni progetto di attacco a Siria e Iran. Se tutti rifiutano il ritorno ai tempi della guerra civile, ciò non significa che la tensione tra i due campi non vada crescendo costantemente e che sia già sfociata in alcuni isolati, ma significativi, scontri armati nella stessa capitale. Risse di periferia per stampa ufficiale e governo, importanti campanelli di allarme per molti commentatori meno allineati. 25 • Bolivia. 12 ottobre. In piazza contro le minacce di golpe. Migliaia di indigeni e contadini hanno partecipato oggi, nella storica Plaza de los Héroes di La Paz, ad una manifestazione di sostegno al presidente Evo Morales, dopo le voci di tentativi di colpo di Stato che circolano nel paese. «È giunta l’ora di cambiare la nostra Bolivia, è giunta l’ora di vivere in uguaglianza di condizioni. Questa rivoluzione democratica culturale con Evo Morales o senza Evo Morales sta andando avanti; nessuno fermerà il cambiamento in Bolivia, sorelle e fratelli», ha affermato il presidente. «Cercheranno di offendere, umiliare», ha proseguito, sottolineando che «nessuno fermerà l’Assemblea Costituente, nessuno fermerà il recupero, la nazionalizzazione delle nostre risorse naturali». Secondo l’agenzia DPA erano circa 30mila i manifestanti che impugnavano bandiere dell’Argentina, della Colombia, dell’Ecuador, oltre che di altri paesi. La France Press riferisce degli apprezzamenti del presidente per i programmi d’alfabetizzazione, che raggiungono circa 250mila persone nel suo paese e l’Operazione Miracolo, che consiste nella realizzazione di interventi chirurgici gratuiti a pazienti poveri con diverse affezioni oculari da parte di medici cubani. • Euskal Herria. 13 ottobre. Il processo di pace nel Paese Basco rimane «bloccato». Ad affermarlo oggi è il partito illegalizzato Batasuna. Smentendo le affermazioni fatte ieri dal primo ministro spagnolo Zapatero secondo cui il processo avanzerebbe sia pure lentamente, Batasuna –considerato il braccio politico dell’ETA– afferma che il governo impedisce la riunione della «tavola rotonda» fra i partiti politici baschi che deve risolvere il problema centrale della «autodeterminazione». • Gran Bretagna / Iraq. 13 ottobre. «Dall’Iraq dobbiamo ritirarci presto. La nostra presenza peggiora la sicurezza nel paese e danneggia la politica estera inglese». Lo ha detto ieri il capo di Stato Maggiore britannico, generale Richard Dannatt, in un’intervista al Daily Mail, non lesinando dure critiche all’occupazione del paese arabo. Una dichiarazione «senza precedenti in epoca moderna», secondo il quotidiano The Guardian. Downing Street ha smentito l’esistenza di divergenze tra Esercito e primo ministro, Tony Blair. «Penso», ha aggiunto il generale, «che la storia mostrerà che la pianificazione di quello che è avvenuto dopo l’iniziale successo della fase di combattimento sia stata scarsa, e probabilmente più basata su una visione ottimistica che non su una seria riflessione (…) Non dico che le difficoltà che stiamo incontrando nel resto del mondo siano causate dalla nostra presenza in Iraq, ma indubbiamente la nostra presenza là contribuisce ad esacerbare i problemi». Commenti, questi, non certo usuali per un ufficiale in servizio del suo rango, che infatti hanno suscitato forti polemiche, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Dopo che le sue frasi sono state riprese dalle voci più critiche alla guerra, il generale si è visto costretto ad un’altra serie di interviste a radio e televisioni in cui ha cercato di calmare la tempesta. «Sono un soldato. Non ci arrendiamo. Non alziamo bandiera bianca. Resteremo fino alla fine», ha detto il generale, però ribadendo: «Dobbiamo comunque superare questa situazione. Non possiamo rimanere là per anni». • Libano. 13 ottobre. «L’esercito libanese in futuro dovrà garantire più di ogni altra cosa la stabilità interna e dimostrare, con la sua organizzazione ed efficienza, che non c’è più bisogno della milizia islamica (la guerriglia di Hezbollah, ndr)». Lo ha detto Nicholas Blanford, un esperto di Jane’s Defence Weekly. Un disegno che non è detto che si realizzi. Hezbollah e i suoi alleati potrebbero porre il veto (e non solo quello) a programmi concordati con gli Stati Uniti che non sono volti a garantire la difesa del Libano. C’è poi Israele. Il mese scorso il consigliere per la sicurezza nazionale USA, Steven Hadley, ha 26 spiegato i piani di Washington a due inviati di Ehud Olmert, risultando però poco convincente. Tel Aviv è contraria alla consegna al Libano di armamenti sofisticati, anche leggeri. Gli Stati Uniti quest’anno hanno versato nelle casse del ministero della difesa libanese poco più di 10 milioni di dollari, con i quali sono stati rimessi in moto autocarri e blindati che da anni non uscivano dalle caserme. Più di cento ufficiali libanesi inoltre hanno partecipato a programmi di formazione nelle accademie statunitensi mentre altri due milioni di dollari l’Amministrazione Bush li ha messi a disposizione delle unità libanesi «antiterrorismo». La generosità di Washington tuttavia non è beneficenza, ma ha di mira Hezbollah. L’attuale capo di stato maggiore libanese, Michel Sliman, con l’appoggio del presidente Emile Lahoud, ha chiesto al governo di costruire un esercito in grado di difendere il Libano da nuove offensive israeliane e ha perciò suggerito di acquistare elicotteri da combattimento Apache e Cobra, mezzi corazzati dell’ultima generazione, navi per la difesa costiera, sistemi moderni di contraerea e artiglieria pesante. USA, Gran Bretagna e Francia, principali finanziatori del programma di ammodernamento dell’esercito, hanno però già fatto sapere che non hanno alcuna intenzione di garantire a Beirut questo tipo di armamenti costosi e sofisticati. • Libano. 13 ottobre. «Se Israele non si ritira, dovremo pensarci noi» e in tal caso gli Hezbollah «potrebbero riprendere le loro operazioni militari» contro le forze israeliane. Lo ha sostenuto ieri, in una lunga intervista al quotidiano britannico The Guardian, il presidente del parlamento libanese Nabih Berri. Nel Libano meridionale l’esercito israeliano continua ad occupare il piccolo centro di Ghajar alle pendici del monte Hermon, e la enclave delle Fattorie di Sheba occupata nel 1967. Berri inoltre, per la prima volta, si è detto preoccupato della possibilità che le forze multinazionali dell’Unifil possano raccogliere informazioni sulla resistenza libanese per conto dei servizi israeliani ed ha aggiunto: «L’Unifil non deve dimenticare che si trova sul nostro territorio e quindi dovrà lavorare nell’interesse del Libano e non di Israele. Se la loro presenza si dovesse rivelare come una difesa di Israele allora non saranno più accettati». • Turchia / Kurdistan. 13 ottobre. Lo Stato turco continua a provocare il PKK nonostante il cessate-il-fuoco. Sono tre i guerriglieri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) morti in diverse operazioni di polizia nel Kurdistan Nord, occupato dalla Turchia. Operazioni che hanno luogo dodici giorni dopo che il PKK ha dichiarato un cessate-il-fuoco unilaterale, condizionato all’assenza di provocazioni da parte della Turchia. Da subito il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan si era affrettato a dire –e con lui il capo delle forze armate– che la tregua non aveva alcun valore («i negoziati avvengono tra Stati e non prevedono come interlocutori organizzazioni terroristiche») e che il PKK deve solo abbandonare le armi e consegnarsi alle autorità. L’annuncio della tregua da parte del PKK è giunto dopo la risoluzione del parlamento europeo della settimana scorsa e dopo l’appello di Abdullah Ocalan dal carcere di Imrali per una cessazione unilaterale. Nella sua dichiarazione di tregua il PKK (oggi Kongra Gel) ricorda che già tra il 1999 e il 2004 aveva osservato una tregua unilaterale, ma gli sforzi per una soluzione pacifica della questione kurda si erano rivelati vani. Così nel giugno del 2004, dopo che l’esercito turco aveva intensificato le sue operazioni militari contro la guerriglia, il Kongra Gel aveva optato per la strategia dell’autodifesa attiva. Di fronte alle reiterate richieste internazionali e nazionali per un nuovo cessate il fuoco, il Kongra Gel ha deciso nella sua ultima assemblea di raccogliere l’invito. Nel documento “Una soluzione democratica della questione kurda” l’organizzazione accetta anche l’invito del presidente Ocalan. «La nostra lotta», scrive, «ha raggiunto un livello tale da ritenere importante la dichiarazione di tregua per permettere il successo di una soluzione democratica. La guerra è un fenomeno che ha molti protagonisti. Lo sforzo di fermare unilateralmente la guerra è vano. Tuttavia in alcuni casi una delle 27 parti in causa può agire più responsabilmente di altre e in questo caso un processo di pace può svilupparsi, offrendo anche alle altre parti coinvolte l’opportunità di accoglierlo e lavorare per arrivare ad un negoziato positivo». • Corea del Nord. 13 ottobre. «Neppure quando India e Pakistan hanno fatto esplodere le loro bombe nucleari, gli Stati Uniti si sono mossi così aggressivamente. E parliamo di paesi con una popolazione complessiva di un miliardo e duecento milioni di abitanti, contro i ventidue milioni della Corea de Nord». Lo ha detto Ri Kong Son, vice portavoce del ministero degli esteri nordcoreano, che ha aggiunto: «il test è da attribuirsi solo alla minaccia nucleare rappresentata dagli USA, alle loro sanzioni e alle loro pressioni sulle Nazioni Unite». Per Scott Snyder, esperto di Nord Corea all’Asia Foundation di Washington e autore del libro “Negotiating on the Edge: North Koran Negotiation Behavior”, lo scoppio nucleare sarebbe un messaggio di «invito» a Bush al tavolo delle trattative. «Secondo Pyongyang, gli USA non consideravano la Corea del Nord alla loro stregua perché non possedeva l’atomica. Ora che anche la nazione nordcoreana è entrata a far parte del club nucleare, i generali di Kim Jong Il sperano di essere trattati a pari livello dei loro colleghi di Washington». • Venezuela / Bolivia. 13 ottobre. Golpe anti-Morales? Chávez ha ieri messo in guardia da mosse avventate l’esercito boliviano, a cui si attribuiscono «nervosismo» e «malessere» – leggi: golpe– per le iniziative del presidente del loro paese Evo Morales. Chávez è convinto di un piano USA, tramite le transnazionali del gas e del petrolilo, per arrivare ad una «rimozione» di Morales da parte dei militari. «Il Venezuela non resterà a braccia conserte se il popolo boliviano e il suo governo fossero attaccati da forze interne o esterne», ha avvertito Chávez. Il portavoce di Morales, Alez Contreras, ha accusato l’opposizione e «i gruppi detentori del potere nel passato» di diffondere «l’ondata di voci» sul golpe, anche se la situazione è perfettamente sotto controllo dal momento che forze armate, polizia e movimenti sociali continuano ad appoggiare Evo. • Irlanda del Nord. 14 ottobre. L’Accordo di Saint Andrews (Scozia) getta le basi per il ripristino delle istituzioni nordirlandesi in sei mesi. Repubblicani e unionisti hanno fino al 10 novembre per avallare il piano. Un governo condiviso dovrebbe vedere la luce il 26 marzo 2007. Primo ministro e viceministro dell’esecutivo saranno rispettivamente riservati a DUP (Democratic Unionist Party) e Sinn Féin, le formazioni politiche più votate alle ultime elezioni. Saranno, rispettivamente, il massimo dirigente del DUP, l’ottuagenario reverendo Ian Paisley, ed il responsabile della delegazione negoziale del Sinn Féin, Martin McGuinness. L’elezione da parte dell’Assemblea di Stormont avverrebbe il 24 novembre. Blair ha alluso alla possibilità di convocare per il marzo prossimo una consulta popolare, con la formula del referendum o attraverso nuove elezioni, per misurare la popolarità del futuro governo nordirlandese. Il calendario si completa con l’approvazione, il 21 novembre e da parte del Parlamento di Westminster, di una nuova legislazione che «ufficializzi» le future istituzioni. L’interregno tra novembre e marzo includerà la presentazione della prima relazione del 2007 della Commissione Indipendente di Verifica, che supervisiona le attività dei gruppi armati. Artefici dell’incontro, per i governi di Londra e Dublino, il primo ministro britannico, Tony Blair, ed il suo omologo della Repubblica d’Irlanda, Bertie Ahern. Assemblea ed Esecutivo di Stormont sono sospesi dall’ottobre 2002 e dai successivi veti unionisti. In caso di ulteriore fallimento del calendario su indicato, Londra e Dublino procederebbero all’amministrazione congiunta delle Sei Contee, prospettiva nient’affatto gradita agli unionisti. 28 • Irlanda del Nord. 14 ottobre. Le parti sono giunte a queste negoziazioni con differenti interessi. Il primo ministro britannico, Tony Blair, con i rovesci in Iraq e le divisioni del suo partito, tenta di lasciare la guida del governo e dei laburisti con un’azione positiva, come sarebbe incamminare il processo irlandese lungo il sentiero di una risoluzione definitiva. Bertie Ahern, primo ministro irlandese, cerca un successo in vista delle legislative di primavera nelle Ventisei contee del sud dell’isola, passaggio tutt’altro che tranquillo visti gli ultimi scandali che l’hanno coinvolto. Il Sinn Féin intende arrivare alla grande alle scadenze elettorali nel nord e nel sud dell’isola: se si realizzano i passaggi definiti in Scozia, il movimento repubblicano potrà presentarsi come una forza «di governo» consolidata nel nord e con importanti aspirazioni a svolgere un ruolo chiave nella formazione del prossimo governo del sud. Il che sarebbe rilevante anche per pesare maggiormente nel nord ancora non liberato dall’occupazione. Il principale partito unionista, il DUP (Democratic Unionist Party) di Paisley, mostra intransigenza di fronte ai repubblicani, ma al tempo stesso sa che il tempo non gioca a suo favore e che dilatare ancora di più questa situazione potrebbe esesre redditizio a corto raggio, ma ritorcersi pesantemente contro i propri interessi nel mediolungo periodo. Dopo l’accordo, e prima della sfida elettorale di marzo, la strategia di Paisley e dei suoi mira a ridurre i moderati dell’UUP (Ulster Unionist Party) a partito residuale o con un potere molto limitato nella comunità unionista. • Irlanda del Nord. 14 ottobre. Miglioramenti sociali tra la popolazione, crescita di consensi per i repubblicani dello Sinn Féin, collaborazione tra nord e sud dell’isola intensificatasi dopo l’Accordo del Venerdì Santo (1998), mantenimento degli impegni dello Sinn Féin e sua capacità di essere sempre più forza nazionale e tutt’altro che comunitarista settaria come lo stesso DUP. Per il DUP (Democratic Unionist Party) di Paisley è sempre più difficile mantenere la propria rigida e filo-dominante immagine del passato. I giorni del privilegio e dell’arroganza si apprestano ad essere archiviati nella storia. Se questo partito, che oggi rappresenta la maggioranza della popolazione unionista, vuole mantenere un qualche status, deve integrarsi nella politica reale del ventunesimo secolo e porre fine ai suoi discorsi antinazionalisti, anti-cattolici e reazionari. • Irlanda del Nord. 14 ottobre. Dopo aver dato forza alla rivendicazione dei propri diritti nazionali con la politica delle armi, il Sinn Féin sta dimostrando, con le armi della politica, di stare riuscendo, sia pur faticosamente e tra mille difficoltà, ad affermare quella prospettiva di Irlanda libera ed indipendente preludio al progetto di società socialista rivendicato dai repubblicani. Oggi il DUP punta i piedi e così facendo evidenzia il vuoto di strategia, del che fare, di fronte all’elasticità radicale e all’intelligenza politica del movimento repubblicano. L’anziano reverendo Paisley si appresta a passare la mano della guida del partito per ragioni di età. Tre le principali correnti che si stanno già dando battaglia per raccoglierne l’eredità. Quella dei cosiddetti «fondamentalisti», con Paisley come riferimento, che cercano di mantenere l’unità del partito e recentemente sembrano orientati a cercare di trarre benefici moderando il tiro del loro intransigentismo. Mirano all’egemonia in campo unionista a danno dell’UUP. Ci sono poi i «modernisti», che fanno riferimento a Meter Robinson, che invece cerca alleanze con l’altro partito unionista, l’UUP, per formare una «grande alleanza» unionista. Infine i cosiddetti «ultras», di Jim Allister, contrari a qualunque avvicinamento dialogante con il Sinn Féin, e che potrebbero uscire dal partito per presentare un’opzione più conservatrice dell’unionismo fuori dal DUP. Accomuna queste tre correnti la paura dei cambi strutturali verso cui è incamminato il nord Irlanda e della conseguente perdita dei privilegi sociali, economici e politici che l’essere referente dell’occupante britannico gli assicurava da decenni e decenni. Con tutte le contraddizioni del caso, legate anche alle diverse anime del campo unionista, la coscienza che i tempi siano cambiati, e che sia necessario adattarsi ai nuovi, obbliga a misurarsi con la 29 necessità di accettare la sfida sul piano politico, pena l’essere superati dalla stessa propria storia. Dal primo cessate-il-fuoco dell’IRA del 1994, gli unionisti hanno seguito la politica dello struzzo adducendo scuse per rifiutare negoziati, convinti così di evitare mutamenti politici. Con tentennamenti ed anche passi indietro, la collaborazione di Londra e Dublino, e le pressioni dello Sinn Féin, hanno portato a che l’Accordo del Venerdì Santo, approvato su tutta l’isola, cominciasse ad essere applicato. Se nei mesi a venire trovassero attuazione gli impegni assunti in questi giorni in Scozia, con il trasferimento delle competenze in materia di polizia e giustizia, con nuovi investimenti economici e con le istituzioni funzionanti, il processo di soluzione politica del lungo conflitto irlandese avrebbe tutte le carte in regola per incanalarsi sulla via irreversibile dello sganciamento dal dominio britannico. • Sri Lanka. 14 ottobre. Nuova offensiva cingalese dopo la sua recente «disfatta». Esercito dello Sri Lanka e Tigri di Liberazione della Terra Tamil (LTTE) si sono scontrati in nuovi combattimenti in un nuovo fronte nell’est dell’isola, 48 ore dopo la fallimentare offensiva cingalese nel nord dell’isola. Negli scontri di giovedì notte, fonti militari di Colombo hanno riconosciuto che la loro offensiva all’inizio della settimana si è risolta in una «sconfitta» per un «errore di calcolo» sulla forza della guerriglia. L’Esercito ha riconosciuto la morte di 133 soldati ed oltre 500 quelli feriti in un’offensiva che ha segnato loro il peggior rovescio dalla tregua iniziata nel febbraio 2002. Una compagnia intera di fanteria distrutta. «L’LTTE sapeva che l’Esercito si preparava ad attaccare questa posizione; per questa la fortificò ed utilizzò tutta la sua artiglieria per sconfiggere le nostre forze», ha proseguito il portavoce ufficiale dell’Esercito, per il quale il nord continua ad essere «il bastione delle Tigri». Nella difesa del suo territorio l’LTTE ha perso dieci combattenti. Nella nuova offensiva dell’esercito, che ha come obiettivi i posti della difesa tamil di Muhamalai, Kilali e Nagarkovil, sono già almeno 38 i militari morti e 280 quelli feriti secondo una fonte militare anonima dell’Esercito stesso. • Cina. 14 ottobre. Cina «armoniosa» nel 2020. Il Plenum approva la linea di Hu Jintao e promette welfare per tutti entro 15 anni. Pronta una legge che rafforza il ruolo dei sindacati (ufficiali) nelle compagnie straniere. Mai, come nel Comitato centrale del Partito comunista terminato mercoledì scorso, dopo quattro giorni di discussioni, l’accento sulla «costruzione di una armoniosa società socialista» è stato tanto martellante. Il comunicato ufficiale finale è un lungo elenco di impegni a raddrizzare i torti di un sistema economico e sociale dalle profonde iniquità e squilibri. Un impegno salta agli occhi per la sua enormità: quello di fornire entro i prossimi 15 anni a non meno di un miliardo di cinesi un welfare state degno di questo nome, che garantisca copertura sanitaria, pensioni adeguate, assistenza nel periodo di maternità, risarcimenti sostanziosi in caso di infortuni sul lavoro. D’ora in poi, recita il comunicato finale, si dovrà seguire il principio «people first», prima il popolo. Lo sviluppo economico, che ancora marcia a oltre il 10% di crescita l’anno, «è necessario», naturalmente, ma si deve imporre la regola che «lo sviluppo è per il bene del popolo ...e i suoi frutti devono essere divisi fra il popolo». • Cina. 14 ottobre. Nella Cina «armoniosa» dell’immediato futuro sarà rafforzato il ruolo dei sindacati nelle fabbriche, che la Cina si preparerebbe a varare, secondo quanto rivelato da fonti del ministero del lavoro. Non c’è nessuna conferma ufficiale, ma le indiscrezioni dicono che la legge si applicherà a tutte le compagnie, incluse quelle straniere, che operano nel paese, seguendo il «modello Wal Mart», il gigante USA della distribuzione che proprio in Cina ha dovuto aprire le porte ai sindacati, per la prima volta nella sua storia. Il panico serpeggia fra le compagnie rifugiatesi nell’antico Regno di Mezzo per liberarsi da ogni conflitto nelle rispettive patrie e un’attività frenetica di lobbying sarebbe in corso, come scriveva ieri il New York Times. Vero è che ad assumere il ruolo di difensori dei diritti dei 30 lavoratori sarebbe la Federazione ufficiale dei sindacati, mai distintasi finora per strenue lotte, anche se le cause da difendere non sarebbero mancate. Longa manus di partito, la Acftu è stata finora più incline a chiudere gli occhi persino davanti alle situazioni più oltraggiose e mai si è appellata alle leggi di tutela, che pure esistono. • Ecuador. 14 ottobre. La dollarizzazione? «È stata decisa per ingraziarsi le oligarchie bancarie e le elites economiche, un disastro: ci ha sottratto competitività, le banche ci tengono in ginocchio, fu un assurdo. Ne usciremmo se potessimo. In economia ci sono però cose cui è facile entrare ma difficile uscire: se introducessimo ora una nuova moneta, avremmo una crisi paragonabile a quella del ‘99. È chiaro che l’Ecuador non può mantenere una moneta forte e straniera, però nel breve periodo non sarà possibile uscirne: risulterebbero più cari i capitali giusto quando abbiamo bisogno di rinnovare il paese, di fare forti investimenti nel sociale e avviare grandi politiche d’inclusione. Nel medio e lungo periodo, però sì». Lo sostiene Rafael Correa, ministro dell’economia nel 2005, oggi candidato ritenuto favorito alla presidenza dell’Ecuador, intervistato da il Manifesto. L’Ecuador, nel 2000, abbandonò la moneta nazionale, il sucre, prendendo come unità di conto, mezzo di pagamento e riserva monetaria il dollaro USA. Il paese non può più svalutare, né creare entrate tramite creazione di moneta. La dollarizzazione non ha rafforzato l’economia, non ha contrastato realmente l’inflazione ma ha stabilizzato un costo della vita insostenibile per le classi medie e basse, ha ridotto la competitività del paese e il 60% della popolazione non può soddisfare le necessità basiche. • Ecuador. 14 ottobre. Correa è contro il TLC. Il Trattato di Libero Commercio (TLC) «è una politica che mira a distruggere le nostre relazioni commerciali». Gli USA, con i TLC che stanno cercando di stipulare bilateralmente con i paesi latinoamericani, richiedono, ad esempio, esclusione di norme a tutela dei lavoratori, dell’ambiente, delle conoscenze ancestrali indigene; la non tassazione dei profitti in uscita dal paese; facilitazioni all’ingresso delle proprie merci, eccetera. Prosegue Correa: «Non abbiamo moneta nazionale, non possiamo svalutare. Come possiamo pensare di imbrigliarci in un meccanismo come questo? Sarebbe una follia. La piccola e media impresa non è in grado di competere con le multinazionali e con i beni sussidiati. Dopo la firma del TLC in Messico, il NAFTA, un milione e mezzo di posti di lavoro persi, triplicata l’emigrazione e l’unica cosa a cui hanno pensato gli USA è stato costruire un muro lungo il confine. Il Messico è passato da un’autosufficienza alimentare ad una dipendenza totale dagli Stati Uniti, ora non hanno più nemmeno il mais per le tortillas. E questo è successo ad un paese molto più sviluppato di noi. Noi appoggiamo le proteste anche per una questione di democrazia. Il popolo vuole un referendum, vuole esprimersi, ma il governo rifiuta. La nostra borghesia vuol far credere che il paese entrerà, per mezzo del TLC, nella globalizzazione. Le élite ecuadoriane e gli USA tutelano solo i loro interessi. Sarebbe come dire che la tigre può attaccare il coniglio perché anche il coniglio può attaccare la tigre. E ci vogliono imporre misure che l’America stessa non ha mai messo in atto (...). Con questo fondamentalismo neo-liberista non importa se si distrugge l’economia di un paese: solo comprare e vendere finché non sei diventato completamente dipendente. Forse che a Washington mettono alla mercè del libero mercato le loro riserve petrolifere?». • Gran Bretagna. 15 ottobre. Pressioni sul capo di Stato maggiore britannico perché si dimetta. Le stanno esercitando ministri del governo britannico, dopo che il generale Richard Dannat ha chiesto, un paio di giorni fa, un «pronto» ritiro delle truppe dall’Iraq perché la loro presenza «esacerba i problemi di sicurezza». Lo riferisce oggi il Sunday Mirror. Dannat aveva anche detto che l’attacco nel marzo 2003 era risultato nella pratica «un calcio alla porta» per entrare nel paese e criticato il fatto che le forze d’occupazione mancano di 31 una strategia definita per il dopoguerra. Dichiarazioni «inaccettabili» per membri dell’esecutivo di Tony Blair. Secondo un’inchiesta fatta dalla ICM per conto del quotidiano Sunday Express, il 71% degli intervistati condivide l’opinione di Dannat. • Ossezia del Sud. 15 ottobre. Mosca invia un treno di aiuti umanitari nell’Ossezia del Sud, enclave situata all’interno delle frontiere della Georgia che rivendica la sua indipendenza, e nel mezzo della crisi delle spie tra Mosca e Tbilisi. • Nepal. 15 ottobre. Non riescono a trovare un accordo all’interno del processo di pace per porre fine ad anni di ostilità. Lo hanno reso noto i negoziatori. Vi sarà quindi un nuovo incontro, a data da destinarsi, tra il primo ministro nepalese Girija Prasad Koirala ed il capo della guerriglia maoista Prachanda. I maoisti hanno già fatto sapere che prima di un nuovo vertice sono necessari ulteriori lavori preparatori. Secondo uno dei dirigenti il principale punto di discordia, che ha già causato il fallimento di tre precedenti incontri tra Prachanda e Koirala, è il disarmo delle milizie ed il futuro della monarchia. • Corea del Nord. 15 ottobre. Sanzioni a Pyongyang, ieri, dal Consiglio di Sicurezza. Cina e Russia attenuano la portata del progetto originario sanzionatorio preparato da Washington. La risoluzione 1718 contempla misure punitive per la Corea del Nord dopo l’annuncio del test nucleare. Cambiamenti sono stati apportati al testo proposto dagli Stati Uniti dopo che ieri, in extremis, Russia e Cina avevano espresso riserve. In segno di unità, il testo è stato sponsorizzato da tutti e cinque i membri permanenti e dai dieci a rotazione. La risoluzione si limita a un embargo di carri armati, navi da guerra, aerei da combattimento e missili. Coperti da embargo anche «beni di lusso». La risoluzione consente alla “comunità internazionale” di intercettare e perquisire carichi di merci diretti o in uscita dalla Corea del Nord per cercare armi di distruzione di massa e attrezzature collegate. Si tratta di uno dei punti più discussi, e fortemente voluto dagli Stati Uniti, che si presta a creare pretesti per incidenti. Il testo chiede anche alla comunità internazionale di impedire vendita e trasferimenti di materiali e tecnologie relative ai programmi proibiti di Pyongyang. Vengono inoltre congelati i fondi all’estero di persone o società coinvolte nel programma nucleare e balistico nordcoreano. • Perù. 15 ottobre. Ergastolo ad Abimael Guzmán, Camarada Gozalo e Elena Iparagirre, dirigenti di Sendero Luminoso. Altri dieci dirigenti sottoposti al maxi-processo sono stati condannati a pene tra i 24-35 anni di carcere. Un tribunale militare, nel 1992, aveva già comminato l’ergastolo, ma la sentenza era stata in seguito annullata. Quella attuale è stata emessa da un tribunale civile. 32