Traduzioni - Loescher Editore

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Il “nido dell’Aquila”
Siamo in Baviera, molto vicino alla frontiera con l’Austria.
Oggi visitiamo il “nido dell’Aquila” nelle alpi bavaresi dell’Obersalzberg.
Il viaggio inizia con l’autobus: dobbiamo salire fino a 1.800 metri.
Raggiungiamo un punto panoramico dove la vista sulle montagne è
incantevole... ma non siamo ancora arrivati in cima.
Attraverso un tunnel alto 3 metri e lungo 124 entriamo letteralmente dentro la
montagna.
Da qui prendiamo l’ascensore: un ascensore nella montagna.
Il viaggio non dura molto. Solo pochi secondi e già siamo arrivati in cima.
Molti turisti da tutto il mondo visitano il “nido dell’Aquila” che si trova a 1.834
metri d’altezza.
Tuttavia possiamo salire ancora, fin quasi nelle nuvole. La maggior parte dei
visitatori scatta delle foto ricordo da portare a casa. Con un pizzico di fortuna si
riescono a fotografare anche le aquile che vivono e nidificano quassù.
Ma perché il “nido dell’Aquila”, in inglese Eagle’s Nest, è così famoso?
Grazie alla mostra i visitatori hanno modo di saperne di più.
La casa fu costruita fra il 1937 e il 1938 e regalata ad Adolf Hitler per il suo
cinquantesimo compleanno, a nome del NDSAP (il Partito Nazionalsocialista
dei Lavoratori Tedeschi). Molti operai furono coinvolti in questo progetto
monumentale, quasi impossibile da realizzare. Alcuni persero la vita durante
i lavori.
Hitler però non frequentò spesso questo luogo. Si presume che lo ritenesse
troppo rischioso e isolato.
La casa però non fu mai colpita da bombardamenti e oggi, nella vecchia sala del
camino, c’è un ristorante.
Gli Alleati occuparono la zona poco prima della fine della Seconda Guerra
Mondiale.
Nel maggio 1945 il generale americano Eisenhower salì al “nido dell’Aquila”.
Le finestre della stanza di Eva Braun ci sono tuttora.
Forse, quella volta, anche Eisenhower si affacciò da qui sulla valle.
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Il coraggio della resistenza:
“La Rosa Bianca”
L’università Ludwig-Maximilian di Monaco è una delle più grandi in Germania.
A Monaco la chiamano LMU. La piazza di fronte all’edificio centrale
dell’università si chiama Geschwister-Scholl-Platz in memoria di Hans e Sophie
Scholl. Appartenevano al gruppo della Resistenza “La Rosa Bianca”. Oggi
incontriamo il Professor Huber, che ci racconterà molte cose sulla “Rosa
Bianca” e su suo padre.
Wolfgang Huber: Mi chiamo Wolfgang Huber. Sono il figlio del Professor
Kurt Huber. Sono anch’io professore universitario, come mio padre.
Intervistatore: Dove ci troviamo?
Wolfgang Huber: Questo è il luogo più significativo dell’università di
Monaco. È un’università antica, fondata circa nel 1800, qui siamo nell’atrio.
Là vennero gettati i volantini, proprio da quassù – al secondo piano sul
lato destro – vennero gettati i volantini e per questo qui vede anche un
monumento. Esattamente nel punto in cui vennero giù. Sophie Scholl disse:
Sì, adesso li butto giù così.
Intervistatore: Cos’era “La Rosa Bianca”, in che contesto è sorta e chi erano
i suoi membri?
Wolfgang Huber: “La Rosa Bianca” era un gruppo di studenti, assolutamente
informale. Non era un’organizzazione della Resistenza, non era
un’associazione. Per questo non aveva nemmeno dei “membri” veri e propri,
chi è membro della “Rosa Bianca”? Non era così, era una cerchia di amici.
E mio padre fu il mentore, il professore che per così dire ha lottato per la
libertà assieme agli studenti. Non erano dei partigiani professionisti.
Intervistatore: Ci può illustrare brevemente la storia della “Rosa Bianca”?
Wolfgang Huber: La storia è davvero breve. Nell’estate del 1942 gli studenti si
incontrano più o meno per caso. Organizzano delle serate di lettura insieme.
Cioè, qualcuno legge qualcosa ad alta voce e di ciò si discute. Dopo qualche
tempo Alexander Schmorell e Hans Scholl decisero: scriviamo dei volantini.
In questo modo sono nati i primi quattro volantini. Poi giunse l’impegno in
guerra. Molti studenti della “Rosa Bianca” erano operatori sanitari e furono
impiegati in Russia. Allorché fecero ritorno, decisero: adesso continuiamo
a scrivere per la nostra iniziativa di volantinaggio. Mio padre fu messo al
corrente e nel gennaio 1943, quindi non molto tempo dopo, ha partecipato
all’iniziativa, ha collaborato alla stesura del quinto volantino. Durante
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l’udienza davanti alla Gestapo ha indicato ogni singola frase scritta da lui.
Intervistatore: Cosa è successo il 18 febbraio 1943?
Wolfgang Huber: Il 18 febbraio 1943 i fratelli Scholl hanno distribuito
nell’università l’ultimo volantino, scritto da mio padre, e non appena arrivati
là sopra, dopo aver sparso volantini praticamente davanti a tutte le aule,
gliene erano avanzati un po’. E quindi Sophie Scholl dice nell’udienza alla
Gestapo: Li ho buttati giù per spavalderia. Non sapeva una cosa: la Gestapo
era già nell’edificio. Infatti la Gestapo aveva già il sospetto che i volantini
provenissero dall’università. Arrivò il bidello. Li ha arrestati entrambi. Per
prima cosa furono portati al rettorato, da lì alla centrale della Gestapo nella
Brienner Straße e là venne fuori che Hans Scholl aveva nella borsa le bozze di
un volantino scritto da Christoph Probst. Il 22 febbraio i tre furono subito
accusati e giustiziati il giorno stesso. Così iniziò la fine della “Rosa Bianca”.
Intervistatore: Da stranieri sorprende che in Germania praticamente non
ci fu una Resistenza. “La Rosa Bianca” è un’eccezione. Fu un caso isolato o la
punta di un iceberg?
Wolfgang Huber: In effetti ci furono relativamente molte azioni isolate.
Si calcolano all’incirca da sei a settemila azioni di resistenza isolate. Il
principale campo d’azione erano i volantini. Quindi ne furono distribuiti
molti, non solo quelli della “Rosa Bianca”.
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Il campo di concentramento di Dachau
Oggi visitiamo il memoriale del campo di concentramento di Dachau, in
prossimità di Monaco di Baviera.
Nel marzo del 1933 i nazisti istituirono qui un lager per prigionieri politici.
I visitatori possono leggere su molti pannelli informazioni sulla storia del
campo e guardare foto dell’epoca.
Per entrare nel lager i visitatori devono passare dal cancello del lager, proprio
come i prigionieri a quei tempi. L’iscrizione cinica Arbeit macht frei (“Il lavoro
rende liberi”) doveva nascondere la reale funzione del lager. Non era un campo
di lavoro, bensì un campo di concentramento: qui morirono circa 41.500
persone.
Le 34 baracche non sono più conservate. Recinzioni di pietra numerate
mostrano ai visitatori la posizione originaria delle baracche. Due di esse sono
state ricostruite in occasione dell’apertura del Memoriale e sono visitabili anche
all’interno.
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Davanti alla Piazza dell’appello oggi si trova un monumento commemorativo
internazionale, che ha lo scopo di ricordare le vittime della violenza nazista. La
scritta Nie wieder (“Mai più”) si può leggere in molte lingue.
La mostra sulla storia del campo di concentramento di Dachau si trova nel
vecchio edificio di manutenzione. Ogni anno circa 800.000 visitatori da tutto il
mondo vengono a Dachau. Quando i prigionieri arrivavano nel lager, dovevano
consegnare tutti i loro averi, compreso il proprio nome. Da quel momento erano
solo un numero.
A Dachau c’erano anche dei bunker. I bunker erano come una prigione nella
prigione. Qui venivano rinchiusi, torturati e spesso uccisi prigionieri scomodi.
Nel crematorio venivano bruciati i cadaveri del lager. Di solito i forni erano in
azione giorno e notte. Dachau fu liberato il 29 aprile 1945 da truppe americane.
Intervistatore: Cosa direbbe a un giovane studente, perché è importante
visitare luoghi come questo?
Uomo: È importante visitare luoghi come questo perché la storia non si
ripeta. Purtroppo si hanno sempre i problemi che tutto ciò dopo un certo
periodo si dimentica e continuamente si ripresentano tendenze a riportare
in vita nuovamente qualcosa del genere. Ci sono ancora paesi dove questo fa
parte dell’attualità. Molti non lo sanno ma per esempio la Corea del Nord è un
paese del genere e oggi l’opinione pubblica mondiale non se ne rende conto. È
importante venire a vedere per evitare che succeda di nuovo.
Uomo: Bisogna venire a vedere il memoriale per capire il passato, affinché una
cosa del genere non succeda più.
Donna: Mi chiamo Jasmin, ho 22 anni e vengo dalla Svizzera. Sono qui a Dachau
con mio zio, mia zia e mio fratello. Siamo stati a Monaco il weekend e ora, sulla
via di ritorno, a Dachau.
Intervistatore: A scuola viene trattato tutto ciò in modo particolare? Com’è in
Svizzera?
Donna: Beh, naturalmente abbiamo fatto la Seconda Guerra Mondiale, ma così,
andando nei dettagli, non l’abbiamo fatto proprio così.
Intervistatore: Cosa cambia quando un luogo si vede davvero e non se ne legge
solo in un libro?
Donna: Moltissimo. Ci si rende conto molto meglio di quello che è successo qui.
Non so se si possono vedere anche delle celle, ma certo, vedendo si può realizzare
com’era allora.
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Il campo di concentramento
di Mauthausen
Siamo in Austria, 20 km a est della città di Linz: qui oggi si trova il Memoriale
del campo di concentramento di Mauthausen. Il campo di concentramento
entrò in attività nell’agosto del 1938, pochi mesi dopo l’annessione
dell’Austria al Reich tedesco. Fu il più grande del paese.
Qui venivano rinchiusi gli avversari del regime nazista: prigionieri politici,
ma anche i cosiddetti asociali, omosessuali, studiosi della Bibbia, testimoni
di Geova ed ebrei. Era un campo internazionale: gli internati venivano
da paesi europei ed extra-europei. A Mauthausen la metà di queste persone
trovò la morte.
Mauthausen era costituito da un campo centrale e da molti campi esterni.
Le baracche di legno erano lunghe circa 50 metri e larghe 8.
I prigionieri potevano accedere alle baracche solo scalzi e ne dovevano pulire
giornalmente i pavimenti e le pareti.
I visitatori del Memoriale possono visitare anche il crematorio in cantina.
Molti parenti delle vittime hanno affisso delle targhe alle pareti vicino ai
forni. Non vogliono che i volti e i nomi dei loro cari vengano dimenticati.
A volte lasciano anche dei fiori freschi o una candela.
Italiani, spagnoli, cittadini sovietici, polacchi, cechi, francesi, belgi, jugoslavi,
ma anche tedeschi e austriaci, fra cui donne, bambini e ragazzi vengono
ricordati qui. La lista dei nomi sembra infinita.
In cantina si trovava anche la camera a gas. Veniva chiamata “doccia”.
La stanza era grande poco meno di 14 m². Nelle due porte c’era uno spioncino:
dopo l’asfissiamento con il gas Zyklon B, una procedura che durava circa
15/20 minuti, il comandante del crematorio guardava dallo spioncino. Così
poteva vedere, se tutti i prigionieri erano morti.
Non lontano dal lager scorre il Danubio. Il paesaggio qui è incantevole.
Ma la bellezza può ingannare: nella cava vicino al campo centrale c’era molto
granito. Molti prigionieri dovevano lavorare qui fino allo sfinimento o alla
morte. La scala della morte è una scala di pietra di 186 scalini. All’epoca gli
scalini non erano uniformi come oggi. I prigionieri dovevano salire la scala
con pietre pesanti sulla schiena. Gli incidenti e gli omicidi erano frequenti.
Le SS, prendendo a botte e a calci i prigionieri, li facevano scivolare e cadere.
La scala della morte era alta più di 30 metri.
Davanti al campo di concentramento ci sono molti monumenti diversi:
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quello quasi astratto della Repubblica Federale Tedesca; quello italiano
con le immagini individuali dei prigionieri; l’imponente – quasi maestoso
– monumento sovietico; quello ebreo che ricorda il candelabro ebraico; il
monumento della Repubblica Democratica Tedesca con una citazione di
Bertolt Brecht. A Mauthausen e nei campi-satellite morirono quasi 100.000
persone.
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Per non dimenticare
Nel centro di Berlino c’è un monumento unico nel suo genere: il memoriale
dell’olocausto. Ricorda gli ebrei assassinati in Europa. Cosa simboleggiano
le oltre 2.700 steli di varie altezze e dimensioni? Sono lapidi? Oppure un
labirinto? Ognuno può trovare la propria risposta. È un memoriale aperto,
praticabile. Ed è questo a renderlo così speciale.
Non molto lontano si trova il famoso viale Unter den Linden con le sue chiese
e monumenti. Molti vengono per passeggiare o comprare libri. L’università
Humboldt è la più antica di Berlino, fu inaugurata nel 1810. Il fisico Albert
Einstein e il poeta Heinrich Heine studiarono qui.
Proprio di fronte all’università, sul Bebelplatz, i turisti guardano a terra. Cosa
c’è nascosto? Sotto a una lastra di vetro si vedono gli scaffali di una biblioteca.
Ma i libri non ci sono. Questo monumento ricorda i roghi di libri del 1933.
I nazisti distrussero migliaia di libri che non stavano bene al regime.
Anche libri di Heinrich Heine. Nel 1821 il poeta scrisse “Là dove si bruciano
i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini.”
Nel Museo Ebraico si può imparare moltissimo sulla storia degli ebrei e della
cultura ebraica in Germania. Sì può prenotare una guida oppure visitare
il museo da soli. All’inizio dell’esposizione c’è un albero particolare: un
melograno. Su dei bigliettini rossi i visitatori scrivono un desiderio per
il futuro. Lei cosa scriverebbe?
Nel museo ci sono anche installazioni artistiche che ricordano la
persecuzione degli ebrei. Quest’opera si chiama Gefallenes Laub (“Foglie
cadute”). Il visitatore cammina su più di 10.000 volti con le bocche aperte,
producendo un rumore inquietante.
L’architetto Daniel Liebeskind ha progettato il nuovo edificio del museo. Per
lui è molto importante l’esperienza che l’architettura trasmette. Nel Giardino
dell’Esilio il visitatore perde l’orientamento e l’equilibrio perché il pavimento
e le steli sono obliqui.
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La cupola dorata della nuova sinagoga sulla Oranienburger Straße è ben visibile
anche da lontano. Ma nel quartiere di Mitte ci sono anche altri emblematici
oggetti dorati sulla strada: si chiamano “pietre d’inciampo”. Su queste
piccole targhe di ottone ci sono i nomi di ebrei assassinati nei campi di
concentramento. Servono a mantenere vivo il ricordo di queste persone.
Anche in Austria, qui nella città di Salisburgo, si trovano “pietre d’inciampo”.
Gli ebrei furono perseguitati anche lì.
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Le due Germanie: RFT e RDT
(Free citizens of West Berlin, under the) protection of Allied troops, go about their
daily tasks well aware that their divided city has been pounced upon by (Nikita)
Khrushchev as his frail reason for resuming Atom-bomb tests. They know, as president
Kennedy said, that Khrushchev is testing more than bombs. He is testing the will and
determination of the free world through atomic blackmail.
[Traduzione in tedesco: Liberi cittadini di Berlino Ovest vivono quotidianamente sotto
la protezione delle truppe alleate, ben sapendo che la loro città divisa è stata usata da
Krusciov come fragile pretesto per riprendere i test atomici. Sanno che, come ha detto il
presidente Kennedy, Krusciov non sta testando solo bombe. Con il suo ricatto atomico
sta mettendo alla prova la volontà e la determinazione del mondo libero.]
Vier Trümpfe mit dem Trabant 601. Bequem für vier Erwachsene. Viel Raum für Ihr
Gepäck. Wendig. Schnell.
Pocker d’assi con il Trabant 601. Comodo per quattro adulti. Molto spazio per i
vostri bagagli. Agile. Veloce.
Est e Ovest. Due mondi che a Berlino hanno vissuto a lungo l’uno accanto
ma anche l’uno contro l’altro. Nel 1945, dopo la fine della Seconda Guerra
Mondiale, gli Alleati divisero la città in quattro settori: americano, britannico,
francese e sovietico. All’inizio i rapporti erano ancora buoni. Ma ben presto
le differenze fra Est e Ovest diventarono troppo grandi. Nel 1948 le truppe
sovietiche bloccarono le frontiere verso Berlino Ovest. Dal 1949 al 1990 la
Germania fu divisa in due: la Repubblica Democratica, la DDR, all’Est e la
Repubblica Federale, la BRD, all’Ovest.
Berlino Ovest – Kurfürstendamm. Con i suoi grandi magazzini e negozi
questa strada divenne un simbolo del benessere e della libertà dell’occidente.
Qui c’era sempre molto movimento. Il Kaufhaus des Westens, abbreviato
KaDeWe, è ancora oggi uno dei più famosi grandi magazzini d’Europa. La
Repubblica Federale sovvenzionava Berlino Ovest con molti contributi.
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Doveva essere la Vetrina dell’Occidente. Aveva quindi anche dei vantaggi vivere
in una città “murata”: grazie alle sovvenzioni statali si guadagnava di più
e di conseguenza si poteva anche spendere di più. Il benessere dei berlinesi
dell’Ovest era molto importante per la propaganda della Repubblica Federale.
Oggi Berlino è la capitale della Germania riunificata. Le immagini del
KaDeWe sono simili a quelle di 30 anni fa, quando c’era ancora il muro.
Ma dopo la guerra, nella Berlino distrutta, non era ancora chiaro se alla fine
avrebbe vinto l’Ovest capitalista o l’Est socialista. La propaganda, anche se di
natura diversa, ci fu da entrambe le parti.
Jeder hat an seinem Platz an der Erfüllung unserer Aufgaben mitgeholfen.
Große Erfolge wurden in unserem sozialistischen Aufbau erreicht.
(Zeitungstitel: Umfangreiche Maßnahmen zur Verbesserung der Lebenslage)
Durch die Leistungen unserer Werktätigen konnte die Versorgung der Bevölkerung
weiter verbessert werden. Auch das Weihnachtsangebot der Konsumgenossenschaften
ist reichhaltiger geworden.
Nel proprio ruolo ognuno ha contribuito all’adempimento dei nostri compiti.
Nella nostra organizzazione socialista sono stati raggiunti grandi successi.
(Titolo di giornale: Vaste misure per il miglioramento del tenore di vita)
Grazie alle prestazioni dei nostri lavoratori l’approvvigionamento della popolazione è
stato migliorato ancora. Anche l’offerta natalizia delle cooperative di consumo
è diventata più ricca.
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La costruzione del muro di Berlino
e le conseguenze
Berlino, primi anni Sessanta. Bambini giocano a pallone in strada.
Un’immagine non proprio inusuale. Ma ora il pallone è perso. Dietro al muro.
Anche la Chiesa della Riconciliazione si trovava dietro al muro, sulla
striscia della morte. Nel 1985 fu fatta saltare in aria dal governo della DDR,
la Repubblica Democratica Tedesca. Oggi lì c’è la Cappella della
Riconciliazione, in ricordo della chiesa distrutta.
Fra il 1961 e il 1989 Berlino è stata una città divisa in due. La frontiera passava
anche alla Porta di Brandeburgo. Passeggiare lì come oggi all’epoca era
impensabile. Il muro non divideva solo la città ma anche famiglie e amici.
All’inizio i berlinesi erano increduli. Si sperava che la cosa finisse presto.
La polizia di confine osservava ogni movimento. Un famoso varco di frontiera
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era al Checkpoint Charlie. La comunicazione fra la gente di Berlino Est
e Ovest era molto difficile: alcuni inventarono dei propri linguaggi, altri
provavano a fuggire a Ovest.
Per molte persone la fuga era l’unica via. Era spesso molto pericoloso, ma lo
facevano lo stesso. Quest’uomo salta dal quarto piano di una casa di confine.
Anche questa donna vuole gettarsi dalla finestra, ma non la lasciano andare.
Dall’alto buttano addirittura una bomba fumogena. Ma alla fine la donna ce
la fa e viene salvata dai pompieri di Berlino Ovest.
Oggi, molti dei tentativi di fuga sono documentati nei musei. Le persone non
volevano vivere rinchiusi dietro a un muro. Per i tedeschi dell’Est viaggiare
era possibile ma molto difficile. Potevano andare solo negli Stati amici del
blocco orientale.
Nella notte del 13 Agosto 1961 il governo della DDR chiuse le frontiere con
Berlino Ovest con il filo spinato. Nei giorni seguenti fu costruito il muro. Le
finestre che aprivano a Ovest vennero murate.
La televisione della Germania dell’Est all’epoca descrisse il muro come
“protezione dai promotori della Guerra Fredda” all’Ovest. Doveva proteggere
l’Est dalle provocazioni belliche provenienti dall’Ovest.
Ma le persone continuavano a fuggire.
Non tutti sono sopravvissuti al tentativo di fuga. Peter Fechter aveva
solo 18 anni quando provò ad arrampicarsi sul muro. In quel momento fu
ripetutamente colpito con armi da fuoco. Rimase a lungo a terra, gridò aiuto,
ma nessuno venne. Fino a che fu troppo tardi. Morì dissanguato il 17 Agosto
1962.
La notizia raggiunse presto Berlino Ovest. La morte di Peter Fechter
sconvolse le persone. In molte strade si tennero minuti di silenzio: il traffico
e la gente si fermarono. Peter Fechter divenne una delle più famose vittime
del muro.
Fra il 13 Agosto 1961 e il 9 Novembre 1989 almeno 138 morirono vicino al muro
di Berlino.
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La Ostpolitik di Willy Brandt
Intervistatrice: Potrebbe presentarsi?
Jürgen Lillteicher: Sì, mi chiamo Jürgen Lillteicher, dalla fine del 2007 sono
il direttore della Casa Willy Brandt qui a Lubecca. Questa casa appartiene alla
fondazione Cancelliere Willy Brandt.
Ci troviamo nel cuore della città vecchia di Lubecca, in una vecchia casa
patrizia. Willy Brandt non ha mai vissuto qui, ma considerando, dove fare un
museo o un luogo della memoria per Willy Brandt, fu decisivo dove sono le
persone. E le persone e i turisti sono nel centro della città vecchia di Lubecca
e quindi ora siamo in questa casa.
Intervistatrice: Potrebbe raccontarci qualcosa sulla storia di Willy Brandt?
Jürgen Lillteicher: Sua madre dovette lavorare in una cooperativa, si usa
dire, una specie di famiglia patchwork, qualcosa di inusuale, magari per il
tempo non così inusuale, ma ha trascorso comunque una infanzia inusuale,
e gli riesce appena il salto verso l’esilio attraverso la Norvegia, quindi fugge
dai nazionalsocialisti, costruisce una rete socialista, dopo la guerra ritorna in
Germania, diviene sindaco di Berlino, da sindaco in carica vive la costruzione
del Muro, e questa, direi, è per lui già la prima scintilla: che cosa posso fare
contro la guerra fredda e contro la divisione della Germania? Come posso
fare piccoli fori nel Muro per riportare insieme le persone? Questo diventa
un leitmotiv della sua politica e lo rende anche famoso: la politica verso
l’est. Ciò significa la svolta verso l’est, verso l’Unione Sovietica, la Polonia;
come si può assicurare un ordine pacifico all’interno dell’Europa? Questo lo
contraddistingue, per questa politica ha anche ottenuto il premio Nobel, ma
non solo per l’Europa dell’est, si tratta anche dell’integrazione dalla parte
dell’ovest, quindi l’Europa, spingere avanti il progetto Europa.
Intervistatrice: Esatto, anche lei lo ha appena detto. Nel 1971 è stato
insignito del premio Nobel per la pace. Perché?
Jürgen Lillteicher: Sì, in fondo, lo si può quasi paragonare con Barack
Obama, una specie di anticipo per questo atto temerario, in fondo, per avviare
un dialogo con l’est, con l’Unione Sovietica, al di là della Cortina di ferro.
Per premiare questo atto oppure per stimolarlo ulteriormente all’idea che
il dialogo possa creare la pace, per non far interrompere mai i canali della
comunicazione, io penso, questo fu un importante argomento per il premio.
Intervistatrice: Che ruolo ebbe lui durante la guerra fredda e la divisione
della Germania e di Berlino?
Jürgen Lillteicher: Intendo dire, chiaramente durante la guerra fredda
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divenne un anticomunista, da giovane era ancora un socialista convinto,
ma non appena si accorse dei danni causati dallo stalinismo, di quali
scontri, di quanto tutto ciò fosse nocivo alla pace, è subito diventato anche
un anticomunista. Dice anche di se stesso che lui stesso sarebbe stato un
“guerriero freddo”. Ma appunto, non il congelamento dello status quo, tirare
su i muri, bensì avviare appunto il dialogo, incontrare Brezhnev, incontrarsi
in Polonia con Cyrankiewicz, riconoscere i confini come sono sorti dopo la
guerra, quindi il risultato della seconda guerra mondiale, anche tutto ciò fu
molto importante. Perciò io direi che il ruolo fu il dialogo, quindi la creazione
della pace, senz’altro.
Intervistatrice: Quanto è vivo oggi il ricordo di Willy Brandt nella Germania
riunificata?
Jürgen Lillteicher: È un’icona, diciamo, della storia contemporanea,
l’inginocchiamento di Varsavia, che io prima non ho nemmeno nominato,
è l’immagine di un cancelliere tedesco che si scusa per i crimini di guerra,
veramente per i crimini della Germania in Europa. È diventato un’icona
e viene anche citato spesso. E naturalmente nel 1989 per la riunificazione
quel “Es wächst zusammen, was zusammen gehört” (si ricongiunge ciò va
insieme) è una citazione molto importante o una nozione importante.
Intervistatrice: E come ha vissuto Brandt la caduta del Muro?
Jürgen Lillteicher: Sì, grazie a Dio, l’ha vissuta. Ciò che ha sempre desiderato,
che un giorno cadesse la Cortina di ferro, che cadesse il Muro, succede
davvero, anche per lui in modo del tutto inaspettato, e poi però sta anche
dalla parte dei conservatori per sfruttare subito la chance di riunificare la
Germania. Questa cosa fu davvero molto controversa anche all’interno della
SPD. Non si sapeva affatto che cosa ci aspettasse: come vogliamo realizzarla?
In generale, ce la fa la Germania dell’ovest da sola? In quel caso lui fu un
veemente sostenitore della riunificazione e che Berlino diventasse anche
capitale.
Intervistatrice: Brevemente, lei lo ha già detto, tuttavia ritorniamo su
questo famoso inginocchiamento. Che cosa è successo di preciso lì? Quando
fu? Ci potrebbe raccontare questa piccola storia?
Jürgen Lillteicher: Sì. Willy Brandt fa un viaggio a Varsavia per firmare
il patto con Varsavia, l’accettazione dei confini dopo la seconda guerra
mondiale, e visita il monumento per i martiri della rivolta del ghetto
ebraico, vale a dire, del ghetto, del ghetto ebraico di Varsavia. E lui l’aveva
ben presente: non posso deporre solo una corona, lo fanno tutti i politici,
c’è bisogno di un gesto particolare, e allora si è messo spontaneamente in
ginocchio e si è inginocchiato come gesto di profondo rispetto, direi, come
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confessione anche della colpa tedesca. Questa cosa è inusuale e qualcosa del
genere, credo, non c’è più stata nella storia del mondo.
Intervistatrice: Adesso una domanda conclusiva sulla casa qui: Che cosa è
esposto nella Casa Willy-Brandt e che cosa attende i visitatori?
Jürgen Lillteicher: Naturalmente, quando si fa una esposizione su Willy
Brandt e il suo tempo, all’inizio c’è l’esposizione biografica che comincia
con l’infanzia e la giovinezza qui, nella città anseatica di Lubecca, ma che
poi giunge fino alla riunificazione, alla sua morte, naturalmente, ma anche
al programma politico che Willy Brandt ha condotto. Quali erano i valori,
i valori fondamentali, i diritti umani... così, alla fine ci inoltriamo anche
nella formazione dei diritti umani, in modo da avere uno sguardo verso il
futuro. Noi diciamo: vivere con Willy Brandt le tappe del 20° secolo. È una
esposizione interattiva, c’è anche parecchio materiale cinematografico che
si può cliccare, per ogni contenuto dell’esposizione c’è anche un allestimento
individuale, diciamo, strutture espositive proprie, non è uguale, bensì ci sono
punti differenti che sono rielaborati in modo differente.
Intervistatrice: Brevissimamente per concludere: se dovesse descrivere
Willy Brandt con qualche aggettivo, quali furono le sue qualità?
Jürgen Lillteicher: Penso, un politico carismatico, molto forte nell’analisi,
che ha anche previsto certe evoluzioni, e che ha sempre detto che la politica
deve sempre camminare anche col tempo, non deve essere statica; quindi,
vedere ciò che si evolve nella società, ciò che si evolve in tutto il mondo e
come la politica deve reagire a tutto ciò. Quindi, rimanere sempre flessibili,
mettere a fuoco i sensi, e anche che la politica può affrontare le sfide.
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Testimonianze dell’Est e dell’Ovest
Liselotte Kubitza: Il mio nome è Liselotte Kubitza, sono nata il 28 agosto
1933 a Berlino e ho vissuto a Berlino praticamente per tutta la vita. Solo una
volta nella mia vita ho abitato un anno ad Altenburg, Turingia, quindi nella
nostra provincia tedesca, e precisamente dall’estate del 1943 all’estate del 1944.
Allora avevo 10 anni e questo voleva dire che, essendoci molti bombardamenti
a Berlino, tutti i bambini non potevano più andare a scuola e, questa la si
chiamava evacuazione, furono fatti evacuare e costretti ad andare fuori
Berlino. Allora furono evacuate numerose classi scolastiche congiuntamente.
Herbert Töpfer: Sono Herbert Töpfer, ho 75 anni nel frattempo, e vivo qui a
Berlino dalla nascita, sono nato a Berlino e sono sempre stato qui. Ho vissuto
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Traduzioni / Video 9
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la fine della guerra, gli anni della guerra, e quindi il 1944 e 1945; ho vissuto
anche il 17 giugno, il principio del Muro e la fine del Muro.
Intervistatore: Com’era il tragitto per andare a scuola?
Liselotte Kubitza: La peculiarità era questa. Nel 1940, il 1 aprile 1940 i ragazzi
erano ancora separati dalle ragazze e abbiamo tenuto le mani giunte in modo
molto disciplinato, e poi il direttore girava nonostante tutto per la classe con
il bastone, già, anche se noi non fiatavamo; quindi, nella classe eravamo 42
ragazze. Così fu la mia istruzione elementare.
Intervistatore: Dove e quando è andato a scuola?
Herbert Töpfer: Sono andato a scuola nel 1941 a Berlino. E poi ci furono
i bombardamenti e non so se qualcuno si ricorda che, insomma, l’80% di
Berlino fu distrutta. E, dunque, durante questi bombardamenti sono andato
a scuola in parte nella fattoria dei miei nonni oppure qui a Berlino. E nel 1944
poi, siamo – per così dire – rimpatriati a Berlino e qui ho ancora avuto quattro
settimane di scuola, ma quella non era una scuola. Dovete immaginare un
edificio scolastico e una grossa asta della bandiera e poi una grande bandiera
con una svastica e un funzionario del Partito che allora ancora incitava,
nel marzo del 1945, ancora incitava alla vittoria finale, quindi che noi ce
l’avremmo fatta, che il Führer aveva, e noi avevamo, armi segrete e avremmo
vinto la guerra. Tutte fesserie, infatti dopo che era passato questo quarto
d’ora, dovevamo andare a casa alla svelta, perché incombeva il prossimo
allarme aereo.
Intervistatore: Dov’era quando è stato costruito il Muro? Cosa è successo alla
sua famiglia?
Liselotte Kubitza: Era il 13 agosto, estate, noi eravamo in vacanza perché
mio marito era insegnante di educazione fisica, già, noi eravamo laggiù, e lì
l’hanno annunciato alla radio e ci fu una grande agitazione tra gli insegnanti
che si trovavano insieme ai bambini nel campo di vacanza; e mio marito era
fuori di sé, fuori di sé da ex berlinese dell’ovest, era del distretto di Tempelhof, e
c’erano anche i cimiteri dei suoi genitori, a Berlino Ovest, e non li avrebbe più
potuti andare a trovare e per questo era anche piuttosto irritato.
Herbert Töpfer: La mia famiglia, noi siamo, noi abbiamo vissuto sempre
qui, a Berlino Ovest. E io ho naturalmente molti parenti intorno a Berlino, e
questo fu uno dei motivi per cui ho sempre avuto dei lasciapassare e per cui
io, con l’aiuto di questi lasciapassare, potevo andare a trovarli anche là. E ho
sempre detto – sono un ottimista senza speranza – io ho sempre detto che
se parlano la stessa lingua e hanno lo stesso codice civile – solo che in esso
c’è scritto DDR invece di BRD – e che se hanno anche la stessa segnaletica
stradale e che se anche, allora doveva pur essere prima o poi, allora doveva
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Traduzioni / Video 10
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pur accadere prima o poi; e non era nemmeno così, che la DDR era formata
solo da collaboratori inufficiali e dalla Stasi, ma era formata da tedeschi.
Intervistatore: Naturalmente, quindi la Sua famiglia fu divisa e voi vi siete,
credo, per lo più augurati di poter essere di nuovo insieme.
Liselotte Kubitza: Aspettavamo l’unificazione con impazienza febbrile,
naturalmente con animo positivo, già, quindi non avevo – ciò che ad es.
un uomo della Stasi – la paura che adesso fosse la fine del socialismo,
bensì avevo atteso – e anche salutato – questo evento colma di gioia. E io
naturalmente, dalla gioia, sono poi andata a tutte le grandi manifestazioni
collettive, alla Porta di Brandeburgo, a tutto ciò che accadeva, anche io ero là,
ho anche cercato molto di esserci; e poi ogni volta, ah, adesso devo guardare
da sola, adesso i miei cari erano morti, adesso devo guardare da sola. Così
provavo gioia per ciò che accadeva alla città di Berlino, ma anche il lutto per
i cari che non potevano più vivere questa gioia; quindi, lacerato, il mio cuore
era lacerato. Lacerato nella gioia e nel dolore, completamente diviso.
Intervistatore: Dov’era il 9 novembre?
Herbert Töpfer: La sera del 9 novembre avevo una riunione sindacale e là
avevo, anzi abbiamo discusso di problemi sindacali e poi mi sono offerto di
accompagnare una collega di Berlino centro qui a Prinz. Poi l’ho lasciata a
casa, sono andato a casa e, dato che era già piuttosto tardi, non ho più acceso
la televisione. E la mattina dopo, alle sei, mi chiamò mia figlia, “pfff, quindi
papà non sai proprio dove siamo!” E questo fu il mio 9 novembre, trascorso
dormendo, veramente dormendo.
video 10
La tragedia della Bernauer Straße:
il racconto di Padre Manfred Fischer
Manfred Fischer: Mi chiamo Manfred Fischer e sono pastore nella Comunità
evangelica della Riconciliazione qui nel centro di Berlino. Sono qui, come
pastore, dal 1975 e sono nato nel 1948.
Qui ci troviamo proprio in un luogo in cui i sistemi dell’Est e dell’Ovest
urtavano l’uno con l’altro, e precisamente in mezzo a una città. È peculiare,
ma anche tragico, il fatto che qui le persone di un lato della strada avessero
sì rapporti familiari con le persone dell’altro lato della strada, tuttavia erano
due mondi. Gli uni vivevano nel mondo dell’Ovest, gli altri nel mondo
dell’Est.
Particolarmente tragico fu per la nostra comunità parrocchiale, poiché la
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Traduzioni / Video 10
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maggior parte dei parrocchiani abitavano all’Ovest, mentre l’edificio della
chiesa si trovava dal lato dell’Est. E quando fu costruito il Muro fu davvero
impossibile per i parrocchiani continuare ad andare in chiesa. Così, là
avevamo la chiesa, era sempre là ma nessuno poteva accedervi, eccetto per le
truppe di confine.
Quando la chiesa fu fatta saltare in aria, io non ero qui, ma ero negli Stati
Uniti per studio. In televisione vedo – negli Stati Uniti arriva ben poco di
ciò che accede in Germania e nei notiziari ancor meno – vedo: Servizio da
Berlino: un servizio da Berlino? Cosa? … Chiesa saltata in aria, la mia chiesa.
Precisamente la chiesa non era completamente perduta. C’erano ancora le
fondamenta, là. E c’erano ancora le campane. E c’era ancora l’altare! Questo
voleva dire che in effetti l’essenziale di quella chiesa c’era ancora. E poi ci
siamo detti: dobbiamo tornare. Noi ci siamo detti che dovevamo provvedere
a costruire qualcosa di nuovo. O meglio, trasformare tutto ciò che ancora
c’era là dentro ovvero, partendo da ciò che c’era ancora, trasformarlo in una
costruzione nuova. Questo è il concetto di questa nuova cappella.
Quando il Muro cadde io ero via, avevo comprato un computer e non
funzionava correttamente. Ero da un amico che se la cava bene con i
computer. E quindi ci abbiamo aggeggiato. Poi sono tornato a casa e qui
c’era un varco di confine Chausseestrasse. Poi ho visto molte persone a terra.
Era la caduta del Muro! La gente che era a terra non era caduta, ma giaceva
a terra con delle grosse cartine. Le avevano avute dalla gente dell’Ovest e
stavano guardando dove si trovavano e come poter arrivare in Ku’damm
(Kurfurstendamm) da lì.
Era un atto di liberazione. Ma in questo atto di liberazione il simbolo
principale del tempo – che fu superato – venne distrutto. E io credo che
per capire la storia siano necessari oggetti veri, no? Quindi: documenti e
oggetti che hanno un’aura, e anche luoghi. E perciò pensavo che dovessimo
assolutamente avere un pezzo di muro, ma non come separazione tra Est e
Ovest, bensì come documento di questo tempo, dal quale si capisse la gioia.
Infatti, dove sta la grande gioia: nel fatto che io possa andare da un lato di
una strada all’altro. Non se ne sarebbe rallegrato nessun altro, no? Ma proprio
perché si era così felici di questo fatto, per questo abbiamo bisogno nella
Bernauer Straβe, questa strada del destino con molti morti, con dei tunnel
scavati e tentativi di fuga – è tutto qui in questa strada; abbiamo bisogno di
un documento.
Gerhard Selter: Il mio nome è Gerhard Selter. Lavoro come storico presso
il monumento commemorativo del Muro di Berlino. È stato creato un
museo per raccogliere cose, per archiviarle e per esporle in un contesto. Un
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monumento commemorativo non lo fa; di solito si trova in un luogo dove
è accaduto qualcosa di particolare, e lì mostra le cose che sono accadute
in questo luogo, spiegando il luogo. E noi naturalmente abbiamo un pezzo
d’esposizione, cioè il luogo, cioè il Muro e tutto ciò a esso collegato.
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9 novembre 1989: La caduta del muro
Berlino – Novembre 1989. Il simbolo della divisione tedesca fra Est e Ovest
non è mai stato più fragile di adesso. Ciò che risuona quasi come una
mitragliatrice è in verità un martello pneumatico.
Molte persone, famiglie e amici divisi da entrambe le parti, hanno sognato
questo momento. E ora è arrivato: il muro non c’è più.
La gente osserva, gioisce, alcuni fanno una foto per non dimenticare mai
questo momento.
Anche la polizia di confine stasera è riunificata: applausi scroscianti salutano
le strette di mano dei funzionari.
Davanti alla Porta di Brandeburgo c’è un piccolo palco improvvisato. Chi
parlerà?
Per quasi trent’anni qui non era possibile perfino fermarsi: questa era zona
di confine. La Rivoluzione Pacifica l’ha reso possibile: ora si può di nuovo
tranquillamente passare sotto alla Porta di Brandeburgo.
Il Cancelliere Helmut Kohl sale sul piccolo palco. Molti sono accorsi per
sentire cosa dirà. Assieme al presidente russo Michail Gorbaciov è uno
dei politici più importanti, che hanno reso possibile la pacifica caduta del
muro.
Helmut Kohl: “Questo è un momento emozionante. Molti di noi,
compreso me, in questi decenni si sono fermati spesso davanti alla Porta di
Brandeburgo e spesso abbiamo parlato, discusso e riflettuto... “Vivremo mai
l’esperienza,” chiede Helmut Kohl, di attraversare insieme questa porta?”
La risposta è sì. Queste sono giornate di gioia per Berlino e per il mondo.
Ora ci si può addirittura arrampicare sul muro. In passato la polizia di
confine lo sorvegliava con i fucili e sparava a chi ci si avvicinava troppo.
Ognuno vuole staccare e portarsi a casa un pezzettino di muro e con esso
un pezzo di storia. Il rumore dei martelli si mescola al giubilo dei berlinesi,
increduli di fronte al fatto che il muro appartiene oramai al passato. Alcuni
ne fanno subito un affare:
“Comprare? Comprare?”
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Ma la maggior parte delle persone è felice per la fine della divisione e
festeggia cantando:
“Una giornata meravigliosa come oggi, una giornata così non dovrebbe
passare mai.”
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Berlino 2009: 20 anni dalla caduta del muro
Berlino, 9 Novembre 2009. Oggi venti anni fa cadeva il muro di Berlino. Fu un
passo determinante verso la riunificazione tedesca.
Molte persone sono venute a Berlino da tutte le parti del mondo. Vogliono
festeggiare questo avvenimento importante, anche se piove a dirotto.
Alla Porta di Brandeburgo Daniel Barenboim dirige la Staatskapelle. Molti politici di
rilievo sono presenti. Dopo il concerto cammineranno insieme sotto alla Porta
di Brandeburgo, da Est a Ovest, dove una volta c’era il confine. Il pubblico può
seguire l’evento su molti monitor.
Davanti alla Porta di Brandeburgo c’è un altro ospite d’eccezione: l’ex presidente
e sindacalista polacco Lech Walesa. Farà cadere un muro simbolico fatto di 1.000
tessere di domino. E la città continua a festeggiare.
Un famoso varco di confine è il ponte Bornholmer Brücke.Anche la cancelliera
Angela Merkel è qui oggi come venti anni fa. Qui fu aperta per la prima volta la
frontiera. Da questo ponte i primi berlinesi dell’Est si riversarono verso Ovest.
Angela Merkel: “Se oggi in Germania festeggiamo questo giorno e stasera ci
ritroveremo alla Porta di Brandeburgo, allora questo non è un giorno di festa
soltanto per i tedeschi, questo è un giorno di festa per l’intera Europa. È un giorno
di festa per tutte le persone che hanno più libertà, dalla Russia fino ad altre parti
del mondo. E allora diciamo semplicemente: ‘Grazie per averci aiutato in molti su
questa strada. Grazie di cuore!’”
L’ex presidente sovietico Michail Gorbaciov è uno degli ospiti d’onore a Berlino.
La gente chiama “Gorbi!” e lui ricambia il saluto.
Il 9 Novembre è un giorno della memoria. Nella Chiesa di Gethsemane e nella
Cappella della Riconciliazione oggi si celebrano delle funzioni per tenere vivo il
ricordo di questa giornata.
Sulla Bernauer Straße il pastore evangelico Manfred Fischer, il sindaco di Berlino
Klaus Wowereit e il pubblicista ebreo Ernst Cramer camminano lì dove il muro
divideva in due la città. Oggi del muro non restano che alcune parti, come luoghi
del ricordo, dove però si può anche andare a fare una semplice passeggiata.
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Berlino 2014: 25 anni dalla caduta del muro
È una giornata particolare a Berlino: oggi è il 9 Novembre 2014. 25 anni
fa cadeva il muro di Berlino. Molti politici di rilievo prendono parte alle
celebrazioni, anche la cancelliera Angela Merkel. È cresciuta nella DDR, la
Repubblica Democratica Tedesca e nel 1989 era presente a Berlino quando
cadde il Muro. Ma oggi è anche una giornata del ricordo: in molti morirono
vicino al Muro. Nella Cappella della Riconciliazione nella Bernauer Straße
vengono ricordati anche loro.
Pastore Thomas Jeutner: Le lacrime di dolore si mutarono in lacrime
di gioia allora, 25 anni fa. Le persone si ricordano. Un benvenuto a tutti
i rappresentanti di politica e società.
Fuori le persone aspettano. Forse hanno fortuna e la cancelliera li andrà
a salutare personalmente. È contenta di poter scambiare qualche parola
con loro.
Donna: Il 9 Novembre... quando ci alzammo la mattina fu una sorpresa
assoluta. Si può dire che l’apertura della frontiera, come probabilmente la
maggior parte dei cittadini, ce la siamo persa dormendo! Poi il 10, al mattino
presto, abbiamo sentito al giornale radio che a Berlino erano tutti al Muro,
che passavano la frontiera a piedi e allora abbiamo iniziato a pensare anche
noi... sa, noi veniamo dal Vogtland, in Sassonia – l’ultimo pezzetto di Sassonia
– abbiamo iniziato a pensare come [eravamo messi] a mezzi di trasporto,
quali mezzi di trasporto potevamo usare, perché all’epoca non avevamo
la macchina. E allora abbiamo preso il treno per la Baviera, tuttavia solo
domenica 11 Novembre.
Uomo: È stato così commovente, una sensazione da “pelle d’oca”. Me la sono
goduto davvero di aver partecipato anch’io qui a Berlino, per me è stato
qualcosa di speciale. E poi anche io avevo da vivere destini personali, la nostra
famiglia fu separata dalla divisione tedesca. Mio fratello gemello è morto a
Colonia e mio padre, anche lui ha sofferto molto a causa della divisione della
Germania. E tutti ne hanno sofferto, abbiamo tutti sofferto a causa della
divisione della Germania. Fui molto felice quando grazie alla Caduta del Muro
il 9 Novembre 1989 la divisione fu finita.
Presentatore: Cari berlinesi, care berlinesi, cari ospiti di questa città,
non importa da dove venite, o da dove ci state guardando, oggi siamo tutti
berlinesi, perché oggi abbiamo qualcosa da festeggiare. Qualcosa di unico
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al mondo: la Caduta pacifica del Muro di Berlino, sì, di un’intera frontiera
interna tra Stati tedeschi senza che venisse sparato un unico colpo. Per quel
che ne so io, al momento è un fatto unico. Non è mai successo da nessun’altra
parte.
Canzone di Wolf Biermann: “Ermutigung” – “Incoraggiamento”
Tu, non lasciarti indurire
Tu, non lasciarti amareggiare
in questi tempi duri.
in questi tempi amari.
Quelli che sono troppo duri si spezzano,
I potenti tremano,
quelli troppo aguzzi, pungono
– sei ora dietro le sbarre,
e poi si spezzano subito,
ma non per il tuo dolore,
e poi si spezzano subito.
ma non per il tuo dolore.
Canzone di David Bowie cantata da Peter Gabriel: “Heroes” – “Eroi”
Io, io sarò re
E tu, tu sarai la regina
E niente ci porterà via
Possiamo essere eroi,
solo per un giorno.
Klaus Wowereit (ex sindaco di Berlino): Qui a Berlino e in molti altri luoghi
nella DDR e nei paesi confinanti nell’Europa centrale e dell’est cittadini e
cittadine coraggiosi hanno scritto la storia. Storia tedesca, storia europea
e di conseguenza storia mondiale. A loro va il nostro ringraziamento per
la felice riuscita della rivoluzione pacifica. Ci inchiniamo davanti alla
determinazione, al coraggio e alla risolutezza di queste persone, di cui molte
sono qui fra noi stasera. Tante, tante grazie per queste straordinarie azioni
che hanno portato alla Caduta del Muro.
video 14
Radebeul: Il Museo della DDR
Intervistatrice: Può presentarsi brevemente e dirci dove siamo adesso?
Hans Joachim Stefan: Mi chiamo Hans Joachim Stefan e ho il compito di
darvi un caloroso benvenuto nel museo della DDR Zeitreise (“viaggio nel
tempo”), a Radebeul.
Intervistatrice: Ci può raccontare la storia del museo?
Hans Joachim Stefan: La storia si riassume sinteticamente così, che
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all’inizio fu fondato un museo dell’automobile a Dresda, esistito per tre anni,
che però non era così competitivo; nel frattempo divenne chiaro il fatto che,
per risvegliare l’interesse delle persone, si dovessero presentare ben più dei
soli automezzi e da ciò nacque concretamente questa storia sulla vita e il
tempo libero nella DDR.
Intervistatrice: Da quanto tempo c’è già il museo?
Hans Joachim Stefan: Per esser abbastanza precisi, da dieci anni.
Intervistatrice: Come è nata questa collezione? Ho già sentito numeri che
sono veramente, davvero molto grandi, moltissimi oggetti esposti.
Hans Joachim Stefan: Sì, è una rete che è nata negli anni e poi naturalmente
hanno partecipato anche molti collezionisti con pezzi delle loro collezioni e
in più si aggiunge naturalmente anche una propria passione da collezionista,
d’altra parte poi una fase delle donazioni, delle fondazioni e così via... in
modo che così sia presente anche la varietà dei temi che possiamo coprire,
della vita quotidiana.
Intervistatrice: Ha fatto l’esperienza che la gente ha donato volentieri,
intendo anche oggetti e pezzi da esposizione?
Hans Joachim Stefan: Sì. Ci sono due ragioni: l’una è che le persone non
vogliono che il loro passato scompaia. È molto importante. In questo senso
non ci sono musei statali che si occupino di questo tema. E il secondo punto
è che, per loro, gli oggetti hanno personalmente un così grande valore che
allora non ce la fanno a buttarli via.
Intervistatrice: Come è concepita l’esposizione?
Hans Joachim Stefan: Abbiamo quattro piani per inserirvi un certo ordine,
una struttura tematica.
Intervistatrice: Di quali temi si tratta?
Hans Joachim Stefan: Sì, per forza di cose si dovette iniziare naturalmente
con Adamo ed Eva... cioè con la capitolazione, il 7-8 maggio 1945, e allora
in alto abbiamo collocato lo Stato e le sue istituzioni, il sistema statale, la
struttura dello Stato, che tipo di elezioni c’erano e come si svolgevano, quale
fosse la presenza dell’uniforme nella DDR, fino a certi enti statali... e al terzo
piano abbiamo poi la cosiddetta vita privata, vale a dire tutto ciò che riguarda
il campo delle abitazioni private e l’organizzazione del tempo libero, la
famiglia, e al secondo piano l’economia e il commercio, e qui giù, lo vediamo
bene, la mobilità, il tema che ha sempre dominato la popolazione della DDR.
La mobilità fu almeno un pezzo di libertà. Si poteva viaggiare anche nel
fraterno territorio socialistico. Molti hanno fatto viaggi. Io ho dei racconti
d’avventura favolosi a riguardo di viaggi nel Caucaso o in posti del genere.
Anche quella era un’esperienza di vita e per questo dico spesso, scherzando,
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che i tedeschi dell’ovest non avevano neanche il permesso di andarci.
Intervistatrice: È bello. Ha un ricordo particolare o una esperienza che
lei, ad es., ha fatto durante un viaggio di questi o che le farebbe piacere
raccontarci?
Hans Joachim Stefan: No, è proprio questa la differenza. Io sono un tedesco
dell’ovest. Non l’ho mai vissuta la DDR.
Intervistatrice: Abbiamo parlato con tanta gente, non così tanta, tuttavia
con le persone con cui abbiamo parlato, loro ci hanno detto spesso che a loro
manca questa solidarietà, quindi persone che hanno lavorato all’est o che vi
sono cresciute o così via.
Hans Joachim Stefan: Questa fu qui un’altra forma speciale della storia.
Io la chiamo sempre la comunità dell’approvvigionamento. Questa fu la
causa per la solidarietà, per lo stringersi insieme, per le amicizie che ne sono
nate, perché la penuria permanente ha reso necessario che ci si occupasse
dell’altro e che si cercasse uno spalleggiamento per raggiungere i benefici
che si desideravano.
Intervistatrice: Quali erano le cose che erano migliori ai tempi della DDR e
quali erano le cose che erano peggiori al tempo della DDR?
Hans Joachim Stefan: Sì, ok, direi che dal lato mancante ci fu senza
dubbio l’azione del sistema, la limitata libertà di viaggiare, naturalmente i
meccanismi di sorveglianza dello Stato, sorti col tempo, perché si aveva paura
delle proprie persone. Uno si deve chiedere se oggi talvolta non sia simile... e
il diritto di voto che era praticamente limitato, pesantemente limitato, non
c’erano elezioni libere e democratiche, tanto che si è vissuti praticamente in
una dittatura.
Il lato positivo (dell’avere) fu senza dubbio il lato della sicurezza sociale
da ogni punto di vista. Dunque, la vita privata era messa completamente
al sicuro secondo una buona misura di confort. Ora, confort per favore, tra
le virgolette di una economia nella carenza, tuttavia la fondazione di una
famiglia era premiata con un appartamento e un prestito iniziale ecc. Queste
sono state tutte cose in cui si avevano opportunità.
Intervistatrice: Che cos’è la Ostalgie (“Nostalgia dell’est”)? Che significa?
Hans Joachim Stefan: Ostalgie, io lo direi in questo modo, è uno sguardo
di trasfigurazione sui rapporti o sugli oggetti a cui uno lega un particolare
significato, a cui uno lega particolari esperienze o in cui addirittura si rimane
attaccati a cose che erano meglio nel vecchio sistema.
Intervistatrice: Ad esempio?
Hans Joachim Stefan: Sì, dunque, un grandissimo vantaggio di cui i cittadini
della DDR fino a oggi naturalmente sentono la mancanza, su questo bisogna
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dire che dopo l’unificazione molte persone prima di tutto hanno riflettuto.
E oggi molti sono molto più coscienti di quanto allora fosse alta la sicurezza
sociale, per la propria pianificazione, per la famiglia, per il futuro. Poiché la
sicurezza sociale, al di fuori del fatto che in Germania si prende la Hartz 4
(un sussidio sociale) quando si rompono tutte le corde, tuttavia non c’è più
alcuna sicurezza sociale; perché domani può non esserci più il tuo posto di
lavoro e con ciò immediatamente anche tutti i tuoi obiettivi di vita vengono
prima disturbati percettibilmente, fino a essere distrutti. Questo l’hanno
dovuto imparare soprattutto molti della DDR.
video 15
Weimar: “Meno banane, più solidarietà”
Intervistatrice: Può presentarsi brevemente? Come si chiama? Quanti anni
ha?
Utta Geicker: Mi chiamo Utta Geicker, ho 56 anni.
Intervistatrice: Dove ci troviamo adesso?
Utta Geicker: Adesso ci troviamo a Weimar, vicino alla casa di Goethe.
Intervistatrice: Quindi, lei viene da questa zona?
Utta Geicker: Sì, a Weimar ci abito anche.
Intervistatrice: Allora è nata al tempo dell’est?
Utta Geicker: Sì.
Intervistatrice: Ha vissuto la vita nella DDR?
Utta Geicker: Sì, l’ho vissuta.
Intervistatrice: Come era diverso allora in confronto a oggi?
Utta Geicker: Ad esempio, i posti per l’asilo. Era difficile avere un posto
all’asilo, ma non era caro. Lì i bambini venivano accuditi, noi abbiamo
mandato volentieri i bambini all’asilo, là facevano tanto con le maestre
d’asilo, venivano stimolati, formati. E oggi, al tempo dell’ovest è in un altro
modo. Ora le mamme tengono volentieri i bambini a casa, li educano più
volentieri a casa e così non è bene. Quando poi vanno a scuola, hanno poche
competenze linguistiche, vengono messi soltanto davanti al televisore.
Intervistatrice: Le persone erano solidali tra di loro, in un certo qual modo?
Era differente da oggi?
Utta Geicker: Sì, era così al tempo dell’est, si era molto solidali, anche tra
colleghi di lavoro. Era più un insieme, si faceva festa di più e ogni tanto...
Ora, uno ce l’ha con l’altro, potrebbe essere che quello mi porti via il posto
di lavoro, ora bisogna avere paura di... Allora il posto di lavoro era sicuro,
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adesso no. Abbiamo fino all’unificazione… il mio posto di lavoro era sicuro.
Le donne hanno fatto figli, allora le donne avevano un anno di esonero per
il Kinderbabyjahr (congedo parentale), dopo di che avevano di nuovo il loro
posto di lavoro assicurato. Oggi no, oggi... o la donna si prende tre anni per
il bambino perché non c’è più nessun posto negli asili, e però poi non è
nemmeno sicuro se poi, una volta lì, possono rientrare nella professione.
Intervistatrice: Che lavoro ha fatto al tempo della DDR?
Utta Geicker: Ero in una grande azienda, ero disegnatrice tecnica, l’ho fatto
molto volentieri.
Intervistatrice: Allora sa disegnare molto bene?
Utta Geicker: Sì, disegnare bene.
Intervistatrice: Prima mi ha raccontato qualcosa, c’erano, sì, alcune cose che
nella DDR non c’erano, come ad es. un tipo di frutta, può raccontarci qualcosa
su questo fatto?
Utta Geicker: Sì, ad esempio le arance c’erano solo da dicembre, diciamo
che prima di Natale venivano vendute le arance, e allora si è sempre, allora
l’intera famiglia si metteva in fila, poi veniva [tutto], così che si mantenesse
davvero a lungo. Oppure anche banane ce n’erano raramente, allora si aveva
solo, siete 5 persone in famiglia, c’erano 5 banane, ad es. C’erano le mele, il
cavolo rosso, poi è già finita, patate, carote. Questo è tutto ciò che c’era da noi
allora.
Intervistatrice: Ciò significa che i suoi bambini non mangiavano spesso
banane?
Utta Geicker: Non spesso. Non spesso, ma non sono nemmeno mancate
loro. Fu un bel periodo, la butto lì. Adesso abbiamo tutto, adesso possiamo
viaggiare, non c’era nemmeno la libertà di viaggiare. Si poteva andare nella
Repubblica Ceca, nella Cecoslovacchia, o in Polonia, ma adesso in Italia
o, quella era la nostra nostalgia, saremmo ritornati, ma avevano paura, il
governo, che rimanessimo laggiù. Saremmo andati volentieri in Spagna, in
Italia, dappertutto, di certo saremmo anche ritornati a casa.
In questo senso eravamo rinchiusi.
Intervistatrice: Anche la sensazione di vivere rinchiusi naturalmente non è
stata bella.
Utta Geicker: Sì, sì, alla lunga no. A lungo non sarebbe più andata bene.
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3/10/1990 – 2015: 25 anni
dalla riunificazione
Tutti insieme, il 2 ottobre si festeggia l’unità tedesca vicino alla Porta di
Brandeburgo. Il sindaco di Berlino fa oscillare la bacchetta da direttore
d’orchestra, soldati americani e russi fanno musica.
Fino a oggi il 17 giugno è il trauma del SED (Partito di unità socialista di Germania)
Tra i letterati c’è una atmosfera di riflessione …
La loro tremenda paura che una cosa così, del tutto imprevedibile, possa accadere
nuovamente, esiste oggi come ieri…
Durante una lettura pubblica di poesie vengono recitati ancora una volta
testi scelti di autori della Germania est, che sono stati proibiti per decenni.
… i comunisti non hanno saputo sfruttare l’enorme credito che con la caduta di Hitler
capitò loro di avere. Questa è la tragedia della DDR (Repubblica Democratica Tedesca).
Mentre fuori un gruppo di ballo popolare proveniente dalla sempre divisa
Corea balla per la grande festa, giovani intellettuali si sono ritrovati
nell’università di Berlino est per trascorrere le ultime ore della DDR con le
canzoni di Wolf Biermann, una delle prime figure simboliche della resistenza
contro il SED.
E quando vuoi andare via, devi andare
Ho già visto molti scappare
Dal nostro mezzo Paese
Allora sono l’Icaro prussiano
con ali grigie di ghisa
allora mi fanno così male le braccia
quindi volo alto e poi precipito
fate un po’ vento – poi mi mancano le forze
Manca poco a mezzanotte, allorché incontriamo un berlinese di 80 anni.
Uomo: “Se uno mi avesse raccontato che durante i miei giorni questo
maledetto muro…, avrei detto che svalvola. E ora non svalvola affatto! Ora
sono qui, ora mi sono detto, questo devi viverlo. Eccomi qui.”
Uomo: “Sono molto emozionato, devo dire. Questo, per me, è un giorno che ho
atteso per molti, lunghi anni. È semplicemente meraviglioso!”
Donna: “Penso che questo sia per noi, proprio per la nostra generazione,
un’enorme opportunità d’imparare dal passato e per contribuire a costruire il
futuro.”
Il 3 ottobre, ore 0, davanti al parlamento berlinese, una notevole folla di
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persone ascolta il suono della campana della libertà e le parole del presidente
Richard von Weizäcker: “Con libera autodeterminazione vogliamo portare a
compimento l’unità e la libertà della Germania. Vogliamo servire la pace del
mondo in un’Europa unita.”
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Dresda, 2015: “Dobbiamo aiutare
i rifugiati.”
Intervistatrice: Vi potreste presentare brevemente? Forse uno dopo l’altro.
Christine Dörber: Sì, mi chiamo Christine Dörber e sono di Hameln.
Lars Dörber: Mi chiamo Lars Dörber e sono anche io di Hameln, che è vicino ad
Hannover.
Intervistatrice: Hannover, dunque, per gli studenti italiani che forse non
conoscono in modo così preciso la geografia tedesca, dove si trova?
Christine Dörber: Nel nord della Germania.
Lars Dörber: Al nord, esatto. Nella Bassa Sassonia. In realtà nel mezzo della
Germania.
Intervistatrice: Prima era all’est o all’ovest?
Christine Dörber: All’ovest.
Lars Dörber: Esatto. Era da sempre Ovest.
Intervistatrice: E adesso? Dove ci troviamo adesso?
Christine Dörber: A Dresda.
Lars Dörber: Direttamente davanti alla Frauenkirche. Ovvero di dietro!
Intervistatrice: Perché secondo lei questo luogo è così importante? Perché siete
qui oggi?
Christine Dörber: Perché era anche un luogo così importante in Germania,
cioè per il conflitto tra est e ovest, cioè degli ultimi decenni, per questo è molto
caratterizzante, e semplicemente anche tutti gli edifici che si vedono ancora
qui. Per questo la Frauenkirche è tanto significativa, adesso che è stata anche
ricostruita di nuovo qualche anno fa, che fu distrutta durante la guerra e ancora
oggi si vedono i relitti, in fondo, della guerra.
Lars Dörber: Mia moglie è stata qui 10 anni fa, no?
Christine Dörber: Sì, prima che la Frauenkirche fosse ricostruita. Poco fa ero
molto colpita di vederla così, adesso, perché conoscevo solo le immagini della
televisione e noi avevamo visto ancora le rovine e le macerie che giacevano
davanti alla chiesa. In un certo senso la guerra era ancora lì, non era poi più così
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lontana, se si vede tutto ancora in modo così “reale”.
Intervistatrice: Qui siamo a Dresda. Ieri qui c’era di nuovo una di quelle
manifestazioni di... mah, diciamo, di persone che non desiderano che altri
vengano in Germania. Questo c’è e naturalmente è di certo un problema, è
qualcosa che è attuale in questo momento.
Non so quale sia la vostra posizione, però la Germania si presenta ora, al
momento, come un paese molto aperto, ciò però naturalmente riporta gli
scontri in Germania. Come vi sentite come tedeschi, se volete, in questo
momento?
Lars Dörber: Questa è una domanda molto difficile, credo, se si…
Christine Dörber: Ci si sente un po’ combattuti.
Lars Dörber: Esatto, è una vera sfortuna, noi in realtà non abbiamo nulla a
che fare con 60-70 anni fa, ma solo per il fatto di ciò che c’è stato, per noi è
attualmente molto difficile farci i conti. Allora, per noi, personalmente si può
dire che abbiamo... è molto difficile... queste persone che vengono qui, prima
hanno avuto una vita davvero brutta, ce l’hanno. Se si pensa a ciò di cui si fanno
carico per venire via di nuovo dal loro paese, nessuno, credo, può immaginarselo,
nessuno di quelli che crescono qui nella bambagia, nella pacifica Germania,
può immaginarselo. Lo trovo giusto che si dia questo asilo, finché in qualche
modo ci si riesce. Tuttavia bisogna anche essere molto chiari, ci sono comunità
in Germania che hanno 2000 abitanti e hanno 4000 profughi. Questo non va,
semplicemente non funziona.
Noi, proprio da noi in Hameln, abbiamo un campo di accoglienza, come si
dice sempre, in genere noi non ci accorgiamo di nulla, veramente. Vale a dire,
loro si inseriscono nel panorama cittadino, che è multiculturale, tuttavia ora
non è nemmeno così che adesso in Hameln siamo così sovraccarichi come ad
esempio queste altre piccole comunità. Perciò per noi è facile, o più facile, dire:
“Ok, è bello che lo fate.” Credo davvero che ci siano regioni in Germania che
dicano anche: “noi aiutiamo volentieri, ma a un certo punto è anche troppo,
non possiamo più permettercelo.” È anche così realmente. E in Italia, credo che
sia un problema da anni, ciò che adesso, stavolta, arriva anche qui, il problema
che prima non si aveva direttamente qui, perché si diceva sempre: “Ragazzi, è
abbastanza lontano”. Tuttavia il problema in Italia o in Spagna, quello è sempre
stato lì, i paesi del mediterraneo, ed ecco: adesso anche qui, nell’altra Europa
del nord o, diciamo, nell’Europa di mezzo, ci svegliamo davvero, che questa
problematica c’è già da tempo, ma adesso semplicemente colpisce anche qui.
Intervistatrice: E pensate che quindi l’Europa, allora, come lo devo dire, è
qualcosa che unisce o piuttosto dite in questo caso più o meno: “Tu fa’ il tuo,
tu fa’ il tuo, quello fa i compiti a casa, quello non li fa”?
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Lars Dörber: Dunque, è uguale, qualcuno c’è sempre che non è soddisfatto.
Qualcuno dovrà sempre ridimensionarsi nelle sue pretese, o le aree che ora
dicono: “Ok, li accogliamo” o quelli che dicono: “Ok, ora basta”. Qualcuno si
ridimensionerà ed è come nel matrimonio. C’è un compromesso, ma spesso
non è contento lo stesso nessuno, quando ci sono problemi seri, qualcuno deve
sempre ridimensionarsi e per questo può diventare senz’altro più difficile, nel
complesso. Io penso di sì, anche se ritengo importante che tutta l’Europa, lo
devo dire, che tutta l’Europa si occupi di ciò. È semplice, non è un problema di
Germania, Italia o della Svezia, dove tanti vogliono andare, bensì è un problema
europeo e allora qui deve darsi da fare tutta l’Europa.
Christine Dörber: E inoltre nessuno può chiudere gli occhi, perché non si deve
nemmeno dimenticare che ognuno può finire in quella situazione. Cioè, non
lo si augura e si spera di no, per l’amor di Dio, tuttavia può succedere a ognuno,
a ogni paese. E anche in Germania ce l’avevamo, cioè, io sono dell’est, anche
di nascita, di Zwickau, dove sono nata e con i miei genitori, ancor prima della
unificazione, ecco, non sono proprio fuggita all’ovest, così come lo si sa dalla
televisione, come lo si sente dire anche spesso, bensì [ho fatto] la via classica,
tuttavia conosciamo anche i campi di accoglienza e fummo accolti all’ovest e
assistiti, e c’erano soldi di benvenuto e, sì, all’inizio non avevamo nemmeno
nulla, e allora si è naturalmente contenti, se si è accolti da una società che sta
meglio. E io trovo che siamo una Terra, un mondo, e io trovo che bisogna davvero
stare uniti, anche loro sono esseri umani. Certamente è sempre difficile, alla
fine, metterlo in pratica, come ha già detto ora anche mio marito, una cosa è dire
“abbiamo l’obbligo, noi stiamo bene e dobbiamo prenderci cura di coloro che
non stanno così bene”. Chiaro, poi si deve vedere, concretamente, come lo si può
fare. Però io trovo che sia importante aiutare, di sicuro, e non chiudere gli occhi
davanti a questo.
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Dresda 2015: “Tutti possono andare dove
vogliono.”
Intervistatrice: Potreste presentarvi brevemente? Magari prima tu e poi tu.
Ella: Allora, io sono Ella e ho 11 anni.
Anna: Io sono Anna e ho anch’io 11 anni.
Intervistatrice: E di dove siete e dove siamo adesso?
Ella: Allora, noi siamo entrambe di Dresda.
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Anna: E siamo a Dresda!
Ella: Nell’Altmarkt.
Anna: Davanti alla porta di casa!
Ella: Davanti alla porta di casa!
Intervistatrice: Wow, è comodo! Potreste raccontarci qualcosa sulla vostra
scuola? Dunque, in che classe siete? E così via.
Anna: Io vado alla Scuola Internazionale di Dresda e sono nella 5A, e sì, 5A,
esatto!
Ella: Io vado al Liceo Vitzthum e lì sono in sesta, 6E.
Intervistatrice: Lì fate anche lezione di lingua?
Anna: Sì, nella mia scuola si parla tutto il giorno solo inglese, tranne che nelle
ore di tedesco, logicamente. E... sì!
Ella: E impari anche un’altra lingua?
Anna: Sì, dalla sesta impariamo anche lo spagnolo.
Ella: Allora, anche io imparo l’inglese, anche io ero alla Scuola internazionale
come la Anna, e il francese da quest’anno.
Intervistatrice: Che cosa direste a degli alunni italiani, se doveste raccontare
qualcosa sulla Germania, che direste? Che c’è di particolare? Che c’è di bello nella
città di Dresda? Che cosa potrebbe essere interessante per gli alunni di altri
paesi? Perché un giorno dovrebbero venire a Dresda per venirvi a trovare?
Ella: Che si può mai fare a Dresda? Si può visitare la Frauenkirche o cose così, e ...
non mi viene in mente nessun motivo perché Dresda andrebbe visitata.
Anna: Uhm, per le persone gentili, e… uhm… ma naturalmente ci sono anche
molti svantaggi!
Intervistatrice: Puoi ripetere, che cosa hai detto?
Anna: Ci sono anche tante cose negative a Dresda.
Intervistatrice: Ad esempio? Puoi dirne qualcuna? Ti viene in mente qualcosa?
Anna: Pegida.
Intervistatrice: Questa è una cosa che non ci piace e non piace nemmeno a voi.
Sì, che tipo di gente è in realtà? Non vogliono...
Ella: Non vogliono che gli stranieri entrino qui, dicono, qui dovrebbero essere
solo tedeschi in Germania.
Intervistatrice: E voi che ne pensate?
Anna: In qualche modo non ha senso perché tutta la gente può andare dove
vuole.
Intervistatrice: Dunque, ci sono anche lati spiacevoli, come ad esempio?
Anna: Pegida.
Intervistatrice: Che significa veramente, sai per che cosa sta?
Anna: Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes (“Europei
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patriotici contro l’islamizzazione dell’Occidente”).
Intervistatrice: Ma che va a significare? Che tipo di gente è?
Anna: Loro pensano che, se la gente dall’Islam viene qui, che qui ci sono troppe,
troppe persone e noi poi veniamo tutti islamizzati.
Ella: Esatto, e che a quelli viene portato via il lavoro, e così via.
Intervistatrice: Allora, che ne pensate voi?
Anna: Non ha senso!
Intervistatrice: Avete poi anche amici a scuola, intendo dire, che vengono da
altri paesi?
Ella: Ma certo!
Anna: Sì.
Intervistatrice: Come è per voi questa esperienza?
Ella: Siamo state entrambe alla (scuola) Internazionale ed ebbene, lì la maggior
parte sono stranieri.
Anna: In realtà, insomma, se adesso qui si sente in continuazione “gli stranieri
violentano le nostre donne o simili”, allora si pensa che, più o meno, anche loro
sono semplicemente esseri umani del tutto normali e sono più intelligenti della
maggior parte di questi tipi di Pegida.
Intervistatrice: L’ultimissima cosa! Un saluto agli alunni italiani!
Ella: Come si fa?
Intervistatrice: La telecamera è vostra.
Anna + Ella: Ciaoooo!
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