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Nomen omen?
1. Le funzioni del nome. – Tra le funzioni dell’attribuzione
di un nome (proprio) nelle diverse società umane, gli antropologi
hanno messo in evidenza l’importanza dell’identificazione e della
classificazione. La prima è finalizzata a distinguere: il
riferimento-nome è utile a riconoscersi quando si viene chiamati
e nel contempo serve a essere riconosciuti. Si tratta,
chiaramente, di finalità sociali, che operano nell’ambito di gruppi.
Attraverso il nome, infatti, una singola persona è
individualizzabile, distinguibile all’interno di un insieme di altre
persone, più o meno esteso. La funzione di classificazione
serve, in modo complementare, a rinviare a una serie di
appartenenze (familiari, tribali, politiche etc.). Il nome partecipa
così della fondazione identitaria di ciascun individuo,
assicurando la sua integrazione all’interno della società e
concorrendo alla definizione della sua personalità, sia singolare
sia sociale.
2. Il nome nel diritto positivo italiano
italiano.. – Proprio tale
rilevanza del nome fa sì che il diritto oggettivo s’interessi alle
modalità della identificazione personale, predisponemdo regole,
che da una parte ne stabiliscono la composizione e ne
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determinano la stabilità (art. 6 Cod. civ.), e dall’altra ne tutelano
(in via sia inibitoria, sia risarcitoria) l’utilizzazione (artt. 7, 8 Cod.
civ.). Il nome gode peraltro, nel nostro ordinamento, di una
difesa di livello costituzionale: secondo l’art. 22 della Carta
nessuno per motivi politici può esserne privato (la norma
accomuna il nome alla cittadinanza e alla capacità giuridica).
Come diritto costituzionalmente protetto, quello al nome
(“personalissimo”) è assoluto, inalienabile, imprescrittibile. Nel
diritto italiano, il nome è composto da un cognome tramandato,
che indica l’appartenenza a un gruppo familiare (e,
tradizionalmente, è quello della famiglia paterna), e un prenome,
che individua il singolo, normalmente attribuito dai genitori.
Questo nome (cd. nome civile) è soggetto a pubblicità nei
registri dello stato civile: come tale non è passibile di mutamenti
se non all’esito di procedimento amministrativo o sentenza.
L’ordinamento, accanto a questo nome ufficiale, tutela anche il
cd. pseudonimo (denominazione che il soggetto si
autoattribuisce), qualora abbia acquisito, per l’uso (solitamente
per motivi attinenti all’arte o alla professione del soggetto),
l’importanza del nome (art. 9 Cod. civ.; art. 8 della L. 633/1941
sul diritto d’autore).
Trattandosi di uno strumento di integrazione sociale (che
deve evitare isolamenti ed emarginazioni), il nome e il cognome
possono essere modificati (ovviamente, come si è già accennato,
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tali cambiamenti hanno carattere eccezionale, vista l’importanza
del segno identificativo, e sono ammessi – attraverso un
procedimento amministrativo disciplinato dagli artt. 84 ss. del
D.P.R. 396/2000 – esclusivamente in presenza di situazioni
oggettivamente rilevanti e di significative motivazioni; ad esempio
nel caso in cui il cognome sia ridicolo o vergognoso o perché
riveli un’origine naturale: art. 34 D.P.R. 396/2000).
3. Il nome romano. – La storia del nome affonda le sue
radici nell’antichità più remota. La tradizione romana antica dei
tria nomina (i “tre nomi”) ne rappresenta uno stato già alquanto
avanzato. In età medio- e tardorepubblicana si era stabilizzato
questo uso: ciascun Romano (maschio) si identificava
(normalmente) con l’utilizzazione combinata di un prenome, di un
nome gentilizio e di un cognome. Nell’uso ufficiale si
aggiungevano anche il patronimico e talvolta il nome del nonno
(in alcuni casi anche l’indicazione della tribù, distretto territoriale
di appartenenza). Marcus Tullius Cicero costituisce il nome
completo del noto oratore e uomo politico del I secolo a.C.,
dove Marcus è il prenome, scelto dal padre e assegnato al figlio
al momento della nascita. Tullius è il gentilizio, che indica
l’appartenenza alla gens, ampio gruppo familiare (che nell’età più
antica conservava una struttura di tipo politico) i cui membri, non
avendo memoria della (presunta) comune origine, si
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riconoscevano, appunto, nel nome condiviso. Cicero è, infine, il
cognome, una identificazione di uno specifico ramo nel più
ampio ambito della gens. Tra Cicerone e suo fratello (che
ovviamente appartiene alla stessa gens e alla stessa familia) la
differenza (e dunque l’identificazione) sta nel prenome: Quinto
invece che Marco. Nei documenti ufficiali Cicerone aggiungeva
M.f.M.n.: l’indicazione patronimica: “figlio di Marco, nipote di
Marco”.
Secondo una tesi storiografica che ha avuto un certo
seguito, il nome gentilizio avrebbe origini composite, potendosi
collegare a numerali (ad esempio per le gentes Quinctia, Nonia
e Decia), a caratteristiche fisiche o attitudini lavorative (ad
esempio: i Flavii, la gens dei biondi, i Nauti, navigatori o
battellieri), a credenze totemiche (con riferimenti a nomi, ad
esempio, di animali: Asinii, Porcii). L’appartenenza alla stessa
gente, in età storica, oltre a determinare alcuni riti religiosi
comuni, ammetteva alla tutela e alla eredità legittima del gentile,
quando mancasse un parente più prossimo.
Il cognomen, nella storia romana affermatosi in epoca molto
più recente rispetto al nome gentilizio, derivava anch’esso
frequentemente da un soprannome indicante una caratteristica
(di solito fisica) di un membro della famiglia (poi trasmesso ai
suoi discendenti maschi). Per comprendere: Cicero richiama
cicer=“cece”, probabilmente per un’escrescenza dalla forma di
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quel legume. Nel principato le cose si complicarono molto, in
seguito all’uso, nell’ambito dell’aristocrazia, di accumulare i
cognomi e di aggiungere al proprio anche il gentilizio della
madre.
Diversa l’onomastica muliebre (corrispondentemente alla
differente posizione giuridica e sociale della donna). Se per
l’età più antica ci sono attestazioni di qualche prenome, accanto
al gentilizio, per l’epoca medio- e tardorepubblicana il nome
femminile corrisponde a quello della gens: le sorelle si
distinguevano tra loro con l’aggiunta di un qualificativo che ne
indicava l’ordine di generazione (Antonia maior e minor; Aemilia
prima e secunda).
4. L’autonomia gentilizia. – Per quanto riguarda la storia
più antica delle gentes si ricordano interessanti provvedimenti
relativi ai nomi (più precisamente: ai prenomi) dei loro membri.
Esistono infatti attestazioni di divieti di portare determinati
praenomina, validi a livello gentilizio. La questione è
interessante sotto diversi punti di vista. Il primo è una specie di
autonomia normativa della gens. Pur appartenendo
completamente alla civitas, cioè alla città politicamente
organizzata, e sottomettendosi al suo sistema giuridico, che era
condiviso con gli appartenenti a gentes diverse, le antiche
compagini familiari conservavano alcuni margini di indipendenza
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e di autoregolamentazione. Secondo la tradizione questa
autonomia gentilizia era in età risalente tanto estesa da giungere
fino alla autodeterminazione bellica: ancora nel 478 a.C. (ma è
l’ultimo caso attestato) una gens patrizia, quella dei Fabi,
condurrà una guerra privata contro la città etrusca di Veio. La
conseguente terribile sconfitta subita dai Fabi costituirà la fine
di quest’uso e la definitiva sottoposizione militare delle gentes
alla politica cittadina.
5. Divieti gentilizi di attribuzione di prenomi. – Per quanto
riguarda l’attribuzione dei nomi, l’autonomia gentilizia risulta
particolarmente rilevante, anche perché le fonti ci mostrano le
modalità di decisione (decretum e consensus gentilizio, in
particolare).
Il primo caso noto è quello relativo a Marco Manlio, che nel
384 a.C. fu processato e messo a morte per aver “aspirato al
regno” (una delle fattispecie di reato più gravi durante la
Repubblica). Cicerone, nella prima orazione Filippica (Phil.
1.13.32) ricorda che, a causa dello scelus (cioè il crimine
particolarmente nefando) di questo solo Marco, per decreto
della gens, da allora in poi nessun Manlio patrizio si sarebbe
potuto chiamare con quel prenome. La notizia è confermata, alla
lettera, da una fonte storiografica, Tito Livio (Ab Urbe
condita 6.20.14), che ripete quello che potrebbe suonare come
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testo del decreto (quod gentis Manliae decreto cautum est ne
quis deinde M. Manlius vocaretur). La forma della regola
appare essere, in questo caso, una specifica decisione
(decretum, appunto), vigente poi (per secoli) nei confronti di
tutti i gentiles. I fasti (registrazioni dei magistrati) e più in
generale la prosopografia attestano la lunga validità di questa
norma gentilizia.
Molto simile il racconto, tramandato da Svetonio, il
biografo dei Cesari, relativo alla gens Claudia (quella di
Tiberio, Claudio e Caligola). Meno noti, rispetto a quello di
Marco Manlio, i casi che coinvolsero due Claudi, ambedue di
nome Lucio (la fonte è Svet. Tib. 1). Il primo era stato
condannato per latrocinium (ruberia, pirateria), il secondo per
caedes (strage). A seguito di queste due devianze criminose, la
gens stabilì che mai più un Claudio avrebbe potuto portare il
prenome Lucio (questa volta la forma della regola non sembra
direttamente conseguire ad un atto, ma appare piuttosto di
natura consuetudinaria: la gente intera Lucii praenomen
consensu repudiavit). Anche in tal caso è attestata la lunga
vigenza del divieto. In età imperiale in alcuni casi sarà il Senato a
vietare l’uso di determinati nomi all’interno di talune famiglie.
6. La causa dell’inibizione. – La tradizione erudita antica
(in particolare si v. Gell. Noct. Att. 9.2.11) intende queste
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regole come esito del comportamento illecito e della
conseguente messa a morte dei soggetti portatori del nome che
acquisisce in sé e per sé una valenza negativa. Le stesse parole
che esprimono quei nomi si intendono defamata, infamate e
dunque infamanti. Ma – guardando un po’ più a fondo e
connettendo
all’interpretazione
storica
un
aspetto
antropologico – si tratta della costruzione di una struttura di
previsione. Se un Marco Manlio si è comportato male (e, di
conseguenza, ha messo in crisi l’intera compagine gentilizia) si
deve fare in modo che tale comportamento negativo non venga a
ripetersi. Una esorcizzazione si ottiene evitando la ripetizione
del nome. L’aspetto antropologicamente rilevante è la credenza
che l’attribuzione del nome incida sulla persona fino a orientarne
i comportamenti. La testimonianza relativa ai Claudi è, forse, in
tal senso ancora più esplicita: per determinare il divieto si è
atteso in quel caso il secondo Lucio delinquente, quasi che la
reiterazione del crimine da parte di due gentiles con lo stesso
nome attestasse con qualche grado di certezza la negatività
della denominazione e richiedesse, per il futuro, l’inibizione di
quel prenome.
7. Tra antico e moderno. – La strutturazione di questa
credenza, che nel XXI secolo può apparirci “primitiva”, in realtà
sta ancora oggi alla base della replicazione dei prenomi in
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ambito familiare o della assegnazione di un nome di un
personaggio caro, famoso, di successo, anche al di fuori dello
stretto legame di sangue. In Italia, ad esempio, vi è ancora l’uso
di denominare il primo nipote maschio con il nome del nonno
(seppur mitigata nell’uso, come un po’ tutti i costumi tradizionali).
In Roma antica normalmente il primo figlio recava lo stesso
prenome del padre ed eventualmente del nonno (come nel caso
di Cicerone, considerato più sopra): pratica vietata dal nostro
diritto (si v. ancora il citato art. 34 D.P.R. 396/2000) perché, a
differenza di quella antica società, nella quale prevaleva la
classificazione (di appartenenza a una stirpe), oggi domina
l’esigenza di identificazione del singolo.
L’assegnazione del nome corrisponde molto spesso a un
rito, del tutto irrazionale, che vorrebbe partecipare alla
determinazione un futuro positivo per il nuovo nato.
Denominare un bambino “Fausto” o “Fortunato” o come un
santo particolarmente miracoloso ha questo profondo e antico
senso, che rivive (modificato) nel chiamarlo come un abile (e
ricchissimo) sportivo o nell’attribuire a una neonata l’esotico
prenome di una modella o attrice di successo. E le norme
(vigenti) che prescrivono il divieto di attribuzione di nomi ridicoli
o strani recano, per converso, la ratio di non doversi turbare lo
sviluppo di una personalità attraverso un uso improprio di
questo importantissimo segno identificativo, che è destinato ad
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accompagnare il soggetto lungo tutta la vita. Tutto è relazione:
il nome è uno dei primi strumenti di contatto con il prossimo; la
portata (in termini ampi) sociale del nome ha un effetto sui nostri
rapporti interpersonali. La funzione di classificazione fa
riconoscere un Marco Manlio come un pericoloso criminale, ma
anche un Gennaro X come un probabile napoletano (e – per
converso – un Ambrogio Y come un milanese), con le
conseguenze che ciascun ambiente e ciascuna persona possono
connettere (ma con quale grado di razionalità?) con questo
dato.
prassi.. – Passiamo, sia pure in breve,
8. Un caso della prassi
all’analisi di un caso della prassi, verificatosi non nell’antica
Roma, ma nell’Italia del terzo millennio. La questione è nota per
essere stata dibattuta in tre gradi giurisdizionali, fino alla
decisione della Suprema Corte (nr. 25452/2008). Due
genitori, a Genova, nel 2006, impongono al figlio il nome di
“Venerdì” al momento della dichiarazione di nascita. L’ufficiale
di stato civile, secondo diritto, solleva l’obiezione della stranezza
del nome. I genitori non esprimono la volontà di modificarlo. Il
Comune di Genova, come dovuto, segnala il caso alla Procura
della Repubblica. Il Procuratore chiede al locale Tribunale la
rettifica. Quel Collegio accoglie l’istanza motivando, ai sensi
dell’art. 34 co. 1. del D.P.R. 396/2000, che “è vietato imporre
al bambino nomi ridicoli o vergognosi”, occorrendo evitare che,
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con l’attribuzione di un tale nome, si possano creare situazioni
discriminanti e difficoltà di inserimento della persona nel
contesto sociale. In particolare, il Tribunale rilevava che il nome
imposto dai genitori al figlio evocava il personaggio romanzesco
creato da Daniel Defoe nel noto romanzo Robinson Crusoe:
una figura caratterizzata dalla sudditanza e dalla inferiorità, che
non raggiungerebbe mai lo stato dell’uomo civilizzato. Di qui la
“prognosi” di un probabile disagio per il bambino (e poi anche
per il futuro adulto), esposto al senso del ridicolo, in ragione di
quello strano richiamo al personaggio letterario. In ciò il Giudice
vedeva un limite alla libertà di scelta dei genitori: nel richiamo al
sentire della comunità a e al significato proprio dei nomi al suo
interno. I genitori proponevano reclamo in Corte d’Appello,
chiedendo la riforma del decreto del tribunale e la declaratoria
di legittimità del nome imposto al figlio. Secondo i ricorrenti, il
paventato senso del ridicolo andava escluso perché quelle
connotazioni negative potevano essere proprie solo nella
società inglese del XVIII secolo (dei tempi di Defoe, insomma),
non certo in quella attuale caratterizzata dalla parità degli
individui e anche dalla diffusione di nomi facenti riferimento ad
altri giorni della settimana (Domenico, Sabato, Sabatino; in
realtà sono nomi della tradizione cristiana, aggiungiamo in
questa sede) o, addirittura, ad animali (Lupo, Delfina; ma anche
questi sono nomi di santi) o eventi religiosi richiamanti sentimenti
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di inferiorità e di sofferenza (come per esempio Genuflessa,
Crocefissa, Addolorata, Incatenata). Tuttavia, la Corte
d’Appello di Genova confermava il decreto del Tribunale. La
peculiare rilevanza del prenome, quale primo elemento
connotativo dell’individuo nella sua proiezione sociale,
attraverso la sua comunicazione in ogni contatto relazionale,
avrebbe infatti, secondo quella Corte, esaltato il carattere
ridicolo e suscettivo di ironia e scherno, proprio del nome
prescelto, con un grave nocumento alla persona. Il nome
Venerdì, specie nel sentire infantile, corrisponderebbe, dunque,
pienamente, a un carattere “inusuale, strano, bizzarro” e perciò
da evitare. Non solo: nella tradizione popolare sarebbe
connesso con la “sfortuna”. Questa irruzione di un concetto
non verificabile razionalmente e oggettivamente nella
giurisprudenza dovrebbe far riflettere. A seguito di tale
decisione, i genitori, non domi, proponevano ricorso per
cassazione, ma la Suprema Corte, avendo ripercorso l’intero
svolgimento della questione, con sentenza già citata, lo dichiarò
inammissibile, ponendo fine al caso.
Dunque, il bambino mantenne il nome impostogli dal
Giudice. Forse, a casa, in famiglia, hanno continuato a
chiamarlo Venerdì, ma ufficialmente il suo nome è Gregorio.
Perché? Perché il Tribunale di Genova, dovendo
necessariamente operare una scelta, gli attribuì il prenome
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corrispondente a quello del santo del giorno della sua nascita.
Un criterio tradizionale, molto tradizionale. Basato sulla
credenza (ovviamente del tutto legittima) che il santo del giorno
possa influire positivamente sul suo “protetto”. Si tratta, anche
in questo caso (e pur se in maniera non del tutto conscia), di una
“prognosi”. Alla previsione dell’influenza negativa del nome
“Venerdì” si contrappone quella (non detta, debole quanto si
vuole, ammantata di una legittimazione di tipo tradizionale)
dell’efficacia positiva del nome di un santo che – essendo quello
del giorno della nascita – accompagnerà il bambino (e poi
l’uomo). Nient’altro, mi pare, che una struttura di previsione
basata sul “destino” di un nome: nomen omen. Erano, poi, così
primitivi i Romani?
Cosimo Cascione
Professore ordinario di Storia del diritto romano
Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Napoli Federico II
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