Mt 2,1-12 Sacra Famiglia
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Mt 2,1-12 Sacra Famiglia
SACRA FAMIGLIA Mt 2,1-12 Sacra Famiglia Quale Dio ci può salvare? E’ questa una domanda importante, una domanda la cui risposta interessa la festa della sacra famiglia. Troppe volte infatti i genitori cristiani presumono di essere gli infallibili interpreti della volontà divina, gli unici autorizzati a indicare ai figli le strade migliori per riuscire nella vita. Eppure Gesù ha detto una parola molto chiara in proposito:”Non fatevi chiamare “maestro”, perché voi siete tutti fratelli e uno solo è il vostro Maestro. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro,quello che è in cielo. E non fatevi chiamare “capo”, perché uno solo è il vostro Capo, il Messia. Il più grande tra voi sarà vostro servitore”(Mt 23,8-12) indicando che essere genitore significa imitare e concretizzare quelle modalità che Dio attua nel mostrarsi padre verso noi suoi figli. Solo chi è padre come Dio può “sperare” di saper amare da Dio, cioè incondizionatamente, realisticamente e responsabilmente. Incondizionatamente significa amare anche quando si rimane “stupiti” delle strade che prendono i propri figli e quando le loro scelte possono “essere causa di rovina e di resurrezione” e possono “trafiggere l’anima”. Amarli anche quando, nonostante ”tutto sia stato compiuto secondo la legge del Signore”, la vita sembra accanirsi contro i loro sogni, le loro aspettative, le loro inclinazioni. E’ genitore chi ama la personalità del proprio figlio e lo sprona ad essere sempre fedele alla propria coscienza. E’ genitore chi non obbliga i figli a rientrare nei propri schemi mentali e religiosi e non li ricatta subdolamente in nome dell’affetto o dei sacrifici compiuti. Amano solo coloro che, come dice E. Fromm, hanno coscienza che tutte le volte che dicono ad altri: ”Ti amo” in realtà esprimono nel loro intimo un messaggio opposto perché in realtà dicono: ”Voglio essere amato da te”. Amare realisticamente significa ricordare che i nostri figli non ci appartengono e che non sono eterni su questa terra. Esprime bene questo mio pensare un episodio della vita di Anthony Bloom: ”Ragazzino, tornavo un giorno dal campeggio estivo. Mi venne incontro mio padre ed espresse la mia inquietudine circa il modo in cui il campeggio si era svolto: ”Temevo -disse- che ti potesse succedere qualcosa”. Con la leggerezza tipica dell’adolescenza gli domandai: ”Avevi paura che mi rompessi una gamba o l’osso del collo?” Mi rispose: ”No, queste cose non avrebbero avuto gravi conseguenze. Temevo che tu perdessi l’integrità dell’anima”. E aggiunse: ”Ricordati. Essere vivo o morto non è così importante. Una cosa sola veramente conta, deve contare per te, come per gli altri: per quale ragione vivi e per quale causa sei pronto a morire?”. Sembra un racconto di altri tempi, ma io penso che nella casa di Nazareth la santa famiglia non infrequentemente avrà dato spazio a discorsi simili. Responsabilmente significa amare ricordando che i figli riescono meglio a “crescere, a fortificarsi e a sentire la grazia di Dio sopra di loro” se i loro genitori hanno a cuore soprattutto la loro crescita interiore. Poiché la crescita interiore si fonda sulla conoscenza di sé è importante che le famiglie cristiane, con creatività e passione, investano risorse e preoccupazioni perché ogni figlio riesca nel più breve tempo possibile a conoscere se stesso, le proprie attitudini, i propri limiti, le proprie paure, le proprie maschere. Per essere se stessi è indispensabile prima conoscere se stessi e solo da questo assioma ognuno può partire per andare incontro alla vita e può, con sincerità e continuità, sentirsi chiamato ad assumersi la piena responsabilità delle proprie scelte, senza delegare ad altri o giustificare se stesso. Essere genitori significa accompagnare i figli sulle vie impervie, ma esaltanti della responsabilità, le uniche vie che danno la felicità su questa terra. Infatti accettare di essere sempre “responsabili” significa diventare capaci di essere sempre ”abili nelle risposte” di fronte alla realtà e alle sfide della vita, della morte e della sofferenza. Allora quale Dio ci può salvare ? Non certamente quello dell’onnipotenza, che ci ricorda la nostra inconsistenza di fronte al suo infinito Essere. Non certamente quello della giustizia che dimentica i bicchier d’acqua eventualmente dati agli assetati. Non certamente quello della denigrazione dell’umano vista la nostra radicale imperfezione. Tanti genitori sembrano aver “imparato” da questo Dio, perché si sentono “salvatori” dei figli tanto da elencare in continuazione le fatiche, i dolori e le rinunce fatte per le loro creature. Oppure si sentono migliori e più perfetti dei figli, solo perché sono più grandi e dimenticano che anche nella fanciullezza e nella adolescenza, spesso a causa dei genitori, il mestiere del vivere è faticoso. L’unico Dio che ci salva è il Padre che vive la sua paternità verso di noi come amore condizionato solo dalla sua tenerezza senza limiti e che ci invita ad immergerci nella vita, accogliendo con gioia tutto ciò che valorizza la dignità di ogni uomo. L’unico Dio che ci salva è il Dio della humilitas e della humanitas, come afferma Alfonso de’ Liguori, che chiama tutti i figli alla responsabilità verso il creato e le creature e che si fida degli umani affidando loro continuamente il compito di progettare ed attuare per sé e per i propri figli destini sconfinati di vite realizzate già su questa terra, nell’attesa di una più piena esistenza nel suo abbraccio eterno. Padre Duval, gesuita che con la sua chitarra proponeva “Dio” nei posti più disparati, rivelò un giorno: “A casa mia la religione non aveva nessun carattere solenne: ci limitavamo a recitare quotidianamente le preghiere della sera tutti insieme. Le orazioni erano intonate da mia sorella Elena; e poichè per noi bambini erano troppo lunghe (duravano circa un quarto d'ora), capitava spesso che la nostra diaconessa a poco a poco accelerasse il ritmo, ingarbugliandosi e saltando le parole, finchè mio padre interveniva, intimandole:”Ricomincia da capo”. Imparai allora che con Dio bisogna parlare adagio, con serietà e delicatezza. Mio padre che tornava stanco dal lavoro dei campi, si inginocchiava per terra, appoggiava i gomiti su una sedia e la testa fra le mani, senza guardarci, senza fare un movimento nè dare il minimo segno d'impazienza. E io pensavo: ”Mio padre, che è così forte, che governa la casa, che sa guidare i buoi, che non si piega davanti al Sindaco, ai ricchi e ai malvagi!... mio padre davanti a Dio diventa come un bambino. Dev'essere molto grande Dio, se mio padre gli si inginocchia davanti! Ma dev'essere anche molto buono, se si può parlargli senza cambiarsi il vestito. Al contrario, non vidi mai mia madre inginocchiarsi. Si sedeva in mezzo a noi, tenendo in braccio il più piccolo. Recitava anche lei le orazioni dal principio alla fine, senza perdere una sillaba, ma sempre a voce sommessa. E intanto non smetteva un attimo di guardarci, l'uno dopo l'altro. Non fiatava nemmeno se i più piccoli la molestavano, nemmeno se infuriava la tempesta sulla casa o il gatto combinava qualche malanno. E io pensavo: Dev'essere molto semplice Dio, se gli si può parlare tenendo un bambino in braccio e vestendo il grembiule. E dev'essere anche «una persona» molto importante, se mia madre quando gli parla non fa caso né al gatto né al temporale!. Le mani di mio padre e le labbra di mia madre m'insegnarono, di Dio, molto più che il catechismo”. Dedicata ai genitori Verrà un giorno in cui mi fermerò accanto al ricordo dei miei genitori, per sentirli ancora vicini, per parlargli come non avevo mai fatto. Affiderò al vento la mia voce, in una notte d'inverno che increspa di gemme azzurrate i rami spogli della vita. Affiderò a Te, Padre, i miei pensieri, perché li conduca a chi è entrato nel tuo tempo, ha oltrepassato ogni luogo, ma non ha perso la sua essenza, la sua anima, il suo amore. E mi perderò in mezzo al mare dei ricordi, senza naufragare; mi vedrò leggero e lento solcare un fermo-immagine dopo l'altro, mentre la gioia dei loro sorrisi, del loro affetto, delle loro conquiste riempirà il mio cuore alla fine della festa, quando in fondo resta anche il velo di malinconia. Li inonderò del mio sentimento di gratitudine, che spesso avevo mascherato, per timidezza, o chissà, perché non si usa... sentimento che spesso avevo traviato dai solchi delle mie debolezze, dall'abitudine a ricevere gratis quello che è un dono troppo grande e troppo solito perché possiamo vederlo. E il calendario mi parlerà di pazienza infinita, di dedizione amorevole e nascosta, di un cuore troppo buono per essere rigido, in cento e mille momenti trascorsi in un baleno, mentre pian piano restavano in fondo alla mia vita le pagliuzze d’oro del valore dell’uomo. Riconoscerò nelle mie membra il loro vigore, nel mio cuore la loro passione, nel mio sorriso la loro gentilezza, nella mia timidezza il loro rispetto, nei miei slanci la loro generosità, nelle mie lacrime furtive la loro sensibilità, nelle mie relazioni la loro affabilità. E desidererò avere molta più vita per avvicinarmi alle loro vette, perché avrò ancora troppe cose da imparare. Allora affiderò al mio Dio la speranza di poter vivere la loro fedeltà d’altri tempi, mentre innumerevoli esempi mi si dipingeranno davanti agli occhi, come stelle che guidano il cammino dei naviganti, come sentinelle che vegliano i passi e i gesti del mio domani. E un giorno, riunendoci nell’infinito, sapremo di non esserci mai lasciati, perché il Dio che ci aveva voluti insieme non poteva distaccarci per l’eternità. ... Signore, ti vedo perplesso... cosa c’è? “Perché aspettare un giorno lontano per raccontar loro queste cose? Il tempo per la vita, per la riconoscenza, per l’amore è Adesso”