Specchio internazionale Numero Zero

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Specchio internazionale Numero Zero
Lo Specchio internazionale
Il dibattito economico oltre i nostri confini
a cura dell'Osservatorio sull’economia e la finanza internazionale
Area Politiche di sviluppo
(12 novembre 2015)
L'Osservatorio economico e finanziario, in funzione nell'Area delle Politiche di sviluppo, effettua un quotidiano
rilievo degli articoli, essenzialmente di commento e approfondimento, pubblicati dalla stampa economica e
finanziaria internazionale, da website e dai blog curati da alcuni dei protagonisti del dibattito economico
internazionale. Il quadro di informazioni che se ne ricava è di grande utilità, soprattutto perché consente di
bypassare le strettoie di un'informazione domestica troppo monocorde e di comprendere come la discussione
sulle politiche mainstream sia ben più ampia e articolata di quanto si possa percepire dalle pagine dei nostri
giornali.
Temi per noi fondamentali, come le politiche di austerità, la grande recessione, la stagnazione secolare,
accanto ai temi del cambiamento tecnologico e dei suoi pesanti riflessi sul lavoro e la sua organizzazione,
sono trattati da molti punti di vista e con opinioni tra loro anche profondamente diversi.
Lo Specchio internazionale, la cui pubblicazione inizia con questa prima rassegna, si propone di offrire, con
periodicità normalmente bisettimanale, un breve spaccato di tale dibattito. Non intendiamo sovrapporci, con il
nostro giudizio o la nostra opinione, agli articoli che suggeriamo alla vostra lettura, ma ci limitiamo ad offrirveli
per come essi sono. Saranno sufficienti a dimostrare come la discussione sia ben più articolata rispetto al
dibattito nazionale, le certezze molto meno solide, il bisogno di cambiamento assai più diffuso,
paradossalmente anche nella stampa economica “capitalistica”.
Speriamo di fare cosa utile. Per ora, buona lettura!
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Su questo “Numero zero”:
 con l'avvicinarsi del meeting dell'ONU sul cambiamento climatico, previsto a Parigi per il prossimo mese di
dicembre, si moltiplicano gli interventi. Il 28 ottobre sul Financial Times Martin Wolf (il principale
commentatore del quotidiano economico londinese) affronta il tema con un articolo dal titolo “ Il vantaggio
di affrontare il climate change”.
 a proposito della euro-crisi, il 23 ottobre sul suo Blog, Yanis Varoufakis, ex ministro delle finanze greco,
interviene sull'ultima iniziativa del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble, “Schauble's
gathering storm”, sostenendo che la crisi sta entrando nella sua fase più pericolosa per la stessa tenuta
dell'Unione.
 Sullo stesso argomento, il 4 novembre, Thomas Fazi (il traduttore di Soros, Hitchens e Reich) evidenzia
tutti i difetti strutturali dell'euro e propone una "re-internalizzazione" nei singoli stati membri della politica
fiscale (e della detenzione di titoli del debito pubblico).
 Marcello Minenna interviene sulla difficile congiuntura economica internazionale, sostenendo che la
difficile congiuntura economica internazionale riduce gli spazi di intervento della Federal Reserve USA.
Titolo dell'articolo, comparso su Social Europe Journal il 23 ottobre è “il rallentamento globale e il
restringersi della libertà di movimento della FED”.
 Richard Trumka, presidente dell'AFL-CIO, il sindacato USA, l'8 ottobre interviene con un lungo articolo
sul TTIP (Trans-atlantic Trade and Investment Partnership) “La necessità di un nuovo modello di
commercio dedicato alla condivisione e alla prosperità”. Egli analizza alcune delle criticità dell'accordo
per il libero scambio tra Usa e EU attualmente in costruzione in modo troppo chiuso e segreto.
 Il premio Nobel 2015 per l'economia Angus Deaton, illustra (il 13 ottobre su Social Europe Journal) il
suo punto di vista sulla povertà nel mondo e la politica degli aiuti ai paesi più poveri “ Stati deboli, paesi
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poveri”.
 Come cambia l'organizzazione capitalistica anche grazie alla rivoluzione digitale: la discussione è vasta e
continua. Tre primi esempi: John Thornill scrive sul Financial Times del 27 ottobre un articolo del titolo
“l'Europa ha bisogno di un proprio allevamento di unicorni”, in cui descrive l'esperienza di
un'organizzazione di base a Parigi che si è data il compito di fomentare una rivoluzione economica,
aiutando a trasformare una nuova generazione di startups imprenditoriali in campioni globali, sulla
falsariga
di
esperienze
di
questo
tipo
già
in
corso
negli
USA.
Ansgar Baumes, un uomo di azienda tedesco, interviene sul progetto Industria 4.0, sostenendo che
serve non tanto una nuova politica industriale ma un quadro regolatorio migliore.
 Infine, Branko Milanovic, il 29 ottobre, racconta la presentazione del libro di Seven Hill “How the Uber
economy and runaway capitalism are screwing american workers”, avvenuta a New York, in cui si
descrive come la nuova tecnologia possa sradicare la disoccupazione e al tempo stesso i posti di lavoro.
 Le politiche di austerità hanno determinato, soprattutto nell'eurozona, effetti negativi che vanno ben oltre il
breve periodo e si proiettano nel lungo periodo. Tre articoli sull'argomento: il primo è di Paul Krugman sul
New York Times dell'8 novembre (L'orribile eredità dell'austerità). L'articolo ripercorre la crisi a partire
dal suo inizio nel 2008, sostenendo che il feticismo del deficit, sopraggiunto nei governi nel 2010, dopo la
prima fase di gestione della crisi in termini "non convenzionali", è stato sbagliato e distruttivo. Più
distruttivo di quanto, a quel momento, avessero pronosticato i critici più severi della politica di austerità.
Questa ha azzoppato la crescita anche per il lungo periodo. E' la tesi dell'isteresi sostenuta in un paper
recente dai prof. Lawrence e Fatas. Secondo questa tesi, gli effetti negativi delle politiche di austerità e
delle recessioni non adeguatamente combattute, si proiettano a lungo negli anni a venire.
 Il secondo articolo comparso su Social Europe Journal il 6 novembre (traduzione) è scritto da John
Weeks (L'Eurozona: Deflationary boom o deflationary bust?) in cui sostiene che se l'austerità
espansiva è un ossimoro, il deflationary boom è una idiozia (ed esibisce i numeri per dimostrarlo).
 Il terzo articolo è un intervento di Martin Wolf sul Financial Times dell'11 novembre "L'ombra lunga
della grande recessione" in cui, come Krugman, ripropone la tesi dell'isteresi.
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Financial Times 28 ottobre 2015
Martin Wolf “Il vantaggio di affrontare il climate change”
La conferenza intergovernativa sul clima che si terrà a dicembre a Parigi costituirà un deciso cambiamento
negli sforzi del mondo per frenare i rischi di catastrofici cambiamenti climatici? Al momento è altamente
improbabile ma non inconcepibile. Non sarà certo di per sé sufficiente. Ma una combinazione di nuove
opportunità tecnologiche e di nuovi approcci ci apre delle opportunità. La conferenza potrebbe marcare la fine
dell'inizio, il punto in cui cominciano tentativi seri di cambiamento della nostra traiettoria.
Nel suo libro "Perché stiamo aspettando?", Nicholas Stern, autore della Stern Review on the economics of
climate change, descrivere sfide e opportunità con chiarezza e passione.
Avanza tre proposte. Prima, gli obiettivi principali dell'umanità per il 21esimo secolo dovrebbero essere
l'eliminazione della povertà di massa e del rischio di catastrofici cambiamenti climatici. Seconda, la necessità
di una azione rapida è travolgente, sia perché i gas serra restano per secoli nell'atmosfera e sia perché gli
investimenti in energia, trasporti e infrastruttura urbana bloccheranno l'intensità di carbone nelle nostre
economie.
Questi argomenti poggiano sulla tesi che i rischi climatici sono grandi e i costi per affrontarli sono sostenibili.
Non fare niente implica che i rischi sono insignificanti. Posizione questa che implica un assurdo grado di
certezza. Sui costi, non sapremo mai se non proviamo. Ma c'è una evidenza anche maggiore che ciò che il
prof. Stern definisce "una rivoluzione energetica industriale" è nelle nostre possibilità. Se è così, i costi
economici di lungo termine per l'intervento sul rischio climatico potrebbero essere abbastanza modesti: forse
pari alla perdita di un anno di crescita dei consumi entro il 2050.
Ma il percorso per ottenere una possibilità del 50% di ridurre la crescita delle temperature di due gradi
centigradi sopra i livelli pre-industriali è radicalmente diverso dal passato. Fino ad ora, le emissioni globali di
anidrite carbonica pro capite sono aumentate, non si sono ridotte - malgrado tutte le conferenze globali poiché la rapida crescita delle economie emergenti, soprattutto la Cina, ha soverchiato i deboli tentativi di
frenare le emissioni dalle altri parti. Dunque, su un percorso come quello attuale, la riduzione delle emissioni
non ci sarà: l'umanità avrà fatto una scommessa irreversibile sulla possibilità che gli scettici hanno, di fatto,
ragione.
Per fortuna si stanno aprendo opportunità fornite dalle nuove tecnologie. Esiste un potenziale per una
rivoluzione nella generazione e nell'immagazzinamento di energia, nel risparmio energetico, nei trasporti e
nella cattura e nell'immagazzinamento dell'anidride carbonica. Alcuni chiedono l'equivalente del programma
spaziale Apollo degli anni '60 per la ricerca e lo sviluppo di energia a basso contenuto di carbone. Opportunità
ci sono anche nell'investimento:scegliere tecnologie carbon-intensive per l'energia, il trasporto e l'infrastruttura
urbana ci bloccherebbe in un futuro pericoloso. Ma per cogliere l'obiettivo, le emissioni per unità di prodotto
devono ridursi di 7 o 8 volte entro il 2050. La sfida è scoraggiante.
Questa rivoluzione non si verificherà senza il sostegno dello stato. Aiuterebbe l'eliminazione dei sussidi per i
carburanti fossili, stimati dal FMI in 5.3trilioni di dollari per il 2015 (pari al 6.5% del Prodotto globale). con
l'inclusione di effetti a caduta, come l'inquinamento atmosferico. Questa è una dimensione di magnitudine tre
volte superiore all'intera spesa per ricerca e sviluppo delle fonti rinnovabili.
Si deve prendere ora la decisione di scansare gli ostacoli al raggiungimento di un accordo globale vincolante
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che determini un prezzo per il carbone. Questo ha senso. Raggiungere l'accordo sull'allocazione di commercio
dei diritti di inquinamento attraverso le frontiere è impossibile. Concordare un'aliquota fiscale comune è
altrettanto difficile.
Per di più, se si chiede ai paesi di prendere impegni vincolanti, limiteranno le loro promesse a ciò che possono
realizzare. Invece, i paesi vanno incoraggiati ad avanzare "contributi determinati a livello nazionale". Se tali
contributi sono ancora largamente insufficienti rispetto a ciò che servirebbe, tuttavia si muovono nelle
direzione giusta, soprattutto ora che la Cina e l'US sono attivamente impegnati.
Inoltre, gli analisti sono ottimisti sul, fatto che, con la giusta spinta da parte dei governi, un circolo virtuoso di
innovazione tecnologica combinato con un ridotto inquinamento locale e altri benefici potrebbe rendere più
rapida l'adozione di tecnologie-low carbon e di stili di vita benefici per le economie nazionali, senza tener conto
dell'impatto sul clima. Se è così, fare conto su piani nazionali avrebbe ancora più senso. Se sviluppati in
parallelo, è anche molto probabile che i piani nazionali superino i vested interests locali. Resta, in ogni caso,la
necessità di una rapida disseminazione cross border di innovazione e di assistenza ai paesi poveri perché
facciano investimenti in nuove energie e nei trasporti. I paesi più ricchi dovranno dare il loro contributo.
Per coloro che sono convinti della dimensione e della natura irreversibile della scommessa che l'umanità sta
facendo con il clima, la notizia è al tempo stesso buona e cattiva.
La notizia cattiva è la prossima conferenza di Parigi non fornirà una rotta credibile per portarci fuori dal
potenziale disastro. Nella migliore delle ipotesi, ne rallenterà il passo. La buona notizia è che nel più lungo
termine, l'approccio relativamente pragmatico che viene ora adottato combinato con la probabilità di
un'accelerazione del cambiamento tecnologico, renderà più probabile uno spostamento su un sentiero che ci
allontani dal disastro.
Se questo sarà, in pratica, sufficiente a girare in tempo la superpetroliera delle emissioni energetiche globali,
è incerto. Ma è possibile. Avrà inoltre bisogno di molto più sforzo e determinazione nel prossimi decennio.
Questo sforzo deve cominciare per lo meno con il migliore accordo possibile a Parigi.
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Da Yanis Varoufakis bolg 23 ottobre 2015
“Schauble's gathering storm”
La crisi dell'Europa sta per entrare nella sua fase più pericolosa. Dopo aver costretto la Grecia a accettare un
altro accordo di salvataggio del tipo "extend and pretend", si stanno definendo nuove linee di battaglia. E con
l'afflusso dei rifugiati che svela il danno causato dalle diverse prospettive economiche e da una
disoccupazione giovanile alle stelle alla periferia dell'Europa, le ramificazioni sono infauste, come hanno
chiarito le recenti prese di posizione di tre politici europei -il primo ministro italiano Matteo Renzi, il ministro
dell'economia francese Emmanuel Macron e il ministro delle finanze tedesco Wolgang Schauble.
Renzi è arrivato vicino a demolire - almeno a parole - le regole fiscali che la Germania difende da così tanto
tempo. In un rimarchevole atto di sfida, ha minacciato che se la Commissione Europea avesse rigettato il
budget italiano, egli lo avrebbe riproposto pari pari.
Non è la prima volta che Renzi sfida i leaders della Germania. E non è un caso che la sua dichiarazione abbia
fatto seguito a un tentativo di mesi del ministro dell'economia Pier Carlo Padoan di dimostrare l'impegno
dell'Italia verso le regole dell'eurozona sostenute dalla Germania. Renzi comprende che la parsimonia ispirata
dalla Germania sta conducendo l'economia italiana e le su finanze pubbliche in una stagnazione profonda,
accompagnata da ulteriore deterioramento del rapporto debito/PIL. Da politico consumato, Renzi sa che
questa è la strada migliore per un disastro elettorale.
Macron è molto diverso per stile e per sostanza. Banchiere trasformato in politico, è l'unico ministro del
presidente Hollande che combina una seria comprensione delle sfide macroeconomiche della Francia e
dell'Europa con la reputazione, in Germania, di interlocutore riformatore e competente. Così quando parla di
una prossima guerra di religione in Europa tra il nord est calvinista dominato dalla Germania e la periferia,
largamente cattolica, è il caso di prenderne nota.
Le recenti dichiarazioni di Shauble sulla attuale traiettoria dell'economia europea mettono anch'esse in
evidenza il cul de sac in cui si trova l'Europa. Da anni Schauble conduce una lunga gara per realizzare la sua
visione dell'architettura ottimale che l'Europa può ottenere all'interno dei vincoli politici e culturali che egli dà
per immutabili.
Il "piano Schauble", come lo ho soprannominato, richiede una limitata unione politica a sostegno dell'euro. In
breve, Schauble è a favore della formalizzazione dell'Eurogruppo (composto dai ministri delle finanze
dell'eurozona) - legittimato da una camera dell'euro che comprende parlamentari e stati membri dell'eurozona
- presieduto da un presidente con potere di veto sui bilanci nazionali. In cambio del controllo sui loro bilanci,
Schauble offre a Francia e Italia - principali obiettivi del suo piano - la promessa di un piccolo bilancio comune
dell'eurozona che finanzierebbe parzialmente schemi per la disoccupazione e per la assicurazione sui
depositi.
Tale unione politica, minimalistica e disciplinare, non va giù alla Francia dove le élite hanno sempre resistito
alla cessione di sovranità. Se politici come Macron hanno fatto molto strada in direzione della necessità di
trasferire poteri sui bilanci nazionali al "centro", temono tuttavia che il piano Schauble chieda troppo offrendo in
cambio troppo poco: limiti severi allo spazio fiscale della Francia e per contro, bilancio comune
macroeconomicamente insignificante..
Ma anche se Macron riuscisse a persuadere Hollande ad accettare il piano Schauble, mnon è chiaro se la
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cancelliera Merkel lo consentirebbe. Le idee di Schauble non sono fino ad ora riuscite a fare breccia su di lei
o sul duro presidente della Bundesbank Jens Weidmann che è sempre stato completamente contrario a ogni
forma di mutualizzazione fiscale, sia pure in versione limitata come quella che Schauble vorrebbe scambiare
con il controllo sui bilanci italiano e francese.
Bloccato tra la riluttanza della cancelliera e l'indisponibilità della Francia, Schauble ha immaginato che la
turbolenza che avrebbe fatto seguito all'uscita della Grecia dell'euro avrebbe aiutato a persuadere i francesi,
così come anche i suoi colleghi del governo tedesco, della necessità del suo piano. Ora, mentre si attende che
l'attuale "programma" greco collassi sotto il peso delle sue intrinseche contraddizioni, il ministro della finanze
tedesco si sta preparando in vista delle prossime battaglie.
A settembre Schauble ha distribuito ai suoi colleghi dell'eurogruppo uno schema con tre proposte per evitare
nuove crisi dell'euro. Primo, i titoli pubblici dell'eurozona dovrebbero contenere clausole che rendano più facile
il "bail-in" dei detentori dei bonds (per bail-in si intende la garanzia interna, cioè il fatto che i titoli non sono
protetti da garanzia esterna, pubblica).
Secondo, si dovrebbero cambiare le regole della BCE per impedire che le banche commerciali possano
considerare tali titoli come asset liquidi, ultra-sicuri.
E, terzo, l'Europa dovrebbe abbandonare l'idea di un'assicurazione comune sui depositi, sostituendola con
l'impegno a consentire che le banche possono fallire quando non sono in grado di rispettare le regole BCE sui
collaterali.
L'applicazione di queste regole, ad esempio nel 1999, avrebbe potuto limitare il fiotto di capitali verso la
periferia che ha seguito l'introduzione della moneta unica. Analogamente, nel 2015, data l'eredità di debito
pubblico e perdite bancarie dei paesi dell'eurozona, tale schema avrebbe causato una recessione più
profonda nella periferia e avrebbe quasi certamente portato alla rottura dell'unione monetaria.
Esasperato dalla ritirata di Schauble dal suo stesso piano di unione politica, Macron ha recentemente
manifestato la sua frustrazione: "I calvinisti vogliono che gli altri paghino fino alla fine delle loro vite" si è
lamentato. "Vogliono riforme senza alcun contributo verso qualche forma di solidarietà".
L'aspetto più preoccupante delle dichiarazioni di Renzi e Macron è la mancanza di speranza che trasmettono.
La sfida di Renzi a regole fiscali che possono spingere l'Italia ancor di più in una spirale debito-deflazione è
comprensibile. Ma in assenza di proposte alternative non porta da nessuna parte. La difficoltà di Macron è che
non pare ci siano riforme sufficientemente dolorose da offrire a Schauble per persuadere il governo tedesco
ad accettare il grado di recupero di surplus necessario a stabilizzare la Francia e l'eurozona.
Intanto l'impegno della Germania a "regole" incompatibili con la sopravvivenza dell'eurozona danneggia quei
politici italiani e francesi che, recentemente, avevano sperato in un'alleanza con la più grande economia del
continente. Alcuni, come Renzi, rispondono con atti di cieca ribellione. Altri, come Macron stanno cupamente
accettando che l'attuale quadro istituzionale dell'eurozona e il mix di policy porterà infine o a una rottura
formale o alla morte a causa di migliaia di tagli, che prenderà la forma di una continua divergenza economica.
Il lato positivo della tempesta che si sta addensando è che le proposte minimaliste per una unione politica,
come il piano Schauble, stanno perdendo terreno. Nulla che non corrisponda a riforme istituzionali
macroeconomicamente significative, stabilizzerà l'Europa. E solo una alleanza democratica pan-europea di
cittadini può generare le condizioni perché le riforme possano prendere piede.
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Social Europe Journal 4 novembre 2015
Thomas Fazi* “Perchè la politica fiscale dell'eurozona dovrebbe essere completamente riregionalizzata”
*Thomas Fazi, scrittore filmmaker e traduttore di Soros, Hitchens, Reich
La crisi finanziaria globale ha messo in evidenza i profondi difetti dell'euro, e il particolare peccato originale di
Maastricht: avere privato gli stati membri della loro autonomia - togliendo loro il potere di emettere moneta e
imponendo limiti stretti (e totalmente arbitrari) sui deficits governativi attraverso lo Stability and Growth Pact
(SGP) - senza trasferire questo potere di spesa a un'autorità più elevata, cioè a qualche forma di governo
centrale. O, in termini diversi, di avere creato un'unione monetaria (con - cosa importante - piena mobilità dei
capitali) senza prevedere la creazione di un'unione fiscale e politica in grado di affrontare gli squilibri strutturali
e gli shocks asimmetrici negativi all'interno dell'unione. Questo ha lasciato gli stati membri senza difesa di
fronte alle crisi economiche, come i booms-gone-busts del 2008 avrebbero ampiamente chiarito.
Ma, la crisi - che, vale la pena ricordare, era stata causata dall'accumulo di debito privato e non pubblico - non
ha aperto gli occhi dei leader europei - alla necessità di allargare la camicia di forza di Maastricht, allentando i
vincoli di bilancio imposti ai singoli governi (in tal modo permettendo loro di mettere in atto politiche di stimolo
anti-cicliche) o andando in direzione di una unione fiscale completa (o almeno una modica quantità di
coordinamento economico tra paesi in surplus e paesi in deficit). Invece le potenze europee - essenzialmente
l'asse dell'austerità Berlino-Francoforte - hanno scelto di dare un ulteriore giro di vite, prima imponendo al
continente una brutale politica di asimmetrica austerità di classe, di schiacciamento della domanda e poi
bloccando quelle supposte misure di emergenza attraverso l'adozione, dietro porte chiuse e senza il controllo
pubblico, di un complesso sistema di nuove leggi, regole, accordi e persino un trattato - il Fiscal Compact con l'intento di attuare sul continente, a qualunque costo, un'austerità permanente (e, su scala molto più
grande di quanto previsto dal trattato di Maastricht). Cosa importante, le severe restrizioni imposte
all'autonomia fiscale degli stati membri a partire dal 2010 non sono state bilanciate da un aumento della
capacità fiscale a livello federale in Europa (al contrario, il già magro bilancio EU si è fortemente ristretto
dall'inizio della crisi). Il risultato, previsto da molti economisti mainstream, è stata una crisi più profonda e
prolungata di quella degli anni 1930 (che ha prodotto crisi umanitarie vere e proprie in un certo numero di
paesi).
E' perciò comprensibile che molti commentatori abbiano accolto positivamente la recente richiesta del ministro
della finanze tedesco Schauble di una "unione fiscale e politica" sostenuta da una "euro budget". Schauble ha
ragione a sostenere i cambiamenti istituzionali che possano dare all'eurozona i meccanismi politici che le
mancano, ma dobbiamo chiedere: è l'unione fiscale - e più nello specifico l'unione fiscale sostenuta dal
ministro delle finanze tedesco - quello di cui ha oggi bisogno l'Europa? Come hanno sostenuto Philip Aretsis e
Malcom Sawyer, un'unione fiscale efficace richiederebbe poteri di raccolta delle tasse a livello EMU pari
almeno al 10% del PIL dell'EMU; trasferimenti fiscali dai paesi più ricchi a quelli più poveri; un'autorità federale
con la capacità di fare spesa in deficit; il sostegno della BCE in operazioni di politica fiscale; un proporzionato
trasferimento di legittimazione democratica, accountability e partecipazione dal livello nazionale a quello
sovranazionale ecc.
Purtroppo l'unione fiscale proposta da Schauble è molto diversa: gira intorno alla creazione di un
Commissario europeo per i budgets con il potere di respingere quelli nazionali - un poliziotto fiscale
sovranazionale - ma non prevede la creazione di una istituzione federale con poteri legislativi e di spesa.
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Quanto al proposto "euro budget" ci possiamo attendere che funzioni secondo la ben oliata logica "denaro in
cambio di riforme" cara a Schauble. Come scrive Yanis Varoufakis: "Il nuovo alto ufficio annullerebbe la
sovranità del popolo europeo senza sostituirla con una sovranità di ordine più elevato a livello federale o
sovranazionale". In altre parole, la sovranità non viene elevata a livello europeo ma viene semplicemente
usurpata dal livello nazionale, in tal modo realizzando un sogno neo-liberista di tutta la vita: la completa
separazione tra il processo democratico e le politiche economiche e la morte di una attiva gestione
macroeconomica. Tutto ciò è stato descritto come "la politica della spoliticizzazione"
Non è difficile vedere perché tale sviluppo sarebbe politicamente insostenibile, esacerbando ulteriormente le
tendenze centrifughe dell'Unione. Inoltre, data l'attuale equilibrio del potere in Europa, che vede la Germania
fermamente al posto di guida, il genere di "federalismo top-down" post-democratico proposto da Schauble
assoggetterebbe quasi certamente l'EMU a una camicia di forza ancor più stretta, deflattiva, contrazionale e
mercantilista - e per questo sarebbe fortemente rigettata. Al tempo stesso, dobbiamo riconoscere che le
condizioni politiche non sono mature per un movimento verso una piena unione fiscale e politica, del tipo di
quella delineata poco sopra. Così - escludendo uno scenario di rottura - quali opzioni restano all'interno del
contesto dell'EMU?
La sola soluzione sensata nel breve termine è riconoscere che diversi paesi dell'eurozona, specie quelli
periferici, sono in recessione da bilancio - una situazione in cui gli individui e le imprese, a seguito dello
scoppio della bolla finanziata dal credito, collettivamente si concentrano sul risparmio anziché sulla spesa riducendo in tal modo la domanda aggregata - e hanno disperato bisogno di uno stimolo fiscale e per questo
dovrebbe essere loro permesso di perseguire politiche fiscali più espansive fino a quando i bilanci del settore
privato non saranno rimessi in sesto. Questo, certo, significa buttare via il Fiscal Compact. Perché questo
possa essere politicamente e economicamente fattibile sono necessarie due condizioni: 1) non dovrebbe
esserci alcun aumento delle passività pubbliche o private tedesche rispetto ai paesi periferici; 2) i paesi
periferici devono assicurare che il risparmio inattivo in queste nazioni non vada fuori dai confini ma sia
investito in titoli pubblici locali.
Come ha sostenuto Richard Koo, questo si può ottenere "reinternalizzando" la politica fiscale nell'EMU: cioè,
proibendo agli stati membri di vendere titoli pubblici a investitori di altri paesi. Come scrive Koo, "le nuove
regole proposte consentirebbero ai singoli governi di perseguire autonome politiche fiscali all'interno di vincoli
propri. In effetti i governi potranno avere deficit più larghi fino a quando saranno in grado di persuadere i
propri cittadini a tenere il debito del paese. E questo istillerebbe disciplina e fornirebbe flessibilità ai singoli
governi. Una versione più soft di questo piano coinvolgerebbe l'introduzione di diversi pesi del rischio per i titoli
locali e quelli stranieri. Per di più, come ha notato Philippe Legrain, le paure tedesche per la mutualizzazione
potrebbero essere mitigate ristabilendo la "no bail out rule" (violata dalla stessa Germania nel 2010 per salvare
le proprie banche) e creando un meccanismo per le ristrutturazioni del debito dei sovrani insolventi. Tale
soluzione produrrebbe molti benefici economici e politici: non solo avrebbe un immediato impatto macroeconomico (portando in tal modo alla sostenibilità del debito), ma genererebbe anche un'attitudine più positiva
verso le istituzioni europee (che non sarebbero più viste semplicemente come le guardiane di regole fiscali
inattaccabili), ricreando in tal modo, lentamente, le condizioni - nel più lungo termine - di uno spostamento
verso un'unione fiscale e politica vera, basata sulla solidarietà.
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Social Europe Journal 23 ottobre 2015
Marcello Minenna “Il rallentamento globale e il restringersi della libertà di movimento della FED”
Il 17 settembre scorso, dopo otto anni di politica monetaria espansiva a tasso zero, la Federal Reserve ha
rimandato di nuovo la decisione – ripetutamente annunciata – di alzare i tassi di interesse verso livelli
“normali”. Durante questo periodo, la crescita della base monetaria ha portato i tassi a lungo termine a minimi
storici consentendo in tal modo una ripresa dell'investimento e dell'occupazione a livelli pre-crisi.
Qualche dubbio è nato sulla vera natura di questa fase espansiva, dato che il tasso di disoccupazione si è
parzialmente ridotto grazie a un grosso taglio della forza lavoro attiva e non a un vero aumento dei posti di
lavoro. In ogni caso, generalmente si conviene che la recente politica della FED abbia avuto grande successo.
In tale contesto era inevitabile il progressivo irrigidimento della politica monetaria, ma prima il governo cinese
e poi il FMI e la WB hanno fatto pressione su Janet Yellen e sul board della US Central Bank con tale severità
che è diventato impossibile ignorarlo.
I mercati non hanno reagito bene, sebbene le paure peggiori nel caso di un aumento dei tassi fossero che il
prevedibile rafforzamento del dollaro avrebbe duramente colpito le economie emergenti esposte a un debito
denominato in dollari, soprattutto la Cina. Conseguenze negative erano temute anche per l'ancora insicura
ripresa europea. Alcuni hanno insinuato una delusione tra i partecipanti al mercato dovuta alla perdita di
credibilità della FED: era stata molto attiva nel generare aspettative prima della sua riunione ma poi, quando è
arrivato il momento, è rimasta ferma sulla sua precedente posizione. Questa visione dei fatti non è supportata
da alcun dato: la realtà è che i mercati si aspettavano da settimane che la FED non avrebbe modificato i tassi.
Cerchiamo di capire meglio cosa sta avvenendo. I traders analizzano la performance dei derivati finanziari
(futures) sul “Federal Fund Rate”, cioè sui tassi applicati dalla FED ai prestiti interbancari a un giorno
(overnight), al fine di prevedere il corso futuro dei tassi di interesse e in particolare, nell'agosto di quest'anno,
il mercato ha stimato bassa la probabilità di aumento dei tassi (in un range tra il 20 e il 30%). Ex post è
possibile comprendere perché. Dopo la debacle nei mercati finanziari causata dal disancoraggio dello yuan
dal dollaro si è determinata una pericolosa riduzione delle riserve di moneta straniera della Banca della Cina
che cercava di difendere il tasso di cambio vendendo assets in dollari euro e yen sui mercati internazionali e
comprando yuan. Questo processo ha portato alla liquidazione di quasi $150 miliardi di cui 100
sembrerebbero essere securities del governo US (Tresauries). Se si pensa che il Quantitative Easing (QE) è
un acquisto di titoli pubblici da parte di una banca centrale, questa vendita rappresenta un vero QE al contrario
(quantitative tightening), cioè una riduzione di liquidità in circolazione che minaccia non solo quella US ma
anche l'economia globale.
Infatti un rialzo dei tassi della FED imporrebbe di per sé una riduzione della liquidità: i fondi sarebbero attratti
alla banca centrale e questo rallenterebbe i prestiti all'economia reale e determinerebbe il rischio di ulteriore
riduzione dell'inflazione. Si tratta di una azione che può essere affrontata sola da economie in buona salute,
come quella degli US, sebbene l'inflazione (esclusa l'energia) si aggira ancora pericolosamente vicino alla
zero. Tuttavia nel momento delicato che stanno attraversando la Cina e le economie emergenti anche un
piccolo rialzo dei tassi US (o anche solo l'aspettativa di un rialzo) causerebbe un rafforzamento del dollaro, un
indebolimento dello yuan e un immediato peggioramento delle condizioni delle economie emergenti. Inoltre il
governo cinese continuerebbe a difendere il tasso di cambio, e aumenterebbe così il “QE al contrario”
sottraendo più liquidità dai mercati e minacciando di mandare in recessione l'economia globale, con diffuse e
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gravissime conseguente sull'occupazione.
E' per questo che anche un piccolo aumento dello 0.25% del FED's Target Rate (tasso di riferimento della
FED) conta molto di più di quanto possa sembrare. I mercati erano abbastanza sicuri che la FED non avrebbe
rischiato tale effetto a cascata e la FED sapeva che i mercati sapevano. La situazione attuale non è diversa: a
ottobre la probabilità di un aumento dei tassi da parte della FED è persino più bassa: del 10%.
Non è quindi sorprendente che i mercati stiano performando sotto al pari. Per capirlo dobbiamo guardare più
verso il lungo termine. Le probabilità che la FED decida un aumento dei tassi da dicembre in avanti sono
sprofondate negli ultimi giorni. Ciò malgrado, il 25 settembre Yellen avesse ribadito che la stretta monetaria
era stata solo rinviata di qualche mese; i mercati le hanno creduto nell'immediato ma solo qualche giorno dopo
– mancando ogni conferma ufficiale della sua posizione – le aspettative sono state rapidamente adeguate al
ribasso per tutti gli appuntamenti futuri del FOMC (FED open market committee).
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Social Europe Journal 8 ottobre 2015
Richard Trumka* “(TRANS-ATLANTIC TRADE AND INVESTMENT PARTNERSHIP): la necessità di un
nuovo modello di commercio dedicato alla condivisione della prosperità”
* Richard Trumka, Presidente AFL-CIO
L'AFL-CIO crede, come il sindacato tedesco DGB che un aumento degli scambi tra US e EU ha il potenziale
per alimentare la creazione di lavoro e la crescita del reddito per i lavoratori di entrambe le sponde
dell'Atlantico. Questo è tuttavia possibile solo se i partners negoziali rompono con gli accordi commerciali del
passato e adottano un nuovo modello centrato sul lavoro decente, la prosperità condivisa e lo sviluppo equo.
Purtroppo gli US hanno una lunga storia di negoziazione di accordi che ignorano questi obiettivi in favore di
politiche che beneficiano le corporations e gli shareholders, mentre impoveriscono lavoratori e comunità.
Questi accordi combinano straordinarie protezioni per gli investitori con ulteriore deregolamentazione, che ha
contribuito alla stagnazione salariale, alla precarietà del lavoro, all'aumento della disuguaglianza e a relazioni
più deboli tra le preferenze politiche espresse dai cittadini e le politiche messe in atto dal nostro governo.
I sindacati di entrambe le sponde dell'Atlantico stanno chiedendo insieme un nuovo set di obiettivi pro-worker
per l'accordo TTIP. L'AFL-CIO condivide l'informazione, sviluppa proposte condivise e si incontra regolarmente
con entrambi i partners negoziali per chiarire che lo status quo sul trattato è inaccettabile. Nel 2014, l'AFL-CIO
e la Confederazione europea dei sindacati hanno pubblicato una posizione congiunta per premere sui
negoziatori del TTIP affinché adottino un processo “aperto, democratico e partecipativo”.
Il documento riflette l'importanza di costruire una coalizione forte e unita. Il 15 ottobre i sindacati e le
organizzazioni della società civile di tutta Europa dimostreranno nei loro paesi per chiedere un nuovo modello
commerciale che protegga i lavoratori, i consumatori, l'ambiente.
L'AFL-CIO crede che il TTIP possa rappresentare un modello commerciale di alto livello che metta gli
interessi dei lavoratori e delle loro famiglie di entrambe le sponde dell'Atlantico prima di queste corporations.
Sebbene riconosciamo che, data la storia degli accordi commerciali US, anche il negoziato sul TTIP è gravido
di rischi per i lavoratori, manteniamo una mente aperta e continuiamo a lavorare con i partners della
coalizione negli US e in tutta Europa per dare forma al nuovo modello0. Se il TTIP rigettasse il modello neoliberista pro-corporate del passato e abbracciasse idee progressiste, l'AFL-CIO lavorerebbe duramente per
assicurare la sua ratifica.
Purtroppo il negoziato sul TTIP resta avvolto dal segreto. Se i dirigenti sono silenziosi sugli aspetti specifici
dell'accordo, ammettono che ha poco a che fare con le tariffe e molto di più con la “armonizzazione
regolatoria”. Intanto, le corporations globali cercano sfacciatamente i modi per “superare la sovranità
regolatoria”. Crediamo che gli accordi commerciali dovrebbero proporsi di costruire società prospere ed eque.
Purtroppo i8 passati accordi hanno considerevolmente fallito questo obiettivo e il TTIP è in pericolo di ripetere
gli errori del passato e di non rispondere ai bisogni o alle priorità delle comunità locali. Il sistema preferito è
quello di usare le trattative a porte chiuse per assicurare regole che sarebbero sconfitte se fossero sottoposte
all'esame pubblico.
ISDS
Investor to State Dispute Settlemen (accordo sulle dispute legali dell'investitore nei confronti dello stato) ISDS
ha attratto pesanti critiche perché da agli investitori stranieri la straordinaria possibilità di fare causa ai governi
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per ogni azione che nuoccia ai profitti attuali o futuri. Invece di utilizzare le procedure nazionali, gli investitori
stranieri portano queste cause direttamente ai tribunali internazionali privati. Se queste giurie non sono in
grado cambiare la politica, possono ordinare agli stati di scegliere tra tale cambiamento e il pagamento di un
compenso monetario.
L'ISDS è sempre più usato per colpire regolamentazioni costruite a beneficio del pubblico. La Germania sta
attualmente affrontando una causa intentata dalla compagnia svedese Vattenfall sulla decisione di spostarsi
dall'energia nucleare alle fonti rinnovabili. La compagnia sta rivendicando una compensazione sia per i
mancati profitti attuali che per quelli futuri che derivano dalla chiusura di due impianti nucleari.
Considerare un problema complesso con implicazioni sociali di ampio raggio con le lenti ristrette dei diritti
dell'investitore è intrinsecamente problematico. Il pericolo è aggravato dal fatto che le giurie dell'ISDS sono
strutturalmente prevenute a favore degli investitori. Gli arbitri hanno una diretta partecipazione finanziaria al
sistema. A differenza dei giudici, gli arbitri sono scelti individualmente e pagati dall'investitore che fa causa e
dal difensore del governo. Emanando interpretazioni giuridiche e decisioni amichevoli nei confronti
dell'investitore, aumenta la quantità di casi da prendere in esame e la probabilità che l'arbitro sia di nuovo
scelto in futuro. Non ci sono regole stringenti sul conflitto di interessi, così molti arbitri ruotano tra compiti
decisionali sui singoli casi e ruoli di rappresentanza delle aziende che fanno causa.
I sistemi giurisdizionali democratici hanno meccanismi correttivi. Ci si può appellare contro giudizi sbagliati,
giudici mascalzoni possono essere messi sotto accusa e possono essere fatte o cambiate leggi in risposta a
interpretazioni non volute. E' estremamente difficile appellar Data la spesa si sui giudizi ISDS per qualsiasi
ragione, gli arbitri privati non possono essere messi sotto accusa e non c'è alcun corpo legislativo con
l'autorità di annullare regole che pure contraddicono le decisioni democratiche.
Anche in caso di vittoria dello stato, il costo per la difesa di un singolo caso costa 8 milioni di dollari. Data la
spesa potenziale per decision-makers parziali, i governi, alla sola possibilità che si verifichi un caso ISDS,
possono essere sottoposti a pressione per cambiare le regole o fare nuove proposte. Infatti, già anni prima,
Vattenfal aveva minacciato una causa contro la Germania sulle proposte regolazioni degli impianti a carbone
che sono state di conseguenza modificate.
Il 16 settembre la Commissione europea ha rivelato una nuova proposta soprannominata “Investment Court
System” intesa ad affrontare le critiche dell'ISDS. Infatti le proposte cercano di eliminare molto del pregiudiziopro investitore, di limitare il conflitto di interessi e di stabilire un meccanismo di appello. A questi importanti
cambiamenti rappresentano un miglioramento rispetto al modello attuale. Ciononostante la nuova proposta
conserva una definizione di investimento eccessivamente larga, non riesce a imporre alcun obbligo agli
investitori, non riesce a proteggere adeguatamente le regole anti-discriminatorie e lascia immutata la giustizia
disuguale creata da una “ corte” investor-only. La nuova proposta non riesce a dimostrare la necessità di una
giustizia speciale e privilegiata per pochi scelti (l'AFL-CIO continua ad esaminare questa ultima proposta e
avrà poi da dire cose)
Questa primavera una giuria ISDS si è divisa 2 a 1 nella causa Bilicon v Canada, con la maggioranza che ha
deciso che una azienda mineraria meritava una compensazione perché le era stato negato il permesso di
allargare una cava. Due arbitri hanno concluso che i contribuenti canadesi dovevano pagare l'azienda perché i
decision makers del governo aveva dato troppa importanza ai “valori core della comunità”, In dissenso, il terzo
arbitro ha notato l'effetto perverso che la decisione avrebbe avuto sulla possibilità dei regolatori di rispondere
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all'opposizione della comunità e di promuovere una responsabile amministrazione ambientale. Non è chiaro
se, con il TTIP, la nuova proposta impedirebbe il ripetersi di un simile caso o una decisione simile a quella
canadese.
Quando i critici provano a sollevare questi temi con i negoziatori dell'accordo commerciale, ci è stato
assicurato che l'ISDS è stato “sistemato”. Ma l'ISDS è intrinsecamente e fondamentalmente sbagliato. Come
ha scritto il premio Nobel Joseph Stiglitz nel novembre 2013, il vero obiettivo dell'ISDS è di restringere la
possibilità dei governi di regolare il comportamento corporate, realizzando “furtivamente – attraverso accordi
commerciali negoziati segretamente” quello che non si otterrebbe “attraverso un aperto processo politico”.
Critical Public Services
I servizi pubblici, compresi la sanità, l'istruzione, i trasporti, le infrastrutture e la gestione dell'acqua, giocano un
ruolo critico nell'alleviare la povertà e nell'assicurare un accesso equo. Sono essenziali per affrontare i
fallimenti del mercato e assicurare una crescita economica sostenuta che è negativamente condizionata da
alti livelli di disuguaglianza di reddito. Gli US e l'EU dovrebbero scambiarsi le best practices e adottare
politiche che producano la migliore qualità dei servizi. Molti paesi europei hanno servizi pubblici
particolarmente robusti e c'è molto da imparare dal mettere a confronto le esperienze, idee e risultati.
Purtroppo, se le regole nel TTIP riflettono il linguaggio degli accordi precedenti, la fornitura dei servizi pubblici
potrebbe essere sottoposta a regole restrittive che favoriscono la deregolamentazione e la privatizzazione.
La privatizzazione ha spesso determinato una declinante qualità dei servizi, il deterioramento delle
condizioni di lavoro e delle retribuzioni dei lavoratori dei servizi e l'esclusione dei poveri e da quelli
geograficamente troppo isolati per rendere profittevole l'erogazione del servizio stesso. Le regole negli attuali
accordi commerciali non solo promuovono la fornitura privata dei servizi pubblici, ma rendono difficile e spesso
costoso per il governo invertire una decisione di privatizzazione se i risultati hanno un impatto negativo nella
fornitura del servizio. Per esempio, noi comprendiamo che i servizi scolastici stanno ricevendo una particolare
attenzione nei negoziati per il TTIP. I providers di istruzione private sono ansiosi di avere accesso al mercato
europeo, sebbene le loro prestazioni negli US sono talvolta abissali.
Il TTIP dovrebbe proteggere e promuovere i servizi pubblici, ma non è chiaro se lo farà. In assenza di impegni
fermi per assicurare la protezione, presenta una minaccia seria a servizi pubblici efficaci ed equi. Gli impegni a
proposito dei servizi dovrebbero essere presi solo sulla base di una “positiv-list”. Positiv lists assicurano che gli
stati si impegnino solo sui servizi su cui intendono impegnarsi e lascino lo spazio aperto per i servizi ancora
da inventare che i negoziatori non possono contemplare in questo memento. Non c'è alcuna prova che preimpegnarsi a servizi non ancora inventati per le regole del l'accordo sul commercio porta ai migliori risultati
politici possibili.
Financial services
Preoccupa che il TTIP appare pronto ad aprire i servizi finanziari agli sterri requisiti restrittivi cui sono
attualmente sottoposti altri servizi in base agli accordi commerciali. Questo ha preoccupanti implicazioni per il
mantenimento di un policymaking economico equilibrato che assicuri crescita stabile e sostenibile. Antiquate
e spesso non chiare regole rischiano non solo di ritardare le necessarie riforme per tenere a freno gli eccessi
dei passati decenni, ma potrebbe in realtà evitare misure sensate per assicurare la stabilità. I passati accordi
commerciali hanno incluso il linguaggio che promuove le politiche della lunga e screditata era del Washington
consensus. Gli accordi recenti hanno posto limitazioni sull'uso del controllo dei capitali che, come anche il FMI
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ha concluso, possono essere utili per alleviare la volatilità del mercato. Date le precarie condizioni in Grecia e
in altri paesi dell'eurozona, e gli sforzi incompleti di frenare la deregolamentazione di Wall Street negli US, è
fondamentale che il TTIP protegga la la possibilità di creare stabili servizi finanziari.
L'ISDS già presenta una minaccia alla capacità del governo di cercare di evitare le crisi economiche.
L'Argentina ha il triste primato di essere stata citata in giudizio almeno 51 volte la maggior parte delle quali
legate al collasso 2001-02. Ci sono diverse cause pendenti contro la Grecia sulle misure messe in atto dal
paese come condizione per ottenere un pacchetto di finanziamenti internazionale per stabilizzare l'economia.
Impegni assunti nel TTIP per esplicite regole relative ai sevizi finanziari, aumenterà tale pericolo.
Public procurement (appalti pubblici)
In passato, gli accordi commerciali hanno limitato i programmi di appalto pubblico, rendendo difficile o
impossibile per il governo fare contratti per esprimere una preferenza, figurarsi un requisito, per le imprese
locali o l'occupazione locale. In più, tali impegni non hanno mai chiarito che si può preferire il business che
aderisce all'impegno sui diritti umani o sugli standards ambientali. I governi dovrebbero potere contrastare i
problemi sociali come la disoccupazione giovanile, il cambiamento climatico o un retaggio di discriminazione,
inserendo criteri standard nei contratti pubblici. Anche il crescente movimento volto a includere negli acquisti
pubblici la due diligence sui diritti umani, che proteggerebbe gli standards del lavoro attraverso tutta la catena
dell'offerta, rischia di essere danneggiato da regole sul commercio di tipo restrittivo.
Labor Protections
I lavoratori di entrambe le sponde dell'oceano rischiano difficoltà, con alti livelli di disoccupazione, aumento del
lavoro precario e ridotte protezioni sociali. Il TTIP non deve diventare un veicolo per promuovere politiche
fallimentari centrate sull'austerità e la flessibilità del lavoro. C'è già una spinta a distruggere le protezioni dei
lavoratori e a diminuire i servizi pubblici e l'investimento. Il risultato è stato una spirale di contrazione
economica, lo scatenamento sempre più frenetico di tagli e di perdite di posti di lavoro.
Non sono solo le protezioni dei lavoratori ad essere fondamentali per assicurare ai lavoratori stessi di essere
trattati con rispetto per la loro dignità, ma servono anche forti protezioni per la libertà di associazione al fine di
contrastare la disuguaglianza di reddito e, in tal modo anche una crescita economica sostenuta. Purtroppo
negli US sono stati ratificati solo due degli ILO Core Labor Standards e una legislazione anti-sindacale
continua a violare i diritti dei lavoratori. Per esempio, a Chattanooga, Tennessee, l'influenza politica e
corporate impedisce ai lavoratori di un impianto VW di organizzare un works council. L'AFL-CIO e l'EU
devono lavorare per assicurare che il TTIP non danneggi le importanti relazioni industriali nell'EU come la
codeterminazione e i works councils.
Nell'ipotesi migliore, il TTIP potrebbe essere un'opportunità per andare oltre un approccio “minimo comune
denominatore” ai diritti del lavoro e per creare regole veramente centrate sulle persone. Purtroppo, gli impegni
sul lavoro sono normalmente trattati come un dopo rispetto alle previsioni commerciali, e non un meccanismo
centrale per ottenere crescita stabile e condivisa e per ridurre la disuguaglianza.
L'AFL-CIO spera di continuare a lavorare con il DGB e gli altri sindacati europei, così come con le
organizzazioni dei consumatori, dell'ambiente e degli studenti e di continuare a battersi insieme per forti
standards sul lavoro e l'ambiente e per una maggiore prosperità per i lavoratori US e EWU. Senza un nuovo
modello di commercio che riflette i bisogni dei lavoratori e delle organizzazioni alleate, questo impegno sarà
sempre più difficile da portare avanti.
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Social Europe Journal 13 ottobre 2015
August Deaton* “Stati deboli, paesi poveri”
*August Deaton, premio Nobel per l'economia 2015
In Scozia, ero portato a pensare ai poliziotti come ad alleati a cui chiedere aiuto in caso di bisogno.
Immaginate la mia sorpresa quando a 19 anni, durante la mia prima visita negli US, ho urtato contro un fiume
di oscenità da parte di un vigile di New York che stava dirigendo il traffico a Times Square cui avevo chiesto
indicazioni sul più vicino ufficio postale. Nello stato confusionale che ne è seguito, ho imbucato urgenti
documenti del mio datore di lavoro in una secchio dell'immondizia che a me sembrava una buca delle lettere.
Gli europei tendono ad avere sentimenti più positivi degli americani sui loro governanti. Per questi ultimi, i
fallimenti e l'impopolarità del livello federale, statale e dei politici locali sono un luogo comune. Ma i vari
governi americani raccolgono le tasse e, in cambio, forniscono servizi senza i quali i cittadini avrebbero vite
difficili.
Gli americani, come molti cittadini dei paesi ricchi,prendono per garantiti il sistema legale e regolatorio, le
scuole pubbliche ,la sanità e l'assistenza sociale per gli anziani, le strade, la difesa e la diplomazia, e pesanti
investimenti dello stato nella ricerca, soprattutto in campo medico. Certo, non tutti i servizi sono buoni come
dovrebbero, né tenuti in uguale riguardo da tutti; però, dato che i cittadini pagano le tasse, se il modo in cui è
speso il denaro offende qualcuno, si solleva un vivace dibattito pubblico e regolari elezioni consentono di
cambiare priorità.
Tutto ciò è così ovvio che non serve parlarne, almeno per coloro che vivono nei paesi ricchi con governi
efficienti. Ma per la maggior parte della popolazione del mondo non lo è.
In buona parte dell'Asia e dell'Africa, gli stati mancano della capacità di raccogliere le tasse o di fornire servizi.
Il contratto tra governo e governati – imperfetto nei paesi ricchi – è spesso del tutto assente nei paesi poveri. Il
vigile di New York è stato poco più che ineducato (e occupato a fornire un servizio); in buona parte del mondo,
la polizia saccheggia coloro che si suppone debba proteggere, scuotendoli per spremere loro soldi o
perseguitandoli in nome dei loro potenti patroni.
Anche nei paesi di medio reddito come l'India, le scuole e gli ospedali pubblici soffrono di assenteismo di
massa (impunito). I dottori privati danno alla gente quello che (pensano) essa voglia – iniezioni, fleboclisi e
antibiotici – ma lo stato non li regola e molti praticoni sono del tutto dequalificati.
Nel mondo in via di sviluppo i bambini muoiono perché sono nati nel luogo sbagliato – non di malattie esotiche
e incurabili ma per comuni malattie infantili che noi sappiamo come curare da almeno un secolo. Con uno
stato incapace di fornire sanità di routine a madri e figli , questi figli continuano a morire.
Analogamente, senza un governo capace di garantire le regole e la loro corretta applicazione, il business trova
difficoltà ad operare. Senza tribunali civili funzionanti, non ci sono garanzie che imprenditori innovativi possano
essere premiati per le loro idee.
L'assenza della capacità dello stato – cioè dei servizi e delle protezioni che la gente nei paesi ricchi dà per
garantita – è una delle principali cause di povertà e di deprivazione in tutto il mondo. Senza stati efficaci che
funzionano con il coinvolgimento e l'attività dei cittadini, c'è poca possibilità della crescita necessaria ad
abolire la povertà.
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Purtroppo, i paesi ricchi del mondo stanno attualmente peggiorando le cose. L'aiuto straniero – trasferimenti
dai paesi ricchi a quelli poveri – ha molti meriti, soprattutto in termini di assistenza sanitaria, e molte persone
che oggi sono vive, sarebbero altrimenti morte. Ma l'aiuto straniero danneggia lo sviluppo della capacità dello
stato locale.
Questo è particolarmente ovvio in paesi – soprattutto in Africa - in cui il governo riceve direttamente gli aiuti e i
tali flussi di denaro sono grandi relativamente alla spesa fiscale dei paesi stessi (pari spesso a più della metà
del totale). Tali governi non hanno bisogno di alcun contratto con i loro cittadini né di alcun parlamento né di un
sistema di raccolta fiscale. Se devono rendere conto a qualcuno è ai donatori; ma in pratica, anche questo non
funziona, perché i donatori, sotto la pressione dei loro cittadini (che giustamente vogliono aiutare i poveri),
hanno bisogno sborsare denaro proprio quanto i governi dei paesi poveri hanno bisogno di riceverlo, se non
addirittura di più.
E se si baypassassero i governi dando gli aiuti direttamente ai poveri? Certo, gli effetti immediati è probabile
sarebbero migliori, specie in paesi in cui pochi degli aiuto da governo a governo raggiungono effettivamente i
poveri. E ci vorrebbe stupefacentemente poco – circa 15 US cents al giorno da ogni adulto del mondo ricco –
per portare tutti ad avere disponibile almeno un dollaro al giorno.
Ma questa non è la soluzione. I poveri hanno bisogno di governo per avere vite migliori; tenere il governo fuori
dal giro potrebbe migliorare le cose nel breve periodo, ma lascerebbe irrisolti il problema sottostante. I paesi
poveri non possono avere per sempre i propri servizi sanitari da fuori. Gli aiuti danneggiano la cosa di cui i
poveri hanno più bisogno: un governo efficace che lavoro con loro per l'oggi e per il domani.
Un a cosa possiamo fare ed è mobilitarsi perché i nostri governi smettano di fare le cose che rendono più
difficile per i paesi poveri smettere di essere poveri. Ridurre gli aiuti è una, ma lo è anche la limitazione del
commercio delle armi, il miglioramento del commercio coi paesi ricchi e delle politiche di sussidio, fornendo
consigli tecnici non legati agli aiuti e sviluppare medicine migliori per malattie che non colpiscono i paesi
ricchi. Non possiamo aiutare i poveri rendendo sempre più deboli i loro deboli governi.
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Financial Times 27 ottobre 2015
John Thornhill “L'Europa ha bisogno di un proprio allevamento di unicorni”
In un appartamento vicino alla Bastiglia, al centro di Parigi, un'organizzazione chiamata La Famiglia sta
complottando la rivoluzione. Questi cospiratori dell'era moderna non stanno progettando di sovvertire un
regime, come nel 1789. Invece stanno fomentando una rivoluzione economica, aiutando a trasformare una
nuova generazione di startups imprenditoriali in campioni globali.
I policymakers europei hanno a lungo cercato di identificare e replicare la formula magica dietro al successo
di Silicon Valley. Dozzine di reports e innumerevoli convegni hanno cercato di rispondere alla domanda: come
creare una Apple o una Google europee?
Ma secondo Ossuana Ammar tali tentativi sono stati una perdita di tempo. "Nessuno riprodurrà mai Silicon
Valley come nessuno potrebbe mai replicare Michelangelo" dice il co-fondatore di The Family. Ciò detto, egli
crede che l'Europa possa costruire "qualcosa di incredibile" come l'emergere di un "nuovo ecosistema".
Negli ultimi anni, incubatori di business si sono diffusi come funghi in tutta Europa. Sono spesso eccentrici in
modo affascinante, con sacchi di fagioli e alberi di palma in vaso, luci piacevoli e posters che proclamano
messaggi di sfida come "Fare festa è un affare serio".
Mr. Ammar, che ha lavorato a San Francisco è serio sulle brillanti prospettive delle startups europee. Primo, il
continente vanta "incredibili" (e comparativamente meno pagati) disegnatori e ingegneri, che sono sempre più
propensi a uscire dalla vecchie aziende e dalle università a favore delle startups. E poiché ci sono 51 paesi in
tutta Europa, lo staff ha familiarità anche con la complessità linguistica e culturale.
Secondo, la scarsità relativa di startup capital significa che le imprese europee possono essere
estremamente efficienti e focalizzate. Terzo, ogni impresa può ora diventare globale all'istante, a prescindere
dalla collocazione. Per esempio, una delle imprese internet di The Family, di base in Francia, produce
attualmente per il 95% per la Cina. 5 anni fa, Ammar avrebbe detto alle imprese talentuose di andare negli US.
Ora l'Europa ha una chance.
Alcuni dati sostengono tale ottimismo. Un recente report di GPBullhound, una banca di investimenti britannica
ha identificato nel 2014 quaranta startups europee valutate 1 miliardo di dollari o più - i cosiddetti unicorni - a
confronto coi trenta dell'anno prima. L'UK - che è emerso come centro fin-tech - guida con 17 unicorni, con 6
in Svezia e 4 in Germania.
La sfida dell'Europa è espandere tale promettente 1 miliardo di dollari di startups in 10 miliardi di imprese e di
costruire una nuova piattaforma globale. C'è molta strada da fare. In giugno, il valore combinato dei 40
unicorni europei è arrivato a circa 120 miliardi, meno della metà dell'attuale valore di mercato di facebook.
Secondo uno studio di CBInsight, solo un unicorno europeo (Spotify) è nella graduatoria mondiale delle
stertups di maggior valore del mondo, a confronto con le 12 degli US e delle 5 della Cina. Allevare unicorni è
una misura imperfetta della trasformazione dell'Europa. Un fattore molto più importante può essere fino a che
punto e quanto rapidamente l'established business sta innovando. Molti stanno lottando disperatamente per
approfittare delle opportunità determinate dal cambiamento tecnologico.
Maria Buniumea, una startup spagnola che aiuta a fare incontrare l'established business con gli imprenditori
esterni, dice che un numero crescente delle più grandi imprese europee sta lavorando con le startups per
accelerare l'innovazione. "Le grandi imprese sanno che per sopravvivere devono innovare. Devono
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reinventarsi" dice. "Ma il mondo si sta muovendo così rapidamente che le aziende si stanno rendendo conto
che impossibile innovare in modo abbastanza rapido solo all'interno delle loro strutture".
L'Europa sta rispondendo al cambiamento tecnologico molto più rapidamente di qualche anno fa; ma resta la
domanda se si sta muovendo abbastanza. Vivek Wadhwa, un imprenditore tech US che ora insegna a
Standford, mette in evidenza la dimensione del compito. Prevede che le tecnologie a sviluppo più veloce come machine learning, robotics, sensors e synthetic biology - getteranno a terra l'economia di molte industrie
da cui dipende l'Europa, comprese auto, energia, telecomunicazioni e sanità. Diverse industrie del valore di
un trilione di dollari saranno distrutte nel prossimo decennio, mentre nuove industrie da un trilione di dollari
saranno create. "O ti adatti e sei in testa o perisci" dice.
I mercati finanziari comprano questa visione di straordinaria distruzione. Si prenda l'industria dell'auto.
Malgrado le recenti oscillazioni dei prezzi delle azioni, Tesla outlier Motors che si propone di produrre
quest'anno 50.000 macchine elettriche, ha un valore di borsa di $28 miliardi. La Fiat Chrisler, che quest'anno
si propone di produrre 4.8 milioni di auto, vale solo 20 miliardi.
L'Europa ha urgente bisogno di sfruttare il cambiamento tecnologico per creare un business completamente
nuovo piuttosto che sbattersi per difendere quello che ha.
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Social Europe Journal 29 ottobre 2015
Branko Milanovic* “Come la tecnologia può sradicare la disoccupazione e i posti di lavoro nello stesso
tempo”
*Branko Milanovic Visiting presidential professor al Graduate center of City University of New York - CUNY
Alcuni giorni fa, Steven Hill ha presentato al Graduate Center CUNY di New York il suo nuovo libro “Raw deal:
come la “Uber Economy” e il runaway capitalism stanno rovinando i lavoratori americani”. Esso affronta
(secondo la presentazione di Steven – non ho ancora letto il libro) il declino del sindacato, il futuro del lavoro e
la robotica. Mi ha colpito che (nella sua presentazione e nella maggior parte delle cose che leggiamo), quando
si parla del futuro del lavoro, ci sono due narrazioni che sembrano contraddittorie. C'è la narrazione
dell'automatizzazione del lavoro e della robotica per la quale la maggior parte dei nostri lavori finiscono per
essere fatti dai robots. Poi c'è la narrazione delle persone che lavorano sempre più ore perchè il lavoro si
intromette nel loro tempo libero:invece di prendersela calma nella giornata come implicherebbe la prima
narrazione, useremmo il nostro tempo libero per affittare appartamenti che possediamo o guidare le nostre
auto come taxi. Secondo la prima narrazione, corriamo il rischio di avere troppo tempo libero; secondo la
seconda, non ne abbiamo per niente.
Prendiamo in considerazione i due scenario, uno per uno e separatamente.
Supponiamo prima che la maggior parte delle attività di routine sono sostituite dai robots. Questo sembra
abbastanza possibile (dalla attuale prospettiva). Se il capitale sostituisce il lavoro con facilità, avremo
l'elasticità di sostituzione superiore a 1 (un punto sostenuto da Piketty nel suo “Capital in the 21 st century” e il
ritorno sul capitale non si ridurrà in proporzione alla crescita del rapporto capitale/lavoro. Ciò significa che
sempre più reddito netto apparterrà ai capitalisti e perciò ai proprietari di aziende che producono robots.
Supponiamo che le auto di Google diventino onnipresenti e che Google porti fuori mercato (per dire)
Mercedes, Ford e Volkswagen. Il denaro sarà fatto dai proprietari di Google.
In quel futuro la distribuzione si muoverà ancora di più contro il lavoro, aumenterà la disuguaglianza di
reddito, la disoccupazione sarà più alta e ci sarebbe pertanto un problema generalizzato di ricerca di lavoro.
Poiché l'economia sarà diventata più ricca (ci saranno solo più cose), ci sarà forse un qualche tipo di sostegno
al reddito pagato a tutti. La società apparirebbe come segue: moltissime persone con un reddito minimale
garantito con tantissimo tempo libero, gli occupati con redditi un po' più alti del minimo sociale che lavorano
soprattutto nei servizi e relativamente pochi , favolosamente ricchi, proprietari dei mezzi di produzione.
Fondamentalmente, Mark Zuckerbergs, i personal trainers e i senza lavoro che vivono a Miami.
Come apparirebbe lo scenario alternativo? Anche qui abbiamo la robotica ma quello che la robotica fa è
segmentare il lavoro in segmenti i più piccoli possibile, affidare ciascuno di questi segmenti a persone assunte
a tempo determinato per fare solo quel piccolo pezzetto e poi combinare centinaia di tali compiti nel prodotto
finale. Invece di avere il lavoratore L che lavora per una azienda A a tempo pieno e svolge un compito C, in
modo che su tale compito C c'è un esclusivo impegno bilaterale tra il lavoratore e l'azienda, avremo il compito
diviso in C1, C2,....e diramato a lavoratori L1, L2,....Ora i lavoratori, a loro volta, ciascuno svolgerà altri compiti
per altri datori di lavoro: così il lavoratore L1 lavorerà nello stesso giorno su compiti C,Z e Y, ognuno per un
diverso datore di lavoro.
Ci sarebbe una molteplicità (e non l'esclusività) da entrambi i lati: i lavoratori non saranno più impegnati nei
confronti di un singolo imprenditore, né l'imprenditore dipenderà per il compito C da un singolo lavoratore.
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Poiché i compiti sono così segmentati, è possibile assumere meno lavoro professionale e più lavoratori a buon
mercato che spesso usano il loro tempo “libero”. Per questo i tassisti professionisti vengono ora sostituiti da
persone che spendono 1/3 della loro giornata lavorativa come agenti di vendita, 1/3 come baristi e 1/3 come
autisti della propria auto o cab. E per questo gli alberghi sono in competizione con le persone che affittano le
proprie stanze. E per questo io potrei usare ogni minuto del mio tempo libero per fare lavori per i quali non ho
avuto alcuna formazione e questo sostituirebbe persone che sono state formate per tali lavori e li hanno fatto
per anni.
In questo scenario noi assisteremmo a una drammatica riduzione di specializzazione (diciamo che la
formazione professionale finirebbe), sfocando la differenza tra lavoro e tempo libero e la pressione sulla quota
di lavoro. Tutti sarebbero tuttofare e capaci di niente. Ci sarebbe una disoccupazione limitata (poiché
praticamente tutti potrebbero svolgere qualche compito estremamente semplice in cui è stato diviso il lavoro).
Ma forse sarebbe meglio pensare ai due scenari come se fossero uno solo che combini le molte sostituzioni di
lavoro con una pesante segmentazione dei compiti (e una disciplina del lavoro molto più intensa resa
possibile grazie all'automazione. In questo caso, i lavori cui siamo abituati cesserebbero di esistere: una
grande quantità delle funzioni odierne sarebbero automatizzate e molte altre sarebbero affidate a “dilettanti”
non professionali.
E non dovremmo cadere nell'errore del “lump of labor” (gli economisti chiamano lump of labor fallacy, l'idea
(sbagliata) che al mondo ci sia una quantità limitata di lavoro per cui l'incremento di lavoro di ogni singolo
lavoratore, riduce il numero dei lavori disponibili): la quantità di lavoro non è limitata ai lavori che conosciamo
oggi. Ci saranno lavori interamente nuovi che non possiamo neppure immaginare. Steven ne ha fatto un
esempio che esiste già oggi: “la girlfriend invisibile”. C'è chi paga per ricevere, a intervalli dati, messaggi di
testo che sono apparentemente spediti dalla propria girlfriend. Negli altri cresce la considerazione verso di
loro: molte girlfriends competono per la loro attenzione. In realtà qualche baffuto ragazzone in maniche corte
scrive tali messaggi e viene remunerato per essi.
O, per fare un altro esempio: donne il cui lavoro è fare le madri surrogate per coppie gay o eterosessuali che
non possono avere bambini. Ora, questo lavoro non esisteva fino a poco tempo fa ed è stato reso possibile da
(a) cambiamenti legislativi che hanno consentito la maternità surrogata (anche in caso di matrimonio gay) e (b)
dal progresso tecnologico che ha premesso l'inseminazione artificiale. Quando faccio questo esempio, mi
viene richiesto: ma i metalmeccanici costruttori di auto di Detroit possono diventare madri surrogate? No, ma
questo avviene sempre nei periodi di transizione, quando l'occupazione è sulla sua via di uscita. Ma dopo un
po' non ci saranno più del tutto costruttori di auto e si, qualche donna può diventare madre surrogata e può
avere questo come principale lavoro remunerato.
La tecnologia creerà nuovi lavori e,se non altro, penso che dovremo preoccuparsi di avere troppo poco tempo
libero e non di averne troppo. Con il progredire della commercializzazione delle nostre vite percepiremo (come
già avviene) che è sprecata ogni ora spesa senza che contribuiamo direttamente o indirettamente a
guadagnare denaro. La disoccupazione diventerà impossibile. Essere disoccupati implica che tu sei
specializzato e che c'è una relativa carenza di lavori che richiedono la sua specializzazione. Ma non è così
nella nuova economia: tutti possono portare Thai food da un posto all'altro, tutti possono esibirsi nudi du
Internet, tutti possono aprire porte, fare pacchi o anche scrivere blogs. Nessuno sarebbe disoccupato e
nessuno avrebbe un lavoro.
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New York Times 7-8 novembre 2015
Paul Krugman “L'orribile eredità dell'austerità”
Il feticismo del deficit che ha portato a riduzioni di "government" è stato più distruttivo di quanto avessero
anticipato persino i suoi critici
Quando nel 2008 è scoppiata la crisi economica, i policymakers hanno fatto, nell'insieme, la cosa giusta. La
Federal Reserve e le altre banche centrali hanno capito che, malgrado le nozioni convenzionali della prudenza
monetaria, era prioritario sostenere il settore finanziario. L'amministrazione Obama e gli altri governi hanno
capito che in un'economia che stava crollando, i deficit di bilancio erano utili e non dannosi. E la stampa della
moneta e i prestiti hanno funzionato: è stata evitata una ripetizione delle Grande Depressione, cosa che era
sembrata possibile.
Dopo è andato tutto male. E le conseguenze degli errori fatti appaiono ora peggiori di quanto avessero
immaginato allora persino i più duri critici della saggezza convenzionale.
Per quelli che non ricordano (è difficile credere da quanto tempo stia durando): nel 2010, più o meno
improvvisamente, le élite politiche di entrambe le sponde dell'Atlantico hanno deciso di smettere di
preoccuparsi della disoccupazione e hanno cominciato a preoccuparsi invece dei deficits di bilancio.
E' dimostrato che questo cambiamento non sia stato indotto da un'analisi corretta. Infatti è fortemente
contrastante con le basi dell'economia. Ma tutti si lanciavano in infausti discorsi sul pericolo dei deficit, perché
anche tutti gli altri li facevano, e i dissidenti non erano più neppure presi in considerazione - e per questo ho
cominciato a chiamare coloro che ripetevano a pappagallo l'ortodossia del momento "Very Serious People".
Alcuni di noi hanno cercato invano di far notare che il feticismo del deficit era sbagliato e distruttivo, che non
c'era alcuna prova che il debito pubblico fosse un problema per le principali economie, mentre c'era ampia
evidenza che i tagli della spesa nell'economia depressa avrebbero approfondito la depressione. E siamo stati
vendicati dagli eventi. Sono passati più di quattro anni e mezzo da quando Alan Simpson e Erskine Bowles
hanno avvertito che, entro due anni, ci sarebbe stata una crisi fiscale; il costo del credito in US resta ai minimi
storici. Intanto le politiche di austerità che sono state messe in atto nel 2010 e dopo hanno avuto esattamente
gli effetti depressivi previsti dai libri di testo di economia; la fata della fiducia non è mai comparsa. Ma c'è una
crescente evidenza che noi critici in realtà abbiamo sotto-stimato la distruttività della scelta dell'austerità. Nello
specifico, ora sembra come se l'austerità non abbia imposto solo perdite di breve periodo di occupazione e di
prodotto, ma ha anche azzoppato la crescita di lungo periodo.
L'idea che le politiche che deprimono l'economia nel breve termine infliggano anche un danno duraturo è
generalmente definita come "isteresi". E' un'idea con un impressionante pedigree: la tesi dell'isteresi è
contenuta in un ben noto paper del 1986 di Olivier Blanchard (che è poi diventato economista capo del FMI) e
di Lawrence Summers, che ha servito come top official sia nell'amministrazione Clinton che in quella Obama.
Ma penso che tutti abbiano esitato ad applicare l'idea alla Grande Recessione per paura di apparire
eccessivamente allarmisti. A questo punto tuttavia, l'evidenza praticamente urla l'isteresi. Anche i paesi che
sembra si siano ampiamente ripresi dalla crisi, come gli US,sono più poveri di quanto le previsioni pre-crisi
avessero suggerito per questo momento. E un nuovo paper di Summers e Antonio Fatas, oltre a sostenere le
conclusioni di altri economisti per le quali sembra che la crisi abbia fatto danni enormi anche per il lungo
periodo,dimostra che il peggioramento delle previsioni sulle prospettive di lungo termine delle nazioni è
fortemente correlato con la quantità di austerità che è stata imposta.
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Ciò suggerisce che il cambiamento verso l'austerità ha avuto effetti veramente catastrofici, andando ben oltre
il lavoro e il reddito persi in questi primi anni. Infatti il danno di lungo termine previsto dalle stime di Summers e
Fatas è abbastanza grande da fare dell'austerity una politica auto-distruttiva anche in termini puramente
fiscali: i governi che, di fronte alla depressione, hanno tagliato la spesa, hanno nuociuto alle loro economie e
quindi i loro futuri introiti fiscali, così tanto che anche il loro debito diventerà più grande di quanto sarebbe
stato senza i tagli.
E l'amara ironia della storia è che questa catastrofica politica era stata intrapresa in nome di una
responsabilità di lungo termine e che quelli che avevano protestato contro la svolta sbagliata erano stati
liquidati come irresponsabili.
Da questa debacle si possono trarre alcune lezioni . E' venuto fuori che "Tutte le persone importanti lo dicono"
non è un buon modo per decidere la politica; il pensiero di gruppo non è un buon sostituto dell'analisi chiara.
Anche chi chiede sacrifici (naturalmente per gli altri) non significa che abbia pensiero forte.
Ma queste lezioni saranno capite? I passati guai economici, come la stagflazione degli anni '70, hanno portato
alla diffusa riconsiderazione dell'ortodossia economica. Ma un aspetto sorprendente degli ultimi anni è stata la
scarsità di coloro che hanno avuto voglia di ammettere di avere sbagliato su qualcosa. Sembra del tutto
possibile che i Very Serious People che hanno applaudito politiche disastrose non impareranno nulla da tale
esperienza. E questo è, di per sé, spaventoso quanto il risultato economico.
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Social Europe Journal 6 novembre 2015
John Weeks “L'eurozona: deflationary boom or deflationary bust?”
Diversi anni fa l'idea che l'austerità fiscale avrebbe potuto indurre la crescita "l'austerità espansiva", ha avuto
una breve fioritura prima di svanire sotto il peso del ridicolo. Recentemente è riemersa con un nome diverso
"deflationary boom". Se l'expansionary austerity era un ossimoro, il deflationary boom è semplicemente una
idiozia.
Per destrutturare e disinfettare il deflationary boom abbiamo bisogno di una definizione operativa di
deflazione. Definire deflazione come una caduta dell'indice aggregato dei prezzi (cioè un tasso di
cambiamento negativo del livello dei prezzi) è corretto ma non operativo. La definizione diventa operativa
quando specifichiamo la misura appropriata; cioè l'indice per il consumatore, per il produttore, il deflattore del
PIL ecc. Le materie prime differiscono tra le varie misure, apparendo in alcune ma non in altre e con pesi
diversi.
Una volta specificate le misure appropriate, il compito diventa quello di chiarire come interpretarlo. Le
economie di mercato sono sistemi dinamici con nuovi prodotti che si aggiungono continuamente e con la
qualità di quelli esistenti che cresce. Ne consegue che se il livello dei prezzi resta costante, i prezzi si sono
ridotti. Una linea guida generalmente accettata è che un tasso di inflazione misurato dell'1,50% implica un
livello costante dei prezzi.
Con il significato e la misura di inflazione e di deflazione chiariti, diventa possibile analizzare cosa è accaduto
all'eurozona negli ultimi anni.
La grande recessione del 2008 ha provocato una forte riduzione del tasso di cambio dei prezzi al consumo
per tutti i paesi, che sono scesi a tassi negativi nel 2009. E' seguita una ripresa dei prezzi che è finita al metà
del 2011, in coincidenza con l'attuazione dei programmi di austerità in diversi paesi dell'Eurozona (Grecia,
Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna)·
Prendendo in esame il periodo tra la metà del 2011 e il terzo trimestre del 2015, è accaduto che: dall'inizio del
2013 l'andamento dei prezzi in Francia, Germania e in tutti e 17 i paesi dell'euro era sotto il target del 2%
posto dalla BCE. Questo di per sé dovrebbe qualificarsi come "deflazione": una performance al di sotto del
livello posto dalla BCE che, sebbene discutibile, pretende di essere il tasso minimo appropriato per una
economia in salute.
Nello stesso periodo l'andamento dei prezzi in Francia e negli Euro 17 non è stato solo al di sotto del target,
ma è sceso anche sotto le misure considerate come andamento negativo dei prezzi. Alla fine del 2013, la
Germania si è unita al gruppo. Secondo ogni ragionevole misura, l'Eurozona sta sperimentando una
deflazione continua da almeno due anni e probabilmente da quattro anni.
L'asserzione ottimistica che l'Eurozona è uscita fuori dalla deflazione nel terzo trimestre di quest'anno
rappresenta una mancanza di comprensione delle misure inflattive e delle economie di mercato.
Durante la transizione dalla deflazione, la crescita economica in Europa è passata dal rallentamento alla
stagnazione e al declino. Quanto ai tassi di inflazione, la crescita del PIL che si era molto ridotta durante la
Grande Recessione, ha iniziato una rapida ripresa, fino a quando, nel 2011, diversi governi dell'Eurozona
hanno attuato programmi di austerity anti-crescita.
Dall'inizio del 2012, né la Francia né gli Euro 17 hanno ottenuto un tasso di crescita annualizzato del 2% e la
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Germania lo ha ottenuto solo una volta (nel primo trimestre del 2014).
Come spiegato sopra, dovremmo interpretare l'inflazione inferiore all'1.5% come deflazione. Possiamo stabilire
una guideline analoga per la crescita del PIL. Nel lungo periodo, la crescita della forza lavoro e della
produttività determina un tasso di crescita sostenibile dell'economia di mercato e l'investimento di grado
sostenibile determina un cambiamento di produttività.
Uno studio condotto dalla Commissione Europea ha concluso che nel prevedibile futuro ci si potrebbe
aspettare una crescita della produttività dell'1.5-2% . Combinato con una crescita della popolazione
abbastanza bassa, un tasso sostenibile del 2-2.5% rappresenterebbe una stima realistica.
Pertanto, ogni tasso di crescita sotto il 2% rappresenta un under-performance a confronto con il potenziale.
Con questa guideline, dal 2011, i tassi di crescita dell'eurozona, raramente sopra l'1.5% si qualificano come
stagnazione.
L'algebra funziona abbastanza semplicemente:
Inflazione inferiore a 2%------crescita inferiore al 2% = stagnazione
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Financial Times 11 ottobre 2015
Martin Wolf “Nell'ombra lunga della Grande Recessione”
Gli Stati Uniti e l'Europa vivono ancora con l'eredità della crisi finanziaria 2007-09 e della successiva euro-crisi.
Politiche migliori avrebbero potuto evitare questo risultato? E se è così, cosa avrebbero potuto fare?
Una ripresa è in corso, ma solo in un senso limitato. Il PIL dei paesi colpiti dalla crisi è ora tornato quasi
universalmente positivo. Ma il PIL resta ben al di sotto di dove avrebbe dovuto essere in base ai trends precrisi, la crescita non ha recuperato, soprattutto a causa del declino della crescita della produttività.
Nell'eurozona, nel secondo trimestre del 2015, il PIL è rimasto ancora sotto i livelli pre-crisi. Nei membri colpiti
dalla crisi, un ritorno al risultato pre-crisi è ben lontano. Soffriranno la perdita di decenni.
Da un campione di 23 paesi ad alto reddito, il prof. Laurence Ball della John Hopkins University conclude che
le perdite del risultato potenziale variano in un range da zero per la Svizzera a più del 30% per la Grecia,
l'Ungheria e l'Irlanda. In termini aggregati, egli conclude, si era pensato che il risultato potenziale quest'anno
fosse dell'8.4% al di sotto di quello che era stato previsto nel periodo pre-crisi. Questo danno della Grande
recessione è, egli nota, come se fosse scomparsa l'intera economia della Germania.
Una scoperta centrale del lavoro del prof.Ball e, più recentemente di Antonio Fatas di Insead e di Laurence
Summers di Harvard è che le stime del risultato potenziale inseguono il risultato reale. Ciò suggerisce che la
"isteresi" - l'impatto della passata esperienza sulla performance successiva - è molto potente. Le cause
possibili dell'isteresi comprendono: l'effetto sull'occupabilità di una prolungata mancanza di posti di lavoro; il
rallentamento degli investimenti; il declino della capacità del settore finanziario di sostenere l'innovazione; e la
pervasiva perdita degli spiriti animali.
Quest'anno Jason Furnam, presidente dell'US Council of Economic Advisers ha messo in evidenza l'impatto
del basso investimento post-crisi: dopo la crisi, il contributo dell'investimento sulla produttività del lavoro si è
ridotto a livelli molto bassi. Sorprendentemente è stato così negli US, dove l'impatto stimato è stato in realtà
negativo. L'ipotesi dell'isteresi non è universalmente accettata. Ci sono almeno altre tre spiegazioni per il
perdurante collasso del risultato dopo la crisi.
Primo, si sostiene che il boom del credito aveva innalzato le stime pre-crisi del risultato potenziale ben al di
sopra di livelli sostenibili. Un'obiezione a questa tesi è che l'espansione del credito ha aumentato i prezzi degli
assets ben di più di quanto abbia alimentato la spesa reale. Adair Turner, ex presidente dell'UK Financial
Services Authority, ha fatto il punto in tema nel suo libro "Tra il debito e il diavolo". Un'ulteriore obiezione a
questo argomento è che confonde il contributo del debito alla struttura della domanda con i suoi effetti
sull'offerta complessiva.
Una seconda spiegazione per il collasso del risultato economico post-crisi è che sottostimato l'impatto delle
nuove tecnologie sul risultato. Ma, anche se questo fosse vero, (cosa possibile), non spiegherebbe il forte
rallentamento della crescita della produttività dopo la crisi finanziaria. Anche la difficoltà di misurare l'impatto
delle nuove tecnologie non è improvvisamente aumentata nell'UK (il paese più colpito dal rallentamento della
crescita della produttività post-crisi) relativamente agli US (la casa di queste nuove tecnologie, ma ancora
relativamente meno colpito dal rallentamento della produttività).
Una spiegazione finale è che la crescita della produttività è rallentata dopo la crisi. Negli US, non sembra
essere questo il caso. Ma altrove è meno vero.
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In conclusione, allora, l'ipotesi dell'isteresi mantiene una forza sostanziale. Per questo è così importante
evitare le grandi crisi e rispondere con forza quando se ne verifica una, per minimizzarne l'impatto economico.
Altrimenti, il ciclo cattivo potrebbe danneggiare il trend in modo permanente.
Ciò solleva altre due domande: L'impatto avverso della crisi avrebbe potuto essere inferiore? E può essere
ancora invertito? La risposta alla prima deve essere si. ma avrebbe richiesto risposte fiscali e monetarie più
forti e una ristrutturazione più aggressiva delle istituzioni finanziarie danneggiate. In particolare, l'eurozona
avrebbe dovuto fare di gran lunga meglio. Ma, anche oggi, manca della volontà e delle istituzioni che servono.
La risposta alla domanda se le perdite nei livelli del risultato economico e dei tassi di crescita possono essere
invertite deve essere di nuovo si, ma il Pil pro capite dell'inizio degli anni '60 negli US aveva riguadagnato il
livello indicato dalla continuazione dei trends pre-1929. Purtroppo, la spinta fiscale della seconda guerra
mondiale è stata un deus ex machina per la politica. Non si può ripetere in tempi di pace. Anche così,
potrebbe essere almeno possibile un ritorno ai trends dei tassi di crescita pre-crisi. Un mix di sostegno
aggressivo alla domanda e di contributi all'offerta di lungo termine - soprattutto attraverso più alti investimenti
pubblici - centrerebbe entrambi gli obiettivi nello stesso tempo.
L'evidenza, allora, è che recessioni lasciate marcire hanno effetti prolungati sulla prosperità. Una conclusione
è che è vitale agire rapidamente per ripristinare la domanda. Inoltre, è ora chiaramente evidente che i grandi
paesi ad alto reddito godevano dello spazio di policy necessario ad agire con decisione.
Qualunque cosa molti abbiano così stupidamente detto nel 2010, non hanno mai corso il più piccolo rischio di
trasformarsi nella Grecia. Gli US e ancora di più l'Eurozona dovrebbero avere risposto in modo molto più
aggressivo.
L'esperienza indica qualcosa altro non meno importante. Può essere difficile evitare le crisi ma è vitale
renderle più piccole e più rare. Le crisi finanziarie portano a recessioni profonde e rallentamenti prolungati, in
parte perché i policymakers temono di dare risposte sufficientemente forti. Per questa semplice ragione le
regolazione della finanza doveva essere rafforzata. La questione è solo se sia stata rafforzata nel modo
giusto.
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