"300" di Frank Miller: Giganti vs. Eraclidi!

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"300" di Frank Miller: Giganti vs. Eraclidi!
Uno yankee del Maryland alla corte del Re di Sparta
Alla fine del XX secolo il poliedrico artista Frank Miller presentò per i tipi della casa editrice Dark
Horse la sua interpretazione fumettistica dello svolgersi e del senso della Battaglia delle Termopili,
dandole un titolo secco e immediato, in cifre: 300. Si trattava di una “miniserie” in cinque albi
mensili, scritta, sceneggiata e disegnata da Miller come “autore completo” (solo i colori non erano
infatti suoi, portando la firma di Lynn Varley), all’interno dei quali ogni tavola (per ottimizzare la
numerose scene panoramiche e “corali”) era stampata su due pagine. Il volume cartonato che
raccolse pochi mesi dopo l’intera storia – tagliato con un singolare “andamento orizzontale” (quasi
fosse una specie di raccolta di sunday pages americane) – ebbe il suo battesimo italiano nel
novembre 1999, con il marchio della romana Play Press; nella primavera del 2014 la neonata
Mondadori Comics (etichetta inaugurata con la serie di ristampe maxbunkeriane Kriminal Omnibus
nel novembre 2013) ne ha licenziata una nuova versione.
Il punto centrale dell’azione è ben noto: nell’agosto o nel settembre del 480 prima dell’Era Volgare
un’avanguardia di trecento opliti di Sparta guidati dal re guerriero Leonida difese eroicamente, fino
all’estremo e totale sacrificio personale, lo stretto passaggio delle Termopili, rallentando così i
Persiani di Serse (che contarono 20.000 vittime) e contrastando il loro agevole dilagare verso la
Hellas centrale. L’eroismo stava nell’azione. Stava anche nella disparità numerica. Secondo le
diverse fonti, antiche e moderne, 5.000/7.000 Greci si opposero infatti a un numero enormemente
più alto di Persiani (da un minimo di 150.000 in alcuni recenti azzardi ai milioni di Erodoto). Nella
costruzione del fumetto questa vicenda-cardine della humana historia è narrata – un anno dopo ai
soldati riuniti intorno al falò di un accampamento – da Dilios, l’unico Spartano sopravvissuto alle
Termopili, la notte antecedente alla riscossa di Platea.
Frank Miller firma una copia di “300”
Francesco G. Manetti
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Giunti fin qui è doveroso un passo indietro o, come direbbero i cineasti hollywoodiani (e anche gli
sceneggiatori di fumetti, che con il cinema condividono gran parte dell’argot!), un flashback.
Negli anni ’80 il comic avventuroso supereroistico a stelle-e-strisce (tradizionalmente pubblicato in
giornaletti mensili spillati a colori), dopo mezzo secolo di vita, sfinito Moloch, iniziava a non
sopportare più la sua annosa stanchezza – dovuta all’esaurirsi degli spunti narrativi, alla scarsità
qualitativa delle sceneggiature e della parte grafica e all’ormai incredibile assurdità e complessità
inestricabile degli universi immaginari in cui si muovevano quegli eroi di carta (paradigma di questa
situazione erano le infinite terre parallele che complicavano senza via d’uscita il cosmo dell’Uomo
d’Acciaio). In quel decennio soprattutto tre nomi – le cui firme troviamo sia in ambito Marvel
(L’Uomo Ragno, I Fantastici Quattro, etc.), sia in campo DC (Superman, Batman, etc.), sia sotto
etichette “indipendenti” (come appunto Dark Horse) – saltarono agli occhi come innovatori. Il
“nostro” Frank Miller (statunitense, seppur dell’europeo New England, classe 1957) e i due inglesi
Alan Moore (nato nel 1953, genio multimediale, è noto universalmente per V for Vendetta) e Neil
Gaiman (nato nel 1960, fu celebrato soprattutto per Sandman, estrema rivisitazione di un classico
personaggio del fumetto USA, compiuta ispirandosi alla figura mitologica di Morfeo). Miller, in
particolare, rivoluzionò il mondo di Batman, dando all’Uomo Pipistrello una nuova origine più
oscura, tratteggiando un fumetto più vicino – come stilemi narrativi e disegno – al noir europeo. Per
innovare, questi grandi autori, furono costretti dunque a tornare alle origini e – per così dire – si
rifugiarono, non solo fisicamente ma pure idealmente, nel Vecchio Continente.
La copertina aperta del primo albo (in originale) della miniserie
Le Termopili 2.0
Su 300 si sono versati i proverbiali fiumi di inchiostro, sia in prima battuta (a partire dalla prima
Francesco G. Manetti
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edizione in fascicoli del 1998), sia nel 2007 quando uscì il film (omonimo) che ne fu tratto – e che
ovviamente rilanciò il fumetto.
Da un punto di vista stilistico il grande Miller c’è tutto, in questa gustosa volgarizzazione delle
Termopili: le masse scure contrapposte con violenza ai fondali più chiari; l’uso spregiudicato
della silhouette, spezzata però da “intarsi” bianchi; la parziale abolizione del contorno delle figure –
una delle tante convenzioni del fumettismo, dopotutto, come sostenevano i Maestri della Linea
Chiara franco-belga, Hergé, Jacobs e gli altri; la rinuncia quasi totale ad alcuni dei capisaldi grafici
stessi del codice-fumetto (le linee di velocità, per esempio); la gabbia della tavola che esplode e si
ricompone in una miriade di vignette, nella più totale asimmetria; la deformazione – voluta e
funzionale alla narrazione – dei volti e del corpo umano (con originalissimi movimenti e pose); le
inquadrature che schizzano in un attimo dal particolare al campo lungo… Beh, potremmo star qui a
discuterne in eterno! L’unica cosa che non ci ha mai convinto del tutto per quanto riguarda l’aspetto
disegnato di 300 è il colore (dato che Miller offre il meglio della sua arte con il bianco-e-nero,
secondo noi), anche se, dobbiamo onestamente dire, la Varley ha fatto un lavoro più che dignitoso,
optando per una limitatissima “tavolozza” cromatica, riavvicinandosi così, paradossalmente,
all’usuale mondo monocromatico milleriano.
In questa sede interessa però a noi maggiormente saggiare (o almeno modestamente tentare di
farlo) l’attendibilità storico-filosofico-letteraria dei passi salienti dell’opera di Frank Miller, mettendo
però in chiaro alcuni punti iniziali. Qualcuno potrebbe pure dire: piantando dei paletti. 300 è un
fumetto, e non un saggio o un manuale (di storia/letteratura/filosofia/mitologia). Non è nemmeno
un pamphlet, né un testo di “misticismo”. Non ha intenti pedagogici. Rimane – e c’è poco da girarci
intorno – un prodotto realizzato per la riproduzione in serie, pensato per ricavare profitto sul
mercato del diporto e dell’intrattenimento adulto. Anche se, nella nostra opinione, intrattenimento di
qualità e di alto livello. Più artigianato che arte. Detto questo, è davvero interessante andare a
vedere cosa rimane in 300 delle antiche cronache sulle Porte Calde e di quello che è considerato lo
svolgimento storico dello scontro. E cosa rimane nel fumetto del mito – di Leonida, discendente di
Eracle, e della sua impresa. Frank Miller pare rifarsi direttamente e massicciamente alla lezione
erodotea – o quanto meno agli storici e ai romanzieri che a quella fonte, nei secoli, hanno attinto. Il
fumettista accende il riflettore sui momenti della vicenda che più lo hanno impressionato.
Certamente i momenti più “vivaci”, più “adatti” per l’avventura fumettistica.
Francesco G. Manetti
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L’ingloriosa (e storicamente inesatta) fine dell’ambasciatore di Serse.
Cahiers de doleancés delle incongruenze, delle inesattezze, delle omissioni e degli anacronismi e –
all’opposto – delle attinenze storiche (incongruenze e attinenze che continuamente si intersecano)
nel fumetto ne sono stati riempiti a decine – e si trovano facilmente in Rete. Si va dalle armi usate
dai combattenti alle corazze indossate dai due eserciti; dai personaggi dimenticati a quelli che
cambiano di nome; dai ruoli esagerati ai ruoli ridimensionati; dalla confusione di oracoli e vaticini. È
però, più che il fumetto cartaceo, soprattutto il film di Zack Snyder a vincere il palmarès delle
“licenze poetiche” – ma la cellulosa che aveva fatto da canovaccio alla celluloide aveva già cantato in
maniera diversa, e dunque è meglio non confondere i due mezzi di comunicazione.
Leonida o non Leonida? Questo è il problema…
Fra le differenze principali di 300 rispetto alle cronache le più ghiotte riguardano la figura di
Leonida. Ma il Leonida dell’immaginario milleriano – tutto sommato – se la caverebbe piuttosto bene
in un ipotetico match col suo omologo reale…
Da ragazzo, dopo il periodo di duro apprendistato a cui doveva sottoporsi ogni fanciullo spartano
qualunque fosse la classe di appartenenza – la cosiddetta agoghé – Leonida ritorna a Sparta vivo,
vegeto e vittorioso, imponendosi (non solo per sangue ma anche per merito), come re. Re unico, par
di capire leggendo il fumetto, nonostante che a Sparta i re fossero in due a governare
simultaneamente, in un ancestrale sistema di diarchia – due diversi re, seppur appartenenti a linee
dinastiche di unica discendenza, riconducibili entrambe a Eracle: un monarca era esponente della
Famiglia degli Agiadi (e Leonida apparteneva proprio a questo ceppo) e l’altro era della schiatta
degli Euripontidi.
Francesco G. Manetti
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Il giovane Leonida con il lupo.
L’addestramento del giovane eroe, con il gelo opprimente che avvolge le lande e il lupo assassino,
mostruoso e gigantesco (e ritorneremo più avanti sul tema del gigantismo, del nemico
sproporzionato…), ucciso dopo averlo fatto cadere nella trappola di uno stretto passaggio – budello
letale che prefigura quello delle Porte Calde – non pare invece discostarsi dalla tradizione. Ulderico
Nisticò, nel suo agile e pregnante saggio Il ritorno degli Eraclidi (Edizioni Ar), parla di questo
periodo fondamentale nella vita degli Spartiati: I fanciulli crescevano assieme per classi di età,
soggetti ad una disciplina durissima, che aveva il fine di sviluppare le forze fisiche e creare
l’allenamento necessario alla difficile arte dell’oplita, ma soprattutto di rendere naturale la disciplina
stessa, in cui l’uomo spartano doveva vivere per tutta la vita. Dominio di se stessi era lo scopo
ultimo, e per questo si insegnava a vincere il dolore e le passioni, e, se necessario,anche la più forte
delle passioni di un essere umano, l’amore di se medesimo! Questo sentimento doveva essere alieno
dagli Spartani, i quali dovevano saper morire, i fanciulli, lungi dai vezzi, imparavano a soffrire
freddo, caldo e fame, e questa al punto che era consentito loro rubare, dacché il cibo che loro si dava
era meno che sufficiente; se sorpresi, però, erano puniti; e questo sviluppava l’astuzia, una dote
meno nobile, ma, in questo nostro mondo, non meno necessaria! e sviluppava anche la libertà.
Infatti, se un popolo armato o un esercito hanno bisogno di disciplina, non di meno hanno bisogno di
iniziativa. (…) Poiché ognuno di quei fanciulli poteva essere un comandante di reparti o di eserciti
era necessario che sapesse anche prendere una decisione.
Lo spirito spartano, l’essenza stessa di Leonida, il periodo arduo della formazione del giovane, la
soppressione dei malformati – sul quale Miller insiste anche più avanti, nelle pagine che narrano la
vigilia del combattimento – viene approfondito dallo stesso Nisticò, in un’altra illuminante pagina del
suo scritto: Il primo criterio eroico è che l’opera trascende l’uomo! Ogni uomo, ogni dio, ogni
animale, nell’età eroica è giudicato non secondo quello che è in astratto, sui fondamenti di un
Francesco G. Manetti
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concetto a priori, ma secondo quello che fa; dunque il valore di un uomo, se nasce in sé, finisce fuori
di sé, nel fatto, ed è però oggettivo. Non è concepibile un valore potenziale che sia rispettabile prima
di attuarsi. Per questo non il nascere in Sparta da famiglia di Spartiati, ma un modus operandi dà la
condizione di Spartiata, se bene il sangue dorico puro sia stimata condizione indispensabile perché
si possa ricercare lo stesso attuarsi dell’aretà, la virtù. Ma nessun diritto di nascita è stimato
sufficiente, tanto meno quello del luogo, laddove manchi la virtù: questa è la ragione della dura
selezione, che esponeva alla morte i nati che non mostrassero sanità di corpo. La parola aretà è
derivata dalla radice ar-, comune ad àristos, ottimo o nobile, ad aroter, latino arator, il coltivatore di
campi, al nome del dio che compie le più fiere azioni, quelle della guerra, Ares, ad aretèr, colui che
compie le azioni religiose, ed al latino ara, l’altare, e ad ars, e al nome stesso degli indoeuropei in
Oriente, gli Aria!
“300” e “Rivolta contro il mondo moderno”.
In altri punti della sceneggiatura di 300 la traccia dello storico di Alicarnasso addirittura viene
ribaltata da Miller (impossibile dire se trattasi di decisione voluta o di errata lettura o
interpretazione). In particolare, alla fine del I capitolo (L’onore), la vicenda dell’araldo persiano
mandato a Sparta a chiedere “terra e acqua” – ovvero completa sottomissione – che viene gettato in
fondo a un pozzo melmoso, perché lì avrebbe trovato quello che cercava; è la scena che termina con
il celebre “pedatone” che Leonida affibbia al messo, urlando: Questa è Sparta! Miller non solo
spettacolarizza, ma persino rovescia esattamente quando scritto al passo 133 del Libro VII di
Erodoto, facendo fare a Serse quello che aveva fatto Dario. Infatti, scriveva l’antico cronista: Ad
Atene e a Sparta Serse non inviò araldi a chiedere terra per le seguenti ragioni: quando in
precedenza Dario aveva inviato identica richiesta, gli Ateniesi avevano gettato i messi nel baratro,
gli Spartani in un pozzo, con l’invito a prendere da lì terra e acqua per portarla al re. Ecco perché
Serse non mandò a essi dei messaggeri.
Francesco G. Manetti
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La stessa figura del soldato scampato alla mattanza delle Termopili – e per questo odiato, deriso e
disonorato – Aristodemo di Sparta, viene riabilitata e trasfigurata nel personaggio di Dilios, la voce
narrante di 300 e capo nei combattimenti di Platea del 479. Ma anche secondo Erodoto, seppur non
fin dall’inizio, il riscatto ci fu: Due dei trecento, Eurito e Aristodemo, si racconta, potendo entrambi
accordarsi e mettersi insieme in salvo a Sparta (Leonida li aveva allontanati dall’accampamento, e
giacevano infermi ad Alpeni, con gravissimi disturbi agli occhi) oppure morire con gli altri, se non
volevano tornare a casa, pur avendo queste due alternative, non vollero intendersi, anzi, in pieno
disaccordo, Eurito, avendo saputo della manovra accerchiante dei Persiani, chiese le armi, le indossò
e ordinò al suo ilota di condurlo fra i combattenti; quando ve lo ebbe condotto l’ilota fuggì, mentre
Eurito si gettava nel folto dei nemici e moriva; Aristodemo, invece, non ebbe animo sufficiente e
sopravvisse. Ebbene, se Aristodemo fosse stato infermo lui solo e fosse tornato a Sparta, oppure
anche se fossero tornati tutti e due assieme, credo che gli Spartani non si sarebbero sdegnati con
loro; invece, poiché uno di loro era morto e l’altro invece, che aveva un’identica giustificazione, s’era
rifiutato di farlo, inevitabilmente su Aristodemo ricadde, e pesante, l’ira degli Spartani. Corre voce
che Aristodemo si mise in salvo a Sparta così e con questa spiegazione; ma altri raccontano che era
stato inviato come messaggero fuori dell’accampamento e poi, pur potendo raggiungere la battaglia
in corso, non volle farlo, si attardò lungo il percorso e si salvò; mentre il suo compagno di missione
riuscì a riunirsi ai combattenti e cadde sul campo. Tornato a Sparta, Aristodemo fu coperto di
vergogna ed emarginato, emarginato come segue: nessuno Spartiata gli accendeva il fuoco o gli
rivolgeva la parola; subì l’onta di sentirsi chiamare “Aristodemo il vigliacco”. Ma nella battaglia di
Platea si riscattò da questa imputazione. Si narra che anche un altro di questi trecento, di nome
Pantite, inviato messaggero in Tessaglia, poté salvarsi: costui, al suo ritorno a Sparta, vedendosi
disonorato, si impiccò.
Il “gigante” Serse in “300”.
L’ammazzagiganti
La repellente mostruosità è incessantemente presente nel fumetto, e spesso è associata al
gigantismo – sinonimo di “nemico”. Oltre al titanico lupo iniziale del battesimo di sangue di Leonida,
gli Efori sono raffigurati dal disegnatore come sacerdoti eremiti, otto “porci innati”, putridi avanzi di
un’era pre-licurghea, specie di lebbrosi che vivono solo di fumosi oracoli e di aurea corruzione. Nel
fumetto vengono in maniera appropriata citate le Carnee, feste sacre spartane durante le quali era
vietato muovere battaglia (che si svolgevano nel periodo, insieme ai Giochi Olimpici), ma viene
Francesco G. Manetti
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esagerata l’opposizione degli Efori alla strategia di Leonida… Nisticò, nel già citato volume, spiega
meglio: L’assemblea degli Spartiati, detta Apella, aveva il supremo potere giuridico, ma di fatto esso
era riposto nel senato, la Gherusìa, adunata dei vecchi, i capifamiglia e magistrati. Il potere
esecutivo, ma in verità solo il comando dell’esercito, toccava al re, che però era subordinato
agli ephoroi, ispettori, una magistratura di cinque membri, iniziata da Licurgo con poteri limitati e
divenuta in seguito il vero governo: infatti le accresciute necessità della politica, a cui la Città contro
suo grado fu costretta, conducevano ad avere dei politici più esperti e una condotta più coerente di
quella che davano le antiche assemblee. Così e contro lo spirito delle leggi nasceva anche a Sparta
una classe di militari e politici di carriera.
Il tradimento del pastore di Trachis, Efialte (nome molto probabilmente affibbiatogli ex post dalla
storiografia classica visto che significa “incubo”), che guidò il “corpo scelto” persiano degli
Immortali lungo un sentiero secondario e alternativo che portava alle spalle dei Greci, segnò la fine
gloriosa di Leonida e dei suoi uomini. Erodoto (che nacque proprio negli anni della Battaglia) narrò
dettagliatamente la vicenda e gli antefatti che portarono alle armi nelle sue Storie, al libro
VII: Proprio quando il re non sapeva più che fare in quel frangente, gli si presentò un abitante della
Malide, Efialte figlio di Euridemo, certo convinto di ricevere da lui qualche grande ricompensa, e gli
parlò del sentiero che portava alle Termopili attraverso i monti; e così segnò la fine dei Greci che là
avevano resistito. In seguito, per paura degli Spartani, Efialte si rifugiò in Tessaglia; dopo la sua
fuga, alla riunione degli Anfizioni a Pile, i Pilagori misero una taglia sulla sua testa e più tardi (era
rientrato ad Anticira) morì per mano di un uomo di Trachis, Atenade. Atenade uccise Efialte per
un’altra ragione, su cui mi soffermerò in un secondo tempo, ma non per questo fu meno onorato
dagli Spartani. Così dunque morì Efialte tempo dopo questi avvenimenti. Circola anche un’altra
versione dei fatti: sarebbero stati un uomo di Caristo, Orete figlio di Fanagore, e l’Anticirese
Coridallo a parlare al re e a indicare ai Persiani la strada intorno al monte; ma io non ci credo
affatto. Intanto bisogna considerare che i Pilagori dei Greci non misero una taglia su Orete e
Coridallo, ma su Efialte di Trachis, verosimilmente dopo aver raccolto le più sicure informazioni.
Inoltre sappiamo che Efialte si era dato alla fuga per questa imputazione; in effetti anche senza
essere della Malide, Onete avrebbe potuto conoscere quel sentiero, se aveva frequentato spesso
quella regione, ma fu Efialte a mostrare il sentiero attorno al monte; il colpevole è lui e lui io scrivo.
Gli Spartani.
Francesco G. Manetti
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Il personaggio di Efialte è centralissimo nella storia di Frank Miller, ed è protagonista dell’intero
terzo capitolo (La gloria). Non solo da pastore qual’era viene “promosso di grado” a guerriero
spartano, ma il frustrato e invidioso traditore viene rappresentato con il corpo deforme e
sovradimensionato. È questa una scelta dell’autore, che non ha alcun riscontro noto nella
storiografia e nella leggenda. Una scelta non solo stilistica, casuale, di “effetto” – ma più profonda,
secondo noi. Il lupo mastodontico, preda del giovane e futuro diarca; gli Efori, malati e torreggianti
nel loro romitorio sulla sommità di un’altissima “meterora”; gli elefanti usati in combattimento dai
Persiani – definiti “mostri di terre remote, bestie stupide e goffe”… E così anche il corpo scelto di
fanteria pesante, rammentato da Erodoto, gli Immortali persiani, enormi, con le loro maschere
mostruose. Serse, poi. Viscido e corruttore. Alto un metro abbondante sopra la testa del non
nanerottolo comandante di Sparta. Un colosso disumano, dall’incerta sessualità e dall’ignota
appartenenza razziale.
In 300 tutti gli antagonisti dell’eraclide Leonida “soffrono” di una stessa malattia – il gigantismo.
Frank Miller, associando il Male all’aspetto ciclopico e brutale, contrappone continuamente – non
sappiamo quanto in maniera conscia – l’eroica stirpe dorica, celeste e “iperborea”, di Eracle
(capostipite degli Spartani) agli esseri infernali della stirpe ctonia dei giganti. Leonida in questo
senso, in virtù della sua impresa contro il mostro sputato dalla terra, è un (semidivino) eroe eraclide;
non delude Leonida il suo leggendario antenato, Eracle il semidio alleato degli Olimpici contro i
giganti, come ebbe a scrivere Julius Evola nel 1934 in Rivolta contro il mondo moderno, dove si
poteva anche leggere che nell’antico mondo ellenico nella lotta materiale spesso si concepì il riflesso
di una lotta cosmica perenne, della lotta fra l’elemento olimpico-uranico spirituale del cosmos e
quello titanico, demonico-femminile o di scatenata elementarità del caos. E ancora: Insieme a quello
olimpico l’Ellade conobbe tipicamente il tema “eroico”. Parimenti staccati dalla natura mortale e
umana, semidii partecipanti della stessa immortalità olimpica, sono, ellenicamente, gli “eroi”: e
l’eroe dorico e acheo, quando non è il sangue stesso di una parentela divina, cioè una naturale
sovrannaturalità, è l’azione a definirlo e a formarlo. La sua sostanza, come quella dei tipi che ne
deriveranno in cicli più recenti, è interamente epica. Essa non conosce gli abbandoni della Luce del
Sud, il riposo nel grembo generatore. È la Vittoria, Nike, a coronare l’Eracle dorico nella sede
olimpica.
Un eroe con un piede sull’Olimpo, Leonida delle Termopili, un eroe degno del massimo rispetto,
tanto che Miller, ancora una volta, si discosta da Erodoto, lasciando nelle ultime pagine la testa sul
collo di Leonida trafitto da decine di frecce; mentre, come scriveva lo storico greco, Serse passò in
mezzo ai cadaveri; al corpo di Leonida, avendo udito che era re e comandante degli Spartani, ordinò
di tagliare la testa e di piantarla su un palo. Mi pare chiaro da molti altri elementi e da questo in
particolare, che Serse si era infuriato contro Leonida, quando era vivo, più che contro chiunque
altro; altrimenti nei confronti di questo cadavere non avrebbe travalicato le norme: sì perché tra
tutte le popolazioni a me note sono proprio i Persiani a onorare di più i valorosi in guerra.
Francesco G. Manetti
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Monumento di oplite alle Termopili.
Infine l’autore cita persino l’Epigrafe di Simonide, l’epitaffio ancora oggi leggibile (nella
riproduzione che ne fecero nel 1955) sul luogo dello scontro. Nella traduzione italiana della
sceneggiatura suona così: Passante, dì agli Spartani – che qui giacciamo, per la legge di Sparta.
Una storia a fumetti (sottolineiamo e ribadiamo: a fumetti) di grande caratura, il 300 di Frank Miller.
Speriamo di avervi stimolato a leggerla o a rileggerla – dimenticando senz’altro il film un po’
fracassone e del tutto inutile… Una storia dove l’autore non sale in cattedra, raccontando piuttosto a
se stesso (e con soluzioni grafico-narrative forse anche troppo raffinate e dotte per il pubblico medio
d’Oltreoceano), e a modo suo, una vicenda immortale fatta di gesta e di uomini immortali. Il lavoro
milleriano ha avuto anche il non secondario merito – nonostante le inesattezze e le forzature presenti
nel racconto grafico – di aver contribuito a resuscitare l’interesse intorno a un punto cruciale della
storia antica. Questo, e sarebbe quasi inutile specificarlo, è stato vero soprattutto a livello popolare
(un calco di quello che accadde decenni fa per il Medioevo, dopo Eco e il suo pastiche letterario Il
nome della rosa), con tutta la sua coda di parodie più o meno geniali, più o meno squallide – ma se
riflettiamo sul fatto che la media di libri letti a testa dai cittadini di un Paese come l’Italia è inferiore
all’unità per anno… non possiamo lamentarci e fare più di tanto gli schizzinosi.
Francesco Manetti
Francesco G. Manetti
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