Eroi e peccatori
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Eroi e peccatori
Il posto delle favole Sheckawati di Yann Layma Miti e quotidianità dipinti sulle pareti dello Shekhawati, regione dimenticata del Rajasthan. Sul muro è dipinta una danza di elefanti. Sotto la loro mole benaugurante, quasi ne cercasse la protezione, è accovacciata una donna cieca. La sua mano destra conta i grani di un rosario, mentre l'altra tormenta il velo che le copre la testa. È sempre lì. Lo so perché qualche giorno fa, quando sono svenuta, è stata lei a portarmi un po' d'acqua; era mattina, ma il termometro segnava già 44 gradi e Nawalgarh boccheggiava nella calura. Mentre osservo la cieca all'ombra degli elefanti mi sembra di risentire la voce indolente dei tour operator di Nuova Delhi: "Il Rajasthan no, in giugno è già troppo caldo, perché non prende uno dei nostri autobus de luxe per l'Himalaya, là è bello fresco, si troverà meglio". E giù brochure di montagne incappucciate di neve ed eremi spirituali. No, grazie. Ventiquattro ore più tardi sono a Nawalgarh. È estate, in questo deserto. I locali trascorrono la giornata in una specie di trance, e io con loro. Ogni tanto si siedono, masticano foglie di betel, giocano a carte, chiacchierano. Ma a volte il calore toglie anche la forza di parlare. L'unico che continua a darsi da fare è il mercante Raja, perché vende ambitissimi - e costosissimi - condizionatori. Chiunque, tra gli abitanti, sarebbe disposto a dare dieci anni di vita per averne uno. Uno degli ultimi affreschisti dello Shekhawati, Bharon Lal Swarnkar, è un uomo umile con le spalle strette e le gambe sottili. Goccioline di sudore gli percorrono la schiena nuda mentre, piegato su se stesso, esamina il muro. La vernice indaco che gli gronda dal pennello sembra provenire, per qualche strana alchimia del suo cuore d'artista, direttamente dalle gonfie vene bluastre che gli corrono sotto pelle. È un quarto di secolo che Swarnkar dipinge le gloriose storie della mitologia indù e abbellisce, tramite i muri, la vita di chi gli sta accanto. Dall'anno scorso lavora al restauro del Poddar College di Nawalgarh, ma il suo obiettivo è decorare quanti più haveli possibile. Nella regione ce ne sono 2500, e lui è destinato a morire con il pennello in mano. Swarnkar ammette che le 350 rupie al giorno che guadagna (10 dollari, 18 mila lire) bastano appena a mantenere i suoi cinque figli, la moglie e i due fratelli poi, però, con filosofia, aggiunge: "Quante sono le persone che riescono a fare il lavoro che amano e, in più, portano la bellezza nella vita propria e degli altri?". Le mani di Swarnkar danno gli ultimi ritocchi a un Krishna in grandezza naturale e aumentano l'incanto del suo sorriso. Il sensuale Krishna, patrono dei Rajput dello Shekhawati, e le sue gopi, le pastorelle che lo accompagnano, sono un soggetto ricorrente. Entro il suo perimetro a diamante (Shekhawati significa "Giardino di Shekha" e prende il nome dal condottiero Rajput Rao Shekha, nato nel 1433), è racchiusa la più alta concentrazione di pitture murali del pianeta. A Shekhawati, gli affreschi contendono al sole il diritto di proprietà su tutto ciò che è parete. La sensazione è di trovarsi in un cartone animato, in un paesaggio a metà tra Medioevo, XIX secolo e mitologia. In un primo tempo gli affreschisti di Shekhawati si ispirarono alla scuola Moghul e a quella di Jaipur che, a loro volta, si rifacevano all'arte persiana. L'affresco, tuttavia, ha origini molto più lontane, sia nel tempo sia nello spazio: con secoli di anticipo su Shekhawati, i romani decoravano le pareti delle proprie case con splendide pitture murali la cui tecnica di realizzazione varcò i confini dell'Italia e, dalla Turchia, giunse fino all'India. Shekhawati deve la propria grandezza al legame che univa i bellicosi principi Rajput dello Shekhawati ai mercanti Marwari e al fiorire dei commerci con il dominio britannico, che rese necessaria l'apertura di nuove rotte carovaniere attraverso il deserto del Thar. I Marwari, originari della regione di Jodhpur, nel Rajasthan, cominciarono ad accumulare ricchezze barattando oppio, seta e spezie con le carovane che dalla costa del Gujarat attraversavano il Rajasthan dirette a New Delhi, lungo il tratto meridionale dell'antica Via della Seta che univa la Cina al Mediterraneo. I Rajput proteggevano i Marwari nelle traversate del deserto, e i mercanti ricambiavano con consistenti tributi, ma stimolando anche l'economia locale e arricchendo la comunità di palazzi, templi e tombe sontuose. L'haveli (dal persiano "spazio aperto") serviva a proteggere la famiglia del mercante dalle furie del deserto e, soprattutto, dalle scorrerie dei predoni, che approfittavano dell'assenza degli uomini per derubare e rapire donne e bambini. La vita all'interno dell'haveli obbediva a regole severe che prevedevano, tra l'altro, una rigida divisione tra uomini e donne. Il mercante, che restava lontano anche per anni, spediva alla famiglia oggetti e ricchezze e, al ritorno, narrava storie affascinanti e informava su ciò che accadeva oltre i confini del deserto. Gli affreschisti provvedevano a immortalare sulle pareti dell'haveli i racconti dei mercanti. Dal primo volo dei fratelli Wright alla macchina a vapore, i muralisti erano liberi di rappresentare qualunque cosa, purché abbellisse la casa del committente e suscitasse l'invidia dei vicini. Il padrone non forniva alcuna istruzione alla squadra di pittori e muratori (10-12 uomini) cui affidava la realizzazione dell'haveli: si limitava a raccontare ciò che aveva visto durante i viaggi e concludeva con "Fate in modo che il mio haveli sia il più grande e il più bello". Poi tornava a occuparsi della sua attività preferita: accumulare denaro. L'essenza degli affreschi dello Shekhawati è tutta qui, racchiusa nelle parole "più grande" e "più bello". Lo scopo dei murali era solo decorativo. Il committente affidava la realizzazione del più prezioso tra gli status-symbol dei Marwari a comuni figli del deserto che, pur privi d'istruzione e conoscenze artistiche, animati solo dalla devozione nei confronti della bellezza, si dedicavano alla creazione di quegli affreschi che ancora oggi fanno dello Shekhawati un caso unico nella storia dell'arte. Uno di questi maghi del pennello, sostiene Swarnkar, era così abile nell'arte della narrazione che la gente veniva da tutta la regione per sentirlo raccontare di eroi, principi e maharaja, a volte anche per giorni di fila. Un pubblico solo maschile il suo, perché alle donne non era consentito prendere parte a simili riunioni. I mercanti del deserto, che avevano saputo piegare al culto del bello l'aspro paesaggio rajasthano, non ci misero molto a capire che l'arrivo del treno avrebbe decretato la fine delle carovane. Poco prima che l'India ottenesse l'indipendenza, il completamento della ferrovia Delhi-Calcutta trasformò la migrazione a est dei Marwari in esodo. Inseguendo le opportunità di commercio, gli intraprendenti mercanti raccolsero famiglia, fortune e speranze e si lasciarono alle spalle i palazzi e il caldo dello Shekhawati. Poco comprensibile è perché non siano mai tornati, neppure nei mesi in cui la temperatura è più sopportabile. La maggior parte delle famiglie si sono stabilite nelle città e si disinteressano del proprio haveli. E se nessuno è disposto a vendere, non c'è neppure nessuno che si preoccupi di restaurare le dimore avite. Stiamo tornando dall'ennesima visita al nostro amico muralista. Oggi non lavora, fa troppo caldo. L'auto tossisce e perde colpi mentre la cittadina medievale di Mandawa ci sfila accanto. In questo agglomerato urbano di 18 mila anime ci sono 16 condizionatori d'aria: otto si trovano all'interno di una fabbrica americana e gli altri otto sono strategicamente installati nelle suite imperiali di Castle Mandawa. Ci fermiamo per cercare dell'acqua, ma è tutto chiuso. La colonnina di mercurio sfiora i 50 gradi e i negozianti del centro hanno dovuto chiudere, è la legge. L'unica brezza è quella che si diffonde all'interno dell'auto mentre viaggiamo, quindi decidiamo di proseguire. Poco dopo siamo costretti a fermarci di nuovo nei pressi di un chattri, un tempio funerario, un'altra delle architetture prima ideate e poi abbandonate dai Marwari: il motore sta andando in ebollizione. In sanscrito questo posto è detto marusthal, regione della morte. A un tratto sento ridacchiare. So che capita a chi prende un colpo di calore. In questo caso però non si tratta di un'allucinazione, le risatine provengono da un gruppo di undici fabbri ambulanti che fanno ressa attorno a un uomo intento a forgiare un utensile. Al nostro arrivo ogni attività si blocca e ventiquattro occhi si fissano su di noi. Le donne (perché sono donne, questi fabbri) mi portano all'ombra dove, sotto lo sguardo curioso dei loro 43 bambini, mi offrono dell'acqua. Mentre bevo avidamente dal grosso vaso di terracotta le sento parlottare tra loro. Staranno commentando sulla mia aria da moribonda. E invece no, mi chiedono se ho del rossetto. Con i bambini piccoli appoggiati contro l'anca e i seni gonfi somigliano alle gopi di Krishna che affollano i muri dello Shekhawati. Ci restano male quando offro loro l'unico stick di rossetto che ho con me, ormai completamente sciolto dal caldo bacio dell'estate rajasthana. Per la prima volta da settimane vedo un gruppo di nuvole scure galopparmi sopra la testa. Una ragazzina, certamente inconsapevole della propria bellezza, mi trascina via dalle donne-fabbro che vivono con i loro bambini in un monumento funerario e mi conduce, attraverso i campi, a un haveli semidiroccato. È diverso da quelli che ho visto finora. I muri sono quasi completamente ricoperti di manifesti elettorali e slogan che avvertono dei rischi connessi alla promiscuità sessuale. Forse non è un caso, rifletto, che gli autori della propaganda abbiano scelto questo muro: su quello accanto sono raffigurati Krishna e Radha, i protagonisti della più celebre storia d'amore della letteratura indiana. I grandi occhi scuri della ragazzina mi fanno segno di entrare. Scivolo all'interno. Quando mi giro la ragazzina è scomparsa. Soffia un vento caldo. Hermann Hesse ha scritto che i viaggi fanno sempre le persone, semmai sono le persone che non fanno i viaggi. In questo momento, prigioniera del caldo, mi sembra di trovarmi in una situazione analoga a quella descritta da Hesse: l'ispirazione dei Marwari, dei pittori che hanno affrescato le pareti degli haveli, delle donne che tra quelle pareti hanno trascorso l'esistenza, di tutti coloro che per due secoli hanno mitigato con la grazia della pittura l'asprezza del deserto è qui, so che c'è, eppure non riesco a coglierla. Almeno fino a quando non scorgo il primo dei due cortili interni dell'haveli. Immaginatevi di incontrare, in una foresta, un animale ferito che vi implora, con lo sguardo, di mettere fine alle sue sofferenze. In questo haveli i pavimenti hanno ceduto, le pareti sono diroccate, di porte e finestre non è rimasta neppure l'intelaiatura. Solo la struttura è ancora in piedi ma, spogliata di tutta la sua immensa bellezza, sembra chiedersi a che scopo resistere. Una mano crea, l'altra distrugge: mercanti d'arte senza scrupoli hanno predato fino all'ultima trave e hanno portato tutto a Jodhpur, da dove i Marwari erano partiti, per venderli nei negozi d'antiquariato. Dentro questo haveli decrepito sembra di vederli sfilare tutti: gli uomini e le donne ombrose bellezze indù, guerrieri Rajput, mercanti Marwari con i loro sogni arditi, pittori e muratori - che seppero trasformare questo polveroso angolo del pianeta in un enorme fiore architettonico dallo splendore quasi musicale. Adesso finalmente ho capito. Dovevo arrivare sin qui, sino al cuore ferito di un haveli che sa di avere i giorni contati. Un tuono sfugge al cielo. Corro per la strada. Vortici di sabbia. Figure umane che fuggono in cerca di riparo. "Andi A rahi hei!, Arriva la tempesta!", urla una donna e mi fa segno di raggiungerla nel suo haveli. La porta di ferro che si chiude alle mie spalle. La mia ospite, Sunangita, si occupa di questo haveli per conto dei proprietari, che vivono a Calcutta. "È in arrivo una tempesta di sabbia", mi dice, "non puoi proseguire". Come obbedendo agli ordini di Indra, il dio che presiede ai fenomeni atmosferici, il vento si accanisce contro le pareti e dentro il cortile del nostro rifugio. Mentre sbarra le porte, Sunangita grida al figlio più grande di accucciarsi con le tre sorelle in un angolo e aspettare lì che la tempesta passi. Sedute fianco a fianco sulla sua brandina sentiamo il vento che aumenta d'intensità, poi le ondate di sabbia. Gocce di pioggia rabbiose frustano i muri. Pazienza. Il deserto chiede ai suoi abitanti di portare pazienza. Ogni tanto Sunangita dà un'occhiata al cielo. Suo marito è in Kuwait, dice. Va in giro per il deserto a bordo di una Mercedes e le manda denaro ogni mese. Presto tornerà a casa, quando il caldo sarà passato. La tempesta si arresta di colpo. C'è sabbia ovunque. Madre e figli danno una ripulita, poi preparano la cena in un angolo. Sunangita mi invita a restare. Mentre finiamo di mangiare, il cielo si riempie poco a poco di stelle, le stesse che un tempo guidavano i Marwari attraverso il deserto. Il calore è già ridiventato insopportabile. Dal tetto dell'haveli osservo Sunangita che si appresta a fare il bagno ai figli nell'acqua piovana. Quando i bambini sono asciutti, li cosparge di borotalco. La polvere bianca si posa sulla loro pelle come neve fuori stagione. Il pavimento di pietra dell'haveli mi scalda la pianta dei piedi. Nel crepuscolo, un pavone lancia il suo richiamo.