L`autosufficienza economica è stata, fin dalle origini, una delle

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L`autosufficienza economica è stata, fin dalle origini, una delle
UNA LETTURA DELLA STORIA DELL’ECONOMIA ALTOMEDIEVALE AD OPERA DEL
MONACHESIMO OCCIDENTALE
a cura di Enzo Marigliano*
L’autosufficienza economica è stata, fin dalle origini, una delle principali preoccupazioni
del mondo monastico, sia nella versione orientale che occidentale.
Questa ricerca si occuperà, essenzialmente, del monachesimo occidentale con particolare
attenzione al periodo del massimo apogeo, l’alto medioevo, prestando attenzione alle
caratteristiche che hanno contrassegnato le scelte produttive ed i diversi approcci a questo
tema sviluppati dalle principali famiglie monastiche poiché le profonde differenze nella
“vocazione economica” hanno segnato profondamente la storia di ciascun Ordine,
imponendo scelte altrettanto diversificate nella struttura architettonica, nello stile di vita
della comunità e nel rapporto fra quest’ultima e la società circostante.
Ciò nonostante si dovrà, per forza di cose, fare un cenno al monachesimo orientale in
quanto culla di tutto il fenomeno monastico nella fase pre benedettina1 pur sapendo che Il
monachesimo alto medievale occidentale va considerato come un fenomeno ormai
relativamente “avanzato”, “maturo” e soprattutto “stabilizzato” nell’ambito della società e
dell’economia del tempo; in modo particolare va rammentato che a partire dall’epoca
carolingia (VII – VIII sec.) e fino al 1200 rappresentò un pilastro essenziale della struttura
su cui si reggeva l’equilibrio sociale rappresentato dal feudalesimo2.
Naturalmente è evidente che il monachesimo e la sua economia di autosufficienza così
come si espresse in tal periodo appare enormemente diverso rispetto al monachesimo
attivo nel nostro presente di cui ci si occuperà fugacemente nella fase conclusiva.
È quindi necessario premettere alcune coordinate concettuali e semantiche riferite agli
albori del monachesimo, ovvero ai secoli II e III, quando alcuni spiriti decisi a seguire il
messaggio evangelico nella massima integrità possibile, scelsero la strada dell’isolamento.
La vita monastica, del resto, è inconcepibile senza separazione dal mondo, che si
realizzerà nel tempo in forme. modi e qualità molto diverse secondo le propensioni del
fondatore di ogni singolo ramo della variegata famiglia monastica e, tuttavia, la
differenziazione fondamentale che segna e percorre indelebilmente tutta la storia del
fenomeno è quella fra “eremitismo” e “cenobitismo”: in pratica la differenza fra isolamento
individuale e vita comunitaria.
 1. ORGANIZZAZIONE ED ECONOMIA NEL MONACHESIMO PREBENEDETTINO
La voce “monaco” deriva remotamente dal greco “monòs” (= solo e unico) e
prossimamente dal verbo “monazo” (= sto o vivo solo, sono solitario).
Alle origini il monachesimo era un fenomeno laico, ben diverso dalla realtà ecclesiale oggi
prevalente. Si trattava, in genere, di cristiani ferventi, spesso intere famiglie convertitesi,
che sceglievano di condurre una vita particolarmente austera ritirandosi in solitudine
all’esterno delle aree urbane oppure che, isolandosi all’interno della mura domestiche,
davano vita a primordiali aggregazioni di vita comunitaria prive di sacerdoti poiché nel
cristianesimo originario non era prevista alcuna gerarchia sacerdotale che venne
imponendosi e definendosi solo molto lentamente.
1
Cfr. Lorenzo Dattrino «Il primo monachesimo» Roma, Edizioni Studium, 1984.
La società feudale matura emersa dal caotico periodo seguito alle cosiddette invasioni barbariche, più correttamente
definite dalla storiografia dei Paesi del Nord Europa “migrazioni di popoli” (wolkenvanderung), aveva un solido
impianto gerarchico piramidale costituito da tre grandi blocchi sociali: i “bellatores” (guerrieri) che coinvolgeva tutto il
ceto dominante laico; gli “oratores” (religiosi, in genere monaci) ed i “laboratores” (villici e rustici).
2
1
Nell’area dell’Impero romano d’Oriente, ove nacque il fenomeno, prevaleva l’uso del greco
bizantino per cui questi ristretti nuclei erano noti come “spoudaioi” (= zelanti o seri),
locuzione derivante da “spoudê” (= zelo); in altri casi, e questo termine è di particolare
interesse per il tema di cui ci si occuperà in questa sede, come “philoponoi” (= industriosi),
mentre nelle province siriache si autodefinivano “figli dell’Alleanza”.
Entro tali ambiti circolavano anche personaggi bizzarri che estremizzarono tale scelta: è il
caso di coloro che vivevano come bestie selvagge, rifiutando persino di usare il fuoco e
nutrendosi di vegetazione spontanea, al punto che la popolazione li denominò “boskôi” (=
erbivori); altri si caricavano di catene richiudendosi in gabbie esposte alle intemperie,
cibandosi esclusivamente delle poche cose che ricevevano dalle popolazioni dei dintorni e
bevendo acqua piovana.
Questi eccessi dimostrano che, almeno fino alla metà del IV secolo, nell’ambito ascetico
prevaleva la presenza di personaggi illetterati, accettati passivamente perché il fenomeno
monastico non aveva trovato una sua collocazione regolare nell’ambito della Chiesa che
viveva la sua fase iniziale, priva di strutture organizzative e persino di liturgie e preghiere
ben definite3.
Il primo che usò il vocabolo “monaco”, ancora nella formula greco bizantina, ma comunque
veicolandolo nella nascente letteratura ecclesiastica occidentale e nel significato tecnico
che diverrà tradizionale fino ai giorni nostri, è Eusebio da Cesarea († c. 340), seguito da S.
Girolamo († 420) che ne trasmise la forma latinizzata (”monachus”).
La ragione per cui prese piede questo tipo di vita non è ancora del tutto chiara o,
quantomeno, fra gli storici convivono tesi diverse: taluni4 propendono per una fuga dei
cristiani dalle aree urbane in concomitanza con la terribile persecuzione voluta
dall’Imperatore Decio (249 – 251), poi, terminata la persecuzione, non tutti sarebbero
rientrati nelle antiche dimore ritenendo di riconoscere nell’isolamento il modo più consono
alla vita perfetta; altri ritengono si trattasse di soggetti che approfittarono della tendenza
mistica semplicemente per eclissarsi sfuggendo alla forte pressione fiscale 5, ipotesi non
peregrina ma certamente inapplicabile per la principale figura acetica riconosciuta dalla
storiografia ecclesiastica, Antonio il Grande, ch’era, invece, un agiato agricoltore liberatosi
delle sue molte proprietà volontariamente.
Resta il fatto, inequivocabile, che primi monaci, dunque, furono per lo più “eremiti”, détti
anche “ànacoreti”, dal greco “anachôrêsis” (= mi tiro in disparte), la cui esperienza si
sviluppò soprattutto nell’area mediorientale (Egitto, Siria, Anatolia).
La tradizione vuole che vivessero, oltre che negli anfratti delle montagne, nel deserto, sulle
fronde di alti alberi ove installavano piccole piattaforme con capanne di fortuna; in taluni
casi, l’isolamento si realizzava ponendosi sulla sommità di colonne o resti di costruzioni
abbandonate nei deserti posti alle periferie delle città ed, in tal caso, venivano denominati
“dendriti” o “stiliti” (il più noto stilita è San Simeone) che secondo la tradizione visse sulla
sommità d’una colonna per 60 anni.
In tutti questi casi il problema del sostentamento e del rapporto fra preghiera e lavoro
manuale era lasciato alla scelta autonoma del singolo eremita: ci fu chi accettava
donazioni, chi intrecciava cesti, chi trascriveva le Sacre Scritture il tutto nell’ambito d’un
3
Cfr. «La preghiera dei Cristiani» [a cura di Salvatore Pricoco e Manlio Simonetti] Roma-Milano, Fondazione
“Lorenzo Valla” – Arnoldo Mondadori editore, 2000. È la maggiore raccolta di preghiere cristiane che oggi esista in
Italia. L’opera, divisa in quattro parti comprende testi in greco e latino, con traduzione a fronte, dal I al XII secolo.
4
Fra questi i più importanti sono Giuseppe Turbessi, Gregorio Penco e Goffredo Viti, tutti monaci, ma, in genere, tale
posizione si riscontra fra gli storici di formazione o provenienza monastica o clericale mentre fra i laici (Davril,
Lawrence, Marabelli, Cantarella, Cammarosano) il dibattito è tuttora aperto.
5
È questa la tesi di Cyril Mango «La civiltà bizantina», Roma-Bari, Laterza, 2004, pag. 124. Con lui G. Bardy «Les
origines des écoles monastiques» in «Mélanges J. de Ghellink» Vol. I, Gembloux, 1951, pagg. 293 – 309.
2
embrionale economia di baratto; più spesso, però, nelle vicinanze del luogo prescelto per
l’isolamento, l’eremita curava un orto, determinando, di fatto, uno stile di vita vegetariano.
Il passaggio, dall’eremitismo al cenobitismo, ovvero dallo stile di vita individuale a quello
collettivo fu graduale e lento, tanto che i due fenomeni convissero e – come vedremo –
convivono tutt’oggi.
Come e quando sia avvenuto tale passaggio è oggetto di studi, ma è ormai accertato che
si rincorsero e sovrapposero varie e successive fasi ben individuate dalla ricerca
archeologica: dopo l’Editto di Costantino (313) ed ancor più dopo quello di Tessalonica
(380) che posero fine alle persecuzioni, alcuni anacoreti, pur continuando ad abitare in
luoghi divisi e diversi, si concentrarono in singole aree costituendo piccole colonie attorno
ad una capanna centrale, luogo deputato alla preghiera, ove si ritrovavano per l’orazione
comune in genere domenicale. Tale struttura fu chiamata “laura”, voce d’incerta etimologia
ed impossibile traduzione, derivante dal greco bizantino “lavra”, che, col tempo, acquisirà
il significato di “quartiere”, nel cui ambito s’instaurò una forma di vita “mista” rappresentata,
cioè, da un gruppo di capanne edificate l’una vicina all’altra ed i cui abitatori intessevano
relazioni comunque rarefatte e basate solo sulla comune preghiera.
In pratica questa fase, dal punto di vista del sostentamento, vede ciascuno impegnato a
provvedere autonomamente ai propri bisogni, comunque parchi, senza alcuna divisione
del lavoro né redistribuzione di prodotti o beni acquisiti tramite baratto.
Il passo successivo, quello d’una più consapevole e matura vita comunitaria, è
rappresentato dall’elaborazione dottrinaria ed organizzativa dei due principali legislatori del
monachesimo pre benedettino: San Pacomio (246 ca. - † 346) e San Basilio (329 - †379).
Pacomio aveva prestato servizio nell’esercito imperiale bizantino ragion per cui pensò che
proprio il modello militare potesse risultare utile per dar vita ad un’inedita forma di vita
ascetica tendente a realizzare una sorta di “mediazione” fra la rigida scelta anacoretica e
la possibilità di una, seppur parziale, ma stabile, vita comunitaria.
Per realizzare tale obiettivo, redisse la prima «Regola»6 della storia monastica il cui testo
ci è pervenuto integralmente grazie alla traduzione in latino di San Gerolamo in cui
compare il termine “monastero” che, però, non va interpretato pensando alle strutture a noi
note, poiché, in realtà, tale locuzione si riferisce ad “…una vasta area circondata da un
muro e comprendente una cappella, un refettorio, un locale per gli ammalati e una
foresteria. I monaci vivevano in casette individuali di legno prive di serratura e circondate
da un orto; non era loro concesso disporre di proprietà alcuna se non di pagliericcio per
dormire a terra, due vestiti senza maniche, e poche cose di prima necessità. Ciascuno
doveva lavorare la terra per il proprio sostentamento o realizzare prodotti col lavoro
manuale che potessero essere barattati con cibo. Qualunque cosa facessero, compreso il
lavoro, i monaci dovevano tenersi lontani l’uno dall’altro di almeno un cubito; non potevano
rivolgere parola ad alcuno se era buio; non potevano lasciare l’area cintata senza
permesso del capo della comunità ed, in tal caso, dovevano muoversi in coppia e al ritorno
non potevano dire nulla di ciò che avevano visto o udito. Era loro proibito maneggiare
danaro ed avevano in abominio il consumo di carne…se vi fossero eccedenze di
produzione agricola, ciascun monaco era obbligato a consegnarle alla comunità che
6
In realtà una sorta di «Regola della comunità» era stata elaborata dagli esseni, gruppo ascetico non cristiano ma
facente parte della tradizione ebraica, ritiratisi nel deserto adiacente al Mar Morto presso Qumrȃn. Di essa sono stati
ritrovati brani non organici nell’ambito della scoperta dei famosi “rotoli” avvenuta nel 1947.Cfr. L. Moraldi «I
manoscritti di Qumrân» Torino, UTET, 1971. Dopo la distruzione del loro sito ad opera dei romani nel 67 d.C. gruppi
di esseni si avvicinarono al cristianesimo trasformandosi in “giudeo-cristiani” ed autodefinendosi “ebioniti”. Per il testo
integrale della complessa ed ampia legislazione pacomiana Cfr. Giuseppe Turbessi «Regole monastiche antiche»,
Collana Testi e Documenti n. 9, Roma, Edizioni Studium, 1978.
3
decideva in merito… ”7 La proibizione del maneggio di danaro aveva una sua logica:
impediva rifornimenti attraverso acquisti, costringendo inevitabilmente i singoli allo
svolgimento di lavoro agricolo ad esclusivo fine di autosostentamento.
La prima comunità del genere nacque sulla riva destra del Nilo, in località Tabennêsi, ed
alla morte del fondatore i pacomiani si troveranno a gestire ben dodici strutture maschili e
tre femminili sparse in tutto l’Egitto, composte dai un migliaio fra monaci e monache8.
Interessante notare che, col tempo, questa struttura in cui ciascuno era ampiamente
autosufficiente dal punto di vista alimentare, cominciò a dar vita ad una sorta di
redistribuzione dei prodotti esclusivamente all’interno del circuito di questi dodici
“monasteri” pacomiani, avviando in tal modo un’embrionale economia di baratto sovra
territoriale tesa ad assicurare un’autosufficienza più razionale e, di conseguenza, a
rendere inutile qualsiasi esigenza di contatto con l’esterno il che, indirettamente, finì con
l’introdurre, di fatto, uno degli elementi principali che ritroveremo nella concezione
benedettina, ovvero la definitiva stanzialità (“stabilitas”) del monaco nel monastero di
appartenenza dal momento in cui vi entrava fino alla sua morte.
Vedremo nelle “Conclusioni” che anche la tipologia organizzativa delle singole “casette”
non andrà persa ed, anzi, verrà recuperata, ed abilmente aggiornata, da due importanti
Ordini monastici post benedettini ancor oggi attivi: Certosini e Camaldolesi.
Basilio, personalità complessa e sfaccettata, fu innanzitutto un autentico asceta ed un fine
intellettuale che séppe cogliere taluni aspetti dell’impostazione pacomiana per compiere
un nuovo passo in avanti nella concezione organizzativa della vita comunitaria.
Verso il 360 fondò a Neocesarea (nella regione Pontica, sulle sponde del Mar Nero,
corrispondente all’attuale territorio turco) il primo Monastero che sarebbe servito da
modello a molti altri.
Esaminata l’esperienza di Antonio e degli eremiti, come pure quella, a metà strada fra
eremitismo e cenobitismo, delle “lavre” ed infine quella della struttura monastica
pacomiana, Basilio pervenne alla conclusione che fosse necessario superarle tutte.
I primi non lasciavano spazio alcuno alla fraternità, sviluppando una concezione in cui
prevaleva l’idea di un Dio punitivo, privo di carità di fronte all’uomo concepito in condizione
di peccatore che, per tentare di salvarsi, doveva ricorrere ad uno stile di vita talmente
individualistico ed auto flagellante da impedire ogni dialogo con i suoi simili e tale da
condurre a sfinimenti fisici e psichici.
Dall’altro lato ritenne che a struttura monastica pacomiana, pur portando ad una
mitigazione degli eccessi eremitici, aveva finito col far nascere, e proliferare, strutture in
cui convivevano centinaia di monaci, determinando in tal modo la nascita di vere e proprie
“oasi religiose”, città autosufficienti in tutto e per tutto e, quindi, tanto chiuse in se stesse
da precludere ogni azione di apertura verso la società e, quindi, incapaci di fare
proselitismo, col prevedibile risultato che l’esperienza sarebbe definitivamente finita con la
scomparsa dell’ultimo degli abitanti che vi fosse rimasto, come, in effetti, avvenne.
Da queste riflessioni, Basilio giunse alla convinzione che fosse opportuno imboccare la
strada di una vita comunitaria adeguatamente e razionalmente regolata9.
7
Cfr. Cyril Mango «La civiltà bizantina», op.cit. con part. rif. al capitolo Quinto “Il monachesimo”,pagg. 123 – 145. La
cit. a pagg. 125 – 126.
8
Cfr. Mariella Carpinello «Il monachesimo femminile» Milano, Mondadori, 2002. Segnalo anche un saggio della
pordenonese Eleonora Chinellato «Del monachesimo femminile nell’alto medioevo» in «Città di Vita» Firenze, Anno
LIX, 2003, pagg.295 – 304.
9
San Basilio scrisse tre versioni diverse di una sorta di «Regola» la cui struttura letteraria differisce in modo radicale
sia dal testo pacomiano che da tutti quelli successivi, ivi compresa quella benedettina, in quanto, nella versione più
matura e completa, si compone di ben 203 domande poste da un immaginario interlocutore cui Basilio risponde dando
in tal modo precetti ed indicazioni operative. Per il testo integrale Cfr. Giuseppe Turbessi «Regole monastiche antiche»,
op.cit. pagg. 133 – 267.
4
Il passaggio, tuttavia, si realizzò molto lentamente, grazie alla sperimentazione di
aggregazioni composte da non più di trenta/quaranta monaci chiamati a vivere in comunità
edificate nelle vicinanze di centri abitati in modo tale da essere “permeabili” verso l’esterno
non solo attraverso la predicazione ma anche praticando, di tanto in tanto, l’accoglienza a
quanti volessero sperimentare tale tipo di vita religiosa senza per questo dovervi restare
per tutta la vita. Si edificarono capanne separate da quelle dei cenobiti stabili, funzionali
alla presenza temporanea di ospiti i quali dovevano comunque badare al proprio
sostentamento; si trattò di una innovazione che determinò non poche tensioni con i
“rigoristi” ma che possiamo ritenere antenate delle attuali “foresterie”, prima forma di
timida apertura del mondo monastico alla società.
Per quel che riguarda il lavoro dei monaci Basilio scrive: “…credo che sia utile condurre
una vita in comune con quelli che hanno la stessa volontà e il medesimo proposito, prima
di tutto perché anche per le stesse necessità materiali e per il servizio del cibo ognuno di
noi non basta a se stesso da solo…cosicché ciò che è distribuito ad ognuno in porzioni, di
nuovo si riunisca e cooperi con le varie membra alla formazione d’un corpo unico….A uno,
infatti, è concessa la parola della sapienza, a un altro quella della scienza, a un altro il
lavoro delle mani, ad uno la fede e ad un altro la profezia, ad un altro il carisma delle
guarigioni.10” ‘norme rilievo in quanto sfata definitivamente la concezione eremitica e
pacomiana secondo la quale per “lavoro” era da intendersi solo quello manuale che, per
sfinimento fisico, aiutava il monaco a fuggire le tentazioni, ed introduce la valorizzazione
anche del “lavoro intellettuale”, argomento su cui ritorneremo, che tanto si rivelerà
importante nella concezione benedettina.
A capo di ogni singolo “monastero” basiliano era posto un anziano invitato a comportarsi
amorevolmente verso gli altri e non come capo autoritario; dal punto di vista economico,
ribadita l’autosufficienza di ciascun “monastero”, il salto qualitativo rispetto all’eremitismo
ed al pacomianesimo, era rappresentato dal fatto, presente in filigrana anche nel passo
citato, che tutte le produzioni erano messe in comune, il cibo per il sostentamento era
assicurato attraverso una redistribuzione interna ed ogni eventuale eccedenza
interamente donata ai poveri.
 2. AGLI ALBORI DELL’ECONOMIA MONASTICA: S. BENEDETTO, LA «REGOLA»
Non sappiamo quando Benedetto da Norcia scrisse la «Regola» (RB = «Regula
Benedicti»); è, invece, certo che al momento della sua morte (21 marzo 547) era compiuta
e già alcune decine di Monasteri l’avevano fatta propria11.
La struttura del testo fondamentale del monachesimo occidentale si articola per blocchi di
argomenti essendo composta da un “Prologo” e 73 “Capitoli”.
La prima parte (capitoli da 1 a 7) è dedicata ai principi generali della costituzione
monastica ed alle linee maestre della spiritualità benedettina; la seconda (capitoli da 8 a
20) è dedicata alle modalità della preghiera comune ed individuale; la terza (capitoli da 21
a 72) è quella che affronta le questioni che potremmo definire legislativo – organizzative
nel senso più generale del termine: è qui, infatti, che si danno i9ndicazioni per affrontare le
più svariate situazioni di vita quotidiana del monaco cercando di regolare i suoi doveri
verso Dio, i superiori, i confratelli e ad organizzare minuziosamente la giornata della
comunità sotto tutti i punti di vista. Infine il capitolo 73 può considerarsi “l’epilogo”, nel
10
Cfr. Giuseppe Turbessi «Regole monastiche antiche», op.cit. pagg. 161 – 162.
Sulla parete di quella ch’era stata la cella del Santo, rimasta incredibilmente intatta nonostante il bombardamento
alleato del 1944, sul muro si può ancora leggere il graffito “Hic scripsit Regulam.” Poiché la bibliografia su S.
Benedetto e la «Regola» è sterminata, mi permetto di rinviare per un approccio sintetico al capitolo ad essi dedicato nel
già citato Enzo Marigliano – Massimo Zorzin «Medioevo in Monastero. Vita quotidiana in un’abbazia del XII secolo.
Storia, storie e figure di grandi monaci» Milano, Àncora, 2001. Pagg. 133 – 149.
11
5
quale l’Autore afferma esplicitamente di considerare il testo come un semplice inizio del
percorso di perfezione cui dovrebbe sempre aspirare il monaco in quanto uomo votato a
Dio tanto che, per gli ulteriori sviluppi ascetici Benedetto rinvia allo studio della Bibbia, dei
testi dei Padri del deserto ed agli scritti dei vari personaggi del monachesimo d’Oriente ed
Occidente che lo avevano preceduto12.
Così facendo Benedetto colloca il suo testo nella corrente di tutto il monachesimo
preesistente, dichiarandosi un semplice continuatore il cui compito era solo quello di
riordinare l’impostazione della vita monastica nell’ambito d’una comunità che doveva
essere retta in autonomia ed equilibrio, doti indispensabili per superare le difficoltà
organizzative, psicologiche e materiali, che inevitabilmente nascono quando si deve
vivere, gomito a gomito, per tutta la vita terrena13, sempre nel medesimo luogo e con le
stesse persone14.
Leggere la RB15 è un’esperienza culturale di grande fascino ed interesse,
indipendentemente dal fatto d’essere o meno credenti trattandosi d’un testo che consente
e sollecita indagini e studi a tutto campo, nell’ambito d’un ampio ventaglio di discipline
(dalla storia all’antropologia, dalla teologia alla sociologia, alla linguistica…).
Infatti ciascun capitolo, e il testo nel suo insieme, presenta innumerevoli spunti di
riflessione sulla natura umana, sulle sue contraddizioni, sulle soluzioni possibili dei
problemi quotidiani che si pongono ad una vita comunitaria che pone interrogativi
economici, organizzativi, gestionali, architettonici, religiosi.
È possibile, ad esempio, realizzare una lettura (e conseguenti ricerche) anche
“disarticolandone” il testo, in modo da affrontare singole tematiche: dalle questioni
prettamente spirituali a quelle che investono le risposte possibili alle esigenze gestionali di
una comunità complessa che si regge sulla scelta di fondo dell’autosufficienza economica
del Monastero ma che cerca di contemperare le esigenze collettive con le condizioni di
vita dei singoli monaci16.
Una rapida scorsa ai titoli della RB che hanno attinenza con l’economia e la gestione
interna al Monastero può offrire un piccolo quadro d’insieme che, mi auguro, incuriosisca il
lettore spingendolo ad un approfondimento specifico.
Dal punto di vista gestionale è indubbio che siamo in presenza di un’impostazione di forte
radicalità, se si considera che S. Benedetto scrisse nella fase iniziale dell’Alto Medioevo,
ovvero in concomitanza con grandi sconvolgimenti connessi al collasso dell’Impero
12
Va detto che il testo immediatamente precedente alla RB è di autore ignoto e denominato «Regukla Magistri»
(“Regola del Maestro”) e vi si trovano forti assonanze con la RB tanto che molti studiosi ritengono assai probabile che
S. Benedetto vi abbia attinto a piene mani.
13
Il concetto di “stabilitas loci” è il cardine essenziale della RB presente fin dal Cap. I intitolato “Dei diversi tipi di
monaci” nel quale S. benedetto chiarisce che vi sono quattro tipi di monaci: i cenobiti e gli anacoreti, rappresentano il
meglio, mentre i sarabaiti ed i girovaghi sono condannati senza appello. Nella millenaria storia del monachesimo
occidentale, però, si è prodotto anche un singolare caso di monachesimoi “itinerante” che la Chiesa non solo non ha
condannato, ma anzi ha valorizzato: quello della tradizione irlandese che ha prodotto San Patrizio, San Brendano, San
Colombano e San Bonifacio (Winfrid) tutti impegnati nell’evangelizzazione itinerante nel cuore dell’Europa barbarica
tra VI ed VIII secolo. Questa forma di monachesimo decisamente “atipica” è poi scomparsa completamente dal XII sec.
14
Significativo e molto interessante sia dal punto di vista organizzativo che da quello psicologico il Capitolo LXIII
della RB intitolato: “Dell’ordine della comunità” nel quale sono contenute precise disposizioni tese a regolare i
possibili dissidi interni al Monasatero.
15
Le edizioni disponibili della RB sono moltissime. Un’edizione agile con traduzione in italiano e testo latino a franto è
stata curata dalle monache benedettine di Viboldone; un ottimo commento è stato curato dalle Edizioni “Scritti
monastici” del Monastero di Praglia (PD)
16
Io stesso ho svolto una specifica ricerca su come il testo della RB affrontò le esigenze di vestiario, di cibo e, più in
generale di cura del corpo dei monaci, Cfr. Enzo Marigliano «La cura del corpo nell’ambito del monachesimo maschile
nell’alto medioevo» in «Città di vita» Anno LIX, n. 3, 2004, pagg. 279 – 294. Segnalo, nel medesimo numero della
rivista fiorentina il saggio della dott.ssa Eleonora Chinellato «Del monachesimo femminile nell’alto medioevo» pagg.
295 – 304.
6
romano d’Occidente. Ebbene, il fatto che (Capitolo III) si stabilisca che tutte le decisioni da
assumersi in ogni Monastero debbano essere assunte, su proposta dell’Abate, da un
organo collettivo come il “Capitolo” cui partecipano tutti i monaci professi, mentre ne sono
esclusi i novizi, introduce un criterio di collegialità e democrazia che non si vedeva dai
tempi delle Assemblee nelle polis greche o degli albori della fase repubblicana della Roma
antica. Merita riportare il testo integrale di questo Capitolo, proprio per rendersi conto
della sconcertante modernità delle indicazioni in esso contenute:
“Capitolo III - La consultazione della comunità - “Ogni volta che in monastero bisogna trattare
qualche questione importante, l'abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l'affare
in oggetto.Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio conto e faccia quel
che gli sembra più opportuno. Ma abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è
proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore. I monaci poi esprimano il loro
parere con tutta umiltà e sottomissione, senza pretendere di imporre a ogni costo le loro
vedute; comunque la decisione spetta all'abate e, una volta che questi avrà stabilito ciò che è più
conveniente, tutti dovranno obbedirgli. D'altra parte, come è doveroso che i discepoli obbediscano
al maestro, così è bene che anche lui predisponga tutto con prudenza ed equità. Dunque in ogni
cosa tutti seguano come maestra la Regola e nessuno osi allontanarsene. nessun membro della
comunità segua la volontà propria, né si azzardi a contestare sfacciatamente con l'abate, dentro o
fuori del monastero. Chi si permette un simile contegno, sia sottoposto alle punizioni previste dalla
Regola. L'abate però dal canto suo operi tutto col timor di Dio e secondo le prescrizioni della
Regola, ben sapendo che di tutte le sue decisioni dovrà certamente rendere conto a Dio, giustissimo
giudice. Se poi in monastero si devono trattare questioni di minore importanza, si serva solo del
consiglio dei più anziani, Come sta scritto: "Fa' tutto col consiglio e dopo non avrai a pentirtene".
Affrontata la questione del meccanismo decisionale interno, S. Benedetto volle regolare
minuziosamente l’organizzazione interna, cosicché dedicò il Cap. XXXI a “Quali
caratteristiche deve avere il cellerario del Monastero”, ovvero quella figura che possiamo
parificare ad un economo-gestore dei beni della comunità; il XXXII a “Degli utensili e dei
beni del Monastero”; il XXXV all’attività dei “Settimanari di cucina”, ovvero di coloro che, di
settimana in settimana, devono avvicendarsi nel lavoro di preparazione dei pasti
comunitari; il XXXVI “Dei fratelli malati” ed il XXXVII “Dei vecchi e dei fanciulli” nei quali si
specificano persino le variazioni di “menù” che possono essere attuate, derogando alle
abitudini quotidiane e soprattutto alla rigida disciplina dei periodi di astinenza, per i monaci
infermi e per i più giovani.
Si tenga conto, sempre per rilevare la “modernità” del testo benedettino, l’importanza che
riveste il citato Cap. XXVII perché (assieme al capitolo XXX “Come si devono correggere i
fanciulli in tenera età”) apre uno squarcio d’enorme interesse sia sull’impostazione
educativa verso i bambini, sia verso quel fenomeno tipico dell’Alto medioevo, oggi
scomparso, delle cosiddette “oblazioni” (regolate anche dal capitolo LIX “Dell’oblazione dei
figli di nobili o di poveri”) secondo le quali molti bambini venivano affidati dalle famiglie, ai
Monasteri per diventare, a loro volta, “uomini di Dio” (“Viri Dei”17).
Ma le casistiche regolanti la vita quotidiana sono davvero innumerevoli: si pensi ai Capitoli
XXXIX e XL, rispettivamente dedicati a: “Della misura del cibo” e “Della misura del bere”;
al capitolo LIII che regola le modalità “Dell’accoglienza degli ospiti”, questione che nel
17
Nella fase matura dell’alto medioevo, ovvero con il consolidarsi del feudalesimo in epoca carolingia ed ancor più
ottoniana,la società si strutturò in una sorta di piramide ed articolata in classi e ceti ben definiti, l’uno impermeabile
all’altro. I medievalisti Le Goff e Duby hanno elaborato il concetto di società “tripartita”, composta cioè dai combattenti
(“bellatores”), dagli uomini di Dio, in specie monaci (“oratores”) ed infine las grande massa dei lavoratori
(“laboratores”).
7
tempo ha posto rilevanti problemi non solo all’autosufficienza economica ma anche, dal
punto di vista religioso, per assicurare il rigido rispetto della clausura.
Sempre con occhio attento a quel che attiene l’autosufficienza, di notevole rilievo il
capitolo LV dedicato a “Dei vestiti e delle calzature dei fratelli”, che farà da base costitutiva
per l’introduzione all’interno ai Monasteri e, per imitazione, ai Castelli laici, di officine,
sartorie, calzaturifici, fabbricerie ecc..) che solo dal XIII sec. si sposteranno fuori dal
perimetro dei singoli cenobi e dei castelli dando vita a mercati, fiere ed ai primissimi
embrioni di villaggi di artigiani che faranno da incubatori alla nascita delle città.
Fondamentale per il salto di qualità concettuale operato da S. Benedetto rispetto a tutta la
precedente tradizione orientale, il capitolo XLVIII “Del lavoro manuale quotidiano”, sul
quale è opportuno soffermarci per le enormi, e talvolta imprevedibili, implicazioni che ha
avuto nell’evoluzione delle forme operative dell’economia monastica, nella cultura,
nell’organizzazione dei Monasteri e nella loro architettura.
Il testo in questione così recita:
“Dal lavoro manuale quotidiano. L’oziosità è nemica dell’anima. Per questo i fratelli devono
essere occupati, in tempi determinati, nel lavoro manuale e in altre ore alla lettura divina.
Pensiamo, pertanto, che le due occupazioni siano ben ripartite in questo modo: da Pasqua sino alle
calende18di ottobre,al mattino siano occupati nei lavori necessari fino a quando escono da Prima
fino all’ora quarta19. Dall’ora quarta fino a circa l’ora sesta inoltrata si tengano liberi per la
lettura. Dopo sesta, alzatisi da tavola, riposino nei loro letti in assoluto silenzio o, se qualcuno vuol
leggere per conto suo, legga pure, ma in modo da non disturbare gli altri. Si celebri nona con un
po’ di anticipo, a metà dell’ora ottava, e di nuovo ritornino al lavoro che debbono fare, fino al
Vespro. Se poi le condizioni del luogo o la povertà rendono necessario che i monaci si occupino
loro stessi del raccolto, non ne siano rattristati, perché proprio allora sono veri monaci, quando
vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli apostoli. Tutto, però, si deve fare con
equilibrio, tenendo conto dei deboli Dalle calende di ottobre all’inizio della quaresima siano liberi
per la lettura fino a tutta l’ora seconda; all’ora seconda si celebri Terza e poi, fino a Nona, tutti
lavorino all’opera loro assegnata; al primo segnale dell’ora di Nona ciascuno smetta il suo lavoro
in modo da essere pronti al secondo segnale. Dopo pranzo siano liberi per le loro letture o per lo
studio dei Salmi.
Nei giorni di quaresima, dal mattino fino a tutta l’ora terza, siano liberi per la lettura, e fino a tutta
l’ora decima siano impegnati al lavoro loro comandato. In questi giorni di quaresima ogni fratello
riceva un libro dalla Biblioteca, e lo legga tutto di seguito integralmente. Questi libri dovranno
essere distribuiti all’inizio della Quaresima. Certo, sarà indispensabile delegare uno o due anziani
che girino per il Monastero nelle ore in cui i fratelli sono liberi per la lettura, perché veglino a che
non si trovi un fratello vittima dell’acedia, che si perde nell’ozio o in chiacchiere invece di
18
Per “calende” in genere s’intende il primo giorno del mese, anche se taluni studiosi esaminando il testo del Capitolo
VIII della RB, ove è scritto “…nella stagione invernale, cioè dalle calende di novembre fino a Pasqua…” sarebbero più
propensi a darvi il significato di prima domenica del mese.
19
La scansione della giornata monastica è rimasta, anche nel linguaggio, identica dai tempi di S. Benedetto sino ai
giorni nostri. La sveglia è alle 5; alle 5,20 Ufficio della “Lectio Divina”; alle 7,30 “Lodi mattutine”; “Ora Terza”
ovvero alle 8.10 Eucarestia nell’ambito di una messa concelebrata; dalle 9 alle 12.00 attività lavorative; o”Ora Sesta”
ovvero alle 12,20 preghiera comune in coro; ore 12.30 Pranzo comunitario che si svolge in Refettorio ed in silenzio,
con lettura “edificante” da parte del “lettore di settimana”; tempo libero personale fino alle 14.30; “Ora Nona” ovvero
alle 14,50, preghiera comune in coro; dalle 15 alle 18.00 attività lavorative; “Vespri” ovvero alle 18.00 preghiera
comune in coro; 18,40 preghiera personale e lettura spirituale individuale nella propria cella; 19,30 Cena comunitaria
che, come il Pranzo, si svolge in Refettorio ed in silenzio, con lettura “edificante” da parte del “lettore di settimana”;
breve periodo di “ricreazione” ovvero di possibilità dio dialogo comunitario fra i monaci e fra questi e gli eventuali
ospiti; “Compieta”, ovvero alle ore 20,45 preghiera comune in coro che chiude la giornata. Dopo “Compieta” è
severamente proibito parlare (Capitolo XLII “Che nessuno parli dopo Compieta”) e ciascun monaco ed ospite si ritira
nella propria cella a dormire in attesa del nuovo giorno.
8
immergersi nella lettura, arrecando così non solo danno a se stesso, ma anche distrazione agli
altri. Se si trova qualcuno – non si sa mai – a fare così, lo si riprenda una o due volte, e se non si
corregge venga sottoposto alla punizione indicata dalla Regola in modo tale che anche gli altri ne
rimangano presi da timore. E un fratello non si trovi con un altro fuori dai tempi previsti. Di
domenica parimenti, tutti siano liberi per la lettura, tranne quelli incaricati dei diversi servizi. Se
poi c’è qualcuno così superficiale e pigro da non volere o non sapere darsi alla riflessione ed alla
lettura, gli si dia da fare qualche lavoro perché non stia in ozio.
Ai fratelli malati e di salute cagionevole si affidi un incarico o un mestiere in modo da nopn
lasciarli inattivi; d’altra parte il lavoro non dev’essere tale da opprimerli o indurli a sottrarvisi.
L’abate deve aver riguardo per la loro debolezza.”
Possiamo trarre da questo Capitolo molte informazioni sulla vita quotidiana e
sull’organizzazione dei tempi dedicati alla preghiera, allo studio ed al lavoro, ma,
soprattutto, è possibile dedurre indicazioni che avranno decisiva importanza nel
successivo sviluppo storico e nelle modalità di realizzazione dell’economia
d’autosufficienza nella fase matura del monachesimo occidentale.
Le grandi scansioni temporali indicate (da Pasqua ad Ottobre; da Ottobre a Quaresima),
come pure la minuziosa articolazione oraria giornaliera diversificata all’interno stesso di tali
periodi, offre l’idea d’una organizzazione del lavoro capace di tenere in debito conto le
stagioni, le ore di luce a disposizione, le condizioni ottimali per l’espletamento dell’attività
lavorativa certo prevalentemente agricola, ma che prevedeva anche qualsiasi altro tipo di
lavoro manuale.
Ma il punto più significativo è il rilievo e la ripetuta insistenza posta al tema della lettura
che percorre sostanzialmente l’intero capitolo.
Per comprendere l’importanza di questo aspetto, è opportuno rammentare che nella
società alto medievale la stragrande maggioranza della popolazione, ivi compresi i ceti
nobiliari era analfabeta poiché la capacità di leggere e scrivere era rimasta appannaggio di
ristrettissime élites selezionate operanti nelle corti signorili o nell’ambito ecclesiastico.
Il fatto che la RB prevedesse con tale minuziosità ed insistenza la lettura dei testi sacri
determinò l’obbligo per ciascun monaco di saper leggere e scriver da cui derivarono
conseguenze gigantesche ed inattese.
I Monasteri divennero sedi di scuole la cui frequenza fu resa obbligatoria, sia per i
giovanissimi oblati che per i monaci ancora illetterati; l’impegno intellettuale venne
parificato al lavoro manuale, assumendone in tutto e per tutto la stessa valenza; da ciò
nacquero e si svilupparono gli “scriptoria”, luoghi in cui gli amanuensi (parola derivante da
“a manu ensis = con l’uso delle mani) ricopiarono e salvarono dall’oblìo migliaia di
manoscritti20, ed il loro impegno fu considerato lavorativo al parti dei campi e delle foreste
da dissodare. Ecco perché nel 1120 il monaco ed intellettuale Bernardo di Chartres,
nell’ambito d’un testo dedicato, non casualmente, alla “rinascita culturale”, scrisse la frase
più bella di tutto il medioevo inerente il consapevole ruolo culturale svolto dai monaci e dai
Monasteri e, giustamente, diventata famosa:
“Noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose e più lontano di
quanto vedessero quest’ultimi; non perché la nostra vista sui più acuta, o la nostra altezza ci
20
Cfr. Enzo Marigliano «Cultura, scrittura e “scriptoria” nei Monasteri fra X ed XI secolo» Pordenone,Quaderni della
Biblioteca Civica, n. 2/2002, pagg. 75 – 93. Jean Leclercq «Umanesimo e cultura monastica» Milano, Jaca Book,1989.
con part.rif. ai capitoli: “Gli studi nei Monasteri del X e XII sec.” (pagg. 93 – 102) e «Lo sviluppo dell’atteggiamento
critico degli allievi e dei monaci dal X al XII sec» (pagg. 107 – 131).
9
avvantaggi, ma perché siamo sostenuti e innalzati dalla statura dei giganti del pensiero ai quali ci
appoggiamo.”21
Questo punto focale, direi determinante, segna una svolta epocale per l’assetto
organizzativo e per la stessa evoluzione del sistema produttivo dell’economia monastica,
che potrà, infatti, da qui in avanti, diversificarsi scegliendo strade diverse: ora accentuando
l’interesse per questa o quella “vocazione” produttiva, oppure concentrando l’attenzione
sull’aspetto culturale.
Sarebbe troppo lungo, in questa sede, e ci porterebbe lontano dal nucleo principale di
queste considerazioni, affrontare nel dettaglio la questione dell’apporto culturale dato dal
monachesimo.
Aver rammentato Bernardo di Chartres, vissuto nella prima metà del XII secolo, non deve
farci pensare che la cultura abbia trovato una sua centralità solo nella fase matura dell’alto
medioevo; è ormai consolidata fra i medievalisti la convinzione che il rinnovamento degli
studi in Occidente fu voluto dagli Imperatori carolingi (VIII – IX sec.) e dai loro successori
ottoniani (X – XI sec.); anzi: si è potuta ricostruire una scansione temporale che consente
oggi di parlare addirittura di tre momenti di “rinascita”, ciascuno dei quali ha avuto una sua
peculiarità ed originalità, pur muovendo da analoghi presupposti.
La prima rinascita è quella promossa direttamente da Carlo Magno (che regna tra il 768
e l’814); la seconda corrisponde ai regni di Ludovico il Pio (814 – 840) e Carlo il Calvo
(843 – 877); la terza, infine, vede un primo periodo di crisi della cultura a seguito della
caduta dell’Impero carolingio, accompagnato però da una rinnovata ascesa culturale dopo
l’anno 1000 proprio grazie al mondo monastico che anche in questo campo farà da
apripista.
Tutto queste successive fasi – ciascuna delle quali ha dato luogo ad innumerevoli analisi e
studi, cui rinvio – hanno un filo conduttore comune: riconsiderare la cultura come una sorta
di “bene comune”.
Indubbiamente il punto di partenza resta il ruolo svolto da Carlo Magno che, tuttavia,
decise di muoversi con fermezza e decisione nello sviluppo culturale da un lato per
proseguire il cammino abbozzato da suo padre, Pipino il Breve, dall’altro perché spinto a
tale azione (assolutamente inusuale per quei tempi) dallo stuolo di personaggi dei quali
seppe circondarsi nonostante egli fosse pressoché totalmente analfabeta. Giugono alla
sua Corte, infatti, il grammatico Piero da Pisa; Radulfo, futuro Abate di Saint-Denis;
Paolino, destinato a diventare Patriarca di Aquileia e Paolo Diacono, formidabile ed
ineguagliato storico autore della ben nota «Historia Langobardorum».
Questo formidabile “team” di intellettuali, nel 789 spinse Carlo ad emanare la prima,
organica, legislazione scolastica successiva alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente;
una normativa, détta «Admonitio Generalis»22 ( = “Ammonizione generale”) il cui cardine
è, per l’appunto, il recupero e rilancio della cultura come esigenza generale e collettiva,
valida in sostanza per tutti ed a cui tutti potessero accedere.
Ci si può rendere perfettamente conto di questa valenza “erga omnes” ( = per tutti gli
uomini) trascrivendo l’art. 72 della «Admonitio Generalis» dedicato, appunto, alla scuola:
“…che i monaci attirino a se non soltanto i giovani di condizione servile, ma anche i figli di uomini
liberi, ricchi o poveri che siano. Vogliamo che siano create scuole in cui si insegni a leggere e
scrivere ai bambini. In tutti i Monasteri e Vescovadi, dovrete insegnare i Salmi, le note, il canto, il
computo, la grammatica; si insegni a correggere accuratamente i libri che si copiano poiché spesso
21
Cfr. Pierre Riché e Jacques Verger. «Nani sulle spalle di giganti. Maestri e allievi nel medioevo» Milano, Jaca Book,
2011.
22
Cfr. «Monumenta Germaniæ Historica. Leges Capitolaria Regum Francorum », BD, Hahn, Hannoveræ, 1883.
10
quanti desiderano pregare Dio vi riescono malamente a causa delle imperfezioni e degli errori che
vi sono contenuti. Non lasciate che i vostri allievi ne distorcano il significato quando leggono o
trascrivono. Se è necessario copiare il Vangelo, o il Salterio o il Messale, che siano uomini già
matura a farlo, occupandosene con la massima cura.”23
Come si vede il gruppo di intellettuali della corte carolingia pone al centro dell’idea di
scolarizzazione la visione cristiana, e tuttavia quel che più conta è la spinta a favorire un
approccio il più ampio possibile agli strumenti base del sapere.
Se l’Occidente non avesse avuto questa spinta ben difficilmente si sarebbe potuto
riannodare i fili fra la cultura classica e quella, del tutto originale, che avrebbero saputo
produrre i regni romano – barbarici.
Ancora una volta emerge con forza il vero e proprio “reticolo concettuale” su cui si regge
l’impianto logico della RB, che ha saputo considerare e contemperare lavoro manuale e
lavoro intellettuale.
Rientriamo, ora, nell’aspetto centrale della nostra riflessione sul rapporto fra monachesimo
ed economia riflettendo su altri tre, diversi, Capitoli del testo benedettino.
Iniziamo dal Capitolo XXXII (“Degli utensili e dei beni del Monastero”), che ha tutto
l’aspetto d’una precisa disposizione organizzativa che, oggi, verrebbe data da un
imprenditore oculato ad un proprio amministratore:
“…Per quanto riguarda le sostanze del Monastero, strumenti di lavoro, oggetti di guardaroba o
qualsiasi altro bene, l’abate scelga dei fratelli la cui vita e le cui abitudini diano affidamento e
consegni loro i diversi oggetti da custodire e raccogliere come gli parrà utile. L’abate tenga un
inventario di tutti questi beni in modo che nell’avvicendarsi dei fratelli nei diversi incarichi, egli
sappia quello che da e quello che riceve. Se qualcuno tratta i beni del Monastero con poca cura
della pulizia o con trascuratezza, venga ripreso, e se non si corregge, subisca la punizione della
Regola”
Anche in questo caso l’interesse (almeno dello storico) è notevole poiché è solo grazie a
questa disposizione che, sono giunti fino a noi “Regesti”, “Atti”, “Capitulari”, “Decreti”,
“Cessioni”, “Donazioni” e persino falsi, che costituiscono il grosso della messe
documentale che consente di fare la storia dell’economia monastica, ma – più
ampiamente – dell’economia alto medievale nel suo insieme.
Proseguiamo esaminando il Capitolo XXXIII (“Se i monaci devono avere qualcosa di
proprio”) è importante nel contesto d’indagine e riflessione analitica sull’ economia
monastica:
“Se i monaci devono avere qualcosa di proprio”- “È assolutamente indispensabile estirpare dal
Monastero questo vizio, e fin dalle sue radici, ché nessuno si permetta di dare o ricevere qualcosa
senza autorizzazione dell’abate, o di possedere qualcosa di proprio, assolutamente nulla: né
libro,né tavoletta, né stilo, nulla insomma, dato che i monaci non possono disporre neppure del
proprio corpo e della propria volontà. Tutto ciò di cui c’è bisogno si deve attendere dal padre del
Monastero, né sia consentito avere qualcosa che l’abate stesso non abbia dato, oppure permesso di
tenere. «Tutto sia comune a tutti – come sta scritto – e nessuno dica o pretenda qualche cosa come
sua.» Se ci si accorge che qualcuno è portato a questo tristissimo vizio, lo si ammonisca una prima
ed una sec onda volta; e se non si emenda, subirà la correzione”
23
Cfr. «Admonitio Generalis» in «Monumenta Germaniæ Historica. Leges Capitolaria Regum Francorum », op.cit.,
pag 60..
11
Ne rileviamo una posizione radicale e inequivocabile che, tuttavia, come vedremo, verrà
abilmente “aggirata”, in particolare nella fase nascente e successivamente in quella
matura del feudalesimo (X - XII sec), attraverso la pratica delle “donazioni” grazie alle quali
il mondo monastico diverrà esso stesso potenza economica determinando fenomeni di
degenerazione in specie nella fase delle assegnazioni “commendatarie” dei Monasteri
stessi (XIV – XVII secc.).
Dal punto di vista dell’evoluzione storica, sappiamo che l’espansione a macchia d’olio
della RB, con la conseguente nascita d’un vasto reticolo di Monasteri in tutto il continente
europeo, fu il frutto di un’abile accordo fra la dinastia Carolingia e gli ambienti benedettini.
Si deve, in particolare, all’azione congiunta di Ludovico il Pio e Benedetto d’Aniàne se, fra
l’816 e l’817, la RB fu imposta come “unica” Regola vigente nei Monasteri del Sacro
romano Impero.
Tale diffusione determinò la parallela estensione in tutto il vecchio continente non solo di
eguali comportamenti liturgici, ma soprattutto d’identiche modalità operative in campo
economico – produttivo.
Opportunamente, ad esempio, Jacques Attali ha fatto notare come sia venuta mutando in
tutt’Europa la concezione del tempo grazie al fatto che ogni Monastero segnalava la
scansione delle proprie ore liturgiche e lavorative attraverso il suono delle campane le
quali, a loro volta, venivano ascoltate dai rustici dei villaggi circostanti i quali, lentamente,
certo senza volerlo, oppure attraverso lenti processi acquisitivi, impararono a scandire la
propria giornata modellandola su quella del mondo monastico24.
Il tempo si fece “ciclico” non solo per il mondo monastico ma per tutta la società alto
medievale, cosicché anche i laici si riconobbero nella grande suddivisione liturgica del
cristianesimo che di anno in anno si ripeteva sempre uguale a se stessa: Avvento, Natale,
Quaresima, Pasqua; una suddivisione che superava d’un balzo quella “lineare” del mondo
pagano classico e, soprattutto, che ben s’intrecciava con il ciclico ripetersi delle stagioni
perno di una società ormai totalmente agraria25.
***
A questo punto è opportuno chiudere ogni ulteriore approfondimento sulla RB e sulla sua
prima fase applicativa, tema che ci porterebbe troppo lontano e richiederebbe l’analisi
incrociata di molti Capitoli.
È il momento di concentrare l’attenzione sull’evoluzione delle vicende del grande corpo
monastico benedettino affrontando la questione della nascita delle Congregazioni e dei
diversi Ordini, ciascuno dei quali ha sviluppato, dall’intuizione iniziale del fondatore, una
propria peculiarità non solo dal punto di vista del “carisma” religioso, ma soprattutto nella
definizione d’uno stile di vita che ha prodotto difformi scelte “economico – produttive” da
cui discendono strutture architettoniche anch’esse peculiari e diverse l’una dall’altra che
hanno influenzato arte, cultura e condizioni materiali nell’interscambio con l’economia del
territorio d’insediamento o d’irradiazione.
 3. UNITÀ NELLA DIVERSITÀ: GLI ORDINI E LA UNA NUOVA ECONOMIA
24
Cfr, Jacques Attali «Storie del tempo» Milano, Spirali Ed., 1983. Con part. rif. alla parte “Conventi e clessidre” pagg.
57 – 67.
25
Dal punto di vista iconografico una visione della scansione temporale dei mesi in relazione alle attività agricole, è
offerta dal ciclo di affreschi della Torre dell’Aquila del Castello del Buonconsiglio di Trento.
12
L’assestamento sociale, istituzionale, organizzativo e militare apertosi con la dinastia
Carolingia26 (VIII sec.), proseguirà in forme sempre più definite dopo il giro di boa
segnalato dall’anno Mille.
Il pensiero economico lungo tutto l’alto medioevo valutò l’attività produttiva attraverso
l’ottica della compatibilità con gl’ideali teologici e religiosi, nell’ambito concettuale di una
subordinazione dell’economia alla morale cristiana27 ragion per cui mancò un vero e
proprio pensiero economico sistematico.
Vennero riprese idee di Clemente Alessandrino, Tertulliano, Cipriano e Lattanzio uniti da
un unico comun denominatore: la ricchezza concepita come pericolo per l’anima e,
dunque, i beni considerati solo come una pura necessità per la sopravvivenza corporale.
Sarà solo a partire dal XIII secolo che s’assisterà al fiorire d’un embrionale riflessione
economica sistematica, sollecitata dalla novità del movimento francescano (di cui ci
occuperemo seppur fugacemente nelle “Conclusioni”) che troverà in Piero Giovanni degli
Olivi il suo più fecondo esponente, e nell’Ordine domenicano (del quale pure ci
occuperemo altrettanto fugacemente) che avrà il suo massimo pensatore anche in campo
economico in Tommaso d’Aquino erroneamente ricordato solo per la sua «Summa
Theologica». Del resto prima dell’anno 1000 tutto era ancora fermo.
Sarà solo dopo il giro di boa segnato emblematicamente da tale data, che l’economia
comincerà a decollare grazie a molteplici innovazioni: la rotazione delle seminagioni,
l’introduzione dell’aratro con vomere, un nuovo tipo di collare a trazione da applicarsi ai
buoi senza che corrano il rischio di strozzarsi, l’introduzione dei mulini ad acqua, la forte
ripresa della circolazione di danaro resa possibile da poteri più stabili e, quindi, della
certificazione di nuovo conio; il ripristino d’una parte del reticolo viario romano e l’uso
massiccio dei grandi percorsi fluviali - in particolare nel centro Europa (Reno, Danubio,
Mosa, Senna, Garonna ecc.) - che rilanciò la circolazione delle merci e la proliferazione di
centri mercatili28.
Sta di fatto che fra IX e XII secolo, comunque, il mondo monastico si troverà ad essere, a
volte senza volerlo, in altri casi scientemente, il cuore ed il volano di questa rinascita
culturale ed economica: da un lato perché implicitamente la RB permetteva la costituzione
di proprietà non solo strettamente “private” ma anche religiose proprio in quanto funzionali
al sostentamento comunitario e non all’arricchimento del singolo, dall’altro lato, perché il
rifiuto della proprietà da parte dei singoli monaci, esplicitamente presente nel dettato della
RB, salvò capra e cavoli: se il singolo monaco era chiamato ad evitare ogni cupidigia,
l’istituzione monastica, nella sua accezione più ampia, poteva agire come un vero
potentato. Del resto, come acutamente osserva Ludo Mills:
«…tra l’altro, nel medioevo, la parola “povero” non connotava direttamente una persona priva di
beni, bensì un soggetto ininfluente o privo di potere. E dato che ai monaci non era neanche
consentito di “…disporre liberamente del proprio corpo…” (Capitolo LVIII della RB) il monaco
non poteva che essere povero”29».
26
Cfr. Paola Guglielmotti «I franchi e l’Economia carolingia» in «Storia medievale» Roma, Manuali Donzelli, 1998.
Pagg. 175 – 202.
27
Lungo tutto l’altomedioevo sia in ambito ecclesiastico che in quello civile sono state attive tendenze teocratiche,
rappresentate inizialmente da Sant’Agostino («De civitate Dei») e che raggiunsero l’estremizzazione ierocratica con
Egidio Romano («De potestate ecclesiastica», 1301) e Giacomo da Viterbo («De Regime christiano» 1301) mentre
saranno criticate da Marsilio da Padova e Gugliekmo di Ockham. Con la conclusione della “lotta per le investiture”
(1122) il tentativo primaziale della Chiesa verrà ridimensionato. Cfr. Renate Ute-Blumenthal «La lotta per le
investiture. Appendice bibliografica di Matteo Villani» Napoli, Liguori, 1997.
28
Cfr. Chris Wichham «Economia altomedievale» in in «Storia medievale» Roma, Manuali Donzelli, 1998. Pagg. 203 –
226.
29
Cfr. Ludo Mills «Monaci e popolo nell’Europa medievale» Torino, Einaudi, PBE, 2002. Pag. 26.
13
ne consegue che i beni d’un novizio proveniente da famiglia altolocata o le ampie
donazioni territoriali, gli usufrutti e quant’altro i potenti cedevano ai Monasteri. che, in
teoria, avrebbero dovuto essere redistribuiti ai poveri, in breve tempo furono considerati
semplicemente una “dote” da incamerare nell’ambito dei beni del Monastero quale ente
collettivo, giustificando tale scelta con la necessità di dover sostentare per tutta la vita sia il
singolo monaco di cui la comunità era chiamata a farsi carico, sia la comunità nel suo
insieme. Questo metodo divenne tanto più ampio e diffuso, quanto più il numero di monaci
crebbe a seguito di conversioni sincere e convinte, ma anche in ragione del più prosaico
fenomeno che vide migliaia di persone, spesso semplicemente affamate e prive d’ogni tipo
di risorsa, entrare nei Monasteri per assicurarsi un pasto ed un tetto, oppure vi lasciavano
la prole sapendo che in tal modo sarebbero stati accolti, istruiti e tutelati senza controllo
sull’esistenza o meno della vocazione.
 3.1. CLUNY: PRIMO ESEMPIO DI ECONOMIA MONASTICA SOVRANAZIONALE
Il Monastero di Cluny, destinato a diventare il centro monastico più importante di tutto il
medioevo, fu fondato l’11 settembre 909 o 910 per volere di Guglielmo, conte di Macôn e
Duca d’Aquitania nonché titolare di contee fra Linguadoca e sud della Borgogna.
La sua storia è stata scritta più volte e con alterne chiavi di lettura30 e non è questa la sede
per soffermarvisi; basti dire che nell’arco dei 256 anni intercorrenti fra la fondazione ed il
1166, anno in cui il re di Francia Luigi VII vi entrerà “manu militari” decretandone il lento
declino31, si è prodotta la più grande e significativa mutazione organizzativa dell’intera
storia del monachesimo occidentale.
Cluny si trasformò, infatti, da semplice Monastero locale, in una potenza ramificata in
“priorati”, “Abbazie” e “Monasteri” che finì col punteggiare – per usare l’espressione di
Rodolfo il Glabro”32 - tutta l’Europa cristiana altomedievale.
Ne nacque un Ordine che trascese di gran lunga l’originaria impostazione benedettina: i
monaci vestivano l’abito nero; ogni singolo nucleo doveva non solo essere autosufficiente
economicamente per se stesso, ma versare obbligatoriamente e permanentemente una
quota di surplus della propria produzione (o delle proprie “entrate” monetarie) alla “casa
madre”. L’Abate di Cluny, ad un certo punto, divenne talmente importante da esser definito
“l’Abate degli Abati”, posto al vertice d’una struttura piramidale modellata a similitudine
della società feudale laica e considerato secondo solo al Papa.
Questa gigantesca struttura poté nascere, proliferare e ramificarsi grazie al fatto che,
nell’atto fondativo, l’accorto Guglielmno d’Aquitania fece scrivere che:
“…i seguenti beni di mia legittima proprietà trasmetto dalla mia signoria a quella dei Santi
Apostoli Pietro e Paolo, e cioè la villa di Cluny, con la corte e la parte domenica e la cappella che
vi è…con tutte le pertinenze, vale a dire, cappelle, servi dei due sessi, vigne, campi, prati, boschi,
acque e corsi d’acqua, mulini, vie d’accesso e d’uscita, colto ed incolto nella loro
interezza….Stabilisco con questo dono che a Cluny sia costruito un Monastero di regolari in onore
30
Cfr. Glauco Maria Cantarella «I monaci di Cluny» Torino, Einaudi, 1993.
Lo scempio maggiore, però, si è avuto a seguito della Rivoluzione Francese. La municipalità di Cluny, per far cassa,
e comunque nello spirito delle “soppressioni” in spregio al “Terzo Stato”, vendette l’intero millenario complesso
monastico ad una impresa edile che lo smantellò completamente riutilizzando i mattoni recuperati per le grandi opere
dello sviluppo urbanistico parigino. Dell’antica, splendida costruzione monastica, oggi resta solo un rabberciato
transetto ed una sola delle torri campanarie.
32
Rodolfo il Glabro. «Storie dell’Anno Mille» con testo lat. a fronte. Roma, Lorenzo Valla editore, 2007.
31
14
dei Santi Pietro e Paolo, e che ivi si raccolgano monaci che vivono sotto la Santa Regola di
Benedetto, che i suddetti beni in perpetuità possiedano, tengano, abbiano ed ordinino…”33.
La “genialità” di questa scelta sta nel fatto che ponendo la fondazione di Cluny sotto la
diretta potestà degli Apostoli Pietro e Paolo, la dipendenza formale passava direttamente
nelle mani del Papa, inteso quale Vicario di Cristo in terra; un piccolo, apparentemente
insignificante “escamotage” che, invece, consentì a Cluny di rendersi autonoma per
sempre dall’intromissione nei suoi affari da parte di laici di qualsivoglia feudatario fosse
anche l’Imperatore.
Ma è dal punto di vista “economico – organizzativo” che i cluniacensi diedero vita alla
prima vera struttura economica di dimensione europea nell’ambito dell’economia
dell’autosufficienza monastica.
Seguendo il percorso ben illustrato dal Cantarella, si può constatare come tutti i 10
Abati34 che si succederanno nei 256 anni di nascita, apogeo e decadenza cluniacense,
avvalendosi di tale prerogativa di assoluta autonomia si mossero accortamente
estendendo quanto più possibile le proprietà non solo della “casa madre” ma di ciascuna
delle centinaia e centinaia di pertinenze che venivano via via acquisite dai priorati,
abbazie o Monasteri da essa dipendenti usando uno stratagemma non meno geniale:
ogni volta che si fondava un nuovo Monastero, in qualsiasi territorio del continente, l’atto
fondativa veniva considerato né più e né meno che una “integrazione” dell’atto primigenio
voluto da Guglielmo d’Aquitania. In pratica: la “Casa madre” estendeva “ipso facto” a tutte
le proprie “filiali” la stessa guarentigia assegnatale dal documento base ed ogni
“dependance” cluniacense era anch’essa posta sotto l’égìda del Papa e, dunque, libera
da ogni intromissione.
Sotto l’abbaziato di Ugo di Semour (1049 – 1109), la crescente importanza di Cluny finì
col produrre, inaspettatamente, un’innovazione in campo liturgico che segnò una svolta
epocale nella storia della Congregazione ponendo le basi per la modifica sostanziale dei
rapporti economici posti a base di quest’esperienza.
Avvenne che la maggior parte dei “donatori” che donavano a Cluny, o ad una delle sue
dipendenze, terreni, servi, danaro, prebende o usufrutti, chiedevano in cambio che i
monaci pregassero insistentemente per le loro anime o per quelle dei loro consanguinei
affinché potessero essere affrancati dalle pene del Purgatorioi, luogo “intermedio” fra la
dannazione infernale e la beatitudine celeste, non a caso “inventato” proprio in quel
periodo35. Questa novità costrinse sia la “casa madre” (Cluny) che tutte le altre migliaia di
dipendenze, a dover impegnare, improvvisamente, tutti i monaci principalmente
nell’attività liturgica che assorbiva la totalità del loro tempo: si istituì la pratica delle
cosiddette “laus perennis” (preghiere permanenti) resa possibile grazie alla rotazione
continua dei monaci nella celebrazione incessante di messe, preci, cerimonie di ogni
genere che non avevano mai interruzione né di giorno, né di notte.
In tal modo, però, venne a cadere uno dei capisaldi della RB:: il rapporto fra lavoro
manuale e preghiera, il ben noto “ora et labora”36.
33
Il testo integrale del documento è in Glauco Maria Cantarella «I monaci di Cluny», op.cit. pag. 13 – 15.
Per una cronolgia complessiva della storia cluniacense dalla fondazione al 1116 si veda la tavola in “Appendice” al
citato lavoro del Cantarella, pagg. 319 – 322. Per una biografia dei più importanti Abati cluniacensi, in particolare quelli
assurti agli onori degli Altari, si veda il lavoro, seppure di “taglio” decisamente agiografico di Raymond Oursel «Il
segreto di Cluny. Vita dei Santi Abati di Cluny da Bernone a Pietro il Venerabile (910 – 1156)» prefazione di Inos
Biffi. Milano, Jaca Book, 2001.
35
Rinvio, a proposito di tale pratica, all’ormai classico lavoro di Jacques Le Goff «Nascita del purgatorio» Torino,
Einaudi, 1981.
36
Merita notare che, a differenza di quel che si crede, tale motto non fu coniato da S. Benedetto ma è accertato che
entrò in uso solo dopo il IX secolo per cui fu certamente coniato da qualche altro monaco rimasto tutt’oggi ignoto.
34
15
Tale procedura, inedita, vedeva “esaltato “ il ruolo religioso ma, nel contempo, dal punto
di vista della struttura economica, creò l’esigenza di affidare ad altri il lavoro manuale al
posto dei monaci chiamati a svolgere esclusivamente il compito liturgico.
Si finì con l’affidare ai rustici il compito di coltivare terre, vigne, agrumeti, far funzionare i
molini, produrre il pane e quant’altro fosse necessario al sostentamento quotidiano d’ogni
singolo priorato o Monastero.
In pratica – si noti: esattamente com’era in uso per il potere feudale e laico – anche il
reticolo cluniacense si trasformò in una struttura che dava lavoro ed i contadini, in specie
nella fase calante del periodo cartolingio, fra VIII e IX secolo, divennero “servi dei
Monasteri” esattamente come tutti gli altri sottoposti alla servitù della gleba di matrice
“laica”. Si giunse seppur lentamente anche ad accettare l’idea che i cluniacensi potessero
affittare i terreni ricavandone in cambio il pagamento delle decime, adottando l’identica
procedura in atto da parte dei “potentiores” signorili.
In altri termini: dedotto quanto andava obbligatoriamente alla “casa madre”, o in termini di
danaro o di materiale surplus produttivo, la quota restante delle entrate monetarie o delle
produzioni sarebbe stata utilizzata per l’auto sostentamento d’ogni comunità religiosa;
un’altra parte sarebbe servita per assicurare il dovuto ai lavoranti, molti dei quali, si noti,
erano ben lieti d’esser posti sotto il giogo monastico piuttosto che sotto quello, ben più
pesante, dei potentati laici; infine una parte, ancor più residuale, sempre che fosse
rimasta, sarebbe stata consegnata ai poveri quantomeno per dare un’ultima parvenza
d’applicazione della RB.
Tale organizzazione avrà modo di consolidarsi nei 13 anni (1109 – 1122) intercorrenti fra
la morte dell’Abate Ugo di Semour e l’ascesa all’abbaziato da parte del controverso ed
ambiguo Ponzio di Melgueil37, finché - guarda caso nello stesso 1122 in cui si giungerà
alla stipula del Concordato di Worms, grazie al quale si chiuse, almeno formalmente, la
lotta per le investiture – cacciato Ponzio, il ruolo di “Abate degli Abati” fu assegnato a
Pietro di Montoboissier, che (ancora in vita, caso raro nella storia della Chiesa 38) fu détto
“Pietro il Venerabile”.
Molto si è scritto sui di lui, riconosciuto, a buon diritto, il personaggio che segna l’apice
della cultura e dell’organizzazione cluniacense39.
Per quel che mi riguarda in questa sede, chiamato ad esaminare la vicenda
dell’economia monastica, segnalo il fatto che nella più importante biografia petrina, scritta
dal benedettino P. Jacques Leclercq, questi sente il bisogno di dedicare un intero capitolo
al suo ruolo d’organizzatore, definendolo, non casualmente: “Un grande economista”40.
Tale definizione trae origine dal fatto che la sua visione in materia di gestione economica
si rivela, anche ad una lettura odierna, assolutamente lungimirante.
Già tra il 1025 ed il 1048, quindi ben prima di diventare Abate, aveva tentato di avanzare
proposte tese a raddrizzare la barca cluniacense, essendosi reso conto che la barca
cominciava a far acqua, e lo fece redigendo una bozza di riformulazione degli «Statuta»,
sorta di raccolta degli usi e consuetudini cluniacensi stratificatisi al di sopra della RB.
Una volta divenuto priore generale e, poi, settimo Abate, carica che ricoprirà dal 1122 al
1156, anno della sua morte, la riorganizzazione economica divenne il punto focale del
suo programma.
37
A proposito della figura di Ponzio di Melgueil rinvio non solo al già citato lavoro del Cantarella (pagg. 230 – 236) ma
anche alle mie ricerche pubblicate dalla Rivista dell’Accademia «Pasquale II».
38
Un caso precedente, altrettanto raro, risale a Beda il Venerabile.
39
La migliore, e più completa, biografia resta quella del grande storico benedettino Jean Leclerq ed. it.: «Pietro il
venerabile» prefazione di Inos Biffi, Milano, Jaca Book, 1991.
40
Jean Leclerq ed. it.: «Pietro il venerabile» op cit. pagg. 122 – 124..
16
Riorganizzò da capo a fondo tutta la macchina operativa cluniacense, stendendo un testo
che intitolò non casualmente: «Disposizio rei familiaris cluniacensis» (“Disposizione sulla
famiglia cluniacense”).
Vi troviamo la più limpida e chiara descrizione mai avuta da un documento monastico
sulle difficoltà organizzative, e nel contempo la vivace formulazione della nuova
organizzazione che Pietro il Venerabile impresse al gigante malato che un illustre
studioso di storia dell’economia come il Cipolletta ha definito il massimo complesso
economico dell’alto medioevo.
Scrive Pietro:
“…Quello che ho fatto per le cose spirituali ora lo faccio anche per l’interesse materiale dei
monaci…Quando sono stato elevato, ventisei anni or sono, a questa carica di Abate, ho trovato
una Chiesa grande, religiosa, illustre, ma assai povera rispetto ai suoi immensi compiti; le spese
erano considerevoli; le entrate, paragonate alle spese, quasi nulle. I fratelli della sola casa madre
erano quasi trecento e la casa poteva mantenerne a proprie spese a mala pena cento. Sempre vi
era una folla di ospiti ed un infinito numero di poveri bussavano al portone. L’annona proveniente
dai decanati bastava a malapena per quattro mesi, a volte nemmeno tre; il vino raccolto da ogni
parte non durava mai più di tre mesi e, se venduto per ricavare entrate, uno solo. Il pane era
scarso, nero e misto di crusca…il camerario economo solo per l’acquisto di grano spendeva ogni
anno ventimila soldi, senza parlare della altre spese….”41
A fronte di questa situazione l’energico Abate decise di muoversi più da “economista ante
litteram” che da pastore d’anime.
Non aumentò le risorse della casa madre, cui chiese, anzi, sacrifici e restrizioni; non
impose sforzi e tassazioni alle dipendenze, come avevano fatto in precedenza, con scarsi
risultati, i suoi predecessori Maiolo, Ugo di Semour e Ponzio di Melgueil, ripartendole in
maniera diversa e più funzionale. Tutte le dipendenze, priorati, abbazie e Monasteri del
continente furono richiamati all’ordine in modo che esse stesse si autoriformassero.
Scrive Leclercq:
“…prima di lui si operava alla giornata; capitava allora che i fratelli, i cui compiti erano mal
definiti, fossero sovraccarichi d’impegni, e siccome erano insufficienti ai propri impegni li
compivano malvolentieri. Per esempio il cellerario distribuiva i vestiti ai fratelli in modo scarso,
confuso, talvolta sgradevole: non sempre si dava a ciascuno secondo il proprio bisogno. Si doveva
nello stesso tempo badare alla carità fraterna ed alla povertà esterna così era importante
rimettere tutto in ordine.” 42
Se si esamina il comportamento di Pietro il Venerabile con gli occhi d’un moderno
manager, non si può far a meno di accorgersi – inaspettatamente – di quanto siano simili
le decisioni adottate a quelle così tipiche dell’odierno capitalismo maturo:
“…tese a garantire la regolarità degli approvvigionamenti e ad equilibrare meglio i consumi
interni. Ispirandosi ad un metodo ch’era stato sperimentato fin dall’VII secolo in alcuni grandi
Monastero come Saint-Wandrille o Lobbes, decise che ogni proprietà facesse, ogni mese, una
41
Jean Leclerq ed. it.: «Pietro il venerabile» op cit. pag. 122..
W. Williams «A great medieval economiist: Peter the Venerable».pagg. 37 – 43. cit da Jean Leclerq ed. it.: «Pietro il
venerabile» op cit. pag. 123.
42
17
consegna in proporzione al suo prodotto, dedotto dai bisogni della propria comunità, Questo
regime di mensilità era quello che offriva la più esatta bilancia tra produzione e consumo.” 43
In sostanza, non solo ogni dipendenza fu chiamata a versare mensilmente, fatta salva la
propria autosufficienza, una quota alla “casa madre”, ma, quel che più interessa notare, è
che tutte le “dipendenze” furono chiamate a supportare le spese generali secondo le
proprie possibilità auto produttive.
Anzi, nell’ultima delle tre stesure della «Disposizio rei familiari cluniacensis», datata 1054,
tre anni prima della morte, Pietro introdusse correttivi e precisazioni alla luce
dell’esperienza nel frattempo maturata:
“…oltre le proprietà dirette, che fornivano cibo, anche le rendite prelevate dai Monasteri di
Spagna ed Inghilterra, ed altre province dovevano dare il loro contributo; e designò alcune case
che invece di prodotti avrebbero versato un censo per permettere l’acquisto di tutti i manufatti e
gli attrezzi per Cluny…Questi provvedimenti contribuirono a rinsaldare i vincoli di solidarietà
fraterna: le membra tutte sostenevano il capo ed esso animava le membra. Rendeva loro in beni
spirituali, ciò che riceveva in beni materiali: sublime trasformazione del senso di carità. In
entrambi i sensi, in entrata e in uscita, vi era, all’interno di questo vasto «corpo cluniacense»,
un’intensa circolazione di beni...44”.
Questo meccanismo si rivelò funzionale, produsse buoni risultati, ma mutò radicalmente
e definitivamente la natura dell’esperienza cluniacense, originariamente nata nel solco
degli albori del monachesimo la cui ragione fondante era costituita da autonomia ed
autoproduzione.
Commisurando le imposte, fossero esse sotto forma di derrate alimentari, vestiario o
danaro, con i proventi e le caratteristiche di ciascun Monastero periferico, forse senza
volerlo coscientemente, Pietro il Venerabile finì col determinare la nascita d’un vero e
proprio mercato a circolazione interna e, per la prima volta dalla caduta dell’Impero
romano d’Occidente, agendo su dimensione che oggi definiremmo internazionale.
In pratica: ogni singola abbazia, priorato o Monastero tratteneva il quantum necessario al
proprio sostentamento; girava il surplus a Cluny, la quale, in quanto “Casa madrer”, a
rendiconto finale, poteva eventualmente restituire qualcosa a quelle realtà che dovessero
improvvisamente trovarsi di fronte ad un’emergenza inattesa: una guerra, un cataclisma
naturale o un’epidemia.
Nei 110 anni intercorrenti fra la morte di Pietro il Venerabile (25 dicembre 1156) e
l’entrata di Luigi VII a Cluny (1166), questo sistema economico sempre più piramidale ed
“internazionale” s’affinerà e potenzierà progressivamente. Si giunse persino ad una vera
e propria divisione e diversificazione internazionale nelle produzioni, come dimostra una
relazione cluniacense successiva alla morte di Pietro il Venerabile, studiata da Georges
Duby, dalla quale apprendiamo che:
“…alcune dipendenze producevano solo il grano per il pane bianco e per le Ostie Sacre; alcune
la segale per il pane per le persone di categoria inferiore, altre si specializzavano in foraggio, in
formaggio, fagioli o vino. Ciascun priorato diventava l’unico fornitore del suo prodotto per un
dato periodo di tempo. Il Monastero di Lourdon forniva cereali per il pane in febbraio e marzo;
43
44
Cfr. «Pietro il venerabile» op cit. pag. 123,
Cfr. «Pietro il venerabile» op cit. pag. 124.
18
Mazille doveva provvedere per tutta l’avena necessaria ai cavalli e muli di Cluny per una singola
notte; July e Saint-Hippolyte assicuravano i rifornimenti di vino per un mese…”45 .
Prese piede, dopo la morte di Pietro, una concezione da “impero monastico”, che trovò il
suo apice durante l’abbaziato di Odilone (1157 -….. ) che coincise con la massima
acquisizione di donazioni e la crescita esponenziale del patrimonio.
La potenza cluniacense si fece visibile anche attraverso l’adozione d’un vero e proprio
“stile architettonico” riferito non solo alle Chiese ma anche alle strutture deputate alle
attività agricole.
La gigantesca struttura dell’Abbazia di Cluny, superiore a ciò che era all’epoca S. Pietro
in Roma, influenzò notevolmente l’intera edilizia romanica del tempo 46, tanto che
ritroviamo, quasi serializzato, ovunque in Europa il medesimo stile della Cattedrale della
Casa madre.
Parallelamente gli edifici non legati alla stretta attività liturgica seguirono la stessa logica:
ovunque furono costruiti in aree pianeggianti e molto estese; vi si prevedevano ambienti
lavorativi, silos per le sementi, stalle, segherie, sartorie, laghetti artificiali per
l’allevamento ittico, luoghi di ammassamento e conservazione della frutta e degli ortaggi;
si eressero foresterie specifiche in caso di visite nobiliari.
Cluny, crebbe e s’arricchì costantemente e, al pari dei proprietari terrieri, gli Abati
cluniacensi assunsero ruoli politici, costretti dalle dinamiche oggettive a rispondere alle
stesse forze che influenzavano il comportamento dei signori secolari.
Ad un certo punto, però, la ricchezza e l’espansione terriera iniziarono a mettere in crisi
gli spiriti mistici votati consapevolmente alla scelta monastica, i quali, volendo ritrovare lo
spirito pauperista delle origini, sentirono crescere il fastidio nei confronti di
quest’allontanamento” dalla “puritas” della RB.
Ne scaturì quella che oggi, mutuando il linguaggio politico, definiremmo una “scissione”
che condusse alla nascita d’un nuovo Ordine monastico che imposterà una struttura
“economico – produttiva” originale sotto tutti i punti di vista e tale da segnare
indelebilmente tutto il medioevo dal XII secolo ai nostri giorni.
 3.2. CÎTEAUX ED I CISTERCENSI: DALLE “GRANGE” ALLA “FILIAZIONE”
La polemica che si sviluppò in seno alla famiglia cluniacense trovò un suo momento
catalizzante e decisivo fra il 1097 ed il 1098.
Da tempo s’erano levate voci che chiedevano il ritorno alle origini, ma erano rimaste voci
isolate, finché il disagio trovò un punto di riferimento in alcune “idee forza” che
cominciarono a circolare oralmente: esse auspicavano una radicale riforma del mondo
monastico attraverso il recupero delle fonti ispiratrici, in specie alla RB, il ritorno alla
povertà come stile di vita, la ricerca della solitudine (“nudos amat eremus” = il deserto ama
coloro che non hanno nulla), la ricerca d’una nuova organizzazione che scongiurasse
l’arricchimento realizzatosi con l’esperienza cluniacense.
Fu fra le mura di un piccolo Monastero fondato nel 1075 nella foresta di Molesme, che il
dibattito e la riflessione sulle “distorsioni” dell’esperienza cluniacense, si fece stringente
grazie alla contemporanea presenza di tre figure intellettualmente rilevanti e dalle forti
45
Georges Duby «Un inventaire des profits de la seigneurie clunisienne à la morte de Pierre le Venerable» in «Petrus
Venerabilis 1156 - 1956» a cura di G. Costable e J. Kritzek «Studia Anselmiana» n. 40, Roma, 1956, pag. 128 – 140.
46
Si ritrovano caratteristiche nettamente cluniacensi nelle Chiese dei Monasteri di tutt’Europa, ad esempio a: SaintPhilibert di Turnus (Borgogna), di Mont Saint-Michel (Bretagna), Hirasu (Foresta Nera in Germania), Romainmôntier
(Giura Svizzero), San Polirone di Po (Italia).
19
caratteristiche carismatiche: l’Abate fondatore, Roberto; il priore Alberico ed il monaco
d’origine inglesi Stefano Harding.
Dopo anni di confronti interni, il 21 marzo 1098, giorno della festa di S. Benedetto, i tre,
seguiti da altri 18 confratelli, ottenuta la dispensa dal Vescovo e legato pontificio Ugo di
Lione e del Vescovo Gualtieri di Chalon, lasciarono Molesme per edificare una nuova
struttura monastica, in una zona paludosa e malsana donata loro dal Visconte Renaud di
Beaune. La nuova fondazione, fatta solo di poche capanne di legno, fu chiamata
semplicemente e banalmente “Novum Monasterium” (“Nuovo Monastero”) ma, negli anni
successivi, si ssarebbe imposta in tutta l’Europa cristiana mutuando il nome della palude
ove era insediata: “Citeaux”.
Non è questa la sede per trattare diffusamente la storia dei fondatori, né, tanto meno,
quella dell’Ordine cisterciense47, argomenti che ci porterebbero troppo lontano rispetto
all’argomento centrale di questa ricerca; limitiamoci a dire che gli albori del “Novum
Monasterium” furono effettivamente corrispondenti agli ideali di povertà, ascetismo e
isolamento dal mondo che erano stati alla base della separazione dei 21 da Molersme e
dall’ordine cluniacense.
Questo primo “esperimento rinnovatore”, come pure altri esperimenti riformatori che si
svilupperanno fra XI e XIII secolo di cui ci occuperemo brevissimamente, furono resi
possibili da una sorprendente libertà e varietà d’interpretazioni del testo della RB, segno,
peraltro, della sua intrinseca vitalità.
In sostanza, come sottolinea lo storico cistercense, padre Louis Lekaj:
“…la maggior parte dei riformatori, pur professando un’altissima fedeltà alla Regola, la
interpretarono, senza lasciarsi prendere da scrupoli ermeneutica…”48
e sarà proprio nella questione della gestione economica ed organizzativa che si
delineeranno le più significative articolazioni e differenziazioni , da cui nasceranno i
diversi Ordini che si distingueranno, gli uni dagli altri, a partire da queste tematiche.
Nel corso della prima fase di vita del “Novum Monasterium” si giunse ad un passo dalla
fine dell’esperimento49 se non ché il secondo Abate, Alberico, mémore della ragione per
cui Cluny ebbe totale autonomia dai potentati laici, si diede da fare fino a quando, nel
1100, ottenne dal Papa Pasquale II la diretta protezione della Sede apostolica 50, mentre il
16 novembre 1106 il Vescovo Gualtieri di Chalon consacrò la nuova Chiesa in luogo
scelto appositamente leggermente a sud dell’originaria fondazione del 1098.
47
La sterminata bibliografia sull’argomento richiede un’impietosa sintesi assolutamente orientativa e tale da suggerire
esclusivamente testi “di base”. Mi permetto di suggerire: M. Raymond «Tre frati ribelli. Storia e avventura dei
fondatori dei monaci bianchi» Roma, San Paolo, 2006. Claudio Stercal «Stefano Harding. Elementi biografici e testi»
Milano, Jaca Book, 2001. Louis L. Lekaj «I Cistercensi. Ideali e realtà» Pavia, Certosa di Pavia, 1989. Terryl N.
Kinder «I Cisterciensi. Vita quotidiana, cultura, arte» Milano, Jaca Book, 1998. «Le origini cisterciensi. Documenti»
[A cura di Claudio Stercal e Milvia Fioroni] Milano, Jaca Book, 2004. Léon Pressourye «I cisterciensi e l’aspirazione
all’assoluto» Roma – Parigi, Universale Electa/Gallimard, 1999. Una sintesi anche nei capitoli “Agli esordi di Cîeaux:
Roberto di Molesme e Alberico” (pagg. 307 – 322); “Stefano Harding e il modello cistercense” (pagg. 323-350); “La
fase di transizione dei cistercensi” (pagg. 351 – 360) e “Bernardo di Clairvaux: un’altra frontiera della cristianità”
(pagg. 361 – 386) del già cit. E. Marigliano – M. Zorzin «Medioevo in Monastero» op.cit.
48
Cfr. Louis L. Lekaj «I Cistercensi. Ideali e realtà», op.cit, pag. 13.
49
Roberto di Molesme, a seguito di una trama ordita contro di lui dai vecchi confratelli da cui si era allontanato, venne
“richiamato all’ordine” e costretto dai superiori a rientrare nella struttura cluniacense e sembra che a Cîteauxfossero
rimasti solo 8 monaci. Le vicende delle origini cistercensi sono ricostruite sia dell’«Exordium parvum», dell’«Exordium
Magnum».e soprattutto della «Chsrta caritatis» e degli«Eclesiastica Officia» che sono, nell’insieme, i testi base per la
comprensione della vicenda cistercense tutti rintracciabili sia dal Lekaj che dai documenti originali offerti dal lavoro
«Le origini cisterciensi. Documenti» ove il lettore troverà il testo originale latino e la traduzione italiana
50
Ho esaminato questo tema nel mio «I rapporti fra papato e monachesimo attraverso il confronto di tre documenti di
Pasquale II» in «Studi medievali» Pordenone, ed. Omino Rosso, 2008, pagg. 49 – 74.
20
Il terzo Abate, Stefano Harding (1109 - 1134), formidabile ed acuto organizzatore, pur
scontrandosi con pesanti difficoltà economiche, mantenne la convinzione che la proprietà
fondiaria originaria, che comunque era d’estensione e qualità mediocre, dovesse restare
immutata, ben sapendo che essa non sarebbe mai bastata ad assicurare il sostentamento
della pur esigua comunità, tasnto che, depresso, scrisse:
“…temo che l’istituzione sorta con noi termini con noi.”51
Il vento mutò nel 1112 allorché un giovane di 22 anni – Bernardo di Fontaine – si rivolse a
Cîteaux assieme ad uno stuolo di 30 giovani delle migliori famiglie della Borgogna, fra i
quali 4 suoi fratelli e 2 zii materni: tutti chiesero di farsi monaci determinando, così, la
svolta per il piccolo e quasi morente “Novum Monasterium”.
Saranno loro - ed in particolare Bernardo – a segnare la storia successiva dei cistercensi.
Imporranno l’abito bianco per distinguersi dai cluniacensi e per il popolo questo semplice
atto sarà il segnale chiaro di una “rottura” simbolica con il passato dei monaci “neri” vissuti,
a torto o ragione, come arricchitii e lontani dallo spirito della RB.
Per evitare il riprodursi della struttura “piramidale” che aveva caratterizzato l’intera vicenda
storica cluniacense e nel contempo per impedire che nascessero Monasteri il cui numero
di monaci determinasse l’impellente necessità di iper produzione economica, fu adottato
un concetto inedito: la “filiazione”.
In pratica, ogni qual volta un nucleo di monaci (almeno 12) volesse dar luogo ad un nuovo
insediamento monastico per mantenere vivo lo spirito originario della riforma anti
cluniacense, l’Abate del Monastero d’appartenenza, convocato il “Capitolo”, consentiva la
“diaspora” che dava luogo alla nascita d’un nuovo insediamento.
Si determinava, così, un flusso continuo d’irradiazione e nascita di nuovi centri monastici
che, di filiazione in filiazione, favorivano l’allargamento del nuovo Ordine evitando, però, il
ripetersi dell’esperienza, tutta centralizzata e piramidale, ch’era stata alla base del modello
cluniacense. Tale diaspora verrà chiamata “sciamatura”, a similitudine del vagabondare
degli sciami d’api impegnati a fondare sempre nuovi alveari.
Nel giro d’un pugno di anni da Cîteaux “filiarono” le prime quattro nuove fondazioni: La
Ferté (1114); Pontigny (1114); Clairvaux (1115) e Morimond (1115).
Da ciascuna di queste quattro sedi nei decenni successivi si dirameranno, di filiazione in
filiazione, decine e decine di nuovi Monasteri in tutt’Europa, anche se la più famosa
resterà Clairvaux grazie al fatto che il primo Abate sarà proprio S. Bernardo che assumerà
il nome di Bernardo di Clairvaux (Berardo di Chiaravalle).
La prova del successi di quest’originale percorso è oggi identificabile nella toponomastica
di tutto il continente europeo: in Italia, ad esempio, ritroviamo Chiaravalle milanese e
Chiaravalle della Fiastra entrambe figlie di Clairvaux; Morimondo milanese derivante da
Morimond.
Altri segni distintivo del nuovo “Ordine”: la dedicazione alla Vergine Maria di tutte le Chiese
cistercensi; per le nuove fondazioni, dopo la prima “filiazione”, l’assunzione del nome non
solo dalla derivazione della “casa madre” di partenza dei fondatori, ma la descrizione dei
luoghi d’insediamento,col ché oggi abbiamo nomi desumibili dalla bellezza delle valli
(Bonnecombe, Bellecombe, Bellevaux, Bonnevaux, Valbonne e Valbuena); la freschezza
delle acque vicine ai siti prescelti (Fontfrooide, Fontanafredda, Acquafredda, Fontenay,
Fontane, Fountains, Bellaigue, Aiguebelle, Aquaformosa); l’orrore degli stagni (Noirlac); la
vastità delle foreste (Grandselve), che contrasta con la ristrettezza dei fondoovalle
(Liecroiussant, Valcroissanta, L’Escale-Dieu).
51
Cfr. . Léon Pressourye «I cisterciensi e l’aspirazione all’assoluto» op.cit. pag. 26.
21
In questa primissima fase l’utopia autarchica dei Padri del deserto sembrò trovare, per un
attimo, la vitalità persa sotto la polvere dei secoli cluniacensi: ne abbiamo prova nei testi
intrisi di grande mistica non solo religiosa ma autenticamente, e fin troppo contemporanei
rispetto al nostro sentire ecologista, di Guerrico d’Igny, Isacco della Stella, Guglielmo di
Saint-Thierry52.
Riprese slancio e centralità nella giornata monastica il lavoro manuale, tanto che i
Cistercensi sono stati considerati gl’inventori della moderna Europa rurale: dissodarono
terre dall’Armorica all’Elba, dalla Scandinavia all’Andalusia; divennero provetti idraulici
drenando paludi e riscoprendo le tecniche di deviazione dei fiumi usate dagli antichi
romani; accanto a ciascuno dei loro Monasteri non mancherà mai la piscicoltura, abbiamo
persino il caso del Monastero lombardo di Moribondo in cui i monaci costruirono una vera
e propria ghiacciaia per la conservazione dei cibi che anticipa di un millennio le soluzioni
del XIX secolo53; realizzeranno, infine, il raddoppio dei rendimenti agricoli e
s’impegneranno nella viticoltura.
Accanto ai monaci si raccolsero, in numero limitato e soprattutto volontario, quei laici che
vollero assumere lo stile di vita monastico, senza tuttavia pronunciare i voti di promessa
solenne.
Anche questo fu un segno di inequivocabile “rottura” col modello cluniacense: ne nacque
la figura dei “conversi” per i quali venne stilata una vera e propria “Regola” suppletiva,
separata e nel contempo integrativa alla RB, denominata “Usus conversorum”54.
Ma il principale risultato che i Cistercensi realizzeranno in campo economico sarà la vera e
propria “ideazione” di fattorie modello cui diederoo il nome di “grange”.
Ciascuna fu edificata con l’idea d’essere essa stessa un’isola d’autosufficienza posta al di
fuori e, soprattutto, lontana dal Monastero, di modo che questo restasse esclusivamente
luogo di preghiera e di vita dei monaci, i quali nell’arco della giornata erano però
comunque impegnati nel lavoro agricolo presso le “grange” operando fianco a fianco sia
dei fratelli conversi che dei villici, interrompendo il lavoro solo nel momento della
preghiera, cui s’associavano i lavoranti, ai quali veniva dato, in cambio del lavoro prestato,
parte del prodotto.
Persino architettonicamente i Cistercensi, in particolare sotto la spinta di S. Bernardo,
realizzarono una netta separazione fra il Monastero (ove doveva esserci la Chiesa, il
Chiostro, le celle dei singoli monaci ed il refettorio comune) e la “grangia” la cui struttura
era funzionale solo al lavoro agricolo, prevedendo granai, stalle, porcilaie, staie per gli
animali da cortile, stalle, luoghi per il ricovero degli attrezzi e via dicendo.
Per fare un solo esempio, fra le migliaia di quelli possibili, un documento del 1248 riferisce
della situazione d’una “grangia” in territorio denominato Vaulerent dipendente dal
Monastero di Chaalis, che controllava un territorio di 380 ettari, risultato della
ricomposizione fondiaria concordata con i potentati laici locali e coltivato solo da monaci e
conversi secondo il rigoroso criterio della rotazione colturale, per cui:
“…il deposito aveva una capacità di 6.000 metri cubi, corrispondente, secondo gli specialisti, a
3.500 metri cubi di covoni di grano, ossia ad un raccolto di 2.000 quintali.”
A differenza della logica organizzativa cluniacense, i cisterciensi operavano veri e propri
accordi con i laici; davano lavoro anche ai villici retribuendoli in natura e le “grange”,
all’occorrenza, si consentiva fossero utilizzate anche dai laici come ovili, stalle, ricoveri per
il proprio bestiame in cambio di derrate alimentari.
52
AA.VV. «Scuola cistercense. Testi» Roma, San Paolo, 1998.
Cfr. Michela Cozzi e Pamela Zizza «La ghiacciaia di Morimondo» in «Fondazione Abbatia Sancte Mariæ de
Morimondo»Anno IV – Numero 1 – Aprile 1997. pagg. 19 – 21.
54
Per il testo lat. con it. a fronte degli «Usus conversorum» Cfr. «Le origini cisterciensi. Documenti» op.cit.
53
22
Sul piano delle opere idrauliche l’inventiva cistercense fu il perno della rinascita economica
del XII secolo.
Anche qui è opportuno riferirsi alle fonti del tempo: i monaci bianchi insediatisi nell’isola
scandinava di Søro nella Diocesi di Roskilde, stipulato un accordo col Vescovo Anders
Sunesen e col conte locale, scavarono un canale che deviò le acque di un lago a monte
della loro “grangia” principale; lungo il percorso fluviale installarono tre mulini ad acqua per
la lavorazione dei cereali in farina; sbarrarono parte del lago con reti per farvi una enorme
peschiera. Tutti i prodotti venivano equamente divisi, secondo l’accordo, e il surplus
serviva sia a pagamento del lavoro manuale dei villici, sia a sostentamento dei poveri.
Anche la metallurgia fu campo d’intervento: in taluni casi divenendo persino un settore di
punta di alcuni Monasteri. Nelle zone ov’era presente una qualche realtà di giacimenti (il
caso più eclatante fu quello dei Monti metalliferi dell’Erzgegirge) un valente laico
avvicinatosi ai monaci, Walkenried, diede vita ad un’attività estrattiva e successivamente
di lavorazione di alto livello, che finì col fornire attrezzi da lavoro in sostanza a tutta la rete
monastica cistercense del continente, inventando per di più, il sistema della lavatura del
materiale estratto e della forgia a tempi ristretti.
Ne nacquero varie “grangie” specializzate (Longuay e La Crête) ma, soprattutto, nei pressi
di Cîteaux, la grangia più famosa, La Forgeotte, ove fra il 1165 e il 1182 furono realizzati
impianti dotati di fucina posta al centro d’un vasto complesso lavorativo.
Maestri anche nell’edilizia, si deve ai monaci cistercensi il passaggio dal romanico al
gotico e, per quanto riguarda la lavorazione del vetro, l’introduzione oltre che delle vetrate
a smalto anche quelle détte “a grisaglia”, volute dal polemico ed irruento S. Bernardo per
contrastare la presunta distrazione dalla preghiera rappresentata dalle splendide vetrate
colorate presenti nelle Chiese cluniacensi.
Nel 1248 il capo architetto per la costruzione della basilica e del Monastero di Himmerod
fu un monaco cisterciense di cui non ci è giunto il nome, mentre sappiamo tutto di Achard,
Il maestro dei novizi di Clairvaux, inviato in loco espressamente da S.Bernardo a
controllare la fase finale della costruzione dopo la morte improvvisa del predecessore; nel
medesimo periodo, altri tre “monaci edili” (corrispondenti ai nostri attuali architetti) furono
inviati a Fountains e Clairmarais per disegnare le piante non solo dei Monasteri ma
soprattutto delle “grange” dipendenti.
La tradizione di monaci cistercensi quali capi cantieri sussistette fino al XIII secolo, come
dimostrato da atti da cui si evince che nel 1248 capo architetto a Marienfeld è il monaco
Sigerico; a Doberan, fra il 1243 ed il 1248 si succedono ben quattro “monaci edili”: Rother,
Siegebold, Ludolf ed Errico; altri esempi riguardano anche i castelli di Georgental,
Loccum, Lehinin, Eldena, Lilienfeld, Porta e Bebenhausen a testimonianza del fatto che la
pratica d’assegnare a monaci cistercensi tale ruolo divenne una regola ampiamente
accolta anche dai potentati signorili e non solo nell’ambito monastico.
La struttura e la crescente diffusione di così tante attività, lentamente portò anche i monaci
bianchi ad assumere forza e rilievo economico e territoriale.
Il carisma di S. Bernardo, poi, s’incrocerà con la ferrea campagna che egli stesso svolse a
favore della Seconda crociata e l’intero Ordine monastico farà da incubatrice alla nascita
della milizia crociata per eccellenza: i Templari55.
IN sostanza: l’economia di tutto l’Occidente dall’XI sec. in poi verrà plasmata dai
Cistercensi, ed il loro Ordine – nato dal desiderio di ritorno alla povertà ed alla lettera della
RB – finirà anch’esso, col tempo, col ripercorrere la parabola che in precedenza era stata
dei cluniacensi.
Un nuovo tentativo di riforma, anch’esso nel segno della ricerca del ritorno alle origini della
RB, verrà dall’interno stesso del mondo cisterciernse nel XIX secolo.
55
Cfr. Barbara Frale : I Templari» (Ed. Il Mulino, 2004)- Peter PARTNER «I Templari» Torino, Einaudi, 1991.
23
 3.3. I TRAPPISTI
Scrive il Lekaj:
“…l’incendio della Rivoluzione francese non si era ancora spento, che già alcuni eroici
cistercensi s’erano messi a lavorare sodo…”56.
La citazione non è priva di senso: durante e dopo la Rivoluzione francese, specie al
seguito delle truppe napoleoniche, si realizzarono vaste soppressioni di ordini monastici e
di confisca delle loro proprietà in quanto espressione del potere temporale della Chiesa e
del ruolo vessatorio nei confronti del popolo nonché di appoggio all’”ànciene régime” da
parte del “Terzo stato”.
Nel 1663, ripercorrendo il percorso che secoli prima aveva visto protagonisti Roberto di
Molesme, Alberico e Stefano Harding, un coraggioso Abate commendatario cistercense
del Monastero di Notre-Dame de la Trappe – Adalbert Dé Rancé – reintrodusse le antiche
osservanze recuperando in toto la rigida applicazione della RB.
Scrive ancora il Lekaj:
“…si trattava di un gruppo di monaci severamente disciplinati che dormivano si tavolacci,
usavano solo un guanciale riempito di paglia ed una sola coperta di paglia. La loro dieta si
limitava ae, acqua e legumi, bolliti. Questi nuovi atleti della mortificazione si alzavano alle due del
mattino e dormivano poche ore, trascorrevano da cinque a sette ore in un lavoro rigorosamente
manuale faticoso e consacravano il resto della loro giornata alla preghiera; nelle feste solenni
quest’ultima attività durava almeno dodici ore.”57
Riapparvero norme severe: divieto di bere vino e cibarsi di pesce e carne; rigido regime
orario reintroducendo le veglie notturne; osservanza assoluta del silenzio, tanto che a La
Trappe (da cui il nome “trappisti) riapparve il linguaggio dei segni, tipico dei primi tempi
eroici cistercensi58. La scelta dell’isolamento più totale è attestata dal motto che
campeggiava (e che si ritrova tutt’oggi) in tutti i Monasteri trappisti, all’entrata del chiostro;
“O beata solitudo, o sola beatitudo” (Beata solitudine, sola beatitudine) mentre in ogni
locale campeggiava (ed esiste tuttora!) l’imperativo: “silentium”.
Siamo di fronte ad una risposta che, recuperando il vecchio percorso benedettino e delle
prime origini cluniacensi, apparve ai contemporanei una rinascita.
Anche per i trappisti la simbologia più evidente per marcare il distacco dall’esperienza
cistercense, esattamente com’era avvenuto al tempo dei primi cistercensi dai cluniacensi,
sarà nuovamente l’’abito: al di sopra del saio bianco essi scelsero di indossare una cocolla
di lana grigia o nera, mentre il cingolo (cintura) non è di stoffa e neppure (come sarà per i
francescani) di corda, ma di cuoio; in ogni stagione, infine, gli zoccoli di legno da portare
senza calze.
La dieta rigorosamente vegetariana determinò l’esclusione d’ogni attività che non fosse
l’orto per la sussistenza comunitaria abbinandovi l’erboristica, la produzione di mieli e
frutta trasformabile in confetture; non a caso i trappisti sono diventati esperi nella
farmacopea naturale. Anche quando – a partire dal XVIII secolo – qualche comunità
56
Cfr. Louis L. Lekaj «I Cistercensi. Ideali e realtà», op.cit, pag 223.
Cfr. Louis L. Lekaj «I Cistercensi. Ideali e realtà», op.cit, pag 224.
58
Va detto che, seppur con successivi aggiustamenti tecnici, il linguaggio dei segni in uso fra i primi cistercensi e
ripreso dai trappisti è alla base della moderna “lingua dei segni” utilizzata dai non udenti e non parlanti.
57
24
decise di avviare piccole attività di vendita di tali prodotti, il danaro ricavato non doveva
mai determinare accumulo.
Queste consuetudini, tuttora vigenti, s’abbinarono a nuove specializzazioni produttive,
come, ad esempio, nella maggior parte dei Monasteri trappisti del Belgio, nella produzione
di birre selezionate d’altissima qualità ormai note in tutto il mondo e che, però, vengono
immesse sul mercato non già dagli stessi Trappisti ma da Ditte specializzate ed esterne al
mondo monastico.
 4. IMPOSTAZIONI E SCELTE ECONOMICHE D’ALTRI ORDINI MONASTICI
Potremmo chiudere qui il pur sommario percorso illustrativo sull’economia del mondo
monastico occidentale successivo alla RB.
Non è possibile, però, evitare di fare almeno qualche rapido cenno ai principali “Ordini”
che sono nati ramificandosi dalle due principali correnti che abbiamo sin qui esaminato.
 4. 1. LE DUE FORME CAMALDOLESI (“Congregatio Camaldulensis”)
L’Ordine oggi noto come “Camaldolese” fu fondato da S. Romualdo, nobile ravennate
nato nel 952 e morto nel 1027, il quale, dopo un periodo di permanenza presso i
Benedettini di Sant’Apollinare il Classe, nel 1012 ottenne dal nobile Maldolo un terreno
posto sulle montagne casentinesi, in Toscana; il nome “Camaldoli” deriva, infatti, dalla
locuzione “Cà Maldolo” = casa di Maldolo.
La caratteristica principale della scelta romualdina risiede nel fatto che, compiendo un
salto concettuale all’indietro di miglia d’anni, s’ispirò ai Padri del deserto recuperando lo
spirito eremitico e facendolo convivere con quello cenobitico.
Per realizzare concretamente questa inedita “mediazione” tra eremo e cenobio, Romualdo
dettò alcune norme (“Consuetudines Congregatio Camaldulensis”) che, però, furono
messe per scritto solo nel 1080, ovvero 52 anni dopo la Sua morte, dal quarto Priore
dell’Ordine, Rodolfo. Costui, successivamente beatificato, probabilmente integrò con
proprie scelte le volontà del fondatore trasmesse oralmente, stabilendo uno stile di vita
diverso sia dai modello cluniacense che da quello cistercense.
Ne è nato un modello per cui in gran parte dell’anno i monaci vivono in Monastero
attuando la vita comunitaria esattamente come i monaci degli altri Ordini; poi, solo quando
il singolo si sente pronto a trascorrere un periodo in assoluto isolamento, ne fa richiesta
all’Abate che concede l’autorizzazione a trasferirsi in Eremo cinto da mura e costruito
sempre a ragguardevole distanza dal Monastero.
L’Eremo, a sua volta, è composto da singole celle, ognuna delle quali dispone d’un orto
personale che spetta al singolo monaco curare assicurandosi, in tal modo, il proprio
sostentamento per tutto il periodo d’isolamento. Ne consegue che in tale fase la dieta del
“monaco eremita” è esclusivamente vegetariano, mentre invece nel periodo di vita
comunitaria è concesso qualsiasi tipo di cibo tranne che nel periodo quaresimale.
I Camaldolesi indossano il saio bianco con cappuccio; hanno sviluppato, come
specializzazione la silvicoltura, ovvero la cura e protezione delle foreste, cui abbinano la
lavorazione divenendo produttori d’opere lignee il cui valore è spesso ineguagliabile e
riconosciuto da “expertise” di livello internazionale.
Al pari di cluniacensi e cistercensi, anche questa Congregazione ha vissuto una propria
“mini scissione”.
Nel 1523 ad opera del monaco d’origine veneziana Paolo Giustiniani, anch’Egli
beatificato, nacque la «Congregazione Eremitica di Monte Corona» (“Congregatio
25
Eremitarum Camaldulensium Montuis Coronae”) che si discosta dalla precedente
esperienza per aver eliminato la vita comunitaria a totale vantaggio di quella eremitica.
I monaci “coronati”, quindi, sono esclusivamente eremiti; non edificano Monasteri, ma
esclusivamente villaggi costituiti da piccole casette, in ciascuna delle quali vive in totale
isolamento il singolo “monaco – eremita” che vive dei prodotti del proprio orto.
Ogni “villaggio” non può mai superare il numero di 12 presenze e l’unico momento di
ritrovo è la preghiera comune domenicale. Anch’essi indossano il saio bianco munito di
cappuccio. Il riscaldamento di ogni singola casetta è a legna e, ancor oggi, l’illuminazione
non è elettrica.
 4. 2. LA CONGREGAZIONE CASSINESE (“Congregatio Casinensis”)
Nasce nel 1408 per volere del nobile veneziano Ludovico Barbo, irradiandosi a partire dal
Monastero benedettino padovano di Santa Giustina, anche se il nome deriva dal
Monastero di Montecassino che aderì alla scelta del Barbo nel 1504.
Mantengono l’abito nero dei benedettini, in ciò proseguendo sulla scia cluniacense; il loro
stile di vita è totalmente estraneo ad ogni attività di natura agricolo – produttiva,
focalizzando l’impegno sulle attività intellettuali fra le quali emergono la rilegatura di libri, il
restauro d’opere d’arte, la produzione di icone, e – fra le monache – la tessitura di
paramenti sacri.
 4.3. CONGREGAZIONE OLIVETANA (“Congregatio Sanctae Mariae Montis
Oliveti”)
Fondata nel 1313 dal nobile senese Bernardo Tolomei ha la sua sede sulle pendici delle
“Crete senesi”, vestono di bianco ed, al pari dei cassinesi, dedicano la maggior parte della
loro attività all’impegno culturale, contando per il sostentamento della comunità sulle
donazioni o sulla vendita di prodotti culturali (libri, opere d’arte ecc.).
 4. 4. CONGREGAZIONE SILVESTRINA (“Congregatio Silvestrinæ”)
Fondata da Silvestro Guzzolini nel 1231 ha la propria sede centrale a San Benedetto di
Monte Fano, nelle vicinanze di Fabriano. Si deve a loro lo sviluppo dell’industria della
lavorazione della carta divenuta il simbolo di Fabriano. Indossano un saio grigio scuro ed
hanno scelto uno stile di vita che ha poco a che vedere col mondo monastico tradizionale
essendo impegnati nelle missioni nelle parrocchie. Il loro insediamento, tuttavia, è limitato
all’Italia centrale.
 4. 5. CONGREGAZIONE BENEDETTINA VALLOMBROSANA (“Congregatio Vallis
Umbrosae”)
Fondata nel 1039 da Giovanni Gualberto, santificato, ha rappresentato, per tutto l’Alto
medioevo una vera e propria spina nel fianco della Chiesa e del papato corrotto, in quanto
sviluppò una strenua lotta contro la corruzione, la simonia, il nicolaismo ed, in generale, la
degenerazione del clero secolare. Appoggiarono il movimento rinnovatore di Papa
Gregorio VII (salito al soglio nel 1045). Dal 1115 adottarono uno stile di vita ristretto alla
sola attività liturgica, affidando il lavoro manuale ai “fratelli conversi” mutuati dai
cisaterciensi. Ancor oggi applicano rigorosamente la RB e sono molto sensibili alla
conservazione dell’ambiente in quanto considerano la natura un bene intoccabile. Non a
26
caso il loro fondatore è patrono delle Guardie Forestali italiane. La loro presenza è limitata
alla sola Italia centrale
 4. 6. MONACI CERTOSINI (“Ordo Cartusiensis”)59
Chiudiamo questo excursus sugli Ordini monastici e sulle loro attinenze con la produzione
economica, con una riflessione inerente i Monaci Certosini.
Non è una scelta casuale: le scelte operate dal loro fondatore – San Bruno di Colonia,
détto Brunone – infatti sono rappresentative della posizione organizzativa che potremmo
definire la più “radicale” presente ancor oggi nell’intera galassia monastica.
Il fondatore si rifugiò, nel 1084 a “La Grande Chartreuse”, solitario ed aspro massiccio
alpino nelle vicinanze di Grenoble (Francia).
Inizialmente, ad imitazione di Roberto di Molesme (si notino le vicinanze nelle date, visto
che il fondatore dei cistercensi operò a partire dal 1098) visse con pochi seguaci in
capanne di legno.
Decise di saltare a piè pari ogni possibile mediazione fra vita eremitica e cenobitica,
scegliendo per il totale, assoluto e rigorosissimo eremitaggio.
Il monaco – ancor oggi – vive per sempre da solo, dedicandosi alla meditazione ed
all’ascesi, in una casetta isolata dotata dell’orto per l’autosostentamento ma, a differenza
dei Camaldolesi, ed in particolare di quelli della Congregazione di Monte Corona ( 4. 1.),
la scelta dell’isolamento totale è permanente e dura tutta la vita.
I soli momenti comunitari sono la messa domenicale e le festività di Pasqua e Natale. In
Italia, oggi, vi è un solo Monastero certosino attivo in Calabria (Serra San Bruno, sui monti
della Sila)60.
In ragione di questo ferreo isolamento non hanno mai realizzato e neppure ipotizzato
interventi di natura economico – produttiva, rifiutando senza appello contatti con il mondo
esterno.
 4. 7. IL TARDO MEDIOEVO: FRANCESCANI E DOMENICANI
Merita chiudere questo excursus facendo breve cenno alla peculiarità del “tardo
medioevo”, in particolare del XIII secolo.
In questa fase si assiste al consolidarsi delle città ed all’esplosione di quel fenomeno che è
stato opportunamente definito “età comunale”.
Veniva messo in crisi il modello della società feudale e, di conseguenza, anche l’idea
stessa di “monachesimo” che era strettamente connessa al modo di concepire la religione
caratteristico dell’alto medioevo.
Il rinnovamento religioso, a quel punto, si identificò con due figure espressione del modello
di società che stava nascendo: S. Francesco e S. Domenico dai quali nasceranno gli
Ordini francescano e domenicano.
Entrambi uomini frutto dall’ambiente cittadino (di Assisi, il primo, di Bologna il secondo),
avviarono un modello di azione non più caratterizzato dall’isolamento ma dalla vita
comunitaria; I loro “luoghi” non si chiameranno più “monasteri” ma “conventi” (dal lat. con –
ventum) e verranno eretti non più in luoghi aspri e solitari, ma nelle aree urbane; i loro
seguaci si chiameranno fra di loro “frati” (= fratelli) e non più “monaci”; la loro azione sarà
59
Per un approfondimento su fisionomia storica e spirituale dell’Ordine si veda la voce «Certosini» nel «Dizionario
degli Istituti di Perfezione» coll. 782 – 838. Roma, 1976.
60
Cfr. «I colori del silenzio. La Certosa di Serra San Bruno» Fotografie di Massimo Bassano. Testi a cura dei Certosini
di Serra San Bruno. (Museo della Certosa). Milano, Àncora, 2000. Per una ulteriore conoscenza si veda il DVD di Peter
Grönig «Il grande silenzio».
27
essenzialmente di predicazione ed il loro sostentamento fatto non solo di lavoro manuale
ma soprattutto di questua.
Domenico, peraltro, farà del suo Ordine il principale strumento nel contrasto alle eresie ed
alle deviazioni che proprio fra Due e Trecento ebbero importanti fiammate 61; non a caso
saranno i domenicani a fornire la maggior parte dei giudici che opereranno al servizio
dell’Inquisizione.
 5. CONCLUSIONI
A ben vedere si può riconoscere nella storia complessiva del monachesimo occidentale,
ma in modo particolare nella relazione fra quest’ultimo e le tipologie di attività economicoproduttive, una sorta di rincorrersi di corsi e ricorsi storici.
Tutte le Congregazioni, infatti, sembra abbiano attraversato un percorso assai simile l’una
all’altra: un’origine fortemente legata a scelte pauperistiche ed ascetiche, che, evolvendosi
nel tempo, sembra approdare, quasi inevitabilmente, ad una fase critica in genere
determinata dal dover fare i conti, di epoca in epoca, con l’economia del mondo esterno.
Oserei dire che la crisi in cui, prima o poi, cade ciascuna esperienza monastica è
determinata dalla sua stessa crescita, quasi vi fosse un “punto di rottura” oltre il quale si
viene a determinare la crisi interna.
Il percorso sembra ripetersi nei secoli sempre uguale a se stesso: la fase fondativa, eroica
e pauperistica, cui segue la crescita ed il conseguente arricchimento economico che
sembra collidere con gl’ideali iniziali determinando fenomeni di crisi esistenziale nei
soggetti particolarmente sensibili e dotati di forti motivazioni vocazionali che vivono sulla
loro pelle tale contraddizione. Ne nasce, di conseguenza, di secolo in secolo, una
“ribellione” che trova la sua espressione grazie a personaggi carismatici (non casualmente
beatificati o santificati ex post dalla Chiesa ufficiale!) che rivendicano il ritorno alle origini
teso a dar luogo alla nascita d’esperimenti che, ancora una volta ciclicamente, ripartissero
da zero e fossero in grado di ricostruire il progetto monastico sulla base di sempre nuove
piattaforme il cui perno, tuttavia, diventava solo parzialmente il modello “economico –
produttivo” per far fronte. invece, alle pressanti richieste di personaggi estranei a maneggi
poggianti su due cardini ideali di fondo: l’autostentamento e l’aiuto a favore dei poveri o,
comunque, dei più deboli.
La mia opinione è che Il ciclo, probabilmente, è destinato a proseguire e a non arrestarsi
mai.
Un’altra considerazione è legata al rapporto fra monaci e territorio.
Il monachesimo è, per sua stessa natura, organizzazione e struttura creativa e mutevole.
Forse fu inevitabile, nell’alto medioevo, che il processo produttivo, man mano che si
affinava e cresceva, si evolvesse tanto dal riversare i propri risultati sull’economia
complessiva del territorio con cui interagiva il nucleo monastico stesso.
Non sappiamo – né forse sapremo mai - se così avvenne, ma è cerro che si creò
un’osmosi fra interno ed esterno: fra società e mondo monastico.
Altro elemento di possibile riflessione, guardando all’economia contemporanea, ed alla
stessa evoluzione del capitalismo come modello economico, è relativa all’interpretazione
possibile delle similitudini fra i due principali modelli (cluniacense e cistercense) che hanno
fatto da pilastro della storia del monachesimo occidentale
Pur consapevole di operare una forzatura, ritengo si possa “leggere” il modello di Cluny
come paragonabile ad una sorta di “macrostruttura”, simile a quella di una multinazionale,
mentre, invece, quello di Cîteaux, contrassegnato dalla metodica delle “filiazioni”, mi
61
Cfr. AA.VV. «La predicazione nel Duecento. Testi e commenti» Firenze, La Nuova Italia, 1978.
28
appare come simile alla logica della “rete” segnata da ampi spazi d’autonomia decisionale
e produttiva fra un soggetto e l’altro, ma nel contempo fortemente interconnessa.
Il paziente lettore avrà anche notato che non ho fermato l’attenzione su nessun caso
specifico.
Si è tratta d’una scelta pressoché obbligata.
Infatti non solo sarebbe stato difficile discernere fra questo o quel caso monastico, in
ragione del fatto che ciascuno ha una sua propria evoluzione storica ed un riferimento
territoriale tale da farne caso a se stante, ma soprattutto perché gli studi in merito sono
rarefatti e non sempre supportati da documentazioni probanti, in specie per l’alto
medioevo62.
Non può mancare, in queste rapide osservazioni conclusive, un cenno al contributo
culturale dato dal monachesimo.
Ho già fatto rapido cenno al ruolo degli “scriptoria” e mi sono soffermato sulla triplice fase
della rinascita carolingia, ma credo doveroso vada ricordato anche il contributo dato alla
trasmissione e riproduzione di tecniche curative che hanno fatto dei Monasteri centri di
eccellenza nella farmacopea, nell’erboristica, nella stessa organizzazione dei primi nuclei
di “infermerie” (precisamente previste dalla RB, anche in tal senso per rispondere
all’esigenza della totale autosufficienza) che fecero da modello per lazzaretti ed ospedali.
Tutto questo mi pare possa ampiamente giustificare la valutazione che facevo già in
precedenza sul fatto che la RB e, più in generale le varie “consuetudines” da essa emerse
all’interno della declinazione datale da parte di ogni Ordine, il “bene cultura” sia stato
inteso e, soprattutto praticato e gestito come un “bene comune”.
È proprio su questo aspetto che voglio concludere definitivamente.
Ancora una volta, da medievalista, proponendo un documento quanto mai significativo,
capace di dimostrare quanto in profondità seppe intervenire la citata «Admonitio
Generalis» promulgata da Carlo Magno su spinta del suo “entourage” d’intellettuali
composto interamente da monaci.
In quello stesso 794 in cui il sovrano emana il citato atto che sprona all’acculturazione, un
Vescovo, Teodoro di Orléans, convocato in Sinodo il “Capitolo” generale della sua diocesi,
fa circolare un documento che, successivamente, farà da base ad una innumerevole serie
di atti consimili:
“Vogliamo che in ogni villaggio ed in ogni borgo i preti ed i religiosi, avvalendosi
dell’insegnamento ricevuto in precedenza dai monaci, organizzino una scuola. Se i fedeli affidano
loro i propri figli perché apprendano le lettere63non rifiutino di accoglierli ed istruirli in spirito di
carità. E per svolgere tale funzione essi non esigano alcun salario, e se accettano dio ricevere
qualcosa in cambio non si tratti mai d’altro che di piccoli segni di liberalità da parte dei
genitori…”64
Potremmo dire che, in qualche modo, il cerchio si chiude.
62
Svolgendosi questo Convegno a Venezia, segnalo il saggio di Gabriele Mazzucco «L’assetto di un Monastero
benedettino medievale: San Giorgio Maggiore nel 1369» in «Monastica et Humanistica. Scritti in onore di Gregorio
Penco» a cura di G.B. Tirolese. Tomo I. Cesena, 2003, pagg. 199 – 225. Per uno sguardo più generale, invece, utile:
Luisa Chiappa Mauri «Monasteri ed economia rurale in Lombardia nei secoli XII e XIII» in «Il monachesimo italiano
nell’età comunale» Atti del IV Convegno di Studi storici sull’Italia benedettina. Abbazia di S. Giacomo Maggiore.
Pontida (Bergamo) n3 – 6 settembre 1995. Cesena, 1995, pagg. 199 – 218.
63
Faccio notare che il testo latino usa la locuzione “bonæ litteræ” il che sta ad indicare l’insegnamento e la padronanza
delle arti liberali e non solo a fini religiosi, ben sapendo che l’acquisizione della grammatica permetteva di comprendere
la lettera dei testi sacri e la logica ne restituiva la forza argomentativi. Tuttavia tale insegnamento consentiva al discente
di acquisire nozioni di aritmetica ed astronomia e la retorica consentiva di giungere al cuore dell’uditrorio.
64
Cfr. «Capitula ad presbyteros parochiæ suæ», cap. XX, in «Patrologia Latina», Vol. 105, col. 106.
29
Il monachesimo occidentale la cui ragion d’essere spirituale resta pur sempre l’incessante
ricerca di Dio da parte dei singoli monaci, e che sul piano della sperimentazione di
un’economia il più possibile d’autosufficienza, ha saputo produrre modelli difformi
declinando in forme e modi diversi la scelta di fondo, sul terreno della produzione
culturale, paradossalmente, (e fortunatamente), ha saputo muoversi percorrendo una
strada che appare come l’esatto contrario della concezione anacoretica, ovvero non ha
prodotto risultati chiusi in se stesso ma si è aperto così tanto da rendere giovamento della
propria opera di rinnovamento a tutta la società circostante. Mai come in questo caso è
lecito parlare di una visione al cui centro è stato posto il bene comune.
30
Enzo Marigliano
Il testo qui pubblicato è la “Relazione” inviata in forma scritta al workshop internazionale
sulla decrescita svoltosi a Venezia il 21 settembre 2012.
Nato a Salerno nel 1952, risiede a Pordenone, capoluogo della Destra Tagliamento (Friuli Venezia
Giulia) dal 1958 ove è stato Consigliere Comunale dal 1997 al 2001 ed Assessore dal 2001 al 2004.
Studioso dell’alto medioevo, è autore di due libri di successo editi dalla Casa Editrice milanese
“Áncora” : “Medioevo in monastero. Vita quotidiana in un’Abbazia del XII secolo. Storia, storie e
figure di grandi monaci” (2001 – in collaborazione con Massimo Zorzin, (oggi alla Pontificia
Università Gregoriana di Roma) con prefazione di Mons. Edwin Brian Ferme, docente emerito di
Storia medievale ad Oxford ed “Anselmo d’Aosta. La vicenda umana d’un grande monaco del
medioevo” (2004), entrambi approdati alle rispettive edizioni della “Fiera del Libro” di Francoforte.
Ha pubblicato anche: “Le Officine dello Spirito. Guida ai Monasteri del Nord Italia” (2006) e
“Studi medievali”(2008) entrambi per le Edizioni pordenonesi “Omino Rosso”.. Nel 2006 è stato
chiamato a far parte del Comitato Scientifico dell’Accademia “Pasquale II”, Centro di studi
specificatamente dedicato allo studio della figura di tale pontefice, con sede a S. Sofia (ForlìCesena) e riconosciuto dal Vaticano.
Per la parte saggistico-storica collabora con la Rivista fiorentina “Città di Vita”, con la “Squilla di
Bleda” (Cesena) e con “La Loggia” periodico semestrale della ProPordenone.
Con la Casa Editrice udinese “Gaspari” ha pubblicato il suo nuovo libro dedicato allo studio
commentato d’uno dei più importanti testi caroilingi: “Il Capitulare de Villis” con testo integrale in
latino e traduzione italiana a fronte e prefazione a cura del Prof. Paolo Cammarosano, uno dei
maggiori medievalisti italiani. Annunciata, invece, dalla ProPordenone la pubblicazione di un
lavoro organico sul docum,ento di fondazione dell’Abbazia di Sesto al Reghena,
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