Giovanni Paolo II e l`Africa

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Giovanni Paolo II e l`Africa
Civitas
Rivista quadrimestrale di ricerca
storica e cultura politica
• Fondata e diretta da Filippo Meda
(1919-1925)
• Diretta da Guido Gonella (1947)
• Diretta da Paolo Emilio Taviani
(1950-1995)
Quarta serie
• Diretta da Gabriele De Rosa
«Civitas» “riprenderà il difficile impegno con la serietà
ed il rigore che la hanno contraddistinta nei momenti
più travagliati e complessi.
I temi riguarderanno problemi, eventi, prospettive
della politica internazionale con un particolare riguardo
alla vita italiana ed all’unità europea.
... Il XX secolo ha lasciato tracce e impronte in Italia,
in Europa e nel mondo, che sono in gran parte da scoprire e,
per un certo verso, se non addirittura, da correggere,
da meglio interpretare.
Sarà anche questo un importante compito della nuova «Civitas»”. [Paolo Emilio Taviani, 18 febbraio 2000]
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Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Perché l’Africa
• Questo numero di «Civitas» inaugura la serie degli SPECIALI che si aggiungono periodicamente alle normali edizioni quadrimestrali della Rivista.
• L’argomento scelto è l’AFRICA, cioè il Continente che tutti reputano il
più interessante nella prospettiva del Mondo che si evolve sulla spinta inarrestabile della mondializzazione della Cultura, del Benessere e quindi dei Mercati.
• La vicinanza dell’Italia al Continente africano assegna carattere di priorità alle analisi che la situazione ad oggi offre a chiunque voglia, in coscienza e
bisogno di conoscenza, guardare verso il futuro, non soltanto di un’area geopolitica particolare e distinta dal resto della Terra, ma dell’intera umanità.
• Non a caso quindi lo “Speciale” assegna volutamente all’Africa la definizione di “Continente tra abbandono e speranza”, sia perché noi continentali europei abbiamo non poco da farci perdonare del passato, sia perché ci
sono tutte le condizioni perché il nostro Paese si ponga alla guida del “nuovo
corso” che l’Africa attende e merita.
Franco Nobili
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
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Indice
AFRICA: UN CONTINENTE TRA ABBANDONO E SPERANZA
– Numero speciale a cura di Mario Giro –
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Editoriale
• Sfide del presente
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Dal post colonialismo ad oggi - di Franco Nobili
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La Stato africano tra guerre e globalizzazione - di Mario Giro
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Le nuove democrazie africane. Quale modello? Il “Laboratorio Africa”
di Jean Léonard Touadi
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L’epidemia da AIDS e il futuro dell’Africa - di Leonardo Palombi
• Africa religiosa
61
Il Vangelo e l’Africa - di Monsignor Jean Mbarga
73
Giovanni Paolo II e l’Africa - di Monsignor Robert Sarah
81
L’uomo africano è veramente religioso? - di Padre Éloi Messi Metogo o.p.
91
Le Chiese africane indipendenti - di Stefano Picciaredda
101
Islam in Africa nera - di Gianpaolo Cadalanu
• Il futuro dell’élite
113
Il brain drain verso Occidente: depauperamento delle risorse umane e intellettuali
in Africa, la “tratta dei cervelli” dal sud al nord del mondo - di Daniela Pompei
125
Gli intellettuali africani di fronte alla storia - di Boniface Mongo Mboussa
133
Élites intellettuali e sviluppo in Africa - di Robert Dussey
L’AFRICA IN LIBRERIA a cura di Valerio De Cesaris
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NOMI CITATI
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Africa:
un continente tra abbandono e speranza
Editoriale
• Il numero speciale sull’Africa si propone di affrontare il continente da
un angolo visuale inconsueto. Senza respingere temi economici e legati allo sviluppo, così fondamentali per l’Africa, si è cercato di introdurre una riflessione
allargata a temi culturali e politici, dalla transizione alla democrazia, alla
questione religiosa, fino alle problematiche che investono la società africana e
le sue élite.
• La prima sezione è dedicata alle sfide del presente. Innanzi tutto la democrazia, sfida per la riconfigurazione dello Stato africano, protagonista mai
abbastanza studiato dei mutamenti che hanno investito il continente. I conflitti a ripetizione attirano l’attenzione dell’opinione pubblica sul fenomeno
etnico e sull’intreccio degli interessi in gioco. Riteniamo necessaria una maggior attenzione alla questione istituzionale e alla problematica delle transizioni democratiche e del loro modello. Si tratta di domande rivolte all’Europa e
all’Italia, oggi forse più disattenta che in passato sulle sue possibilità di partnership con il continente.
• Una seconda parte si sviluppa attorno al tema dell’Africa religiosa, iniziando con la testimonianza africana sulla figura del papa Giovanni Paolo II
e la sua relazione con il continente che tanto ha amato. Seguono i saggi sull’incontro dell’Africa con il Vangelo e il tema dell’inculturazione; un’indagine originale sull’animo religioso africano che esce dai sentieri consueti; sul fenomeno
poco conosciuto delle Chiese africane indipendenti e infine sull’Islam nero. Si è
voluto così tracciare un variegato panorama allo scopo di offrire alcuni riferimenti necessari, per andare oltre un’immagine conformista dell’Africa a confronto con il fenomeno religioso nel nostro tempo.
• Infine una terza parte è dedicata alle élite africane. Ci è sembrato rilevante analizzare il loro presente e futuro, proprio nella prospettiva della lotta
alla povertà e della partnership con il mondo ricco. Senza una élite messa in
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Editoriale
condizioni di accedere a tutti gli strumenti necessari, non vi può essere alcun
sviluppo, politico o economico. Le élite africane sono oggi sottoposte a minacce
di cui si è cercato di dar conto: l’emigrazione dei cervelli, l’AIDS, la rassegnazione che viene dal pessimismo su di sé. Ci sembra che a tali sfide una risposta
sia assolutamente necessaria e urgente.
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Sfide del presente
Dal post colonialismo ad oggi
Sulla scia dell’interesse scientifico che l’Africa esercitò
presso gli esploratori e missionari già a partire nel 1420
con Enrico il Navigatore, i paesi del vecchio continente
alla fine del XVIII secolo considerarono l’Africa quale
terra di conquista per lo sfruttamento delle risorse naturali e quale nuovo sbocco per le proprie attività commerciali, trasformando tali interessi in vere e proprie
azioni di colonizzazione, occupando territori, abbattendo usi e tradizioni, riducendo allo stato di schiavitù intere popolazioni.
FRANCO NOBILI
Condirettore «Civitas»
La spartizione del continente
• Se si pensa che, ancor prima dell’imporsi del dominio
europeo, l’Africa aveva esportato per centinaia di anni oro,
rame, sale e varie altre materie prime è facile capire l’interesse che spinse dal 1880 al 1905 Francia, Spagna, Gran Bretagna, Belgio, Germania ed Italia ad accaparrarsi, e per primi,
tali risorse naturali.
Ancora oggi l’Africa è il continente più ricco di minerali;
ne possiede in quantità e varietà considerevoli, benché la loro distribuzione geografica sia diseguale. In Africa inoltre si
trovano alcune tra le maggiori riserve di oro e diamanti.
Fu tale e tanta la rivalità in quel periodo che fu convocato
un apposito congresso, il congresso di Berlino (1884-1885),
al quale parteciparono delegati delle nazioni europee e degli
Stati Uniti ma nessun rappresentante di Stati africani.
Durante il congresso le potenze europee definirono la loro sfera di influenza e da quel momento si può datare l’inizio
del fenomeno finito sotto l’etichetta di “colonizzazione”.
Le condizioni di queste occupazioni si sono progressivamente trasformate, proponendosi spesso sotto forma di pro-
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≈
“I paesi
occidentali
debbono dare
il loro contributo
con progetti
di coinvolgimento
dei popoli africani
in un contesto
di norme
che regolino
democraticamente
la vita civile
di un paese”
≈
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Franco Nobili
tettorato, più che di colonia, con l’intento di offrire alle popolazioni indigene un
senso di appartenenza al Paese protezionista per edulcorare spinte nazionaliste e revansciste, ma non per questo rispettose delle condizioni sociali ed economiche locali. Fu un continuo “prendere” ed “esportare”.
Tale scelta politica non tenne conto dei confini naturali dei paesi africani che
rispondevano a precise caratteristiche etniche delle popolazioni indigene.
Una delle pratiche più esercitate fu – come detto in precedenza – il commercio
degli schiavi, con le ricadute economiche facilmente intuibili a favore dei paesi
schiavisti e che determinò ben presto reazioni da parte di alcuni stati ed in particolare da parte della Gran Bretagna che assunse un atteggiamento contrario alla tratta
degli schiavi. Disegno orientato alla soppressione della schiavitù non solo per ragioni umanitarie ma anche economiche: gli schiavi fornivano alla concorrenza manodopera a basso prezzo.
Ma il processo di riscatto dalla schiavitù, iniziato appunto dalla Gran Bretagna
anche con la risoluzione di Mansfield del 1772, ha dovuto attendere parecchi decenni per approdare alla sua abolizione definitiva, che convenzionalmente si fa risalire alla fine della Guerra di Secessione negli Stati Uniti (1861-1865) con l’inserimento del XIII emendamento della Costituzione americana che sancisce appunto
l’abolizione della schiavitù.
Si sottolinea “convenzionalmente” poiché da parte della storiografia più moderna la Guerra di Secessione americana fu più un conflitto che opponeva due diverse culture sociali (l’una patriarcale l’altra mercantile) che non la guerra tra Stati
schiavisti e Stati abolizionisti.
Tant’è che quattro Stati dell’Unione che parteciparono al conflitto, Kansas,
Missouri, Kentucky e Virginia Occidentale, erano schiavisti.
A questa forma di schiavismo si sostituì quella del razzismo, meno evidente ma
più strisciante, ma questo è un altro discorso.
Era cessata la schiavitù, di origine totalmente africana, ma ancora sopravviveva nelle colonie, con le sue valenze culturali, sociali, economiche e non ultime religiose.
Tuttavia dopo secoli di “occupazione” già dal 1945 iniziò una inversione di
tendenza sul processo di colonizzazione. Come afferma Andrea Riccardi, Professore di Storia Contemporanea, tale processo pone di fronte due possibili spiegazioni.
In base alla prima, gli Stati imperialisti decisero che le colonie non erano più convenienti. In base alla seconda, furono le popolazioni delle colonie a sbarazzarsi del
dominio imperiale o comunque a rendere il suo protrarsi talmente difficoltoso e
problematico che gli Stati colonizzatori preferirono cedere loro l’esercizio del potere politico.
Da qui il processo irreversibile della indipendenza degli Stati africani.
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Franco Nobili
I tempi dell’ indipendenza
• Il 1960 è stato chiamato l’anno dell’Africa. Da questo momento in poi è iniziato il processo di decolonizzazione del continente africano con 17 paesi che nel
corso di quell’anno ebbero accesso alla indipendenza.
Tale processo andò affermandosi progressivamente soprattutto nei paesi retti
da amministrazioni francesi, inglesi e belghe, non sempre pacificamente e con
spinte nazionalistiche che avevano scelto la via della lotta armata anche per conquistare progressivamente un ampio consenso popolare.
Tale cambiamento strutturale dei paesi africani si concluse anche nei territori
portoghesi, grazie anche alla svolta politica verificatasi in Portogallo nel 1974.
Dalla dichiarazione di indipendenza proclamata nella Guinea Bissau il 24 settembre 1973 all’ultima raggiunta nelle isole Seychelles il 28 giugno 1976.
Ad oggi l’Africa è costituita da 53 paesi indipendenti con migliaia di etnie, di
popoli, di realtà diverse.
Dall’indipendenza, molti Stati africani hanno conosciuto forti instabilità, spesso sfociate in violente lotte per il potere e guerre civili, sia all’intemo di ciascuno
Stato, sia tra Stati confinanti.
Parte di questi problemi può essere considerata come eredità del periodo coloniale, con il lascito di governi e confini nazionali non rappresentativi delle realtà
locali.
La classe politica che cavalcò l’indipendenza era di origine borghese, non sempre sensibile alle esigenze popolari, formatasi nei decenni del periodo coloniale e,
trattandosi di reazione al capitalismo coloniale, spesso optò per il sistema di governo socialista.
Fenomeno questo che divise ancora una volta il continente africano, specularmente alla guerra fredda che contrapponeva le due potenze internazionali, Usa e
Urss.
Con la caduta di Berlino e con il progressivo impoverimento dei paesi africani,
oltre che con un crescente disinteresse da parte degli europei, si ribaltarono le alleanze e cambiarono le politiche nello scacchiere internazionale.
L’area da privilegiare fu quella dei paesi dell’Est e i governi africani dovettero
far fronte ad una nuova condizione socio-economica che per la prima volta li chiamava a decidere in tutta autonomia del proprio futuro senza interventi esterni, sia
essi sotto forma di protettorato in periodo di colonialismo o di sostegno finanziario che in periodo di indipendenza nazionale.
L’Africa si è trovata così a ripercorrere la propria storia, partendo dalle radici
storiche delle società africane travolte dagli eventi che hanno caratterizzato tutto il
periodo che va dalla colonizzazione all’indipendenza.
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L’indipendenza e le sue contraddizioni
• Ai problemi di natura politica vanno sommati quelli relativi alla etnia, religione, economia.
In Africa si contano più di tremila gruppi etnici, si parlano oltre mille lingue
anche se molti paesi sono bilingui, avendo assimilato quella degli europei che colonizzarono il loro paese. Condizione questa che facilita i contatti e, in una realtà che
sempre più globalizza le conoscenze, consente una crescita locale ed un avvicinamento alle culture “diverse”.
Anche se oggi il cristianesimo è probabilmente la religione più diffusa, la sua
interpretazione risente delle tradizioni popolari e con esse deve convivere e fare i
conti.
Si può pensare che da forme di idolatria si è passati all’affermazione delle religioni monoteiste, grazie ai contatti – come per la lingua – con esperienze e culture
diverse importate sempre dai paesi colonialisti.
Così pure l’islam, professato da circa il 40% della popolazione, fu introdotto
dai conquistatori arabi e che oggi rappresenta una realtà inquietante in quei paesi
dove la religione islamica si è identificata come religione di stato e quindi guida di
politica sociale. Ne consegue che l’Africa non è esente dalle problematiche legate al
terrorismo sia nelle sue forme di reazione ai governi interni, sia anche come terreno
fertile di fanatismo e violenza.
L’economia africana si basa sull’allevamento e agricoltura di sussistenza, non
potendo contare su risorse economiche che permettano forme più moderne di sviluppo. Marginali le attività di artigianato e commercio, limitate a circuiti locali.
Stato e democrazia
• Lo Stato inteso come spazio territoriale che accomuna strutture sociali con
caratteristiche aggreganti per storia, tradizioni, usi e cultura è in Africa un modello
artificioso stabilito dal colonialismo che i governanti post-coloniali hanno adottato
su schemi importati. I continui stravolgimenti dei confini, le emigrazioni orizzontali tra paese e paese, lo stesso cambiamento del nome dei singoli Stati dopo la fase
dell’indipendenza sono le testimonianze della diversa concezione di Stato tra gli
africani e gli altri.
La storia ha dimostrato che la democrazia è premessa di prosperità e benessere
e che la democrazia si coniuga con lo sviluppo, così come democrazia è sinonimo
di pace.
La spinta indipendentista dei paesi africani è stata – nella maggior parte dei casi – condotta da leader che, forti di una cultura acquisita nei paesi europei, hanno
realizzato il sogno dell’autonomia africana, ma non hanno creato le premesse de-
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mocratiche per la crescita socio-economica indispensabile per presentarsi con pari
dignità e legittimazione al consesso dei popoli.
È su questo fronte che i paesi occidentali debbono dare il loro contributo e non
con interventi dall’alto e prefabbricati ma con progetti di coinvolgimento dei popoli africani in un contesto di norme che regolino democraticamente la vita civile
di un paese.
Italia e Comunità Europea: le esperienze di partnership
• Con questo fardello di trascorso storico i paesi europei, l’Italia e la stessa Comunità Europea hanno continuato a mantenere rapporti di collaborazione con i
paesi africani e di partenariato sia per comunità di intenti, sia per condizioni politiche favorevoli, sia per reciproche e paritetiche occasioni di sviluppo.
Se ci fermiamo alle attività che l’Italia ha continuato a svolgere in Africa vengono subito alla memoria le grandi opere strutturali realizzate per il miglioramento
della vita locale.
Negli anni ’70, sull’onda della voglia di progettare e della capacità di realizzare,
l’Italia vide la fioritura di grandi società di ingegneria che hanno primeggiato con
opere geniali, dallo spostamento dei templi egiziani di Abu Simbel alle grandi dighe
dello Zambesi.
Negli anni ’80 l’ingegneria civile italiana dimostrò tutta la sua capacità progettuale, organizzativa e logistica con la costruzione della linea ferroviaria, chiamata
Transcamerunese e completata a fine anni ottanta, che collegò il porto di Douala
alla capitale del Camerun Yaoundè e questa a Ngaoundèrè, nella zona nord del
paese, per un totale di 904 chilometri di strada ferrata e con un dislivello progressivo da zero a millecento metri, attraversando praticamente tutto il Camerun.
Le difficoltà da superare furono non solo tecniche dovendo superare ostacoli
logistici non indifferenti. La natura dei territori da attraversare e le condizioni climatiche resero la realizzazione di questa opera difficile e a volte quasi impossibile.
La Transcamerunese diede una svolta definitiva all’economia di questo stato. Il
porto era raggiungibile solo con strade, fiumi e tracce, attraverso i paesi vicini, dovendo però tenere conto che il più delle volte le piogge ne impedivano e ne impediscono l’uso.
La linea ferrata facilitò la mobilità delle merci e delle persone, favorendo il
commercio e gli scambi di ogni genere.
Da citare inoltre la costruzione del ponte sul fiume Niger ad Ajakourta, dove,
grazie alle ricerche sulle membrane sottili di Sergio Musumeci, la membrana a compressione uniforme fu sostituita da una rete di elementi prefabbricati in calcestruzzo.
Esempio di applicazione di tecnologia avanzata, prodotta da intelligenza e ricerca italiana.
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Tentativi questi di sfuggire a quella sorta di condanna alla piccola dimensione
che sembra contraddistinguere, ancora oggi, le imprese di ingegneria civile.
Purtroppo, in seguito alla crisi petrolifera del ’73, è cominciato il loro declino:
di quello straordinario patrimonio di know-how e creatività è rimasto poco, anche
se alcuni pessimisti il termine “poco” lo sostituiscono con “niente”.
Altre industrie, oltre quelle di costruzioni civili, hanno operato in Africa ma i
cui risultati, diversamente da quelli edili che sono visibili e duraturi, non hanno
superato l’esame del tempo.
Il declino delle grandi opere
• Intanto il costante impoverimento dei paesi africani e le periodiche instabilità politiche hanno continuato ad allontanare le grandi imprese e comunque a
spostare l’interesse di investimenti dalle grandi opere ad attività di minore contenuto tecnologico e di natura non più industriale ma commerciale.
Unica eccezione, tra le grandi imprese italiane a mantenere una presenza costante nei paesi africani, è la ENI Agip che, consolidati i rapporti con parecchi governi locali, continua a svolgere attività di ricerca potendo contare sulle riserve naturali di cui ancora dispone questo continente. Potenzialità ancora inespresse come
nel caso della Guinea equatoriale che ha visto crescere il proprio PIL in termini
reali negli ultimi 5 anni del 700% grazie alle scoperte di giacimenti petroliferi, o
come tendenzialmente si pongono il Ghana ed il Mozambico.
Si è passati dal periodo delle grandi opere, che come già detto ha caratterizzato
gli anni ’60/70, a nuove forme di sostegno di questo continente che è diventato
sempre più povero, più indebitato ed insicuro.
In alcuni casi si è ricorso alla delocalizzazione di alcune fasi del processo produttivo sia per i costi di mano d’opera più bassi, sia per opportunità fiscali che incoraggiano l’esportazione di prodotti locali.
In altri casi la presenza diretta italiana in Africa è stata occasionale e orientata
spesso verso operazioni di breve termine.
Uno dei casi da manuale è quello che interessa l’industria del legno.
Negli ultimi tempi diverse imprese italiane stanno spostando i propri impianti in
Africa, a causa del bando sulle esportazioni di tronchi grezzi emanato dal Camerun.
Questo paese rappresenta per l’Italia la principale fonte di legname tropicale e
quindi la presenza diretta in loco permette con più facilità di aggirare le norme. Per
operare in un territorio in cui hanno scarsa esperienza e per evitare rischi gli importatori italiani tendono in genere ad associarsi a compagnie già presenti sul posto.
Se si escludono alcune eccezioni, l’importazione italiana di legno dall’Africa si
configura come estemporanea e in molti casi concentrata a estrarre più risorse possibili col minore investimento.
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La citazione di queste testimonianze dimostra come le condizioni ambientali
determinano a volte in modo irreversibile l’allontanamento di investitori o la scelta
di una politica di breve respiro con scarse o limitate ricadute sul territorio.
Le leggi locali, l’instabilità socio-politico-economica dei paesi africani e quindi
la mancanza di garanzie sugli investimenti, sono tutte circostanze che frenano le
attività industriali e non solo, che si potrebbero realizzare in questo continente con
vantaggi per tutti gli operatori interessati.
Lo spazio delle grandi imprese
• Queste carenze dovrebbero essere colmate da Enti pubblici e privati, sia nazionali che internazionali, con il compito di sostenere la internalizzazione delle
piccole e medie imprese e fornire eventuali garanzie per le poche grandi imprese
che ancora oggi si cimentano in opere ed interventi strutturali in Africa.
L’ICE (Istituto per il commercio estero), il Mediocredito centrale e la SINMT
(Finanziaria, con attività di gestione delle agevolazioni pubbliche) sono solo alcuni
esempi di Enti nazionali da impegnare più massicciamente in questo compito, senza dimenticare le organizzazioni internazionali quali la IFC (Intemational Finance
Corporation), la BEI (Banca Europea Internazionale).
Ma una particolare attenzione deve essere posta alla garanzia degli investimenti, specie nei momenti più difficili sia per i paesi africani che per le imprese non
sempre disponibili – come già detto – a rischiare senza coperture economico-politiche. Una più decisa strategia in questo senso potrebbe fare affluire maggiori capitali attraverso realizzazioni industriali che potrebbero dare una significativa svolta
all’attuale situazione, purtroppo degradata e al momento senza vie di uscita, dei
paesi africani.
Compito questo affidato in Italia al SACE (Istituto per i servizi assicurativi del
commercio estero), ed in Africa alla MIGA (Agenzia Multilaterale di Garanzia degli Investimenti) che fa parte del gruppo della Banca Mondiale e che dal 1988, anno della sua creazione, ha fatto registrare 51 contratti di garanzia relativi al contributo di interventi in 17 paesi su 53 del continente africano, e al Fondo GARI
(Fondo di Garanzia degli Interventi Privati in Africa Occidentale) che, costituito
nel 1994, conta tra i soci anche la BEI.
Nell’attuale contesto internazionale ci si sta sempre più orientando a favore
delle piccole e medie imprese per un rilancio delle economie e degli scambi commerciali con i paesi africani. Una lettura in questo senso è data dal rapporto esistente tra il numero delle operazioni e le garanzie deliberate dal SACE nel 2004:
a fronte di 918 operazioni sono state deliberate garanzie per 5.258 milioni di
Euro.
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La condizione umana
• E non sfugge nemmeno il fatto che l’Africa è la viva testimonianza della storia e dell’avvilimento morale della condizione umana.
Da continente di conquista, a continente dalle infinite risorse, l’Africa è passata ad uno stato sociale, economico e culturale talmente degradato da richiamare
l’attenzione di paesi più sviluppati e delle organizzazioni internazionali che li rappresentano.
Dopo secoli di sfruttamento e di abbandono e dopo parecchi decenni di investimenti ad ampio respiro che avrebbero determinato lo sviluppo definitivo di questa importante area del mondo, oggi i progetti di investimento sono tesi soprattutto al miglioramento qualitativo della vita delle popolazioni indigene, dovendo affrontare problemi primari quali l’alfabetizzazione, la sanità, la fame, l’ambiente, le
risorse idriche.
Mai come in questi anni si sta assistendo ad uno sviluppo disarticolato ed eterogeneo, senza tenere conto delle mille sfaccettature che questo continente presenta.
Il prevedibile sviluppo dei paesi mediterranei si contrappone al decadimento
costante di quelli centrali, così come il tentativo di pacificazione faticosamente
conquistata da parte di alcuni stride con la belligeranza costante presso altri. Ma
tutti hanno un denominatore comune: superare le divisioni etniche, religiose, sociali e contare sulle proprie risorse per presentarsi alla comunità internazionale con
una economia evoluta, una solidità statuale, una legittimazione culturale e storica.
In questa direzione debbono andare gli sforzi che i paesi più sviluppati stanno
mettendo in campo attraverso la realizzazione degli obiettivi del Millennio.
E anche l’Europa è orientata oggi a sostenere l’Africa con interventi che la Commissione Europea in data 12 ottobre scorso ha definito “EU Strategy for Africa” ,
proponendo una alleanza per la sicurezza e lo sviluppo tra i paesi della Comunità
Europea e l’Africa.
Concetto ribadito del Presidente Josè Manuel Barroso che vede nel superamento dell’emergenza attuale dei paesi africani la premessa per una forma coordinata di
cooperazione allo sviluppo.
Aspettative future
• La più recente storia del continente africano, che si è cercato in maniera sintetica di analizzare, è stata caratterizzata da tre grandi fasi: la colonizzazione che ha
visto una sudditanza economica e quindi mancanza di libertà ed autodeterminazione dei singoli paesi; la conquista di autonomia che ha portato – con il contributo dei paesi ex colonizzatori – ad un programma di sviluppo attraverso grandi opere strutturali ed infrastrutturali che avrebbero dovuto cambiare il volto del conti-
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nente, ma che non hanno sortito l’effetto desiderato (diffusione di eguale sviluppo
su tutto il continente); il progressivo abbandono dell’affiancamento nel processo di
crescita, che ha determinato lo stato attuale di povertà economica, sociale, politica,
sanitaria.
È da auspicarsi che, trattandosi di cicli storici il più delle volte influenzati da
cambiamenti politici internazionali e preso atto della volontà di intervenire in forma decisa per il futuro di questo continente, si apra un nuovo ciclo che ristabilisca
equilibri politici interni eliminando i focolai conflittuali e favorisca lo sviluppo
economico non basato sull’emergenza ma su interventi durevoli e risolutivi.
È nell’interesse di tutti poter contare su una nuova realtà che dovrà consentire
nuovi scambi, nuove vie di comunicazione. Il ritorno alla cooperazione non più di
sola solidarietà e di emergenza ma di reale crescita deve essere il fine cui tendere per
ottenere un riequilibrio di ricchezze cui tutti potranno attingere ridistribuendo
equamente e diffusamente.
Solo attraverso queste modalità si potrà contare su un continente che non
esporterà più disperati ed esclusi, ma che troverà ed offrirà al suo interno la riscoperta della propria storia, dei propri valori attraverso i quali i rapporti di collaborazione e di confronto con i paesi del nord saranno più proficui e paritetici.
Allora si potrà realizzare una vera partnership tra paesi diversi, tra imprese locali ed internazionali, con beneficio di tutti e con arricchimento, e non solo economico, di chi saprà partecipare a questa operazione di rilancio e di dialogo.
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Lo Stato africano tra guerre
e globalizzazione
Dalle indipendenze a oggi l’Africa ha avuto circa 40
guerre a cui vanno aggiunti numerosi colpi di stato
militari (circa 90), di cui solo una parte è legata a conflitti veri e propri. La caratteristica prevalente delle
guerre africane è di essere interne e tale peculiarità
non muta con il finire della Guerra fredda. Sulle 19
più violente crisi successive al 1990, 15 sono interne
(Algeria, Angola, Burundi, Ciad, Congo Brazzaville,
Costa d’Avorio, Liberia, Mozambico, Ruanda, Sierra
Leone, Somalia, Sud Africa, Sudan, Uganda e ZaireR.D. Congo) e quattro sono tra Stati (Ciad-Libia,
Ruanda-Uganda, Etiopia-Eritrea e Sahara Occidentale-Marocco). A questi conflitti va aggiunto un certo
numero di crisi minori, anche se ugualmente distruttive. Certamente a ogni crisi interna può corrispondere
uno o più interventi esterni, in appoggio a una delle
parti, senza tuttavia intaccarne l’origine interna. Anche durante la Guerra fredda o nel corso dei vari processi di decolonizzazione, i più violenti conflitti scoppiano per lo più all’interno degli Stati, come nel caso
della guerra che segue la decolonizzazione del Congo
belga, la guerra di secessione del Biafra dalla Nigeria e
le lunghe crisi angolana e mozambicana. Un aspetto
specifico di tali conflitti è la capacità a prolungarsi nel
tempo, trovando le risorse per divenire quasi permanenti, anche se combattuti con armi leggere e non sofisticate.
La causa della instabilità
MARIO GIRO
Esperto di relazioni
internazionali
≈
“Lo
smantellamento
degli equilibri
corporativi, … la
deregolamentazione economica
e commerciale,
l’indebolimento…
di … un certo
equilibrio etnico,
provoca
la riconfigurazione
della relazione tra
Stato e società
in tutti i paesi
africani”
≈
• Davanti alla proliferazione dei conflitti, sono state date nel tempo varie interpretazioni per tentare di spiegare l’o-
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rigine della cronica instabilità africana. Una prima tesi definisce la ragione principale delle guerre africane come il naturale prodotto della intrinseca inconsistenza
degli Stati emersi dalla decolonizzazione, troppo piccoli e troppo deboli per poter
reggersi, sprovvisti delle caratteristiche minime di uno Stato nazionale e di conseguenza facili prede di appetiti. Il dibattito su questa tesi inizia subito dopo le indipendenze, in polemica con l’imposizione delle frontiere ereditate dalle ex potenze
coloniali: “staterelli” grandi quanto semplici strisce di terra non avrebbero nessuna possibilità di auto-sostentamento. Alcuni tra i grandi leader africani della prima generazione, come il ghanese K. Nkrumah o il senegalese L.S. Senghor, sostenevano l’idea della creazione di grandi federazioni, sul modello delle concentrazioni amministrative coloniali o del panafricanismo. Negli ambienti politici e tra
gli intellettuali africani non si è mai smesso di parlare di Stati Uniti d’Africa, che
rimane un sogno vitale nell’immaginario africano. Grandi raggruppamenti di Stati avrebbero il vantaggio di una maggior forza politica per bilanciare l’influenza
esterna e creare economie sostenibili all’interno. Tuttavia altri leader africani della
prima ora, come l’ivoriano F. Houphouët-Boigny o il keniano J. Kenyatta, erano
contrari a tale prospettiva, sia per fedeltà alle ex metropoli ma anche a causa della
complessità della costruzione dei nuovi Stati. Osservavano questi ultimi che Stati
dalle dimensioni territoriali ridotte o circoscritte erano più facilmente controllabili. Sarebbe stato più semplice gettarvi le basi delle nuove istituzioni. Il dibattito
non si è mai concluso e, anche se è prevalsa la linea della suddivisione, non è mai
tramontata del tutto quella dell’unione. La conferenza di luglio 2002 che ha trasformato l’Organizzazione dell’Unità Africana in Unione Africana, è frutto di tale
dialettica.
La fragilità degli Stati
• La tesi sulla fragilità dello Stato africano ha avuto nuovo impulso dagli studi sui cosiddetti “quasi states”, formulazione che descrive la facilità con cui gli
Stati africani collassano rapidamente davanti alle crisi, ma non muoiono. Malgrado la loro intrinseca inconsistenza, tali Stati deboli – si argomenta – non possono
scomparire perché sono sostenuti dalla comunità internazionale. Sia gli aiuti economici che il diritto internazionale “non permettono” a tali Stati di dissolversi,
come sarebbe il loro naturale destino. In altre parole si tratterebbe di entità statuali “congelate”, con un equilibrio imposto dall’ordinamento internazionale che
non può sostenere un’eccessiva instabilità e ha bisogno di tali Stati come interlocutori. Molti i casi che i sostenitori di tale linea portano ad esempio, come la Somalia, la Liberia, lo stesso Congo o il Ruanda e il Burundi. Si critica l’“accanimento terapeutico” della comunità internazionale che si ostina a sostenere sovranità inesistenti.
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• A dimostrazione della tesi sulla fragilità degli Stati sta l’impressionante sequela di golpe e rovesciamenti violenti di regimi nel continente. Circa 90 golpe
dalle indipendenze, con punte di cinque o sei in alcuni paesi (Benin, Burkina Faso,
Nigeria, Ghana, Sierra Leone, Sudan). In alcuni casi un solo colpo di Stato ha provocato conseguenze di lunga durata, come per la Liberia, paese una volta considerato modello di stabilità in Africa e piombato dopo il putsch del 1980 in un’instabilità permanente fino al 2003. Gli anni più terribili a questo riguardo sono gli anni Sessanta (circa un terzo di tutti i colpi di Stato) con una diminuzione progressiva nei decenni successivi.
Uno sguardo empirico sulla storia delle crisi africane non permette però di dirimere tra Stati grandi, piccoli e “quasi states”, in base alla qualità della forza della loro sovranità e stabilità interna, per giudicare della loro “necessità” ad esistere. Vi
sono piccoli Stati di successo accanto a grandi Stati in perenne crisi, e viceversa.
Così pure l’analisi della forza intrinseca delle istituzioni degli Stati africani non
permette di dare un giudizio definitivo.
Le diversità etniche
• Legata a quella sulla fragilità intrinseca dello Stato africano, vi è una seconda tesi, anch’essa ricorrente dagli anni Sessanta a oggi: quella sull’etnia. La ragione
principale delle guerre africane risiederebbe nell’enorme diversità e frammentazione etnica, che non ha eguali al mondo. Le frontiere esistenti – si ritiene – sono
una creazione delle ex potenze coloniali che non hanno tenuto conto della distribuzione dei popoli ma li hanno divisi in maniera arbitraria nel corso della colonizzazione. Questo spiegherebbe anche l’origine prevalentemente interna dei conflitti: popoli diversi in equilibrio instabile all’interno di strutture statuali incerte.
Se uno Stato nasce prima che esista la nazione, si afferma, è ovvio che ne scaturiscano crisi interne. Ciò che mancherebbe agli Stati africani è un vero nazionalismo. Tuttavia l’aspetto multietnico e multinazionale degli Stati africani può anche
essere letto come una norma: le eccezioni sono rarissime e discutibili (come nel
caso della Somalia, in cui i clan si sostituiscono alle etnie). Non tutti gli Stati africani hanno vissuto una guerra civile. Inoltre la decisione assunta dai governi africani, nel giorno della nascita dell’Organizzazione dell’Unità Africana nel 1963, di
non rimettere in discussione le frontiere uscite dalla colonizzazione, è stata sostanzialmente rispettata fino ad oggi, salvo qualche incidente minore e l’eccezione
dell’Eritrea. La solidarietà etnica transfrontaliera non è stata quasi mai all’origine
di un conflitto tra Stati.
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Sviluppo sociale e corruzione
• Vi è poi un’ulteriore tesi, molto in voga nella sinistra europea negli anni Settanta e Ottanta, che fa derivare la causa delle crisi africane piuttosto dalla conseguenza di un cattivo sviluppo economico-sociale, provocato da élite corrotte sostenute dall’Occidente e che si sono imposte per mezzo di regimi autoritari e centralisti, al punto di escludere intere fasce della popolazione dalla distribuzione della ricchezza. Sarebbe dunque la richiesta di miglioramenti economici a spingere alcuni
strati della nazione (identificabili con alcune etnie, in assenza di altre forme d’identità più sofisticate) all’origine di tensioni e conflitti. A riprova di tale opinione vi è
una vasta pubblicistica che critica l’origine “naturale” delle etnie, considerate piuttosto una creazione del colonizzatore, confermata successivamente da regimi autoritari. Si tratterebbe dunque di “popoli immaginari”, cristallizzati da interventi
esterni ma la cui origine avviene più per motivi economico-sociali che antropologici o politici. Non esistono, si sostiene, le “etnie pure”, discendenti dal periodo precoloniale. Spesso le attuali suddivisioni sono avvenute o sono state formalizzate
con l’arrivo dei “bianchi” e molti gruppi etnici portano un nome dato dagli europei che avevano bisogno di organizzare la popolazione e identificare i gruppi dominanti. Secondo tale tesi, le società africane precedenti l’arrivo dei colonizzatori erano molto più flessibili e socialmente in movimento di ciò che si crede. Il vero problema risiederebbe dunque nell’imposizione di un nuovo modello di produzione
della ricchezza e nella sua ineguale e antidemocratica distribuzione. La situazione si
è aggravata dopo le indipendenze, a causa dell’incapacità e non volontà delle ex potenze coloniali e delle due superpotenze di favorire le condizioni per un reale sviluppo economico. In poche parole si tratta di una politica della “dipendenza” imposta all’Africa. Le guerre e le crisi ne sono una diretta conseguenza.
La complessità dei processi democratici
• Infine esiste un’ultima linea di pensiero che si appoggia sul concetto di “terza
ondata” di Samuel Huntington: la linea della “democratizzazione”. Le crisi e le tensioni nascerebbero dall’assenza di reali processi democratici. Questi ultimi sono i
soli suscettibili di coinvolgere tutti gli strati delle popolazioni, di creare pesi e contrappesi al potere delle classi dominanti e di dare origine ad un sano equilibrio dei
poteri. Senza un percorso verso la democrazia qualunque Stato africano, grande o
piccolo, è minato in partenza, perché mancherebbe comunque della legittimazione
popolare, unica strada che porta al riconoscimento reciproco e al rispetto comune
delle istituzioni. Senza democrazia la frammentazione etnica diviene pericolosa
perché sottoposta a impulsi di potere e di vantaggio materiale incontrollabili e manipolabili. Senza democrazia infine non può mai esservi vero sviluppo (come so-
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stiene il premio Nobel indiano Amartya Sen) perché è la libertà individuale e collettiva nel quadro di istituzioni certe e dello Stato di diritto, a creare le indispensabili premesse per l’iniziativa economica sana, non drogata da politiche di accaparramento o arricchimento delle élite né dipendente solo dall’esterno. L’esempio che
si fa in questo caso è quello del Senegal, del Mozambico o, più recentemente, del
Benin, del Ghana e della Tanzania: paesi senza grandi risorse ma stabili. Il Senegal
ha una tradizione in questo senso: è uno dei primi paesi ad aver adottato il pluripartitismo già all’inizio degli anni Ottanta. Benin e Mozambico invece sono rappresentati come success stories per essere usciti da guerre o lunghi periodi di instabilità proprio attraverso l’accesso al processo democratico, ottenuto attraverso la conferenza nazionale in Benin e l’Accordo di pace negoziato a Roma dalla Comunità
di Sant’Egidio per il Mozambico. Ghana e Tanzania sarebbero paesi “rinati” proprio grazie all’alternanza democratica.
L’Africa e la globalizzazione
• Dall’inizio degli anni Novanta, il dibattito sulle ragioni dell’instabilità africana si collega a quello della posizione dell’Africa nella globalizzazione. Tutti gli
Stati africani (con l’eccezione di Etiopia e Liberia) sono nati durante la guerra fredda. Con la fine del bipolarismo si trovano ad affrontare per la prima volta della loro
storia un contesto internazionale disordinato, dalle mutevoli alleanze, e un’economia globale autosufficiente, libera dalle condizionalità politiche del bipolarismo.
L’abitudine a misurarsi con un quadro internazionale statico, fatto di alleanze stabili e di processi economici indotti dall’esterno, pone le classi dirigenti africane e la
struttura stessa degli Stati africani davanti a nuove sfide. Gli impulsi e le spinte della società globalizzata si scaricano su istituzioni abituate all’immobilismo. Come
reagisce lo Stato africano? L’impatto dei cambiamenti dovuti alla fine della Guerra
fredda e all’inizio del processo globale, è stato forte sulle società africane, e ha posto
(in maniera non prevista dalle élite dirigenti) il problema dell’accesso alla democrazia. L’inizio degli anni Novanta è stato così percepito dalle società africane, come il
momento per una “seconda” o “reale” indipendenza, l’inaugurazione di una fase di
vera liberazione politica con la fine dello Stato post coloniale.
Africa continente sfruttato
• Le caratteristiche dello Stato africano post-coloniale sono sintetizzate dalla
definizione di Jean François Bayart: “la politica del ventre”. Lo Stato cioè si sarebbe
spesso ridotto a uno strumento di sfruttamento delle risorse disponibili da parte di
élite dominanti preoccupate di mantenere, attraverso il controllo della ricchezza,
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l’egemonia sugli altri strati sociali del paese. Ciò è avvenuto attraverso una politica
di ridistribuzione dosata e ponderata in base alle circostanze. Ogni “ventre” andava
quindi riempito, a seconda della sua pericolosità (l’esercito che può scatenare un
colpo di Stato), importanza (le etnie più numerose o le classi rurali) o fedeltà (l’amministrazione e i dirigenti locali). In un siffatto modello, uno Stato accentratore
permette di mantenere la stabilità del potere esecutivo, sempre che quest’ultimo sia
abbastanza abile nella ridistribuzione, punendo o favorendo ora l’una ora l’altra
parte della società, al fine di mantenere intatto l’equilibrio delle forze. In questo
senso i più importanti dirigenti africani, non sono stati semplici predatori di ricchezze ma abili distributori, secondo un complicato modello di bilanciamenti interni che doveva tener conto della pluralità etnica e sociale. La Costa d’Avorio di
Houphouët-Boigny si reggeva su questo tipo di modello distributivo nel quale partecipavano anche gli stessi lavoratori stranieri immigrati, utili come manodopera
rurale e come elettori del partito unico. Simile è il caso del Camerun dove l’equilibrio è mantenuto tra le popolazioni del centro-sud, del nord e dell’ovest. La stessa
composizione del governo, come quella delle amministrazioni locali rispecchia ancora oggi questa difficile triangolazione. Lo Zaire di Mobutu che rappresenta il
massimo punto di arrivo del sistema della “politica del ventre”: una specie complicatissima di “federazione degli interessi”, dove i governatori e i potentati locali godevano di un’autorità quasi indiscussa sul loro territorio fino al punto di controllare anche le unità locali di polizia e esercito. Il governo centrale era utilizzato essenzialmente per arbitrare contenziosi tra i poteri locali, mantenere i rapporti con l’esterno e fare da ammortizzatore tra le regioni e gli interessi economici delle grandi
multinazionali minerarie.
Gli elementi del post-colonialismo
• Le caratteristiche dello Stato africano post-coloniale sono fondate su alcuni
elementi basilari comuni: clientelismo in politica estera, personalizzazione del potere, centralismo, sistema di distribuzione delle prebende, speculazione sulle risorse
naturali. Per clientelismo si intende la subordinazione alla politica estera dell’ex
potenza coloniale (soprattutto nel caso delle ex colonie francesi) o di una delle due
superpotenze. Ciò significa che la politica dei governi aveva un margine di manovra assolutamente ristretto o quasi inesistente, sia riguardo alle questioni economiche, sia in ciò che concerne le relazioni internazionali. Tale sistema di scambi era
completamente imperniato sull’asse Nord-Sud, mentre gli scambi (di merci e di
persone) tra Stati indipendenti africani è rimasto per molto tempo assai ridotto o
inesistente. La personalizzazione del potere si è configurata con forme paternalistiche di governo e lunghissime permanenze in carica (spesso fino alla morte) dei “padri della patria” o fondatori della nazione. Malgrado le tensioni inter-generazionali
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che ciò ha ingenerato, spesso tali permanenze sono state considerate anche come
un marchio di stabilità che manteneva l’arbitraggio tra gruppi, etnie e classi. La
crescita a dismisura dell’apparato statale e la sua centralizzazione ha permesso una
controllata e sempre più ampia cooptazione di gruppi sociali e anche di eventuali
opposizioni, almeno fino alla crisi dell’aiuto allo sviluppo. Il sistema delle prebende ha reso possibile tenere insieme Stati multietnici e variegati. Infine lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali ha rappresentato la forma principale
per mantenere il legame con gli interessi economici dell’ex potenza coloniale (le
economie coloniali erano appendici dipendenti dalla metropoli sia per la trasformazione dei prodotti che per la loro commercializzazione) ma anche una fonte di
risorse facilmente disponibili. È evidente che l’altra faccia della medaglia di questo
sistema erano l’assoluta dipendenza politica ed economica, il paternalismo autoritario, la sclerosi delle istituzioni, la creazione di un sistema di privilegi, l’abitudine
alla corruzione, il non ricambio delle élite, la costituzione di poteri locali autonomi, l’inefficienza.
La difficile transizione politica
• L’ultimo decennio del ventesimo secolo ha immesso tutto il continente africano in una fase di transizione politica difficile e largamente non prevista. Lo Stato
africano si è trovato impreparato, stretto tra le spinte democratiche della base, le
resistenze delle classi dirigenti e gli impulsi contraddittori provenienti dallo scenario internazionale. La ristrutturazione degli Stati post-coloniali sta avvenendo in
questo contesto laborioso che ha messo a repentaglio la loro stessa esistenza e ne ha
fatto piombare alcuni in una condizione di endemica violenza, come nel caso della
disgregazione della Somalia, seguita, tra l’altro, dall’inasprimento della guerra in
Angola, dalla contagiosa instabilità dell’Africa Occidentale (Liberia, Sierra Leone,
Guinea Bissau e Guinea Conakry) fino a giungere alla grande guerra d’Africa scatenata dal 1997 attorno alla decomposizione del Congo-Zaire.
La fine del monopolio dello Stato sulla vita sociale e associativa dei paesi africani,
ha provocato la comparsa di numerosi nuovi soggetti che hanno assunto rapidamente una rilevanza politica e dimostrato notevoli potenzialità di riforma. La vasta partecipazione alle conferenze nazionali in Africa francofona ne sono un esempio e un reale banco di prova, così come la rapida affermazione della libertà di stampa. Il ruolo
delle chiese, e in particolare della chiesa cattolica, nella gestione di alcune difficili
transizioni o delicate mediazione, testimonia il nuovo ruolo a cui sono stati chiamati
inediti protagonisti della società nel prendere iniziative nella sfera pubblica.
• Paradossalmente l’indebolimento dello Stato africano avviene anche a causa
delle politiche di aggiustamento strutturale e di riforma economica prescritte dalle
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istituzioni finanziarie internazionali. La nuova linea liberista che diviene predominante con l’inizio della globalizzazione, priva le élite dirigenti della rendita o, nei
casi migliori, dei consueti mezzi per proseguire nel difficile equilibrismo distributivo e clientelare. La caduta dei prezzi delle materie prime (non più protetti dall’esterno), l’obbligo a liberalizzare e privatizzare, l’austerità imposta al settore pubblico, licenziamenti e tagli salariali, sono alcuni degli elementi che erodono l’ordine
costituito, inibiscono la capacità di cooptazione e di conseguenza diminuiscono
l’autorità dello Stato centrale. Allo stesso tempo avviene un processo di “privatizzazione” dello Stato: progressivamente vengono privatizzate non solo le ricchezze naturali pubbliche come le risorse marittime, forestali o minerarie, ma anche numerose funzioni tipicamente statali, a causa della ormai evidente incapacità delle istituzioni ufficiali a provvedere a tutte le incombenze. Così in alcuni Stati africani, si
assiste alla concessione del controllo delle dogane o della raccolta delle tasse indirette ad imprese private, alla nascita di agenzie private di sicurezza anche per la protezione di beni o edifici pubblici, all’assegnazione ai privati di tutto il sistema dei
trasporti e delle telecomunicazioni.
Gli anni dell’apertura
• L’apertura politica degli anni Novanta avviene dopo un decennio di erosione
più o meno veloce dell’autorità dello Stato e della sua legittimità, la decadenza delle vecchie reti clientelari o corporative, la riduzione della capacità dei regimi di
cooptare le possibili opposizioni e l’aumento delle pressioni esterne da parte delle
ex potenze coloniali o degli Usa come delle istituzioni internazionali. In particolare
la politica di aggiustamento strutturale ha degli effetti contraddittori e pesanti sul
rapporto tra gli Stati e le società africane. Da un lato, attraverso l’austerità imposta,
provocano la diminuzione dei servizi pubblici, l’indebolimento delle classi medie
urbane, l’impoverimento delle zone rurali e l’aumento della disoccupazione. Dall’altro obbligano le autorità centrali a concentrarsi sulla repressione e sull’aumento
della forza coercitiva: ad esempio tutti gli stipendi statali sono tagliati salvo quelli
delle forze di sicurezza e dell’esercito. Infatti i Piani di aggiustamento strutturale
sono talmente drastici da poter essere gestiti con successo solo da governi molto
autoritari tanto da garantire l’ordine sociale, mentre erano stato previsti per aiutare
l’economia a liberarsi dal controllo del potere.
• Si ottiene quindi il paradosso che la liberalizzazione economica non vada di
pari passo con la liberalizzazione politica ma anzi provochi quasi il contrario. Per tale
ragione, i movimenti di democratizzazione dal basso si mobilitano, in particolare in
Africa francofona, contro il dispotismo dei regimi ma anche contro le regole finanziarie internazionali che colpiscono i poveri e le classi intermedie mentre preservano
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le élite e le classi dominanti. Uno dei maggiori limiti dell’ortodossia neo-liberista che
ispira le politiche del Fondo Monetario Internazionale, è il principio che il mercato
esista ovunque. Quest’assunto è particolarmente problematico per l’Africa Sub Sahariana, dove è il potere politico, e non la “mano invisibile del mercato”, a distribuire le
ricchezze, sostenere i circuiti commerciali e integrare i settori economici del paese. I
limiti di tale potere redistributivo sono chiari, a causa dei suoi contenuti clientelari e
autoritari. Tuttavia è altrettanto evidente l’inesistenza o l’insufficienza di meccanismi
spontanei tali da creare automaticamente un nuovo ordine, economico e politico.
Così la distruzione dei dispositivi dello Stato post coloniale onnivoro è anche la premessa per la sua disintegrazione piuttosto che per la sua progressiva riforma.
La “società civile” africana
• Lo smantellamento degli equilibri corporativi, l’impulso verso la deregolamentazione economica e commerciale, l’indebolimento del sistema che teneva assieme il potere centrale alle classi urbane o rurali e di conseguenza un certo equilibrio etnico, provoca la riconfigurazione della relazione tra Stato e società in tutti i
paesi africani. L’onda di entusiasmo suscitato dalla rinascita della “società civile”
africana, cela la crisi profonda che lo Stato ha attraversato lungo tutti gli anni Novanta e che ora minaccia la convivenza nazionale. Progressivamente i processi di liberalizzazione politica vengono recepiti ma spesso falliscono a causa del contemporaneo fiasco economico e istituzionale. Nel corso del decennio si affievolisce anche
il sostegno della comunità internazionale e riemergono le vecchie tensioni etnicosociali, le medesime che avevano accompagnato la formazione degli Stati all’epoca
delle indipendenze. Spesso i “nuovi leader” dello scenario politico sono vecchi oppositori, da tempo silenziosi e in esilio oppure capi “riciclati” e utilizzano idee antiquate. Ora combattono vecchie battaglie anche se in nuove circostanze. L’“autenticità ivoriana” in Costa d’Avorio, il nazionalismo a base etnica nelle relazioni tra
Eritrea e Etiopia, il populismo rurale in Zimbabwe, dove il presidente Robert Mugabe riporta in vita la questione della terra, la combinazione tra ideologia post
marxista ed etnicismo nel nuovo Congo, la questione etnica in Rwanda e Burundi
risolta in maniera diametralmente opposta, sono esempi di tentativi, più o meno
riusciti, di ristrutturare le relazioni tra autorità centrali e società, anche attraverso il
ricorso alla forza repressiva o al conflitto innescato su basi nuove. In tali contesti
l’etnicismo diviene spesso un’ideologia di riferimento, la più rozza possibile, nei casi in cui lo Stato è sul punto di disintegrarsi o si è già disfatto. La persistente presenza dei “bianchi” residenti in Africa Australe, come in Zimbabwe o Sud Africa,
permette invece di puntare sull’ostilità razziale.
Di conseguenza la recente storia dei paesi dell’Africa Sub Sahariana dopo la
guerra fredda, è costellata di tutta una serie di “rotture” che non sempre si ricom-
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pongono. In alcuni casi, come nell’ultima fase di Mobutu in Zaire ma anche in
paesi più piccoli come la Liberia o la Repubblica Centrafricana, si spezza del tutto
il legame di comune interesse tra le autorità centrali e le élite locali stabili (etniche,
amministrative, economiche ecc.), costrette ormai a trovarsi da sole i mezzi per sopravvivere e mantenere il controllo del territorio. Se l’“arbitro” non ha più i mezzi
per garantire gli equilibri della spartizione, la sua utilità viene messa in discussione.
L’influenza dei nuovi equilibri internazionali
• La rottura dello Stato può avvenire anche in paesi stabili e relativamente benestanti, come la Costa d’Avorio. Il tentativo del Presidente H.-K. Bedié di ricomporre attorno alla sua leadership un nuovo “patto” clientelare che includa i contadini ivoriani (spina dorsale dell’economia ivoriana) ma escluda quelli immigrati, si rivela dirompente. L’avvio di una fase di rifiuto xenofobo, in base al discutibile principio dell’“autenticità ivoriana” (l’ivoirité), provoca crisi a ripetizione, il colpo di Stato
del dicembre 1999, fino alla guerra del settembre del 2002, in cui il paese viene diviso tra nord e sud. Rinegoziare la distribuzione delle ricchezze del paese con le classi rurali autoctone del centro sud, escludendo quelle immigrate, e poi quelle del
nord, da ogni possibile accesso alle risorse, provoca la distruzione del paese.
• Vi sono tuttavia casi in cui la transizione verso nuovi equilibri internazionali, è avvenuta in maniera più compiuta, come in Benin dove la riconfigurazione
dello Stato ha assunto caratteri marcatamente liberali, mediante un consenso diffuso in tutti gli strati e gli attori sociali. Ciò ha permesso all’ultimo dittatore di
stampo marxista della fase precedente, Matthieu Kérékou, di ripresentarsi e vincere le elezioni presidenziali. La scelta beninese è stata quella di non perseguire i responsabili politici del passato ma di ricostruire un’adesione comune e senza esclusioni, attorno alle nuove regole democratiche. In altri casi, come in Congo-Brazzaville, l’iniziale spinta democratica si è arenata dopo un iniziale successo, malgrado
non sia mai venuta meno la manna petrolifera. Spesso il fallimento del processo di
trasformazione del nuovo Stato africano avviene quando i nuovi dirigenti democraticamente eletti si rivelano incapaci di ricostruire o garantire un “patto” nazionale che lasci spazio a tutti.
• Se le differenze etniche (che esistono ovunque) vengono manipolate a scopi
aggressivi (o difensivi), sia da nuovi che da vecchi dirigenti, facilmente si giunge ad
una situazione di totale insicurezza. In alcuni paesi la fine del sistema post coloniale è stato talmente traumatico da spezzare rapidamente il precedente equilibrio
senza che nessuno sia in grado di ricostruirlo su basi nuove. In alcune situazioni
particolarmente gravi, la fine dello Stato ha dato luogo all’emergere dei “signori
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della guerra”. È il caso della Somalia, della Liberia e della Sierra Leone dove l’equilibrio precedente è morto senza lasciare eredi. Le tre guerre sono frutto del senso di
“esclusione”: in Somalia di alcuni clan (ma significativamente non degli “anziani”
dei clan stessi, abituati ad altri metodi per dirimere le controversie); in Liberia delle
etnie dell’interno; in Sierra Leone delle giovani generazioni povere urbane.
I “Signori della guerra”
• Il fenomeno dei “signori della guerra” (warlordism) è solo indirettamente legato alla presenza delle etnie o a fenomeni di tipo politico: si tratta invece di una
conseguenza della brusca disintegrazione dello Stato, in particolare in ambito urbano. Per sussistere i warlords hanno necessità di controllare circuiti commerciali
attraverso i quali smerciare ciò che è facile da vendere: diamanti, aiuti umanitari
rubati alle popolazioni, armi, minerali strategici o droga. Non sentono il bisogno
di controllare parti di territorio in maniera stabile o di ottenere il consenso delle
popolazioni locali. Non sentono nemmeno bisogno di sorvegliare in maniera permanente le attività di produzione. L’unico interesse è monopolizzare i collegamenti
commerciali. Per questo alcuni esperti hanno tentato di studiare a valle gli affari e
gli interessi dei “signori della guerra”, denunciando connessioni con ambienti economici in Occidente. I signori della guerra sono proliferati in aree dove, saltato il
patto nazionale post-coloniale e perso ogni rapporto con un’autorità centrale o locale stabile, alcune frazioni di “esclusi” (in genere giovani maschi di origine urbana
e povera) sono entrati in ribellione e hanno utilizzato commerci illeciti. Anche in
termini di strategia militare c’è una particolarità che differenzia i “signori della
guerra” da altri guerriglieri o ribelli: questi ultimi cercano sempre di consolidare un
loro territorio, di ricreare un embrione di Stato, di accordarsi con i capi locali, di
radicare un consenso per poi trattare con l’avversario. I warlords sono immancabilmente attirati dall’ambiente urbano (dalla capitale), e non si fermano a controllare
il territorio. Warlordism diviene così uno stile di vita e un mestiere per arricchirsi.
Tale condotta spiega anche perché i combattenti delle numerose milizie possono
facilmente mutare fazione, com’è illustrato bene da Ahmadou Kourouma nel suo
“Allah n’est pas obligé”. Il bambino-soldato protagonista dice: “la guerra è l’unico
mestiere che so fare”.
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Le nuove democrazie africane.
Quale modello? Il “Laboratorio Africa”
Prima ancora della parola d’ordine globale “dell’esportazione della democrazia”, propugnata dalla potenza unipolare americana, la questione della democratizzazione dei sistemi politici africani è sempre
stata di bruciante attualità negli ultimi 60 anni di
storia africana. Con attenzione e tensione intermittenti fino all’intimazione neocoloniale del presidente
francese, François Mitterrand, al vertice dei capi di
stato di Francia e d’Africa de La Baule (località balneare della Costa azzurra), l’opinione pubblica e l’intelligentsia africana sono alle prese con l’agenda democratica sia per negarne l’urgenza, sia per sottolinearne l’importanza come chiave per la modernizzazione del continente.
• Il crollo del Muro di Berlino avvenuto nel 1989 ha costituito un elemento esterno di rilancio del dibattito e di
apertura di nuovi laboratori democratici, ma sempre a partire da una ricerca tutt’interna, mai interrotta delle società
africane. Non a caso la nuova fase di democratizzazione si
apre con il rito collettivo delle “Conferenze nazionali”. Una
specie di stati generali dei paesi durante i quali tutte le forze
vive si sono espresse sul passato (i misfatti dei regimi totalitari e dei loro apparati di repressione, la cattiva gestione dell’economia e dei fondi pubblici, accese discussione sul futuro costituzionale ed istituzionale dei paesi, richieste urgenti
di apertura nel senso della garanzia delle libertà fondamentali). Le “conferenze nazionali” come punto di partenza democratica.
JEAN LÉONARD
TOUADI
Università degli Studi
di Milano
≈
“La lotta per la
vita ha finito
per prendere
il sopravvento
sula lotta
per la libertà…
La democrazia in
Africa non è una
questione astratta
esposta alla
disquisizione
filosofica.
Essa tocca
l’essenza stessa
della vita sociale:
la sicurezza e la
pace individuali
conseguite
attraverso un
patto collettivo
di convivenza
e di condivisione”
≈
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Jean Léonard Touadi
FORMICHE DI LIBERTÀ IERI E OGGI:
AFRICA DEMOCRATICA, EROI AFRICANI DELLA DEMOCRAZIA
• In verità, la questione democratica ha sempre costituito, dunque, un’anelito
interno e una sfida aperta dentro le logiche e tra i protagonisti del movimento storico che parte dall’epoca della lotta per la decolonizzazione fino al conseguimento
delle indipendenze, fino ai decenni persi dei totalitarismi e del fallimento dei modelli economici. Le formiche di libertà nella storia recente dell’Africa (1920-1989)
costituiscono una vasta galassia composta:
– da intellettuali illuminati in rotta con il sistema coloniale e portatori di un disegno di libertà per i territori sotto tutela (Nkrumah nella Gold Coast britannica,
Léopold Sédar Senghor in Senegal, Agostino Neto e Amilcar Cabral rispettivamente in Guinea-Bissau, Capoverde e Angola ) Elaborazioni teoriche e letterarie
si mescolano a forme di lotta sul terreno per incalzare il colonizzatore e giungere
alla rivendicazione d’indipendenza;
– da gruppi economici organizzati intorno a realtà produttive essenziali per il funzionamento del patto economico coloniale (cacao e ananas nella Costa d’Avorio
del leader Houphouët-Boigny, gli appetiti sulle ricche regioni minerali del Katanga difese da Patrice Lumumba in Congo-Belga). Le materie prime erano e
sono tuttora una posta in gioco fondamentale negli equilibri politici e geopolitici all’interno dei paesi africani. Esse rappresentano un fattore di destabilizzazione o di strutturazione di nuovi equilibri nazionali ed internazionali. Anche oggi,
nei paesi a forte produzione di materie prime, la democrazia ruota intorno al
controllo delle materie prime;
– da gruppi etnici particolarmente vivaci, discriminati e fautori della democratizzazione attraverso il principio “One man, one vote” tra cui spiccano i gruppi etnici dei neri in Sudafrica e dei Kikuyu in Kenya con personalità del calibro di
Jomo Kenyatta (padre dell’indipendenza del Kenya), Albert Luthuli e Nelson
Mandela eroi della lotta contro l’Apartheid in Sudafrica. La genialità del progetto politico di Mandela è stata proprio quella di porre la questione della non rappresentazione dei neri nella vita politica in termini democratici e non come la rivendicazione di un singolo gruppo etnico, seppur maggioritario, caratterizzato
dal colore della pelle. Mandela ha coltivato l’intuizione che la sete della libertà
per il popolo nero era sete di libertà per tutto il Sudafrica, compresa la componente bianca.
L’Africa e gli influssi liberali e democratici dell’Europa
• Ma la lotta per la libertà era anche e soprattutto il frutto dell’azione discreta
di singole personalità in tutti i paesi (maestri di scuola, giornalisti, sindacalisti, stu-
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denti universitari, scrittori) che hanno tenuto accesa la fiamma della libertà attraverso l’apertura politica pluralista, la libera e paritaria partecipazione politica di
tutti i componenti sociali ed etnici alla vita pubblica. Occorre ricordare che l’era
coloniale, instaurata dalle potenze occidentali a partire dal Congresso della spartizione del continente nel 1885, era un “regno senza libertà”. Nel senso che i pionieri europei della “Missione civilizzatrice” nell’Africa considerata “tabula rasa” si dimenticarono di portarvi i benefici delle rivoluzioni inglesi e francesi, dell’illuminismo politico libertario e democratico. I frutti ormai maturi del pensiero liberale e
democratico sviluppatisi in Europa non attraversarono il Mediterraneo per in-formare la vita politica coloniale. Il regime coloniale in Africa restò cosi un regime illiberale e totalitario, in violazione flagrante con i mutamenti avvenuti in Europa nel
pensiero e nella prassi politica. Avvenne in questo modo che il primo ostacolo che
gli araldi africani della libertà dovettero affrontare furono proprio le strutture oppressive dell’Europa dei lumi e delle rivoluzioni ugualitarie dei secoli del libero
pensiero. La lotta per la democrazia in Africa appare come una lotta degli africani
in nome dei principi nati e sviluppati dagli stessi europei, anche in considerazione
del fatto che la maggior parte dei leader aveva subito una formazione europea.
I gruppi di resistenza e di innovazione
• Il processo di democratizzazione in Africa ha radici lontane. Essa è l’opera
lenta, faticosa, a volte contraddittoria ma irreversibile dei “gruppi di resistenza e
d’innovazione” che, costituendosi contro o al di fuori dell’ufficialità politica, inventano e mettono in moto nuove ed inedite modalità d’esercizio del potere, della
partecipazione collettiva alle decisioni, di gestione della “res pubblica” dando origine ad una nuova geografia sociale e politica informale ma pronta a candidarsi a diventare il motore della innovazione politica dentro i singoli paesi e nell’intero continente. Non solo resistenza contro i potentati africani postcoloniali, ma anche e
soprattutto “immaginazione” ossia sforzo creativo per inserirsi negli interstizi sterili della paralisi politica postcoloniale per partorire orizzonti freschi di libertà e partecipazione. L’attuale processo di democratizzazione qualunque nome esso prenda
nel continente (démocratie à l’africaine! “Good governance” “African renaissance”)
dovrà fare i conti con i “nuclei di resistenza e d’innovazione” che ovunque nel continente soffiano e fanno divampare la fiamma sempre fragile della democrazia. Vi
sono state, durante il lungo periodo delle dittature imperanti, delle forze sociali,
intellettuali e religiose che non hanno mai smarrito la speranza di aprire i sistemi
politici africani al pluralismo, alla partecipazione popolare, alla separazione dei poteri, alla gestione trasparente delle risorse pubbliche. Pagando dei prezzi altissimi in
termini di libertà personale andando fino al sacrificio della propria vita, sindacalisti, giornalisti, studenti universitari, attivisti dei diritti umani e dell’ambiente, re-
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sponsabili d’organizzazioni femminili hanno rappresentato il volto dell’Africa che
ha resistito ed inventato il futuro.
La “semina” endogena
• Essi hanno incessantemente operato per seminare e fare crescere i germi di
una democratizzazione possibile, alla portata delle popolazioni analfabete, conforme al volto sociologico e all’essenza antropologica delle varie nazioni. Forze che
non concepivano la democrazia come un trapianto eseguito forzosamente sul corpo politico da democratizzare, ma come il lento germogliare di una realtà endogena che nasce, cresce e matura all’interno dell’organismo sociale non necessariamente chiuso a contributi esterni. È proprio in virtù di un tale atto di nascita che possiamo affermare che i processi di democratizzazione in Africa sono irreversibili. In
quanto traducono ed esprimono un sentire comune maturato durante i lunghi anni della lotta contro il carattere totalitario ed illiberale dello stato coloniale, perpetuato dai nuovi potentati indigeni. I processi di democratizzazione in Africa nascono come “altro” dalla politica ufficiale che ha dovuto prendere atto e gestire a proprio conto le istanze di partecipazione attiva, di libertà d’espressione e d’associazione, di rispetto della legalità e dunque la fine dell’impunità per i potenti, la riscoperta dell’economia come mezzo per garantire a tutti la soddisfazione dei bisogni
essenziali che diventano diritti fondamentali.
La via africana alla libertà
• Ma c’è un altro motivo che porta a ritenere che la democrazia in Africa non è
una “gentile concessione” dell’Occidente. Dopo le indipendenze “octroyées” (concesse), in seguito all’imposizione dei modelli di sviluppo chiavi in mano, quarant’anni dopo le costituzioni calcate esattamente sui prototipi francesi e britannici, l’Africa non può e non deve accettare una democratizzazione imperiale, frutto
di un disegno nato altrove con modalità paracadutate dall’alto.
Per quanto riguarda la democrazia – alla stregua dell’economia e delle istituzioni – l’Africa ha la necessità di non credere alla teoria della “tabula rasa”. Nella
ricerca di una via africana verso una maggiore apertura politica, gli africani devono ricordarsi che la “libertà non è un’invenzione dell’Occidente” come dice con
forza Amartya Sen nel suo saggio intitolato: La Democrazia degli altri. Il premio
Nobel indiano invita i popoli non occcidentali ad evitare alcune obiezioni contro la causa della democrazia che godono di molto favore nei dibattiti internazionali.
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• Una obiezione è d’ordine storico-culturale e porta sull’“opportunità di proporre la democrazia per popoli che, a quanto si afferma, non la conoscono. Il sostegno alla democrazia come regola valida per tutti, che giunga da parte di istituzioni
nazionali o internazionali o da parte degli attivisti dei diritti umani, è spesso bocciato sulla base del fatto che implicherebbe un’imposizione forzata dei valori o dei
costumi occidentali a società con cultura diversa”. In realtà, questa obiezioni è stata
utilizzata a lungo dagli stessi leader africani per giustificare con il “ricorso all’autenticità” i totalitarismi messi in campo. Nell’Africa subsahariana, se tralasciamo l’importante laboratorio democratico senegalese aperto dall’illuminato poeta e padre
del movimento letterario della “négritude” Léopold Sédar Senghor che ha fatto di
questo paese uno dei modelli di pluralismo politico di tutto il continente; se consideriamo come democrazia imperfetta quella sudafricana che dal 1948 ha escluso
dal suffragio universale la maggioranza nera fino all’arrivo al potere di Nelson
Mandela nel 1994, è possibile affermare che tutti i paesi dell’Africa subsahariana –
qualunque siano state le loro alleanze internazionali: socialisti più o meno scientifici o capitalisti più o meno liberali – sono state delle autocrazie con corrispettivo
culto della personalità, monopartitismo, corruzione, clientelismo e gestione personalizzata dei beni pubblici.
La mancanza di legittimità sostanziali
• Non dovrebbe trarre in inganno l’esistenza in quei paesi d’istituzioni formalmente moderne (governi, parlamenti, costituzioni, organi giudiziari). Tenute
in piedi per mimetismo istituzionale, queste istituzioni sono state svuotate dalla
loro sostanza e hanno finito per dare una legittimità tutta formale ad un potere
autocefalo, senza contrappesi e tutto proteso a conservare se stesso attraverso la
violenza esercitata sul resto della società. Insomma, l’élite africana giunta all’esercizio del potere al momento dell’indipendenza non ha saputo, voluto o potuto
inventare, tranne qualche lodevoli eccezioni (Lumumba, Nyéréré, Sankara…)
delle modalità di gestione politica in grado di dare concretezza e forma istituzionale inedita all’anelito di libertà e di partecipazione che era il motore della lotta
coloniale.
Ora, nonostante l’avvio dei processi di democratizzazione assistiamo al fenomeno che taluni chiamano delle democrazie bloccate, come nel Camerun di Paul
Biya, perfetta illustrazione di un processo democratico senza reale democratizzazione della cultura politica, delle istituzioni e dei meccanismi d’accesso al denaro
pubblico e ai mezzi di comunicazione.
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DEMOCRAZIA BLOCCATA: IL CASO CAMERUNESE
• Come ogni anno il Camerun celebra il 20 maggio, con la consueta solennità,
l’anniversario dell’indipendenza. E come ogni anno, la stessa stanca ritualità accompagnata dai soliti ingredienti nazionalistici e mondani (parata militare, cena di
gala per i pochi eletti al palazzo presidenziale e manifestazioni in ogni capoluogo di
provincia, qui si chiamano “département”) accompagnano l’evento. Ogni volta, si
sentono i soliti discorsi mistificatori, amplificati da tutti i media di regime, sui successi – sempre grandiosi – conseguiti dal paese sotto la guida del presidente Paul
Biya, 71 anni, al vertice dello stato dal 1982 dopo aver occupato dal 1975 la funzione di primo ministro. Delfino designato del padre del Camerun indipendente
Ahmadou Ahidjo, Biya si è fatto eleggere “democraticamente” nel 1992 all’occasione delle prime elezioni multipartitiche del paese.
Lo stesso accadde nel 1997 durante la consultazione elettorale boicottata dai
principali leader dei partiti d’opposizione. Il Camerun è andato al voto per eleggere il presidente per la terza volta dall’inizio del processo di democratizzazione nell’ottobre 2004. Il presidente in carica ha vinto ancora una volta e il Camerun si ritroverà nel 2011 con un presidente che avrà “regnato” quasi trent’anni. Considerando i sette anni durante i quali l’attuale presidente è stato primo ministro (dal
1975 al 1982), la sua longevità al potere è un vero record continentale. Democrazia bloccata o confiscata quella ora in vigore in uno dei paesi che rappresenta il più
fedele e strategico alleato della Francia in Africa centrale. Jean Marc Ela, uno dei
più noti intellettuale del paese, ora in esilio per le minacce ricevute dalla polizia segreta del potere, denuncia le connivenze della Francia con Biya che “confermano il
persistere di una politica di cooperazione che coesiste perfettamente con la corruzione, il
saccheggio delle risorse nazionali e la frode nelle urne. Ecco un delinquente al potere che
beneficia di un appoggio costante dell’Eliseo dal 1982”.
La strategia neocoloniale francese
• Anche il Camerun, alla stregua della vicina Gabon e della Costa d’Avorio,
era un pezzo centrale della strategia neocoloniale francese in Africa. La stabilità camerunese tanto celebrata dai vari presidenti francesi non è altro che il frutto avvelenato del connubio neocoloniale tra salvaguardia degli interessi francesi e mantenimento di un sistema di potere che calpesta da decenni le aspirazioni alla libertà,
al benessere economico e sociale di uno dei paesi più vitali culturalmente e più attivi dal punto di vista del dinamismo della sua società civile. Una stabilità dalla
doppia faccia: stabilità e perennità degli interessi francesi in Camerun assicurata
da una classe politica in rottura con i bisogni e le aspirazioni profonde della popolazione da un lato; stabilità e peggioramento della condizione di povertà e d’indi-
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genza della stragrande maggioranza della popolazione che ha deciso d’organizzarsi
all’interno dei circuiti dell’informale. Molti musicisti camerunesi hanno cantato
con versi pertinenti questa dicotomia tra “quelli in alto in alto” che hanno tutto e
possono tutto e quelli “in basso in basso” che non hanno e possono niente. Oggi
questo popolo dal basso dei quartieri poveri di Messa, Mokolo o Melen a
Yaoundé oppure di New-Bell o Bona-priso a Douala ha capito che deve organizzarsi e resistere.
È quello che l’economista Célestin Monga chiama la “cultura dell’indisciplina”
dove le persone imparano a gestire ed ottimizzare l’anarchia economica, politica e
sociale dentro le reti della “debrouillardise” ossia l’arte di arrangiarsi che ha trasformato le città e le campagne del Camerun in un laboratorio di creatività sociale ed
economico.
Proprio l’intelligenza e la lungimiranza di questa battagliera società civile ha
evitato al paese una guerra civile nella difficile transizione democratica dell’estate
del 1991.
La resistenza non violenta
• Con una protesta non violenta, con il metodo delle “città-morte” (villes
mortes) che ha paralizzato il paese per mesi, i partiti d’opposizione e i gruppi di
resistenza politica e sociale nati ovunque nel paese avevano costretto il potere a
scendere a patti con la voglia di partecipazione, di trasparenza e di libertà che
cresceva nel paese. Tutti avevano temuto un’esplosione sociale dalle conseguenze
imprevedibili. Sarebbe bastata una scintilla di provocazione o un’intemperanza
della politica e il paese sarebbe piombato in una fase di convulsioni violenti. Invece, è stata una svolta politica morbida sostenuta anche da una riflessione teorica molto solida e pertinente che ha regalato a tutto il continente, un corpus dottrinale democratico prezioso. Célestin Monga, Achille Mbembé, Eboussi Boulaga, e altri intellettuali camerunesi rappresentano, con il loro pensiero, la spina al
fianco del regime che non esita ad uccidere, a mandare in esilio personaggi dichiarati non grati, a gettare in prigione per anni giornalisti coraggiosi come Piùs
Njawe, a denigrare e minacciare di morte prelati scomodi come l’arcivescovo di
Douala Toumi. Grazie a loro e a migliaia di militanti dei partiti d’opposizione, di
attivisti dei diritti umani, di ecologisti e di associazioni femminili e giovanili di
promozione sociale, di reti ecclesiali che difendono in nome della fede la dignità
delle persone, la democrazia autoritaria di Paul Biya deve quotidianamente fare i
conti con una società che non vuole arrendersi al congelamento del processo di
democratizzazione iniziato nel 1990 il cui spirito è ormai radicato nell’anima
della popolazione.
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Le speranze tradite
• Ironia della storia, Paul Biya, il giovane e brillante tecnocrate aveva rappresentato all’inizio degli anni ‘80 la speranza di “modernizzare” il paese. Su di lui riposavano le speranze di aprire la scena politica camerunese al pluralismo mettendo
fine alla lunga man bassa del partito unico del suo predecessore su tutti i settori vitali della politica, della società e dell’economia. I camerunesi avevano sognato una
svolta in grado di conferire sostanza alle aspirazioni di libertà della stampa, d’associazione, d’impresa in grado di superare la concezione feudale, patrimonialista e etnicista del metodo di governo praticato durante il lungo regno di Ahidjo. Feudale
perché Ahidjo regnava sul Camerun in virtù di un destino storico che aveva fatto
di lui il padre di tutti i camerunesi i quali, in sudditi devoti, dovevano rispetto e riconoscenza al principe. Ogni dissenso era severamente punito con la morte, la prigione o l’esilio e ogni atto di fedeltà premiato e ricompensato secondo il buon volere del principe. Patrimonialista perché le ricchezze del paese erano a disposizione
del principe che le usava per rafforzare e allargare la base del consenso politico e
personale. Etnicista perché Ahidjo ha regnato con il sistema della cooptazione sistematica, in ogni ganglio vitale del paese, di rappresentanti di tutte le grandi etnie
presenti in Camerun. Il dosaggio etnico come metodo di governo e fattore di stabilizzazione nazionale. Senza il carisma e lo spessore personale del padre dell’indipendenza, Paul Biya ha trasformato a suo vantaggio adattandoli alla nuova realtà la
poderosa macchina amministrativa-statale, le reti etno-partitiche, le connivenze
politico-affaristiche ereditate dalla prima repubblica. Insieme ai presidenti Bongo
del Gabon, Mathieu Kerekou del Benin, Obiang Nguema della Guinea Equatoriale, Lansana Conté della Guinea-Conakry, Paul Biya è uno dei campioni della democrazia camaleonte che cambia colore e si adegua formalmente alla nuova moda
democratica senza mutare la sostanza del suo potere che resta autocratico.
DEMOCRAZIA, TRADIZIONE E MODERNITÀ DEL POTERE
• Nell’assassinio del “sole dell’indipendenza”, la classe politica africana ha
compiuto un doppio atto di tradimento. Prima di tutto nei confronti della “struttura tradizionale del potere” sconvolta dalla colonizzazione e, in seguito, nei confronti dei modelli occidentali addomesticati e piegati alle esigenze contingenti di
disegni politici privi di sostanza democratica. Occorre segnalare, tra l’altro, che la
ricerca di legittimità ricorrendo al passato politico tradizionale del continente è puramente strumentale e poco attinente ad una ricerca antropologica seria a proposito del funzionamento, dei principi ispiratori, della visione del mondo e dei contesti sociali che lo sostenevano. Proprio Amartya Sen nel suo saggio dedica alla democrazia in Africa un intero capitolo che inizia con un racconto di Nelson Mande-
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la che narra della sua infanzia e ricorda degli incontri locali dove “Ognuno aveva la
facoltà di parlare. Era la democrazia nella forma più pura. Poteva esserci una gerarchia
di importanza tra gli oratori, ma tutti venivano ascoltati, sudditi e capi, guerrieri e uomini di medicina, commercianti e contadini, proprietari terrieri e bracccianti. … Il
fondamento dell’autogoverno era che tutti gli uomini fossero liberi di esprimere la propria opionione e uguali nel loro valore di cittadini”.
Al di là dei ricordi del leader sudafricano, Amartya Sen cita studi più seri di
Edward Evans Pritchard e Meyer Fortes con il loro ormai classico African Political
Systems che affermano che “la struttura dello stato africano presuppone che re e capi
governino sulla base del consenso” . Nella mia cultura il luogo materiale dove si svolgevano le assemblee, quella specie di parlamento sotto le palme si chiama “Mbongui”. Nello stesso tempo luogo materiale e figura sociale, il “Mbongui” era il fulcro
della vita comunitaria dove s’intrecciavano con sapienza e giusto dosaggio istanze
giuridiche, religiose, politico-sociale ed economiche. La regola aurea del “mbongui” era il rispetto della memoria multisecolare secondo la quale l’armonia e la coesione sociali erano i pilastri del buon andamento della società. E il capo – circondato dai suoi consiglieri con diritto di esprimere liberamente secondo saggezza e
tradizione i loro pareri – era e rimaneva tale solo in quanto fungeva da strumento
al servizio del “kintouadi” (comunità). Il suo potere, pur apparentemente assoluto,
era non solo bilanciato dai consiglieri ma limitato dalla sua idoneità a servire il
rafforzamento dei legami sociali e il potenziamento della “forza vitale” del gruppo.
La discrezione dei legami comunitari
• Non è possibile, pertanto, invocare la tradizione per legittimare un tipo di
potere autocefalo e disgregativo dei legami comunitari, come è avvenuto nel continente nei decenni persi della democrazia e dello sviluppo che vanno dagli anni delle Indipendenze. Proprio conoscendo i “misteri interiori” della “polis” precoloniale
il tentativo della sua strumentalizzazione appariva un’operazione maldestra ed anacronistica. In effetti, come è possibile applicare alla realtà di uno stato moderno degli anni ’60 e seguenti, senza previo discernimento, dei meccanismi politici premoderni? Tenendo conto anche del fatto che la colonizzazione aveva snaturato e, in
molti casi, cancellato le figure di potere in vigore da secoli nell’Africa degli antenati. In realtà c’è qualcosa di perverso in questo recupero strumentale della tradizione. Recupero che segue le stesse finalità del potere coloniale che usò anch’esso la
tradizione ma per snaturarla o piegarla alle sue esigenze di conquista e di dominio.
Wa Thiongo, scrittore keniota, denuncia con veemenza questa degenerazione del
“ricorso all’autenticità”: “Quel che oggi viene ufficialmente fatto passare per autentica
cultura africana è una virtuale replica della tradizione coloniale: arte turistica, danza,
contorsioni acrobatiche svuotate di ogni contenuto di lotta, oppure teatro asservito,
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musica e film che lodano sempre il leader al potere come se fosse senza macchia, dotato
di una saggezza che viene direttamente dal cielo. Questa cultura ufficialmente accettata guarda all’esterno per allearsi con gli elementi più retrogradi della cultura occidentale”.
Non è dunque possibile compiere un’archeologia della polis precoloniale per
applicarla all’oggi. Rimane il fatto, tuttavia, che quella tradizione offesa e trasformata dall’impatto con la colonizzazione può assumere il ruolo di una fonte d’ispirazione, una figura paradigmatica della politica di ieri in grado di offrire spunti di
riflessione e d’azioni interessanti per discernere e affrontare le sfide del futuro della
democrazia in Africa.
DEMOCRAZIA, SVILUPPO E INTEGRAZIONE SOCIALE
• “Una seconda obiezione solleva dubbi su ciò che la democrazia può effettivamente
realizzare nei paesi più poveri. La democrazia non potrebbe forse rivelarsi un ostacolo
che frena il processo di sviluppo e distrae l’attenzione dalle priorità economiche e sociali,
cioè fornire sufficienti quantità di cibo, aumentare il reddito pro capite e realizzare le
riforme istituzionali?”. Obiezioni “legittime e convincenti” concorda Amartya Sen.
E i fatti della cronaca africana sembrano dare ragione agli obiettori. Le elezioni costano e i riti elettorali sono diventati per alcuni stati un fattore d’indebitamento fino
ad arrivare al paradosso di affamare il proprio popolo pur di accontentare i partner e
gli organismi internazionali che ribadiscono a tempo e a contro tempo, contro ogni
evidenza contabile, la necessità di tenere le elezioni. È vera l’affermazione di Samuel
Huntigton in La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, citato da Amartya Sen secondo cui “elezioni libere, corrette e aperte a tutti rappresentano l’essenza della democrazia, la condicio sine qua non”.
Per quanto riguarda il continente africano le domande da porre sono: è possibile una democrazia senza libertà? Che significa la libertà in società dove è costantemente in pericolo la madre di tutti i diritti, il diritto fondamentale alla vita
costantemente minacciata dalla povertà e dalla guerra?
Funzioni ed effetti dei PAS
• Per alcuni la priorità in Africa non è tanto la democratizzazione quanto la
mobilitazione delle masse intorno agli obiettivi dello sviluppo economico da conseguire a tappe forzate attraverso l’applicazione acritica dei Piani di Aggiustamento
Strutturale imposti dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale.
Lo “stato minimale”, ossia “meno stato”, “più mercato” “liberalismo in tutti i settori” non ha raggiunto l’obiettivo di risanare gli equilibri macroeconomici né è stato
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in grado di rendere appetibili i mercati africani per gli investitori stranieri. Per contro ha contribuito ad acuire la frattura sociale e la conseguente atomizzazione e privatizzazione delle relazioni sociali soprattutto nelle città dove i legami sociali si sono destrutturati. Lo stato minimale è alla base della riduzione degli stipendi con
relativa caduta libera del potere d’acquisto delle famiglie; la disoccupazione è cresciuta per effetto della stagnazione e della depressione che ha colpito i settori vitali
delle economie.
In realtà i PAS (programmi di aggiustamento strutturale) costituiscono la vera
guerra che le istituzioni monetarie internazionali hanno lanciato agli embrioni di
democrazia e di partecipazione in crescita nel continente. Essi hanno cancellato i
presupposti minimi sui quali reggeva il “patto nazionale” fragile e bisognoso di
rafforzamento. La crisi economica, aggravata dai PAS ha impedito agli stati senza
legittimità nazionale di assicurare i servizi minimi ai gruppi sociali ed etnici coesistenti sullo stesso territorio. La disgregazione ha preso il sopravvento e i processi di
democratizzazione si sono arenati. I conflitti armati, essi stessi figli della madre di
tutte le guerre che è la guerra della povertà, ha finito per compromettere le chance
residuali di una democratizzazione. La lotta per la vita ha finito per prendere il sopravvento sulla lotta per la libertà.
Non ci saranno alternative economiche in Africa fino a quando la soluzione alla sfida della miseria e della povertà non saranno oggetto di un dibattito reale in
grado di partorire progetti endogeni condivisi.
La mancanza di spazi politici
• La confisca della sovranità economica da parte delle istituzioni finanziarie
internazionali priva i paesi africani dello spazio, politico appunto, dove vengono
fissate le priorità dello sviluppo e le strade per implementarle. In altre parole, non
c’è democrazia né sviluppo senza sovranità politica ed economica. I termini della
questione vanno dunque rovesciate. Non prima mobilitazione delle masse contro
la povertà e poi democrazia, ma prima la democrazia come spazio pubblico di discussione e condivisione del progetto politico ed economico. È dentro quest’agora,
nella pienezza della sovranità che la collettività assicura a tutti la soddisfazione dei
bisogni fondamentali, la quale costituisce in Africa l’ABC della democrazia. Quest’ultima o si mette al servizio della “polis” nelle istanze fondamentali del suo presente e del suo futuro oppure è destinata a diventare un vacuo esercizio utile a pochi, strumento funzionale alla legittimazione d’interessi extra-africani. La democrazia in Africa non è una questione astratta esposta alla disquisizione filosofica.
Essa tocca l’essenza stessa della vita sociale: la sicurezza e la pace individuali conseguite attraverso un patto collettivo di convivenza e di condivisione. Democrazia significa architettura costituzionale e alchimia istituzionale, ma prima di tutto è pa-
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ce, sicurezza e soddisfazione delle istanze primarie di sopravvivenza. Come a dire,
per la democrazia come in filosofia, “primum vivere deinde philosophari”.
È proprio ciò che spiega Jean-Marc Ela quando parla della “necessità di ripensare lo sviluppo partendo da un nuovo contratto tra l’economia, lo stato e la società in un
contesto di stallo dei Programmi di aggiustamento strutturale. In quest’ottica, occorre
ritornare ai protagonisti sociali assumendo come punto di partenza i contributi positivi
di una sociologia dell’innovazione che si elabora tenendo conto delle strategie di resistenza e di lotta contro l’esclusione… La ricerca delle alternative al fallimento dello sviluppo prende spunto dalle forme di vendetta storica dell’uomo africano che si dispiega
attraverso la creatività popolare incarnata nelle organizzazioni contadine e nei gruppi
di base”.
La ricomposizione dei legami sociali
• Ciò che bisogna comprendere e sanare, suggerisce Jean Marc Ela è la rottura
avvenuta nelle società africane dei legami sociali. L’analisi di questa rottura dimostra che da tempo i poveri appartengono ad una categoria sociale senza capacità di
partecipare alla vita sociale. Le società africane come società bloccate da un modello di produzione e d’organizzazione sociale ed economica dove “l’ordine del denaro” è più forte dell’“ordine della vita”. Siamo in presenza di una specie di giungla
dove regna senza scrupoli l’ordine del mercato. Il presupposto democratico in Africa diventa, quindi, questo: “come ricreare il ‘legame sociale’ senza un nuovo contratto
tra generazioni in grado di integrare i giovani – maggioranza esclusa e marginalizzata
– attraverso una economia del lavoro e della vita” .
La questione democratica s’intreccia inscindibilmente con la ricerca di una
grammatica dell’integrazione sociale attraverso nuove forme di produzione e riproduzione della ricchezza più inclusive. L’Africa può riuscire in quest’impresa con
uno sforzo di obbedienza all’irruzione della povertà e dei poveri come uno dei luoghi della politica. Un immenso e sterminato agora popolare dentro il quale libertà
e democrazia fanno rima con strategie d’uscita dal bisogno e ricerca di una politica
che assicuri la vita. La scienza politica, ovvero la ricerca delle forme di conquista e
di gestione del potere, del consenso e della partecipazione civile, deve essere preceduta da una filosofia della vita. Gli africani sono chiamati a fare i conti con la violenza strutturale che attraversa tutte le nostre società.
STATI MULTINAZIONALI E DEMOCRATICI IN AFRICA
• Un modo per neutralizzare all’origine questa intrinseca conflittualità è quello di ripensare la territorialità e i rapporti che gli attori sociali intrattengono tra di
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loro. Democratizzare significa creare le condizioni per una “volonté générale” in
grado di mettere pace tra le diverse “formazioni socioculturali” che stentano dopo
più di quarant’anni dall’indipendenza di trovare le ragioni dello stare insieme. La
sfida è quella di fare funzionare la democrazia dentro stati dove convivono molte
nazioni non solo differenti ma antagoniste. Mwayila Tshiyembé nel suo saggio dal
titolo État multinational et démocratie africaine (sociologie della renaissance politique) pubblicato presso l’Harmattan traccia la mappa geopolitica delle nazioni africane irrigidita dal principio dell’intangibilità delle frontiere ereditate dalla colonizzazione ratificato al momento della nascita dell’Organizzazione dell’Unità africana:
– Etiopia, 50 milioni di abitanti divisi in Oromo (20 a 25 milioni), amhara, tigrini, somali;
– Sudafrica, 40 milioni di abitanti e una decina di nazioni tra le quali gli zulu (8
milioni di abitanti), i xhosa (7 milioni), i sotho (10 milioni), i boeri (4 milioni);
– l’Angola, 8,5 milioni di abitanti con le nazioni Ovimbundu (30 a 40%), Kimbundu (23%), Kongo (14%), chokwe, Lunda.
La stessa implicazione tra nazioni diverse dentro lo stesso stato e la stessa porosità delle frontiere ritroviamo altrove nel continente. Nel fallimento del progetto
nazionale avviato negli anni successivi all’indipendenza, le solidarietà etniche hanno finito per riprendere vigore occupando spazi che dovevano toccare per vocazione ad un entità di sintesi tra i vari gruppi, lo stato nazionale.
Le varie comunità etniche presenti dentro lo stato hanno sviluppato una comunicazione e coesione ad intra rinunciando ad intraprendere la strada faticosa ma
feconda della ricerca di consenso. Le élite non hanno saputo proporre una strategia
di inglobamento delle appartenenze etniche dentro una appartenenza superiore, da
tutti riconosciuta e in grado di rispettare l’identità e tutelare la sicurezza e il benessere di tutti. Il ripiegamento nell’orizzonte etnico in presenza di un processo di democratizzazione in atto ha finito per fare coincidere i contorni dell’appartenenza
etnica con quelli dell’identità etnica con grave danno per le etnie minoritarie. Il
gioco politico diventa non un momento di sintesi ma una partita giocata in solitudine da un gruppo etnico contro gli altri, i quali aspettano il momento adatto per
subentrare. Sotto questo aspetto possiamo dire di trovarci di fronte ad una situazione prepolitica di guerra generalizzata di tutti contro tutti.
È urgente identificare i luoghi e le modalità per negoziare una tregua utile a
trovare l’accordo per negoziare un patto comune che assicuri pace e stabilità dentro
frontiere arbitrarie ma ormai ufficializzate da più di quarant’anni. La politica in
Africa, come altrove, è ricerca di armonia; è creazione di spazi di sintesi dove gli interessi contrapposti presenti nella società trovino un’armonica ricomposizione. La
democrazia non è possibile senza la pace sociale e quest’ultima si conquista assicurando condizioni di vita umane e diritti, il primo dei quali è il diritto alla vita.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
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L’epidemia da AIDS e il futuro dell’Africa
Molti mozambicani si guadagnano da vivere nelle miniere del Sud Africa e molti di essi incontrano il destino di tanti immigrati più o meno clandestini che vengono rimpatriati a forza nel loro paese. Finiscono a
Chaluquane, remota località alla frontiera, un vero e
proprio binario morto della ferrovia, dove spesso rimangono, privi persino dei soldi per tornare alle loro
abitazioni. Ed è a Chaluquane che gli immigrati si scoprono malati di AIDS. Qui l’epidemia raggiunge tassi
di diffusione drammatici, superiori al 50% in alcune
fasce di popolazione. A Chaluquane si torna spesso solo per morire.
AIDS: una seria minaccia per il futuro del continente
• La parabola dei giovani emigranti mozambicani reduci dall’incontro con il virus in Sud Africa – considerato dagli
studiosi come l’attuale epicentro della malattia – aiuta a
comprendere come mai l’AIDS non possa essere semplicemente relegato nel novero dei problemi di salute ma divenga
minaccia allo sviluppo ed allo stesso futuro del continente.
Milioni di vite di giovani adulti – la fascia di popolazione
più importante ai fini del reddito e della famiglia – sono già
state consumate nell’incendio dell’epidemia. Quel che più
preoccupa è che lungi dall’estinguersi l’infezione mantiene
tutta la sua forza propulsiva: il recentissimo rapporto
UNAIDS del 2005 rileva infatti come la differenza tra nuovi
infetti e morti si mantenga ancora positiva per 1,8 milioni di
unità: 3,2 milioni le nuove infezioni e 2,4 i decessi.
Ebbene, tale differenza è di poco inferiore a quella registrata nel 2002, evidenziando la mancanza di una qualsiasi
forma di rallentamento del trend epidemico. Ma l’AIDS
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
LEONARDO PALOMBI
Università di Roma
Tor Vergata
≈
“Non solo il sogno
di vincere l’AIDS
ma di trovare
una forma
di eccellenza per
la cooperazione, lo
sviluppo e l’aiuto
fra popoli. Il sogno
insomma di una
globalizzazione
buona, efficace
e durevole”
≈
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Leonardo Palombi
non va pensato solo nei termini delle vittime che miete, bensì del rosario delle conseguenze connesse a tali scomparse.
Quando muore un giovane adulto in Africa, “nasce” almeno un orfano: ce ne
sono oggi oltre 16 milioni. Quando una giovane donna scompare è a rischio la vita
di tutti i suoi figli. E sui decessi infantili in qualche modo connessi alle morti dei
padri o delle madri non esistono statistiche attendibili.
Il terribile traguardo del 2020
• Lo stesso rapporto UNAIDS rileva inoltre che entro il 2020 verrà a mancare
oltre il 30% della forza lavoro in 4 paesi africani mentre molti altri la vedranno diminuire del 10-20%. Il dato non può che ripercuotersi sui prodotti interni lordi,
che infatti vengono decurtati di circa 2 punti percentuali annui a causa della malattia. Uno studio della Banca Mondiale del 2004 stima la possibilità di un dimezzamento del PIL in paesi come il Sud Africa nel giro di pochi decenni. L’esempio
del Malawi è però forse più eloquente delle statistiche. Sono trascorsi 41 anni dall’indipendenza del paese ma, oggi come allora, la zappa resta lo strumento principale per coltivare la terra. La zappa purtroppo richiede braccia adulte per essere
manovrata e invece nella popolazione, che pure è triplicata dal 1964, il numero dei
bambini e dei giovanissimi è cresciuto oltre misura, mentre quello di uomini e
donne diminuisce rapidamente: decimato dall’AIDS (84.000 adulti deceduti per
l’AIDS solo nel 2003). Insomma una popolazione che ha più bisogni di ieri ma
produce di meno e sempre con gli stessi arcaici mezzi. Su circa un milione e
400.000 ettari coltivati solo 70.000 sono irrigati e dunque la vita di tutti dipende
per intero dal clima. Accade così che nella peggiore stagione agricola dell’ultima
decade, a causa di piogge intempestive o di una lunga siccità, ma soprattutto a causa dell’AIDS che ha sottratto a tante famiglie i loro lavoratori, un pauroso deficit di
418.000 tonnellate metriche di mais getti un’ombra sulla vita di oltre 4 milioni di
malawiani.
Dovranno provare a sopravvivere da qui all’aprile del 2006, epoca del nuovo
raccolto. Visitando i villaggi del Malawi rurale, profondo, si coglie facilmente il
loro spopolarsi: sulla strada i campi arati di fresco dicono di chi è vivo e di chi
non lo è più o sta morendo: alcuni infatti sono ben sarchiati e puliti, altri sono
infestati da erbacce o, in alcuni casi, da arbusti vecchi di mesi o anni. E le donne
portano i loro figli ma, in quantità analoga, gli orfani di chi non c’è più. Il peso
di 10 o 12 piccoli diviene insopportabile davanti alle grandi gerle vuote al centro
del paese, quelle che normalmente contengono le pannocchie di mais fino al
prossimo raccolto.
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Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Leonardo Palombi
Che fare?
• Che fare? Instabilità economica e politica non potranno che intrecciarsi ulteriormente nei prossimi anni se non si riesce ad invertire sostanzialmente il trend
epidemico. Ma per questo occorre che si realizzino alcune condizioni. La prima e
fondamentale di queste è che le semplificazioni e i paradigmi siano fermamente
banditi dal pensiero della comunità internazionale. Cito solo l’esempio del fatto
che per anni si è coltivata l’idea che la sola prevenzione avrebbe contenuto l’estendersi dell’epidemia. Gli sforzi in questo senso hanno fallito – circa 26 milioni di
africani infetti ne sono una ben triste testimonianza. Non ci si culli ora nell’attesa
di un vaccino. Al di là del fallimento di una trentina di tentativi sperimentali, si
deve infatti considerare che se oggi disponessimo dell’agognato presidio terapeutico – preventivo, il suo effettivo impatto si avrebbe non prima dei dieci anni. Dal
momento che così non è occorre attrezzarsi per tempi non inferiori ai 20 anni.
Un nuovo pensiero
• Sebbene stiamo assistendo ad una mobilitazione internazionale di un certo
rilievo da parte di agenzie internazionali, governi ed organizzazioni non governative, sembra che sia necessario un nuovo pensiero su come affrontare la malattia di
cui proverò ad elencare alcuni fondamenti:
1. AIDS e povertà
• La sfida dell’AIDS e quella della povertà in larga parte coincidono. Sarà banale ma non si può omettere il fatto che i budget governativi africani sono in grado
di destinare spesso solo 2-7 dollari annui pro capite alla spesa sanitaria. Per fare un
esempio l’Italia per curare i suoi circa 120,000 sieropositivi (pari allo 0,2% della
popolazione) dovette creare un sistema ospedaliero e territoriale dedicato, con una
spesa che si aggirava nel 2004 intorno a 1,2 miliardi di euro. Il lettore potrà stimare da sé quale è il costo potenziale dell’epidemia in paesi dove la sua diffusione tocca almeno il 10% della popolazione.
2. I sistemi sanitari
• Non vinceremo questa sfida senza una riforma seria e capillare dei sistemi sanitari africani. Essi si sono formati sulla falsariga di quelli europei e in larga misura
non tengono conto delle specificità africane. Ad esempio del problema delle di-
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
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Leonardo Palombi
stanze e degli accessi: l’Africa è un continente enorme, con una densità di popolazione che è mediamente un decimo di quella mondiale.
Le pessime condizioni delle comunicazioni e la carente disponibilità dei mezzi
di trasporto fa sì che spesso solo la metà della popolazione abbia in genere accesso
a centri di salute. Questo è un fattore limitante di straordinaria gravità non solo
per il controllo dell’infezione da HIV ma anche per altri grandi problemi di sanità
pubblica, come la malaria o la tubercolosi. Inoltre, il fatto che i sistemi sanitari
africani si siano formati a immagine di quelli occidentali provoca la loro intrinseca e costante insostenibilità. Non solo è insensato pensare ad un sistema fondato
sugli ospedali, è anche insopportabilmente costoso. All’Africa occorre una sanità
leggera, con pochi centri altamente qualificati ed una mobile e capillare organizzazione sul territorio. Una sanità che sappia sfruttare le risorse umane a basso livello di qualificazione di cui il continente è ricco e che sappia utilizzare tecnologie
di comunicazione in grado di sopperire almeno parzialmente al problema delle
distanze.
3. La formazione
• La formazione di personale qualificato resta un nodo strategico di straordinaria importanza. Si pensi solo al fatto che mentre l’Italia dispone in media di 1
medico per circa 200 abitanti, tale rapporto cade, nel caso del Mozambico, a 1 su
45.000. Occorre peraltro arrestare l’emorragia di personale qualificato che emigra
per le impossibili condizioni di lavoro e per i bassi salari. I medici malawiani residenti nella sola città di Manchester sono più numerosi di quelli presenti nel paese.
Solo 50 medici rimangono in Zambia degli oltre 600 formati dall’epoca della indipendenza.
4. Promozione della salute
• La battaglia sull’AIDS si vincerà nella misura in cui saremo capaci di una “alfabetizzazione” alla salute di massa delle popolazioni africane. L’autodifesa resta infatti un presidio imprescindibile e, nel caso africano, essa è fortemente ridotta dalle
scarse conoscenze e informazioni che vengono ricevute ad ogni livello.
Occorre in altri termini superare un doppio analfabetismo che spesso rende
inefficaci strategie preventive ad ampio spettro. Per salvare tante vite umane e ridurre la mortalità e la diffusione di molte malattie, abbiamo in mano un’arma potentissima, più potente delle medicine. Un mezzo straordinario che già permette di
vincere molte battaglie e di cambiare in meglio, radicalmente, la situazione. Questa arma è l’istruzione. Molti studi antichi e recenti lo dimostrano. Investire nelle
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Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Leonardo Palombi
persone (le “risorse umane”) e nell’educazione sanitaria ha portato molti paesi con
poche risorse finanziarie a migliorare in maniera decisiva la capacità di lotta alle
malattie.
5. Il caso del Costa Rica
• Un esempio è il caso del Costa Rica. In questo paese i soldi a disposizione di
ogni cittadino ( il PIL pro capite), sono dieci volte di meno di quello che ha a disposizione un inglese. Eppure è sorprendente che l’aspettativa di vita alla nascita sia
quasi la stessa. Questo è avvenuto per il forte investimento nell’istruzione e nell’educazione sanitaria. Se si guarda al calo della mortalità infantile e all’aspettativa di
vita in India, i dati sono migliorati in maniera rilevante quando si è diffusa l’istruzione, soprattutto femminile, nelle aree rurali. All’interno dell’ India, se si confrontano due grandi Stati, il Kerala e il Punjab (quest’ultimo più ricco ma meno scolarizzato, il Kerala con meno risorse economiche ma più scolarizzato) si vede come
l’aspettativa di vita alla nascita è nettamente più alta in Kerala. Nei paesi in via di
sviluppo e nei paesi con meno risorse finanziarie l’istruzione e l’investimento nelle
risorse umane, soprattutto femminili, si sono rivelati fattori di incisivo cambiamento e di modernizzazione. La lezione è che, con la crescita della cultura sanitaria, anche con pochi mezzi, si cambia la qualità della vita.
6. Terapia e prevenzione
• Combinare terapia e prevenzione nello stesso modello assistenziale. Il dibattito internazionale degli addetti ai lavori oscilla spesso tra efficacia dei modelli di cura e loro capacità di coprire effettivamente la popolazione colpita dall’infezione. È ovvio che nessuno dei due elementi può essere separato dall’altro. Accade spesso invece che le due esigenze siano in qualche modo sentite in contraddizione, per il diverso impiego di risorse che essi sembrano richiedere. Nulla di
più sbagliato: un modello efficace raggiungerà il suo obiettivo con il risparmio
delle spese inutili o addirittura controproducenti che vengono affrontate in taluni approcci minimalisti. È in questa ottica che è necessario guardare alla terapia
(costosa, ma oggi assai meno che in passato) come una componente fondamentale della prevenzione. Essa consente infatti al paziente di guardare alla sua malattia in modo più sereno, accettando il test e le relative conseguenze. È la terapia
che può efficacemente prevenire la trasmissione materno-infantile ed anche l’infettività dei soggetti trattati.
Occorrerà pertanto combinare i due elementi-terapia e prevenzione in un adeguato mix in grado di ottenere il miglior risultato.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
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Leonardo Palombi
7. Controllo dei fondi
• Partnership e non ownership. L’approccio umanitario da utilizzare rappresenta un altro punto critico. Assistiamo al fatto – paradossale a mio avviso – di una
relativa abbondanza di fondi sul fronte dell’AIDS, che sembra mettere in crisi le
capacità di spesa di molti governi africani.
Senza scendere nel dettaglio dei molti problemi – si veda ad esempio quello
della corruzione – sembra naturale evitare demagogici approcci che addossino ai
singoli stati ed ai loro sistemi sanitari fragili e privi di adeguate risorse umane, tutta
la responsabilità di investire fondi che spesso rappresentano molte volte il loro
budget annuo. È poi appena il caso di accennare al fatto che lavorare insieme nella
prospettiva di tempi lunghi rappresenta un insostituibile elemento di stabilità in
grado di creare valore in termini di risorse umane professionalizzate, strutture, organizzazione del lavoro, sistemi informativi e quant’altro. Partnership sembra la
parola chiave da utilizzare per una azione realmente concertata tra donatori e recipienti, senza imposizioni reciproche.
DREAM, il tentativo di una risposta
• È a fronte di questi problemi e con queste idee che nasce DREAM (Drug
Resource Enhancement against AIDS and Malnutrition), il programma voluto e
gestito dalla Comunità di Sant’Egidio per affrontare siffatta problematica.
Abbiamo sempre ritenuto che la prevenzione andasse integrata con la terapia.
È così che è nata l’idea, assai osteggiata nel 2002 quando cominciammo a tradurla
in pratica, di introdurre, assieme al sostegno nutrizionale, la tripla combinazione
di farmaci antiretrovirali durante la gravidanza allo scopo sia di prevenire la trasmissione verticale che di salvaguardare la salute delle madri. Un punto va sottolineato: la capacità delle donne di seguire un protocollo terapeutico apparentemente
complesso e il loro gradimento per tale tipo di approccio è uno dei più alti al mondo: oltre l’80% delle donne conclude l’iter previsto, nell’ambito di DREAM. Oltre
1100 bambini sono nati sani sino ad oggi da madri HIV positive e il tasso di trasmissione è inferiore al 2%. Quale è la ragione di questo successo? Non ci stancheremo di ripetere che la proposta di essere curate e di sopravvivere rappresenta l’elemento chiave di questa adesione. Questo a fronte di altre esperienze che contemplano solo la fase preventiva del trattamento, con la somministrazione della nevirapina in monodose o protocolli simili, che spesso si fermano al 40-50%, proprio
perché tali approcci lasciano drammaticamente aperta la domanda sulla sopravvivenza materna. Sino ad ora abbiamo assistito le nostre donne anche donando latte
in formula per evitare la trasmissione del virus durante l’allattamento. Possiamo
oggi anticipare che uno studio condotto in collaborazione con l’Istituto Superiore
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Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Leonardo Palombi
di Sanità offre preziose indicazioni sulla sicurezza del latte materno di donne trattate con antiretrovirali, così da sciogliere le nostre ultime riserve e di poter tornare
all’allattamento al seno.
Il programma del DREAM
• Il programma DREAM (Drug Resource Enhancement against AIDS and
Malnutrition) della Comunità di Sant’Egidio, recentemente insignito del Premio
Balzan per Umanità, Pace e Fratellanza tra i popoli, rappresenta la realizzazione di
un sogno: quello di intervenire oggi sulle giovani donne al duplice scopo di salvare
la loro vita e consentire ad esse di partorire ed allevare bambini senza AIDS. Il sogno
insomma di salvare il futuro ed alleviare il presente. DREAM nasce come una risposta globale alla giovane madre africana, che è possibile articolare in diversi punti:
La formazione
• La necessità di introdurre la terapia antiretrovirale estendendola a larghe fasce di popolazione fa emergere la drammatica carenza di quadri medici e infermieristici dotati della specifica professionalità. Anche per questo DREAM investe
moltissimo sulla formazione, sia attraverso corsi teorici sia – ed è questo un elemento peculiare – in stage prolungati in diversi settings: laboratori, maternità e
centri di salute. Vengono formate le diverse figure professionali, tra cui i coordinatori dei centri, gli attivisti e gli informatici, oltre naturalmente a medici, infermieri,
biologi e tecnici di laboratorio. Con il 5° corso panafricano tenutosi a Maputo nel
2005 sono oltre 1000 i professionisti a tutt’oggi addestrati provenienti da più di 10
paesi africani. Anche i pazienti non restano estranei al processo educativo: per essi
è stato realizzato un testo, ora edito in portoghese, inglese, francese, swaili e chichewa che rappresenta la base per corsi di educazione sanitaria. Sino ad ora oltre
35,000 persone hanno potuto usufruire di questi corsi che hanno migliorato le conoscenze nel campo dell’igiene della persona, dell’alimentazione, della cura del
bambino, dell’abitazione, dell’acqua e della lotta ai parassiti. Riteniamo infatti fondamentale offrire una sorta di alfabetizzazione alla salute a tutti, che funga da recipiente per conoscenze più specifiche nel campo del virus dell’HIV.
La lunga durata
• DREAM rappresenta un modello di intervento teso allo sviluppo, non una
risposta di tipo emergenziale. Abbiamo pensato ad un programma di lunga durata,
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
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Leonardo Palombi
robustamente inquadrato in una cornice di vera partnership con i paesi interessati
e con i loro quadri tecnici e politici. Si potrebbe dire “lavoriamo insieme e a lungo,
almeno fin quando saranno disponibili nuove e più decisive risposte terapeutiche
per l’AIDS”. Questo rappresenta uno degli aspetti di DREAM che hanno forse destato più stupore nei nostri interlocutori, perché rappresenta un pensiero ed un approccio almeno insoliti nella tradizione delle cooperazioni. Proprio questo non vogliamo essere considerati: una temporanea ed esterna iniziativa di cooperazione. Al
contrario abbiamo sempre chiesto di essere considerati come una iniziativa che nasce anche dal basso e dall’interno dei paesi africani. Sant’Egidio non è solo europea
ma profondamente africana, come migliaia di suoi membri. DREAM propone
un’alleanza per crescere insieme e, diremmo, per imparare di più: di qui il grande
spazio dato alla ricerca operativa per conoscere ed approfondire in terra d’Africa
tutte le incognite che il profilo africano della AIDS presenta.
La diagnostica
• Un falso e per fortuna oggi superato dilemma morale ha scosso le coscienze intorno al problema dell’AIDS: offrire qualcosa subito a tutti oppure realizzare interventi completi ma in grado di coprire solo gradualmente le popolazioni
colpite? DREAM si è schierato da subito con la seconda opzione, ormai generalmente condivisa, nella prospettiva di rapidi scaling up. La ricerca di un golden
standard, adeguato a quanto previsto in Occidente, rappresenta anche una scelta
di equità, perché non si applichino due misure diverse ad esseri umani che vivono semplicemente in aree geografiche diverse. Così nei paesi dove opera,
DREAM sempre allestisce una completa rete di laboratori di biologia molecolare
che costituisce l’ossatura di un sistema di diagnostica all’avanguardia. Questo
esempio è eloquente di un ulteriore motivo per cui abbiamo investito nell’eccellenza: cogliere nella epidemia da HIV non solo i problemi ma anche le chance.
La possibilità di ridisegnare l’intero sistema sanitario, finalmente immaginando
una sanità su misura per l’Africa. L’intero continente è afflitto da un grave e crescente problema di accesso alle strutture sanitarie, legato alla sua enorme superficie, alla bassa densità di popolazione, alla cattiva qualità delle vie di comunicazione. Al tempo stesso l’Africa esprime una potenziale ricchezza di manodopera,
che va ovviamente addestrata. Da queste ed altre considerazioni siamo partiti per
concepire un sistema di cura dell’AIDS completamente fuori da grandi e costose
strutture ospedaliere, realizzato al contrario in piccoli centri dotati di numeroso
personale e di tecnologie di gestione informatica e delle comunicazioni all’avanguardia. È l’idea di una rete di centri connessi sulle lunghe distanze a scopo di
controllo e coordinamento, addestramento e possibilità di accedere in tempo
reale all’opinione di esperti.
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Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Leonardo Palombi
Curare e includere
• Molta importanza è stata data agli aspetti di partecipazione dei pazienti nel
programma DREAM. La cura vuol essere anche un riscatto ed una testimonianza
agli altri per combattere lo stigma, l’emarginazione e il senso di condanna che accompagna la malattia. È nata così l’associazione “Mulheres para o DREAM” in cui
ormai centinaia di donne (e uomini) in terapia sostengono l’aderenza e fanno opera di educazione alla pari. Vorremmo insistere sull’importanza di questo aspetto
che è veramente essenziale per ridurre i tassi di abbandono o una scarsa compliance, ma anche perché è vissuto come un vero e proprio riscatto. Queste persone infatti svolgono una nuova professione regolarmente retribuita che rappresenta un
ulteriore elemento di prevenzione e di educazione.
DREAM è oggi esteso o in corso di realizzazione in molti paesi africani: partito
dal Mozambico, è ormai operativo in Malawi, Tanzania, Guinea Bissau e Kenya.
In altri paesi, come la Guinea Conakri e l’Angola, alcuni centri stanno per essere
avviati, mentre importanti accordi sono stati raggiunti con stati come la Nigeria
e il Congo. DREAM è un sogno possibile e – speriamo – altamente contagioso.
Non solo il sogno di vincere l’AIDS ma di trovare finalmente una forma di eccellenza per la cooperazione, lo sviluppo e l’aiuto fra popoli. Il sogno insomma di
una globalizzazione buona, efficace e durevole.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
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Leonardo Palombi
Africa religiosa
Il Vangelo e l’Africa
La relazione del Vangelo con i valori tradizionali africani s’inserisce nell’incontro dell’africano con la religione cristiana. Quest’ultima pone diversi interrogativi fra cui i seguenti: il genio cristiano è in grado di restituire all’africano il senso della vita, dell’essere e dell’esistere dopo tutti i tormenti della sua storia? L’armonizzazione tra il Vangelo e la cultura africana è possibile? Si tratta di una problematica essenziale, in
quanto non risponde a una logica ideologica, ma coinvolge l’essere e l’esistere in quanto essere umano; è anche una questione d’identità di vita, di fede e di sopravvivenza per interi popoli
• Questa problematica si situa al centro della pastorale
della cultura o dell’inculturazione del Vangelo nel contesto
africano. Per discuterne, è necessario avere, da un lato, una
coscienza acuta della Redenzione di Cristo e dell’efficacia
salvifica del Vangelo e, dall’altro, una coscienza acuta dei valori vitali della cultura africana tradizionale, della dignità
dell’uomo e della sua sete di vita, di verità e di libertà di
fronte al proprio destino.
Tradizione, Vangelo e Valori
• Il Vangelo viene incontro alle culture nello spirito
stesso del Sermone sulla montagna in cui Cristo dichiara:
«Non sono venuto per abolire ma per dare compimento»
(Mt 5,18). Il Vangelo rinnova, purifica, eleva, umanizza, sacralizza, santifica. Esamineremo dunque le relazioni tra il
Vangelo e i valori tradizionali africani privilegiando tale teologia del compimento.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
MONSIGNOR
JEAN MBARGA
Vescovo di
Ebolowa-Kribi,
Camerun
≈
“La Chiesa
considera con
rispetto i valori
morali e religiosi
della tradizione
africana, non
solo per il loro
significato, ma
anche perché vede
in essi la base
provvidenziale per
la trasmissione
del messaggio
evangelico e per la
costruzione di una
nuova società
in Cristo”
≈
61
Monsignor Jean Mbarga
• Secondo l’insegnamento del Sermone della montagna, il compimento ha
luogo in tre modi: la legge è interiorizzata; le esigenze formulate corrispondono al
nostro essere, creato a immagine di Dio; procedono dall’intimo: il movimento verso Dio e verso il prossimo è prima di tutto un movimento del cuore. La legge è
unificata nell’essenziale: tutte le esigenze sono fondate sul doppio comandamento
dell’amore: dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. La legge è radicalizzata: le
esigenze della Legge, cioè le esigenze dell’amore, sono portate al loro punto estremo che l’Antico Testamento non aveva né conosciuto né espresso. Più precisamente: le domande riguardanti coloro verso i quali deve indirizzarsi l’amore (tutti, ivi
compresi i nemici) e il modo di amarli (facendo tutto per il loro bene, come il padre), «superano» le formulazioni della Legge dell’Antico Testamento.
• In altri termini, l’incontro del Vangelo con i valori tradizionali africani segue
tre vie, tre punti: la conversione, la comunione e l’elevarsi verso la perfezione.
IL VANGELO LETTO, MEDITATO E PROCLAMATO E I VALORI TRADIZIONALI
L’obiettivo è che il Vangelo diventi una saggezza vivente per i popoli africani e il riferimento sapienziale della loro vita, dando così compimento alla saggezza ancestrale.
Bibbia e letteratura africana
• Le ricerche che riconoscono un’affinità tra i generi letterari biblici e la letteratura africana sono numerose. Padre Léon Marcel ha pubblicato tre fascicoli intitolati La saggezza africana – Apertura sul Vangelo1. Il primo fascicolo riguarda «alcune parabole difficili del Vangelo alla luce delle usanze africane e semitiche». Il secondo studia «alcuni gesti-enigmi appartenenti al “genere” dei gesti simbolici africani e semiti». Il terzo fascicolo analizza «alcuni nomi-enigmi dati nei Vangeli alla
luce dei nomi-enigmi ricevuti e dati in Africa».
• Monsignor Laurent Monsengwo Pasinya, nel suo articolo «Interpretazione
africana della Bibbia. Radice ermeneutica e biblica» e il teologo Laurent Mpongo
riconoscono che le tradizioni africane possono aiutare nell’interpretazione del Vangelo e delle Sacre scritture2. L’African Bible, ancora solo in versione inglese, è un
1
P. Léon Marcel, La Sagesse Africaine, Ouverture sur l’Evangile, 3 fascicules, Issy-les-Moulineaux,
Ed. St. Paul, 1983.
2 Citato in Les Évêques d’Afrique parlent 1969-1992, Documents pour le Synode africain, Paris,
Centurion, 1992, p. 147. L. Mpongo, Inculturation, Contextualisation. Face à la théologie classique,
Yaoundé, Presses de l’UCAC, 2004, pp. 69-70.
62
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Monsignor Jean Mbarga
testo che tiene conto della cultura Africana3. In quest’interpretazione detta culturale e esistenziale del Vangelo, i valori letterari africani possono contribuire a una
migliore comprensione delle Sacre Scritture per quanto riguarda la forma e la sostanza. Per quanto riguarda la forma, la cultura africana ha sviluppato un pensiero
simbolico-analogico, un pensiero narrativo. Queste forme di pensiero trovano delle equivalenze nelle Sacre Scritture. Una metodologia di confronto, di accostamento delle similitudini e differenze fra questi modi di pensare, può facilitare lo studio
delle Sacre Scritture: per esempio, un ricorso a racconti, indovinelli, filastrocche o
enigmi può aiutare i bambini e gli africani a capire meglio il Vangelo. I proverbi e i
racconti sapienziali possono aiutare gli adulti ad assimilare meglio la Parola di Dio.
Nell’insegnamento della Parola di Dio, nella catechesi, nell’omiletica, nella predicazione, l’arte oratoria africana può aiutare4.
• In quanto alla forma si tratta di fare in modo che l’assimilazione del Vangelo
sia facilitata dal ricorso alle espressioni e modi di pensare degli africani. Quanto alla sostanza, i rapporti esegetici tra le Sacre Scritture e i valori africani attengono alle
credenze, alle convinzioni, alla visione del mondo e alle sfide esistenziali.
Secondo la teologia del compimento, si presentano tre possibilità:
• c’è incompatibilità di un valore culturale con il Vangelo, allora si fa appello alla
conversione;
• la comunione con il Vangelo significa consacrazione di un valore culturale;
• la compatibilità embrionale con il Vangelo chiama all’elevazione di questo valore
culturale verso la perfezione nell’amore.
• Questo è quanto si sperimenta nella pastorale biblica ed è ciò che occorre
sviluppare. I gruppi si dedicano alla lettura esistenziale del Vangelo. La Lectio Divina come rivisitazione della vita, dalla Parola di Dio alla vita e dalla vita alla Parola
di Dio. In sostanza, gli africani adottano il Vangelo per compierlo in questa saggezza nuova che a sua volta dà compimento ai loro valori culturali.
VANGELO CREDUTO E PROFESSATO NEL CREDO
L’obiettivo è che l’africano accolga il Credo nella propria vita per passare dalle credenze alla fede vera e propria.
3 The African Bible, Biblical text of the New American Bible, Nairoby, Paulines Publications Africa, 1999.
4 J. Mbarga. L’art oratoire et son pouvoir en Afrique: le cas des Beti du Cameroun, Yaoundé, Publications Saint-Paul 1997.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
63
Monsignor Jean Mbarga
• Concretamente si tratta, partendo dalle credenze africane, di far scoprire agli
africani la Salvezza nel Cristo e la pienezza della verità. La religione tradizionale è
attraversata da verità fondamentali che preparano all’accoglimento della fede e che
possono riassumersi nei seguenti enunciati:
– l’Africa tradizionale crede in un Dio creatore di tutto, negli spiriti benefici,
negli antenati, nella vita, nella vittoria dei sostenitori della vita sui sostenitori della
morte, nella sopravvivenza dopo la morte, nell’uomo, nella ricchezza vera, nella famiglia, fonte di vita, nella parola, anima della vita, nella pace con ogni essere;
– l’Africa tradizionale respinge gli spiriti maligni e gli antenati pericolosi. La
morte provocata e chi la propugna, lo stregone e le sue pratiche, la discordia, la parola malvagia.
• In queste credenze ereditate, come accogliere il Vangelo, professare il credo,
e assicurare il passaggio dalle credenze religiose alla fede?
Oggi il credo cristiano (Nicea-Costantinopoli e il Simbolo degli Apostoli), è
professato dagli africani. Rispetto alla fede nel Dio Creatore, fede ancestrale, gli
africani divenuti cristiani hanno, a contatto con il Vangelo, scoperto il Dio della
Rivelazione, il Dio Padre, e il Dio di Gesù Cristo. La vitalità di questa fede si manifesta in una varietà di espressioni.
La fede in Cristo è nuova per l’africano. L’originalità e la novità del suo Vangelo sono evidenti. Oggi, le comunità cristiane adorano Cristo, perché egli è la
vita. La fede in Cristo è esistenziale. La convinzione riguardo la divinità di Cristo
è solida perché se ne riconosce l’autenticità. Cristo è vita e fonte di vita. Egli ne è
il signore. È lui che ha sconfitto la morte e assicurato la sopravvivenza. Il culto di
Cristo, in particolare nell’Eucaristia, testimonia che gli africani hanno una relazione vivente con Cristo. Questa fede in Cristo è un terreno ecumenico importante in Africa.
La fede nello Spirito Santo è una novità per gli africani. Questi ultimi conoscono sì gli spiriti benefici e maligni, ma lo Spirito Santo è una novità. Oggi, gli africani cristiani lo conoscono. Lo Spirito è più che uno spirito benevolo, egli è Dio.
Assolve perfettamente alla missione tradizionalmente riconosciuta agli spiriti benefici. Convinte di questa verità, i fedeli africani lo invocano con fede nella liturgia e
nelle loro preghiere. Lo Spirito Santo è operante e la sua azione impregna la vita
degli africani cristiani. La fede nella Chiesa si dimostra nell’attaccamento, nella fedeltà e nel riconoscimento della sua missione. Oggi, la Chiesa è l’istituzione più vicina agli africani nella loro vita. La Chiesa suscita speranza per un buon numero di
Africani. Per le comunità cristiane dell’Africa essa è il segno di Dio, la nuova famiglia dei figli di Dio.
Un posto privilegiato è riservato a Maria, figura di madre per eccellenza; colei
che intercede, ama, protegge e dona la vita. Madre di Cristo e Madre della vita.
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Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Monsignor Jean Mbarga
• Il rifiuto del mondo della morte, e dei suoi propugnatori nella cultura africana, ha facilitato il rifiuto di satana e dei suoi accoliti così come di altre pratiche malefiche. L’interesse crescente per gli esorcismi e le preghiere liberatorie testimonia
quest’adesione delle comunità cristiane alla Salvezza di Cristo.
Alcuni aspetti delle credenze religiose africane non trovano ancora delle equivalenze nella Chiesa, oppure non sono integrate in essa: ne consegue, talvolta, il
mantenimento della doppia pratica religiosa, il che fa sussistere una certa ambiguità nella vita degli africani e anche una crisi d’identità: il regno degli spiriti, la
lotta contro la stregoneria, il risanamento, la divinazione, le purificazioni, tutte le
pratiche per guarire e proteggersi.
Di fatto, il Vangelo professato nel credo è una ricchezza innegabile per gli africani. Tuttavia ha di fronte a sé ancora delle credenze e delle convinzioni ancestrali
che bisogna migliorare, assumere, correggere, in breve portare a compimento.
IL VANGELO VISSUTO E SOCIALIZZATO E I VALORI AFRICANI
L’obiettivo è di far sì che il Vangelo innalzi i valori africani verso una dimensione
di amore vero, amore per Dio e per il prossimo.
Umanesimo africano
• Secondo l’umanesimo africano, la dignità dell’uomo significa che l’uomo è
ricchezza, egli ha un valore. Ecco perché tutta l’organizzazione sociale deve sforzarsi di tradurre nella vita questo sacro rispetto dell’uomo; tutto ciò che è contro l’uomo appartiene alla sfera del male (morte) mentre il bene (vita) è al servizio dell’uomo. Ne consegue l’importanza della vita sociale, in particolare nella sua dimensione comunitaria, di relazione umana. Concretamente questo si traduce nell’organizzazione comunitaria della società, nell’importanza che rivestono le leggi della
parentela, della solidarietà in tutte le sue forme: ospitalità, assistenza, educazione
collettiva dei bambini, rispetto degli antenati, ecc.
• Per l’africano, l’esistenza umana è come un ring dove la vita e la morte si affrontano in un duello senza pietà; duello e non dualismo. La vita ne esce vittoriosa
e consolida definitivamente il suo regno. La morte è legata a tutto ciò che è nocivo
e si manifesta in diversi modi. Ne possiamo citare alcuni: la sterilità dei suoli, le
malattie di vario tipo, gli adulteri, gli incesti, le discussioni inutili, gli odi, i fallimenti, le disgrazie, la stregoneria, il sortilegio, i malefici, ecc. La morte abbraccia
tutti i mali dell’umanità; invece, la vita che si oppone alla morte, racchiude la fertilità dei suoli, l’ospitalità della fauna e della flora, la salute e la fecondità, la longe-
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
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Monsignor Jean Mbarga
vità, la pace, l’assenza di disgrazie. La vita comprende diverse realtà buone per l’uomo. Concede all’uomo di vivere in armonia con se stesso, con gli esseri viventi, con
i morti e con tutto l’universo.
Tale amore per la vita e la sua difesa si traducono nel valore dato alla sopravvivenza. L’africano riconosce nella procreazione una via per la sopravvivenza della famiglia attraverso le generazioni. Nella sua versione moderna, la cultura dell’Africa
difende numerosi valori giudicati favorevoli alla vita, in particolare: la dignità dell’uomo, il rispetto della libertà, lo sviluppo, la democrazia politica, la nazione. In
breve, i grandi valori della modernità riconosciuti nel mondo fanno parte, oggi,
delle convinzioni di molti di africani.
Tale umanesimo africano corrisponde al Vangelo? Papa Paolo VI nel suo messaggio Africae Terrarum cita alcuni valori vicini al Vangelo: la visione spirituale della vita, il rispetto per la dignità umana, il senso della famiglia, il rispetto del padre
di famiglia, la vita comunitaria5. Dice: «La Chiesa considera con rispetto i valori
morali e religiosi della tradizione africana, non solo per il loro significato, ma anche perché vede in essi la base provvidenziale per la trasmissione del messaggio
evangelico e per la costruzione di una nuova società in Cristo»6.
Papa Giovanni Paolo II, nell’Esortazione Apostolica Post-Sinodale Ecclesia in
Africa, riconosce i valori culturali che rappresentano di sicuro una preparazione
provvidenziale alla dimensione del Vangelo.
Questi valori sono: il senso del sacro, il senso dell’esistenza di Dio creatore e di
un mondo spirituale, il senso del peccato con i riti di espiazione e di purificazione,
la famiglia, l’amore e il rispetto della vita in tutte le sue fasi. Cita anche il rispetto
per gli anziani e i genitori, la venerazione degli antenati, la vita dopo la morte, la
comunione con i defunti, la solidarietà e la vita comunitaria (EA, 42).
• Questi valori africani trovano nel Vangelo l’apertura alla loro perfezione nell’amore. Il Vangelo, infatti, dona loro una dimensione universale, teologica ed
escatologica. L’uomo scopre in sé una parentela con Dio di cui è l’immagine, una
figliolanza spirituale di cui Dio è il Padre e una fraternità spirituale che lo unisce a
tutti gli esseri umani, al di là della parentela tribale, etnica e razziale. La comunità
va oltre la famiglia. Il Vangelo la eleva alla dimensione umana, spirituale, divina,
universale e celeste nella comunione con Dio. Il Vangelo crea la Chiesa, famiglia di
Dio, famiglia dei figli di Dio. Inoltre, il Vangelo eleva la solidarietà familiare al rango di solidarietà umana, di amore perfetto, che appartiene a Dio e che è Dio.
• Nel compimento, tali valori morali vengono interiorizzati, imperniati sul
doppio comandamento dell’amore, quello dell’aprirsi a Dio e quello dell’aprirsi
5
6
66
Paolo VI, Africae Terrarum. in DC, t. 64, nn. 1505, 1967, col. 1940-1943, 1947.
Omelia pronunciata il 18 ottobre 1964, AAS, 56, 1964, p. 907.
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al prossimo. I valori vengono così portati al punto estremo dell’esigenza dell’amore.
D’altro canto, esistono dei punti di rottura con il Vangelo. Il Vangelo si oppone a tutte le usanze contrarie al doppio comandamento dell’amore aperto verso
Dio e verso l’uomo: le violazioni della sacralità di Dio e della dignità umana. Papa
Giovanni Paolo II denuncia le usanze e pratiche che privano le donne dei loro diritti e del rispetto che è loro dovuto (EA 121). Alcune forme di matrimonio, le
pratiche di escissione, quelle del levirato e del vedovaggio, sono contrarie all’amore
del Vangelo. Inoltre, le credenze nelle stregonerie con le frustrazioni e paure che
alimentano, la divinazione e l’ambiguità delle sue diagnosi possono rivelarsi sovversive e destabilizzanti nelle famiglie. L’esacerbazione della parentela tribale, etnica o clanica, la legge del livellamento sociale con la mancanza – se non persecuzione – della leadership e dell’emergenza sociale, opprimono l’essere umano. Credenze diverse inspiegate e opprimenti, la feudalità, il tradizionalismo con i rischi di
immobilismo, di paternalismo e di asservimento sociale, sono altrettanti pesi che il
Vangelo viene a correggere.
• Da un punto di vista più ampio, rispetto al Vangelo, gli atteggiamenti di fedeltà così come le infedeltà culturalmente radicate variano. Infatti, l’insegnamento
sociale proposto dai vescovi si è molto sviluppato mettendo in risalto i valori evangelici e culturali riguardanti la promozione della giustizia, della pace, dello sviluppo e del bene comune.
Da un punto di vista comunitario, tali valori hanno trovato accoglienza nelle
comunità ecclesiali e movimenti di fedeli che si sforzano di farli propagare nella società.
In conclusione, Papa Giovanni Paolo II ha apprezzato e incoraggiato il processo democratico in Africa: lo Stato di diritto, il servizio ai poveri, la promozione umana portata avanti dalle Caritas e dalle organizzazioni di sviluppo, l’ospitalità data ai rifugiati e alle persone spostate, gli sforzi di pace e di riconciliazione
(EA 45). Invece, ha denunciato, in nome del Vangelo, i conflitti, le divisioni, le
tragedie delle guerre, la povertà, la miseria, la corruzione, le violazioni dei diritti
umani, le ingiustizie, la disonestà di alcuni governanti, le sottrazioni di denari
pubblici, la disperazione dei giovani, le malattie e i flagelli, il debito interno ed
estero…
IL VANGELO PREGATO E CELEBRATO E I VALORI TRADIZIONALI AFRICANI
L’ obiettivo: si tratta di far sì che la liturgia cristiana converta, salvi, santifichi i
cristiani africani e li liberi dalla doppia celebrazione che lacera le loro vite.
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Monsignor Jean Mbarga
I riti africani
• I riti africani offrono preghiere a Dio, agli spiriti buoni e agli antenati. Essi
dispongono di un ricco ventaglio di espressioni coreografiche, musicali, rituali. Si
fanno carico dei problemi, delle sfide e delle ricerche di senso nella vita di tutti i
giorni. Propongono pratiche affinché l’uomo affronti al meglio il proprio destino:
riti per i momenti importanti dell’anno, riti per la protezione, la guarigione, la benedizione delle persone, riti per i momenti importanti della vita (nascita, iniziazione, matrimonio, insuccessi, vittorie, feste, morte…) o ancora per le tappe del destino umano quali la malattia, la guarigione, la paura, l’insuccesso, la riuscita…
La liturgia cristiana
• La liturgia cristiana è una celebrazione dell’anno liturgico, dei sacramenti e
dei sacramentali, della liturgia delle ore, delle preghiere e devozioni diverse. Deriva
da una tradizione di riti e di canti elaborati nel corso dei secoli da comunità cristiane che pregavano secondo la loro anima culturale. Porta il messaggio di Cristo
morto e risuscitato, salvatore dell’umanità. Arricchisce l’itinerario spirituale dell’uomo e il suo cammino verso Dio. Nell’incontro tra i riti africani e il Vangelo
pregato e celebrato nella liturgia cristiana, l’Africano impara a pregare attraverso
Gesù Cristo, il Redentore, a celebrare i sacramenti, a camminare con Dio nell’anno liturgico cristologico. La liturgia accosta il cristiano africano alla fede pregata e
celebrata nel nome di Cristo e all’esperienza religiosa dei credenti. È utile procedere a degli adattamenti liturgici che consentano agli africani di venir fuori dalla doppia celebrazione che lacera le loro vite.
CHIESA FAMIGLIA DI DIO E I VALORI TRADIZIONALI AFRICANI
L’obiettivo: fare sì che la Chiesa, famiglia di Dio, plasmi la vita ecclesiale delle comunità cristiane dell’Africa e elevi la famiglia africana alla dignità evangelica.
La Chiesa, famiglia di Dio, deve plasmare la vita ecclesiale delle comunità cristiane dell’Africa e elevare la famiglia africana alla dignità evangelica.
Gli usi e costumi africani si integrano in una società segmentata la cui struttura
organizzativa si presenta nel modo seguente:
1 - L’organizzazione e il funzionamento della società tradizionale fanno riferimento al modello familiare. La famiglia è l’istituzione fondamentale della società.
Di fatto la tribù, il clan, l’etnia non sono altro che famiglie allargate. Il sistema familiare è quello del patriarcato (con alcuni rari casi di matriarcato).
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Monsignor Jean Mbarga
2 - Dal punto di vista tribale, l’autorità politica è rappresentata da una “chefferie” o un da un reame in cui confluiscono tutti i poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario).
Per la tradizione, la legge sociale per eccellenza è l’equilibrio, il pericolo maggiore è la mancanza di equilibrio: a ciascuno è assegnato il posto che gli spetta. Si
rispettano i valori della parentela, fondamento della solidarietà, della partecipazione e dell’equilibrio della comunità.
Tali valori del modello familiare africano fanno intendere l’importanza dell’ecclesiologia «Chiesa, Famiglia di Dio». Quest’ultima eleva la nozione di famiglia a
una dimensione universale e divina. Il SECAM (Simposio delle Conferenze Episcopali di Africa e Madagascar) ha recentemente pubblicato una lettera pastorale
che approfondisce questa questione7.
Allo stato attuale, le implicazioni canoniche di questa ecclesiologia sono ancora
da precisare. Inserendo la figura della Chiesa famiglia di Dio in quello che ha di
specifico e di proprio, il modello familiare africano trova una luce nuova, si rinnova sotto diversi aspetti: la paternità, l’autorità, la comunità, le relazioni interpersonali si arricchiscono della visione evangelica.
Altrettanto la cultura africana, attraverso il suo modello familiare, rende gli Africani più sensibili alla natura familiare della Chiesa e di Dio, altrettanto la raffigurazione
familiare di Dio e della Chiesa apre la via alla perfezione evangelica, alla dimensione
universale umana e trinitaria. È così che, in quest’incontro, la famiglia africana viene
messa in discussione nei suoi limiti, quali: la gerontocrazia, il paternalismo, le discriminazioni, l’etnocentrismo, i poteri, l’esclusivismo, la feudalità, l’atavismo, ecc.
In conclusione, occorrono ulteriori ricerche per far sì che la Chiesa sia accolta
meglio e vissuta seguendo la figura della «Chiesa, famiglia di Dio».
CONCLUSIONE
• Le Chiese dell’Africa e del Madagascar hanno fatto dell’inculturazione del
Vangelo e dell’evangelizzazione della cultura una priorità pastorale, come ricordato
dall’Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi (cfr. Ecclesia in Africa).
Questo compito, iniziato fin dagli albori dell’evangelizzazione del continente, prosegue ancora ai giorni nostri. Per crescere, necessita di un approccio più strutturato, solidale, dinamico e aperto.
Si tratta di promuovere tra le Chiese locali dell’Africa, pur nel rispetto della loro diversità culturale e dell’unità della Chiesa, una collaborazione effettiva e la condivisione delle esperienze, in modo tale da aiutare ogni Chiesa locale a portare
avanti, insieme alle altre, un’evangelizzazione profonda.
7
Sceam, Lettre pastorale. L’Église famille de Dieu, Accra, Ghana, 1998.
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Monsignor Jean Mbarga
La condivisione delle esperienze nei diversi campi quali la trasmissione della fede, la formazione biblica, la formazione liturgica e canonica, la pastorale, può rappresentare un vero atout per l’evangelizzazione di un continente che si confronta
con la globalizzazione, la marginalizzazione, il cambiamento culturale e la povertà.
In questo senso, l’elaborazione comune dei documenti teologici e pastorali di riferimento per le chiese locali dell’Africa può, in quest’inizio di millennio, porre le
basi per un’evangelizzazione profonda più adatta a raccogliere le sfide odierne.
ALCUNE PROPOSTE CONCRETE
• Dando seguito ai documenti Inde a Pontificatus (1993) e Per una pastorale della cultura (1999) proponiamo che vengano avviati dei lavori che accompagnino i
vescovi e le Chiese particolari dell’Africa nel compito dell’inculturazione del Vangelo e dell’evangelizzazione delle culture. Sono da considerare diversi punti.
Cultura africana e evangelizzazione
I rapporti teologici e pastorali tra la cultura africana e l’evangelizzazione sono
stati ampiamente studiati nelle Università, dalle Conferenze episcopali e da diversi
centri. Queste ricerche possono essere utilizzate ai fini dell’inculturazione. Da esse
nascono alcuni progetti iniziali, e cioè:
• la costruzione di una banca dati sull’inculturazione delle chiese dell’Africa;
• necessaria realizzazione di un compendio dei valori africani per far conoscere
meglio l’Africa e facilitare il suo incontro con il Vangelo.
Recepimento e inculturazione dei documenti magisteriali
Per rendere concreta l’inculturazione in campo teologico e pastorale, sembrerebbe necessario intraprendere il faticoso compito dell’inculturazione degli insegnamenti magisteriali pubblicati nei documenti di riferimento, e cioè: il Catechismo della Chiesa Cattolica.
Il Codice di diritto canonico
In quanto «principale documento legislativo della Chiesa»8 il Codice di diritto
canonico ha previsto dei compiti propri alle conferenze episcopali nella definizione
8
70
Giovanni Paolo II, Costituzione Apostolica Sacrae Disciplinae Leges.
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Monsignor Jean Mbarga
del diritto particolare. Il compito di costituire una legislazione complementare
adattata alle circostanze delle Chiese particolari è sicuramente in via di svolgimento. Ne deriva la proposta di far conoscere il diritto particolare delle conferenze episcopali.
Il Messale romano
Il Messale romano, frutto ammirevole del Concilio Vaticano II, rappresenta un
testo di riferimento per la Santa Liturgia. Papa Paolo VI promulgandone l’edizione
ufficiale dice: «Pur lasciando spazio a legittime variazioni e a degli adattamenti secondo la prescrizione del Concilio Vaticano II, confidiamo tuttavia che questo
messale sarà accolto, anch’esso, dai fedeli, come segno e strumento di unità»9.
Questo messale è già stato oggetto di numerose traduzioni. Alcune celebrazioni sono anche state adattate alle culture africane. Oggi è possibile proporre un progetto
più ampio relativo all’elaborazione di messali e rituali adattati alle Chiese locali.
La Bibbia
La Bibbia è certamente il libro più letto in Africa. Esistono traduzioni in diverse lingue. Esistono anche degli studi sulla lettura africana della Bibbia. Oggi è possibile facilitare l’approfondimento delle Sacre Scritture elaborando un’edizione della
Bibbia commentata nello spirito della cultura africana sulla falsariga dell’African Bible. Il Concilio Vaticano II raccomanda di offrire ai fedeli traduzioni di testi «dotate
delle spiegazioni necessarie e sufficienti affinché i figli della Chiesa si avvicinino alle
sacre Scritture con sicurezza e profitto, e s’impregnino del loro spirito»10.
La pastorale della cultura opera affinché la vita cristiana, che è una vita evangelica, trovi la sua natura esistenziale nella cultura e, attraverso la forza del Vangelo,
accompagni la cultura nel suo compimento in Cristo. Nel nome di Cristo, il Vangelo non cancella la cultura africana ma le dà compimento.
9
10
Paolo VI, Costituzione Apostolica Missale Romanum.
Concilio Vaticano II, Costituzione Dogmatica Dei Verbum, 25.
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Giovanni Paolo II e l’Africa
Se Paolo VI è stato il primo Papa della storia a posare
il piede in Terra Africana, nel luglio 1969, e a proclamare l’Africa come Nuova Patria di Cristo “Nova Patria Christi, Africa”, Giovanni Paolo II si è profuso in
manifestazioni di attenzione, affetto, compassione e
solidarietà verso il Continente Africano. I suoi tredici
viaggi nel Continente, le sue azioni concrete a favore
delle popolazioni che patiscono la malattia, la sete, la
fame e la povertà, la sua fiducia assoluta, il rispetto e
l’interesse provato per i valori culturali africani, pienamente aperti e pronti a lasciarsi purificare e trasformare da Cristo, ne sono la prova palpabile e testimoniano
l’amore e la misericordia di Dio che non dimentica
l’Africa.
• Baciando il suolo africano per la prima volta, nel
maggio 1980, a Kinshasa, Giovanni Paolo II si presenta
con le semplici parole evangeliche: “Sono venuto a voi come pastore, servitore di Cristo e successore dell’Apostolo
Pietro. Sono venuto come uomo di fede, messaggero di pace e di speranza”. Attraverso l’accoglienza entusiasta di
queste popolazioni semplici, povere ma assetate di Dio,
Giovanni Paolo II scopre subito la veridicità delle parole
profetiche di Paolo VI. Alla “Nova Patria Christi, Africa”
del suo predecessore, aggiunge: “Cristo non è solo Dio,
Egli è anche uomo. E in quanto essere umano, egli stesso è
africano”. Non è esagerato dire che Giovanni Paolo II ha
voluto realmente condividere la sorte degli africani e di
tutti coloro che soffrono nel corpo e nell’anima, fino a portare nella propria carne, verso la fine della vita, tutte le sofferenze fisiche e morali, le umiliazioni e le angosce dei poveri del mondo. Egli si è identificato con Cristo, come lui
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
MONSIGNOR
ROBERT SARAH
Segretario
della Congregazione
per l’evangelizzazione
dei popoli
≈
“Che l’Africa
abbia, per grazia
di Dio,
una vocazione
e una missione
particolari
al servizio del
nostro mondo?”
≈
73
Monsignor Robert Sarah
“provato in ogni cosa” (Eb 4,15)*, completando nella sua carne quel che manca ai
patimenti di Cristo a pro del suo corpo, che è la Chiesa (cfr. Col 1,24). Vediamo
come Giovanni Paolo II ha voluto manifestare la propria solidarietà verso l’Africa.
La Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel
• Fin dal 1980, all’indomani della sua elezione alla cattedra di Pietro, Giovanni Paolo II lancia al mondo un appello solenne e vigoroso in favore dei Paesi del
Sahel, crudelmente colpiti dalla siccità. “Bisogna che il mondo sappia – aveva detto – che l’Africa conosce una profonda povertà: le risorse disponibili sono in declino, la terra diviene sterile su immense superfici, la malnutrizione è cronica per decine di milioni di esseri umani, la morte porta via troppi bambini. È mai possibile
che una tale indigenza non sia avvertita come una ferita nel fianco dell’intera umanità?”1.
Questo appello è stato ascoltato, e ha suscitato un grande slancio di solidarietà,
soprattutto fra i cattolici tedeschi. Le numerose risposte all’appello di Giovanni
Paolo II, ma soprattutto la generosità esemplare dei cattolici tedeschi, hanno permesso di creare, nel 1984, la “Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel”, i cui
fondi sono prioritariamente dedicati “a favorire la formazione di persone che si
mettono al servizio dei loro paesi e dei loro fratelli, senza alcuna discriminazione,
in uno spirito di promozione umana integrale e solidale per lottare contro la desertificazione e le sue cause, e per soccorrere le vittime della siccità nei paesi del
Sahel”2.
Questa magnifica opera di Giovanni Paolo II è senza alcun dubbio un’azione
che contribuisce grandemente all’incremento della produzione, al miglioramento
delle condizioni di vita delle popolazioni e a far arretrare gli spettri della fame e
della sete nelle regioni saheliane dell’Africa. L’Africa gli deve molta riconoscenza,
devozione filiale e un affettuoso attaccamento.
Goree: da questo Santuario africano del dolore nero, noi imploriamo perdono!
• Fra tutti i popoli del mondo, il popolo africano è stato il più sfruttato, più
disprezzato, più umiliato e offeso. Lo è stato soprattutto dall’orribile tratta degli
schiavi, dalla colonizzazione e dalla negazione della cultura africana. Oggi ancora,
“in un mondo controllato dalle nazioni ricche e potenti, l’Africa è praticamente di* Citazioni bibliche tratte da la Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna.
1 La Documentation Catholique, 4 marzo 1990, n° 2001, p. 252.
2 Statuto, art. 3,1.
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Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Monsignor Robert Sarah
venuta un’appendice senza importanza, spesso dimenticata e trascurata da tutti”3.
Essa “può essere paragonata all’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico; egli
cadde nelle mani dei briganti che lo spogliarono, lo percossero e se ne andarono,
lasciandolo mezzo morto (cfr. Lc 10,30-37)”4. A nome della Chiesa Cattolica,
Giovanni Paolo II riconosce la schiavitù di tanti africani come un “crimine enorme” commesso da cristiani e ne chiede perdono.
«Venendo a Gorée, dove si amerebbe potersi abbandonare interamente alla
gioia dell’azione di grazia, come non essere colti da tristezza al pensiero degli altri
fatti che questo luogo evoca? La visita alla “Casa degli schiavi” ci riporta alla memoria quella tratta dei Neri che Pio II, scrivendo nel 1462 a un vescovo missionario che partiva per la Guinea, qualificava di “crimine enorme”, “magnum scelus”.
Per un lungo periodo della storia del continente africano, uomini, donne e bambini neri sono stati condotti su questo piccolo territorio, strappati alla loro terra, separati dai loro cari, per esservi venduti come merce. Essi venivano da tutti i paesi e,
in catene, partendo verso altri cieli, conservavano come ultima immagine dell’Africa natale, la massa della roccia basaltica di Gorée. Si può dire che questa isola rimane nella memoria e nel cuore di tutta la diaspora nera… Occorre che sia confessato
con perfetta verità e umiltà, questo peccato dell’uomo contro l’uomo, questo peccato dell’uomo contro Dio… In questo santuario africano del dolore nero, noi imploriamo il perdono del Cielo»5.
Questo è l’atto più commovente, più significativo del pontificato di Giovanni
Paolo II nei confronti dell’Africa. È paragonabile al gesto del 25 marzo 2000,
quando, già logorato dalla malattia, il papa ha rinnovato la sua domanda di perdono al popolo Ebraico, inserendo fra le pietre del Muro del Pianto la sua personale
preghiera di uomo di Dio. “Io, Papa della Chiesa di Roma, chiedo perdono, a nome di tutti i cattolici, per i torti che abbiamo inflitto ai non cattolici, nel corso della storia” afferma il Pontefice al cospetto del mondo. Sono stati dei gesti profetici
semplicissimi, di verità, di coraggio e di umiltà, che hanno fatto di lui un grande
uomo, un grande papa e un grande Santo.
Il debito internazionale
• Il Grande Giubileo del 2000 è stato per Giovanni Paolo II una felice occasione per attirare, nuovamente, l’attenzione dei paesi abbienti sui problemi dell’esclusione e della povertà che travagliano numerose popolazioni del mondo. Scrive il
papa: “Un particolare significato ha assunto, in questo scenario, il problema del
3
Ecclesia in Africa, n° 40.
Ecclesia in Africa, n° 41.
5 «La Documentation Catholique», 5 aprile 1992, n° 2047, p. 325.
4
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
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Monsignor Robert Sarah
debito internazionale dei paesi poveri”6. E nella Bolla di Indizione del Giubileo,
egli ricorda che “non poche Nazioni, specialmente quelle più povere, sono oppresse da un debito che ha assunto proporzioni tali da renderne praticamente impossibile il pagamento”7. “Ridurre o addirittura condonare un tale debito: questo gesto
giubilare sarebbe oltremodo auspicabile!”8.
Anche questa volta l’appello vibrante del Santo Padre ha ricevuto un’eco favorevole. Egli potrà dire: “Sono lieto di osservare che recentemente i Parlamenti di
molti degli Stati creditori hanno votato un sostanziale condono del debito bilaterale dei paesi più poveri. Faccio voti che i rispettivi Governi diano compimento, in
tempi brevi, a tali decisioni parlamentari”9.
Certo, molto resta ancora da fare per rendere effettive le decisioni dei governi,
ma l’essenziale è stato fatto, e cioè la sensibilizzazione in vista di una “rapida soluzione di una questione, da cui dipende il cammino di sviluppo di molti paesi, con pesanti conseguenze per la condizione economica ed esistenziale di tante persone”10.
Dio ha sempre associato l’Africa alla propria sofferenza: l’Africa come Nuova
Patria di Cristo
• È certo che le questioni socioeconomiche e politiche del continente hanno
preoccupato il papa Giovanni Paolo II. Infatti, lo faceva soffrire la constatazione
che “numerose nazioni continuano ad essere il teatro di conflitti di cui le popolazioni sono le vittime innocenti. Percorrendo la tragica geografia delle lotte armate, si nota che quella che interessa la regione dei Grandi Laghi è, in un certo senso, la più simbolica”11. “In terra d’Africa, sono milioni gli uomini, le donne e i
bambini che corrono il rischio di non poter mai godere di una buona salute, di
non riuscire mai a vivere dignitosamente del proprio lavoro, di non ricevere mai
l’istruzione necessaria al pieno sviluppo della propria intelligenza, di vedere
l’ambiente che li circonda divenire ostile e sterile, di perdere la ricchezza del proprio patrimonio ancestrale, pur essendo privati degli apporti positivi della scienza e della tecnica”12.
Eppure, Giovanni Paolo II ha voluto, soprattutto “in quanto Pastore, servitore
di Cristo e successore di San Pietro” aiutare i membri della Chiesa del continente
africano ad approfondire la propria fede. La Chiesa che è in Africa deve “raccoglie6
Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, 6 gennaio 2001, n° 14.
Giovanni Paolo II, Bolla di Indizione del Giubileo Incarnationis Mysterium, n° 12.
8 «La Documentation Catholique», 21 maggio 2000, n° 2226, p. 455.
9 Novo Millennio Ineunte, n° 14; Ecclesia in Africa, n° 120.
10 Novo Millennio Ineunte, n° 14.
11 «La Documentation Catholique», 19 novembre 2000, n° 2236, p. 961.
12 «La Documentation Catholique», 4 marzo 1990, n° 2001, p. 253.
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Monsignor Robert Sarah
re la sfida contenuta in questo tema della Chiesa che si evangelizza mediante una
conversione e un rinnovamento costanti, per evangelizzare il mondo con credibilità”13.
La sfida di Papa Wojtila
• Non chiudersi in se stessa, rifiutando gli arricchimenti, le belle ed autentiche esperienze e tradizioni spirituali di altri popoli, ma soprattutto non lasciarsi
ammaliare dai cosiddetti valori culturali moderni: questa la sfida che Giovanni
Paolo II lancia all’Africa, invitandola a conservare gelosamente i valori positivi
delle proprie tradizioni, che può offrire alle Chiese e all’intera umanità. “Io vi
lancio una sfida, oggi, una sfida che consiste nel respingere un modo di vivere che non
corrisponde al meglio delle vostre tradizioni locali e della vostra fede cristiana. Molte
persone in Africa rivolgono lo sguardo al di là dell’Africa, verso la cosiddetta libertà
del modo di vivere moderno. Oggi, io vi raccomando vivamente di guardare dentro
voi stessi. Guardate le ricchezze delle vostre stesse tradizioni. Guardate la fede che celebriamo in questa Assemblea, qui troverete Cristo che vi condurrà verso la Verità”14.
Con queste parole, il papa invitava l’Africa a guardare alle proprie ricche tradizioni alla luce del Vangelo e ad unirsi a Cristo, che è “via, verità, vita”. Pur nelle
sue sofferenze, nella sua indigenza, nelle sue umiliazioni e nella sua condizione
di ferito grave, Dio confida nell’Africa, e l’ha sempre associata al suo lavoro di
salvezza e alla sua sofferenza. La frequentazione delle Sacre Scritture aiuta a capire lo stile e i gesti attraverso i quali Dio sceglie, chiama, educa e rende partecipi
del suo amore.
Certo, la nostra lettura della storia della Salvezza non ha alcuna pretesa di essere scientifica. Non lo è affatto. Potrebbe anzi sembrare puramente sentimentale.
Ma ho come la sensazione, nella mia sensibilità africana, che Dio abbia sempre associato l’Africa alla propria sofferenza e al proprio piano di salvezza. Poiché laddove l’uomo soffre, è Dio che soffre; laddove l’uomo è umiliato, è Dio ad essere umiliato. E questa sofferenza dell’uomo, associata a quella di Dio, è sempre salvifica.
Nonostante, e forse a causa della sua estrema povertà e della sua debolezza, Dio associa l’Africa alla salvezza dell’umanità. “Essa possiede, tuttavia, una molteplice varietà di valori culturali e di inestimabili qualità umane, che può offrire alle Chiese e
all’intera umanità”15.
13
Ecclesia in Africa, n° 47
Giovanni Paolo II, Omelia, Lilongwe (Malawi), 6 maggio 1989
15 Ecclesia in Africa, n° 42
14
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
77
Monsignor Robert Sarah
Dall’Africa una missione?
• Ci chiediamo: l’Africa possiede, per grazia di Dio, una vocazione e una
missione particolari al servizio del nostro mondo? È difficile dare una risposta.
Ma è dall’Africa, dall’Egitto, che è partito l’Esodo, il progetto di Dio di salvare
l’uomo da tutte le schiavitù che l’opprimono e l’avviliscono, e di stringere con
lui una nuova ed eterna Alleanza (cfr. Es 12,24). È l’Africa che ha accolto e salvato il Bambino Gesù dalla violenza criminale di Erode. A Giuseppe furono rivolte
queste parole: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e
resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo” (Mt 2,13). Quando il tempo fu compiuto e giunta l’ora nella quale doveva essere glorificato il Figlio dell’Uomo (Gv 12,23; 16,32), è un africano, Simone di Cirene, ad aiutare Gesù a portare la Croce (cfr. Mt 27,32; Mc 15,21-27; Lc
23,26-34; Gv 19,17-24)16.
L’approfondimento della fede consiste dunque per l’Africa nel prendere sempre parte alla Croce di Cristo e vivere la stessa esperienza spirituale vissuta da San
Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede nel Figlio di Dio, che mi
ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,19-20). Così come Cristo stesso è un
africano, allo stesso modo anche l’africano deve divenire Cristo. Non esiste nessun’altra via che ci porti al seguito di Cristo; non c’è nessun’altra via che permetta a Cristo di formarsi in noi, al di fuori della via crucis, la via della comunione
con le sue sofferenze, quella che ci fa divenire Lui, riproducendo in noi la morte
sua (cfr. Fil 3,10).
• Quasi per confermare e sostenere questa lettura sentimentale della storia della Salvezza, Paolo VI, come ricordavamo più sopra, affermava solennemente a
Kampala: “Nova Patria Christi, Africa”. E Giovanni Paolo II conclude: “Sì, sulle
palme delle mani di Cristo, trafitte dai chiodi della crocifissione! Il nome di ciascuno di voi (africani) è scritto su queste mani!”17. E alla fine dell’Esortazione post-sinodale Ecclesia in Africa dice: “Mi rivolgo a Maria, Stella dell’evangelizzazione, e,
mentre il terzo millennio s’avvicina, affido a Lei l’Africa e la sua missione evangelizzatrice”18.
16 Ecclesia in Africa, n° 27: “La Provvidenza divina volle che l’Africa fosse presente durante la Passione di Cristo nella persona di Simone di Cirene, costretto dai soldati romani ad aiutare il Signore
nel portare la Croce (cfr. Mc 15,21)”.
17 Ecclesia in Africa, n° 143.
18 Ecclesia in Africa, n° 144.
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Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Monsignor Robert Sarah
Giovanni Paolo II e l’Africa
• Il rapporto tra Giovanni Paolo II e l’Africa è un grande mistero, da contemplare con una immensa azione di grazia e molta meraviglia di fronte alla potenza
dell’Amore di Dio per l’uomo schiacciato dalla sofferenza e le schiavitù più umilianti. Giovanni Paolo II è stato, per l’Africa, un compagno di sofferenza, un difensore della sua dignità e un portatore di liberazione e di speranza. Dal Cielo egli sarà
un grande intercessore.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
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I cattolici e l’Africa
L’edizione più aggiornata dell’Annuario Statistico della Chiesa Cattolica
(curato dall’Ufficio statistica della Chiesa, Direttore Mons. Vittorio Formenti) prende in esame ventisei anni di movimenti sulla presenza e distribuzione dei cattolici nel mondo. (1978-2004).
• Il dato che maggiormente risalta è relativo all’Africa e mostra un dinamismo notevole; i cattolici sono saliti da 55 milioni del 1978 ai 149 milioni
del 2004.
• La crescita della popolazione è relativamente influente, perché dal 12,4%
ora sono il 17% nel Continente, mentre invece in America e in Asia la crescita va di pari passo con lo sviluppo demografico.
• All’interno della Chiesa Cattolica l’Africa passa dal 7 al 13,5%, mentre
l’Europa scende dal 35 al 25,4%.
• “Tale fenomeno – commenta Enrico Nenna, statistico del Vaticano – va accolto con entusiasmo in quanto portatore di nuova e indispensabile linfa vitale nella Chiesa e va favorito tramite maggiore mobilità e dinamismo delle
risorse pastorali esistenti”.
• Nei ventisei anni presi in esame, i cattolici nel mondo registrano un incremento del 45%: da 757 milioni a 1.098 miliardi, ma per effetto dello sviluppo demografico della popolazione, passata da 4,2 a 6,4 miliardi, il dato
non è lusinghiero, perché il numero dei cattolici è diminuito dal 17,99% al
17,19%.
• In Europa il numero dei cattolici è stazionario con 278 milioni, pari al
39,5%. E tra due o tre decenni potrebbero esserci più cattolici africani che
europei.
• In sostanza, avanzano i Continenti emergenti, come l’Africa (cattolici triplicati dal 1978: +171%) e l’Asia (+79%), mentre metà dei cattolici vivono
nelle Americhe. E da fenomeno sostanzialmente americano ed europeo il
cattolicesimo si sta diffondendo in modo più omogeneo nel mondo.
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Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
L’uomo africano è veramente religioso?
Preciso fin dall’inizio che si parlerà qui solo dell’Africa
nera subsahariana, e che ciò che dirò è frutto della mia
esperienza personale e delle informazioni di cui dispongo. Non pretendo quindi di parlare a nome degli
africani, poiché se è vero che esistono dei punti comuni
fra le varie situazioni ed esperienze, vi sono anche differenze notevoli, che non si deve tentare di cancellare.
• Cosa significa essere “veramente religioso”? Si può definire la religione come “un insieme organizzato di miti e di
riti destinati a stabilire in modo permanente delle relazioni
fra l’uomo e le potenze dell’invisibile (antenati e spiriti) nell’interesse della comunità”1, ovvero come “la realizzazione
vivente, sociale e individuale, che trova compimento in una
tradizione e una comunità (nella dottrina, nell’ethos e il più
delle volte anche nel rito), di una relazione con qualche cosa
che supera e ingloba l’uomo e il mondo; con una vera realtà suprema, comunque la si voglia intendere (Dio, l’assoluto, il
nirvana, shunyata, tao). La tradizione e la comunità sono
per tutte le grandi religioni delle dimensioni fondamentali;
la dottrina, l’ethos e il rito sono le loro funzioni fondamentali; la trascendenza (verso l’alto o l’interiorità, nello spazio
e/o il tempo, come redenzione, illuminazione o liberazione)
è la loro intenzione fondamentale”2. Nella prima definizione, si tratta di “miti”, di “Potenze dell’invisibile (antenati e
spiriti)”, mentre nella seconda si parla di “dottrina”, di
“realtà suprema” che taluni chiamano “Dio” o “l’assoluto”,
PADRE ÉLOI MESSI
METOGO o.p.
Università Cattolica
dell’Africa Centrale,
Yaoundé, Camerun
≈
“Lo studio del fenomeno religioso
in Africa deve
rinnovarsi… per
rendere conto
della realtà
africana concreta.
Per le Chiese
cristiane, questo
è il prezzo da
pagare per
l’evangelizzazione
in profondità
e una reale
inculturazione”
≈
1 J. Poirier, citato da L.-V. Thomas e R. Luneau in “La terre africaine
et ses religions, Traditions et changements”, Larousse, Parigi 1975, p. 131.
2 H. Küng, Dibattito sul concetto di religione, «Concilium» 203, 1986,
p. 12. Le sottolineature sono dell’autore.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
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Padre Éloi Messi Metogo o.p.
di “grandi religioni”… Ciò significa che la prima definizione è riservata alle religioni tradizionali d’Africa e altrove, che sarebbero così “piccole religioni”?
• Il monoteismo giudeo-cristiano è spesso stato preso come criterio della vera
religione. Orbene, la concezione di Dio come di un trascendente che agisce sul
mondo è estranea alla maggior parte delle religioni tradizionali africane. Queste religioni non sono la volontà di collegarsi a un principio primigenio, a un Dio personale, ma un insieme di “mezzi d’azione sul mondo, di interpretazione dell’evento,
di dominio della storia” (Marc Augé). Allo stesso modo, la dottrina non obbedisce
a un’ortodossia stabilita da una istanza regolatrice; i miti fondatori e le credenze
presentano spesso delle varianti difficilmente conciliabili. Ciò che conta, in tutte le
religioni, è ciò che Jean Poirier chiama “l’interesse della comunità”, e a cui Hans
Küng dà il nome di “trascendenza” nel senso di “redenzione, illuminazione o liberazione”. In questo senso, tutte le religioni sono vere per i loro adepti, che trovano
in esse le ragioni di vivere e di morire. Vi sono quindi africani che aderiscono sinceramente alla religione prescelta e si sforzano di conformare ad essa la loro vita. Si
tratta qui essenzialmente delle religioni tradizionali, del cristianesimo e dell’islam
nelle loro diverse forme.
• Da vent’anni sono fra coloro che si oppongono alla tesi dell’Africano “inguaribilmente religioso” o “dotato di un senso naturale di Dio”3. Certo, si assiste al rifiorire di credenze e riti tradizionali, all’espansione del cristianesimo e dell’islam,
alla proliferazione delle sette e dei nuovi movimenti religiosi. Non si deve però perdere di vista l’indifferenza di taluni ambienti intellettuali, la diffusione di nuove
problematiche, di nuovi stili di vita attraverso la scuola, la città, l’economia di mercato e i moderni mezzi di comunicazione. Ne risultano cambiamenti a livello di
mentalità e di credenze. Direi anzi che non è sicuro che l’incredulità in Africa sia
unicamente l’effetto e il prodotto dell’influenza occidentale, come spesso si dice in
Africa e in Occidente.
• Si può definire tale indifferenza religiosa come la progressiva presa di distanza, più o meno deliberata, nei confronti della religione per mancanza d’interesse.
Questa presa di distanza, che può giungere fino alla rottura totale, ha cause diverse.
Si cita abitualmente lo sviluppo della razionalità e il pluralismo ideologico, una
migliore conoscenza delle varie religioni del mondo, l’industrializzazione, l’urbanizzazione, le migrazioni (esodo rurale, lavoratori immigrati), le rivalità fra le religioni, il dogmatismo religioso, l’inefficacia pratica della religione. L’indifferenza re3 Vedi il mio volume “Dieu peut-il mourir en Afrique? Essai sur l’indifférence religieuse e l’incroyance
en Afrique noire”, Karthala-UCAC, Parigi-Yaoundé, 1997. Le considerazioni che seguono se ne ispirano largamente, e vi si troveranno anche delle indicazioni bibliografiche.
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Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Padre Éloi Messi Metogo o.p.
ligiosa comprende tutte le forme di questa presa di distanza, dalla noncuranza e la
pigrizia fino alla totale assenza di pratica e di fede religiose. L’indifferenza assoluta
va oltre l’ateismo – l’ateo può ancora provare il bisogno di combattere la religione – e
costituisce la forma più compiuta della mancanza di fede religiosa. Vorrei mostrare
che queste forme d’indifferenza religiosa esistono nell’Africa nera, tanto nelle società tradizionali quanto in quella contemporanea.
Un approccio sbagliato
• Una certa teologia africana, preoccupata di trovare segni precursori del cristianesimo nelle religioni tradizionali, ha falsato l’approccio a tali religioni. Lo studio obiettivo di alcune tradizioni rivela che non tutti gli Africani credono in un
Dio unico. Ad esempio, è il caso dei Gozo della Tanzania che hanno resistito alla
penetrazione dell’islam perché trovavano impossibile concepire una divinità suprema e onnipotente: per loro “non vi sono spiriti che colleghino fra di loro i vari lignaggi”. Laddove un Dio supremo esiste, si osservano vari atteggiamenti nei suoi
confronti: si va dall’ostilità all’indifferenza, passando per un deismo fatalista e rassegnato. Accade in lacune tradizioni che lo si tenga per responsabile della morte,
che non gli si rivolga nessuna preghiera perché le sue decisioni sono irrevocabili o
perché si disinteressa della sorte degli uomini. Egli non costituisce sempre l’ultimo
ricorso di fronte alla disgrazia, una volta pur constatata l’impotenza delle divinità
secondarie e degli antenati. Infine, in alcuni miti, l’allontanarsi da Dio permette
all’uomo di risollevarsi, di accedere alla cultura e alla vita sociale.
• La stessa fede nell’al di là non è così scontata, come spesso si sostiene. I Masaï del Kenya, per esempio, non credono in un’altra vita. La ricerca dell’efficacia
pratica e del benessere materiale pone l’uomo al centro della religione. Le preghiere
sono spesso di stampo contrattuale; gli dei o gli spiriti divenuti “inefficaci” sono
abbandonati. La comunità degli antenati non rappresenta un “retromondo”, ma
un modello di società, un insieme di valori in cui la società si riconosce e da cui
non potrebbe allontanarsi senza scomparire. La vita eterna è spesso concepita come
la successione ininterrotta delle generazioni, in cui gli antenati si reincarnano nei
loro discendenti. Alcuni ordini iniziatici si propongono di divinizzare l’uomo, di
renderlo così immortale4 .
• Gli iniziati non credono in ciò in cui credono i “non iniziati”, le donne e i
bambini. Essi svolgono un ruolo politico raramente messo in luce, al quale si asso-
4
Leggere D. Zahan, “Sociétés d’initiation bambara, le Ndomo, le Korè”, Mouton, Parigi 1960.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
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Padre Éloi Messi Metogo o.p.
cia, in larga parte, la stregoneria come ideologia del potere. Certo è che vi sono avvelenamenti criminosi e altri assassini perpetrati dalle società segrete, entro sistemi
politici in cui non esiste prigione, che vengono imputati alla stregoneria. Si utilizza
il linguaggio della stregoneria per mascherare problemi di eredità e di successione,
rivalità per il potere economico e politico.
• Vi sono infine casi d’indifferenza e d’incredulità nelle società tradizionali, di
adulti che hanno smesso di credere nei riti e miti della loro comunità. Esiste anche
una tradizione di pensiero critico nei confronti della religione tradizionale, che si
riscontra in alcuni cicli narrativi. Questi racconti filosofici esaltano l’intelligenza a
scapito della credenza nel soprannaturale e nella magia, che vengono presentate come un altro nome della stoltezza5.
Forme di materialismo religioso
• Ci si è chiesti se l’ateismo materialista non costituisse “un compimento più
logico dei paganesimi che non il cristianesimo, in quanto i primi rappresentano,
per un aspetto molto importante del loro essere, forme di materialismo religioso”6. Marc Augé aveva già sostenuto questa tesi nel suo “Génie du paganisme”
(Gallimard, Parigi 1982). Marcel Gauchet l’ha criticata7 affermando che la trascendenza monoteista è più emancipatrice dell’immanenza politeista: “Più gli dèi
sono grandi, più gli uomini sono liberi”. Per Gauchet la religione autentica si situa all’inizio della storia dell’umanità, non alla fine come afferma lo schema evoluzionista classico. L’immagine etnologica della religione è offuscata e le grandi religioni universali sono tappe della dissoluzione della religione (p. XI). Questa dissoluzione è operata dallo Stato da 5000 anni (p. X): il potere politico ha preso
progressivamente il posto della religione che viene ormai relegata nella sfera privata. Ora, senza spiegarsi più di tanto, Gauchet afferma che nel processo di dissoluzione della religione e di conquista da parte dell’uomo dell’iniziativa storica, il
monoteismo rivelato e trascendente è superiore al politeismo immanente, perché
è con lui che emergono il pensiero e la ragione, la scienza e la tecnica. Non si ricade forse così nell’etno-centrismo rimproverato a Lévi-Strauss all’inizio del volume
(p. VIII)? Come affermare che “nulla è accaduto” (p. 54) in termini di esodo dal
religioso nelle società politeiste, fra la comparsa dello Stato e quella del monoteismo rivelato? Lo studio attento dei paganesimi mostra che le società politeiste
5
Vedi M. Towa, “L’Idée d’une philosophie négro-africaine”, Clé, Yaoundé 1979.
J.-P. Eschlimann, citato da B. Chenu in “Inculturation et conversion, Africains et Européens face
au synode des Églises d’Afrique”, a cura di J. Ndi-Okalla, Karthala, Parigi 1994, p. 25.
7 Vedi “Le Désenchantement du monde”, Gallimard, Parigi 1985.
6
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Padre Éloi Messi Metogo o.p.
non hanno aspettato il monoteismo rivelato per scuotere il giogo della religione e
dedicarsi alla manipolazione politica del religioso.
Tale sottofondo tradizionale può forse servire da griglia di lettura al fenomeno
degli “imprenditori religiosi” e dei “predicatori-furfanti” che ricattano intere popolazioni in preda a crisi di ogni sorta, promettendo loro un mondo migliore. Vi sono capi di Stato che hanno le loro “chiese” o “profeti” che attestano l’origine divina
del loro potere8…
Tre forme di indifferenza religiosa
• Alcune inchieste di sociologia religiosa, purtroppo poco numerose e già datate, segnalano casi di agnosticismo e di ateismo, ma mettono soprattutto in luce
tre forme d’indifferenza religiosa nei credenti (adepti delle religioni tradizionali,
musulmani, cristiani e senza religione che credono in Dio):
– il relativismo religioso,
– la separazione tra la vita e la religione,
– la contestazione della religione
1) Si può considerare il relativismo religioso (secondo cui tutte le religioni si
equivalgono) come punto di partenza dell’indifferenza religiosa. È l’atteggiamento stigmatizzato dai documenti pontifici del XIX secolo sotto il nome di
indifferentismo. I sostenitori del relativismo religioso respingono ogni intervento autoritario nella sfera della vita religiosa, segnatamente in ciò che attiene
allo sviluppo della comunità religiosa, all’educazione religiosa dei figli, ai matrimoni misti e al cambiamento di religione.
Un certo numero di cristiani e musulmani africani ritengono di non avere
un ruolo da svolgere nello sviluppo della propria religione, vuoi perché sono
incompetenti non avendo studiato i sacri Testi, vuoi perché la religione è per
loro una questione privata e personale. Talvolta non si pensa di poter convertire altri. Tale atteggiamento di astensione è dettato anche dalla preoccupazione di evitare conflitti che potrebbe provocare una discussione sulla religione.
Capita che il principio stesso di proselitismo venga respinto: “il ruolo non esiste – dichiara un operaio musulmano di Ouagadougou – poiché ciascuno decide per sé: un uomo si siede e si rende conto che Dio l’ha creato e che bisogna
ringraziarlo. Si rende conto da sé che ci vuole una religione e che non può più
fare quello che faceva prima. È allora che diventa musulmano: è Dio che lo
chiama”9.
8
9
Vedi S. Smith, “Négrologie. Pourquoi l’Afrique meurt”, Calmann-Lévy, Parigi 2004, cap. 8.
Le espressioni franco-africane delle persone interrogate non sono state corrette.
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Padre Éloi Messi Metogo o.p.
• In Africa vi sono genitori cristiani e musulmani che non si occupano dell’educazione dei figli. Invocano la propria incompetenza, o la libertà del figlio.
Molti pensano che appena giunge all’età della ragione, il figlio è libero di scegliere la religione che gli è stata insegnata o di cambiarla. Per un impiegato cristiano di Abidjan: “è un errore condurre i figli in chiesa fin dall’infanzia, perché bisogna lasciarli crescere e scegliere la loro religione”. Anche alcuni giovani
si pronunciano per la libertà religiosa dei figli, e giungono talvolta fino a dire
che prima di parlare di scelta tra le religioni, si deve poter scegliere tra religione
e mancanza di fede: “la nostra generazione, dichiara uno studente di N’Djamena, è una generazione sacrificata; ci troviamo confrontati a molti problemi, fra
cui quello della religione… Solo adesso siamo riusciti a capire quello che facciamo. D’ora in poi non bisognerà più presentare ai giovani la religione come è
stata presentata a noi, sennò appena si comincia a capire si reagisce automaticamente contro tutto. Bisogna invitare quelli che verranno a scegliere la religione
consapevolmente, mentre a noi è stato detto di fare così, e l’abbiamo fatto”.
• Un numero crescente di adulti e di giovani, cristiani e musulmani, è favorevole ai matrimoni misti. Il matrimonio è una questione d’amore, indipendente dall’appartenenza religiosa, e non fa certo parte della volontà di Dio porre la religione come ostacolo dell’amore. Del resto, i coniugi pregano lo stesso
Dio.
• La libertà di cambiare religione è difesa da un certo numero di adulti e di
giovani, tanto fra i cristiani quanto fra i musulmani. “Tutte le religioni sono
buone, consigliano di fare il bene, e portano tutte a Dio”. Per uno studente beninese: «ciascuno è libero di credere come vuole. Chi si trova in pericolo grida
sempre: “Oh Dio!” È il nostro denominatore comune, così come tutte le strade
portano a Roma».
Si può dire che si ritrova, fra i cristiani e i musulmani sostenitori del relativismo religioso, l’atteggiamento fondamentale di libertà e di tolleranza delle società tradizionali. Non è raro incontrare, in seno ad una stessa famiglia “animisti”10, musulmani e cristiani che vivono in perfetta armonia.
2) La seconda forma d’indifferenza che si incontra fra certi credenti è la separazione della religione dalla vita. Per costoro, la religione non svolge e non può
svolgere alcun ruolo nelle relazioni umane, la vita professionale o la lotta contro il sottosviluppo. Quest’opinione è rara fra gli “animisti”, poiché “l’animismo” passa piuttosto per essere la religione della riuscita umana e dell’efficacia
pratica, tanto da essere in odore di materialismo agli occhi di un certo numero
di cristiani e di musulmani.
10
Utilizzo questo termine per mancanza di meglio e per brevità; designa gli adepti delle religioni
tradizionali.
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Padre Éloi Messi Metogo o.p.
• Non ci si sposa, non si scelgono gli amici, non ci si installa in un quartiere della città in funzione della propria religione. Vi sono degli obiettivi comuni agli abitanti delle città o degli imperativi che non hanno nulla a che vedere con la religione o che hanno la precedenza su di essa, come si dice a Ouagadougou: “siamo tutti venuti a Ouagadougou a cercare lavoro e non è la religione che ci fa vivere insieme”. Contro le esigenze dell’islam, si pensa che ciascuno debba scegliere il mestiere che gli piace e che gli permette di guadagnarsi
da vivere, poiché il mestiere non ha nulla a che vedere con la religione. Quest’ultima non gioca nessun ruolo nella riuscita personale e nella battaglia per lo
sviluppo; non risponde alle aspettative e ai bisogni dei giovani. In ogni caso, si
occupa della felicità nell’al di là e non delle faccende di questo mondo. Non si
vede cosa aggiunga alla morale. L’interesse per il cristianesimo, che si osserva
anche fra taluni musulmani e “animisti”, spesso non va oltre le opere socio-caritatevoli gestite dalle Chiese.
3) Un’altra categoria di credenti contesta la religione sul piano del dogma, dei
riti e delle esperienze culturali, su quello dei suoi responsabili o dei suoi discepoli, del suo relazionarsi con il mondo e con la vita attuale. Questa contestazione può essere parziale, riferirsi solo a certi aspetti di questa o quella religione, o
portare al rifiuto di una data religione o di ogni forma di religione.
Alcuni “animisti” cominciano a dubitare dell’aiuto materiale degli antenati, mentre alcuni cristiani o musulmani, giovani e adulti, considerano le credenze tradizionali alla stregua di superstizioni e mettono in dubbio l’efficacia
dei riti ad esse legati. L’iniziazione non è altro che un grande imbroglio per
consolidare il potere degli uomini sulle donne e i bambini, o per mascherare
qualche delitto.
• Vi sono musulmani che contestano vari punti della loro religione, mentre
i giovani non esitano a criticare le verità rivelate. L’islam appare come una religione tradizionalista e retrograda: non aiuta i giovani a preparare il proprio avvenire, non contribuisce allo sviluppo, incoraggia il fatalismo e riduce le donne
in schiavitù. I suoi riti e le sue interdizioni sono ingombranti. I musulmani ferventi sono raramente dei modelli di virtù. I marabù (dotti in religione e santoni locali) mancano di formazione intellettuale e di apertura mentale. Non si
può più ammettere che il Corano sia caduto dal cielo e che il carattere sacro
della lingua araba ne impedisca la traduzione. Oggi si vuole capire ciò che si recita. L’insegnamento coranico sull’al di là è contestato, talvolta lo è l’esistenza
stessa di Allah. Anche alcuni cristiani formulano le stesse critiche contro l’islam, per quanto riguarda l’apertura verso il mondo moderno. Per alcuni “animisti”, i musulmani sono ipocriti e la loro religione è inefficace contro gli stregoni e i loro malefizi.
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Padre Éloi Messi Metogo o.p.
Lo “Stato” del cristianesimo
• Il cristianesimo non ha miglior sorte. Molti hanno smesso di andare a messa,
di confessarsi, di pregare. La morale sessuale e la disciplina del matrimonio sono
criticate, ignorate nella pratica. Si denuncia l’ipocrisia e la cattiva condotta dei cristiani devoti e dei preti. Si stigmatizza l’alleanza delle Chiese, ieri con il colonialismo e oggi con il potere. I loro responsabili amano e ricercano il denaro e gli onori.
Autoritari, mal istruiti, predicano male e non accettano di discutere né con i fedeli,
né con i non-credenti. Molti articoli di fede sono messi in discussione dai giovani:
l’ispirazione delle Scritture, la Trinità, la Resurrezione e la divinità di Gesù, la presenza reale, la mediazione della Chiesa per la salvezza, l’onnipotenza e la perfezione
di Dio e addirittura la sua esistenza. Per alcuni adulti musulmani, le conversioni al
cristianesimo sono basate sulla moda e il cristianesimo è troppo occidentale. I giovani musulmani denunciano l’idolatria, il carattere incomprensibile di certi dogmi
e doveri, quali la maternità verginale di Maria e il celibato dei preti. Gli “animisti”
rivolgono al cristianesimo le stesse critiche che all’islam: ipocrisia e impotenza contro gli stregoni.
• Per coloro che non hanno religione ma credono in Dio, le religioni sono storie inventate che provocano divisioni, impediscono all’individuo di realizzarsi pienamente e ostacolano lo sviluppo economico. Liberalismo religioso e liberalismo
sociale vanno di pari passo.
• Infine, alcuni cristiani, musulmani e “animisti” giudicano favorevolmente lo
status a-religioso; pensano che sia la via giusta, se non ci si allontana dalla morale.
Anche l’ateismo è percepito come il cammino della libertà: s’impara a pensare con
la propria testa, nell’obiettività e nell’imparzialità.
Agnosticismo e ateismo
• Abbiamo notato come alcuni studi di sociologia religiosa segnalino casi di
agnosticismo e di ateismo. Questi casi si riscontrano non solo fra i liceali, gli studenti e gli intellettuali, ma anche fra i funzionari, i commercianti e gli impiegati
che non hanno fatto molti studi. Esistono anche romanzieri, sociologi, filosofi, di
obbedienza marxista o meno, che presentano la religione come una mitologia scaduta, un freno al progresso dell’umanità, uno strumento di dominazione e di sfruttamento, oppure un’assurdità.
• Alcuni regimi marxisti-leninisti hanno condotto una propaganda antireligiosa e preso misure restrittive contro la libertà religiosa. Questa propaganda e
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Padre Éloi Messi Metogo o.p.
queste misure non sono state prive di effetto su un certo numero di adulti e di giovani. Il crollo dei regimi comunisti non significa necessariamente la morte del pensiero di Marx, che può continuare a funzionare come utopia critica di fronte all’ingiustizia e allo sfruttamento. Alcuni regimi non comunisti hanno voluto controllare e manipolare le forze religiose, o neutralizzarle in caso di resistenza, come si è visto nello Zaire dal 1972 al 1974 e nel Burundi dal 1977 al 1987.
• Non si tratta qui di opporre alla tesi dell’Africa “inguaribilmente religiosa”,
quella di un’Africa irreligiosa. Le osservazioni che precedono aprono dei percorsi di
ricerca da esplorare. Non è certo, né in Africa né altrove, che l’inevitabile “modernizzazione” comporti necessariamente la “secolarizzazione” e il rifiuto della religione. La Chiesa cattolica appare come un baluardo contro la dittatura e l’arbitrio,
quando si vede nel ruolo svolto dai vescovi nelle conferenze nazionali organizzate
nel Benin, in Gabon, in Congo, in Togo e nello Zaire all’inizio degli anni 1990, e
in alcune crisi politiche attuali.
Tuttavia lo studio del fenomeno religioso in Africa deve rinnovarsi, abbandonando il partito preso spiritualista e mistico che lo ha caratterizzato fino ad ora, per
rendere conto della realtà africana concreta. Per le Chiese cristiane, questo è il prezzo da pagare per l’evangelizzazione in profondità e una reale inculturazione.
In una prospettiva più ampia, si tratta di rinnovare gli studi africanisti in tutti i
campi: economico, politico, sociologico, storico, filosofico, estetico…, contrastando l’idea illusoria che esistano sempre delle specificità africane.
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89
Le Chiese africane indipendenti
“Prima noi avevamo la terra e voi avevate la Bibbia.
Ora voi avete la terra, a noi è rimasta la Bibbia”. Queste parole, ormai ben note, rappresentarono per i profeti agitatori zulu del Sudafrica d’inizio secolo, lo slogan più diffuso e pregnante1. In una frase essi sintetizzavano la dura realtà della spoliazione delle terre, e al
tempo stesso annunciavano di essersi appropriati di
un formidabile strumento di liberazione, la Bibbia.
• I capi zulu identificarono la vicenda del proprio popolo in quella degli israeliti oppressi dal faraone durante la
schiavitù in Egitto, e fondarono una Chiesa cosiddetta “etiopica”. Tale definizione, in seguito attribuita a molte altre
nuove comunità, si dovette non solo al fatto che nella Scrittura Etiopia è sinonimo di Africa, ma soprattutto ad una circostanza, la battaglia di Adua del marzo 1896, nella quale
l’esercito italiano del generale Baratieri fu annientato dalle
truppe del negus. Da allora quel paese rappresentò il simbolo della possibilità di sconfiggere i bianchi. I tentativi dei
missionari metodisti di riguadagnare gli indigeni cresciuti
nelle loro missioni furono vani. Le agitazioni zulu del 1906
furono intrise di spirito religioso. In seguito, il legame con
l’Etiopia si sarebbe accentuato, con la mitizzazione della figura di Ras Tafari, divenuto negus, imperatore d’Etiopia con
il nome di Hailé Selassié. Durante guerra italo-etiopica, per
la sua resistenza al colonialismo fascista egli assurse al ruolo
di “campione dell’indipendenza e della modernizzazione
dell’Africa”2.
1
Cfr. B. Sundkler, Bantu prophets in South Africa, London 1948, p.
2
Così B. Bernardi, Africa. Tradizione e modernità, Roma 1998, p. 127.
STEFANO
PICCIAREDDA
Ricercatore,
Università degli Studi
di Foggia
≈
“Kimbangu ed
Harris sono
immagine di due
profeti disarmati,
che hanno
rivendicato con
orgoglio la propria
identità africana
e la necessità di
una recezione
originale della
dottrina cristiana
da parte dei loro
popoli”
≈
33.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
91
Stefano Picciaredda
Le Chiese autonome
• Da allora, in Africa, si andarono moltiplicando Chiese autonome, indigene,
che si proclamavano indipendenti. Esse giocarono un ruolo di primo piano nella
resistenza al colonialismo. Alla radice di ogni rivolta politica e militare di popoli
indigeni – scrive Vittorio Lanternari – stanno altrettanti moti di rinnovamento religioso premonitori, i culti profetici di liberazione3. Molti studiosi hanno osservato
e analizzato tali realtà, specie da un punto di vista etnoantropologico e sociologico,
coniando per esse numerose definizioni sintetiche atte a descriverne le caratteristiche. Balandier, Andersson, Van Wing, Muhlmann, Sundkler, Asch, per citarne solo alcuni, hanno scritto di movimenti profetici, di sincretismo, nativismo, millenarismo, revivalismo, o ancora di movimenti di salvezza, di protesta, politico-religiosi, messianici ed altro, a seconda dell’accento posto sul carattere politico, religioso,
sincretico o psicologico che contraddistingue l’una dall’altra.
• Oggi la parte del continente a sud del Sahara conosce una impressionante
proliferazione di Chiese, sette, gruppi, della cui africanità e indipendenza è lecito
dubitare. La cifra proposta da David B. Barrett, che nel 1968 ne individuò circa
6.000, deve probabilmente essere oggi raddoppiata. In questo coacervo di manifestazioni di carattere religioso, occorre anzitutto distinguere le esperienze “storiche”,
quelle risalenti ai secoli passati, fino agli anni Venti del Novecento, da quelle successive. Si possono individuare così i fenomeni primigenii, originali, e tra questi
quelli destinati ai maggiori sviluppi.
• Se tali manifestazioni hanno avuto grosso modo tre epicentri principali, l’Africa australe (Chiesa etiopista e sionista dal 1892), il Congo (kimbanguismo e
movimenti affini dal 1921), l’Africa occidentale e equatoriale (Harrismo in Liberia, Costa d’Avorio e Ghana dal 1913, Chiesa spiritualista e cristiani celesti in Nigeria e Togo), tra i casi più emblematici che qui si descriveranno brevemente si segnalano quelli congolese e ivoriano di Kimbangu e Harris. In luoghi lontanissimi
tra loro, questi due indigeni identificarono nella religione cristiana l’origine
profonda della supremazia tecnica, culturale e militare dei bianchi, e provarono ad
appropriarsene. I profeti Simon Kimbangu e William Wade Harris misero in discussione il fatto che il cristianesimo dovesse necessariamente essere trasmesso e organizzato dai bianchi. Cristo, attraverso di loro, si poteva rivelare direttamente ai
neri, senza intermediari. In una stagione in cui la penetrazione economica, missionaria, politica erano una cosa sola, una tale pretesa suonò come un proposito rivoluzionario.
3 V. Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Feltrinelli, Milano
1974, p. 13.
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Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Stefano Picciaredda
Il profeta Kimbangu
• Quando nel 1921 Simon Kimbangu si sentì chiamato ad operare guarigioni
ed a manifestare la preferenza di Dio per gli africani, la popolazione del Congo era
stata decimata da quasi quarant’anni di sfruttamento belga4. 2.420.000 kmq su
2.450.000 erano stati dichiarati per decreto proprietà esclusiva del governo, ed
ogni frutto di quelle terre era appannaggio delle società commerciali concessionarie. Tutti gli indigeni maschi erano a disposizione dell’amministrazione per i lavori
obbligatori, la costruzione di strade, ferrovie e case per i bianchi. Durante la prima
guerra mondiale 18.000 congolesi avevano combattuto vittoriosamente i tedeschi
in Camerun, ed occupato il Ruanda-Urundi. L’ammontare delle perdite non è mai
stato calcolato5.
• È in tale contesto che si inquadra l’originale vicenda di Simon Kimbangu, ex
allievo di una missione battista inglese, che si svolse in quei pochi mesi del 1921 in
cui le autorità lo lasciarono libero di predicare, guarire, agitarsi come un epilettico
in quei tremblements soprannaturali che lo assalivano e lasciavano impressionati i
suoi contemporanei. Nel suo villaggio di Nkamba, ad una settantina di km. da
Léopoldville-Kinshasa, egli riceveva quotidianamente il pellegrinaggio di migliaia
di indigeni, che accompagnavano malati di ogni tipo. Kimbangu guariva, poi predicava. Parlava della Bibbia, che aveva sempre con sé, e ne raccomandava la lettura.
Chiedeva di distruggere i feticci, proibiva la poligamia e il consumo dell’alcol.
Eppure, egli non incitava alla rivolta contro i bianchi, non accusava l’amministrazione coloniale. Peggio: ignorava completamente gli europei. Agli occhi della gente
appariva più potente di loro: il suo cristianesimo “nero” era più efficace di quello
dei missionari.
• In una regione densamente popolata come il basso Congo la sua fama si diffuse rapidamente, ed in quell’estate del 1921 Kimbangu generò un rapido contagio. Dalla campagna alle città, si creò un movimento spontaneo, che si andò presto
a saldare alle timide organizzazioni indigene di resistenza, imbevute delle dottrine
panafricaniste sbarcate dagli USA. Atti di disobbedienza civile, rifiuto del lavoro
obbligatorio, astensione dal pagamento delle tasse, ebbero luogo per la prima vol4 Nella vasta bibliografia su Simon Kimbangu e il kimbanguismo v. tra l’altro S. Asch, L’Eglise du
prophète Kimbangu, Khartala, Paris, 1983; P. Raymaekers, L’administration et le sacré, B.E.D.H.,
Bruxelles, 1983; M.L. Martin, Kirche Ohne Weisse, Basilea, 1971; D.J. Mackay, Simon Kimbangu and
the BMS tradition, in «Journal of Religion in Africa», XVII, 2, 1987, pp. 113-171; D. Visca, Simon
Kimbangu il Ngunza, in «Studi e materiali di storia delle religioni», LVII, n. 2, 1991, pp. 301-364; S.
Picciaredda, Il movimento kimbanguista nell’inchiesta Voisin, in «Africa», marzo 1996, pp. 27-49.
5 Sulle vicende della colonizzazione belga cfr. R. Cornevin, Histoire du Congo-Leopoldville, Paris
1970.
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Stefano Picciaredda
ta, in una colonia nota per la docilità e l’asservimento. Agli occhi dei belgi, simili
avvenimenti non potevano essere originati dagli indigeni. Ci doveva essere una regia occulta, senza dubbio inglese, che manovrava la rivolta, allo scopo di scalzare il
Belgio dal Congo. Le azioni dell’invasato – come gli amministratori locali definivano Kimbangu – rappresentavano una seria minaccia per la colonia. Così, il profeta fu arrestato, processato (senza avvocati), condannato a morte e graziato dal re.
Morì in prigione, ad Elisabethville, trent’anni dopo.
I suoi collaboratori furono concentrati in appositi campi situati in regioni lontane, e per due anni non si parlò più del movimento, finché, nel 1923, gruppi di
indigeni si riunirono in tutta la regione per celebrare il Natale nel nome dello
ngunza6 di Nkamba. Seguirono allora nuove ondate di repressione, ma fino all’indipendenza il “kimbanguismo” restò il fantasma che turbava gli scrupolosi amministratori belgi.
Il “Kimbanguismo”
• Raccolto intorno alla moglie di Kimbangu Marie-Mwilu ed ai suoi figli, un
piccolo resto seppe attendere il momento propizio per tornare allo scoperto. Con
l’indipendenza, quel nucleo fondò “l’Eglise de Jésus Christ en terre par le prophète
Simon Kimbangu” (EJCSK).
È l’inizio della seconda fase della storia del kimbanguismo. La nuova Chiesa
riuscì a stabilire rapporti internazionali, a trovare consensi e sostegni in Europa e in
America, e finalmente ad ottenere l’ambita ammissione in seno al Consiglio Ecumenico delle Chiese di Ginevra. Inoltre, si ritagliò un notevole ruolo politico, riuscendo a trovare una collocazione originale nello Zaire di Mobutu.
Nel 1974, il maresciallo ebbe a dire: «Prima dell’indipendenza c’erano tre poteri:
l’amministrazione, le società, la Chiesa. I primi due sono scomparsi, e non c’è motivo
perché non accada lo stesso per la Chiesa cattolica… Io non ho mai avuto problemi con
i kimbanguisti, che non ricevono istruzioni dall’estero. I vescovi zairesi, al contrario, sono al servizio di potenze straniere».
Il Cardinale Malula
• Mobutu si riferiva soprattutto ad una grande figura di vescovo africano, suo oppositore, l’arcivescovo di Kinshasa cardinal Malula. Sotto la sua guida, la conferenza
episcopale si rifiutò di aderire alla campagna mobutista per l’“autenticità”, avviata con
l’adozione del nome Zaire. I nomi di battesimo cristiani andavano sostituiti con nomi
6
94
Profeta, in lingua kikongo. Era l’appellativo dato dalla gente a Kimbangu.
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tradizionali, e le scuole dovevano insegnare la filosofia dell’autenticità, elaborata dal
partito unico. Per Malula una simile filosofia, se pure fosse mai esistita, non aveva alcun senso. Al contrario, il capo della EJCSK Diangienda, figlio di Simon Kimbangu,
diffuse una circolare per invitare i kimbanguisti a “penetrarsi della filosofia dell’autenticità ed a sottomettersi all’educazione permanente del partito per meglio comprendere l’esatta portata del manifesto di N’Sele” (istitutivo dell’autenticità).
• Si stabilì allora un’alleanza inedita. L’EJCSK divenne una sorta di religione
di Stato, quella “autentica”; le numerose sette furono dichiarate illegali e vennero
riassorbite dai kimbanguisti; le scuole dell’EJCSK beneficiarono dei contributi dello Stato. Fu in quella occasione che Mobutu fece sostituire il crocifisso con una sua
fotografia in tutte le aule scolastiche del paese.
Per cattolici e protestanti si trattava di un modello pericoloso, fatto di dittatura, partito unico, Chiesa autoctona di Stato. Un esempio, tra l’altro, suscettibile di
imitazione.
• L’idillio non durò molto. Alla campagna per l’autenticità seguì quella per la
“radicalità”, che insieme alle industrie nazionalizzò il sistema scolastico, strappando al controllo dell’EJCSK una capillare rete educativa faticosamente costruita negli anni. Senza giungere alla rottura, il rapporto Mobutu-EJCSK andò raffreddandosi, e negli anni ’90 i leader kimbanguisti si unirono alle altre confessioni nella richiesta di aperture e di democratizzazione, appoggiando Mons. Monsengwo in seno alla conferenza nazionale. Ma tutto ciò, ormai, è storia di ieri. L’ascesa di Laurent Desiré Kabila alla presidenza del grande Stato africano, quindi, dal gennaio
2001, di suo figlio Joseph, mette di nuovo alla prova le capacità di adattamento di
questa Chiesa dalle vicende originali e sofferte, che ha dimostrato una straordinaria
forza di sopravvivenza nella persecuzione.
La mutazione
• Proprio in questi ultimi anni, tuttavia, la Chiesa kimbanguista ha subito una
significativa mutazione. Accanto ai problemi legati alla successione nel ruolo di capo e guida spirituale, che ha provocato gravi lacerazioni interne, venuta meno la
mediazione della teologa svizzera Martin, convertita al kimbanguismo e creatrice
di una facoltà teologica kimbanguista negli anni ’70, con il sostegno del figlio cadetto del profeta, si sono imposte in seno al movimento quelle tendenze volte a
sottolineare il culto dell’iniziatore e dei suoi successori, fino a sconvolgere le concezioni teologiche di una confessione ormai allontanatasi dal cristianesimo. Un elemento di contraddizione era sempre stato rappresentato dalla raffigurazione del
profeta come incarnazione dello Spirito Santo, quindi come persona divina. Una
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Stefano Picciaredda
concezione posta in evidenza maggiore o minore a seconda dell’interlocutore. Alcuni sostengono infatti che la EJCSK abbia due teologie, una ad uso interno ed
un’altra da presentare ai “cristiani occidentali”, ai bianchi7. Come che sia, oggi tale
differenziazione sembra essere venuta meno.
I kimbanguisti credono che il terzo successore di Kimbangu, Dialungana
Kiangani Salomon, sia stato il Cristo, il Messia, ed hanno preso a celebrare il Natale non più il 25 dicembre, ma il 25 maggio, giorno anniversario di Dialungana, secondogenito del profeta. Il calendario delle festività kimbanguiste non ha quasi
più nulla in comune con quello cristiano. In particolare non vi è settimana santa, o
Pasqua, o Pentecoste. Le principali celebrazioni sono invece legate alle date memoriali dei principali avvenimenti della vita di Kimbangu e dei suoi figli: la prima
guarigione operata nel 1921 (6 aprile), il giorno della sua nascita, che coinciderebbe con l’arresto e poi la riabilitazione (12 settembre), e molte altre.
Tale svolta, che dice la volontà di imprimere un carattere sempre più autonomo e
congolese al movimento, ha indotto il Consiglio ecumenico delle Chiese a sospendere, con grande prudenza (il sito internet di Ginevra continua ad annoverare l’EJCSK
tra le Chiese membre), la Chiesa kimbanguista dal COE, in quanto non più aderente
alle pur semplici “basi” fondamentali della fede cristiana che per statuto devono rappresentare il minimo comun denominatore di tutti i partecipanti.
Più drasticamente, nel luglio del 2004, la Conferenza episcopale della Rep. Democratica del Congo ha dedicato un documento alla metamorfosi del kimbanguismo per dichiarare invalido il battesimo somministrato dai suoi pastori e la fine del
cammino ecumenico, trattandosi ormai non di una Chiesa ma di una diversa confessione religiosa, che attribuisce natura divina al fondatore e a un suo successore.
• Il kimbanguismo si trova così a vivere un passaggio estremamente delicato,
che potrebbe condurlo lontano dall’ecumene cristiana, ciò che farebbe un torto
evidente allo spirito del suo fondatore. Inoltre, potrebbero venir meno quelle caratteristiche di tolleranza, di apertura, di rifiuto della violenza e della contrapposizione maturate in tanti anni di persecuzione subita, a favore di quegli elementi,
presenti anche nel kimbanguismo, che al pari di altre sette rivendicano un’orgogliosa differenziazione dalle altre Chiese e confessioni e guardano con rancore
l’Occidente e le Chiese tradizionali.
Il “Profetismo” della Costa d’Avorio
• Un altro paese francofono, la Costa d’Avorio, conobbe all’inizio del secolo il
fenomeno del profetismo. Nel 1913, all’indomani dell’ultima campagna di “pacifi7
96
Così Nduku-Fessau Badze, nell’intervista a «Religioscope», 29 agosto 2004.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Stefano Picciaredda
cazione” condotta dall’esercito per stroncare gli ultimi focolai di resistenza, la bassa
costa fu improvvisamente teatro di intense agitazioni. Uno strano personaggio proveniente dalla Liberia faceva accorrere le folle, dichiarandosi “profeta dei tempi
moderni”, predicando la fede nell’unico Dio e il rispetto del decalogo mosaico. Al
termine degli incontri con lui, la gente chiedeva di essere battezzata, ripudiava il feticismo e la stregoneria distruggendo gli oggetti di culto individuali e collettivi8.
• Al momento di attraversare la frontiera tra la Liberia e i possedimenti francesi, William Wade Harris era già consapevole della sua missione e del suo personaggio. Aveva addosso una lunga veste bianca e una stola nera. A 45 anni poteva esibire una lunga barba bianca, e sul capo un turbante intonato alla veste; con sé portava soltanto una grande croce in canna di bambù, la sua Bibbia ed un recipiente per
amministrare il battesimo. Accompagnato da un giovane e da tre donne, dotato di
una mole imponente e di un eloquio semplice e diretto, Harris non passò mai
inosservato mentre attraversava la fascia costiera del paese, sino al confine con la
Costa d’Oro, scontrandosi con i capi tradizionali, i guaritori, i fabbricanti di feticci. A chi chiedeva come continuare ad essere cristiano dopo il battesimo, rispondeva di recarsi alla missione più vicina, cattolica o protestante, e di affidarsi ai missionari bianchi.
Alcuni mesi di predicazione furono più efficaci di molti anni di lavoro dei religiosi europei. Le missioni si riempirono, ed Harris fu definito da un cattolico “uomo della provvidenza”. Il governatore francese Angoulvant, che volle incontrarlo,
lo esortò a continuare.
• La benevolenza dei potenti non durò a lungo. Per andare in cerca del profeta
gli ivoriani trascuravano i loro doveri verso l’amministrazione, mentre si creavano
spazi pubblici di dibattito critici verso il potere coloniale. Alla vigilia della prima
guerra mondiale, Harris fu espulso dalla colonia e tornò al suo villaggio natale in
Liberia.
Harris sosteneva di aver ricevuto una chiamata interiore, identificata nell’angelo Gabriele. Egli diceva di sé:
“Io sono un profeta. Al di sopra di ogni religione ed affrancato da ogni controllo di uomini, non dipendo che da Dio, attraverso l’angelo Gabriele. Mi preparo al mio ruolo attraverso la lettura e lo studio della Bibbia. Sono inviato da Cristo, e devo irresistibilmente
compiere i gesti che lui mi ispira. Vado per il paese spinto da un soffio dall’alto. Non parlo
che sotto ispirazione. Devo riportare a Cristo tutte le nazioni perdute, e per ottenere questo
8 Su Harris ed il movimento harrista cfr. R. Bureau, Le prophète Harris et le harrisme, in «Annales
de l’Université de Abidjan», III, 1971, pp. 31-196; M.G. Haliburton, The prophet Harris, Longman,
Londra 1971.
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Stefano Picciaredda
devo minacciare i castighi peggiori affinché essi si lascino battezzare ed istruire dagli uomini di Dio, cattolici e protestanti. Vengo per parlare a tutti, neri e bianchi. No all’abuso
dell’alcol. Rispetto dell’autorità. Tollero la poligamia, ma proibisco l’adulterio”9.
Un soffio di modernità
• L’impressione suscitata fu notevole. Il sistema sociale tradizionale, fondato
sul lignaggio e sui culti sovrannaturali, subì una scossa. I giovani e le donne, tra i
più entusiasti, si riscattarono da una condizione di dipendenza. Harris portava un
soffio di modernità.
Dieci anni dopo la sua cacciata dalla Costa d’Avorio, un gruppo di indigeni ritornò sulle orme del profeta, e lo ritrovò. Harris consegnò loro il proprio testamento spirituale, e li incaricò di radunare tutti i convertiti che non erano stati assorbiti
dalle missioni europee. Fu l’atto di nascita della Chiesa harrista, che oggi costituisce la terza comunità religiosa del paese. Tuttavia, non è quest’ultima a costituire la
principale eredità lasciata dal profeta alla Costa d’Avorio. È qualcosa di più: un
modo di pensarsi, un modo di essere.
E questa seconda parte di eredità è andata tutta al signore della Costa d’Avorio,
Felix Houphouët-Boigny10. Padre padrone della nazione, Houphouët è stato presidente della Costa d’Avorio per più di trent’anni, dall’indipendenza sino alla morte, nel 1993. E gli ivoriani, abituati da Harris in poi a vedere sorgere profeti, più o
meno modernizzatori, cristiani, sincretisti, guaritori, non hanno avuto dubbi: è
stato Houphouet il più grande dei profeti.
E il presidente ha lasciato che il mito si alimentasse, fino a convincersi della sua
giustezza. Si è circondato di un’aura profetica, accompagnandosi con il successore
di Harris, il suo amico Albert Atcho. Ha giocato sulla sua figura di medico (cioè
guaritore), capo tradizionale, re dei piantatori: con lui la casta dei produttori indigeni ha superato in produttività gli europei. Ha fatto credere che il suo destino obbedisse a quelle visioni notturne giovanili, nelle quali la nativa Yamoussoukro appariva una grande città di un nuovo potente Stato. E negli anni del “miracle ivoirien” Yamoussoukro è stata questo, con la sua cattedrale che è l’esatta riproduzione
della basilica di S. Pietro in Vaticano. Ha celebrato in quella città, nel 1985, i 40
anni dalla fondazione del “suo” partito democratico, e lì ha dichiarato di non rimpiangere la scelta di non lasciare memorie scritte, poiché in fondo non si sentiva
lontano da due personaggi fuori del comune che non hanno mai scritto ma tanto
hanno fatto scrivere, Gesù e Maometto.
9
R. Bureau, op. cit., p. 37.
Sul senso del fenomeno del profetismo nella storia della Costa d’Avorio cfr. J.P. Dozon, La cause des prophètes, politique et religion en Afrique contemporaine, Seuil, Paris 1995.
10
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Stefano Picciaredda
È morto nel dicembre 1993, ma la notizia è stata tenuta segreta per due settimane, fino al giorno di anniversario dell’indipendenza, a significare che la Costa
d’Avorio inizia e finisce con il suo profeta più grande. E tanti hanno collegato alla
sua scomparsa la svalutazione del franco CFA, una manovra finanziaria difficile da
digerire, che sarebbe stata incompatibile col prestigio del primo ivoriano. Da allora, il paese attende il ritorno del profeta.
• Kimbangu ed Harris sono immagine di due profeti disarmati, che hanno rivendicato con orgoglio la propria identità africana e la necessità di una ricezione
originale della dottrina cristiana da parte dei loro popoli. Tuttavia, con grande
chiarezza, non hanno mai inteso fare di tale rivendicazione un motivo di scontro,
né con i missionari, né con le autorità. In maniera singolare, entrambi hanno sottolineato il valore della Bibbia e della conversione, e la possibilità di essere fedeli al
contempo alla loro predicazione e a quelle Chiese più antiche che avevano portato
il Vangelo in terra africana. Identità dunque, ma senza contrapposizione. Nonostante ciò, le autorità coloniali hanno opposto una dura reazione, cui peraltro kimbanguisti ed harristi non hanno mai provato a rispondere in maniera violenta. Tanti tratti di queste storie devono ancora essere ricostruiti, mentre ai loro eredi spetta
il compito di proteggere l’intuizione originaria.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
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Islam in Africa nera
“Più che l’Islam conquistare l’Africa, sono gli africani
che hanno conquistato l’Islam”. La vecchia battuta di
Leopold Senghor riprende un concetto consolidato: la
straordinaria capacità africana di assorbire influenze
diverse, mescolarle alle culture proprie e ricondurre
tutto a unità. Il termine “sincretismo” sembra persino
limitante, rispetto all’incredibile “disponibilità” dell’atteggiamento africano, che è assieme accoglienza
della diversità e rifiuto degli atteggiamenti più dogmatici. Senghor proponeva di “farsi nero fra i neri”, in
aperto riferimento a San Paolo, che voleva “farsi greco
con i greci, farsi ebreo con gli ebrei”. Vi si può leggere
un richiamo ai valori condivisi e allo stesso tempo un
rifiuto della sorveglianza dei dogmi, o, ancora di più,
l’estraneità totale a un concetto come la “purezza” culturale inalterata nel tempo.
• Ma oggi forse la definizione “tradizionale” non è sufficiente. È sempre più difficile sfuggire all’atroce prospettiva
di uno “scontro di civiltà”, perfetto esempio di una profezia
che, se non si auto-avvera, sicuramente si auto-stimola. L’Islam che compare in questa prospettiva sciagurata è distorto,
la sua grandezza viene ridotta fino a comparire solo nei suoi
aspetti di integralismo. In questa prospettiva miope la lettura del mondo fatta da un sesto dell’umanità diventa all’improvviso esasperata, tutto si riduce alla minaccia e alla paura,
il confronto non è più crescita ma diventa sempre conflitto
virtuale. È una forzatura da respingere, ma allo stesso tempo
pone domande che, in quanto tali, sono inevitabili: l’Islam
africano è una minaccia per l’Occidente? Può contrapporsi
alla cultura occidentale? In parole più brutali: il cuore di tenebra ha accolto i seminatori di odio? Quale Islam è stato
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
GIANPAOLO
CADALANU
Giornalista
per «la Repubblica»
≈
“Le tendenze
integraliste si
radicano e fanno
proseliti dove
la situazione
economica è più
disperata.
È il vuoto lasciato
dall’Occidente
che rischia
di essere riempito
dai profeti
del radicalismo”
≈
101
Gianpaolo Cadalanu
adottato sotto il Sahara? Per cercare una risposta senza risalire alle origini basta fare
solo un passo indietro nel tempo e assieme cercare un rapidissimo sguardo a qualcuna delle diverse realtà locali.
Santuari e attentati
• Dar es Salaam, Nairobi, 7 agosto 1998. Due attentati esplosivi devastano le
ambasciate statunitensi in Tanzania e Kenya, uccidendo 247 persone. Gli attacchi
non sono rivendicati, ma i servizi segreti accusano unanimemente Osama Bin Laden. Per la prima volta lo sceicco saudita diventa un nome da prima pagina. L’Fbi
lo include nei 10 ricercati “most wanted”, gli Stati Uniti riconoscono come minaccia la rabbia anti-occidentale del vecchio alleato (ai tempi della lotta ai sovietici
nell’Afghanistan occupato dall’Armata rossa) e dunque cominciano a prenderlo sul
serio.
• Non è un caso che Bin Laden sia approdato nell’Africa orientale: attività legata ad Al Qaeda era stata segnalata già nei primi anni Novanta in Etiopia, in Somalia e nello Yemen. La presenza islamica nell’Africa orientale non è certo nuova:
si calcola che i primi mercanti arabi arrivarono da queste parti nel nono secolo,
nell’undicesimo l’influenza musulmana era già abbondantemente assorbita nella
cultura locale. Ma la presenza dell’Islam radicale non era nota. Sono proprio gli attacchi alle ambasciate Usa che segnalano nel modo più brusco possibile come le reti terroristiche abbiano trovato spazio proprio nel disinteresse dell’Occidente. I
mujahiddin che gli Stati Uniti avevano armato e finanziato nella guerra contro
l’Urss in terreno afgano, ora si stanno ri-dispiegando per colpire nuovi nemici.
Sempre infedeli, ma stavolta occidentali.
L’operazione Somalia
• Il segno più evidente di “via libera” in tutta la zona era stato dato nel 1993,
in Somalia. In quell’anno l’operazione “Restore Hope”, che doveva appunto restituire la speranza al paese strangolato dai “signori della guerra”, era finita ingloriosamente. Era cominciata con i soldati americani che letteralmente “recitavano” lo
sbarco davanti alle telecamere della “Cnn”. Si era chiusa con pochissimo onore dopo l’abbattimento di due elicotteri nella battaglia di Mogadiscio e l’uccisione di 18
soldati americani e di un migliaio di somali, fra civili e uomini dei clan. Al posto
delle sequenze epiche girate sulle spiagge durante lo sbarco, nella memoria americana restavano le immagini sconvolgenti dei “ranger” uccisi e trascinati per le strade di Mogadiscio dalle jeep dei miliziani di Aidid.
102
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Gianpaolo Cadalanu
• La Somalia era troppo pericolosa e tutto sommato non era importante per le
strategie occidentali: meglio andar via. Dopo tutto, per quanto se ne sa, nel sottosuolo somalo non c’è il petrolio, né altre risorse preziose. La fuga delle truppe Usa e
dell’intero contingente delle Nazioni Unite pose interrogativi seri sugli interventi
“umanitari”, ma mentre la comunità internazionale cercava le risposte, il popolo
della Somalia rimaneva abbandonato a sé stesso e ai signori della guerra. Lo stato,
così come si concepisce in Occidente, non esisteva più: la Somalia era il posto giusto per l’insediamento degli integralisti.
Lo spazio lasciato a Bin Laden
• Forse proprio da qui, come sostengono molti analisti, è partita la strategia
del terrore di Osama Bin Laden: dallo spazio rimasto vuoto. O più probabilmente,
invece, era già avviata, e nel vuoto è cresciuta e si è sviluppata. In quegli anni lo
sceicco era ospite del regime sudanese, poi costretto a suon di diplomazia e di missili a cambiare linea e a chiedere all’imbarazzante personaggio di lasciare Khartoum
per trasferirsi nell’Afghanistan del mullah Omar. Ma sono in molti a credere che
prima di diventare “ingombrante” il leader di Al Qaeda abbia piantato semi e probabilmente anche organizzato gli stessi attentati alle ambasciate, che poi rivendicherà. A confermare il collegamento può essere anche il ruolo di Abu Hafs al Masri, consuocero di Osama Bin Laden, che poi resterà ucciso in Afghanistan, considerato dagli inquirenti americani il “cervello” degli attentati a Nairobi e a Dar es
Salaam, ma forse anche lo stratega della battaglia di Mogadiscio.
• Le cellule estremiste africane hanno messo a segno altri attentati: quello dell’ottobre 2000 contro l’incrociatore lanciamissili statunitense USS Cole nel golfo
di Aden, in cui 17 marinai erano rimasti uccisi e 36 feriti, oltre ai due attentatori
suicidi, militanti della rete di Bin Laden. Base dell’attentato era probabilmente lo
Yemen: qui nel 2001 la Cia lancerà una rappresaglia attraverso un aereo senza pilota Predator, e ucciderà con un missile due persone, compreso Abu Ali al-Harithi,
sospetto organizzatore. Altre due verranno condannate a morte nel 2004 dal regime di Sana’a con una sentenza che chiameranno “americana”.
• Un altro attentato attribuito ad Al Qaeda ha colpito l’hotel Paradise, a
Mombasa, il 28 novembre 2002. L’albergo della città kenyana è proprietà di israeliani, dallo Stato ebraico viene anche la maggior parte degli ospiti: obiettivo perfetto per un attentato kamikaze. Tre attentatori guidano un fuoristrada fino all’ingresso dell’albergo e si fanno saltare in aria, uccidendo 13 persone ferendone un’ottantina. Appena 20 minuti prima, altri militanti di Al Qaeda avevano cercato di
abbattere con due missili un Boeing 757 in decollo dall’aeroporto Moi con 271
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Gianpaolo Cadalanu
persone a bordo, diretto a Tel Aviv. I missili, dirà un’inchiesta kenyana, erano arrivati dalla vicina Somalia, così come somali erano quattro componenti del gruppo
che aveva organizzato l’attacco. L’attentato all’hotel colpisce in realtà tre obiettivi:
Israele, nemico di sempre; il regime di Nairobi, tradizionalmente aperto ai “compromessi con l’Occidente”; e gli stessi turisti, “peccaminosi” protagonisti di una
sgradita contaminazione di costumi più severi.
Rapporto integralismo-terrore
• È scorretto inquadrare nella stessa categoria integralismo islamico e reti del
terrore? In termini di rigore analitico, sicuramente sì. Ma in realtà le tracce del radicamento fondamentalista spesso si sovrappongono a una mappa degli attentati.
In altre parole, sembra abbastanza plausibile che – quanto meno in uno scenario
africano, con le sue peculiarità – chi ha deciso di usare la violenza per diffondere la
parola del Profeta non abbia potuto far altro che appoggiarsi su strutture già esistenti, sfruttando disagi profondi e problemi ormai incancreniti per trovare sostegno e manodopera. A rallentare queste infiltrazioni c’è la cultura della tolleranza
africana: non è un caso se finora, anche in presenza di tendenze integraliste, nessun
kamikaze veniva dall’Africa subsahariana. Forse, ha scritto l’«Economist», i musulmani d’Africa ricordano quello che aveva scritto il profeta Maometto: “Chi si toglie la vita in qualche modo, allo stesso modo sarà tormentato all’Inferno”.
• Però nel nord della Nigeria è sempre più diffuso fra i bambini il nome Osama. E il volto dello sceicco è diventato un’icona da appendere sulle pareti in tanti
villaggi fra i più sfortunati dell’Etiopia, della Tanzania, e in genere degli Stati a presenza islamica. Ma l’Africa è forse l’unico posto al mondo dove le bancarelle possono vendere allo stesso modo le magliette con la faccia di Bin Laden e quelle con i
divi del basket americano, le une accanto alle altre.
Una mappa
• Negli ultimi anni l’Islam ha fatto passi avanti quasi in tutta l’Africa sub sahariana. Ci sono segnali di tensione in diversi stati: dal Niger, che potrebbe persino
dividersi in due, alla Nigeria, all’Etiopia, al Senegal, che ospitano forti comunità
musulmane. E lo stesso è segnalato in Mozambico, in Uganda, in Repubblica centrafricana, in Liberia, in Burkina, in Tanzania, in Sierra Leone, in Camerun, in
Costa d’Avorio. Inutile ricordare che in molti Paesi l’Islam è già maggioritario:
succede in Guinea, nel Mali, a Gibuti, nel Niger, in Nigeria, in Senegal e in Somalia.
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Gianpaolo Cadalanu
Corno d’Africa e Africa orientale
• Ma se guardiamo alle infiltrazioni integraliste, gli esperti individuano quattro grandi aree africane dove la preoccupazione per l’Occidente è stabile. Oltre a
quelle del NordAfrica e del Sahel, di individuazione quasi ovvia, l’indice si punta
sull’Africa occidentale e soprattutto sul Corno d’Africa. E naturalmente il panorama più inquietante è quello che si intravede in Somalia.
• Non è facile interpretare in modo corretto che cosa si muove in questo Paese: se da un lato va avanti il tentativo di restituire solidità alle istituzioni, dall’altro è
palese l’accrescersi dell’influenza di gruppi fondamentalisti stranieri fra i signori
della guerra che controllano una buona fetta del paese e soprattutto Mogadiscio.
La profanazione e devastazione del vecchio cimitero italiano della capitale, nel gennaio 2005, segnalava la decisione dei gruppi islamici di prendere un profilo più alto. Secondo fonti locali, a pagare in dollari la devastazione erano stati proprio religiosi “stranieri”, disposti ad aprire le borse per segnalare la loro presenza e per sottolineare quanto sgradito fosse un simbolo insieme dell’Italia e della cristianità.
• Un’ipotesi plausibile è che questi “stranieri” fossero collegati ad Al Ittihad,
“la comunità”, una struttura radicale considerata fiancheggiatrice o diretta rappresentante di Al Qaeda nel Corno d’Africa. Altrettanto credibili sono le voci che parlano di una forte influenza sudanese e persino iraniana nel diffondersi dell’influenza islamica, intesa come “ordine” anche in contrapposizione con l’anarchia praticata delle milizie. Comunque sia, la diffusione dei tribunali islamici che applicano la
sha’ria è considerata un dato di fatto. Altro segnale “pesante” arrivato dalla zona, è
stato l’allarme, mormorato a mezza bocca anche da esponenti della comunità somala in Italia, secondo cui a Mogadiscio si è installata ormai da tempo una “scuola
di kamikaze”, che avrebbe avuto fra i suoi progetti quello di colpire anche in Italia.
Per fortuna, nessun attentato è stato realizzato, ma la segnalazione è stata presa
molto sul serio anche dalle strutture di sicurezza italiane.
Il Sudan islamico
• Un altro punto “sensibile” della mappa è il Sudan. Il suo governo è l’unico
nell’Africa subsahariana che ha cercato di imporre uno Stato islamico. Dall’89 in
poi, il regime guidato da sudanesi di discendenza araba ha cercato di cambiare i costumi e di applicare in maniera rigida i precetti del Corano, quanto meno nella
parte nord del Paese. Il sud era controllato da formazioni semi-guerrigliere di fede
cristiana con forti “colorazioni” animiste. Poi nel 1999 Hassan al Turabi, l’ideologo
della “rivoluzione islamica”, è stato rovesciato e incarcerato dal presidente Omar
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Bashir, che ha avviato una svolta “pragmatica”. Uno dei motivi della contro-rivoluzione era la coscienza che con un regime islamico rigido la guerra civile non sarebbe mai finita, perché il Sud non si sarebbe mai piegato alla sha’ria. E la condizione
di conflitto, oltre a provocare vittime, impediva di fatto uno sfruttamento adeguato delle risorse del Paese, non ultimo il petrolio.
• Ma secondo molti osservatori a far fallire il tentativo di imporre un Islam radicale in Sudan è stata anche la cultura locale, e africana in genere, dove la tolleranza ha un ruolo fondamentale. Un esempio: è noto fra i viaggiatori che anche nei
momenti di maggior spinta “militante” del regime, anche nel Sudan è sempre stato
possibile trovare alcol di contrabbando, importato dagli stessi sudanesi in spregio
alle regole musulmane.
La “riserva” Kenya
• Molto diversa la situazione del Kenya: qui lo Stato, di modello occidentale,
ha un forte controllo. Nairobi basa la sua economia sul turismo, ma proprio la risorsa principe del Paese è considerata dagli integralisti un mezzo di inquinamento
culturale, dunque da contrastare duramente. La penetrazione delle tendenze integraliste sembra quasi inevitabile. L’aiutano soprattutto due elementi. Il primo è politico-geografico: la vicinanza con la Somalia, l’arrivo dei profughi, la vera e propria
invasione di rifugiati senza tetto né documenti, quasi incontrollabili persino per il
governo di Nairobi, poco propenso ad abbandonarsi agli scrupoli di procedura ma
pur sempre sottoposto al controllo dei media. Il secondo elemento è sociale: la devastante situazione delle masse kenyane, la povertà estrema, l’abbandono dei villaggi per le bidonville, finiscono per produrre una polarizzazione delle condizioni
di vita o, in altre parole, un contrasto feroce fra i pochi ricchi e i troppi poveri, in
presenza di una classe dirigente la cui corruzione è leggendaria: sono tutti elementi
che “preparano il campo” per chi cerca seguaci disponibili a tutto e senza nulla da
perdere.
La situazione in Etiopia e Tanzania
• Non del tutto diversa è la situazione in Etiopia: anche qui la penetrazione
dei rifugiati somali è massiccia, ed è considerata a rischio di infiltrazioni integraliste. Ma su questo fronte Addis Abeba ha reagito molto duramente, con un giro di
vite estremamente energico. Purtroppo nel “giro di vite” è stata inclusa tutta l’opposizione, per cui non è facile capire che cosa davvero si muova nel sottobosco dei
rifugiati, e che cosa invece sia solo una scusa presa al volo per giustificare la repres-
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sione. In altre parole: per un “uomo forte” come Meles Zenawi, il fantasma dei
peggiori incubi occidentali può diventare un’occasione fin troppo facile per ricondurre all’obbedienza le voci dissonanti, fermando sul nascere allo stesso tempo
eventuali tendenze integraliste, rivendicazioni autonomiste e dissenso interno.
• Segnali preoccupanti vengono anche da Zanzibar, isola di tradizioni islamiche appartenente alla Tanzania: qui la piccola comunità cristiana vive con apprensione il crescente irrigidimento della maggioranza musulmana (98 per cento della
popolazione), che spinge verso costumi più severi e si propone l’adozione della
sha’ria.
L’Africa occidentale
• Uno dei Paesi più problematici è senz’altro la Nigeria. Se la presidenza di
Olusegun Obasanjo si è impegnata a smussare le punte integraliste, i fatti del febbraio 2006 ripropongono in maniera brutale domande sulla reale capacità di convivenza delle diverse comunità, e sulla penetrazione delle tendenze più radicali. In
dodici stati (la Nigeria è uno stato federale) è in vigore la legge islamica, applicata a
volte fino alle estreme conseguenze. Ma il presidente della repubblica si è adoperato per cancellarne gli eccessi: è successo soprattutto quando le pene imposte dalla
sha’ria (in particolare le condanne a morte) hanno suscitato l’attenzione dell’Occidente. Recentemente, in occasione della morte dell’ex presidente Mohammed
Murtala, Obasanjo si è lamentato dell’incapacità occidentale di capire l’Islam ma
allo stesso tempo ha messo in guardia in maniera molto esplicita gli estremisti:
“Nessun governo degno di questo nome potrà mai permettere la distruzione di ciò
che è rimasto dal passato. Stia attento chi crede di usare la religione dove gli altri
mezzi hanno fallito: non gli servirà”.
• Dopo la pubblicazione delle sciagurate vignette sul profeta Maometto sui
giornali europei, la Nigeria ha assistito agli scontri più violenti dell’intero continente: nel nord islamico l’etnia Hausa ha attaccato la minoranza cristiana, nel sud i
cristiani dell’etnia Ibo hanno lanciato rappresaglie violentissime. Alla fine, fra chiese devastate e moschee date alle fiamme, lo scenario inevitabile sembrava quello di
una “guerra di religione”: l’esito più odioso, in pratica una realizzazione della teoria
dello scontro di civiltà. Quasi una realizzazione di quanto, oltre ad Huntington,
aveva profetizzato lo stesso Osama Bin Laden in un messaggio del 2003: la Nigeria
sarebbe stato uno dei Paesi presto “liberati”.
• Per fortuna la chiesa nigeriana, pur colpita direttamente (padre Michael
Gajere, parroco di Santa Rita a Maiduguri, è stato ucciso nei disordini), ha voluto
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Gianpaolo Cadalanu
sottolineare nel modo più deciso che quello del 2006 non è stato uno scontro fra
religioni. Il vescovo di Maiduguri, Matthew Man-Oso Ndagoso, ci ha chiarito il
suo punto di vista: “A far divampare la rabbia non è stato un elemento solo. Ci sono fattori religiosi, ma anche politici, economici, sociali. E naturalmente l’ignoranza ha avuto un ruolo importante”. Identico il parere del nunzio apostolico di
Lagos, monsignor Renzo Fratini, che ha detto all’agenzia “Misna”: “I disordini
non sono provocati da un solo fattore, sia religioso, etnico, politico o sociale, ma
dalla somma di tutti questi elementi insieme e dalla povertà diffusa”.
• Anche in Sierra Leone, Costa d’Avorio e Liberia le divisioni fra sud cristiano e nord musulmano si sono approfondite rapidamente negli ultimi anni. Per cercare un esempio di genere diverso, invece, basta guardare a Dakar. Il Senegal è addirittura entrato nel luogo comune, come Paese in cui l’Islam esibisce il suo volto
più “moderato”. Qui il 94 per cento della popolazione si professa musulmano, ma
appare legato in realtà a forme di religiosità tradizionale, intessute di credenze animiste, più che a una lettura rigida. Nemmeno le vignette blasfeme sul profeta hanno scosso gli animi: al contrario del vicino Niger, dove le bandiere danesi sono state bruciate in piazza, in Senegal la comunità islamica si è limitata a protestare con
una lettera spedita al consolato. Cristiani e musulmani vengono sepolti nello stesso
cimitero, il Paese rispetta le feste di entrambe le comunità. E alla fine, la gente stessa non sembra distinguere, o non vuole più farlo.
Qualche deduzione
• Il panorama del rapporto Africa-Islam è variegato e articolato. Non è semplice disegnarne i dettagli, né sarebbe corretto dare carattere di compiutezza a un quadro realizzabile con informazioni legate ai mezzi di comunicazione di massa
“mainstream”, a volte viziati dall’ottica “occidentale”, altre volte insufficienti a penetrare realtà ancora molto lontane dal nostro atteggiamento culturale. Ma alcuni
problemi specifici si possono individuare:
• Le zone prive di governo, la Somalia prima di tutto, sono porti franchi per
addestramento, passaggio e rifugio di movimenti integralisti e terroristici. Le guerre diffuse e senza mai fine rischiano di far svanire le identità tradizionali, per lasciar
spazio a forme di politica e di “militanza religiosa” più radicali. Allo stesso tempo le
milizie dei clan, composte da uomini armati e addestrati, sono uno strumento prezioso e appetitoso per chiunque voglia assoldarle e dar loro un nuovo obiettivo.
Ovviamente questo meccanismo funziona meglio se è “lubrificato” da una visione
religiosa, anche se fanatica.
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Gianpaolo Cadalanu
• Ma oltre alle indicazioni sulle prospettive della sicurezza, emerge un elemento più “politico”. Nel suo complesso l’Islam africano resta legato a una cultura di
moderazione, a un approccio umano “rispettoso”, a valori di convivenza ben consolidati e assorbiti. Ma questo succede solo fin che le condizioni materiali lo permettono. In altre parole: la storia recente dell’Africa subsahariana dimostra che le
tendenze integraliste si radicano e fanno proseliti dove la situazione economica è
più disperata. È il vuoto lasciato dall’Occidente che rischia di essere riempito dai
profeti del radicalismo. Un vuoto di sostegno economico, di attenzione, ma anche,
meglio precisarlo, un vuoto di valori.
• Gli intellettuali nigeriani hanno dedicato un convegno, nel 2005, per chiedere agli Stati Uniti che si impegnino a risolvere il problema della povertà, se vogliono trovare una soluzione duratura per il terrorismo. Ma non è soltanto la povertà estrema a costituire il brodo di coltura ideale per le tentazioni violente. È anche la presenza – tollerata, o magari direttamente incoraggiata e sfruttata dall’occidente – di classi politiche apertamente corrotte, impegnate a drenare risorse e a rallentare la rinascita di paesi potenzialmente in grado di camminare da soli. Il coinvolgimento del continente africano nelle dinamiche dell’economia mondiale è destinato a crescere nei prossimi anni, non fosse altro per il ruolo sempre più importante delle sue fonti energetiche. Per fare un esempio: entro 4-5 anni la Nigeria fornirà il 25 per cento delle necessità Usa, oggi copre il 16 per cento. In altre parole: il
petrolio africano potrebbe diventare rapidissimamente indispensabile. E il nuovo
ruolo porterà assieme problemi e speranze. Per ora i protagonisti della politica internazionale vedono i problemi, senza perdere tempo con le speranze. I primi segnali delle ipotetiche risposte, sembrano ricette già vecchie: stanziamenti militari,
sostegno a classi dirigenti inadeguate, eccetera. Ma queste sembrano soluzioni capaci solo di portare a crisi più grandi.
• È già stato sottolineato anche dalle Nazioni Unite: l’assenza di comunicazione fra i Paesi del sud del mondo e l’Occidente crea spazi fin troppo facilmente colmabili. I diseredati della terra sono massa di manovra ideale per chiunque offra le
soluzioni in idee semplici, anche se violente. Insomma, non è impossibile ma è comunque difficile trovare aspiranti kamikaze fra le popolazioni a pancia piena.
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109
Futuro dell’élite
Il brain drain verso Occidente:
depauperamento delle risorse umane
e intellettuali in Africa, la “tratta
dei cervelli” dal sud al nord del mondo
C’è un aspetto del fenomeno migratorio sul quale non
sempre si presta la dovuta attenzione, è quello relativo
al depauperamento delle risorse umane dei paesi di
partenza. È la cosiddetta “fuga dei cervelli “ o “brain
drain”1: Si tratta di un vero e proprio esodo che sta caratterizzando in maniera sempre più marcata l’immigrazione. È possibile quantificare, almeno parzialmente, il peso in termini di impoverimento dei paesi di
partenza che l’emigrazione di popolazione in età lavorativa comporta. Vanno all’estero le risorse migliori di
un paese sia in termini di mera forza lavoro ma anche
in termini di forza lavoro qualificata e altamente qualificata. Questo è vero in modo particolare per il continente africano2.
• I fenomeni migratori hanno assunto nel corso dell’ultimo secolo, e in particolare negli ultimi 30 anni, caratteristiche inedite rispetto al passato.
L’ultimo rapporto della Commissione Mondiale sulle
Migrazioni Internazionali (GCIM)3 stima che ben 200 milioni di persone vivano al di fuori del loro paese natale: si
tratta del 3% della popolazione mondiale. Il numero dei migranti, secondo i dati dello stesso rapporto, dal 1975 ad oggi
è più che raddoppiato. La maggioranza di loro (56 milioni)
1 Dati dell’IOM Organizzazione Mondiale delle Migrazioni del giugno 2002.
2 In numeri assoluti paesi come l’India e la Russia sono i più rappresentati. Ma rispetto alle percentuali sul totale delle risorse umane qualificate, il Continente che subisce un vero e proprio saccheggio è proprio
quello africano.
3 Comunicato stampa del 25 ottobre 2005 del GCIM, Les Migrations
en bref.
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DANIELA POMPEI
Università
di Roma Tre
≈
“Il serbatoio
di persone
qualificate dove
molti paesi
occidentali
attingono potrebbe
esaurirsi del tutto,
e non si
ricostituisce in
tempi brevi…
i paesi europei
dovrebbero
rivolgersi verso
l’Africa
e rinsaldare in
maniera stabile il
legame che c’è tra
l’Europa e l’Africa”
≈
113
Daniela Pompei
vive in Europa, intesa secondo la ripartizione geografica operata dall’ONU; una
buona porzione vive in Asia (50 milioni) e in America del Nord (41 milioni), in
Africa ci sono attualmente 16 milioni di migranti. In questo dato troviamo raccolti
i migranti per motivi economici, politici e, in parte, coloro che sono costretti ad
abbandonare le loro case ma non lasciano il loro paese: i così chiamati “sfollati”.
La tipologia dei migranti
• Definire la “tipologia” dei migranti è il primo problema che si presenta nel
leggere e valutare le stime fornite dagli organismi internazionali4. La terminologia
utilizzata, infatti, risente in parte delle definizioni date in passato, che oggi non
rendono più ragione della complessità del fenomeno nell’attuale panorama mondiale.
Oggi è molto più difficile che in passato distinguere nettamente le varie “categorie” di migranti: le motivazioni che spingono a lasciare il proprio paese, infatti,
sono molteplici e spesso sovrapposte. C’è, quindi, il problema di ipotizzare nuove
definizioni giuridiche e nuove forme di protezione da parte dei paesi ospitanti.
Una nuova regolamentazione è resa ormai più che urgente dalle mutate condizioni
geopolitiche del mondo.
• I numeri relativi agli spostamenti della popolazione evidenziano che i paesi a
sviluppo avanzato sono quelli che hanno accolto il numero maggiore di migranti
per motivi economici: l’America del Nord ogni anno riceve circa un milione e
quattrocentomila stranieri, l’Europa circa ottocentomila.
I paesi in via di sviluppo, da parte loro, accolgono invece il maggior numero di
rifugiati e sfollati a causa delle guerre: sono le guerre dimenticate del mondo. Ben
6,5 milioni di rifugiati sul totale di 9,2 milioni vivono nei paesi in via di sviluppo.
In altre parole sette rifugiati su dieci sono ospitati da paesi poveri5. E ben il 22 per
cento dei migranti africani è rappresentato dai rifugiati6.
4 Le fonti statistiche utilizzate in questo studio sono: i Rapporti sulla popolazione mondiale delle
Nazioni Unite, in particolare quelli pubblicati nel 2000, 2001 e 2002; i Rapporti dell’Organizzazione
Internazionale del Lavoro (ILO), in particolare quello relativo all’anno 2002; gli Studi e i Rapporti
dell’organizzazione intergovernativa delle migrazioni (IOM); il Rapporto del UNHCR (Alto Commissariato dei rifugiati delle Nazioni Unite); gli Annuari di Eurostat, e dati Istat e Ministero degli Interni. Sono stati utilizzati, inoltre, alcuni per la prima volta, dati raccolti nella Scuola di Italiano Louis
Massignon, della Comunità di Sant’Egidio di Roma.
5 Rapporto statistico UNHCR: la maggior parte dei rifugiati si trova nei paesi in via di sviluppo.
8.11.2002.
6 Cfr. Allegato n. 2 del Rapporto della Commision mondiale sur les migrations internationales
(CMMI).
114
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Daniela Pompei
“La fuga dei cervelli”
• In questo panorama generale l’abbandono del proprio paese di origine da
parte di forza lavoro qualificata e molto qualificata, sta assumendo delle proporzioni davvero nuove. le definizioni del termine “Brain drain” sono molteplici. Secondo Adams “la fuga di cervelli” è costituita dalle migrazioni di forza lavoro qualificata da un paese all’altro, con una forte connotazione di perdita per i paesi di origine.
Un’ulteriore specificazione scaturisce dalla definizione operata da Rao che distingue due gruppi: il primo composto da persone con un elevato livello di istruzione
che migrano dai paesi in via di sviluppo per unirsi alla forza lavoro dei paesi più
sviluppati; il secondo composto invece dagli studenti che, per studio o formazione,
si trasferiscono in paesi più sviluppati decidendo in seguito di rimanervi.
L’utilizzo dei termini per definire il fenomeno non è neutrale. I “programmi di
immigrazione selettiva” secondo l’asettica espressione dei paesi a sviluppo avanzato
nascondono un vero e proprio “saccheggio” ai danni di paesi che si vedono spogliati
delle risorse migliori e vedono cosi ipotecare una qualsiasi possibilità di sviluppo. Alla
domanda “quando si parla di immigrazione selettiva si intende forse saccheggio dei
cervelli?” Il presidente della commissione dell’Unione Africana, Alpha Omar Konarè, ha risposto: “Non credo sia il modo giusto, sarebbe una tratta di cervelli”7.
• Domenique Frommel ha provato a quantificare in termini economici i costi
di questa “tratta”: «calcolando che la formazione di un medico non specialista in
un paese del sud costa circa 60 mila dollari e quella di personale paramedico circa
12000 dollari a candidato, si può affermare che i Pvs (paesi in via di sviluppo)
“sovvenzionano” l’America del Nord, l’Europa occidentale, l’Australia e l’Asia per
un importo annuo di circa 500 milioni di dollari»8.
L’Africa sub-sahariana ha perso il 20% dei lavoratori qualificati9. L’emigrazione
coinvolge medici, ingegneri, ricercatori, docenti universitari. Il 60% dei medici di
un paese come il Ghana, formati nel paese negli anni ’80, sono emigrati in altri stati. Il tasso di emigrazione di persone altamente qualificate in Ghana è del 47%, in
Mozambico è del 45,1%10.
• I paesi ad alto sviluppo economico attirano immigrati specializzati: il caso
dei programmatori informatici indiani è, a questo proposito emblematico. In Ger7 Conferenza stampa congiunta, Alpha Omar Konarè e Josè Manuel Durao Barroso, Bruxelles
12 ottobre 2005.
8 D. Frommel, Quando il nord è curato dai medici del sud, in «Le Monde Diplomatique», aprile
2002.
9 Rapporto Banca Mondiale intitolato “International Migration, Remittances and the Brain
Drain” dell’ottobre 2005.
10 Rapporto Banca Mondiale, ottobre 2005.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
115
Daniela Pompei
mania e negli Stati Uniti, arrivano qualcosa come 100 mila programmatori indiani
ogni anno.
I Paesi dell’ex-Unione Sovietica non sono immuni da questo fenomeno di depauperamento delle risorse umane: tra i 500 mila e gli 800 mila programmatori e
cosiddetti scienziati hanno lasciato la Russia dal 1991 per dirigersi principalmente
negli Stati Uniti, in Inghilterra, Canada, Francia e Germania. Il 30% dei programmi della Microsoft sono creati da russi.
• Sempre più spesso si sente parlare di carenza di tecnici di alto livello di specializzazione. I paesi sviluppati hanno bisogno di immigrati non solo per contrastare il calo demografico, ma necessitano di persone qualificate e competitive sul
piano economico e sociale. Annamaria Artoni, imprenditrice italiana, affermava
nel giugno 2002 “Negli ultimi decenni l’immigrazione è stata utilizzata da alcuni
stati – Usa, Canada, Australia- come leva dello sviluppo industriale. Oggi gli stessi
stati ne stanno facendo elemento strategico per accrescere la propria competitività
sul piano internazionale, incentivando l’immigrazione qualificata, l’arrivo dei cervelli. L’Europa dovrebbe imboccare la stessa strada, se vuole davvero diventare
quell’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”11.
• La domanda di specialisti nei paesi ad alto sviluppo proviene essenzialmente
dal mondo imprenditoriale12 e sta orientando le politiche migratorie dei paesi industrializzati. Molti paesi come Germania, Italia, Canada, Stati Uniti, Francia hanno liberalizzato le loro politiche di ammissione per i portatori di alti livelli di professionalità. La Germania nel 2000 ha introdotto dei permessi temporanei di 5 anni per gli immigrati ad alta qualificazione. Lo stesso ha fatto l’Italia che nella programmazione dei flussi di ingresso dal 2002 ad oggi, prevede quote riservate agli
immigrati con particolari qualifiche professionali, quali dirigenti, ricercatori, liberi
professionisti. Contemporaneamente sono state svincolate dalle quote annuali di
ingresso per lavoro alcune professioni legate al settore sanitario, come gli infermieri
e le professioni paramediche. La Francia già nel 2000 ha chiesto ufficialmente ai
prefetti di derogare alla legge sull’immigrazione con l’adozione di una “procedura
d’introduzione semplificata per gli ingegneri informatici”.
• I paesi in via di sviluppo si trovano così a perdere costantemente uomini e
donne con alti livelli di qualificazione o con professionalità strategiche per lo sviluppo, perché il mondo ricco ne ha bisogno.
11
Cit. Relazione “La sfida delle inclusioni”, Convegno “Migrazioni, la sfida delle inclusioni nell’Italia degli immobilismi”, Santa Margherita Ligure 7-8 giugno 2002.
12 In «Le Monde Diplomatique», novembre 2000 di A. Morice “Dall’immigrazione zero alle
quote”. “Per i datori di lavoro, la questione principale è il deficit di manodopera qualificata, in particolare nel settore delle nuove tecnologie”.
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Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Daniela Pompei
Per alcune qualifiche particolari, poi, si dovrebbe dire che non si tratta di “fuga
dei cervelli”, o di depauperamento ma di “saccheggio” se non di una vera e propria
“tratta”. Le grandi industrie inviano loro agenti nei paesi di partenza degli immigrati, alla ricerca di personale specializzato. Esistono vere e proprie agenzie di reclutamento che pubblicano pagine intere di pubblicità sui giornali, come citato da
un articolo apparso dall’agenzia stampa Misna, il 10 ottobre 200213.
È ormai da oltre 30 anni che i fenomeni migratori riguardano maggiormente
donne e uomini con alti livelli di studio. Gli immigrati che giungono in Europa
hanno per l’85% oltre 11 anni di studio.
• Da un’analisi effettuata dalla Comunità di Sant’Egidio sugli immigrati
iscritti ai corsi di lingua italiana della scuola Louis Massignon, nel mese di settembre e ottobre 2002, risulta che su 1062 iscrizioni di persone provenienti da 60 paesi il 50% hanno tra i dieci e tredici anni di studio e il 35% sono laureati, con oltre
14 anni di studio.
Comunità di Sant’Egidio
Studenti iscritti anno 2002 Scuola Louis Massignon
Durata
degli
studi
nelnel
paese
Durata
degli
studi
paesedidiorigine
origine-(totale)
- (totale)
600
50,0%
numero di studenti
500
400
300
19,7%
200
10,4%
100
5,2%
4,5%
4,2%
4,1%
1,8%
0
1-6
7-9
10-13
14
15
16
17
>17
anni di scuola
13
Articolo da «Cronache dall’Africa»: “La fuga dei camici bianchi. Africa addio medici e infermieri lasciano gli ospedali d’Africa per i paesi sviluppati”. 10.10.2002.
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Daniela Pompei
Rapporto qualificazione-lavoro
• Ciò a conferma dei numerosi studi su questo tema, in cui si evidenzia che
l’emigrazione degli ultimi anni, a livello mondiale è formata essenzialmente da
persone che hanno un livello di studio medio-alto. Questo fenomeno che gli studiosi chiamano “brain waste”14, per descrivere la situazione dove dei migranti qualificati si trovano a svolgere delle attività che non gli permettono di lavorare valorizzando le loro competenze e le loro qualifiche inziali.
I paesi dell’Europa del sud come l’Italia, la Spagna, il Portogallo, la Grecia,
hanno beneficiato di un una immigrazione qualificata che svolge lavori non qualificati. Le donne si occupano di lavoro domestico e assistenza agli anziani, gli uomini di edilizia, lavoro in fabbrica, ristorazione e agricoltura.
• Nell’Europa del Nord, in paesi come l’Austria, la Gran Bretagna, la Germania, si utilizzano da vari anni stranieri filippini per sopperire alla carenza di personale medico e paramedico negli ospedali, in particolare di infermieri. La carenza di
personale specializzato comincia a farsi sentire anche in altri settori importanti per
lo sviluppo culturale dei paesi. In vari paesi europei c’è mancanza di insegnanti: la
Gran Bretagna recluta da tempo maestri e insegnanti dalle ex-colonie. In Germania il 70% del corpo insegnante ha oltre 40 anni. L’Unesco ha lanciato un appello
raccomandando all’attenzione dei vari governi la preoccupante “penuria di insegnanti”15.
Migrazioni come ricchezza
• L’Organizzazione Internazionale del Lavoro afferma che “le migrazioni internazionali contribuiscono alla crescita e alla prosperità dei paesi ospitanti e dei
paesi di partenza”.
Per i paesi a sviluppo avanzato l’immigrazione è un arricchimento in termini
assoluti: limita la diminuzione della popolazione, permette di mantenere i livelli
economico-sociali raggiunti, permette di essere competitivi e di crescere nel mondo economico e culturale. I paesi ricchi si trovano ad avere persone già qualificate,
per la cui formazione non hanno utilizzato alcuna risorsa. Spesso gli immigrati sono persone di livello più alto della media della popolazione, mediamente parlano
tre lingue, sono disponibili alla flessibilità e alla mobilità nel lavoro, continuano a
formarsi, studiano si perfezionano.
14
15
Salt John, 1997. International Movements of the highly skilled n° 91, Paris vol. 5.
Comunicato stampa 5.10.2002 (Oil/02/45) Rapporto UNESCO-OIL sulla penuria di inse-
gnanti.
118
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Daniela Pompei
L’arricchimento arriva anche ai paesi di origine in vari modi, il più sostanzioso
è quello rappresentato dalle rimesse che è una voce importante delle economie dei
paesi stessi.
• Negli ultimi anni le rimesse dei migranti sono il complemento maggiore al
prodotto interno lordo di un cospicuo numero di paesi. Nel 2000 le rimesse
hanno fatto crescere di più del 10% il PIL del Salvador, dell’Eritrea, della Giordania, del Nicaragua, etc.16. Il Fondo Monetario Internazionale afferma che tra
gli anni Settanta e gli anni Novanta l’importo complessivo delle rimesse dei migranti è aumentato di ben sette volte. Ogni anno vengono inviati dagli immigrati somme di denaro pari a 60 bilioni di dollari. Alcuni dati pubblicati dall’«Economist» mettono in evidenza che le rimesse dei migranti incidono sulle economie dei paesi di appartenenza in maniera molto più consistente degli aiuti umanitari forniti dai paesi sviluppati. Un esempio: l’Albania ha ricevuto nel 2000
qualcosa come 531 milioni di dollari in rimesse, e solo, 319 milioni di dollari in
aiuti dai paesi sviluppati. Gli ultimi dati pubblicati dalla Banca Mondiale ci dicono che “gli aiuti esteri dei lavoratori migranti”, come vengono chiamate le rimesse, nel 2004 sono stati 125,8 miliardi di dollari mentre nello stesso anno gli
aiuti pubblici esteri dei 22 governi più ricchi del mondo sono stati 78,6 miliardi
di dollari17.
L’invio dei risparmi degli immigrati alle proprie famiglie favorisce lo sviluppo
dell’economia, facilitando l’acquisto di beni di consumo e di servizi: molti immigrati ad esempio costruiscono le case dove abitare al loro ritorno, aprono attività
commerciali, investono per migliorare le condizioni del loro paese. Spesso le rimesse degli immigrati sono utilizzate per comprare medicine e garantire l’istruzione
per figli e nipoti.
Nesso tra migranti e paesi ricchi e paesi poveri
• Gli immigrati rappresentano uno dei fili più importanti che legano i paesi
ricchi ai paesi poveri in un rapporto di interdipendenza. L’immigrazione rivela al
nord che non può vivere senza il sud, e al sud che non può vivere senza il nord.
Questo pone ai paesi europei e nordamericani molte domande su come sostenere,
far crescere, non abbandonare quei paesi che sono oggi gli artefici dello sviluppo
economico e sociale dei paesi ricchi.
È necessario, infatti, sostenere l’istruzione, la sanità dei paesi di partenza dei
migranti. È necessario lavorare per la pace e creare stabilità politica e sociale.
16
17
Dati ONU - Divisione popolazione. Rapporto sulle migrazioni internazionali. Ottobre 2002.
Dati pubblicati IPSnotizie il 12 dicembre 2005. Sviluppo: lavoratori senza frontiere.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
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Daniela Pompei
I paesi del nord devono investire di più nel sud del mondo: non è moralmente
accettabile “depredare” da una parte i paesi poveri delle loro forze migliori e dall’altra, alzare mura, costruire fossati e abbandonare al proprio destino interi paesi provati dalla povertà e dalla guerra.
Chi emigra dall’Africa?
• L’emigrazione dal continente africano coinvolge particolarmente il personale
sanitario e il corpo insegnante. La fuga dei cervelli dall’Africa incide in maniera
maggiore rispetto all’emigrazione di altri paesi, quali l’India e la Cina. Il recente
rapporto della Banca Mondiale ci dice che, in grandi paesi come la Cina e l’India
rispettivamente il 3 e il 5% dei laureati vivono all’estero, in Africa subsahariana dove i lavoratori qualificati rappresentano in tutto il 4% della popolazione attiva, ben
il 40 % di questi sono migranti. L’Africa subsahariana sopporta il peso maggiore,
in assoluto del “brain drain”. La perdita di personale altamente qualificato in Africa incide molto sullo sviluppo economico e sociale di tutto il continente.
L’indagine dell’OMS
• L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha svolto una indagine specifica tra
il 2001-2002 su sei paesi africani rispetto alla situazione di medici, infermieri, farmacisti e ostetriche18. Tra le conclusioni è stata notata una diminuzione sensibile,
in tutti i paesi, di infermieri; una difficoltà ad avere dei dati certi da parte dei paesi
sull’emigrazione dei medici. Per il personale medico si è notata una forte migrazione interna cioè dall’impiego nel settore pubblico al passaggio nel settore privato e
dalle campagne alle città. L’emigrazione di professionisti della salute ha avuto degli
effetti negativi sulla qualità dei servizi, infatti in molti paesi succede che personale
meno qualificato si trova ad intervenire su situazioni che richiederebbero un livello
superiore di formazione.
• Uno studio realizzato dalla “Joint Learning Iniziative” pubblicato nel dicembre 2004 dichiara che la fuga dei cervelli è tra le cause delle carenze sanitarie di 75
paesi del mondo, che coinvolgono due miliardi e mezzo di persone19.
18
Migration de Professionnels de la Santé dans six pays – Oms Bureau régional de l’Afrique Brazzaville 2004. I paesi studiati sono Africa del sud, Camerun, Ghana, Uganda, Senegal e Zimbabwe.
19 Comunicato stampa tratto da «Vita» dicembre 2004 “Sos, troppi pochi medici”; Joint Learning Iniziative, “Human Resources for Health: Overcoming the Challenge”, the report. La Joint Learning Iniziative è un cartello che riunisce un centinaio di esperti nel settore sanitario.
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Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Daniela Pompei
Alcuni paesi mostrano preoccupazione per la diminuzione di personale qualificato. Il Camerun ha visto aumentare in pochi anni il rapporto medico/pazienti,
nel 1990 c’era un medico per 11.407 abitanti, nel 1997 c’era un medico per
14.730 abitanti. L’Africa del Sud ha stimato che nel 1999 il 30% dei medici sono
partiti per l’Australia, il Canada, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Il SudAfrica ha
importato a sua volta medici da Cuba, Etiopia etc.
Tra i sogni del personale sanitario dei paesi africani analizzati il 26% in Uganda
e il 68% in Zimbabwe desiderano emigrare all’estero con destinazioni preferite Regno Unito e Stati Uniti. Su 1200 medici formati in Zimbabwe durante gli anni ’90
solo 360 oggi lavorano nel loro paese. Il Ghana ha formato tra il 1990 e il 1999,
834 medici di questi circa 400 sono emigrati.
Le motivazioni per emigrare
• Analizzando le motivazioni che spingono il personale sanitario all’emigrazione c’è ovviamente al primo posto il miraggio di salari migliori, a seguire l’assenza di
opportunità di formazione, i salari irrealistici innanzi ai rischi e al carico di lavoro
(si pensi al problema dell’Aids) e incidono anche fattori politici, instabilità dei paesi scontri etnici, etc.
• Tra le cause che favoriscono l’emigrazione delle persone più qualificate, tra
cui anche professori universitari, giornalisti ci sono tra le altre cose, la poca valorizzazione delle risorse umane, la corruzione, la personalizzazione nel modo di gestione delle carriere, e secondo alcuni autori (Wongibe, 2000), oltre alla ricerca di condizioni di vita e di lavoro più stimolanti c’è il problema del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà civili in alcuni paesi africani20.
• L’altra “emorragia scientifica” come viene citata da molti autori riguarda il
settore dell’insegnamento. La carenza di insegnanti, che riguarda il mondo sviluppato coinvolge in maniera crescente anche i paesi in via di sviluppo. In questo senso sono significative le preoccupazioni dell’Unesco del marzo 2005, in cui stima la
penuria di 30 milioni di insegnanti nel mondo per arrivare a garantire l’educazione
primaria a tutti entro il 201521.
20
Articolo apparso in Global Migration Perspectives No. 32, April 2005 “Déterminants, enjeux
et perceptions des migrations scientifiques internationales africaines: le Senegal” di Ibrahima Amadou
Dia.
21 Bullettin de l’éducation aujourd’hui Janvier-Mars 2005 Unesco. «Recherche profs désespérément».
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• L’insufficienza di insegnanti colpisce molto l’Africa sub-sahariana, i giovani
non vogliono fare gli insegnanti perché la ritengono una professione mal pagata e
difficile, queste motivazioni sono comuni per i giovani del Nord e del Sud del
mondo.
• In Africa, in aggiunta, c’è un nemico più forte che decima il corpo insegnante, è l’Aids. In Zambia ad esempio sono morti a causa dell’aids nell’anno 2000,
815 insegnanti che rappresentavano il 45% degli insegnanti che si erano formati in
quell’anno22.
Il rapporto dell’UNESCO
• Il rapporto dell’Unesco rileva che l’Africa subsahariana vive un “doppio paradosso” e cioè, che “gli istituti di insegnamento superiore dei paesi in via di sviluppo impegnano le loro esigue risorse economiche per formare delle persone che partiranno per i paesi sviluppati, o che, se resteranno, si ritroveranno disoccupati”23.
Tra i principali ostacoli all’aumento degli effettivi di insegnanti ci sono: la formazione e i salari. Molti paesi a causa delle richieste degli organismi internazionali di
contenere il debito pubblico, hanno ridotto sensibilmente l’impegno economico
nel settore della formazione.
• Questo ha provocato un abbassamento del livello di formazione degli insegnanti, in Senegal, ad esempio, prima del 1995 gli insegnanti della scuola primaria
avevano il livello di formazione del sistema francese.
A seguito dei drastici tagli nel bilancio per la scuola, il ministero dell’Istruzione
ha abbassato il livello di formazione degli insegnanti e ha cominciato ad impiegare
degli insegnanti a costo ridotto. Il livello dell’insegnamento in generale si è abbassato, i maestri non si vogliono spostare nelle campagne, dove è maggiore il bisogno
e molti emigrano. L’esempio del Senegal è molto simile a quello di tanti altri paesi
africani, quali il Malawi, il Mali, il Burkina Faso.
La fuga degli insegnanti
• La fuga dei cervelli nel settore scientifico coinvolge anche gli insegnanti universitari, i quali preferiscono riparare all’estero piuttosto che rimanere nei loro paesi.
22
Bullettin de l’éducation aujourd’hui, Janvier-Mars 2005, Unesco. «Recherche profs désespéré-
ment».
23
122
«Les diplomés fuient l’Afrique» Bullettin de l’Éducation aujourd’hui, Mars 2005, Unesco.
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Tra il 1991 e il 2002 sono emigrati 72 professori universitari che esercitavano
all’Università di Dakar, il fenomeno ha coinvolto varie facoltà in particolare le facoltà di medicina, farmacia, e in modo consistente la facoltà di matematica24.
• Anche qui le cause che spingono all’emigrazione sono varie, le università
africane spesso si devono confrontare con squilibri strutturali e congiunturali, da
una parte la formazione è inadeguata rispetto alle preoccupazioni di sviluppo concreto dei contesti nazionali. D’altra parte c’è il problema della mancanza di materiale didattico, gli scioperi ciclici, la demotivazione degli insegnanti, la questione
delle libertà accademiche, etc. In queste difficoltà si inserisce il crescente bisogno
di mano d’opera altamente qualificata dei paesi ricchi. In ogni caso tra le motivazioni principali che spingono ad emigrare i professori universitari c’è la ricerca di
migliori condizioni di vita e di lavoro.
L’attrazione dei paesi sviluppati
• I paesi a sviluppo avanzato, da vari anni stanno attuando delle politiche di
attrazione di personale altamente qualificato, con programmi che favoriscono e facilitano al massimo l’ingresso nei loro territori. La penuria di tecnici, medici, ingegneri coinvolge i paesi del nord che cercano in maniera attiva il personale già formato o che è in corso di formazione, ad esempio gli studenti universitari.
Molti paesi facilitano il rilascio dei visti per motivi di studio e concedono borse
di studio per completare gli studi.
• Le grande industrie internazionali hanno da tempo compreso che la carenza
di personale altamente specializzato provoca un abbassamento del livello di competitività economica e per questo hanno iniziato un reclutamento di quadri qualificati. “La selezione delle migliori teste risponde a una strategia di sviluppo del capitale umano, di rilancio dell’economia e di massimizzazione dei costi di opportunità. Il reclutamento dei quadri qualificati si giustifica con il bisogno crescente di
materia grigia”25. I beneficiari maggiori della “fuga dei cervelli” sono i paesi a sviluppo avanzato, per differenti motivi; si rivitalizza la società a livello demografico e
sociale, si rende competitivo a livello economico il paese cosiddetto di “accoglienza”, si cresce culturalmente ed economicamente.
24 Articolo pubblicato in Global Migration Perspectives N. 32 April 2005 “Déterminants, enjeux
et perceptions des migrations scientifiques internationales africaines: le Senegal” di Ibrahima Amadou
Dia.
25 Salt John, 1997. International Movements of the highly skilled n° 91 Paris vol.5.
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Daniela Pompei
Il divario Nord-Sud
• Il rischio maggiore in tutto questo movimento è l’evidente aumento del fossato di separazione tra i paesi del nord ricco e i paesi del sud povero. Per l’Africa
sub-sahariana l’emigrazione di cervelli è sicuramente un notevole impoverimento.
Mentre per alcuni paesi asiatici, India- Cina, l’emigrazione dei cervelli sta provocando un movimento circolare di ritorno economico- sociale e culturale anche per
i paesi di partenza, questo non avviene per l’Africa.
• In conclusione, vari autori da qualche anno auspicano un ritorno economico
da parte dei paesi a sviluppo avanzato di fondi per compensare la fuga dei cervelli,
questa soluzione è resa aleatoria dall’assenza di una legislazione internazionale vincolante26.
Abbiamo visto come gli aiuti pubblici allo sviluppo diminuiscano anziché aumentare, spesso sono poco vincolati a garantire la salute e l’istruzione dei paesi di
partenza degli immigrati.
• Si rende necessario uno sforzo maggiore da parte dei paesi ricchi per sostenere e non abbandonare i paesi poveri, questo non è solo un imperativo morale
ma si rende necessario per la sopravvivenza sia dei paesi ricchi che dei paesi in
difficoltà.
Il serbatoio di persone qualificate dove molti paesi occidentali attingono potrebbe esaurirsi del tutto, e non si ricostituisce in tempi brevi. L’Europa e il
Nord-America rischierebbero di rimanere senza “quella materia grigia” di cui
hanno bisogno. Non tutto si può sostituire con l’Asia, forse anche solo “egoisticamente” i paesi europei dovrebbero rivolgersi verso l’Africa e rinsaldare in maniera stabile il legame che c’è tra l’Europa e l’Africa.
26 Tesi
sostenuta da D. Frommel in «Le Monde diplomatique» aprile 2002, Quando il nord è curato dai medici del sud.
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Gli intellettuali africani
di fronte alla storia
In Africa, la parola intellettuale si confonde con quella
di scrittore. I nostri primi studenti, che diventeranno
più tardi i nostri padri letterari, sono anche i nostri
padri politici e i nostri militanti per i diritti umani.
Paul Ricoeur illustra bene questo nesso nella prefazione dedicata nel 1985 a un saggio sugli scrittori della
“Negritudine”, quando scrive: «In loro, il sogno fa da
appiglio diretto all’azione e la letteratura diventa subito un’arma da combattimento, per cui, in loro, interpretare poeticamente il mondo non si oppone più a
“cambiarlo” politicamente, secondo la famosa XI tesi
su Feuerbach»1.
• Vera e propria letteratura minore nel senso in cui l’intendono Gilles Déleuze e Félix Guattari, la letteratura negro-africana è nata in un contesto di dominio, sotto il segno
della “militanza”. Ossessionata dal senso del destino collettivo, si propone di liberare il nero dall’alienazione coloniale e
riabilitare la “civiltà negra”. Rifiuta fin dalla sua genesi di
dissociare l’estetica dall’etica. Presa di parola, riscrittura,
riappropriazione identitaria, manifesto letterario, la “Negritudine” è innanzi tutto un atto di violenza simbolica. Convinti di dover lavare l’obbrobrio di cui i negri sono stati per
lungo tempo vittime, i poeti della “Negritudine” vogliono
fare della loro poesia un’arma miracolosa. Ecco perché Léon
Gontran Damas intende recuperare in Pigments (1937) le
sue bambole nere confiscate dalla storia; ecco perché Léopold Sedar Senghor riabilita in Chants d’ombre il fantaccino
BONIFACE MONGO
MBOUSSA
Scrittore,
Columbia University,
Parigi
≈
“Nella seconda
metà del secolo
scorso,
la letteratura
ha svolto un suo
ruolo
nel continente
africano,
il medesimo ruolo
esercitato dagli
scrittori illuministi
in Francia”
≈
1 P. Ricoeur, Prefazione al saggio di C. Souffrant, Réligion et développement chez Jacques Roumain, Jacques Stephen Alexis et Langhston Hugues,
N.E.A., 1985.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
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Boniface Mongo Mboussa
senegalese (questo incompreso della Repubblica francese) e innalza la donna nera,
da oggetto esotico che era, a oggetto erotico. Dal canto suo, Aimé Césaire inventa
con il Cahier de retour au pays natal le Antille moderne. Gli scrittori africani producono, parallelamente ai testi letterari, discorsi su ciò che deve essere il ruolo della
letteratura negro-africana di fronte alle proprie responsabilità storiche. Il testo emblematico, in tal senso, rimane la critica violenta di Mongo Béti contro il guineano
Camara Laye, che ha da poco pubblicato L’enfant noir (1953). Mongo Béti gli rimprovera di scrivere letteratura rosa in Africa nera, invece di combattere il colonialismo. “Laye chiude ostinatamente gli occhi sulle realtà più cruciali. Quelle, per
l’appunto, che ci si è sempre guardati dal rivelare al pubblico africano. Questo guineano che fu, a quanto ci lascia intendere, un ragazzo assai vivace, non ha dunque
visto null’altro se non un’Africa pacifica, bella, naturale? È possibile che mai una
volta Laye sia stato testimone di una piccola prepotenza dell’amministrazione coloniale?”2.
Al cuore dell’impegno
• Colmo dell’ironia, Mongo Béti stesso, dopo aver pubblicato due romanzi
impegnati, e precisamente Ville cruelle (1956), in cui denuncia lo sfruttamento dei
contadini camerunesi, venditori di cacao, da parte dei commercianti greci, e Le
pauvre Christ de Bomba (1956), in cui stigmatizza l’azione dei missionari francesi
nel Camerun, produce un romanzo picaresco, Mission terminée (1958), che descrive le avventure di un giovane liceale nelle campagne camerunesi. Sarà seccamente
stigmatizzato (e rimandato ai suoi studi letterari) dal poeta senegalese David Diop:
questi gli fa sapere che sono altre le missioni da portare a termine: “Portiamo tutti
in noi il ricordo dell’ammirevole Ville cruelle, un romanzo breve ed incisivo che
metteva in piena luce i sanguinosi retroscena del colonialismo nel Camerun […].
Tutto, in quel romanzo, ne faceva uno strumento di lotta contro la situazione coloniale, lo stile teso, i dialoghi in cui si precisavano poco a poco i caratteri dei personaggi, il concatenarsi spietato dei fatti. Non ci si deve stupire che tale testimonianza ci abbia lasciato un’impressione più duratura di Mission termine. Alcuni non
mancheranno di accusarci di ossessione anticolonialista. Ma come, si dirà, un romanziere africano, per meritare le nostre lodi, deve sistematicamente prendersela
con il fatto coloniale? Certamente no. Duecento pagine di generosa indignazione
non costituiscono necessariamente un buon romanzo e raramente raggiungono lo
scopo. Ma non ci si chieda di dichiararci incondizionatamente soddisfatti di un libro di cui, a lettura terminata, ci rimane tutt’al più un vago sorriso […]. Quale
può essere il suo impatto, quando intorno a noi in Africa tanti gravi eventi solleci2
126
A. Bifidi, “L’enfant noir”, «Présence africane», n° 16, 1954, p. 420.
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Boniface Mongo Mboussa
tano la nostra attenzione? Non pensiamo che sia ingiustificato chiederci di essere
testimoni attivi di tali eventi. Ecco perché consideriamo l’ultimo romanzo di Mongo Béti come la piacevole vacanza di un autore che apprezziamo e che ha ben altre
missioni da compiere”3.
Si potrebbe, nello stesso ordine d’idee, rievocare il dibattito organizzato nel
1956 dalla rivista «Présence Africaine» sulla poesia nazionale, in cui si contrapposero da un lato Aragon e Depestre, sostenitori delle forme tradizionali della versificazione francese e, dall’altro, David Diop, Senghor e Césaire che propugnavano l’emancipazione poetica.
Il memorabile festival di Algeri 1969
• Sul piano continentale, la questione dell’impegno opporrà il movimento
della “Negritudine” alla delegazione congolese durante il festival di Algeri del
1969. Anche lì, si assisterà ad un ironico scherzo del destino. Léopold Sédar Senghor, dopo aver fatto sapere a Mongo Béti che gli scopi dell’arte e quelli della lotta
erano incompatibili, è lui stesso interpellato dagli scrittori congolesi. Questi ultimi
rigettano le sue teorie estetiche. «Il pericolo più grave che presenta la “Negritudine” è che essa costituisce, per gli scrittori neri, una forza inibitrice dell’attività creativa. Se non spinge al tipo di letteratura denunciata da David Diop, conduce ad un
conformismo dello stile e del contenuto altrettanto dannosi per la vitalità culturale
quanto tutte le pastoie di ordine morale o altro, come ha scritto il poeta J.B. TatiLoutard…»4. Tale discorso ha un merito: volta le spalle alla letteratura negra e
inaugura l’era delle letterature nazionali. Soprattutto, mette in moto un’alchimia
tra potere politico congolese [di Brazzaville, ndt] e scrittori. Al potere, che si pretende marxista, il festival del 69 offre una tribuna per istruire il processo contro il
socialismo africano senghoriano; per gli scrittori, rappresenta un ambito ideale per
affrancarsi dall’estetica della “Negritudine”, divenuta troppo ingombrante a causa
del discorso essenzialista di Senghor sull’anima negra. Finisce così tale complicità.
Del resto, gli scrittori si guardano bene dall’adottare il realismo socialista, né qualsivoglia altra dottrina in sostituzione. Anzi, rivendicano la libertà del creatore, tessono una solidarietà intergenerazionale e una complicità fra scrittori. Approccio
che non resiste alla critica di Emmanuel Donala. Fra tutti gli scrittori congolesi, si
tratta di quello che ha saputo fra i primi tracciare una linea di demarcazione fra il
campo politico e quello letterario. Assente dal festival di Algeri (era ancora studen3 E. Dongala, “Littérature et société: ce que je crois” citato da K. Anyinefa in Littérature et politique
en Afrique noire. Socialisme et dictature comme thèmes du roman africani d’expression française”, Bayreuth, «African studies», 19/20, p. 32.
4 Discorso della delegazione della Repubblica del Congo Brazzaville ad Algeri, 1969.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
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Boniface Mongo Mboussa
te), rimprovera successivamente ai suoi colleghi il loro posizionamento ambiguo
rispetto al potere politico. “Per un congolese che scrive, la realtà fondamentale è
quella di vivere in una società altamente politicizzata, con un partito unico, la cui
ideologia ufficiale è il marxismo-leninismo, dove la parola d’ordine è Rivoluzione.
Discutere della tappa attuale della letteratura congolese senza prendere in considerazione tale fattore, equivale a fare la politica del leggendario struzzo”5.
Unendo i fatti alle parole, Donala pubblica tre anni più tardi una raccolta di
novelle, Jazz et vin de palme, (1982), che stigmatizza fra l’altro la demagogia delle
élite, il loro opportunismo, la loro arroganza, in particolare nei confronti dei contadini. Nel racconto Le procès du père Likibi, mette in scena un contadino accusato
di stregoneria da parte di un pavido giudice marxista. L’interrogativo posto dall’autore riguarda non tanto la critica del potere marxista, quanto l’incapacità dell’intellettuale che si picca di marxismo di pensare il Congo-Brazzaville, di produrre cioè
una sintesi non indigesta fra un’ideologia nata in un contesto socio-storico diverso
e la realtà nazionale dove si accavallano numerose società.
L’esilio o la tomba
• Lasciamo il Congo per lo spazio panafricano, in cui Ahmadou Kourouma
descrive nel suo celebre romanzo Les soleils des indépendances (1968), ciò che chiamerei l’Africa grigia. Da un lato, un’Africa romantica che si sazia della propria
grandezza precoloniale attraverso il personaggio di Fama; dall’altro, un’Africa nuova, sterile, incarnata dai nuovi dirigenti. Compiacersi di un’Africa precoloniale gloriosa, ci dice Kourouma, è una follia; credere nell’Africa indipendente, prospera, è
una chimera. Tutto il suo discorso mira a dimostrare quanto il continente sia, nel
momento in cui scrive questo romanzo, una sorta di bateau îvre di rimbaldiana
memoria. L’esempio della Guinea di Sékou Touré è in tal senso un caso limite, con
ciò che presuppone di sventure, esilio, peregrinazioni, decapitazione delle élite.
Anche qui, gli scrittori sono stati i soli a meditare, tradurre e far vedere quest’Africa
del Pleurer-Rire, del “Ridere piangendo”, per riprendere la bella espressione di
Henri Lopes. Ciò fa sì che non ci si accontenti più a denunciare la delusione delle
indipendenze, per prendersela direttamente con i dittatori considerati d’ora innanzi come i principali responsabili dello sfascio delle società africane indipendenti. Si
assiste quindi, nella maggior parte dei romanzi pubblicati nel decennio degli anni
’80, a ciò che Georges Balandier chiama la “messa in scena del potere”. Basta osservare i titoli dei romanzi pubblicati in questo periodo, per convincersene. In termi5 E. Donala, “Littérature et société: ce que je crois” citato da K. Anyinefa in Littérature et politique en
Afrique noire. Socialisme et dictature comme thèmes du roman africani d’expression française” Bayreuth,
«African studies», 19/20, p. 32.
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Boniface Mongo Mboussa
ni espliciti gli autori si impegnano nella denuncia delle dittature e dei loro regimi.
È, ad esempio, il caso del romanzo Cercle des tropiques (1977) del guineano Alioum
Fantouré, di Le dernier de l’Empire di Sembene Ousmane (1982), di L’ex-père de la
nation della sua compatriota Aminata Sow Fall (1987), o ancora del Pleurer-Rire di
Henri Lopes (1982).
Ma è probabilmente Sony Labou Tansi che inaugura nel 1979, con il suo romanzo La vie et demie questa critica dei poteri totalitari, adottando una scrittura
carnevalesca. Ed è lui, ancora una volta, che reintroduce la nozione di impegno nel
dibattito letterario, sostituendo allo “scrittore impegnato” ciò che lui chiama “un
uomo che si impegna”. Opera così un distinguo fecondo poiché mostra chiaramente che si può essere insensibili all’impegno nello scrivere ed essere impegnati in
quanto cittadini. Molto si è disquisito sulla “innovazione romanzesca” introdotta
da questo scrittore attorno agli anni ’80 nella letteratura africana. Meno è stato
scritto sul discorso che egli svolge nelle prefazioni. Eppure, le numerose “battute”
contenute nelle annotazioni che accompagnano i suoi libri fungono da manifesto e
hanno aperto gli occhi ai giovani scrittori, che si presentano d’ora innanzi come
degli “ibridi internazionali”, meno segnati dalla storia africana. Resta il fatto che il
periodo in cui questi giovani scrittori tentano di rivendicare l’autonomia dell’arte
coincide con il sopraggiungere del genocidio rwandese.
Rwanda 1994: scrivere per dovere di memoria e le sue conseguenze.
• È il momento in cui il senegalese Boubacar Boris Diop riporta alla ribalta
l’impegno. Fra tutti gli scrittori che hanno partecipato alle Giornate di Scrittura
(“Résidence d’Écriture”) intitolate “Rwanda 1994: scrivere per dovere di memoria”
e volute dallo scrittore ciadiano Nocky Djedanoum con l’associazione Fest’Africa,
Boris Diop è il più segnato dal soggiorno in Rwanda che ha costituito una vera rivelazione e una via crucis: “Come la maggior parte degli intellettuali della mia generazione – scrive – dopo essere stato abbastanza vicino al movimento maoista, ero
giunto al punto di non osare nemmeno più criticare il neocolonialismo. Il comunismo era morto e improvvisamente era divenuto retrivo parlare di tutte quelle cose;
ho appreso con il genocidio che la sola cosa veramente importante oggi per un intellettuale africano è riflettere sull’influsso – spesso terribilmente funesto – degli
interessi stranieri sul continente”6. Da allora, Boubacar Boris Diop s’interroga incessantemente sui rapporti centro/periferia, sulla “Françafrique”, sul ruolo dello
scrittore nelle Afriche violente, sul posto delle lingue nazionali nel processo creativo in Africa. È in tale contesto che sorprende tutti nel 2003 pubblicando in Senegal per la casa editrice Papyrus un romanzo in wolof: Doomi Golo (i piccoli della
6
Cfr. «Africultures» n° 30, Rwanda 2000, mémoires d’avenir, p. 16.
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Boniface Mongo Mboussa
scimmia femmina), dedicato alla questione della trasmissione. Procedendo così,
Boris Boubacar Diop intenta, di fatto, un processo alla “Françafrique” e alle sue
conseguenze in Africa. Al tempo stesso prende posizione in un dibattito interno al
Senegal, che consiste nel chiedersi quale dei due (fra Léopold Sédar Senghor, cantore della francofonia, di cui si celebra attualmente il centenario della nascita, e
Cheick Anta Diop, autore di Nations Nègres et cultures (1967), difensore delle lingue africane e padre, suo malgrado, dell’Afrocentrismo) sia stato il miglior liberatore dell’Africa. Anzi, tale lotta si inserisce in un contesto panafricano in cui Boris
Diop prolunga il lavoro avviato in Kenya dallo scrittore Ngugui Wa Thiongo, che,
molto prima di lui, fin dagli anni ’80, aveva deciso di non scrivere più in inglese…
In questa stessa prospettiva potrebbe situarsi il lavoro e l’impegno della saggista
Aminata Traoré, ex ministra della Cultura del Mali, la quale, libro su libro, istruisce il processo della globalizzazione diseguale e nefasta per il continente, della violazione del suo immaginario, e denuncia il ruolo della “Françafrique” nel conflitto
della Costa d’Avorio. Aminata Traoré è anche parte del movimento no-global. Ha
da poco accolto nel suo paese, nel gennaio 2006, il primo vertice africano di tale
movimento che si adopera per una diversa globalizzazione.
Implicito all’epoca dell’operazione “Rwanda 1994: scrivere per dovere di memoria”, l’impegno è rivendicato dall’associazione Fest’Africa nel 2003, in occasione di un nuovo congresso degli scrittori dell’Africa e delle sue diaspore a N’Djamena (Ciad). Il merito del festival è di aver ridefinito i punti fermi di tale dibattito,
nel momento in cui il continente attraversa uno dei periodi più bui della sua storia. Tale impegno si manifesta negli ultimi libri di Ahmadou Kourouma. Interpellato dai bambini nel 1998 a Gibuti sull’assordante silenzio degli scrittori africani a
proposito dei bambini soldati, Ahmadou Kourouma raccoglie la sfida e pubblica
due anni dopo Allah n’est pas obligé (2000), un romanzo picaresco che descrive la
vita errabonda di Birama, bambino-soldato, che raggiunge sua zia in Sierra Leone
e, strada facendo, semina morte e terrore.
Miseria e nobiltà dei bambini soldato
• Se, dal punto di vista letterario, Allah n’est pas obligé non è il miglior romanzo di Ahmadou Kourouma, è però quello in cui appare con più forza la sua principale ossessione: l’incapacità del linguaggio di esprimere appieno la disperazione
dell’Africa. Mettendo in mano al suo eroe, Birama, tre dizionari per descrivere le
sue “prodezze” di bambino-soldato nelle guerre etniche in Liberia e in Sierra Leone, Ahmadou Kourouma non denuncia soltanto il nostro “ground zero” dell’inettitudine; egli ci invita anche a riflettere sull’incapacità del linguaggio a formulare il
pensiero del male. È forse in seguito a tale constatazione che sceglie la testimonianza come modo di espressione nel suo testo postumo, Quand on refuse on dit non
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Boniface Mongo Mboussa
(2005), per evocare l’orrore della guerra civile in Costa d’Avorio. Concepito come
seguito di Allah n’est pas obligé, questa testimonianza descrive il ritorno in Costa
d’Avorio di Birama. Smobilitato dopo la guerra di Liberia, vive ormai a Daloa [Costa d’Avorio], dove esercita il mestiere di imbonitore per una compagnia di taxi locali. È peraltro follemente innamorato di Fanta. Quando scoppia la guerra, la bella
Fanta fugge verso nord. Da buon cavaliere, Birahima (così ora si fa chiamare) si
porta volontario per farle da guardia del corpo. Strada facendo, la ragazza gli racconta la storia della Costa d’Avorio, dalle origini ai giorni nostri. Appassionato di
storia, ossessionato dalla problematica della memoria, Ahmadou Kourouma era assillato dalla questione della trasmissione, dell’educazione e perciò dell’infanzia, in
un continente dove i cosiddetti bambini di strada, abbandonati a se stessi, tentano
con ogni mezzo di sopravvivere, a costo di lasciarsi dietro cadaveri, come lo si vede
con i bambini-soldato, o anche di “suicidarsi”, come testimoniato dalla triste sorte
dei due giovani guineani Yaguine e Fodé, morti per congelamento nella stiva di un
aereo nel tentativo di raggiungere l’Europa.
In memoria di Yaguine e Fodé
• Questa vergogna africana ha ispirato al drammaturgo togolese Kangni Alem
una commedia, Atterrissage (2004), e indotto lo scrittore congolese Emmanuel
Donala a scrivere: “In questo continente martoriato e disperato, noi abbiamo il dovere di far sognare gli Yaguine e Fodé, di far sì che la gioventù tradita dalla politica
non perda la speranza e che sappia che la vita non è solo fame, malattia, povertà,
guerra e uomini politici che si comportano da capi milizia”7. Sensibile alla triste
condizione degli umiliati e offesi, Emmanuel Donala ha già celebrato in Jazz et vin
de palme (1985) il coraggio dei commercianti congolesi alle prese con la burocrazia
tropicale ed esposto al pubblico ludibrio la mediocrità dei marxisti congolesi. Ecco
perché sta al fianco di Ahmadou Kourouma, così sensibile alla violenza dei bambini-soldato. Senza essere verbalmente truculento come Allah n’est pas obligé, il suo
ultimo romanzo, Johnny chien méchant (2001), possiede una seduzione e una forza
tutte sue. Ahmadou Kourouma mette in scena un bambino. Donala si serve di due
adolescenti, di quattro occhi per così dire, per delineare i contorni della bestia immonda, la cancrena africana. Il duplice sguardo gli permette di costruire il suo libro come una fuga musicale, alternando due racconti: quello del carnefice Johnny
e quello della sua vittima, Laokolé. Segno dei tempi: ieri, Mongo Beti e Ferdinand
Oyono si servivano della spensieratezza dell’adolescenza per processare il colonialismo; oggi, Ahmadou Kourouma, Kangni Alem e Emmanuel Donala si appropriano dell’innocenza dell’infanzia per descrivere la deliquescenza dell’Africa.
7
K. Alem, “Atterrissage”, Postfazione di E. Donala, Parigi, Ndze, 2002, p. 63.
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Boniface Mongo Mboussa
Verso una conclusione
• Piuttosto che celebrare l’Africa eterna, piuttosto che crogiolarsi in un sempiterno vittimismo, la letteratura africana ha rivendicato con lucidità ciò che JeanMarie Rouart chiama “la nobiltà dei vinti”. Ha mostrato a che punto il continente
abbia un’enorme responsabilità nelle proprie disgrazie. Soprattutto: è stata la sola
voce africana a farsi udire sul genocidio del Rwanda.
A conti fatti, si può dire che nella seconda metà del secolo scorso, la letteratura
africana abbia svolto un suo ruolo nel continente africano, il medesimo esercitato
dagli scrittori illuministi in Francia: stigmatizzare le malefatte del colonialismo,
l’oppressione della donna, le dittature deliranti, le élite corrotte, le guerre etniche,
il sacrificio dei bambini.
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Élites intellettuali e sviluppo in Africa
Più di quattro decenni sono trascorsi dalle Indipendenze africane (anni Sessanta), e l’Africa nel suo insieme, con la rilevante eccezione del Sudafrica, è considerata come un continente sottosviluppato.
• Il sottosviluppo dei paesi africani si manifesta principalmente nella precarietà economica che giunge a compromettere la vita stessa delle persone, al di là della loro salute,
istruzione o alimentazione. I segni del sottosviluppo, secondo la maggior parte degli autori, si leggono in vari settori e a livelli diversi, all’interno dei singoli paesi ma anche
da un paese all’altro. Il vocabolo “sottosviluppo” prende
senso raffrontato sia alle situazioni interne dei paesi dell’Africa (incapacità degli africani di soddisfare in modo corretto ed autonomo i propri bisogni, iato fra la demografia
galoppante, le risorse disponibili, e la qualità ideale della
vita), che alle esigenze esterne al continente. L’Africa è sottosviluppata rispetto all’Europa, all’America, all’Asia1, ai
continenti in cui, più che altrove, la scienza e la tecnica
hanno sostenuto lo sforzo di migliorare le condizioni generali di esistenza. È vero che si possono ritrovare spazi e forme di miseria anche nei cosiddetti continenti sviluppati,
ma mentre in essi la povertà è residuale, locale o marginale,
nel continente africano è un fenomeno di massa. Da noi è
piuttosto la ricchezza ad essere limitata a questa o quella
classe sociale, questo o quello Stato, questa o quella parte
del continente. L’Africa subsahariana detiene il triste pri-
ROBERT DUSSEY
Università di Lomé,
Togo
≈
“Lo stato attuale
dell’Africa impone
all’élite
intellettuale
africana di fare
un bilancio sereno
dell’indipendenza
a fronte delle
realtà mondiali
attuali...”
≈
1“Et
si l’Afrique refusait le développement?”, p. 177. Per far uscire gli
Africani da ogni titubanza identitaria, Axelle Kabou indica l’esempio del
Giappone che avrebbe intelligentemente dato prova di un “rimarchevole
opportunismo scientifico” benefico alla sua economia, invece di lasciarsi
andare a elucubrazioni identitarie.
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Robert Dussey
mato della precarietà di massa. Il sottosviluppo dell’Africa non è un mito, esso è
una realtà che gli intellettuali non devono dissimularsi. Il nostro continente appare davvero in un vicolo cieco, non vive, bensì vivacchia tra la scarsità di beni,
l’imperizia dei suoi figli tanto nella produzione che nella gestione e la ripartizione dei beni stessi, le catastrofi sanitarie, la scarsa o scadente scolarizzazione, conflitti intra-nazionali e internazionali che sanno d’altri tempi. I paesi africani o sono poveri di risorse naturali, o di risorse umane o in termini di visione/capacità
politica.
Lo stato attuale dell’Africa impone all’élite intellettuale africana di fare un bilancio sereno dell’indipendenza a confronto con le realtà mondiali di oggi.
Il ruolo dell’intellettuale
• Con la riflessione come principale attività, l’intellettuale è colui che pensa
o diffonde il pensiero. La sua missione gli comanda di operare per una migliore
conoscenza della realtà, alla luce della società in cui vive. Tale è il compito svolto dagli intellettuali in Europa o negli Stati Uniti. Sullo scacchiere mondiale:
“l’Africa concentra l’80% dei paesi con un basso indice di sviluppo umano (HDI),
33 dei Paesi Meno Avanzati (PMA) su 38, ovvero il 45% della popolazione e il
17% del PIL di questo gruppo. A tutti questi indici si aggiunge una nuova definizione appositamente coniata per il continente: quella di Paesi Poveri Molto Indebitati (HIPC). Si tratta dei paesi il cui reddito medio pro capite è di 300 dollari US o
meno, in calo del 25% tra il 1988 e il 1990, e fra i quali trentatré (33) sono africani”.
• La missione dell’intellettuale africano consiste nell’informarsi sulle realtà del
mondo allo scopo di operare per il risveglio delle coscienze e la modernizzazione
industriale delle società africane. Dobbiamo riconoscere l’insuccesso palese di quarant’anni di politiche per lo sviluppo in Africa attraverso la cooperazione multilaterale. In una situazione di crisi generalizzata, l’Africa ha bisogno di una profonda
riforma intellettuale e morale, prima ancora di qualsiasi progetto di sviluppo basato sull’industrializzazione.
L’Africa nel mondo
• Dalle indipendenze in poi, il posto dell’Africa è lungi dall’essere invidiabile.
Il continente comprende quasi 800 milioni di abitanti su più di 6 miliardi. Le pratiche africane in materia di sviluppo manifestano un certo numero di problemi:
dall’assenza di una vera politica di sviluppo (messa a nudo dalle derive etniche o re-
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Robert Dussey
gionaliste della politica) alla cattiva qualità2 delle politiche attuate, fino alla questione della quantità e della qualità delle risorse umane locali necessarie per l’azione
di sviluppo. Ciò che da noi viene chiamato “sviluppo” spesso si presenta come una
serie di iniziative non concertate, risolutamente solitarie, su scala nazionale, regionale o continentale, attraverso le quali ciascuno, nel luogo dove si trova e proporzionatamente al proprio potere finanziario e sociale, agisce per produrre e accumulare beni e servizi in misura più o meno grande, al fine di assicurare per qualche
tempo il proprio destino o quello della propria etnia di origine, della propria classe
politica, ad esclusione di chiunque altro. Se e dove sono esistite politiche vere e
proprie (visioni che abbracciassero tutte le componenti etniche, provinciali, regionali, almeno su scala nazionale), esse non sono durate abbastanza da poter portare
frutti significativi, a motivo di una successione quasi ininterrotta di disordini politici che manifestavano una certa immaturità politica3 o, peggio ancora, una totale
incomprensione africana di ciò che è la politica.
• Nonostante alcune esperienze interessanti in materia di democrazia realizzate negli ultimi anni in Africa (Benin, Ghana, Namibia, Mali per esempio), bisogna
dire che non siamo definitivamente al riparo dalla dittatura, dai disordini politici,
dal regionalismo, dal tribalismo. L’Africa è un continente in cui si “vive altrove”,
con gli occhi, la testa, il cuore e il ventre rivolti verso l’Occidente, che è divenuto in
tal modo una sorta di “padre nostro che sei al nord”. Noi africani siamo come orfani dello sviluppo, di cui peraltro non ci facciamo – per non averlo ancora sperimentato – che una visione incompleta e soggettiva. Mentre il sottosviluppo si manifesta ai nostri occhi in maniera quotidiana, lo sviluppo rimane dal canto suo una
nebulosa, per popolazioni massicciamente analfabete e per élite raramente preoccupate del bene comune.
Il mondo al capezzale dell’Africa
• Di fronte a tale situazione, il mondo accorre al capezzale dell’Africa, considerata come una paziente in attesa di una medicina. Agli albori delle Indipendenze,
2
Axelle Kabou riteneva vi fossero buoni motivi per non salvare l’OUA, sostenendo che questa organizzazione su scala continentale era partita male fin dalla sua creazione, in quanto condizionata da
numerosi intrighi, dalla megalomania degli uni e la viltà degli altri, la vigliaccheria, la cecità e l’incoerenza delle élites (intellettuali e politiche) (cfr. op. cit., capitolo XVI, pp. 187-202).
3 «Dovunque in Africa si nota l’assenza crudele di un progetto coerente di società, di idee nuove.
Emerge solamente da questa inerzia organizzata un’ambizione crepuscolare: restare sé stessi a qualunque costo» in op. cit., p. 140. Qui, ciò che viene stigmatizzato è allo stesso tempo la negritudine come
ideologia e la politica culturale della “autenticità” iniziata e promossa chiassosamente dal defunto Generale J. Mobutu.
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Robert Dussey
sono stati perciò esportati verso l’Africa modelli di sviluppo contraddittori, a seconda che ci si situasse sul lato orientale o occidentale del Muro di Berlino. Tale
concorrenza si è ripercossa sulle ex aree coloniali, fino a riprodurre su scala mondiale i travagli della guerra fredda. Tale concorrenza mondiale “africanizzata” ha
largamente compromesso la possibilità di un’unità effettiva ed efficiente dei paesi
africani in materia di sviluppo. Contro la ferita storica della balcanizzazione4 dell’Africa, alcuni intellettuali africani hanno levato la propria voce e proposto alternative. Voglio parlare qui di tutti i movimenti5 politici e ideologici fondati sull’idea che la sfida del nostro continente all’indomani delle Indipendenze fosse quella
dell’unità nazionale da un lato e dell’unità africana dall’altro.
La natura dei mali da curare
• Malgrado le notevoli incoerenze e incongruenze delle loro opzioni e dei loro
comportamenti in materia di sviluppo, gli africani stessi sembrano alla ricerca dei
mezzi per risolvere i problemi. Ma la ricerca di soluzioni riposa su letture spesso
contraddittorie del male da curare. Gli intellettuali africani hanno spesso presentato la situazione africana come la risultante di un passato ancora dolorosamente
presente: la schiavitù, la colonizzazione, il neo-colonialismo e più recentemente la
globalizzazione, giudicata come una strategia commerciale ad unico vantaggio dei
paesi ricchi. Molti Africani considerano che lo sviluppo del loro paese sia stato
ostacolato per non dire compromesso da ciò che si potrebbe chiamare la “furbizia”
dell’Occidente, causa principale del male africano. Coloro che ricorrono a questo
tipo di ragioni per spiegare il male africano esigono o si aspettano che l’Europa riconosca la propria responsabilità6 nella castrazione storica subita dal continente.
Tale riconoscimento sarebbe, secondo costoro, un primo passo verso l’impegno a
4 Il “panafricanismo”, gli “Stati Uniti d’Africa”, la “Negritudine”, l’“Organizzazione dell’Unità
Africana” e più recentemente l’“Unione Africana” sono espressione della presa di coscienza africana della imperiosa necessità di uscire da una polverizzazione del continente africano provocata e intrattenuta
dalle potenze coloniali. Nel suo recente volume “À quand l’Afrique?” Joseph Ki Zerbo postula, sulla scia
dei padri del panafricanismo, che “la liberazione dell’Africa sarà panafricana o non sarà affatto”.
5 Cfr. N’Krumah, “le Consciencisme”, «Présence Africaine», Parigi 1976, o ancora C.A. Diop in
“Nations nègres et culture”, «Présence Africaine», Parigi 1976, “Civilisation ou barbarie? Anthropologie
sans complaisance”, «Présence Africaine», Parigi 1981, “Antériorité des civilisations nègres: mythe ou vérité historique?”, «Présence Africaine», Parigi, 1974.
6 Più recentemente, durante il Vertice di Durban, nella scia della lotta per l’annullamento del debito dei paesi del Sud, è stata suggerita una sorta di “Piano Marshall”, quasi a pagamento di un “debito” contratto dalle vecchie potenze coloniali verso l’Africa, ma in tale materia non c’è accordo né fra le
potenze occidentali né fra i paesi africani stessi. Per gli uni, la legittimità di questo “debito” resta da verificare, mentre per gli altri si pone il problema del pericolo che questo aiuto supplementare venga incamerato dai dirigenti, ancora una volta a scapito delle popolazioni.
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riparare l’ingiustizia storica con una politica reale di aiuto allo sviluppo. L’Europa
del resto, pur senza confessarlo pubblicamente, ha dato prova di essere consapevole
della propria responsabilità. Ha concepito all’indomani delle Indipendenze, prima
una politica, per lo più di immagine, sull’aiuto umanitario e, in seguito, una politica di cooperazione (“trade, not aid”) di cui oggi è possibile tirare le somme in termini di positivi e soprattutto negativi7. Il decollo sperato e annunciato con tanta
sollecitudine non ha avuto luogo in modo effettivo e sostenibile: “il tratto distintivo dell’Africa, alla fine del XX secolo, è l’incapacità di sostenere una crescita durevole”8 proprio nel momento in cui i suoi bisogni crescono e le sue energie (materiali e umane) sono dissipate irresponsabilmente da governi senza scrupoli o sfruttate da potenze mercantili.
Le strategie di intervento
• A tale proposito, il testo di Axelle Kabou mi pare quello che meglio di ogni
altro riassume e chiama in causa le strategie africane e non-africane di risanamento
del sottosviluppo. In uno stile che contrasta con il panorama letterario e intellettuale africano, l’autrice analizza minuziosamente le “ragioni” addotte dagli uni e
dagli altri nell’ultimo decennio del XX secolo per evidenziarne valore o vanità. Criticando allo stesso tempo i protagonisti9 africani e quelli europei dello sviluppo,
così come i modelli di sviluppo da essi proposti, Kabou ha messo a nudo la “santa
ipocrisia” dell’Occidente ma soprattutto gli alibi degli africani stessi di fronte al
male che corrode il loro continente. L’autrice sospetta un certo “rifiuto dello sviluppo” mascherato dietro comportamenti contraddittori e incongruenti degli africani stessi. Preso al laccio di una visione cinica della negritudine, inebriato da una
visione pre-coloniale della sua cultura, l’africano resiste alla necessità dello sviluppo
con il pretesto di essere il prodotto di un’altra cultura, di rischiare la perdita della
propria anima, della propria verginità “edenica”. Il “male radicale” ovvero il “peccato originale” del nostro continente secondo l’autrice è “il venerdismo intellettuale”:
“il venerdismo è proprio della coscienza umiliata, inadatta ad affermarsi con dignità e
nei fatti, la quale utilizza sotterfugi di vario tipo per trasformare la vergogna, la vigliaccheria, la mediocrità e la pigrizia in oggetti di ammirazione”10.
7
In “Vaincre l’humiliation”, pp. 47-54.
In “Vaincre l’humiliation”, p. 42.
9 “Et si l’Afrique refusait le développement?”, pp. 30-31 (vedi la piccola galleria di ritratti proposta
dall’autrice).
10 Ibidem, pp. 53-54. Vedere anche le parole così incisive di Philippe Hugon pubblicate nella rivista Sciences Humaines N° 47, nel febbraio 1995: “Robinson ou Vendredi? La rationalité économique en
Afrique” o anche “L’économie de l’Afrique”, La découverte, 1993.
8
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Quale Africa del XXI secolo?
• È questo del resto il punto focale dell’originalità dell’opera, la quale esige che
(al di là delle geremiadi africane, al di là dei miasmi della cattiva coscienza europea
che convergono verso “l’ossessione espiatoria” dell’Occidente) gli africani si impegnino, senza alcun complesso, con piena coscienza e responsabilità, a risolvere al
più presto i problemi che si pongono loro. Il lavoro della Kabou culmina nell’idea
secondo la quale “… l’Africa del XXI secolo sarà razionale o non sarà affatto”11.
Ciò che denuncia Kabou, è il mito dell’africanità pura, in nome della quale gli
Africani rifiutano la storia, la loro storia, ma anche la scienza e le sue sollecitazioni
per la vita della collettività: “… Ma quando si sa che la storia del declino dell’Africa è
anche quella del declino della sua curiosità scientifica, della sua incapacità di estendere
il sapere al più gran numero di persone, in un momento in cui l’evoluzione del mondo
lo imponeva, si misura quanto gli Africani ci guadagnerebbero a perdere i loro complessi tecnologici, a smettere di considerare la scienza come una cosa da Bianchi”12.
I valori della coscienza africana
• Si può dire che la lettura proposta da Kabou rappresenti una certa “psicanalisi” delle pratiche e delle rappresentazioni africane in materia di sviluppo. Si tratta
senz’altro di un momento di verità, al quale la coscienza africana viene invitata per
fare il punto sui propri valori, le proprie illusioni, le proprie forze e debolezze. Con
la sua forza catartica, si riteneva questa psicanalisi capace di risvegliare gli uni e gli
altri dal dogmatismo del sonno culturale, ideologico, politico, umanitario o terzomondista in cui erano immersi. Ma un decennio è ormai trascorso da quelle pagine
e la questione dell’Africa si pone sempre con la stessa acuità. I paesi africani sembrano ancora impantanati nelle “sabbie mobili” di un sottosviluppo da cui il continente non riesce a tirarsi fuori.
Sviluppo e prospettive
• In definitiva, le pratiche e i discorsi africani in materia di sviluppo divergono
da un punto all’altro dell’Africa, ma possono essere ricondotti a due grandi prospettive. Essenzialmente, gli uni si lasciano andare a ciò che chiamerei l’economismo, che consacra la legge della crescita economica con sprezzo di tutto quanto
non sia “utile”, pratico, pragmatico. Altri si perdono nei circoli chiusi delle ragioni
11
12
138
Op. cit., p. 205.
“Et si l’Afrique refusait le développement?”, p. 175.
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particolari (culturali, religiose, morali13) che appaiono come altrettante forme di
rifiuto dello sviluppo quale viene veicolato dall’Occidente, senza per questo proporre delle alternative credibili. Non è forse necessario dunque tornare sulla nozione stessa di sviluppo, sui mezzi e fini che si propone? La questione che si pone agli
Africani, al di là del soddisfacimento dei bisogni immediati (logica della sopravvivenza), è quella di ritrovare la relazione tra sviluppo e umanità.
La globalizzazione in questione
• Di fronte a ciò che appare come la grande “spada di Damocle” dell’epoca attuale (la globalizzazione), si levano delle voci per indicare le vie di una resistenza
“culturale”, o la necessità di un dovere di prudenza14. La soluzione del problema
sembra passare attraverso una nuova relazione degli africani con se stessi, con gli
occidentali, ma soprattutto con le virtù della razionalità scientifica e tecnica. L’africano non potrà fare a meno della scienza, meno ancora della tecnica pegno di efficacia e di produttività. Qua e là si denuncia un fossato storico fra l’Africa e la scienza. Questo dice tutta l’importanza implicitamente accordata alla razionalità “occidentale” che l’africano deve smettere di vedere come estranea e di cui deve finalmente appropriarsi.
• Resta da sapere se lo sviluppo non sia in realtà un miraggio, un mito, oppure
una terra di alienazione, di schiavitù, promessa agli affamati che si trovano così ridotti a vivere solo in una logica e in una prospettiva consumistica. Dappertutto (e
anche in Africa) si pensa di aver trovato la chiave miracolosa dello sviluppo sbandierando la necessità di rilanciare la crescita, la produzione e la libera circolazione
dei beni e delle persone. Perciò il “privato” viene “liberato” dalla prigione in cui lo
Stato sociale l’aveva trattenuto in cattività per tanto tempo. Esso deve ridare fiato
alla crescita e venire in aiuto al “pubblico” ansimante. La crescita economica è diventata la nostra ossessione quotidiana e siamo pronti a ricorrere a qualunque mezzo. Divenuto nuova ideologia, l’economismo non procede forse da una profonda
ignoranza della realtà africana e della realtà umana in generale ? Non è forse un irriducibile malinteso sul desiderio umano, una perniciosa riduzione di questo desi13 “… Si può addirittura scrivere che la cultura africana, riveduta e corretta dalle generazioni del
dopo indipendenza, è il pegno più sicuro del perpetuarsi del naufragio del continente africano”, p.
177. L’autrice insiste sulla necessità per gli Africani di non rinchiudersi nel ghetto della propria cultura, ma di infrangere le barriere dell’autismo culturale che li tenta per entrare in una relazione pacificata e dinamica con gli altri.
14 “À quand l’Afrique” di Ki Zerbo pone la questione della prudenza che l’Africa deve esercitare di
fronte all’ondata universale della “privatizzazione mondialista”. Egli critica gli effetti perversi di una
eccessiva liberalizzazione che calpesterebbe i valori dell’Africa tradizionale.
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derio a puro e semplice bisogno? Dando maggiore importanza all’“avere di più”,
questa ideologia non rappresenta forse una grave impostura che insulta la dignità
dell’essere umano? L’Africa in cerca di se stessa, dopo secoli di castrazione e di servitù sapientemente coltivata dall’interno e dall’esterno, saprà trovare la sua via tra
la tentazione di rispondere alle pressioni dell’urgenza con la bulimia (l’economismo), e la ricerca più profonda e più lungimirante di un equilibrio tra le dimensioni materiali e spirituali dell’esistenza umana?
Il deserto morale e intellettuale
• Di fronte all’ideologia dello sviluppo sopra descritta, si noterà con interesse
che, anche se non sono molto convincenti per le popolazioni strangolate ogni giorno dalla precarietà, vi sono voci africane e terzomondiste che si levano in quello
che si presenta ormai come un “deserto” morale e intellettuale, per denunciare ciò
che viene promesso sotto il nome di sviluppo ai “dannati della terra”. Un movimento sempre più globale e globalizzato è nato dalla globalizzazione economica e
si va affermando15. Questo movimento non fornisce certo una risposta immediata,
materiale e quantitativa al problema della precarietà che si pone agli Africani (e a
tutti i poveri del terzo mondo, o a quelli dei paesi ricchi), ma invita gli uni e gli altri, i “mercanti dello sviluppo” così come i loro clienti, fra cui gli africani, a riflettere sulle mutazioni della storia prima di lasciare che ci travolgano nel turbine di un
economicismo senz’anima. I mali percepiti in quest’ondata mercantile che inghiotte inesorabilmente il mondo sono elencabili: polarizzazione a senso unico delle ricchezze, deterioramento talvolta drammatico delle condizioni imposte a popoli interi, distruzione accelerata dell’ambiente, unilateralismo delle decisione universali,
“mercantilizzazione” delle specificità culturali.
Quale sviluppo?
• In questa battaglia per lo sviluppo, per uscire dall’abisso della miseria in cui è
impantanata, e ciò principalmente a causa dei propri paradossi e incongruenze,
l’Africa, dopo aver tenuto il broncio alle virtù della razionalità occidentale, si è
sempre più convinta nell’ultimo decennio che le tecniche e le scienze dette esatte
(tecnologie, biotecnologie, nuove tecnologie dell’informazione e della comunica15 Per approfondire maggiormente la questione, vedere “Mondialisation des Résistances, l’état des
luttes 2002”, di S. Amin e F. Houtart, l’Harmattan, Parigi 2002. Il lavoro denuncia la drastica riduzione dei fondi destinati all’istruzione (p. 86). Ciò che si afferma per l’India è largamente constatabile per
l’Africa nera.
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zione, ecc.) siano le armi miracolose per “vincere senza aver ragione”. Oggi una ventata di folle ottimismo, per non dire di euforia circola nel continente e dà corpo a
una sorta di pensiero unico, secondo il quale al di fuori della tecno-scienza non vi
sarebbe salvezza. Il quesito radicale16 che occorre porre e porsi è quello di sapere se
lo sviluppo in generale, e quello dei nostri paesi in particolare, possa e debba declinarsi sulla modalità esclusiva della produzione e della crescita economica, senza sminuire il suo fine ultimo, che è quello di un divenire sempre più umano dell’uomo?
• L’uomo è un essere teso a progredire nella vita. Questo progresso si manifesta
in maniera radicale nell’essenza culturale dell’uomo (la natura dell’uomo è la sua
cultura e viceversa). Platone17, interpretando il mito di Prometeo, ci insegna che la
verità dell’uomo risiede nell’opportunità che gli è offerta grazie al furto del fuoco,
simbolo della luce (coscienza, intelligenza e ragione) che gli permetterà di affrontare l’opacità immediata del mondo, di attraversare il labirinto dell’esistenza per realizzare il suo destino.
Il terreno dello sviluppo economico
• Lo sviluppo economico è uno dei terreni su cui le società umane si danno
battaglia per la supremazia e su cui, in situazione di scarsità di beni e di risorse, la
felicità degli uni si costruisce sull’infelicità degli altri, nella misura in cui per svilupparsi gli uni si servono senza vergogna degli altri, trascinando questi ultimi in
una spirale discendente. Lo storico del Burkina Faso, Joseph Ki Zerbo ricorda nel
suo recente lavoro le forme storiche prese da questa concorrenza internazionale
senza dimenticare di menzionarne le pesanti conseguenze sulla sorte delle società
africane: “… gli Europei hanno realizzato il proprio autosviluppo basandosi, è ovvio,
sullo sfruttamento di altri popoli”18. Il progresso si valuta nei rapporti fra le società
sul piano economico, materiale, e conseguentemente su quello dei mezzi di accumulazione. Il problema che si pone oggi è la fissazione della concorrenza intorno
alla sola dimensione economica19 che condanna i paesi sottosviluppati a voler ad
16 “À quand l’Afrique?”, p. 155: “La principale critica dell’idea europea di sviluppo è la domanda:
accumulare per chi?” Mi sembra qui che tale domanda resti secondaria nella misura in cui tralascia la
questione della pertinenza dell’accumulazione, del senso stesso della riduzione dello sviluppo a una
pura e semplice accumulazione per questa o quella categoria di persone, a spese di questa o quell’altra.
L’approccio marxista e sindacale alla questione dello sviluppo comporta certo un interesse per la riduzione delle ineguaglianze e delle ingiustizie, ma comporta anche dei limiti ideologici e storici che il
pensiero e l’azione per lo sviluppo devono superare.
17 Opere complete, trad. Léon Robin, Gallimard, Coll. La Pléiade, Parigi 1950.
18“À quand l’Afrique?”, p. 151.
19 Anche in materia di cultura, si tratta di essere più capace dell’altro di esportare nel mondo intero, di “vendere” i prodotti della propria cultura, di attirare i turisti o di riempire le sale cinematografi-
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ogni costo riuscire là dove si dice che abbiano fallito, ponendosi così nella condizione di non mettere in discussione il valore dell’opzione economica, per non dire
economicista. Si opera una sorta di oblio collettivo delle altre dimensioni della vita
umana, a solo vantaggio della dimensione quantitativa, materiale. Su questo punto, la civiltà contemporanea resta identica a quella dell’antichità, che Platone giudicava in questi termini “… Orbene, sul sapere, l’opinione della moltitudine è all’incirca la seguente: che il sapere è senza forza, incapace di dirigere, non meno che
di possedere l’autorità…”20.
• Non si perda così qualcosa di essenziale dell’uomo? Al termine del percorso
storico dell’umanità, la sottovalutazione dei valori non economici, non mercantili,
non espone l’umanità ad un’impasse esistenziale? La dimenticanza del soggetto e
della sua interiorità spirituale a tutto profitto dell’oggetto e dell’esteriorità
(comfort), non condanna forse l’essere umano ad un certo decadimento, ad una
sclerosi della sua identità?
Fare, pensare, essere
• In questa logica dell’economicismo che privilegia il “fare presto e di più” e
l’“avere di più” a scapito del “pensare” e dell’“essere”, si finisce rapidamente e unilateralmente per attribuire una egemonia indiscutibile agli strumenti, alle macchine
e ai servitori della legge dell’efficienza. Nonostante le molteplici e multiformi proteste contro l’ondata della “globalizzazione”, la problematica dello sviluppo dell’Africa non è riuscita veramente a sganciarsi da questa logica della quantità. Anzi,
un’unica ideologia impone la sua legge, nel Nord come nel Sud, in una prospettiva
mondialista che ricorda ciò che intendeva dire Heidegger nel “divenire mondo dell’Occidente e nel divenire Occidente del mondo”. Si ha un bel volersi opporre alla
visione occidentale di sviluppo, o di volersene distanziare: resta il fatto che la realtà
quotidiana delle popolazioni del Sud manifesta spesso la mancanza anche del minimo indispensabile. Per cui, professare la rinuncia alla “quantità”, al “materiale” al
cospetto dell’indigenza rischia sempre di sfiorare la mancanza di rispetto per le popolazioni nella miseria. Le voci che protestano contro la visione occidentale dello
sviluppo si espongono all’incomprensione e anche all’odio delle popolazioni che
vogliono invece difendere, quando rifiutano o mettono in discussione ciò che il
Nord fa balenare al Sud: il confort materiale.
che. Questo è uno dei punti di opposizione fra l’America e la Francia, quando quest’ultima parla della
sua “eccezione culturale” per rifiutare la legge del mercato totale.
20 Protagora 352b, in Platone, Opere complete, tomo 1, p. 131.
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Gli africani e la responsabilità storica
• È in tali circostanze, di fronte a ciò che si configura come una tragedia o un trabocchetto, che è importante che gli intellettuali africani proclamino di fronte a tutti
l’opportunità che hanno di potersi fare carico della propria responsabilità storica.
• Ci si sbaglia sul senso stesso di sviluppo, se se ne dà una definizione settaria,
esclusiva. Pretendere che solo gli ingegneri, i tecnici e i lavoratori manuali siano
utili all’Africa, vuol dire da un lato privare l’Africa di una gran parte dei suoi figli e
figlie, dall’altro sancire come assoluta una concezione unilaterale di sviluppo. È veramente necessario essere un lettore assiduo dei Testi Sacri per rendersi conto che
“l’uomo non vive di solo pane” e che ogni altra attività, spirituale, intellettuale o artistica fa altrettanto parte dello sviluppo di un paese quanto le zappe, i buoi, gli aratri e le braccia che li utilizzano per trasformare la natura? È importante, al di là del
chiasso della produzione e del commercio, riannodare con la profondità umana del
lavoro. Infatti, lavorare non significa soltanto produrre degli effetti sull’ambiente
circostante, ma svolgere un’attività ponderata, finalizzata, parlata, condivisa nella
solidarietà e la corresponsabilità sociali. Lavorare, vuol dire impegnare il proprio
stesso essere in una dinamica di produzione e di auto-produzione. Così come la lettura del giornale, la ricerca di un senso da dare all’esistenza può essere considerata la
“preghiera mattutina quotidiana” dell’uomo. Il problema che si pone oggi nei paesi
del sud, è la logica unilaterale prodotta dalla precarietà economica, che fa sì che si
rappresenti l’africano (e l’Africano stesso è troppo spesso complice di questa immagine riduttiva) come un essere la cui unica preoccupazione sarebbe quella di sopravvivere. La cosa che maggiormente importa all’essere umano non è tanto di perdere
la vita, quanto di non riuscire a darle un senso. Noialtri, uomini e donne del terzo
mondo, esseri umani persi nelle tribolazioni di una precarietà prossima all’annullamento, non cediamo forse in parte a una certa pressione ideologica della visione
mediatica di un’Africa “somalizzata”? L’Africa ha sì bisogno dell’Occidente, come
un essere umano ha bisogno di un altro essere umano (come dice il proverbio, “il rimedio dell’uomo, è l’uomo”), perché la sfida dell’umanità non si raccoglie nell’isolamento degli “Io” (isolamento che di fatto è una ignoranza belligerante, una fonte
permanente di violenza, poiché più ci si isola, più ci si afferma unilateralmente come realtà assoluta), ma nell’incrociarsi consapevole e responsabile delle identità rispettive e in un progetto comune che vada al di là di qualsiasi forma di unilateralità.
Coscienza intellettuale e modernizzazione in Africa
• Malgrado le politiche di cooperazione bilaterale o internazionale per lo sviluppo e quelle di integrazione sub-regionale o regionale nell’ambito dell’Unione
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Africana, rari sono i paesi africani che si sono trasformati in aree in via di industrializzazione. All’epoca dell’economia globalizzata sotto l’effetto del liberalismo generalizzato e del libero scambio, come assicurare lo sviluppo dell’Africa?
• La missione dell’intellettuale africano, convinto che non vi sia sviluppo né
prosperità senza una reale indipendenza e senza una modernizzazione industriale,
consiste nel fare una valutazione corretta dei compiti che gli competono.
Conclusione
• Gli africani non sono né angeli né puri e semplici animali inchiodati al breve
termine. Porre la questione dello sviluppo dell’Africa rinchiudendosi nella semplice/immediata “legge del ventre”, vuol dire perdere di vista l’umanità che lo sviluppo deve promuovere. Forse l’uomo non è l’animale “bulimico”, mai sazio di mercato, al quale si tenta di ridurlo. È vero, spesso il vivere quotidiano assomiglia a una
corsa a perdifiato nella spirale del consumo. Ma segni e forme molteplici di resistenza più o meno silenziose testimoniano il fatto che anche l’ultima vittima della
miseria economica porta in sé qualcosa che protesta contro qualsiasi riduzione della sua identità alla pura e semplice fisicità.
• Perciò allo stesso tempo non esiste sviluppo senza l’uomo, né senza modernizzazione industriale cioè senza padronanza delle macchine. L’intellettuale africano deve considerare lo sviluppo come una trasformazione socio-economica
globale. Sviluppare e democratizzare le società africane è un’impresa che richiede
dall’intellettuale sforzi di riflessione di un’ampiezza che non ha pari nella storia.
A lui spetta il pesante compito di pensare questa mutazione sociale globale che
non può realizzarsi senza dominare la macchina e senza una rivoluzione scientifica e tecnica basata tuttavia su una profonda riforma intellettuale e morale.
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Rubriche
L’AFRICA IN LIBRERIA a cura di Valerio De Cesaris
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L’Africa in libreria
A cura di Valerio De Cesaris
La presente rubrica è diversa dalla consueta «Novità in libreria», pensata per segnalare
esclusivamente volumi «freschi di stampa». «L’Africa in libreria» tratta infatti anche di
libri che hanno ormai qualche anno di vita, pur conservando intatto il loro valore. È
quindi un percorso bibliografico nel continente, attraverso i suoi aspetti storici, letterari, culturali e sociali.
Politica e attualità
Mario Marazziti, Andrea Riccardi, Eurafrica, Leonardo International, Milano
2004, 128 pp., € 13,00
Eurafrica è una proposta: ritrovare il senso e la forza dei legami tra due continenti tanto uniti dalla storia e dalla geografia, perché «l’Africa, senza un comune
destino con l’Europa, ha poco futuro» e «l’Europa senza l’Africa perde gran parte
del suo significato». Eurafrica è quindi la lungimirante idea di un’alleanza, in un
tempo in cui l’Africa appare dimenticata e abbandonata al suo destino di miseria e
di guerre. Eppure dimenticare l’Africa non si può, non fosse altro che per la memoria di Yaguine e Fodé, due guineani appena adolescenti, che nel tentativo di
raggiungere l’Europa si nascosero nel vano del carrello di un aereo con destinazione Bruxelles e morirono assiderati. Era il 1999. Altri africani sono morti allo stesso
tragico modo prima o dopo di loro. I due ragazzi avevano scritto una lettera in cui
si rivolgevano alle «Loro eccellenze i signori membri e responsabili dell’Europa»,
con un appello: «È alla vostra solidarietà e gentilezza che noi gridiamo aiuto in
Africa. Aiutateci, soffriamo enormemente in Africa, aiutateci». La lettera di Yaguine e Fodé racconta i sogni e le speranze dei giovani africani, e anche l’aspettativa
verso gli europei. È la richiesta di non abbandonare l’Africa e gli africani. Riccardi
e Marazziti hanno raccolto quest’appello e hanno lanciato con forza un’idea: si
pensi a un destino comune, si lavori per costruirlo. L’Africa troverà così finalmente
la via della pace e dello sviluppo e l’Europa sarà capace di avere un ruolo decisivo
nel mondo.
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Giovanni Carbone, L’Africa. Gli Stati, la politica, i conflitti, il Mulino, Bologna
2005, 224 pp., € 11,50
Il piccolo volume di Giovanni Carbone è senz’altro un utile strumento per chi
voglia orientarsi nelle vicende dell’Africa subsahariana contemporanea, senza scendere troppo nei dettagli dei singoli Stati. È infatti una ricostruzione unitaria, che
delinea alcune caratteristiche comuni agli Stati africani dal periodo precoloniale
agli anni recenti. Alcuni tratti della storia africana del secondo Novecento, come la
difficoltà nel mettere in atto sistemi politici realmente democratici, la personalizzazione della politica nella figura del leader, il ruolo degli apparati militari, sono spiegati con chiarezza. È necessario tuttavia tenere presente – come avverte anche l’autore – la molteplicità di esperienze politiche e, più in generale, culturali, che segnano una grande diversità nel continente. Per Giovanni Carbone è comunque possibile individuare problemi e dinamiche comuni, per descrivere la storia e l’attualità
dell’Africa. Ciò che si legge in questo volume è anche la fatica di società che non
hanno trovato, nei decenni successivi all’indipendenza, la via dello sviluppo e della
crescita economica: «All’alba dell’ultimo decennio del XX secolo la gran parte dei
paesi subsahariani era più povera di quanto non fosse negli anni sessanta e su un
totale di 500 milioni di abitanti 300 vivevano in una situazione di povertà assoluta». Tuttavia l’Africa, «continente rimosso», si affaccia al nuovo secolo con alcuni
segnali di speranza, quali la riduzione del numero dei conflitti e alcuni «importanti
seppure incerti tentativi di democratizzazione».
Giordano Sivini, La resistenza dei vinti. Percorsi nell’Africa contadina, Feltrinelli,
Milano 2006, 276 pp., € 18,00
Il recente libro di Giordano Sivini va segnalato innanzitutto perché tratta dei
contadini e, quindi, dei poveri, in un continente la cui economia è ancora prevalentemente agricola e in cui i poveri sono la maggioranza della popolazione. In secondo luogo, perché l’autore supera la tentazione di una descrizione puramente sociologica e mette in gioco la sua esperienza diretta, gli incontri e i luoghi dei propri
viaggi in diversi paesi africani. Giordano Sivini, docente di sociologia politica, ha
iniziato a occuparsi di Africa sul finire degli anni Settanta, trovandovi, oltre ai motivi dell’impegno professionale, anche una forte passione umana, che si legge tra le
pagine del suo libro. L’intento è di dare voce ai “vinti”, agli africani più poveri che
vivono in prima persona ciò che viene abitualmente descritto nei libri sull’Africa:
le responsabilità europee del colonialismo e il fallimento occidentale nella cooperazione, l’inadeguatezza dei fragili sistemi politici africani, la voracità dei gruppi al
potere, la corruzione dilagante e via dicendo. In tal modo, Sivini intende andare alla radice dei problemi del continente. La resistenza dei vinti è un libro che aiuta a
capire alcuni tratti delle società africane, a partire dai problemi della cooperazione
e dello sviluppo.
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Pietro Veronese, Africa reportages, Laterza, Roma-Bari 2001, 192 pp., € 6,71
Il libro di Veronese è un’altra cronaca di viaggio, a opera di un giornalista che
per venti anni è stato inviato de «La Repubblica» in Africa. Si tratta di una raccolta
di articoli scritti per il quotidiano e per il settimanale «Il Venerdì di Repubblica». Il
libro può essere letto, nella sua interezza, proprio come un viaggio, anche se si passa per paesi e situazioni diverse. Vi si trovano i grandi eventi della storia del continente, come la misteriosa morte di Samora Machel nel 1986 o le prime elezioni
politiche del Sudafrica post-apartheid, nel 1994, ma anche vicende sconosciute –
ma non per questo meno importanti – di uomini, donne e bambine, come la piccola Dusabe di 12 anni, ruandese, divenuta muta per il troppo orrore visto e subito
durante le stragi del ’94. Nei reportages di Veronese si affaccia anche il dramma dell’aids, che in Africa colpisce milioni di individui. L’accesso negato ai farmaci è
un’altra faccia della disuguaglianza tra mondo ricco e mondo povero.
Daniele Mezzana e Giancarlo Quaranta (a cura di), Società africane. L’Africa subsahariana tra immagine e realtà, Zelig, Milano 2005, 330 pp., € 15,00
Questo volume collettaneo raccoglie gli scritti di numerosi autori africani, con
un taglio prevalentemente sociologico. Nella presentazione del volume, Jean-Léonard Touadi afferma che in Italia stia maturando un interesse nuovo per le «cose
africane», «anche per la presenza di una numerosa e intellettualmente vivace classe
media d’origine africana che vive e lavora in Italia». I saggi raccolti nel volume aiutano a comprendere meglio alcuni aspetti delle società africane che, nella recente
«epifania dell’Africa» evocata da Touadi, restano ancora vaghi e oggetto di una conoscenza talvolta pregiudiziale. Così, ad esempio, si analizza il ruolo della città
africana nel rapporto con la modernità, si descrivono le religioni tradizionali africane al di là degli stereotipi su di esse, si tenta di comprendere i motivi di un «fascino repulsivo» dell’Africa nell’immaginario occidentale. Società africane è un libro
interessante in cui studiosi e intellettuali d’Africa descrivono tratti importanti dei
propri paesi.
René Dumont, Democrazia per l’Africa, Elèuthera, Milano 1992, 334 pp., € 15,00
Démocratie pour l’Afrique, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1991,
lanciava un allarme: «L’Africa muore di morte lenta». René Dumont, «grande vecchio» del pacifismo e dell’ecologismo francese, lo ripeteva già da anni. In quest’acuta e preoccupata analisi, che a distanza di quindici anni mantiene una sua validità, Dumont intravedeva una speranza per l’Africa soltanto laddove si fosse avviato un processo di reale democratizzazione. Democrazia e maggiore uguaglianza sociale, per impedire la «catastrofe». Lo sfruttamento indiscriminato dei territori,
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con deforestazione e inquinamento, e l’allargarsi del divario tra ricchi e poveri, sia
nel confronto tra paesi del Nord e paesi del Sud che all’interno di ogni singola società, hanno creato per Dumont «un mondo intollerabile». A partire dalle società
contadine e dai problemi dell’agricoltura, l’autore descrive un continente che sembra non farcela, destinato appunto alla «catastrofe». In un suo altro libro, Dumont
giunse a predire il rischio di una «tragica carestia» che, a partire dal più debole dei
continenti, l’Africa, avrebbe travolto milioni di vite. Se l’analisi di Dumont è in
parte smentita da qualche segnale di miglioramento, registratosi negli ultimi anni,
è vero al tempo stesso che i problemi analizzati in Démocratie pour l’Afrique restano
drammaticamente presenti nella maggior parte dei paesi africani.
Alex Zanotelli, Korogocho, Feltrinelli, Milano 2003, 220 pp., € 7,00
Korogocho, a Nairobi, è una delle più estese baraccopoli africane. Dal 1994 al
2002 Alex Zanotelli ha vissuto lì, per stare dalla parte dei più poveri. Figura per
molti versi “scomoda”, il missionario comboniano è oggetto di giudizi contrastanti: amico dei poveri e leader spirituale per alcuni, “prete rosso” e provocatore noglobal per altri. Ma certamente Zanotelli ha molto da raccontare, e anche se si definisce «uomo della parola e non della scrittura», il suo libro è tanto eloquente. Zanotelli appare innanzitutto come un uomo schierato, che ha scelto di stare dalla
parte dei più miseri e degli oppressi. Ciò, lo dice in maniera esplicita, gli deriva
dalla sua fede. A proposito del «sogno di Dio», scrive infatti: «A Korogocho, leggendo la Bibbia con i poveri, ho capito che Dio è di parte. Dio non è neutrale, è
profondamente schierato. Dio è il Dio degli schiavi, degli oppressi». E, poco più
avanti: «Dio sogna per il suo popolo un’economia di uguaglianza». In Korogocho
c’è la sofferenza dei bambini di strada e la violenza contro le donne, ma c’è anche la
nascita di piccole comunità cristiane in un ambiente duro e il tentativo di fare
scuola, di vincere la condanna dell’analfabetismo. Si tratta di un libro che chiede
anche al lettore una scelta, di schierarsi dalla parte dei poveri.
Niccolò Rinaldi, L’invenzione dell’Africa. Un viaggio, un dizionario, Edizioni La
Meridiana, Molfetta (Ba) 2005, 206 pp., € 15,00
Il piccolo libro di Rinaldi è un dizionario, in cui ad ogni lettera è associato un
nome e poi una storia. Dalla A di aereo, cioè dall’inizio di un viaggio che dall’Europa porta all’Africa, alla Z di Zanzibar, primo luogo africano che Rinaldi visita,
nel 1985. Ci sono in mezzo molte cose, tra cui la O di ottimismo. Come ha scritto
Walter Veltroni nella prefazione al volume, è meglio scegliere la O di ottimismo
che la P di pessimismo, perché nonostante l’Africa resti a tutt’oggi «il paradigma
delle disuguaglianze del mondo», molto si può fare per aiutare gli africani a migliorare la propria vita. Ma ci sono anche la G di guerra, piaga del continente, e la tra-
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gica R di Ruanda, che racconta del genocidio e dell’indifferenza dei paesi occidentali. E nel libro di Rinaldi non manca il riferimento alla violenza e alla sofferenza,
realtà che hanno dominato la storia del continente nel corso del Novecento. In
questo viaggio di parole e situazioni, che non segue un filo cronologico né geografico, l’Africa viene descritta in un modo forse inusuale, ma mai privo di interesse.
Bartholomäus Grill, Africa!, Fandango libri, Roma 2005, 380 pp., € 16,50
L’Africa di Grill è quella conosciuta nei viaggi e raccontata con una prosa scarna, giornalistica. L’autore, prima direttore del settore politico del quotidiano tedesco Die Zeit, vive ormai da molti anni a Città del Capo e percorre il continente in
lungo e largo. Definisce il suo libro «solo il ricordo di un corrispondente che cerca,
dal 1980, di capire questo continente». Un «mosaico incompleto» in cui è però
possibile cogliere dei tasselli importanti, soprattutto per quel che riguarda i conflitti africani e le premesse che li hanno generati. Per Grill, l’Africa come è oggi generalmente intesa, altro non è che il prodotto della volontà di conquista europea, con
la colonizzazione e la nascita di categorie prima estranee alla cultura e alla storia dei
popoli africani. In tal senso egli parla di un’Africa “vecchia”, prodotto della mentalità europea, che andrebbe ormai relegata nel passato. L’Africa “nuova”, liberata definitivamente, anche a livello psicologico, da un passato di oppressione, secondo
Grill non è ancora nata.
Storia
Giampaolo Calchi Novati e Pierluigi Valsecchi, Africa. La storia ritrovata. Dalle
prime forme politiche alle indipendenze nazionali, Carocci, Roma 2005, 360 pp., €
24,70
Quando si parla della storia dell’Africa ci si imbatte nella difficoltà di dare il
giusto peso al rapporto con l’Europa, e questo è il problema posto dagli autori:
comprendere meglio il discorso dell’incontro/scontro tra Africa ed Europa. Per
questo, la ricostruzione storica di Calchi Novati e Valsecchi parte da lontano e ripercorre le fasi della penetrazione araba e della diffusione dell’islam, della tratta negriera, per poi fermare l’attenzione sulla storia degli ultimi due secoli, fortemente
legata alla storia europea. Gli ultimi cinque capitoli del libro sono dedicati al periodo coloniale e ai processi di decolonizzazione e indipendenza, con un’attenzione
particolare al colonialismo italiano che è affrontato in un capitolo a parte. Calchi
Novati e Valsecchi descrivono inoltre, seppur brevemente, la nascita e lo sviluppo
del panafricanismo e del concetto di negritude, che costituiscono tentativi, per lo
più falliti, di tracciare i caratteri comuni dei popoli africani e di emanciparsi dal
giogo della subalternità nei confronti dell’Europa. Africa. La storia ritrovata è un li-
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bro importante, non soltanto perché gli autori sono tra i maggiori africanisti italiani, ma anche perché nella storiografia nostrana non sono molti gli studi scientifici
di valore sulla storia africana.
Paolo Borruso, L’ultimo impero cristiano, politica e religione nell’Etiopia contemporanea (1916-1974), Guerini e Associati, Milano 2002, 392 pp., € 29,00
Utilizzando materiale inedito degli archivi diplomatici e religiosi italiani e inglesi, Paolo Borruso analizza la parabola etiopica durante il lungo regno di Hailé
Selassié. Si tratta di una vicenda di grande interesse, perché costituisce il tentativo,
fallito, di costruire uno Stato-nazione cristiano-amarico. Se nella politica estera
Hailé Selassié riuscì a ottenere risultati importanti, conquistando negli anni sessanta la leadership del movimento panafricanista, in politica interna le contraddizioni
di uno Stato fondato su un’identità etnico-religiosa, che si voleva preservare dalle
spinte laiciste e dai cambiamenti sociali del secondo Novecento, rimasero irrisolte.
L’epilogo al lungo regno del Negus fu il colpo di Stato del 1974. La personalità di
Hailé Selassié come ultimo «imperatore cristiano» è apparsa segnata dalla crisi di
un potere imperiale, fondato sulla concezione del sovrano come defensor fidei, analogo per certi aspetti al modello costantiniano, di fronte alle sfide e ai motivi disgregatori che l’impatto con la modernità occidentale ha introdotto sia nel sistema
politico confessionale che nella complessa realtà etnico-religiosa dell’Etiopia. Il volume di Paolo Borruso rappresenta un approccio nuovo alla storia dell’Africa contemporanea, che, pur intrecciata alla vicenda coloniale, riacquista un suo spessore
specifico nelle trasformazioni epocali del XX secolo.
Anna Maria Gentili, Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa sub-sahariana, Carocci,
Roma 2005, 432 pp., € 31,40
Il bel volume di Anna Maria Gentili, pubblicato per la prima volta nel 1995 e
giunto alla settima edizione, è ormai un classico nella storiografia africanista italiana, che peraltro non conta molti titoli. Si tratta di una ricostruzione della storia
dell’Africa subsahariana a partire dal 1800, in cui è posto l’accento sulle trasformazioni indotte dal contatto con gli europei. I colonialisti europei giunsero in Africa
con un’idea ben definita rispetto ai popoli e alle società che si preparavano ad assoggettare: si trattava – ai loro occhi – di un mondo chiuso e tradizionale, per molti versi arcaico. Una sorta di «preistoria dell’umanità», un’Africa «cuore di tenebra»
Il dominio europeo avrebbe favorito la modernizzazione delle società africane, affrancandole da un’arretratezza che, senza l’intervento europeo, non avrebbero mai
superato. Ma accanto ad un’Africa stereotipata e mitica degli europei, si è prodotta
nel corso del secondo Novecento un’Africa mitica degli stessi africani, con rappresentazioni leggendarie di società pure e inviolate sino all’arrivo dei bianchi. Tali
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rappresentazioni, volte per lo più a fondare ideologie del riscatto e a condensare nel
periodo coloniale la somma dei mali dell’Africa, hanno a loro volta negato la realtà
storica. L’Africa, inventata dai colonizzatori europei, «venne inventata una seconda
volta dagli africani stessi». Il leone e il cacciatore è un libro fondamentale per uscire
dal mito dell’Africa e cogliere qualcosa della storia reale del continente.
Roberto Morozzo della Rocca, Mozambico. Una pace per l’Africa, Leonardo International, Milano 2002, 244 pp., € 15,00
Il libro di Morozzo della Rocca ricostruisce il processo di pace in Mozambico e
dimostra come la pace sia possibile anche laddove i conflitti sono lunghi e cruenti,
e dove sembra che lo spazio del dialogo e della trattativa sia realisticamente molto
poco. Il Mozambico è per alcuni aspetti un esempio per l’Africa intera. Dopo sedici anni di guerra civile, seguita alla guerra di indipendenza contro i portoghesi, e
oltre un milione di morti, si è giunti a un accordo generale di pace nell’ottobre
1992. La mediazione di pace è stata inconsueta, perché condotta dalla Comunità
di Sant’Egidio a Roma e non dagli Stati o dalle istituzioni internazionali. Eppure la
pace è stata costruita in maniera seria e attraverso accordi meticolosi, sottoscritti
dal governo del Frelimo e dalla guerriglia della Renamo, oggi partito politico di
opposizione. Ciò ha garantito il mantenimento della pace anche negli anni seguenti, a differenza di quanto accaduto per altre “paci africane” che, costruite in fretta e
senza che fossero risolte le questioni nodali, si sono infrante alle prime difficoltà.
Nel 1994 si sono svolte le prime elezioni politiche del Mozambico e la Renamo,
sconfitta, ha accettato l’esito delle urne ed è entrata nel sistema politico del paese.
Il Mozambico, che nel 1992 era agli ultimi posti nelle graduatorie mondiali per
sviluppo e ricchezza, ha faticosamente – ma stabilmente – intrapreso la via della
democratizzazione e della crescita economica.
Adam Hochschild, Gli spettri del Congo, Rizzoli, Milano 2001, 430 pp., € 21,69
La vicenda della colonizzazione belga del Congo diviene, nel libro di Hochschild, il paradigma dell’intera esperienza coloniale europea, con il suo portato di
violenza e morte. Mario Vargas Llosa ha definito Gli spettri del Congo «un notevole
documento sulla crudeltà e l’avidità che furono il motore dell’avventura europea in
Africa». Indubbiamente, la storia del Congo tra Otto e Novecento è segnata dall’occupazione del territorio e dalla brutale sottomissione delle popolazioni indigene, da
parte delle truppe di Leopoldo II. Si può forse obiettare al commento di Vargas Llosa che non tutte le esperienze coloniali europee furono disumane come quella belga
in Congo, e che esistevano forse altri “motori” dell’avventura europea in Africa, tra
cui l’idea – certo ingenua e paternalistica – di “civilizzare” popolazioni che erano
considerate arretrate. Resta il fatto che le vicende della colonizzazione del Congo
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descritte da Hochschild parlano di dominazione e anche di sterminio, e rappresentano una delle pagine più tragiche della storia dei rapporti tra Europa e Africa.
André Sibomana, J’accuse per il Rwanda. Ultima intervista a un testimone scomodo,
EGA Editore, Torino 2004, 222 pp., € 12,00
André Sibomana, prete e giornalista, testimone del genocidio del 1994, descrive nel suo J’accuse l’escalation di violenza seguita alla «propaganda dell’odio». La
prima edizione di quest’intervista, curata da Laure Guilbert e Hervé Deguine, è del
1997. Sibomana ripercorre la storia ruandese a partire dall’arrivo degli europei:
«Quando finalmente riuscirono a raggiungere la regione dei Grandi Laghi, i bianchi avevano già un’idea preconcetta di ciò che vi avrebbero trovato. In un certo
senso non hanno “scoperto” il Rwanda: sono andati a trovarvi la conferma di quello che ne pensavano prima di riuscire a entrarvi». Quest’idea preconcetta ha favorito la creazione di una storia “mitica” del paese, priva di reali fondamenti, in cui
hanno preso forma diverse “identità” che sono state alla base delle successive divisioni etniche. La storia è diventata «uno spazio di propaganda politica», in cui ciascuno trovava le ragioni del proprio risentimento verso l’altro. Seguendo il ragionamento di Sibomana si comprende meglio la dinamica dell’utilizzo politico della
storia, della propaganda contro l’avversario, sino alla disumanizzazione del nemico
e al suo annientamento fisico.
Letteratura
Ahmadou Kourouma, Allah non è mica obbligato, edizioni e/o, Roma 2002, 208
pp., € 15,00
Il romanziere ivoriano, recentemente scomparso, è considerato tra i maggiori
scrittori del continente africano ed è autore di alcuni libri di grande successo, tra
cui I soli delle indipendenze e Aspettando il voto delle bestie selvagge. Con Allah non è
mica obbligato si cala nei panni del piccolo Birahima, bambino soldato, che ha lasciato la scuola alla terza elementare in una delle «repubbliche delle banane dell’Africa francofona» e ha vissuto a lungo per la strada, prima di essere arruolato in Liberia. Birahima passa attraverso guerre e miseria, le vive in prima persona, le racconta con un linguaggio sgrammaticato e irriverente. Paesi distrutti dai «signori
della guerra» e scontri tribali, in cui il bambino soldato, eroe grottesco della feroce
satira di Kourouma, vive disavventure di ogni genere. «Allah non è mica obbligato
a essere giusto in tutte le sue cose di quaggiù» è il titolo completo che Birahima dà
al suo racconto, al suo «blablabla». Il romanzo è stato uno dei maggiori successi
editoriali in Francia negli ultimi anni.
154
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Ryszard Kapuściński, Ebano, Feltrinelli, Milano 2000, 280 pp., € 16,53
Le cronache di viaggio di Kapuściński hanno sempre il pregio di una narrazione vivace e schietta, capace di coinvolgere il lettore. Ebano, scritto nel 1998 e
pubblicato per la prima volta in Italia nel 2000, descrive luoghi e personaggi di
un’Africa che l’autore definisce «un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo
vario e ricchissimo». Si parte dal Ghana di Kwame Nkrumah, nel ’58, per giungere qualche anno dopo in Nigeria, nel bel mezzo del colpo di Stato che porta al
potere il generale Johnson Aguiyi-Ironsi. Qui la narrazione diviene cronaca,
diario del reporter. La descrizione asciutta del golpe cala il lettore in una realtà
instabile e violenta, in cui il potere è conteso da ristretti gruppi per lo più di
ambiente militare. Si tratta di vicende ripetutesi con modalità simili in molti
Stati africani, all’indomani dell’indipendenza e soprattutto negli ultimi decenni
del XX secolo. Il viaggio di Kapuściński prosegue per la Mauritania e l’Etiopia,
l’Uganda e il Ruanda, il Senegal e numerosi altri paesi. Lo scrittore polacco percorre il continente con i mezzi più disparati e lo descrive nelle sue pieghe anche
recondite, attraverso i volti e le storie degli africani, soprattutto attraverso gli
incontri. Ebano è una cronaca appassionante dell’Africa, scritta da un uomo appassionato.
Camara Laye, Un bambino nero, AIEP Editore, Repubblica di San Marino 2000,
216 pp., € 9,81
Questo romanzo autobiografico rievoca, a distanza di molti anni, un’infanzia
trascorsa in un villaggio della Guinea e un’adolescenza nella capitale Conakry.
L’autore compie un viaggio a ritroso nella propria storia, e recupera il modo di
guardare la realtà e i sentimenti di quando era bambino. Descrive alcuni aspetti
tradizionali della cultura africana in cui ha vissuto, con ritualità e cerimonie di
un mondo per alcuni versi ancestrale. Accanto alla cultura familiare, che trasmette al bambino la devozione per gli spiriti, le credenze in eventi magici e in
serpenti-guida, il rispetto per gli stregoni, c’è nell’educazione di Laye la religione
islamica, che in un certo senso si scontra con la cultura tradizionale, e poi l’incontro con i valori dell’Occidente. Il confronto tra la scuola coranica, che il
“bambino nero” frequenta per un periodo, e la scuola francese, può essere letto
come metafora di una società irriducibilmente divisa, in cui la presenza francese
mantiene sempre un carattere di estraneità. Alcune pratiche “africane”, come il
doloroso rito della circoncisione, trascendono il semplice significato del rito e
acquistano la valenza di un legame con la tradizione e con la storia della propria
gente, divenendo quindi fattore identitario. Si tratta di un libro ricco di pagine
suggestive e mai banali.
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
155
Djibril Tamsir Niane, Sundiata, epopea mandinga, Edizioni Lavoro, Roma 1995,
160 pp., € 9,30
Lo scrittore guineano fa parlare un griot, colui cioè che è depositario della memoria storica del popolo e che la trasmette oralmente, secondo una tradizione secolare. Il griot racconta la vicenda e le gesta di Sundiata, leggendario padre del popolo mandingo, vissuto nel XIII secolo. A lui viene fatta risalire la fondazione dell’impero del Mali, una delle grandi civiltà dell’Africa islamizzata, destinato a decadere a partire dal XVI secolo. Sundiata, che il griot definisce «il settimo conquistatore del mondo», è uno dei personaggi mitici più importanti della storia africana.
Nel suo romanzo Djibril Tamsir Niane recupera uno dei pilastri delle società africane, la tradizione orale del sapere. Mette al centro della narrazione il griot, figura
in genere legata alla coorte del re, di cui è consigliere, ma anche figura popolare e
riconosciuta in tutta l’Africa occidentale. Si tratta di un romanzo epico in cui l’autore utilizza uno stile molto vicino all’eloquenza, talvolta frammentata o ripetitiva,
dei “cantastorie” dell’Africa tradizionale.
156
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Nomi citati
Adams, 115
Aguiyi-Ironsi, J. 156
Ahidjo, 42
Ahidjo, A. 40
al Masri, A.H. 103
al Turabi, H. 105
Alem, K. 131
al-Harithi, A.A. 103
Amadou Dia, I. 121, 123
Amin, S. 140
Andersson, 92
Angoulvant, 97
Anyinefa, K. 127, 128
Aragon, 127
Artoni, A. 115
Asch, S. 92, 93
Atcho, A. 98
Augé, M. 82, 84
Bernardi, B. 91
Balandier, G. 92, 128
Baratieri, 91
Barrett, D.B. 92
Barroso, J.M.D. 20, 115
Bashir, O. 106
Bayart, J.F. 27
Bedié, H.-K. 32
Beti, M. 63, 126, 127, 131
Bifidi, A. 131
Bin Laden, O. 102-104, 107
Biya, P. 39-42
Bongo, 42
Borruso, P. 152
Boulaga, E. 41
Bureau, R. 97, 98
Cabral, A. 36
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Calchi Novati, G. 151
Carbone, G. 148
Césaire, A. 126, 127
Chenu, B. 84
Conté, L. 42
Cornevin, R. 93
Deguine, H. 154
Deleuze, G. 125
Depestre, 127
Dialungana Kiangani, S. 96
Diangienda, 94
Diop, B.B. 129, 130
Diop, C.A. 130, 136
Diop, D. 126, 127
Djedanoum, N. 129
Djibril Tamsir, N. 156
Dongala, E. 127
Dozon, J.P. 98
Dumont, R. 149, 150
Dusabe, 149
Ela, J.-M. 40, 46
Enrico il Navigatore 13
Eschlimann, J.-P. 84
Fantouré, A. 129
Feuerbach, 125
Fodé, 131, 147
Fortes, M. 43
Fratini, R. 108
Frommel, D. 115, 124
Gajere, M. 107
Gauchet, M. 84
Gentili, A.M. 152
157
Giovanni Paolo II, 9, 66, 67, 70, 73-79
Gontran Damas, L. 125
Grill, B. 151
Guattari, F. 125
Guilbert, L. 154
Haliburton, M.G. 97
Heidegger, 142
Hochschild, A. 153, 154
Houphouët-Boigny, F. 24, 28, 36, 98
Houtart, F. 140
Hugon, P. 137
Huntington, S. 26, 107
Kabila, L.D. 95
Kabou, A. 133, 135, 137, 138
Kapuściński, R. 155
Kenyatta, J. 24, 36
Kérékou, M. 32, 42
Ki Zerbo, J. 136, 139, 141
Kimbangu, M.-M. 94
Kimbangu, S. 91-96, 99
Konarè, A.O. 115 e n
Kourouma, A. 33, 128, 130, 131
Küng, H. 81, 82
Labou Tansi, S. 129
Lanternari, V. 92
Laye, C. 126, 155
Lopes, H. 128, 129
Lumumba, 39
Lumumba, P. 36
Luneau, R. 81
Luthuli, A. 36
Machel, S. 149
Mackay, D.J. 93
Malula, 94, 95
Mandela, N. 36, 39, 42
Man-Oso Ndagoso, M. 108
Maometto, 98, 107, 108
Marazziti, M. 147
Marcel, L. 62
Martin, 93, 95
Marx, K. 89
Mbarga, J. 63n
Mbembé, A. 41
Mezzana, D. 149
Mitterrand, F. 35
Mobutu, J. 28, 32, 94, 95, 135
158
Monga, C. 41
Monsengwo Pasinya, L. 62, 95
Morice, A. 116
Morozzo della Rocca, R. 153
Mpongo, L. 62 e n
Mugabe, R. 31
Muhlmann, 92
Murtala, M. 107
Musumeci, S. 17
N’Krumah, 136n
Ndi-Okalla, J. 84n
Nduku-Fessau, B. 96n
Neto, A. 36
Nguema, O. 42
Njawe, P. 41
Nkrumah, K. 24, 36, 155
Nyéréré, 36
Obasanjo, O. 107
Ousmane, S. 129
Oyono, F. 131
Paolo VI, 66 e n, 71 e n, 73, 78
Picciaredda, S. 93n
Platone 141, 142 e n
Poirier, J. 81n, 82
Pritchard, E.E. 43
Prometeo, 141
Protagora, 142n
Quaranta, G. 149
Ras Tafari, 91
Raymaekers, P. 93n
Riccardi, A. 14, 147
Ricoeur, P. 125 e n
Rinaldi, N. 150, 151
Robin, L. 141n
Rouart, J.-M. 132
San Paolo, 78, 101
Sankara, 39
Sedar Senghor, L. 36, 39, 125, 127, 130
Selassié, H. 91, 152
Sen, A. 27, 38, 42-44
Sibomana, A. 154
Sivini, G. 148
Smith, S. 85n
Souffrant, C. 125n
Sow Fall, A. 129
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Sundkler, B. 91, 92
Tati-Loutard, J.B. 127
Thomas, L.-V. 81
Touadi, J.-L. 149
Toumi, D. 41
Towa, M. 84
Traoré, A. 130
Tshiyembé, M. 47
Valsecchi, P. 151
Van Wing, 92
Civitas / Anno III - Speciale - Aprile 2006
Veltroni, W. 150
Veronese, P. 149
Visca, D. 93
Wa Thiongo, N. 43, 130
Wade, H.W. 92, 97
Yaguine, 131, 147
Zahan, D. 83
Zanotelli, A. 150
Zenawi, M. 107
159
Finito di stampare nel mese di aprile 2006
dalla Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali
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