Filosofi antichi - Edizioni di Atlantide

Transcript

Filosofi antichi - Edizioni di Atlantide
Adriano Tilgher
Filosofi antichi
Buddismo antico
I
BUDDISMO ANTICO
I
È una verità di evidenza immediata che l’essenza ideale, la genesi storica e il progressivo sviluppo d’una religione non possono
comprendersi senza prima studiare l’ambiente sociale e intellettuale nel quale essa è sorta e quello che, precedendola, le ha preparato il terreno. Ma per nessun’altra religione questa verità trova
applicazione così completa come per il Buddismo, che in niun
modo può comprendersi e valutarsi senza una conoscenza preliminare del Bramanesimo, della religione, cioè, che l’ha preceduto
e accompagnato nel suo sorgere e nel suo divenire. Il Buddismo,
infatti, è, nello stesso tempo, l’antitesi perfetta e la continuazione
logica del Bramanesimo, al quale riesce a opporsi appunto perché
ne sviluppa rigorosamente le premesse. A queste premesse, che
il Buddismo presuppone e che formano il nucleo e la sostanza
ideale del Bramanesimo, noi accenneremo con rapida concisione,
lumeggiandole sì dal lato filosofico che da quello storico.
9
Adriano Tilgher
Il pensiero filosofico indiano sorse nel giorno che lo spirito
di quel popolo, insoddisfatto del politeismo rigvedico, presentì
vagamente, confusamente, l’Essere Uno, immobile e immutabile
in mezzo e sotto al divenire delle cose, degli uomini e degli dei.
All’Uno delle speculazioni Upanishadiche lo spirito non giunse però di un sol balzo, ma dopo un lungo tirocinio, attraverso
una penosa serie di tentativi, il primo dei quali fu fatto quando,
prendendosi le mosse dal politeismo vedico, si concepirono le
varie divinità come le manifestazioni diverse di un solo e unico
Dio. Così che Mitra, il sole raggiante, Agni, il dio del fuoco,
Varuna, il cielo stellato, Indra, il dio dell’atmosfera, Soma, il dio
del liquore inebbriante, furon considerati come le apparizioni
molteplici, nella distesa infinita dei tempi e degli spazii, di un
Essere unico ed eterno1.
Ma, pur riconoscendo l’esistenza di un Dio, superiore a tutti
gli dei, dinanzi alla natura di questo Dio lo spirito rimane dubbioso, e si domanda:
“Lui che dà la vita, lui che dà la forza – i comandi del quale
tutti gli dei riveriscono, di cui l’ombra è l’immortalità – di cui
l’ombra è la morte, – che è questo Dio, perché noi l’onoriamo
con dei sacrifici?”2.
Ma l’ansiosa domanda non ottiene risposta, e allo spirito
deluso non rimane che rassegnarsi a un malinconico scetticismo, col quale si chiude la splendida età giovanile del pensiero
indiano:
“Donde questa creazione è venuta, – se essa è creata o increata, – colui, l’occhio del quale veglia su di essa dal sommo dei cieli, – colui solo lo sa, o forse ei pur l’ignora?”3: accenti di tristezza
10
Buddismo antico
disperata, che ancor oggi, a tanta distanza di secoli, trovan la via
dell’anima moderna, e vibrano e risuonano in essa.
Al periodo del Rig-Veda, pieno di giovanile baldanza e d’ingenuo ottimismo, appena qua e là offuscato dai presentimenti e dubbi pessimistici più su accennati4, succede il periodo dei
Brâhmanâs, grigio, uniforme, monotono, senza slanci del cuore
né voli dell’intelligenza. Tutto il lavorìo dello spirito indiano in
questo periodo consiste nella compilazione di un rituale pedante
e minutissimo intorno alle modalità del sacrificio e nella creazione di bizzarre e sfrenate cosmogonie, il cui punto di partenza è
proprio il sacrificio. Il significato primitivo di questo era quello
di un’offerta di doni e di omaggi, diretti a ottenere il favore degli
dei e a calmarne la collera. Ma quando si perderon di vista le
spiccate e singole individualità degli dei, e al loro posto subentrarono le forze occulte e misteriose dell’universo, il sacrificio
cambiò scopo e natura, e mirò a ottenere all’uomo la signoria su
queste occulte forze cosmiche. Colui che possiede i riti del sacrificio divien signore del mondo; le formule sacrificali soggiogano
il mondo; dal che lo spirito indiano, con uno dei suoi soliti sbalzi
logici, conclude che le formule sacrificali sono il mondo. Al di
sopra di questo e delle forze arcane, che circolano in esso, siede
Pradjapati, il signore delle creature. Tuttavia, in mezzo a queste
creazioni d’una sregolata fantasia, noi riusciamo a scorgere e a
seguire un duplice processo che conduce lo spirito indiano alla
sublime filosofia delle Upanishad5.
Compenetrato dal pensiero della fondamentale unità delle
cose, lo spirito indiano proietta nel mondo esterno gli elementi
costitutivi del nostro corpo e della nostra psiche, alle determi11
Adriano Tilgher
nazioni soggettive attribuisce un valore oggettivo. Esaminando
l’essere suo, il dotto indiano al di sopra dei sensi trova una forza
vitale che li domina e li dirige. Privo di qualche senso, l’individuo può vivere, ma, scomparso il Prâna, svanita la forza vitale,
che investe e anima il corpo, questo si dissolve e muore. L’essenza
di questa forza vitale, il centro delle energie operanti nel corpo
è l’Atman, fondamento e supremo principio dell’essere nostro6.
Orbene, questa gerarchia di forze organiche trova un correlativo nel mondo esterno. All’occhio corrisponde il sole, all’udito l’etere vibrante nello spazio, al gusto l’acqua, al tatto l’aria,
all’olfatto la terra. E, come il Prâna e l’Atman del nostro corpo
dominano le forze sensoriali, così i loro corrispondenti oggettivi
signoreggiano l’universo intero. In tal modo l’Atman, nucleo del
nostro essere, viene elevato a suprema essenza di tutte le cose.
Parallelamente a questo processo, se ne delinea un altro, fondato sull’analogia, accennata più su, tra le formule del sacrificio
e le forze circolanti nell’universo. La preghiera, il brahman è la
parte più importante del sacrificio, il centro dei riti sacrificali:
ora, se il sacrificio è il simbolo del mondo, il brahman, essenza
del sacrificio, simboleggerà l’essenza del mondo. E, per l’incapacità dello spirito primitivo a tenere distanti il simbolo e la cosa
simboleggiata, il Brahman, simbolo dell’essenza cosmica, passò
a significare l’essenza cosmica stessa. Il passaggio non avvenne di
un sol colpo, ché, innanzi di assurgere alla dignità di fondamento del mondo, il Brahman fu concepito prima come un dio fra
gli dei, poi come il primogentito di Pradjapati.
Si trovavano così l’uno di fronte all’altro due concetti, quello
dell’Atman e quello del Brahman, raffiguranti entrambi la su12
Buddismo antico
prema realtà dell’universo: nulla di più naturale che finissero per
fondersi insieme, e che il Brahman-Atman rappresentasse esso la
sostanza di tutte le cose7. La nuova dottrina trovò espressione e
commento nelle Upanishad. Questa parola è composta dalle due
preposizioni Upa e ni e dalla radice verbale sad, e implica l’idea di
sedersi con rispetto presso qualcuno, come fa lo studente presso
il maestro, che gli deve rivelare la dottrina dell’Atman. La quale
non è dovuta, come si potrebbe credere, alla casta dei sacerdoti
(Brahmani), che anzi opposero resistenza alla sua diffusione, ma
piuttosto a quella dei guerrieri (Kshatriya). Gli antichi testi ci
hanno conservato traccie di dispute, avvenute alla corte di principi e re, tra i sostenitori della nuova dottrina e quelli dell’antica,
veri duelli oratorii, con doni e premii per il vincitore.
Uno degli ostacoli maggiori alla divulgazione della nuova
dottrina era costituito dall’indeterminazione del concetto dell’Atman. Gli avversari obiettavano: – Ma che cosa è l’Atman? Noi
vediamo un cavallo, un leone, un elefante, ma l’Atman occulto
in essi non lo vediamo. – E si rispondeva: – È la natura stessa
dell’Atman che lo sottrae agli sguardi dei mortali. Di lui non
si può dir nulla: né che sia grande né che sia piccolo, né che sia
limitato né che sia illimitato, né che sia forte né che sia debole8.
Na iti, na iti (non è così, non è così)9.
Esso è al disopra di ogni determinazione, perché ogni determinazione deriva da lui. L’uomo non ha parola per esprimere l’ineffabile, l’inesprimibile. Ogni determinazione che gli si attribuisce,
ce ne dà un’idea inadeguata. Dell’Atman non si può dir neppure
che pensi. Il pensiero, la coscienza implica la dualità di soggetto e
oggetto, e ogni dualità è abolita nel seno dell’assoluta Unità10.
13
Adriano Tilgher
Ma, posto il concetto dell’assoluta unità, lo spirito dové affrontare questo problema: come l’Atman unico e immutabile
può coesistere con la molteplicità del mondo esterno? Le soluzioni furon due. La prima, dualisticamente, concepì la materia
come un caos informe, coevo all’Atman, che opera su di essa e ne
trae forme definite e precise. L’Atman penetra tutte le cose, come
il sale penetra l’acqua, ma come il sale e l’acqua, così l’Atman e il
mondo, benché indissolubilmente uniti, conservano un’esistenza indipendente11. La seconda soluzione fu più logica. Per essa
non esiste che l’Atman: il mondo è il prodotto della Maya, della
rifrazione, cioè, dell’unico reale attraverso il prisma della nostra
mente, ma realtà obbiettiva non ne ha veruna12.
In nessun’altra epoca della storia del pensiero come in questa, forse, lo spirito ebbe sentimento così vivace e profondo
della fondamentale identità della essenza sua propria e di quella del mondo esteriore. Al figlio Svetaketu, che domanda quale
sia la sostanza dell’universo, Uddâlaka risponde: “tat tvam asi”,
quest’essenza sei tu stesso, è la tua essenza, è l’Atman13.
Intimamente compenetrato di queste idee, il saggio indiano
non ne fece soltanto oggetto di contemplazione teoretica, ma le
trasportò nella pratica, e sopra di esse modellò la sua vita. A chi
ha conosciuto l’Atman unico eterno immutabile e ha misurato
l’immensa distanza che lo divide dal mondo del molteplice e del
variabile, nulla che a questo mondo appartenga più piace e sorride: tutti i suoi sguardi son rivolti all’Atman, tutti i suoi desiderii
in esso s’appuntano. Egli abbandona la casa, la moglie e i figli,
rinunzia a ricchezze, onori e posterità, e se ne va nelle foreste
ombrose e nei monti deserti: colà, seduto a piè d’un albero o
14
Buddismo antico
d’una roccia, s’immerge nella contemplazione dell’Atman. Tace
in lui il fremito del desiderio, il frastuono della vita: il mondo
circostante scompare dai suoi occhi: egli è come immerso in profondissimo sonno: è tutto conoscenza, e, conoscendo l’Atman,
conosce sé stesso. Alla sua morte si ricongiungerà coll’Atman, né
più tornerà in questo mondo14.
Ma che succederà, dopo la morte, di colui che non ha conosciuto l’Atman? Che sarà dei buoni, che dei cattivi? Il Rig-Veda,
della vita d’oltretomba ci dà pochi e confusi accenni: i buoni
andranno in un luogo di eterne letizie, i malvagi di pene eterne.
Non ci si parla di metempsicosi o di trasmigrazione delle anime.
Queste idee, probabilmente trasmesse agli Arii dalle popolazioni
indigene dell’India15, da essi vinte e soggiogate, cominciano a far
capolino soltanto nel periodo dei Brahmanas. Chi sa propiziarsi
col sacrificio le arcane potenze dell’universo, rinascerà per non
mai più morire; chi non sa rendersi amiche tali potenze, rinascerà per continuamente rimorire nella distesa interminabile dei
secoli futuri16. Finalmente, dopo ulteriori evoluzioni17, la dottrina è formulata definitivamente dalle Upanishad: solo chi ha
conosciuto l’Atman, morto, si assorbirà in esso, né più tornerà
in questo mondo; ma chi non è riuscito a squarciare il velame
che ricopre l’Atman e a estinguere in sé il desiderio della vita
e dei piaceri, colui rinascerà in altre forme e in altri mondi, di
felicità o d’infelicità, a seconda che in terra avrà bene o male
operato. Finito il periodo di espiazione o di premio, ritornerà in
terra, dove, o conoscerà l’Atman e, morto, si assorbirà in lui, né
più rinascerà, ovvero, non conosciutolo, opererà bene o male, e
saranno le sue opere (Karma) le artefici del suo futuro destino.
15
Adriano Tilgher
Come si vede, le buone opere non ottengono la liberazione
dal circolo dell’esistenza, ma procacciano soltanto un buon avvenire dopo morto: è la conoscenza dell’Atman che libera da quel
circolo. E perché è necessario operar bene per non incorrere in
un avvenire di dolori? Perché chi opera il bene rispetta sé stesso
nel suo prossimo e in ogni essere vivente, l’Atman occulto in
lui essendo lo stesso di quello occulto in tutte le creature; mentre, chi opera il male offende nell’altro sé medesimo, nell’Atman
dell’altro il suo proprio Atman. Chi conosce l’Atman opera il
bene, poiché non può fare male a sé stesso con sé stesso (na hinasti âtmanâm âtmanâ)18.
L’evoluzione, che brevemente abbiamo tracciato, ci ha condotti al V secolo prima dell’era volgare. Il periodo vedico durò
dal 1300 all’800 a.C.; quello brahmanico-upanishadico, dall’800
al 500. Fu in questo secondo periodo che si formarono i Brahmanas, le Upanishad19, il codice di Manu20 e il Mahâbhârata.
II
Su questo patrimonio d’idee si esercitò il lavorio intellettuale
di Budda (560-480 a.C.), da questo sistema filosofico egli trasse
la sua dottrina, avendone avuto notizia, se non dai testi originali21, certo dall’insegnamento orale di Alara Kalama e Uddaka
Ramaputta, la cui scuola egli frequentò nel suo trentesimo anno
di età.
Ridotta alla più semplice espressione, sbarazzata dall’immane
fardello di miti e leggende, che più tardi l’oppresse, la dottrina
16