Introduzione

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Introduzione
Introduzione
Alla Comunità del Muso San Pietro di Pergine
A Piero e Daniela Bestaggini con gratitudine
I conclavi hanno una storia tormentata. Ve ne furono di poche ore, altri durarono anni. Ma non sempre la
fretta fu buona consigliera. Alcuni furono irrorati dalla forza dello Spirito, altri dalla potenza del denaro.
Gli attori di volta in volta furono dei santi oppure, per dirla con Dante, dei barattieri. Coi primi l'elezione
del papa fu un compito teologico, coi secondi semplicemente un affare.
Benché Usuo nome evochi la segregazione «sotto chiave» degli elettori, la storia di questo istituto non è
un'oasi sacra, separabile dalla storia della società. In conclave entrano degli uomini di Chiesa, che restano
degli uomini. In alcuni il candidato fu cercato in preghiera. In altri si esercitò la corruzione, ci si scontrò,
corse del sangue. In altri ancora, le pressioni dei poteri politici dominanti furono così intrusive da far
dubitare della libertà dell'elezione.
Eppure non un grammo di queste zavorre mondane dell'istituto ha diminuito la convinzione della Chiesa
romana circa una presenza dello Spirito Santo in questo processo. E, sotto alcuni aspetti, più si trovano e si
soppesano i gravami talora soffocanti su alcuni dei sistemi adottati di fatto per produrre ipapi, e meno
parrebbe irrazionale il riferimento all'azione dello Spirito, «che scrive diritto per linee storte».
Riteniamo tuttavia che si farebbe torto alla divina Provvidenza richiamarla in servizio attivo per sventare i
disegni degli uomini, colmare le loro deficienze e correggere le loro malizie, in modo da assicurare alla
Chiesa un futuro migliore di quello che essi meriterebbero. La storia dei conclavi dimostra che la
Provvidenza non ha accettato ogni volta di giocare un simile gioco, anzi si è rifiutata di servire da stampella
ideologica alle mene dei cardinali e, il più delle volte, ha lasciato agli uomini sbrigarsela con l'effetto
inintenzionale delle loro azioni, affinchè da questo avessero l'occasione per poter capire meglio il disegno
divino. Come osserva Andre Naud, «bisognerebbe astenersi dal presentare la competenza dei dirigenti
ecclesiastici come quella di persone assistite dallo Spirito Santo al punto che non possono fare errori, anche
errori duraturi, gravemente nocivi, addirittura a volte nefasti per la vita dei fedeli». La teologia «non ci può
dire gran che sul numero e l'importanza degli errori che lo Spirito Santo può permettere che la Chiesa
faccia nelle sue interpretazioni della legge naturale».
Resta assai difficile, in ogni caso, stabilire delle costanti coi criteri
propri delle scienze sociali in una storia talmente complessa. Il detto popolare «chi entra papa, esce
cardinale» ne identifica a suo modo
una. Ma essa richiede una lettura di molte varianti per assurgere a «legge» storica. Ci furono cardinali che
entrarono papi, ma che non furono ipapi «programmati» dai loro grandi elettori.
AIlo storico onesto resta anzi il diritto di sorprendersi nel constatare che ipapi che uscirono dai conclavi
furono raramente la proiezione algebrica della somma delle manovre (e talora persino delle simonie) che vi
si erano svolte e ancora più di rado la riproduzione aggettiva dei voleri maggioritari che erano riusciti ad
imporsi. A volte si cercò un papa «religioso», e ne venne un papato politico. Quando si elesse un «politico»,
ne uscì non di rado un riformatore religioso. Uno dei paradossi, o, se vogliamo, delle segrete ironie di
questa storia istituzionale, è che un enorme investimento di aspettative e di preghiere, di ambizioni, trame e
poteri, di interessi e progetti, come quello che per secoli si è rovesciato sulla fase elettorale dei papi, appare
in realtà interdetto da fattori, spesso difficili da discernere se non imponderabili, al punto di restare non di
rado al di qua dell'obiettivo immediato così ansiosamente perseguito, se non di mancarlo completamente e
di trovarsi a intascare l'esatto contrario di ciò che si era così faticosamente preparato.
Il fallimento, nel bene e nel minor bene, della maggior parte delle capitolazioni elettorali, con cui si
patteggiavano i programmi del futuro papa, fornisce una particolare evidenza a questo fenomeno di
impotenza o di frustrazione conclavaria, che nel nostro secolo raggiunge forse l'apice nell'elezione dì
Roncalli, di Luciani, dello stesso
Wojtyla, irriducibili senz 'altro alle geometrie dei gruppi che li avevano espressi.
Sarebbe fuorviante d'altronde sostenere che i conclavi non abbiano avuto alcun effetto. La loro storia non è
una prova a favore della tesi della futilità, per riprendere una categoria politologica cara a Albert O.
Hirschman. La scelta di uno o dell'altro cardinale non era affatto indifferente o destinata a fallire, una
faccenda superficiale come potrebbero pensare quei fondamentalisti, laici o cattolici, per i quali le strutture
profonde della Chiesa resterebbero indenni dalle conseguenze delle azioni dei suoi dirigenti. È stato grazie
ai conclavi se gli scismi quattrocenteschi sono stati trascesi o se circa un secolo dopo l'olandese Adriano vi
dava a Roma l'ultima possibilità di riprendere la strada della riforma ecclesiastica di fronte a Luterò.
Senza cercare artificialmente di fissare delle costanti in una vicenda così diversificata, ciò che si può dire
pacificamente è che, a dispetto del loro nome, i conclavi appaiono per molti aspetti figli del loro tempo. Essi
permettono alla Chiesa di rispondere a suo modo alle sfide della storia e di adattarvi i propri equilibri,
talora nel senso della stabilizzazione, tal'altra dell'innovazione e del repentaglio.
È in questa compresenza del duplice scenario — ad intra e ad extra
— che ci è sembrato meritevole il tentativo di seguire la vicenda istituzionale di questi momenti apicali della
vita della Chiesa romana nei quali la vacanza della Sede apostolica apre una fase di possibile discontinuità,
di cambiamento o aggiustamento degli equilibri, di una rimessa in campo di forze precedentemente
marginali o sconfitte, o anche di una circolazione più ampia di esigenze tra il vertice e la Chiesa
complessiva, e tra questa e la società.
Il fatto di aver potuto seguire direttamente una serie di papi completamente dediti alla missione evangelica
in questa seconda metà del xx secolo non ci indurrà a ignorare il peso della storia più antica, nella quale
non sempre la sede di Pietro fu provvista da uomini cristianamente irreprensibili. D'altra parte avremo
modo discoprire, passo dopo passo, che proprio le fasi elettorali permisero abbastanza spesso al fuoco della
riforma, che covava sotto la cenere, di ardere all'aperto, e di bruciare almeno alcune delle scorie che
intossicavano la cristianità, in ragione della riapertura dei circuiti collegiali, episcopali e conciliari della
Chiesa.
Sebbene il nome «conclave» definisca la natura reclusiva che l'elezione ha assunto da una certa epoca e
fino ai giorni attuali, pure non si può dimenticare che esso è intervenuto non di rado come un vulcano in cui
le forze spirituali latenti o a bassa intensità erompono liberamente. Perciò serberemo una particolare
attenzione ai conclavi che si intrecciano con le grandi fasi conciliari della storia della Chiesa, per rinnovare
la coscienza della necessità della sua permanente riforma.
In terzo luogo, ci sforzeremo di vedere i conclavi non come indici di una storia istituzionale sostanzialmente
identica a se stessa, e anzi condannata a riprodursi immobilmente nei secoli, bensì come riflessi particolari
e storicamente mutevoli di una integrazione del papato nella complessità reale della Chiesa. E tanto più
dopo che il Concilio Vaticano n sembra porsi questo problema ermeneutico, da quando cioè la Chiesa si è
definita popolo di Dio in cammino, ridimensionando all'interno della sua comunione i «vertici» piramidali
sui quali si era collocato il ministero petrino.
Per questo dovremo rendere conto delle ricerche in corso, e dei progetti avviati dallo stesso Paolo vi e da
lui annunciati, di forme elettorali più adeguate ad un sistema di monarchia costituzionale e autenticamente
«petrine», cioè discendenti, nelle quali possano intervenire non solo le rappresentanze degli episcopati, ma
almeno quelle dei presbiteri, dei religiosi, delle religiose e dei laici, uomini e donne, della Chiesa romana,
quei laici che soltanto il timore dell'ingerenza politica imperiale aveva concorso ad escludere dall'elezione
che loro spetta per diritto nativo.
Ma ora, con la comunità cristiana ricostituita nella sua libertà spirituale dal potere politico, molti si
chiedono, riteniamo non senza buone ragioni, come sarebbe pensabile di estraniarla ulteriormente dal
processo, per continuare a riservarlo solo al pur degnissimo e
Nota alla seconda edizione
La fortunata accoglienza toccata alla prima edizione dì questo libro e il crescente interesse dell'opinione
pubblica al problema dell'elezione del Vescovo di Roma hanno suggerito all'Editore di pubblicare II
conclave in una collezione di più larga diffusione. L'occasione è stata utile per introdurre nel testo alcune
revisioni, in parte dovute a suggerimenti pazienti di lettori, che desidero ringraziare, in parte alla necessità
obiettiva di fornire più precisi e ampi ragguagli circa alcuni conclavi di speciale significato nella storia
della Chiesa (quello ad esempio di Gregorio xvi, la cui trattazione è stata completamente rinnovata); in
parte, infine, all'esigenza di aggiornare i dati degli ultimi capitoli, riguardanti il pontificato di Giovanni
Paolo ne il collegio cardinalizio contemporaneo. Di speciale importanza, in questa edizione, è la trattazione
della nuova costituzione elettorale Universi Dominici Gregis promulgata da Giovanni Paolo n il 23 febbraio
1996, e alla quale abbiamo ritenuto di consacrare sia un commento sia l'Appendice, con la pubblicazione
del testo integrale. Notevole ci è sembrata in questo documento la previsione che la Sede Vacante possa
aprirsi non solo per la morte, ma anche per la «valida rinuncia» del Pontefice. Per la prima volta una
Costituzione elettorale ha ammesso la possibilità di un papato «a tempo», non foss'altro che per adeguare la
strumentazione elettorale alla normativa del Codice di Diritto Canonico e per fronteggiare eventuali, sfortunate emergenze che potrebbero ridurre la validità del soggetto papale a esercitare un ministero ritenuto così
complesso ed enorme da richiedere delle forze personali senza comune misura. La lezione della storia è
sempre illuminante per il presente, anche e forse soprattutto quando il presente è fatto di radicali
trasformazioni come l'attuale. La ricostruzione delle vicende del papato dei primi secoli assume anzi un
valore formalmente esemplare in seguito alle suggestive e coraggiose ammissioni di Giovanni Paolo n, il
quale nella encìclica Ut unum sint ha sollecitato una discussione ecumenica sulla funzione petrina e sui
possibili modi di esercizio del primato, — indicandone il paradigma nell'esperienza della Chiesa indivisa,
nei primi dieci secoli — affinchè «pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione,
esso si apra ad una situazione nuova».
Il papa slavo ha introdotto in tale enciclica una distinzione chiara tra la «forma d'esercizio del primato» e
«l'essenziale (irrinunciabile) della sua missione». Questa distinzione è ricca di significato, dato che le due
cose non coincidono: come emerge sia dall'esegesi del dossier scritturistico circa il ruolo di Pietro, sia dalla
testimonianza storica sul primo millennio, l'essenziale del servizio petrino non comporta il governo diretto e
universale della Chiesa, che era affidato ai patriarchi a livello regionale. In Occidente, none 'era che una
sola sede apostolica e un unico patriarcato, mentre in Oriente ce n'erano quattro.
In seguito alla rottura del 1054 tra l'Oriente e l'Occidente, il vescovo di Roma è stato indotto a cumulare
nelle sue mani entrambe le funzioni, precedentemente distinte: quella del servizio all'unità della Chiesa
universale, e quella del governo diretto della Chiesa latina, erede del patriarcato d'Occidente.
L'enciclica ha riaperto il problema di restaurare quella antica distinzione, e così ha riaperto una pista che
potrebbe essere feconda di innovazioni, in vista dell'unità della Chiesa, agognata dal movimento ecumenico.
Mi auguro che questa umile fatica possa contribuire ad una migliore conoscenza dell'istituto elettorale nella
Chiesa romana, che è alle origini della democrazia in Occidente, e favorire quell'evoluzione collegiale del
sistema che la stessa Costituzione elettorale vigente preconizza allorché afferma che l'elezione del nuovo
pontefice «non sarà un fatto isolato dal Popolo di Dio e riguardante il solo collegio degli elettori ma, in
certo senso, un 'azione di tutta la Chiesa».
G.Z.
Roma, 16 maggio 1996
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CAPITOLO I.
L'elezione del papa nel primo millennio.
La Chiesa romana lancia volentieri l'amo nei puri laghi d'alta quota ogni volta che sente il bisogno di
riossigenarsi sulle rive delle origini. Ma ciò che pesca non è che una deficienza e una impossibilità, come
dice uno dei suoi geniali apologeti moderni, parlando dell'apostolo Pietro. Un pescatore, originario della
Galilea, viene impiantato al centro dell'impero, Roma, dove muore ucciso, probabilmente in seguito a
divergenze nella comunità giudaicocristiana locale fra correnti in lotta. E in quel momento, l'uomo non è
nemmeno riconosciuto in modo indiscutibile il capo della Chiesa nascente, certo non detiene la
responsabilità della Chiesamadre di Gerusalemme, che è diretta da Giacomo, fratello di Gesù di Nazareth.
Forse è un mediatore, un conciliatore che è arrivato a Roma, un arbitro per mettere pace fra le fazioni,
piuttosto un «ministro degli esteri» della prima Chiesa che un leader universale. E soprattutto un personaggio
pieno di contraddizioni, un po' Simone di Bethsaida e un po' Pietro, l'apostolo del supremo atto di fede e del
triplice tradimento, della confessione messianica accesa e del dubbio radicale, che gli attirerà da Gesù
l'insulto: «Lungi da me Satana. Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini»
(Mt 16, 23).
È dunque a questa figura originaria che normalmente si ricongiungono le catene delle successioni e le
costellazioni carismatiche della tradizione cristiana, è questa figura del Pescatore che viene pescata dal lago e
portata in giro nei secoli, tra modelli differenti di papi, tra procedure e sistemi elettorali diversissimi, in
contesti spirituali, culturali e politici differenti.
Ma come la sua deficienza potrebbe illuminare e fondare la potenza del papato romano? Quale continuità tra
la sua croce rovesciata e la gloria temporale dei sovrani che l'hanno trasformata in trono mondano?
Le domande su Pietro riecheggiano incessantemente dal fondo inquieto del tempio in cui le sue ossa sono
state coperte da una montagna gloriosa di pietra. È sempre la deficienza antica che erode come un tormento
intcriore lo sfarzo della potenza. Ma quella incongruenza istituzionale, insanabile, tra l'umiliazione e la
missione si tra
duce, come per una debole eco, nei modi della trasmissione dei suoi poteri.
In Pietro essi scaturiscono nell'atto della professione di fede, con un'investitura che si vuole permanente di
capo della Chiesa, «come una roccia che si sposta insieme ad essa». Nei vescovi di Roma, quei poteri si
riproducono prima per naturale designazione, poi per acclamazione o scelta del clero e del popolo, infine per
decisione del collegio dei cardinali, che alla metà del xm secolo cominciano a dar vita all'elezione del papa
in conclave. E tuttavia il riferimento fondamentale resta l'alta quota di Pietro, nella quale dobbiamo
brevemente soffermarci.
Pietro ovvero il potere impossibile.
Tutto comincia con il carisma, vissuto istintivamente, della guida di una comunità concreta, il collegio
apostolico. E non è che la forma elettorale sia sconosciuta, se negli Atti degli Apostoli (1, 15) Luca racconta
che per la scelta del dodicesimo apostolo, in luogo di Giuda che è venuto meno, si procede all'elezione:
Pietro propone la candidatura di due nuovi discepoli al collegio, che li tira a sorte.
Presto questo modo arcaico di elezione verrà sostituito da un procedimento meno meccanico, con l'elezione
regolare di Stefano e altri sei per il servizio delle mense, e la loro presentazione agli apostoli, che imporranno
loro le mani.
Tuttavia, non è nemmeno questa differenza di procedure a costituire il punto sostanziale in cui le tradizioni, e
i sistemi, si dividono. Il vero salto di qualità sembra piuttosto consistere nel processo stesso con cui il potere
di Pietro si costituisce, cioè come unpotere impossibile.
Egli è ben investito dei pieni poteri da Gesù, e sull'esistenza di questa designazione (Mt 16, 1320) l'esegesi
protestante e quella cattolica convergono in modo sostanziale. Tuttavia Pietro viene sistematicamente
descritto dai testi evangelici e dagli Atti come una figura continuamente inadeguata a quell'investitura, un
interprete debole rispetto alla forza dell'ufficio conferitogli di essere Pietro, una pietra sulla quale «edificherò
la mia Chiesa», e di detenere «le chiavi del regno dei Cieli: e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei
cieli, e tutto ciò che sulla terra scioglierai sarà sciolto nei cieli».
Autorevoli interpreti dei testi ne traggono la conclusione che la deficienza di Pietro non è solo personale, ma
istituzionale. Benché munito di poteri preminenti rispetto a quelli dei colleghi, Pietro non esercita la
direzione della comunità di Gerusalemme che per un brevissimo periodo. Ben presto egli deve cedere questa
responsabilità a Giacomo, la cui intransigenza conservatrice sul problema della osservanza della legge
giudaica gli aveva probabilmente attirato l'adesione della parte maggiore della comunità di Gerusalemme.
Come
indica Oscar Cullman, Pietro è costretto a vivere la sua funzione in una forma destabilizzata e senza avere
nelle proprie mani la direzione ecclesiastica primaria. Egli deve dedicarsi piuttosto all'attività missionaria,
fino a giustificare la denominazione di lui come «tipo» del missionario piuttosto che del capo di Chiesa. «La
separazione delle due funzioni — amministrazione della chiesa e attività missionaria — che Giacomo e
Pietro si dividono, non è stata legata, forse», dice il teologo luterano, «a una decisione o a un atto giuridico
particolare [...]. Dev'essersi piuttosto verificata a poco a poco, in una evoluzione naturale.»
Ciò sarebbe documentato dal fatto che, al tempo in cui Pietro era ancora a capo della comunità di
Gerusalemme, Giacomo aveva già un posto direttivo accanto a lui. Il trasferimento del potere direzionale,
che fa di Pietro un «papa» temporaneo, o dimissionario, poteva essere stato determinato o dal fatto che egli si
era trovato in minoranza sulla questione della libertà cristiana di fronte alla legge sulla circoncisione, oppure
dall'incarcerazione che aveva dovuto subire da parte di Erode. Resta inconcusso il distacco del primo degli
apostoli, come tale istituito da Gesù, dall'esercizio giurisdizionale di questo primato, da quando egli «si recò
in altro luogo» (Atti 12, 17) per svolgere attività di evangelizzazione. Secondo alcuni interpreti, in questa
attività egli si condurrebbe anzi come strettamente dipendente da Gerusalemme, nutrendo «paura di quelli di
Giacomo». Tuttavia questa versione è criticata dai cattolici, secondo i quali l'espressione si riferiva piuttosto
alle divergenze politiche tra la corrente petrina e quella rappresentata al potere da Giacomo. Però, anche in
questa versione, risulterebbe accettata l'idea che Pietro, la Roccia, fosse in minoranza, estromesso dalla
direzione della Chiesa del suo tempo e costretto ad «avere paura di quelli della circoncisione», come
conferma Paolo. Anche nel primo Concilio di Gerusalemme è Giacomo a presiedere la riunione, è lui, e non
Pietro, a trarre le conclusioni di ciò che è emerso al dibattito e a formulare «il decreto», mentre Pietro deve
subire — benché investito dall'ufficio di essere la pietra fondativa della Chiesa — l'opposizione dello stesso
Paolo, il quale «gli resiste in faccia», anche se è più vicino alle sue posizioni che a quelle piuttosto
conservatrici di Giacomo. Altri studiosi preferiscono mettere l'accento sul ruolo arbitrale svolto da Pietro
nella Chiesa nascente. Egli appare negli Atti colui che, con le sue iniziative, avalla la missione della Chiesa
tanto in direzione degli Ebrei che verso i pagani. «Nelle decisioni da prendere circa l'ammissione dei
pagani», dice Roland Minnerath, «Pietro occupa una posizione mediana e aperta. È la sua posizione
moderata che sarà finalmente ritenuta come normativa [...]. La sua interpretazione del Vangelo suppone la
continuità con Israele e l'apertura della
missione ai Gentili. Nel conflitto fra Pietro e Paolo, è quest'ultimo che ha preso l'iniziativa della rottura,
contro il parere della comunità di Antiochia.»
A Roma, dove il cristianesimo è stato introdotto negli anni Quaranta da ignoti missionari, si verifica un certo
riavvicinamento tra le posizioni avanzate di Paolo e la posizione moderata di Pietro. Molti documenti
posteriori alla sua morte provano che Paolo è stato accettato dall'insieme della Chiesa precisamente grazie
alla cauzione di Pietro. La prima Lettera attribuita a Pietro, ma in realtà scritta da un presbitero della Chiesa
romana negli anni Ottanta, impressiona per la capacità di sintesi che rivela tra il tradizionale pensiero
culturale ebraico e la linea più moderata della Lettera di Paolo Ai Romani. Anche la seconda Lettera
attribuita a Pietro, ritenuta il testamento dell'apostolo, conferma il ruolo che gli è riconosciuto di garante della tradizione e di interprete autentico della Scrittura, inclusi gli scritti di Paolo. Pietro è precisamente
descritto come il soggetto autorevole che «riconcilia» nella fede ortodossa le diverse correnti del cristianesimo primitivo. Si nota come le Chiese della tendenza paolina, quelle della tendenza giovannea e quelle
giudaicocristiane si rivolgono verso la figura di Pietro come garante del riavvicinamento dei diversi punti di
vista nell'unità della fede.
La lettura di questi testi ha portato alcuni esegeti a gettare una luce nuova sulla missione di Pietro a Roma.
Le fonti primordiali (Lettere di Paolo e Atti) tacciono completamente in merito a questo soggiorno, al punto
di autorizzare exsilentio i dubbi dei Valdesi nel Medioevo e di Marsilio da Padova nel Defensorpacis (1326).
Tuttavia persino Cullman dice di ritenere «almeno probabile» che, nella sua qualità di capo della branca
giudaicocristiana della missione apostolica, Pietro sia andato, prima o poi, a visitare a Roma la comunità di
origine giudaicocristiana, specie trattandosi della capitale imperiale. Però insinua il dubbio che in questa
missione evangelistica egli non vi abbia esercitato il suo ufficio di capo universale e la funzione primaziale.
Ciò è considerato dai cattolici un espediente ermeneutico per scindere la consegna dei poteri a Pietro dalla
riproduzione di questi poteri ai suoi successori romani: «L'affermazione che Pietro sia stato vescovo di Roma
è propria di una tardiva tradizione della seconda metà del n secolo, allorché Roma non ha ancora alcuna
funzione direttiva per la Chiesa universale. Non appare dimostrata alcuna successione concatenata, nella
direzione della Chiesa universale. Non si può provare in base ad alcuna fonte sicura che Clemente Romano
(citato come pontefice insediato da Pietro) abbia ricevuto da questi il suo ufficio né che egli sia stato capo di
tutta la Chiesa».
Naturalmente i cattolici reagiscono severamente su questo punto. Charles Journet ha difeso la tesi secondo la
quale Pietro è munito di un «privilegio transapostolico». In assenza di Cristo, risalito al cielo, egli «può
diventare il centro visibile della coordinazione della Chiesa universale, nella quale tutte le chiese locali
fondate dagli apostoli devono essere inserite. Altro è fondare il Regno quanto alle sue radici nel passato, per
esempio dandogli le Scritture; altro è fondare il Regno quanto alla sua permanenza nel presente, con l'essere
la rupe vivente su cui riposa la sua unità organica divina. In questo secondo modo Pietro, visibilmente, in
qualità di vicario di Cristo assente, fonda la Chiesa come una roccia che si sposta insieme ad essa».
In questa discussione, alcuni malintesi riguardano la specificità della funzione primaziale di Pietro. Per
coloro che considerano che essa debba anzitutto svolgersi nei modi di un potere giurisdizionale pieno,
universale e immediato, è chiaro che diventa inaccettabile la tesi secondo cui Pietro, abbandonando la
direzione della Chiesa di Gerusalemme in mano a Giacomo, non avrebbe potuto farsi capo della Chiesa
universale da altri luoghi senza aprire un processo scismatico. Al contrario, se lo specifico della funzione di
Pietro fosse visto anzitutto nell'incarico da lui ricevuto di «confermare i suoi fratelli» e di «pascere le
pecore», ecco che ne verrebbe riconosciuta e valorizzata l'azione conciliatrice e arbitrale, sia in Gerusalemme
che ad Antiochia e a Roma, come parte integrante se non costitutiva della missione primaziale che gli è stata
conferita.
È questa precisamente la funzione che, dall'inizio del n secolo, qualifica universalmente il ruolo direttivo
della Chiesa di Roma in seno alla cristianità del tempo. Nessuno storico e nessun teologo hanno potuto
contestare che la comunità cristiana romana sia giunta poco per volta, nel corso del n e del m secolo, a una
posizione di preminenza, e non già a causa di un primato di giurisdizione su tutte le Chiese del tempo, che
godevano di ampie autonomie, bensì precisamente in virtù di questa spiccata funzione riunitiva che qualifica
fin dall'origine la Chiesa di Roma come colei «che presiede nell'agape», secondo l'espressione di
Sant'Ignazio di Antiochia.
Verso la metà del n secolo si assiste infatti ad una serie di trasformazioni rilevanti nell'organizzazione dei
ministeri. L'episcopato monarchico emerge per il concorso di diversi fattori sociologici: le comunità sono
divenute numerose, è necessario un punto autorevole di coordinamento dell'insieme per rispondere alle sfide
dottrinali che provengono soprattutto dalla Gnosi e dai circoli ortodossi. Le Lettere di Ignazio di Antiochia e
i testi di Ireneo ci permettono di seguire lo sviluppo di questa funzione riconosciuta alla Chiesa romana di
servire l'unità. Roma è effettivamente un centro verso il quale si ve
dono confluire rappresentanti di altre comunità cristiane e di movimenti dissidenti in cerca di legittimazione.
La funzione dell'autorità esercitata da Roma appare strettamente congiunta con questo ruolo di
riconciliazione.
Se questa lettura è fondata, sembrerebbe ragionevole la conclusione che coglie ancora una volta il nucleo
dell'identità del primato di Pietro nella sua deficienza istituzionale, piuttosto che nelFautoaffermazione
giuridica di un potere universalistico. Da questo punto di vista non sarebbe importante verificare se da Roma
Pietro abbia retto o no la Chiesa universale, bensì se abbia servito in questa Chiesa e con questa Chiesa
l'incarico di «confermare i fratelli» nella fede nel Risorto dai morti. È probabilmente questa la ragione che ha
suggerito a teologi cattolici di fama di abbandonare l'opinione che la successione di Pietro sia legata alla
prova storica di una sua direzione generale come vescovo di Roma, mentre essi si mostrano più inclini a pensare che la superiorità della Chiesa di Roma sia determinata non già in base alla dislocazione materiale del
potere universale di Pietro in questa sede episcopale, bensì nella particolare premura che in questa Chiesa si
assume per «confondere tutti coloro che in qualsiasi modo, o per presunzione, o per vanagloria, o per cecità e
gesto dell'errore, fondano conventicole» secondo quanto si legge neh"Adversus haereses, di Ireneo di Lione.
D'altra parte solo con la progressiva purificazione del papato romano dal potere temporale la Chiesa cattolica
ha cominciato a riscoprire meglio la natura simbolica e transgeografica della «roccia» di Pietro nella storia
della salvezza alleggerendo di conseguenza, ed equilibrando, tesi tradizionali che affermavano una versione
monocratica e assolutista, di origine politica, del diritto circa il primato di Roma. La stessa trasmissione
elettorale di questi poteri, nelle procedure variabili per la riproduzione della monarchia elettiva del papato, è
considerata dai teologi ecumenici contemporanei meno un atto politico che un atto spirituale.
La deficienza istituzionale della funzione di Pietro trova il suo apice nel martirio. Sebbene le fonti antiche
tacciano anche su questo, tuttavia la prima lettera di Clemente romano mostra, se non con certezza, almeno
con grande verosimiglianza che Pietro fu giustiziato a Roma all'epoca della persecuzione neroniana,
nell'anno 64 o 67 dell'era volgare, mentre si verificano divisioni nella comunità giudaicocristiana di Roma,
anzi molto probabilmente a causa dei conflitti interni scoppiati in essa: «a causa di una gelosia
ingiustificata», dice Clemente, «Pietro soffrì non una o due tribolazioni, ma parecchie e così, dopo aver dato
una testimonianza, raggiunse il luogo della gloria che gli spettava».
Le ricerche archeologiche hanno accreditato l'ipotesi secondo la
quale il martirio ebbe luogo alle falde del colle vaticano, da tempo sede di operatori di «vaticinii». Secondo
una tradizione, onorata da Origene, Pietro chiese di essere crocifisso con il capo all'ingiù, in segno di
umiliazione. Urs von Balthasar ha colto in questa immagine rovesciata la figura conclusiva di un potere
come quello inaudito conferito a Pietro:
Gesù fonda la figura di Pietro su questa simultaneità, specifica della carica ufficiale, dell'umiliazione e della missione. È una
riproduzione attraverso una deficienza, come lo esprime, in una immagine grandiosa, la crocifissione di Pietro, con i piedi in alto: è la
croce, ma come un'immagine rovesciata, simbolo definitivo della situazione gerarchica. Solo grazie a questa umiliazione permanente
della funzione ecclesiale l'immagine di un ministero gerarchico nella Chiesa è cristianamente sopportabile [...]. Ora però ciò significa
che la figura del ministero istituito da Cristo nella Chiesa ha, in quanto tale e indipendentemente dalla persona che lo riveste, la figura
della croce.
Del resto già nel 405 Prudenzio aveva commentato la crocifissione di Pietro come figura della debolezza
strutturale della sua funzione: «Quanto più umile era la posizione/tanto più grande si mostrava lo
spirito/giacché ben sapeva che è più facile/salire al ciclo da un posto umile».
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La Chiesa romana nei primi secoli.
I cristiani di Roma scelgono il loro vescovo allo stesso modo con cui i cristiani di Antiochia scelgono il
proprio. Non emergono procedure speciali per il fatto che la Chiesa di Roma comincia a distinguersi per una
funzione preminente di servizio dell'unità rispetto alle altre, ed è il luogo del martirio di Pietro e di Paolo.
Come avverte Henri de Lubac, «la successione petrina si afferma inizialmente in tutta calma, mediante un
semplice esercizio, e non per delle costruzioni teoriche, per delle esigenze o in base ad un arsenale di prove;
e ciò era proprio quello che si poteva attendere [...]. Questa modestia degli inizi non fa che corrispondere alle
leggi di ciò che è vitale».
Sappiamo troppo poco su taluni vescovi romani di quest'epoca e sui modi della loro elezione per farci un'idea
precisa del sistema adottato per garantire la successione. Il testo di Ireneo Adversus haereses (3,13) è una
fonte preziosa e indubitabile, che testimonia l'esistenza di una successione episcopale in questa sede romana
e la coscienza universale di tale continuità.
Dice Ireneo:
Poiché sarebbe troppo lungo in un volume come questo enumerare le successioni di
tutte le Chiese, indichiamo solo la tradizione ricevuta dagli apostoli, la fede annunciata a tutti gli uomini e giunta fino a noi nella
successione episcopale, della Chiesa più grande e più antica, conosciuta da tutti: della Chiesa fondata e costituita a Roma dai due
gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo [...]. I beati apostoli, che fondarono e costituirono quella Chiesa, affidarono poi a Lino l'ufficio
episcopale di governarla. Questo Lino è ricordato anche da Paolo nelle sue lettere a Timoteo. Lo seguì Anacleto; dopo questi, al terzo
posto dopo gli apostoli, ebbe l'episcopato Clemente che aveva conosciuto i beati apostoli, aveva conversato con loro e, mentre
risuonava ancora la loro predicazione, aveva avuto sotto gli occhi la tradizione; e non era il solo, perché sopravvivevano molti
direttamente istruiti dagli apostoli. Sotto Clemente ebbe luogo una ribellione non piccola tra i fratelli che erano a Corinto; la Chiesa
di Roma scrisse perciò ai corinti una lettera molto energica, richiamandoli alla pace, rinsaldando la loro fede e proclamando la
tradizione poc'anzi ricevuta dagli apostoli.
Questo documento conferma con certezza la posizione eccezionale riconosciuta alla Chiesa romana e
l'autorità di cui godeva. È notevole che essa venga interpellata per dirimere la controversia esplosa a Corinto
tra un gruppo di presbiteri e il vescovo locale, che li aveva destituiti. Infatti la Chiesa di Roma svolge con
molta naturalezza questa funzione arbitrale, dando atto che la destituzione dei presbiteri, che non avevano
commesso nulla di riprovevole, non corrispondeva alla volontà di Dio.
L'epistola di Clemente romano rende conto in modo preciso di questo intervento autorevole su quelli che
oggi verrebbero chiamati gli «affari interni» di una Chiesa. Alla fine del i secolo abbiamo perciò la prova che
nella Chiesa di Roma emerge un pacifico sentimento di detenere una funzione autorevole di arbitraggio e
riconciliazione, quasi di istanza di ricorso, a disposizione delle altre comunità cristiane.
Tornando al testo di Ireneo, troviamo l'attestazione secondo la quale alla Chiesa di Roma «tutte le Chiese
devono convenire». Questo «convenire» è interpretato diffusamente nel significato di «rivolgersi a, ricorrere
o far ricorso». Infatti dice Ireneo: «Se accadesse che una questione puramente di dettaglio provochi una
disputa, non è forse alle Chiese più antiche, a quelle in cui gli apostoli hanno vissuto, che bisognerebbe
ricorrere (recurrere) onde riceverne sull'argomento in causa ciò che è ben chiaro e sicuro?».
Secondo Nicolas Afanassieff, «questo passo di Ireneo chiarisce il senso delle sue affermazioni sulla Chiesa
di Roma: se in una Chiesa locale vi sono dispute, si deve ricorrere alla Chiesa di Roma perché la Tradizione
che essa contiene vi è conservata per tutte le Chiese». Ma il teologo ortodosso di Odessa sottolinea anche che
la Chiesa di Roma nel periodo precedente il Concilio di Nicea «non prendeva iniziative in materia di fede,
neppure in materia di disciplina. La vocazione della Chiesa di Roma consisteva nella sua funzione di arbitro,
essa dirimeva le controversie testimoniando della verità o della falsità della dottrina proposta. Roma era
veramente il centro verso cui convergevano tutti coloro a cui stava a cuore che la loro dottrina fosse ac
cettata dalla coscienza della Chiesa; potevano contare sul successo soltanto se la loro dottrina veniva ricevuta
dalla Chiesa di Roma; infatti, un rifiuto di Roma determinava a priori il rifiuto delle altre Chiese».
È importante registrare questo risultato, perché ci permette di sapere con certezza che la funzione
presidenziale attribuita e svolta dalla Chiesa di Roma, come istanza di riconciliazione e arbitraggio fra le
Chiese, — un servizio peculiarmente «petrino» — non da luogo per sé sola a un sistema ecclesiologico
imperniato sulla posizione dominante di Roma. Per oltre dieci secoli i cristiani di Smirne o di Alessandria
d'Egitto non rivendicano alcun diritto di avere voce in capitolo nella elezione del vescovo di Roma. Molto
prima di diventare il rifugio di coloro che cercano il diritto, Roma era vista realmente come una centrale
della carità: la straordinaria assistenza caritativa della comunità romana non solo ai numerosi poveri della
capitale ma anche a quelli delle più lontane comunità dell'Asia verrà ricordata e celebrata ancora nel secolo
in. E reciprocamente la «priorità» nell'amore riconosciuta alla Chiesa di Roma non le assegna alcun potere di
ingerirsi nel processo elettorale delle altre Chiese, né esclude la priorità delle altre Chiese in cerehie più
ristrette di Chiese locali. Lo stesso Ireneo, come sappiamo, aveva detto che ci si poteva rivolgere anche alle
Chiese fondate dagli apostoli, ad esempio quella di Smirne o quella di Efeso, per dirimere le dispute.
Nei primi secoli infatti, ciascuna grande Chiesa storica, inclusa quella romana, interpretava ed esercitava il
compito dell'annuncio evangelico nell'ambito di una giurisdizione primaziale bene circoscritta. Nessuna
attività era ritenuta lecita o possibile oltre i confini del proprio patriarcato, uno dei cinque che saranno
precisamente delimitati nel 381.
I primi tre «papi» dopo Pietro, cioè Lino, Cleto e Clemente, sono designati naturalmente alla guida della
comunità cristiana di Roma, essendo stati i primi collaboratori di Pietro. Lino mostra di avere già presente il
senso del vescovo di Roma quale primo responsabile «interpares» del clero e del popolo di Roma e di tutta
la comunità cristiana. Il suo governo, dal 67 al 77, è attraversato dalla premura di precisare i compiti
ministeriali corrispondenti alle funzioni dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi nella comunità romana. Egli
stesso consacra quindici vescovi e diciotto presbiteri, secondo il Catalogo Liberiano.
È notevole come la «cronotassi» di Ireneo, che abbiamo citato, dica che Pietro e Paolo «affidarono»
l'episcopato a Lino, mentre usa il verbo «succedere» solo a partire dall'anello successivo, da Lino ad
Anacleto. Ireneo non dice dunque che Lino succede a Pietro, ma che gli apostoli gli affidano la carica
dell'episcopato, senza che si dichiari se egli stesso fosse vescovo. È soltanto da Anacleto che si parla di una
«successione» nelle funzioni esercitate da Lino, fa notare Roland Minnerath.
Quanto a Clemente, il suo potrebbe essere considerato il primo caso di abdicazione di un papa: egli lascia la
carica nel 97 dopo essere stato raggiunto dal decreto dell'imperatore Nerva che lo manda in esilio nel
Chersoneso. Clemente affida la Chiesa romana al vescovo Evaristo, il cui nome è legato alla singolarità di
aver governato come vicepapa, senza un'elezione formale, ma solo per delega del papa impedito. L'Annuario
Pontificio cita il papato di Evaristo datandolo dal 97, anno dell'esilio di Clemente, al 105.
// ruolo del popolo nell'elezione.
L'elezione di Alessandro i, papa dal 105 al 115, merita di essere ricordata perché più esplicita appare, per
così dire, la struttura democratica adottata. Benché venga da famiglia nobile e possa contare su amicizie
illustri nell'aristocrazia e nella corte imperiale, Alessandro è il primo papa che venga eletto con una
consultazione dell'intera comunità cristiana, fuori dal gioco delle designazioni fiduciarie.
La prassi consultiva appare del resto ricorrere in modo abbastanza normale in questa età della Chiesa. Papa
Vittore (189198), il primo papa africano, ricorre ai Sinodi in tutte le regioni della Chiesa per risolvere una
prova di forza tra Roma e le Chiese dell'Asia Minore a proposito della data della Pasqua. Si tratta di una
tappa dell'autocoscienza papale di tradurre il «primato della carità» in autorità anche giurisdizionale su tutte
le Chiese. È l'intervento di Ireneo, ancora una volta, che permette a Roma di uscire dall'impasse, riportandola
al suo ruolo di tutrice dell'unità nella fede: «La differenza del digiuno conferma l'unità della fede», ricorda
quest'uomo di pace.
Nel 251 con l'elezione di papa Cornelio esplode il primo conflitto che si ricordi intorno alla legittimità
dell'elezione papale. Segretario del collegio dei presbiteri romani è Novaziano, che ha collaborato con papa
Fabiano, morto durante la persecuzione di Decio nel 250. Novaziano è deluso di un'elezione che si aspettava
e, sostenuto da alcuni gregari, si fa consacrare vescovo in opposizione a Cornelio. Nella disputa interviene il
vescovo Cipriano, il quale è convinto della regolarità dell'elezione di Cornelio, effettuata da sedici vescovi
presenti all'epoca a Roma. È preziosa la testimonianza fornita da questo
documento quando indica che Cornelio era stato fatto papa «secondo la testimonianza di quasi tutti i preti,
secondo il suffragio del popolo presente, secondo il consenso dei sacerdoti e degli anziani». Di più, Cornelio
si fa convalidare l'elezione da un Sinodo a Roma al quale partecipano 60 vescovi ed altri esponenti del clero.
Due secoli dopo, la stessa procedura pare confermata da lettere di Leone Magno, con la sola differenza che,
nel popolo, si distingue e vota separatamente il gruppo dei notabili e che, fra il clero, i dignitari svolgono una
speciale funzione: vota civium, testimonia populorum, honoratorum arbitrium, electio clericorum.
Il sistema elettorale è divenuto complesso: il popolo è autorizzato a porre delle candidature che i notabili
laici, e soprattutto il clero, esaminano e discutono, fornendo dopo il pronunciamento popolare la propria
valutazione, il testimonium sul candidato. Appaiono dunque due o anche tre fasi dell'elezione: gli uni
presentano le candidature, gli altri redigono le liste dei candidati e infine i vescovi determinano la scelta
definitiva del papa.
Questa sistemazione giuridica dell'elezione papale conferma l'avvenuto mutamento della condizione cristiana
rispetto ai primi secoli. Molti dei primi papi condividono fino in fondo la sorte della comunità cristiana, in
conflitto con i Cesari, e alcuni finiscono martiri. La venerazione per questi testimoni della fede costituisce
generalmente il fattore determinante della designazione dei successori. Un caso anomalo di successione può
rappresentare con chiarezza questo fatto: è il caso di Antero, eletto nel 235 quando era ancora vivo il suo
predecessore, Ponziano, deportato in Sardegna per ordine di Massimino. Quando Antero muore, dopo un
pontificatolampo di poco meno di due mesi, il 3 gennaio 236, Ponziano è ancora ai lavori forzati.
Questo episodio, che non è l'unico, fa pensare che agli inizi del cristianesimo ci fosse una disponibilità
diffusa a distinguere la persona del papa dalla funzione petrina. Se qualcosa di grave impedisce al vescovo in
carica di esercitarla, la comunità provvede all'elezione di un nuovo papa.
Una tale flessibilità presenta però degli aspetti pericolosi quando gli imperatori si ingeriscono a tal punto
nelle questioni interne della Chiesa da pretendere di avere l'ultima parola nell'elezione del papa: anche
Marcello i nel 309 viene mandato in esilio in seguito alla condanna deh"imperatore .Massenzio. Questi
ritiene di favorire la pace fra il partito dei rigoristi, capeggiato dal vescovo Donato, e il partito dei concilianti,
inclini piuttosto a ridurre le restrizioni per coloro che, avendo ceduto ai riti pagani, vorrebbero tornare nella
comunità cristiana. Massenzio pensa di risolvere il conflitto con l'elezione di un presbitero greco, Eusebio,
ma la situazione peggiora. Gli avversari di papa Marcello, insoddisfatti, oppongono ad Eusebio un loro rappresentante, eleggendo Eraclio. L'imperatore interviene allora con
un altro atto di forza, condannando all'esilio sia Eusebio che Eraelio.
Per qualche tempo dunque la Chiesa ha due papi legittimi, entrambi in esilio: una situazione così paradossale
da consigliare di far passare del tempo prima di procedere all'elezione di un altro papa. Infatti è solo a due
anni dalla morte di Eusebio che Milziade viene eletto il 2 luglio 311, secondo papa africano sulla cattedra di
Pietro dopo Vittore i nell'ultimo decennio del n secolo. È sotto papa Milziade che la condizione cristiana
passa a Roma al pieno riconoscimento giuridico, con l'editto di tolleranza emanato dall'imperatore Galerio,
con il quale si chiude formalmente l'età della persecuzione.
Dopo Costantino.
Con il compromesso costantiniano tra Chiesa e Impero, le ragioni della fede che per secoli hanno ispirato
l'elezione papale, vengono esposte al rischio di essere inquinate da considerazioni politiche e dall'agitazione
dei partiti. Ragioni di potere intervengono nella regola della comunione della Chiesa e si moltiplicano le
interferenze dell'imperatore nell'autonomia della comunità cristiana. Il palazzo del Laterano, proprietà
personale dell'imperatrice Fausta, viene regalato al vescovo di Roma e sarà la sua residenza per tutto il
Medioevo. Grazie a Costantino, papa Silvestro getta le fondamenta della prima basilica di San Pietro alle
falde del colle del Vaticano. Ed è sempre Costantino a convocare i vescovi al Concilio'Ecumenico che inizia
nel 325 a Nicea, per condannare l'eresia di Ario. Anzi, è l'imperatore stesso a presiedere l'assemblea, cui
partecipano circa 270 rappresentanti del clero, in gran parte provenienti dalle regioni orientali.
Il rapporto di contiguità che così si stabilisce tra la Chiesa e l'Impero partecipa d'un processo più vasto di
adeguamento organizzativo delle strutture ecclesiastiche generali agli ordinamenti gerarchici, istituzionali e
giuridici dello Stato imperiale. La Chiesa modella le proprie strutture territoriali e gerarchiche su quelle
dell'Impero, in un processo più volte secolare che contribuisce all'affermazione di una tradizione
amministrativa comune per tutte le Chiese in un'epoca già precedente alla stessa stagione costantiniana.
Le circoscrizioni ecclesiastiche superiori avevano ormai i propri confini geografici coincisi con quelli delle
province stabilite da Diocleziano. Questa simmetria si istituisce anche fra le Chiese delle megalopoli (Roma,
Alessandria, Antiochia) e il ruolo privilegiato attribuito dalle leggi imperiali alle autorità civili e alle
comunità cittadine di queste capitali: anche i loro vescovi si vedono assegnato per questo un ordine
prestabilito di priorità, di dignità e di privilegi analogo a quello riconosciuto ai rappresentanti locali dei
poteri civili.
Per la Chiesa cattolica di tutto l'Impero questa simbiosi organizzativa con l'Impero comporta — sottolinea
Vittorio Peri — «l'elabora
zione di una sua dottrina sociale e di una teologia politica tali da incorporare i principali concetti sacrali e
politici della tradizione antica sul potere, grazie ad una loro revisione ideologica in senso cristiano». La sola
filosofia politica diffusa nella Chiesa postcostantiniana si abbevera al sistema politico ellenistico, adattato da
Clemente di Alessandria e da Eusebio. Nasce l'ellenismo cristiano. Esso vede nell'imperatore il
rappresentante di Dio sulla terra, quasi un facente funzioni del Cristo. Secondo questa concezione politica
l'imperatore cristiano ha non solo il diritto ma il dovere di vegliare sulla Chiesa, di difendere la fede
ortodossa e di guidare i propri sudditi a Dio.
È in questo processo di adattamento che la Chiesa finisce per attingere le categorie costituzionali vigenti
nell'Impero romano da applicare alle proprie figure gerarchiche. Come sottolinea Peri, questa interpretazione
assorbe nella Chiesa «la convinzione circa la sacralità, l'unità, la perennità e l'esclusività di un imperium o
potere, universale e personale, voluto e sorretto ab aeterno dalla Provvidenza divina per la guida e la felicità
del genere umano [...]. L'aspirazione unitaria e cattolica della Chiesa appariva il corrispettivo spirituale dell'ideale politico dell'unico Stato universale cristiano o già instaurato nei propri confini o da estendere
all'ecumene per diritto divino, con le armi e col diritto».
La protezione imperiale si rivela col tempo un giogo pesante per la libertà della Chiesa. Come ha sottolineato
Antonio Rosmini,
La Chiesa primitiva era povera, ma libera: la persecuzione non le toglieva la libertà del suo reggimento: né pure lo spoglio violento
de' suoi beni, pregiudicava punto alla sua vera libertà. Ella non aveva vassallaggio, non protezione, meno ancora tutela, o
avvocatizia: sotto queste infide e traditrici denominazioni s'introdusse la servitù de' beni ecclesiastici.
La voce del popolo viene ritenuta necessaria — con una certa costanza — nella formazione del consenso per
l'elezione papale, sia pure all'interno di procedure che tendono ad evitare, con rielaborazioni successive, il
pericolo del populismo e interpretazioni demagogiche del processo elettorale. La storia può confortare, fino a
un certo punto, l'opinione che la tradizione della Chiesa romana per alcuni secoli si è mantenuta
sostanzialmente coerente con la disciplina antica della Chiesa apostolica, la quale esclude interferenze del
potere politico nell'elezione, assegnata in esclusiva al clero e al popolo.
Tuttavia il popolo viene progressivamente rappresentato dai «notabili». I funzionari imperiali della
provincia, i magistrati municipali della città, persino gli ufficiali delle guarnigioni pretendono di avere una
parte in questa voxpopuli, in seguito al processo di osmosi ideologica e organizzativa tra Chiesa e Impero.
Nel 336 Marco, papa per pochi mesi, cerca di rafforzare le difese della libertà elettorale della Chiesa romana,
disponendo che il papa venga scelto fra i chierici romani e che si proceda immediatamente alla
consacrazione episcopale dell'eletto, il quale — fino a quel momento — poteva essere papa anche da
semplice presbitero, o anche da diacono.
Le pretese imperiali di controllare la Chiesa producono una nuova crisi sotto papa Liberio, al quale
l'imperatore Costanzo ingiunge di abbandonare la sede petrina e di andare esule in Tracia. La causa del
conflitto è il rifiuto del papa di condannare Atanasio, l'oppositore più tenace dell'eresia ariana. Costanzo
mette in trono un altro papa, Felice. Quando Liberio cede alle pressioni imperiali e, condannato Atanasio,
può tornare a Roma, si verifica la situazione più paradossale: egli può governare la Chiesa, ma insieme a
Felice. È il popolo a reagire. Riappropriandosi dell'antico diritto, la gente costringe Felice ad abbandonare
Roma lasciando la cattedra al solo Liberio. Si deve a questo papa, in una lettera del 354 ad Eusebio, vescovo
di Vercelli, l'espressione di Sedes apostolica per designare la sede episcopale di Roma, in riferimento alle
sue origini nel collegio apostolico, tramite l'apostolo Pietro.
Alla morte di Liberio, nel 366, i fautori dell'antipapa Felice si affrettano ad eleggere il diacono Ursino, i
concilianti si pronunciano invece per Damaso, un feliciano riconciliato con la Chiesa. Lo scisma si trasforma
presto in guerra civile, con aspri scontri tra i sostenitori dei due papi. In una sola sera vengono raccolti per le
strade di Roma 120 cadaveri. Solo verso il 370 Damaso riesce a farsi riconoscere come il legittimo vescovo.
Con lui l'espressione Sedes apostolica si afferma e si diffonde. Anzi, per la prima volta essa si arricchisce di
riferimenti ad una autorità propria, riflesso di tradizioni politiche e correnti di diritto pubblico: sedis
apostolicae auctoritate, scrive papa Damaso rispondendo ai vescovi della Gallia che a lui s'eran rivolti per
sapere quali fossero la legge e la tradizione della Chiesa romana su alcuni punti di disciplina ecclesiastica.
Damaso i (papa fino al 384) si mostra particolarmente severo, presentando la disciplina romana come
precettiva. La sua trasgressione comportava a suo avviso l'esclusione dalla comunione della Sede apostolica
e di conseguenza da tutta la Chiesa. Tuttavia questa autorità non equivale ancora all'esercizio d'una piena
giurisdizione della Chiesa romana sopra le altre Chiese, perché il papa, proponendo il modello vigente a
Roma, non intende — afferma Michele Maccarrone — disattendere la giurisdizione patriarcale incipiente né
la sua autonomia. Sempre a Damaso risalgono linguaggi chiamati a definire la distinzione e la superiorità
della Sede apostolica: per esempio, il termine «prerogativa», che fissa la superiorità del vescovo di Roma di
fronte agli altri vescovi, a lui uguali nell'ufficio; oppure l'espressione «cattedra apostolica», per definire
l'autorità papale mutuata da Pietro; un concetto che sarà ripreso da Agostino di Ippona, in una lettera del
396397, dove dichiara che nella Chiesa romana «è sempre stato in vigore il principato della cattedra
apostolica». È interessante osservare che tale riconoscimento emerge anche nel Sinodo romano del 382 che
definisce la Chiesa romana «prima Petri apostoli sedes».
Nel 418, in piena controversia pelagiana, vengono eletti due papi: l'arcidiacono Eulalio e il presbitero
Bonifacio, consacrati lo stesso giorno, il 29 dicembre. Sostenuto dal prefetto di Roma, Eulalio viene
installato di forza al Laterano. Per ripristinare la legalità, interviene da Ravenna l'imperatore Onorio, che si
schiera dalla parte di Bonifacio. Il vecchio Bonifacio, appena placata la tempesta, chiede all'imperatore di
provvedere affinchè la Chiesa disponga della libertà di mantenere le sue antiche regole. Onorio ordina, con
un rescritto, che «in caso di elezione contestata fra due pretendenti, nessuno di loro sarà vescovo, ma solo
colui che una nuova elezione designerà, sulla base di un consenso unanime».
A metà del v secolo, papa Leone Magno contribuisce in modo decisivo alla definizione dello statuto della
funzione papale. Quando viene eletto, nel 440, egli si trova in Gallia per una missione diplomatica ed è solo
al suo ritorno, il 29 settembre, che egli riceve la consacrazione a vescovo. A lui si deve una riflessione
approfondita sulle prerogative del vescovo di Roma: egli è persuaso che solo Cristo è il vero ed eterno
vescovo della Chiesa. Ma poiché Cristo, quale vescovo eterno, ha concesso a Pietro una partecipazione al
proprio potere episcopale, Pietro presiede sempre la sede di Roma ed è lui che opera ed agisce nei suoi eredi.
Il papa si identifica con Pietro, e quindi può esigere la devozione dovuta a quest'ultimo. Pietro soltanto
ricevette il potere di sciogliere e di legare, e lo trasmise agli altri apostoli; così, i vescovi derivano i poteri del
loro ufficio dal successore di Pietro.
Per la prima volta con Leone il papa interpreta il suo ufficio come responsabile del governo della Chiesa
«universale», concepita come un corpo articolato e gerarchico che converge al capo, la Sedes Petri. Il
Concilio di Calcedonia nel 451 offre l'occasione per far accogliere anche in Oriente la concezione romana
della Sedes Petri in funzione della Chiesa universale: «Pietro ha parlato per Leone» è la celebre
acclamazione di quel Concilio.
Questa dottrina non rimane puramente teorica. Leone fa valere severemente la potestà pontificia contro un
vescovo, Ilario di Arles, che ha travalicato le proprie prerogative nominando un nuovo vescovo in luogo di
quello suffraganeo mortalmente malato: decisione che il papa considera abusiva, poiché tocca solo al papa
l'ufficio di scegliere i vescovi. Questa stessa premura per il primato papale e per
rafforzare la giurisdizione romana è al centro della riforma leoniana del sistema elettorale del papa, che viene
riservata di diritto al clero, su liste redatte dai notabili della città, consultato il popolo.
Malgrado l'obiettivo rafforzamento della struttura gerarchica dell'elezione, si verifica un caso così singolare
come quello di Felice in, un diacono di nobile famiglia romana, che viene eletto papa nel 483, benché figlio
di un sacerdote ed egli stesso sposato e padre di due figli, uno dei quali sarà papa Gregorio Magno. A
smentire un pregiudizio oggi diffuso, questo papa con famiglia non è affatto tenero con il potere civile: anzi,
egli affronta le pretese dell'imperatore Zenone con energia, seguendo una politica di autonomia dell'ordine
spirituale proprio della Chiesa romana, fino ad arrivare alla prima rottura con il patriarca Acacio di
Costantinopoli.
Ormai l'elezione del papa subisce largamente le conseguenze del conflitto tra Roma e Costantinopoli. Nel
498 l'elezione del diacono Simmaco è turbata da gravi incidenti. L'emissario dell'imperatore d'Oriente, il
senatore Festo, compera i voti di alcuni preti riuscendo a far eleggere un concorrente, l'arciprete Lorenzo,
favorevole a una politica conciliante verso Costantinopoli. I due eletti sono consacrati lo stesso giorno:
Simmaco nella basilica costantiniana di San Pietro, Lorenzo in quella liberiana di Santa Maria Maggiore.
Roma è sull'orlo della guerra civile, corre del sangue. L'Impero d'Occidente è franato. I Goti di Teodorico
regnano da Ravenna. I rivali rimettono la disputa al giudizio del re. Sentite le parti in causa, Teodorico decide che è papa chi è stato eletto per primo o chi ha avuto più voti. La pronuncia favorisce dunque Simmaco.
Appena in carica, egli convoca settantadue vescovi a concilio: «vi ho chiamati», dice, «per cercare il modo di
sopprimere le brighe dei vescovi, gli scandali e i tumulti popolari, come quelli provocati durante la mia
elezione». Per la prima volta si arriva alla decisione di proibire di trattare dell'elezione del papa futuro
mentre il predecessore è ancora in vita e all'insaputa di quest'ultimo. Ogni prete, diacono o chierico che, in
queste condizioni, avesse dato o promesso il voto a qualche candidato, sarebbe stato deposto da ogni
funzione. Un altro canone prescrive che se un papa fosse morto senza aver potuto indicare un successore,
come era avvenuto in alcuni casi, «sarà consacrato colui che avrà raccolto i suffragi di tutto il clero o, se c'è
divisione, il maggior numero di voti».
Non si tratta più dunque di raggiungere l'unanimità del consenso, come aveva stabilito l'imperatore Onorio,
ma semplicemente una maggioranza.
Sia la logica del consenso unanime — quasi per acclamazione — sia quella della designazione postulano una
figura di Chiesa impregnata dalla legge della comunione, più che da quella del diritto. Ma ormai la situazione
della Chiesa è così stabilita che nemmeno le designazioni vengono ricevute incondizionatamente: nel 530
Felice iv designa a
succedergli l'arcidiacono Bonifacio, allo scopo di evitare disordini dopo la propria morte. La maggioranza
del clero romano disattende l'indicazione papale ed elegge un ex diacono alessandrino, fedele a Bisanzio, di
nome Dioscoro. La comunità è sull'orlo dello scisma quando, qualche settimana dopo l'elezione, Dioscoro è
colto dalla morte. Per i filobizantini è un segno così terribile che decidono di richiamare in fretta Bonifacio.
Né migliore fortuna arride alla designazione che lo stesso Bonifacio esprime a favore del diacono Vigilio, al
quale il clero romano, orientato dalla corte ostrogota, preferisce Silverio, figlio di papa Ormisda (514523) ed
eletto papa a sua volta nel 536. Ma il destino di Silverio — papa figlio di un papa — si compie in pochi
mesi: l'imperatore che lo ha fatto eleggere non esita a farlo deporre ed esiliare, sotto l'accusa di alto
tradimento, per aver consigliato i Romani di consegnare la città ai Bizantini incombenti. L'imperatrice
Teodora riesce a portare al papato Vigilio, mentre papa Silverio è abbandonato nell'isola di Ponza, dove
muore in poche settimane. Gli intrighi di Vigilio sembrano così vittoriosi. Ma è per poco: per vincere le
resistenze dei vescovi, contrari all'eresia monofisita, Giustiniano gioca la carta del rapimento del papa, che
costringe ad imbarcarsi per Costantinopoli. Sono otto anni di umiliazioni per un papa costretto a subire gli
intrighi della corte, e a firmare infine, da prigioniero, il documento imperiale che i vescovi si erano rifiutati
di accettare. Si riunisce un sinodo di vescovi africani che approvano la decisione di scomunicare il papa, il
quale muore in viaggio, nel 555, mentre ritorna a Roma moralmente distrutto.
Qualunque sistema elettorale si rivela in realtà penetrabile quando la Chiesa è in balìa del potere politico
dominante. Fossero i Bizantini o le monarchie ostrogota prima, e longobarda poi, i brevi pontificati del vi
secolo, da Vigilio a Pelagio n testimoniano la debolezza interiore della cristianità. La scelta del vescovo di
Roma riesce di rado a sottrarsi alle interferenze e all'intrigo. I sovrani goti reclamano il diritto di confermare
l'elezione papale, e lo stesso principio viene sancito in Oriente da Giustiniano, che introduce con la
Pragmatica sanctio l'istituto della conferma imperiale dell'eletto.
Ci vorrà il genio di Ildebrando cinque secoli dopo per spezzare questa gabbia politica. L'effetto immediato
della norma imperiale è che l'elezione compiuta dal clero romano non è esecutiva se manca della conferma
politica, e che di conseguenza l'eletto non può ricevere la consacrazione episcopale senza il gradimento del
potere imperiale.
A causa di questo sistema di dipendenza la durata della sede vacante si prolunga. Gli inviati pontifici o le
commissioni imperiali fanno la spola tra le capitali dell'Impero, la burocrazia bizantina si mescola agli
intrighi di corte, per cui passano sei o dieci mesi prima che il papa eletto possa assumere il governo della
Chiesa che gli compete. Né la tutela imperiale riesce minimamente a contenere i disordini, gli sci
smi e gli antipapi: parrebbe difficile in tali circostanze proporre in modo credibile l'argomento addotto di
consueto al fine di legittimare l'ingerenza del potere politico e screditare il principio opposto della
partecipazione popolare al processo elettorale nella Chiesa romana.
L'elezione di Severino, nel 640, è agitata assai più per le intrusioni dell'imperatore Eraclio che per le passioni
popolari: questo papa deve aspettare otto mesi l'approvazione imperiale per essere incoronato, mentre regna
soltanto sessantasei giorni. Ordinato il 28 maggio, muore P8 agosto 640. Non mancano eccezioni a questo
influsso politico, dovute a papi come Pelagio n, nel 579, o Martino i nel 649, i quali sfidano le pretese della
corte bizantina e non attendono la ratifica di Costantinopoli. Nel 533 la subalternità dell'elezione papale agli
interessi goti è tale che un decreto di Atalarico tenta di introdurre elementi di moralizzazione nel sistema
elettorale, vietando l'impiego di danaro per procacciare il consenso ai candidati. Il re conferma peraltro la
riserva della conferma dell'elezione e al presbitero Mercurio, eletto grazie al suo appoggio, non resta altra
libertà che quella di procedere ad una innovazione che farà storia: forse perché ritiene il proprio nome troppo
«pagano», decide di chiamarsi Giovanni n e di annunciare questo nuovo nome nell'atto della consacrazione.
Tuttavia non è solo di questi gesti simbolici che il papato ha bisogno per affermare la propria alterità nei
confronti del potere politico. Le innovazioni più consistenti sono realizzate da due giganti della storia della
Chiesa, Gregorio Magno e Martino i. Lo stile di Gregorio, papa dal 590 al 604, è illuminato da un
rovesciamento radicale della figura petrina, concepita da lui sulle misure del servizio e della sconfinata
debolezza politica piuttosto che su quelle della potenza. Egli comprende la funzione papale come quella di
un reale servus servorum Dei, dedicato al servizio dei più poveri e all'annuncio universale della fede cristiana
a tutte le genti. Per questo egli fonda il primato della sede di Pietro sulla diaconia e sulla koinonia, fino a
combattere le pretese di Giovanni di Costantinopoli, da lui accusato di essere «l'anticristo» perché si
comporta da vescovo universale. Questo monaco, che manda in Inghilterra Agostino e altri seguaci di
Benedetto, non teme di vuotare le casse papali pur di soccorrere Roma affamata, e si sente afflitto
dall'ambiguità politicoreligiosa ormai depositata nella funzione pontificia, che con lui diventa di fatto arbitra
anche politica dell'Europa: «Eccomi in mezzo ai flutti del mare», scrive, non molto tempo dopo l'elezione.
«La tempesta minaccia di inghiottirmi. I tempi sono tristissimi, i campi desolati e deserti, le città disabitate. Il
Senato è spento, il popolo non esiste più. Sono oppresso da tante tribolazioni che non ho tempo né di leggere
né di scrivere. Non so più se ora adempio l'ufficio di pastore o di prìncipe temporale. Devo occuparmi della
difesa, pensare a tutto: sono diventato persino pagatore delle milizie.»
Quanto a papa Martino, un toscano dalla tempra ferrea, in trono dal 649 al 655, egli non trova di meglio per
resistere alle pressioni politiche di Costante u, che rimettere in funzione i meccanismi comunitari da tempo
inattivi nella Chiesa. Perciò egli convoca un Concilio in Laterano poco dopo l'elezione e fa impugnare dai
vescovi presenti il Typus, il documento con cui l'imperatore bizantino ha cercato di imbavagliare la libertà
del papato e di legittimare l'ingerenza imperiale negli affari religiosi, e non solo politici, della Chiesa
romana. La risposta di Costante è durissima: fa arrestare il papa, lo fa trascinare in catene a Costantinopoli,
dove Martino viene incarcerato, tradotto in ferri per le vie della città, denudato di ogni abito, inclusa
l'insegna del suo ministero, il pallio, e infine deportato in Crimea, dove muore. Intanto, lui ancora vivente, si
elegge a Roma il nuovo papa, Eugenio i, docile alle pressioni dei bizantini al punto di sollevare l'insurrezione
del clero e del popolo romano.
Per l'elezione di molti papi lungo il VII secolo, il fattore che ormai conta maggiormente è la forza politica,
talora anche militare, di cui può disporre uno o l'altro candidato. La carica papale è oggetto di appetiti
materiali e di carrierismi, l'arcidiacono Pasquale assicura cento libbre d'oro a chi gli procuri l'elezione, ancor
vivo papa Conone, un siciliano messo in trono nel 686 per evitare una strage fra le fazioni. I pontificati
durano pochissimo, uno, tre anni, e anche meno: venti giorni Sisinnio nel 708, altrettanti Teodoro n neh"
897, 4 mesi l'inglese del Galles Romano lo stesso anno, 6 mesi Severino nel 640, 24 giorni Damaso n nel
1048, un mese Leone v nel 903.
Gregorio n, eletto nel 715, tenta di ridurre l'influenza bizantina sulle elezioni papali difendendo Roma dagli
eserciti dell'esarca venuti a deporlo per far eleggere un nuovo papa. Al fine di garantire una certa base
materiale per la propria indipendenza, questo papa accetta dal re longobardo Liutprando la «Donazione di
Sutri» divenuta famigerata come primo possesso territoriale del pontefice romano. In essa gli storici vedono
l'inizio del vero «potere temporale» della Chiesa romana.
Malgrado ciò, il suo successore, Gregorio in torna a invocare la conferma imperiale.
Sotto Stefano iv la lotta delle fazioni fa precipitare il papato nella storia del crimine, sullo sfondo della crisi
del dominio longobardo in Italia mentre preme il nuovo soggetto politico rappresentato dal re dei Franchi
Carlo Magno.
Paradossalmente è questo papa pavido e intrigante che, dopo aver assistito senza reagire ad una serie di
assassinii politici, tenta di introdurre qualche elemento di moralizzazione nel sistema elettorale: in un decreto
sinodale del 769 egli estromette i laici dall'elezione, riservandola solo agli ecclesiastici. In tal modo però egli
modifica in un punto decisivo la struttura originaria dell'elezione, che includeva il popolo romano (e i suoi
rappresentanti) tra gli attori, titolari del diritto elettorale per il vescovo di Roma.
Verso la Reichskirche.
Con il Sacro Romano Impero l'ingerenza del potere politico si sviluppa sotto forme generalmente meno
rozze e più statutarie, ma appunto per questo più penetranti di quelle adottate dalle corti orientali. Si deve
constatare che, dal punto di vista delle dichiarazioni di principio, Carlo Magno rifiuta di rivendicare il
privilegio di intromettersi nel processo elettorale pontificio. Ma nell'824 l'intervento dell'imperatore
nell'elezione diventa addirittura formale. L'elezione di Eugenio n non è che il prodotto vincente di uno
scontro tra i fautori dell'indipendenza papale e quelli del compromesso con la corte dei Franchi, dalla quale
Eugenio è sostenuto. Lotario si precipita a Roma e stabilisce con Eugenio una Costituzione che, pur
concedendo che «nulla farà ostacolo all'elezione del pontefice», fissa alcune clausole di subalternità del
papato nei confronti della monarchia carolingia: la presenza degli ambasciatori imperiali all'ordinazione del
papa è obbligatoria ad validitatem, i candidati all'elezione non potranno essere scelti tra «liberi» o «servi»
ma unicamente tra i nobili, il diritto elettorale attivo torna ad essere riservato esclusivamente ai romani, come
in antico, e il papa neoeletto sarà obbligato a prestare il giuramento di fedeltà ai re franchi. In sostanza, la
legge del 769, che riservava l'elezione agli ecclesiastici, viene annullata.
L'elezione papale si secolarizza ulteriormente, a causa di queste misure. Le interferenze delle grandi famiglie
romane si fanno esorbitanti, e questo sistema non è che il riflesso di una generale compenetrazione tra potere
politico, potere economico e potere religioso all'interno della generale struttura feudale.
La commistione produce la diffusione della simonia per l'acquisto delle cariche ecclesiastiche, la suprema
inclusa. In un panorama di decadenza e di abusi gravissimi, spiccano come eccezionali gli esempi di rigore
dati da Niccolo i, che si nasconde in San Pietro per sventare l'elezione di cui si considera indegno, e di
Adriano n che nell'867 tenta di difendere l'elezione dalle intrusioni politiche sancendo che «all'imperatore
tocca l'approvazione, non l'elezione del papa».
Nell'884, il romano Adriano m — papa per soli 15 mesi — ha un soprassalto di senso della propria
indipendenza quando stabilisce che il papa eletto sarà consacrato liberamente, senza l'intervento degli ambasciatori imperiali. Non passano 15 anni e la norma viene accantonata. Giovanni ix sembra sedotto dall'idea di
costituire un impero italiano e, nel sinodo dell'898, stabilisce che «per impedire il ritorno di simili disordini,
l'elezione del papa in avvenire sarà fatta dai vescovi (cardinali) e dal clero (romano), alla presenza del senato
e del popolo, ma la sua consacrazione non potrà esser fatta che alla presenza dei deputati dell'imperatore, che
cureranno di mantenerne la libertà».
La chiamata del potere politico viene legittimata dunque con l'argomento che il suo ruolo è necessario per
l'ordine pubblico e per liberare il processo elettorale dagli abusi più scandalosi, ma non emerge
ancora nella Chiesa una consapevolezza sufficiente che, in questo modo, le cause della degenerazione
romana non vengono affrontate e che, anzi, il papato aumenta la sua esposizione all'interferenza del dominio
imperiale, con tutti i danni conseguenti.
In effetti, la cattedra papale precipita nel secolo che gli storici bolleranno come «buio» in mano a gente senza
scrupoli, emissari delle fazioni in lotta: un papa come Formoso suscita un odio tale per le sue scelte
filogermaniche che, nell'896 subito dopo essere morto, forse di veleno, viene dissepolto e trasportato
cadavere ad un Concilio, nel quale vengono dichiarati nulli tutti gli atti da lui fatti, incluse le ordinazioni
sacerdotali. Preti e popolo si rivoltano allora contro il successore, Stefano vi, lo catturano e lo strangolano,
dopo nemmeno un anno di regno, nell'agosto dell'897.
Non meno violenta la fine di Leone v, spodestato e forse assassinato nel luglio 903 ad appena un mese
dall'elezione. Il suo successore, l'aristocratico vescovo di Cere Sergio, viene eletto addirittura due volte: una
nell'897, dopo i venti giorni del papatolampo di Teodoro n, l'altra dopo un esilio di sette anni, quando la sua
fazione lo riporta a Roma. Assetato di vendetta, egli occupa il palazzo e il trono papale, elimina gli ultimi
rivali e apre la scena papale alle gesta eroticopolitiche della famigerata Marozia, divenuta arbitra
dell'elezione di non pochi papi nel primo trentennio del x secolo. Lo storico tedesco Gregorovius annota: «La
storia dei papi nella quale, come in un chiostro o in un tempio, dovrebbero entrare solamente sante donne,
riceve a causa di queste femmine intriganti e procaci un'impronta nettamente profana».
Eletto papa per le manovre di Marozia, il vescovo di Bologna Giovanni x viene cacciato in prigione nel 928
e muore soffocato fra due cuscini dai sicari della donna, alla quale aveva tentato di opporsi. La regista
occulta di elezioni e deposizioni papali è anche la burattinaia dell'elezione di Stefano VII nel 929. Due anni
dopo fa mettere in trono col nome di Giovanni xi il figlio da lei avuto, secondo una leggenda, da papa Sergio
ni. È veramente troppo per la pazienza dei romani e per lo stesso figlio di Marozia, Alberigo. Ribellatosi alla
madre egli la fa rinchiudere a Castel Sant'Angelo, restando padrone assoluto delle sorti papali. È lui infatti a
designare i papi seguenti, Leone VII, Stefano vin e Marino IL
Prima di morire, nel 954, scongiura gli elettori romani di mettere in trono suo figlio, Ottaviano. Costui ha 18
anni, ed è già senatore e principe della famiglia reale, un passato di gaudente: nel 955 viene eletto papa,
secondo promessa dinastica, e prende il nome di Giovanni XII.
Con lui, la subalternità verso il dominio dei re tedeschi, interessati al controllo dell'Italia, raggiunge una tale
soglia di integrazione che
il papato diventa una sorta di Reichskirche annessa all'impero e i vescovi si riducono a vassalli del regno. Nel
963 Ottone, sul quale il papa ha posto la corona di re d'Italia, esige a Roma che i nobili e il clero facciano
formale atto di sottomissione, così reprimendo sul nascere il timido tentativo papale di sganciarsi
dall'imperatore. Di più, Ottone arriva a deporre il papa «traditore» e fa eleggere nel 964 il proprio segretario,
un semplice laico, che rapidamente viene ordinato prete, vescovo e consacrato papa in San Pietro da Ottone
in persona, col nome di Leone vm. La sua legittimità è fortemente in dubbio, tanto che leggiamo
nell'Annuario Pontificio: «Se Leone vm fu papa legittimo, Benedetto v, che fu deposto in altro sinodo tenuto
al Laterano da Leone vm e dall'imperatore Ottone i nel 964, è antipapa».
Non si può più parlare, nemmeno per retorico ossequio al principio, di «libere elezioni». Già cancelliere
dell'Impero e vescovo di Pavia, Giovanni xiv è messo in trono da Ottone n, e finisce assassinato a Castel
Sant'Angelo nel 984 dopo torture d'ogni genere, per mano dell'antipapa Bonifacio VII. Nel 996 è la volta di
Brunone di Carinzia, cugino di Ottone ni, ad essere eletto papa a soli 24 anni, col nome di Gregorio v. Il
papato è una questione che si gioca, alternativamente, tra imperatori tedeschi e famiglie patrizie romane, i
Crescenzi o i Tuscolo, con ogni mezzo possibile, incluso il danaro e il pugnale. Corrono soldi anche per far
abdicare un papa, Benedetto ix, non ancora ventenne. La sua lussuria è così sfrenata da esasperare gli
elettori, per quanto siano stati prezzolati, e da convincerli a cacciarlo, anche con l'aiuto di una rivolta
popolare. Ma l'indegno riesce a rientrare a Roma e, in capo a tre mesi, arriva a vendere il pontificato
all'arciprete Giovanni Graziano, papa col nome di Gregorio vi nel 1045.
I venti di riforma che spirano dal movimento di Cluny lambiscono appena la Roma papale. Nel 1047
l'imperatore Enrico ni presiede formalmente a Roma un sinodo lateranense che ha per tema la condanna della
simonia. Nessuna meraviglia che il sassone Clemente n, dei signori di Morsleben e Hornburg, incoronato
l'imperatore di Germania, stabilisca nel 1047 che non solo la consacrazione ma la stessa elezione dei papi si
debba fare alla presenza dell'imperatore, dunque non più a Roma tassativamente, ma nella residenza imperiale.
L'obbligo per il clero romano di attenersi alle disposizioni del sovrano viene formalizzato in un istituto, la
Designazione imperiale. Con essa la Chiesa accetta di rimettere la propria scelta elettorale alla discrezione
del potere politico dominante. Dal sangue dei martiri alle brighe elettorali, dalla «designazione» carismatica
dei primi papi alla designazione da parte della corte imperiale: la parabola del papato nel primo millennio
approda ad una secolarizzazione pesante del ministero del vescovo di Roma, ora quasi completamente in
balìa degli interessi politici ed economici dei più forti. «La cupidigia domina
tutti e li fa schiavi», scrive esasperato San Pier Damiano nel Gomorrianus. «Il mondo presente non è che una
fogna di invidie e di laidezze. Se le guide vengono a cadere, se la condotta dei preti è più perniciosa di quella
dei laici, facilmente e fatalmente chi le seguirà cadrà dietro a loro.»
Alla morte del tedesco Clemente n, nell'ottobre 1047, il clero romano è costretto a mandare suoi emissari ad
Enrico in per riceverne la designazione: l'imperatore scarta una loro proposta e designa il vescovo di
Bressanone, Poppone, nativo della Baviera, che regna per soli venti giorni col nome di Damaso n, dal 17
luglio al 9 agosto 1048.
La catena della dipendenza si spezza proprio in un anello che sembrava infrangibile, quel monaco Brunone,
vescovo di Toul, dei conti di Nordgau, che l'imperatore designa a Worms come successore del fulmineo
Damaso, su consiglio di un altro monaco, Ildebrando di Soana, il cui genio riformatore aleggia nella Chiesa
in questo inizio del millennio.
Brunone non accetta la designazione se prima non verrà accolto il principio che essa sia approvata dal clero e
dal popolo di Roma: «Si audiret totius cleriac romanipopuli consensum». Egli non si precipita perciò a
Roma, aspetta di festeggiare il Natale del 1048 nella sua chiesa di Toul e solo dopo, vestito da semplice
pellegrino, a piedi, si mette in viaggio per Roma, accompagnato dal fedele Ildebrando. «Sarei felice di
ripartire se la mia elezione non fosse approvata dal vostro consenso unanime», dice al clero romano riunito.
L'inizio della riforma del clero di Roma coincide con la restaurazione del principio antico della libera
elezione del papa da parte del clero e del popolo romani. Solo dopo che si è verificata questa condizione
Brunone accetta e prende il nome di Leone ix: il primo dei papi che avrebbero portato a Roma il movimento
di riforma, convocando altri Concili nei quali egli sostiene la condanna della simonia e vara una serie di
misure per il rinnovamento del personale addetto al governo della Chiesa romana.
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CAPITOLO II.
L'elezione con i cardinali.
Per sottrarre l'elezione papale all'interferenza laica tanto delle famiglie romane che dell'imperatore,
Ildebrando non vede altro mezzo che quello di potenziare il ruolo dei dignitari del clero romano, di coloro
cioè che da qualche tempo sono chiamati «cardinali». Costoro assistono in diverso grado il vescovo di Roma
nelle funzioni essenzialmente liturgiche, distinti in vari ordini di vescovi, preti e diaconi. Da queste
prerogative privilegiate essi derivano la loro posizione di particolare prestigio all'interno della Chiesa
romana. È con la riforma impostata da Ildebrando che il cardinalato viene ad acquisire un ruolo significativo
per il governo della Chiesa universale e, in particolare, per la partecipazione qualificata all'elezione del
vescovo di Roma.
Ildebrando raggiunge l'obiettivo in modo graduale. Anzitutto riesce a strappare ad Enrico ni la facoltà di
designare, vice cleri populique romani, il candidato che sarà poi proposto all'elezione canonica a Roma e
sarà papa col nome di Vittore n, nel 1055. C'è anzi ancora spazio per la partecipazione popolare nel processo
elettorale, che porta in cattedra nel 1057 un altro monaco riformatore, Stefano ix, tedesco di origine. Di più,
per l'elezione di Gerardo della Borgogna, cui i cardinali provvedono a Siena alla fine del 1058, Ildebrando
esige che si interpelli esplicitamente il popolo a Roma, per la conferma. E questo benché si tratti del suo
stesso candidato.
Niccolo II (10591061).
L'eletto assume il nome di Niccolo n. Egli procede alla riforma strutturale del sistema, influenzato sia da
Ildebrando sia dalle visioni di uno dei più intransigenti assertori del primato romano, il cardinale Umberto da
Silvacandida. Sullo sfondo della rottura ormai consumatasi tra il Patriarcato di Costantinopoli e la Chiesa
romana, emerge una prospettiva teorica che, sottovalutando i patriarcati di origine apostolica, e per lo più
situati in Oriente, tende ad esaltare il collegio cardinalizio come erede e continuatore privilegiato del collegio
degli apostoli, nel ruolo di organica collaborazione con il successore di Pietro. La stessa Chiesa romana
viene collocata in una posizione ecclesiologicamente superiore rispetto alla Chiesa universale, come caput
Ecclesiae.
Nel 1059 Niccolo n legge al Sinodo romano il decreto In nomine Domini col quale il sistema elettorale
papale viene rifondato radicalmente. Il documento richiama anzitutto gli abusi e i disordini verificatisi nelle
precedenti elezioni, quindi stabilisce una serie rigorosa di misure mediante le quali si dovrà procedere
all'elezione del vescovo di Roma, per prescrivere, infine, la disciplina da seguire nella consacrazione
episcopale dell'eletto e le pene per i contravventori.
Il modello adottato da Niccolo n, destinato a orientare sostanzialmente il sistema elettorale supremo fino ai
nostri giorni, è decisamente aristocratico, perdendo quegli aspetti di partecipazione popolare che Ildebrando
ha pur tentato di preservare e recuperare nell'introdurre i primi svincoli dal giogo imperiale. Il primo
obiettivo da conseguire è l'indipendenza degli elettori e la riforma non trova per questo soluzione migliore
che quella di restringere la composizione del corpo elettorale.
D'ora in poi solo i cardinalivescovi romani potranno trattare della scelta del nuovo vescovo di Roma, alla
quale solo subordinatamente e successivamente accedono gli altri cardinali romani, il clero e il popolo. La
speciale competenza dei cardinali romani (e tra loro, solo dei vescovicardinali, secondo la redazione papale
del decreto) è confermata anche nel caso in cui l'elezione dovesse tenersi fuori Roma per cause di forza
maggiore. Il consenso del clero inferiore e del popolo non è considerato determinante. A decidere sono
unicamente i voti dei cardinali vescovi: «praeduces sint in promovendapontificis electione, relìqui autem
sequaces» (a promuovere l'elezione del pontefice siano i dirigenti, gli altri vengano dopo). Cade anche la
condizione dell'appartenenza dei candidati alla Chiesa di Roma: «se Roma presenta candidati degni e capaci,
converrà scegliere di preferenza il papa fra loro. Ma se non è così, che lo si scelga nel personale della Chiesa
tutta intera».
Secondo lo storico Giuseppe Alberigo, l'intero decreto In nomine Domini «si iscrive in un sistematico
processo di costruzione di un nuovo assetto del vertice della Chiesa universale». La dottrina che si esprime in
questa innovazione rappresenta «la chiave di volta dell'ecclesiologia destinata a dominare i secoli successivi,
nella quale il collegio cardinalizio è chiamato a svolgere un ruolo determinante».
Sembra così concludersi l'epoca della Reichskirche iniziata la notte di Natale dell'800 quando Leone in aveva
incoronato imperatore in San Pietro Carlo Magno, l'uomo che nel papa non vedeva altro che il primo
vescovo e considerava se stesso quale Signore della Chiesa. Poco prima dell'incoronazione egli aveva
ricevuto le chiavi di Gerusalemme a nome del Patriarca romano orientale. La via che la Chiesa prende è
quella di una prigioniera in catene, la via profana della do
nazione di Costantino (intorno ali'816), che implica il rovesciamento dell'originaria prospettiva comunionale
della Chiesa e della sua articolazione plurale. La sede episcopale di Roma — che un arcivescovo come il
futuro papa Silvestro n aveva dichiarato per primo sede dell'anticristo — viene ormai considerata funzionale
al comando della Chiesa universale. La prospettiva gerarchica che si impone legittima la possibilità che al
suo vertice sia destinato non più solo un membro della Chiesa romana, ma anche altri che non vi
appartengono.
Quanto alle questioni della correttezza elettorale e dell'ordine pubblico, nonché di «artifici di uomini
perversi» contro l'eletto, il decreto dispone che non sarà necessario aspettarne la consacrazione per la validità
della sua elezione: l'eletto potrà esercitare immediatamente e di pieno diritto il proprio potere universale
senza bisogno di alcuna intronizzazione né materiale né simbolica. Ciò è evidentemente rivolto a rendere
prive di efficacia sia l'eventuale rivolta sobillata dalle fazioni soccombenti sia l'eventuale valore assegnato
all'approvazione imperiale. All'imperatore viene riconosciuto ora soltanto un generico diritto di
considerazione e di rispetto: viene perciò abrogato il diritto di designazione conferitogli nel Concilio di Sutri.
Le vicende politicoreligiose dopo il 1059 sono segnate dai ripetuti tentativi imperiali di screditare la
normativa elettorale appena varata. Per quasi un secolo Roma precipita in un orrore terribile e sanguinoso.
Enrico iv rivendica il diritto di investitura degli abati, dei vescovi, dello stesso papato, ben consapevole che il
diritto di nominare il papa o di determinarne l'elezione costituisce la chiave di volta dell'intera architettura
teorica e politica dell'egemonia imperiale.
Contro il riformatore Anselmo da Baggio, eletto col nome di Alessandro II (10611073) secondo le norme
nuove, la corte lancia un antipapa, Cadalo di Parma. È il primo di una serie di cinque antipapi imperiali che
segnano l'acuirsi dello scontro sulla libertas Ecclesiae lungo circa mezzo secolo, una lotta sostenuta con
vigore da Ildebrando.
Gregorio VII (10731085).
L'infrazione forse più paradossale si consuma precisamente con l'elezione di Ildebrando, ormai considerato la
figura centrale del governo ecclesiastico: contro le norme del decreto di Niccolo, da lui stesso ispirate, il
monaco di Soana è eletto tumultuariamente nel 1073 nel corso delle esequie di Alessandro n. Quando il
corteo funebre arriva alla chiesa di San Pietro in Vincoli, parte dalla gente un'acclamazione per Ildebrando,
sotto la regia demagogica del cardinale Ugo il Candido. Il monaco, che era già riuscito a sventare in passato
l'elezione, questa volta deve accettare: viene intronizzato seduta stante, nella stessa chiesa, e assume il nome
di Gregorio VII.
«Come insensati si sono gettati su di me, senza darmi il modo di
parlare o di riflettere», dice nel discorso di accettazione. La sua rivendicazione del primato pontificio
fornisce, nel Dictatuspapae, la piattaforma di un processo di accentramento assoluto del potere ecclesiastico
nelle mani del romano pontefice, come risposta possibile alle pretese parimenti universali del potere
imperiale.
Totalmente assorbita dal compito di restaurare il potere papale, liberandolo dai ceppi imperiali, egli non
sembra tenere in considerazione gli ammaestramenti rivoltigli da Pier Damiano, nell'opuscolo De
Quadragesima, a proposito del carattere pellegrinante della Chiesa e del carattere provvisorio delle
istituzioni ecclesiastiche, in riflesso dell'esodo degli Ebrei dall'Egitto. Gregorio VII non sembra sensibile ai
moniti di quanti, nel secolo buio, sono persuasi che è vano cercare di liberarsi dall'autorità profana con mezzi
profani.
Infatti anche questa strategia assolutistica e verticistica si dimostra solo in parte idonea a rimediare ai pericoli
che avrebbe voluto scongiurare. Così avviene che anche sotto Gregorio VII la dialettica non risolta tra potere
politico e potere spirituale non cessa di generare altri antipapi e logorare a tal punto il trono di Ildebrando da
costringerlo a rifugiarsi a Salerno, in esilio, dove muore nel 1065.
San Ber nardo, il papato e la scalata dei cardinali.
In effetti, è il partito imperiale che cavalca la nuova legislazione elettorale per isolare la politica papale,
raccogliendo intorno ai critici un Concilio antigregoriano, convocato a Bressanone nel giugno 1080 per
eleggere l'antipapa Clemente m. La riforma sembra ritorcersi contro il suo inventore, scontando l'abbandono
del duplice riferimento tradizionale alla consacrazione episcopale e al legame con una concreta comunità
ecclesiale particolare come altrettante condizioni per legittimare l'elezione alla guida del papato romano. E
poiché il diritto elettorale attivo dei cardinali assume come supporto teorico la loro appartenenza al corpo
degli assistenti diretti del papa nel governo della Chiesa universale, più che le loro concrete funzioni ministeriali nella Chiesa romana in quanto vescovi, preti e diaconi, è naturale che il privilegio elettorale si allarghi
successivamente dai vescovicardinali ai preti e ai diaconi cardinali. Il collegio cardinalizio si ridefinisce
mediante questi aggiustamenti come un corpo unitario, la cui funzione specifica prescinde dalle originarie
funzioni liturgiche dei suoi membri per valorizzarsi nei compiti di governo della Chiesa universale accanto al
romano pontefice.
Nel 1088 viene eletto papa Ottone di Lagéry, discepolo del fondatore dei certosini Brunone e monaco a sua
volta a Cluny. È Gregorio VII che lo ha portato a Roma come proprio consigliere. Alla votazione partecipano
quaranta cardinali, un numero inconsuetamente elevato per l'epoca, e assistono anche i rappresentanti
dell'imperatore Enrico iv e i legati di Matilde di Canossa. Uno dei primi atti di Urbano n
è di convocare a Roma l'arcivescovo di Reims Rainaldo, perché si presenti al cospetto del pontefice, come
aveva promesso durante la sede vacante allorché aveva ricevuto il pallio arcivescovile dai cardinali: Urbano
n non delegittima le prerogative dei cardinali, ma riafferma la propria autorità rispetto ai loro poteri in sede
vacante. La prassi vigente in Occidente richiede infatti che gli arcivescovi, dopo esser stati eletti secondo le
modalità locali, si presentino al papa a riceverne il pallio, simbolo della loro potestà.
L'iniziativa di Urbano n si allarga ad altri interventi, intesi a rafforzare l'autorità del collegio cardinalizio. Lo
sfondo è determinato dalla generale riorganizzazione della Curia romana, prodotta dalla centralizzazione
crescente della Chiesa. Si delinea la tendenza di sovrimprimere il rapporto aristocratico papacardinali a
quello papasinodo romano: a pronunciare la condanna di Abelardo nel 1141 non è il Sinodo episcopale bensì
il Concistoro dei cardinali. Eppure, la competenza in materia dogmatica era riservata tradizionalmente ai
Sinodi episcopali.
Nel 1148 sono gli stessi cardinali a rivendicare, in una vibrata protesta a Eugenio m, le proprie prerogative in
cause maggiori, come titolari del diritto esclusivo di partecipare al potere delle chiavi. Essi contestano la
legittimità dell'intervento del Sinodo della Chiesa francese in merito ad un processo sull'ortodossia di
Gilberto Porretano, vescovo di Poitiers. Basandosi su una piattaforma teorica elaborata principalmente da
Bernardo di Chiaravalle, i firmatari denunciano l'interferenza come lesiva del primato stesso della Sede
romana: «a nessuno venga il dubbio», scrive San Bernardo ai cardinali vescovi della Chiesa romana nel
1140, «che a voi spetta in modo speciale togliere gli scandali dal regno di Dio, recidere le spine emergenti,
sedare le dispute». E in un altro scritto: «Dio vi pose in sublimità per questo, che viviate per l'utilità
maggiore della sua Chiesa tanto quanto in essa siete dotati di più eminente autorità». In una lettera a Eugenio
in nel 1146 Bernardo adotta la metafora del capo e degli occhi per simboleggiare il rapporto tra il papa e i
cardinali: «non sono essi i tuoi occhi?». E nel De consideratione (1150) egli definisce i cardinali come
coloro «che ti assistono ogni giorno, seniori del popolo, giudici dell'orbe».
Il tutto è accompagnato da sollecitazioni all'umiltà della funzione stessa del papa:
Che importa se tu sei il sommo pontefice? Forse perché sei tale, saresti per questo perfetto? Sappi di essere l'ultimo degli uomini se
credi di essere il primo [...]. Chi è veramente perfetto? Sbagli se ti credi tale. Dio non voglia che tu pensi così!
Il papa dovrà ascoltare le voci del popolo di Dio, discernerle ed essere pronto a rispondere, altrimenti la sua
autorità diverrebbe dominio:
Questa è la regola degli apostoli: il dominio è loro interdetto, viene loro ordinato il servizio che lo stesso Legislatore conferma con il
suo esempio quando dice: anch'io sto in mezzo a voi come uno che serve {De Consideratione, 4,11 e 6,14).
IL UUNCLAVb
Con Celestino n, che dura in trono appena cinque mesi nel 1144, diventa normale che i cardinali
sottoscrivano tutti gli atti di governo di una certa importanza.
Licet de vitanda (1179).: la regola dei due terzi.
Una tappa della scalata dei cardinali alla posizione di superiorità rispetto ai vescovi si compie sotto
Alessandro m nel 1179 quando il Concilio HI del Laterano approva la costituzione Licet de vitanda.
Con l'accordo di Venezia del 1177 i laceranti dissensi e il conflitto ventennale tra Alessandro m e
l'imperatore Federico hanno avuto termine. Morto nel 1159 papa Adriano iv, i cardinali hanno eletto
contemporaneamente due papi: il senese Rolando, che aveva preso il nome di Alessandro, e il romano
Ottaviano, il quale, avendo ricevuto i voti di un minor numero di cardinali ma godendo del favore di
Federico, aveva usurpato la qualifica pontificia. L'imperatore da parte sua, onde rimuovere tutto ciò che gli
era ostile in Italia, aveva mosso guerra alle città italiane, e soprattutto alla Chiesa romana che — a lungo
perseguitata nella sua autonomia — godeva di grande autorità. Ne era scaturito uno scisma e dopo Ottaviano,
che aveva preso il nome di Vittore iv (11591168), due altri papi erano stati eletti contro Alessandro, cioè
Pasquale ni (11641168) e Callisto ni (11681178). Infine però Alessandro aveva avuto la meglio e a Venezia
aveva promesso all'imperatore di convocare un Concilio universale.
Il Concilio ha lo scopo di mettere fine allo scisma interno alla Chiesa e alla discordia fra sacerdozio e regno.
Celebrato a Roma nel 1179, con la partecipazione di circa trecento padri dall'Europa, alcuni dall'Oriente
latino e un solo legato della Chiesa greca, esso è presieduto dal pontefice romano.
Date le ferite dello scisma, è ovvio che il problema principale nella sua agenda sia quello del sistema
elettorale del papa. A tale scopo viene approvata, tra i vari canoni riformistici, la costituzione Licet de
vitanda che «per evitare discordie nell'elezione del Sommo Pontefice», introduce vari correttivi al sistema
vigente, fissando per la prima volta la regola dei due terzi dei voti per l'elezione pontificia e la riserva dei
cardinali. Eccone il testo:
Stabiliamo che, poiché il nemico non cessa di seminare zizzania, se non vi è l'unanimità tra i cardinali per la scelta del pontefice e,
pur concordando i due terzi, l'altro terzo non intende accordarsi o presume di eleggere un altro, sia considerato Romano Pontefice
quello che è stato eletto e riconosciuto dai due terzi.
Se qualcuno, basandosi sulla nomina del restante terzo, poiché la cosa gli sfugge, si arrogasse il titolo di vescovo, sia lui che quelli
che lo riconoscessero siano scomunicati e puniti con l'esclusione da tutti gli ordini sacri.
[...] Inoltre chi fosse stato eletto all'ufficio apostolico con un numero inferiore ai due terzi non sia in nessun modo accettato, a meno
che non si verifichi una maggior convergenza di voti; ed egli sia soggetto alla pena predetta qualora non volesse umilmente ritirarsi.
Ciò senza alcun pregiudizio per le costituzioni canoniche e ecclesiastiche, secondo le quali deve prevalere la sentenza della
maggioranza, poiché i dubbi che sorgessero potranno essere sottoposti al giudizio dell'autorità superiore. Nella Chiesa romana invece
vi è una situazione particolare, in quanto non può esservi ricorso a un superiore.
È la prima volta che la normativa sull'elezione papale viene riformata da un Concilio Ecumenico. Essa colma
una lacuna evidente del dispositivo di Niccolo II e assicura una assoluta parità di voto all'interno del collegio
nel quale i vescovi formano ormai effettivamente una ridotta minoranza, insufficiente a costituire il quorum
per l'elezione.
L'obiettivo di Alessandro in è di ridurre il pericolo di antipapi in serie, di elezioni sul filo del rasoio, le cui
divisioni si riproducano immediatamente in scismi generali.
Tuttavia non sembra che le nuove regole elettorali siano abbastanza incisive, nel ridurre le tensioni fra gli
elettori e i loro supporters romani, se Lucio in può arrivare a Roma soltanto due mesi dopo l'elezione nel
1181 per ripartirne in tutta fretta onde evitare di essere assassinato; e se nel 1187 il beneventano Gregorio vm
non può mettere piede a Roma nemmeno una volta, ossessionato per i soli due mesi del suo regno dall'idea
d'una crociata per strappare Gerusalemme dalle mani del pio e generoso condottiero arabo Saladino.
La tendenza emersa già sotto Alessandro ni è ormai dominante: si ambisce ad assurgere da vescovi a
cardinali. È un processo di rafforzamento in senso verticistico e aristocratico del potere della Chiesa romana
e del primato pontificio in essa, processo che rende sempre più frammentario e per lo più retorico il richiamo
alle legittimazioni apostoliche e comunitarie dell'autorità nella Chiesa.
Questa restrizione al vertice del potere ecclesiale si ripercuote nella stessa costruzione progressiva del
sistema elettorale pontificio, ormai solidamente in mano ai cardinali romani. Le modalità reclusive
dell'elezione sono da tempo presenti nella prassi, motivate da ragioni empiriche, prima di essere strutturate in
una intelaiatura giuridica che assumerà connotati sempre più definiti col tempo. L'elezione era già
allontanata dalle sue componenti apostoliche e popolari originarie, per essere rigidamente riservata ai
cardinali: una confisca che ha cercato di motivarsi per lo più con la necessità di salvaguardare la libertà della
Chiesa e l'indipendenza degli elettori dalle interferenze dei poteri estranei.
Il conclave si modella come istituto elettorale allo sbocco di un processo ecclesiologico che raggiunge il suo
culmine nel XII secolo con le teorie della sovranità pontificia nella Chiesa e nella società. Il potere delle
chiavi si riproduce nell'elezione cumclave, che esprime ad un tempo le modalità reclusive e la funzione degli
elettori, chiamati a esercitare in un atto supremo il compito di designare il detentorc del potere petrino di
legare e sciogliere per l'eternità, dunque il massimo potere concepibile nel mondo.
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CAPITOLO III.
II conclave.
La prima assemblea elettorale cardinalizia che presenti i segni tipici di quello che nel xm secolo sarà definito
conclave avviene nel 1118 quando i cardinali si riuniscono in gran segreto nel monastero di Santa Maria in
Pallara sul Palatino per eleggere, al riparo delle agitazioni politiche delle fazioni romane, Giovanni di Gaeta
un monaco benedettino della potente famiglia dei Caetani, che prende il nome di Gelasio n. La segretezza e
la conseguente segregazione qualificano dunque questa esperienza elettorale, che tenta di prevenire e
sventare le ingerenze imperiali di Enrico v. Ma il segreto non tiene. Subito dopo l'elezione il papa viene
prelevato dai Frangipane, nemici dei Caetani e alleati dell'imperatore, trascinato in catene e vituperio in
un'antica loro torre.
La storia della prima segregazione elettorale dei cardinali registra però anche l'immediato rientro in scena del
popolo romano, che scende in piazza, quasi a restaurare di fatto un diritto originario che gli appartiene
nell'elezione del proprio vescovo ma che di fatto era omesso. È una sommossa popolare a liberare il papa
dalla prigione, a portarlo in trionfo al Laterano su un mulo bianco per una singolare incoronazione «a furor di
popolo» dell'eletto. Questo trionfo non risparmia d'altronde al papa l'umiliazione di dover fuggire a Gaeta,
per evitare la cattura da parte degli imperiali, scesi nella penisola a sostegno dei Frangipane. Il papa regna
appena un anno, per lo più esule, e muore a Cluny il 28 gennaio 1119.
Il suo successore, Callisto n (Guido da Borgogna), viene eletto nello stesso monastero di Cluny, e si dedica
quasi interamente a risolvere la logorante lotta per le investiture, fino a firmare con Enrico v il Concordato di
Worms che nel 1122 placa almeno provvisoriamente il conflitto in atto da almeno sessant'anni: l'elezione
libera dei vescovi da parte del papa dovrà essere seguita dall'investitura «laica» e dall'omaggio reso
dall'eletto al re. È un compromesso che il papato non accetta se non come atto transitorio di misericordia,
moderando praticamente le proprie pretese pur di ridurre quelle imperiali.
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La scalata politica della sovranità spirituale.
II corso degli avvenimenti del XII secolo ha suggerito il titolo di «trionfo del papato» che talora è stato
adottato per designare questo periodo. Risolta a proprio favore la questione della sovranità del po
tere spirituale alla testa della Chiesa, il papato realizza una scalata politica impressionante in Europa. Essa ha
dei riflessi immediati sul sistema elettorale e sulle visioni istituzionali che ne derivano.
Questo disegno di una Chiesa che s'impone ai potenti della terra e in cui la preoccupazione diplomatica
eccede ormai la cura apostolica emerge fin dal papato di Innocenzo n (Gregorio Papareschi, romano) nel
1130 in un conclave lampo di appena una mattinata con la partecipazione di quindici cardinali soltanto e
l'appoggio dei Frangipane. Fanno appena a tempo a consacrarlo in San Giovanni in Laterano che i cardinali
di parte opposta, riuniti lo stesso pomeriggio nella basilica di San Marco, gli oppongono l'antipapa Anacleto
n, costringendo il papa regolare a riparare in Francia: uno scisma che soltanto il pacifismo di Innocenzo e la
mediazione di San Bernardo di Chiaravalle riescono a ricucire dopo otto anni.
È l'epoca delle invettive lanciate contro la corruzione simoniaca della corte papale e il mercantilismo del
clero da Arnaldo da Brescia, che finirà al rogo. L'esperienza democratica e repubblicana dei Comuni italiani
si scarica su Roma in toni esasperati e violenti. Ad eccitarli è la pretesa di una teocrazia in via di espansione
globale, portata ad emarginare e a reprimere ogni prerogativa comunitaria interna che possa infirmare lo
spessore autocratico del sistema pontificio. Nel 1145 Roma arriva a proclamare la detronizzazione del
bolognese Lucio II (Gerardo Caccianemici) mediante un decreto comunale che non riconosce al papa altro
potere che quello spirituale, liberandolo dalle regalità temporali ormai incompatibili con la forma repubblicana rivendicata anche dai romani. Il papa reagisce ricorrendo alle armi: stringe d'assedio il Campidoglio.
Secondo un racconto di Ludovico Antonio Muratori, qualcuno dalle sue mura riesce a mirare la testa papale
e a centrarla infallibilmente con una pietra fatale, di cui il papa morirà.
Il suo successore è un monaco cistercense di Pisa, Bernardo forse dei Paganelli di Montemagno, che
abbiamo già incontrato, come discepolo attento di San Bernardo di Chiaravalle. Le modalità della sua
elezione nel 1145 ricalcano la segregazione e l'urgenza di evitare intrusioni popolari già emerse
precedentemente: Eugenio m infatti viene eletto nel monastero romano di San Cesario sul Palatino dove i
cardinali si sono rifugiati, secondo una Cronaca dell'epoca, «propter metus senatorum etpopuli romani
consurgentis ad arma», cioè a causa della paura dei senatori e del popolo di Roma che corre alle armi. In
ogni modo i capitani del Comune di Roma reclamano il diritto di conferma dell'elezione cardinalizia,
rivendicando per sé lo stesso privilegio a suo tempo riconosciuto all'imperatore. I cardinali e l'eletto non sono
d'accordo e sono costretti a fuggire nell'abbazia di Farfa, dove avviene la consacrazione.
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La plenitudo potestatis di Innocenza ni (1198-1216).
L'elezione di Lotario di Segni, un diacono di appena trentasette anni, si svolge nel 1198 con i contrassegni
fondamentali dell'istituto conciavano. Secondo lo storico Michele Maccarrone, questo sarebbe anzi «il
primo, vero conclave della storia».
Il luogo della riunione del collegio cardinalizio non è un convento, ma una più ampia sala del vecchio rudere
del Septizonium, un edificio dell'epoca di Settimio Severo trasformato in fortezza o in prigione, di proprietà
dell'attiguo monastero.
Entrano in funzione gli elementi statutari del conclave, la clausura e la custodia. Per la prima volta si tiene
YOratiopro eligendo pontifice, che definisce sinteticamente lo stato dei bisogni della Chiesa e della società,
ai quali dovrà corrispondere il nuovo papa. Per la prima volta vengono distribuite delle schede elettorali. Ma
è anche la prima conferma palese della divaricazione, che si va ormai consumando, tra il momento liturgico e
il momento elettorale nella scelta del vescovo di Roma: l'elezione si svolge principalmente come atto
giuridicamente ben strutturato, laico, politico, al quale si fanno seguire altrove le cerimonie sacre
dell'intronizzazione.
Innocenzo in è un discepolo di Uguccio, l'indiscusso maestro dello studio di diritto canonico di Bologna. Più
di qualunque altro pontefice, Innocenzo riesce a fondere nel suo regno l'ardita visione teorica del potere
papale e un'espansione senza precedenti della sua sovranità politica in Europa. Egli lancia una crociata,
provvede all'investitura dei sovrani, decide del governo d'Inghilterra, riconosce gli ideali di San Domenico e
di San Francesco, elabora i decreti di riforma che il Concilio iv del Laterano ratifica. La figura di Chiesa che
emerge da questo Concilio è quella di un'organizzazione composita e razionale, ben consapevole della
necessità di realizzare al proprio interno un equilibrio tra la dimensione spirituale e quella temporale.
Il processo di apoteosi politicoreligiosa che Innocenzo ni costruisce intorno alla sede petrina si riflette
simmetricamente in una nuova apicalità dell'istituto cardinalizio e del suo atto peculiare, l'elezione del papa.
Innocenzo è da tempo fautore dell'egemonia intrinseca dei cardinali romani rispetto agli arcivescovi e ai
vescovi delle varie regioni della cristianità. Nel 1202 egli pubblica la decretale Per venerabìlem nella quale
fornisce allo statuto cardinalizio una fondazione biblica e teologica allo scopo di assegnargli una
legittimazione meno attaccabile di quella meramente politica di fatto prevalente. Egli fa risalire il cardinalato
direttamente all'Antico Testamento, identificando nei cardinali i successori degli anziani che Mosè aveva
scelto come consiglieri: «Sono infatti sacerdoti di tipo Levitico i nostri fratelli (cardinali), i quali esistono in
qualità di nostri coadiutori nell'esecuzione dell'ufficio sacerdotale secondo il diritto Levitico». Sopra
di loro è posto, come «sacerdote e giudice», il successore di Pietro, munito del potere delle chiavi.
Nell'ambito di questa dottrina, il passo qualitativamente più innovativo è l'attribuzione di un'origine divina al
cardinalato, mediante il preciso riferimento al sacerdozio levitico, una delle strutture maggiori e permanenti
del popolo ebraico nel regime dell'Antico Patto. Si tende a sottolineare in questo brano della decretale la
convinzione del papa che l'esistenza e il potere dei cardinali risalgano direttamente alla volontà divina
manifestata nel sacerdozio levitico dell'Antico Testamento, confermata e perfezionata nel Nuovo col
cardinalato romano. Secondo G. Alberigo, l'ambito in cui si esercita la collaborazione dei cardinali col papa,
stando alle prospettive innocenziane, non riguarda tanto la loro assistenza al vescovo di Roma nelle funzioni
liturgiche, com'era negli ultimi secoli del primo millennio cristiano. Tale forma è ormai superata da almeno
due secoli. Le funzioni cardinalizie si allargano ormai all'intero arco dei poteri ecclesiastici, d'altronde in
coerenza con l'accezione molto larga che in quel secolo viene assegnata correttamente alle categorie
sacerdotali.
Il cardinalato raggiunge così l'apogeo della sua espansione ecclesiale e politica, come partecipazione al
potere supremo, mentre il pontefice si autoriconosce come vicario di Cristo, il vicario di Dio, stabilito su
popoli e regni grazie a poteri plenari, piuttosto divini che umani. Innocenzo ni afferma che l'autorità
pontificia sta all'autorità laica come il sole alla luna. Sembra che l'intera Europa occidentale condivida in
quest'epoca l'idea che il papa sia mandato da Dio al vertice della Chiesa.
L'esito di queste eroiche esorbitanze è, fra l'altro, che quando il papa nel 1216 muore a Perugia, città ove
risiedeva all'epoca la Curia romana, dopo diciotto anni di regno al sommo della monarchia pontificia, è
trattato peggio di qualsiasi comune mortale: i cortigiani non esitano a spogliarlo dei suoi mantelli sontuosi, a
strappargli di dosso gioielli, soldi, ornamenti, in un'atmosfera di tradimento e di sciacallaggio sconveniente
per il cadavere non meno che per la cattedrale in cui è abbandonato, quasi nudo, in stato di avanzata
decomposizione.
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Il conclave di Perugia (1216).
Precisamente nel palazzo pontificio di Perugia, nel 1216, diciannove cardinali vengono reclusi affinchè si
affrettino nelle procedure dell'elezione. Basteranno loro due giorni per fare papa il vecchio Cencio dei conti
Savelli, che regna col nome di Onorio in per undici anni. Nel 1225 egli firma la bolla
Summiprovidentiaprincipis in cui eroga una quantità di pene severissime per chiunque si renda colpevole di
offesa nei confronti di un cardinale. I reati commessi contro membri del Collegio cardinalizio sono
equiparati a quelli di lesa mae
sta, determinando un'ulteriore salita della potenza del cardinalato romano. Onorio in pubblica anche VOrdo
romanus de Consuetudinibus che stabilisce con meticolosa pignoleria il cerimoniale dei conclavi e dei riti
papali.
Lo sviluppo ulteriore si deve paradossalmente a un atto emanato dal potere laico: è la lettera mandata il 10
marzo 1239 da Federico n ai cardinali romani, alla vigilia della scomunica che gli verrà inflitta da Gregorio
ix a causa della sua diserzione dalla crociata. Per captare la benevolenza degli eminentissimi, l'imperatore fa
propria nel documento la tesi fornitagli da Pier delle Vigne, essere cioè i cardinali i successori degli apostoli
per volontà di Cristo, col compito di assistere Pietro nel governo della Chiesa. Come luci della Chiesa poste
sul monte e non sotto il moggio, essi devono assistere il papa nel governo della casa di Dio.
L'innovazione teologica consiste nell'attribuire l'istituzione del cardinalato al Cristo stesso e nel collegarlo ad
uno degli istituti più venerati della Chiesa delle origini, il collegio apostolico formatosi intorno a Gesù di
Nazareth. Si abbandona la linea che preferiva partire dall'esistenza del cardinalato per tentare di recuperargli
una parvenza di legittimità dottrinale. Si tende piuttosto ad assegnare all'istituto un ruolo strutturale nella
costituzione fondamentale della Chiesa, quale è stata definita dal Cristo stesso. Da questo assioma viene fatto
derivare il diritto dei cardinali a concorrere col papa alla guida della Chiesa universale.
Ha gioco facile papa Gregorio ix nel 1241 allorché attacca Federico per aver osato vulnerare nel modo più
grave il prestigio dei cardinali, traendone prigionieri due da un arrembaggio alle navi che li portavano da
Genova, insieme ad altri prelati, verso un Concilio indetto dal papa a Roma per fulminare la scomunica
solenne all'imperatore: il papa paragona i cardinali ai legittimi successori degli apostoli, abusivamente
costretti a subire il giudizio di giudici laici.
Nell'agosto 1241 Gregorio ix muore, in piena vertenza con Federico. I cardinali sono così indecisi che per
più di due mesi rinviano l'elezione: difficile assumere un orientamento sul programma politico e religioso del
successore, mentre l'imperatore alterna il guanto di velluto al pugno di ferro, le lusinghe e le minacce. Il
senatore romano Matteo Orsini tenta di metter fine alle loro esitazioni con un colpo di mano: li fa rinchiudere
tutti e dieci nel Septìzonium affinchè accelerino la decisione.
È un conclave che i più soffrono come «ergastolo carcerario». Il cappellano del cardinale Sinibaldo Fieschi,
Niccolo Calvi, ci lascerà una cronaca drammatica di quei settanta giorni di clausura: le privazioni, l'afa
dell'agosto romano, la durata del carcere sono letali. Gli elettori denunciano scompensi, collassi, crisi
cardiache. Il cardinale Roberto di Somercotes, candidato della maggioranza, muore. Lo stesso Sinibaldo «è
oppresso da una tale debolezza da essere considerato anch'egli nelle fauci della morte».
L'accordo viene finalmente raggiunto il 25 ottobre 1241 sul nome del cardinale milanese Goff redo
Castiglioni, che prende il nome di Celestino iv. Ma egli esce così stremato dagli stenti patiti che sopravvive a
quel conclave appena diciassette giorni.
È dall'epoca dell'elezione di Gelasio n nel 1118 che non ci si mette tanto a trovare un papa. E passeranno altri
venti mesi di vacanza prima che se ne possa eleggere un altro. La situazione politica in Italia condiziona le
determinazioni degli elettori. Federico mira ad occupare Roma e ha interesse a ritardare il conclave. «Mira
ad un papa ad voluntatem suam», annota un cronista. Un gruppo di cardinali si è rifugiato ad Anagni, sia per
sottrarsi ad un'eventuale cattura da parte del partito antiimperiale, che ha già messo agli arresti il cardinale
Giovanni Colonna, sia perché deciso a non finire più nell'ergastolo del Septizonio per il nuovo tour deforce
elettorale.
I cardinali rimasti a Roma per i funerali invitano i colleghi anagnini a rientrare, ma la proposta è respinta:
anzi, da Anagni arriva l'ingiunzione che non si proceda all'elezione in loro assenza. L'impasse militare e
politico lavora a favore di Federico, intenzionato a quanto pare a cuocere a fuoco lento gli avversari,
offrendo loro la liberazione dei cardinali ostaggi, oppure rincrudendo le pressioni militari su Roma.
Nell'agosto 1242 Federico sgombra le vie d'accesso alla capitale, rassicurato dalle notizie della maggioranza
a lui favorevole raccolta fra i cardinali. Infatti, «il partito della pace» pare ormai prevalente fra gli elettori, e
il 25 giugno 1243 porta al papato il genovese Sinibaldo Fieschi, con un voto raggiunto, secondo il Calvi,
unanimiter et concord'iter. Dato nuovo, c'è stata in conclave una capitolazione elettorale, sulla quale la
maggioranza degli elettori ha impegnato il candidato: un accordo inclusivo dell'impegno favorevole alla pace
con Federico e alla riforma disciplinare della Chiesa.
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Le norme di Innocenzo iv (1243-1254).
Con Innocenzo iv la normativa elettorale si perfeziona, sulla scorta dei drammatici conclavi da lui vissuti, e
probabilmente da lui stesso orientati: questo papa giurista, discendente da una ricca famiglia genovese e di
formazione ghibellina, pone il potere pontificio al centro della giurisdizione, come fonte della legittimazione
politica e del legame sociale universale. La sola legittimazione possibile del potere civile è dunque
l'appartenenza alla christianitas, mediante la quale esso riconosce la propria subalternità alla potestà
pontificia, la sola che possa effondere la giustizia nel regno degli uomini. Intorno al papato non c'è più
soltanto una ecclesiologia, ma anzitutto una cosmologia: il papa è installato da Innocenzo iv al culmine della
jurisdictio della società, anzi al di sopra dello stesso ordine giuridico, come punto di volta dell'intero sistema
civile, ma costituito in una alterità irriducibile, dalla creazione a Cristo, dalla morte di Pietro al papato coevo,
in una catena ereditaria lineare e continuamente identica a se
stessa. È su questi presupposti sconfinati che il pontefice, in quanto judex ordinarius omnium, depone
l'imperatore, in ragione dell'essere egli stesso il fondamento e il patrono della legittimità imperiale.
Come nota Alberto Melloni, «l'assolutismo papale diventa jus naturale, nella misura in cui è naturale ciò che
risale ad un archetipo divino e risponde ad istanze politiche razionali». Innocenzo iv da alla superiorità del
potere papale un accento nuovo ed inedito: la sua potestà non solo è più grande delle altre potestà, dentro e
fuori la Chiesa, ma è anche diversa per natura. È superiore perché sta fuori da ogni ordine, in una
collocazione che la rende analoga all'autorità superiore che da vita all'istituzione.
Un canonista come Sinibaldo non potrebbe trascurare la sistemazione del diritto elettorale: egli infatti
sostiene, in un commento alla Licet de vitanda, che il pontefice eletto gode di tutti i suoi poteri non già a
cominciare dalle cerimonie di recezione ma «dummodo eligatur vel nominetur eligendi». Egli emana norme
che consentano di iniziare le procedure elettorali nel luogo stesso in cui il papa è morto, senza frapporre
indugi eccessivi. Molto dotato del senso del tempo, egli non esita a fissare una norma per canonizzare la
mancanza di stabilitas loci, caratteristica dei papi del xm secolo (nessuno di loro è rimasto a Roma per
l'intera durata del pontificato, tranne Celestino iv), e legittimare dunque lo spiazzamento del potere papale
lontano da Roma: la tesi è che limino ibi esse intelliguntur ubi papa est, la sede deve essere considerata nel
luogo in cui il papa è.
La sua stessa concezione del cardinalato è sufficientemente provata nell ' atto della sentenza di deposizione
di Federico n, il 17 luglio 1245, nella quale gli è contestato il diritto di lesa maestà per la prigionia dei
cardinali. La figura dei cardinali si arricchisce di tali privilegi e poteri decisionali da costituire, come
proiezione istituzionale del potere papale, un sistema di romanità imperniata sul papa e con lui accorpata per
diramare sulla cristianità il suo potere supremo.
Il motto ubi Papa ibi Roma delinea un modello di supervescovo con la sovranità immediata sull'intera
cristianità, al di là e al di sopra dell'articolazione complessa e plurale delle Chiese e delle prerogative proprie
dei vescovi. È con Innocenzo iv che la cristianità si costituisce per la prima volta come regime, la cui identità
si definisce mediante uno spietato ricorso alla scomunica, all'interdetto, alla stessa tortura come strumento
politico verso gli eretici, gli Ebrei e quei sovrani che, non sottomettendosi, vengono considerati ipso facto tiranni, cioè privi di legittimità.
// conclave di Viterbo (1268-1271).
Queste teorie sono troppo ciclopiche e vertiginose per non aprire delle crepe nel sistema papale, esasperando
il rilievo dei suoi li
miti storici. È ciò che emerge nel 1268 quando muore Clemente iv, un francese, e la Chiesa entra in una sede
vacante che dura tre anni, la più lunga d'ogni tempo. Riuniti nel palazzo pontificio di Viterbo, i diciotto
cardinali non si risolvono ad un accordo. Inutilmente intervengono i re di Francia e di Sicilia a sollecitarli. La
crociata guidata da Luigi di Francia sta precipitando in catastrofe. Il popolo preme scandalizzato, rumoreggia
sotto le finestre dei litiganti. La sommossa ha l'appoggio di un cardinale francescano, Bonaventura da
Bagnoregio, che si unisce al capitano del popolo Alberto di Montebono per impedire agli elettori di
allontanarsi dalla città e dal palazzo pontificio.
Di più, gli elettori sono murati entro l'edificio. Secondo un cronista del tempo, «Bonaventura indusse i
viterbesi a rinserrare tutti i cardinali nel palazzo vescovile, affinchè in tal guisa ristretti, si risolvessero di
conchiudere la sospirata elezione». Un servizio di guardia, organizzato dai principi Savelli (che
trasmetteranno ai Chigi questa funzione, poi decorativa, di «marescialli del conclave») circonda il palazzo.
Ma i cardinali non mettono fine alla loro discordia. Allora la gente raggiunge il tetto del palazzo e lo
scoperchia. Ci piove dentro. Ci entra il sole a picco. Vi irrompono le grida del popolo. Quest'aria fresca,
questo vento reale sono sufficienti a mettere in crisi le sofisticate trame diplomatiche dei cardinali.
L'extraterritorialità del conclave murato, come cabina di immunità al vertice delle sovranità della terra,
subisce un colpo violento. Dall'esterno arriva ormai solo pane e acqua, i viveri vengono prima razionati, poi
tagliati, secondo una dieta politica che ricatta i sacri elettori sullo stomaco. Due cardinali si sentono male, gli
altri accettano la proposta di Bonaventura di incaricare dell'elezione alcuni delegati per una «scelta di
compromesso», e fuggono via. La scelta cade l'I settembre 1271 su Tedaldo Visconti, un oscuro arcidiacono
di Piacenza, mandato tra gli Arabi in Siria, come cappellano dei crociati. Arriva in Italia il 27 marzo 1272 e
viene consacrato e incoronato col nome di Gregorio x.
È il papa che, convocato il Secondo Concilio di Lione nel 1272, cerca di far passare una legge che stabilisce
nuove e più caute norme per l'elezione papale sulla scorta dell'esperienza viterbese. I cardinali recalcitrano,
quel tetto che si smantella sopra le loro teste eminenti non possono dimenticarlo facilmente. Il papa insiste e
il 6 luglio 1274 può finalmente promulgare una Costituzione che, dalle prime parole, evoca l'incubo di
Viterbo: Ubipericulum.
Essa mira a garantire meglio la libertà e l'indipendenza dei cardinali e, al tempo stesso, a evitare che il
conclave possa contare su una durata illimitata, sia per il disaccordo tra i partiti cardinalizi, sia per una certa
tendenza dei cardinali a speculare il più possibile sulla durata della sede vacante per lucrarne, fuori di
qualsiasi controllo, i maggiori vantaggi possibili. Da questo punto di vista, la Costituzione conciliare di
Gregorio x inizia una tendenza volta a contenere l'ec
cesso dei poteri cardinalizi. Non a torto i cardinali hanno abbozzato una opposizione alla normativa
gregoriana che il papa è riuscito a dominare solo appellandosi al Concilio Ecumenico.
Le nuove prescrizioni regolano in dettaglio l'istituto del conclave, con un quadro organico in cui si risente la
lezione giuridica di statuti comunali italiani. Viene stabilito un limite di dieci giorni all'attesa dei cardinali
estranei alla curia papale e assenti. Trascorsi i dieci giorni, i presenti possono procedere all'elezione, nel
palazzo dove è morto il papa, ciascuno con un solo servitore, chierico o laico: se una vera necessità lo
consigli, ne vengano permessi anche due. Nel palazzo «tutti abitino in comune uno stesso salone, senza
pareti divisorie o altra tenda». Il salone «sia ben chiuso da ogni parte, salvo un libero passaggio ad una stanza
separata, in modo che nessuno possa entrare o uscire da esso». La Costituzione gregoriana aggiunge: «Non
sia permesso ad alcuno recarsi dagli stessi cardinali o poter parlare segretamente con essi; ed essi stessi non
permettano che nessuno si rechi da essi, a meno che si tratti di quelli che, col consenso di tutti i cardinali ivi
presenti, fossero chiamati per quanto è necessario all'imminente elezione».
Non è permesso mandare ai cardinali un inviato o qualche scritto. Chi osasse farlo, o parlare con qualcuno di
loro, in segreto, incorre ipsofacto nella scomunica. Nel conclave tuttavia «sia lasciata naturalmente una
finestra, per cui vengano passate comodamente ai cardinali le cose necessarie da mangiare; ma a nessuno sia
permesso passare da essa ai cardinali».
La dieta dei conclavisti è disciplinata secondo un rigore crescente: se entro tre giorni dall'ingresso in
conclave i cardinali non abbiano dato alla Chiesa il pastore, «nei cinque giorni immediatamente seguenti, sia
a pranzo che a cena, i cardinali si contentino ogni giorno di un solo piatto. Passati questi senza che si sia
provvisto, sia dato loro solo pane, vino ed acqua, fino a che non avvenga l'elezione».
La dieta riguarda anche le prebende cardinalizie: «durante il tempo dell'elezione i suddetti cardinali nulla
percepiscano dalla camera papale, né di quanto possa venire alla stessa Chiesa da qualsiasi fonte durante la
vacanza; tutti i proventi invece, durante questo tempo, rimangano in custodia di colui alla cui fedeltà e
diligenza la camera stessa è stata affidata, perché da lui siano conservati a disposizione del futuro pontefice.
Chi poi avesse ricevuto qualche cosa, sarà tenuto da quel momento ad astenersi dal percepire qualsiasi
reddito che gli spetti, fino a che non abbia restituito completamente quanto in tal modo ha ricevuto».
È regolato un vasto ventaglio di ipotesi, in modo da favorire l'indipendenza degli elettori da qualsiasi
immaginabile condizionamento, o anche solo dall'occasione che possa indurii in tentazione: «si preoccupino
di affrettare l'elezione non occupandosi assolutamente di null'altro», insiste la Costituzione. Se qualche
cardinale lasciasse il conclave «senza manifesta causa di malattia» o non vi entrasse, gli
altri «senza affatto ricercarlo e senza più ammetterlo all'elezione, procedano liberamente ad eleggere il
papa».
In caso di malattia che costringesse un cardinale ad uscire, «anche durante la malattia si potrà procedere
all'elezione senza richiedere il suo voto». Se però il malato guarisse e volesse tornare in conclave, e se gli
assenti arrivassero dopo i dieci giorni d'attesa iniziali, possono essere ammessi all'elezione allo stato in cui
essa si trova, e adeguandosi alle regole comuni sugli inservienti, il cibo, le bevande etc.
Nel caso in cui il papa morisse «fuori della città in cui risiedeva con la sua curia», i cardinali sono tenuti «a
radunarsi nella città nel cui territorio o distretto il pontefice è morto, a meno che sia interdetta o in aperta
ribellione contro la Chiesa romana», nel qual caso «si radunino in un'altra, la più vicina» mantenendo le
stesse norme.
Per far osservare la normativa elettorale la Costituzione lionese affida un potere di polizia alle autorità civili
della città in cui si deve procedere all'elezione, «attenti a non limitare i cardinali più di quanto è stato detto».
I rappresentanti dei poteri laici dovranno giurare solennemente di osservare queste norme, e vengono
minacciati di scomunica in caso di frode o di inosservanza diligente.
Gli stessi cardinali vengono ammoniti a non curarsi tanto dei loro interessi privati: «senza che alcuno se non
Dio forzi nell'elezione il loro giudizio, puramente e liberamente, mossi dalla semplice consapevolezza
dell'elezione, cerchino il pubblico bene» in modo da «affrettare con la loro opera un'elezione utile e
necessarissima al mondo intero». La norma dichiara «assolutamente nulli i patti, le convenzioni, gli obblighi,
le intese di qualsiasi genere, sia contratti col vincolo del giuramento che in qualsiasi altro modo ad osservarli
né potrà temere l'accusa di non aver mantenuto la parola trasgredendoli».
L'effetto si fa sentire. Il conclave di Arezzo del 1276 impiega solo un giorno per eleggere Innocenzo v,
grande amico di Tommaso d'Aquino e di Bonaventura. I cardinali sembrano avere gran fretta di tornare ai
propri piatti. Sette giorni ci mettono gli elettori di Addano v, che regna appena 39 giorni, uno dei pontificati
più brevi. Però trova abbastanza tempo per ricambiare del favore i cardinali, abrogando la pericolosissima
Ubi periculum.
Ci pensano di nuovo i viterbesi a restaurarla, di fatto, chiudendo nel solito palazzo i cardinali i quali non
sopportano per più di diciotto giorni la reclusione ed eleggono nel 1276 il portoghese Pietro Iuliani, che
prende il nome di Giovanni xxi. Dura in carica appena un anno, quanto basta per dichiarare nuovamente
abrogata la riforma elettorale gregoriana. Ma la storia conosce le sue rivincite: il 20 maggio 1277 il soffitto
del palazzo papale di Viterbo gli crolla in testa, uccidendolo all'istante nel sonno.
Le sedi vacanti tornano ad allungarsi: sei mesi per Niccolo in, il cupido nepotista degli Orsini cacciato da
Dante nell'ottavo girone del suo Inferno, altri sei mesi, e tempestosi per Martino iv nel 1281.1 viterbesi ne
sono indignati al punto di attaccare ancora una volta il palazzo conclavario e chiudere in una stanza due dei
cardinali più osti
nati. Si dice che un terzo cardinale, Roberto di Canterbury, sia eliminato con del veleno. Interviene Carlo
d'Angiò che riesce a far eleggere un suo uomo di paglia, Simone de Brie, ex cancelliere di re Luigi ix e
cardinale di Santa Cecilia. La politica di Martino iv è così scopertamente filofrancese da sovvertire
l'equilibrio politico in Italia. Il papa finisce per inimicarsi ghibellini e guelfi, francesi, siciliani e aragonesi. Il
suo isolamento politico è tale da consigliarlo a fuggire esule in riva al lago di Bolsena, dove si consola con
anguille e vernaccia per purgare le quali Dante lo confina tra i golosi del Purgatorio. Nel conclave del 1288
il protagonista è la peste, che non conosce barriere sacrali. Essa falcidia il collegio cardinalizio: sei elettori
muoiono, uno dopo l'altro, nel palazzo dei papi sull'Aventino. I superstiti tentano di resistere alla febbre,
ostinati nelle discussioni, finché si arrendono e decidono di rinviare l'elezione, senza però interrompere
formalmente il conclave. A custodire il palazzo resta solo un cardinale coraggioso, Gerolamo d'Ascoli,
vescovo di Palestrina, un francescano. Aspetta un intero anno, senza essere contagiato. Finalmente i cardinali
ritornano e decidono di fare papa proprio lui, il primo francescano papa della storia, col nome di Niccolo iv.
// «gran rifiuto» di Celestino v
Alla morte di Niccolo nel 1292 la Chiesa resta senza papa per due anni, tre mesi e un giorno. La situazione
indigna a tal punto la cristianità che un eremita di ispirazione gioachimita — memore dello spirito
riformatore del fondatore dell'Ordine Florense, il calabrese Gioachino da Fiore «di spirito profetico dotato»
— decide di intervenire. Si chiama Pietro da Morrone e dalla spelonca abruzzese in cui vive, sui monti della
Maiella, manda un messaggio ai dodici cardinali, richiamandoli al servizio della Chiesa. Esortati da Latino
Malabranca, gli elettori decidono di superare la loro cerchia e di far convergere i voti proprio su
quell'eremita. È d'accordo anche il potente cardinale Benedetto Caetani, che conta di servirsi del santo come
di un paravento per gestire gli affari della Chiesa secondo le proprie vedute.
L'elezione avviene «per ispirazione», il 5 luglio 1294. L'impresa di «governare col Pater Noster» appare
difficile, se non impossibile nella Chiesa del tempo. Jacopone da Todi indirizza a papa Celestino v una delle
sue strofe:
Che farai, Pier da Morrone?
Sei venuto al paragone.
L'ordene cardenalato posto è en basso stato.
Ciaschedun suo parentato
d'arricchire ha intenzione.
Guardati dai barattere
che il ner per bianco fan vendere.
Se non te sai ben schermire
canterai mala canzone.
Nel giro di cinque mesi, Celestino v è costretto alle dimissioni, dopo aver tentato inutilmente di delegare la
carica a un triumvirato di cardinali. È il suo successore, il cardinale Caetani, a dover rispondere alle accuse di
aver indotto con la frode e con la forza Celestino al «gran rifiuto», fino a tradurlo prigioniero nella rocca di
Fumone, dove Pietro muore nel 1296.
Malgrado l'incapacità quasi totale di Celestino di tenere il timone della barca della Chiesa egli ha il merito di
aver ripristinato la severa normativa di Gregorio x sull'elezione papale, una linea che lo stesso Caetani non
ha difficoltà a mantenere, in vista della propria elezione del 1294, quando assume il trono col nome di
Bonifacio vm.
Bonifacio vm (1294-1303).
Benché la sua elezione venga dichiarata nulla dai Colonna, contro i quali lancia una crociata, egli spinge fino
al limite estremo le pretese papali all'autorità temporale. Violento, egoista, autoritario, la sua ambizione
teocratica comporta una tale catastrofe nei rapporti del papa con Filippo il Bello e un tale conflitto coi
Colonna da attirargli l'umiliazione del 3 settembre 1303, quando l'emissario del re di Francia, Guglielmo di
Nogaret, aggredisce insieme a Sciarra Colonna il pontefice e lo oltraggia nella cattedrale di Anagni. Ancora
una volta, l'ecclesiologia papale spinta all'estremo trascina con sé l'enfatizzazione del cardinalato: con la
Bolla del 1302 Unam sanctam Bonifacio afferma che il governo supremo del mondo deve essere affidato a
un solo potere e ribadisce le pretese pontificie a costituire l'unica fonte dell'autorità derivante da Dio: il re
dovrà consultarla e obbedirla, accontentandosi di una funzione dipendente nei suoi confronti. Di più, la
sottomissione al Sommo Pontefice è proclamata «necessaria alla salvezza di tutte le creature». In realtà,
come nota Urs von Balthasar, «la separazione tra potere direzionale e rinnovamento spirituale diventa
nuovamente acuta».
Un tale eccesso, il culmine delle pretese papali nel Medioevo, non sembra tuttavia gratificante per il collegio
cardinalizio nella sua interezza. Già nel conflitto con due cardinali della famiglia Colonna, gli awersari del
papa non esitano a formulare l'interrogativo «se qualunque pontefice, quantunque vero e legittimo, secondo
l'arbitrio della sua volontà, senza osservare alcuna regola tramandata dai San
ti Padri, senza discutere in modo ordinato alcuna causa legittima, possa a tal punto insanire contro i cardinali
sotto la parvenza della pienezza della sua potestà».
La contestazione è presa in conto da Bonifacio il quale precisa che, vivente il papa, i cardinali sono «membra
del nostro capo» ma non hanno uno statuto altrettanto eminente come quello del papa, perché questo solo
non è inferiore a nessuno. Ed è proprio in ragione della loro inferiorità rispetto al papa che i cardinali
possono essere corretti e puniti dal papa stesso. «Certo», scrive Bonifacio, «non c'è alcuno che abbia, dopo il
Romano Pontefice, uno status tanto nobile. Però, non hanno uno status eminente quanto il Sommo Pontefice
poiché egli stesso non è sotto lo status di alcuno inferiore a lui. Ma i cardinali sono con uno status sotto
quello del Romano Pontefice, che deve correggerli e punirli, per cui per superbia e altri eccessi gravi il Papa
può prendere posizione contro di loro.»
Il successore di Bonifacio, il domenicano di Treviso Niccolo Boccasini, — papa col nome di Benedetto xi —
ha la responsabilità storica di iniziare lo smantellamento dell'enorme cuspide teocratica del papato che
culminerà alla fine dell'Ottocento con la perdita dello Stato pontificio. La stessa debolezza del suo carattere
lo predispone a questa funzione diminutoria. La lotta tra i Caetani e i Colonna condiziona il conclave. I
sostenitori di Bonifacio, capeggiati da Matteo Rosso Orsini, riescono ad aprire la riunione, respingendo la
domanda di partecipazione alle operazioni elettorali avanzata dai cardinali Colonna deposti. Gli ambasciatori
francesi e il Nogaret sostengono vivacemente la loro causa, ma re Carlo di Napoli ricaccia con le sue truppe
ogni loro tentativo di penetrare a Roma.
Questi fatti sembrano infirmare la validità dell'elezione. Tuttavia, malgrado la tensione che divampa aspra, il
conclave si conclude il 22 ottobre 1303, al primo scrutinio. È rilevante che Benedetto xi faccia dei gesti di
pacificazione, assolvendo i Colonna dalle pene ecclesiastiche inflitte loro dal predecessore, e ancora più
significativo appare il fatto che, ridimensionando alcuni aspetti meno sostenibili del delirio di onnipotenza di
Bonifacio, egli non voglia far nulla senza i cardinali, per tornare al governo collegiale degli affari
ecclesiastici e chiudere coi metodi personalistici precedenti.
Il conclave che si riunisce dopo il breve regno di Benedetto xi — soltanto otto mesi fra il 1303 e il 1304 — è
fra quelli più gravidi di conseguenze nella storia della Chiesa, perché da esso deriveranno l'esilio del papato
ad Avignone e probabilmente anche il grande scisma successivo. I diciannove cardinali che si ritrovano il 17
luglio 1304 a Perugia, dove il papa è morto, sono divisi in due tendenze la cui forza numerica è equivalente:
la prima esige una forte condanna degli attentatori di Anagni, incluso il re di Francia, e una decisa continuità
rispetto all'eredità di Bonifacio vm, che non ha cessato di essere oggetto di processi posi mortem. L'altra
tendenza è incline alla riconciliazione coi Colonna e all'appoggio della potenza francese.
Data la divisione, è evidente che l'elezione potrebbe corrispondere al bisogno di una provvista rapida solo se
fossero rispettate le norme sul conclave, eventualmente con l'ausilio del magistrato di Perugia. Invece si
comincia a discutere se i cardinali possano o meno cambiare le regole del gioco a gioco aperto, quindi si
passa a mitigare il regolamento, considerato troppo severo, infine si prende atto che l'intesa è lontana e ci si
prepara a svernare in città.
Verso Natale si deve constatare che nessun cardinale è in grado di radunare i due terzi necessari dei suffragi.
Comincia la ricerca di un candidato di compromesso. Verso la fine di febbraio 1305 arriva re Carlo II di
Napoli, chiamato per svolgere una mediazione, essendo stato ritenuto neutrale, ma che è ormai allineato col
partito francese, al punto da risultare sgradito ai bonifaciani. Il cardinale del partito avverso, Napoleone
Orsini, fa allora circolare discretamente il nome di Bertrando de Got, arcivescovo di Bordeaux, facendolo
passare per uomo devoto alla memoria di Bonifacio e perciò capace di tenere a bada le pretese del re
francese. I bonifaciani cadono nella trappola e così contribuiscono a far conseguire a de Got i due terzi dei
voti necessari alla sua elezione, il 5 giugno 1305, dopo un conclave di undici mesi.
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Avignone (1305-1377).
Appena eletto, Clemente v prende la strada di Lione invece di quella di Roma. Benché non gli possa essere
attribuita l'idea di spostare da Roma il governo ecclesiastico, egli soggiace di fatto agli interessi del re
francese lungo i nove anni di pontificato. Da Lione, dove riceve la tiara, non si sposta più, se non per
installarsi ad Avignone, dove il papato resterà sessant'anni. Nel 1305 crea i suoi primi cardinali: nove
francesi — fra cui quattro nipoti — e uno inglese.
Il collegio cardinalizio perde la sua originaria maggioranza italiana e romana per ridursi nelle mani di uomini
il cui orizzonte mentale è quello limitato d'una regione della Francia meridionale. Viene intentato il processo
a Bonifacio, si annullano le bolle da questi emanate contro la Francia, si sopprime l'Ordine dei Templari, per
compiacere la cupidigia di Filippo il Bello, ma si recupera il teocratismo bonifaciano per contestare con la
famosa bolla Pastoralis cura del 1314 l'universalità dell'Impero tedesco, di cui viene nominato vicario per
l'Italia l'ultra guelfo Roberto di Napoli. La curia è in balìa del nepotismo, Roma abbandonata a se stessa, il
timone della Chiesa subordinato alla politica della Francia: questa la situazione quando Clemente v muore il
20 aprile 1314 mentre è in viaggio verso la diletta Guascogna.
I cardinali che si riuniscono a Carpentras per il conclave sembrano a disagio con un sistema elettorale che è
uscito irrigidito dalle leggi emanate da Clemente v: in particolare la bolla Ne romani nel 1311 ha
restaurato in tutto il suo vigore V Ubi periculum gregoriana, sottolineando l'obbligo dei poteri laici di
impedire l'uscita dei cardinali fino a che non sia completata l'elezione. Appena aperto, il conclave viene
sospeso, perché i fautori del papa defunto malmenano e minacciano i cardinali curiali italiani (sette, in un
collegio formato da undici guasconi e sei francesi). Essi riescono a fuggire avventurosamente dalla città.
Passano due anni prima che si possa riconvocare i cardinali a Lione, dove il conte di Poitiers li rinchiude nel
convento dei domenicani consegnando loro la lista di quattro candidati.
L'elezione è decisa il 7 agosto 1316 in seguito all'accordo fra i cardinali guasconi e i quattro italiani sul nome
del cardinale di Ostia Giacomo Duèse de Cahors, malgrado i suoi 72 anni e le sue non brillanti condizioni di
salute. Il conclave costituisce un tale trauma per Giovanni XXII che, per tutti i diciotto anni del suo
pontificato «di transizione», egli vive con la paura che qualcuno lo ammazzi. È un gioco mimetico, perché
egli stesso eccelle per brutalità e violenza, fino a modellare lo stile «avignonese» anche per i suoi successori.
Il suo obiettivo principale è di rafforzare l'influenza guelfa della Francia angioina in tutta Italia in modo da
indebolire il potere imperiale. Il suo conflitto con Ludovico il Bavaro provoca nel 1324 l'uscita delle tesi di
Marsilio da Padova contro il papato medievale. Il Defensorfidei è la più radicale contestazione del primato
pontificio, al quale viene contrapposto il Concilio Ecumenico come massima autorità della Chiesa,
legittimata dalla rappresentanza democratica di tutti i fedeli. Per Giovanni XXII è un attacco intollerabile,
che egli condanna nel 1327 nella bolla Licei iuxta doctrinam.
Per i cardinali che si riuniscono nel palazzo vescovile di Avignone il 19 dicembre 1334, dopo la morte di
Giovanni XXII, il tema che si impone è il ritorno della sede papale a Roma. L'elezione impegna solo un
giorno, e premia un teologo cistercense, Giacomo Fournier, che col nome di Benedetto XII appiattirà il papato
sugli interessi francesi più ancora di quanto abbiano fatto i papi precedenti.
Lo spirito mondano e la dolce vita di Avignone non risparmiano il regolamento elettorale. Se Benedetto XII
ha un posto nella leggenda d'Avignone per il bibamus papaliter a cui spesso esortava, la palma della
mondanità è normalmente assegnata senza difficoltà a Clemente vi, eletto il 7 maggio 1342 sotto l'influenza
indiretta del re Filippo vi. Con lui comincia il ciclo dei tre papi della regione di Limoges, che esasperano il
carattere francomeridionale dell'avignonismo.
Il clima della corte pontificia, pervasa da un fasto principesco, si traduce naturalmente negli addolcimenti
delle austerità del regime conciavano. Il papa permette infatti dei «supplementi» alla dieta a piatto unico
degli elettori: minestre, insalate, marmellate, formaggi e frutta, antipasti e cognacchini tornano a impinguare
la mensa cardinalizia anche fra le mura elettorali. E poiché i cardinali s'erano lagnati d'esser costretti a
dormire in camerata, Clemente consente loro
l'uso di cortine «affinchè possano dolcemente riposare nei loro letti».
Invano protestano Santa Caterina da Siena e Santa Brigida. E inutili sono le pressioni del tribuno popolare
Cola di Rienzo che, pochi mesi dopo l'elezione del papa, guida ad Avignone una delegazione romana per
offrirgli le più alte cariche cittadine, in modo da indurlo a tornare.
Venticinque cardinali partecipano nel 1352 al conclave di soli due giorni che elegge il francese Étienne
Aubert come Innocenzo vi. Questa rapidità trova una certa spiegazione nell'accordo realizzato fra i cardinali
su una capitolazione elettorale, dalla quale essi si ripromettono una influenza maggiore sul governo della
Chiesa per il loro collegio. Secondo il patto, giurato da tutti, il candidato che riuscirà eletto fra loro può fare
nuovi cardinali solo quando il loro numero scenda a sedici, ma non ne può creare in ogni caso oltre il tetto di
venti. E in questa decisione il papa è vincolato all'approvazione di almeno due terzi dei cardinali.
La stessa cosa è stabilita per le eventuali cause intentate contro i singoli cardinali o per vendere parti del
regno pontificio. I cardinali si preoccupano persino di garantirsi le quote dei propri redditi definite da
Niccolo iv. Secondo il capitolato elettorale, il nuovo papa non potrà procedere a nomine dei più alti gradi
della burocrazia curiale né concedere decime e sussidi a re e principi né imporre tasse a favore delle casse
papali senza l'approvazione dei cardinali. È infine impedito al papa di togliere ai cardinali la libertà di
esprimere la loro opinione.
Innocenzo vi è papa da appena sei mesi e non esita a dichiarare nullo il patto, ritenendolo incompatibile con
la plenitudo potestàtis. Egli tenta di giocare piuttosto la carta della riforma della Chiesa, in particolare degli
ordini religiosi e della curia partendo dal sistema finanziario della Santa Sede. Malgrado queste misure, è un
fatto che la libertà di manovra del papa risulta complessivamente limitata dal collegio cardinalizio per
l'intero arco dell'esilio avignonese. Il numero dei cardinali oscilla intorno ai venti. La maggior parte di essi
ha alle sue dipendenze un palazzo con schiere di servi e altrettanti cortigiani e clienti, al punto che alcuni
papi sono obbligati a richiamare i cardinali ad un minimo di temperanza per la decenza del ruolo.
I testamenti di molti cardinali rappresentano delle prove inconfutabili in mano agli storici di questo periodo
per documentare le ingenti ricchezze che hanno a disposizione. È nei cardinali che si annida lo strumento
privilegiato della riproduzione dell'avignonismo. Si è calcolato che dal 1316 al 1375 sono creati 90 cardinali
francesi, 14 italiani, 5 spagnoli e 1 inglese e che, malgrado la riluttanza della maggior parte dei papi
francesizzanti verso la linea bonifaciana, in realtà essi hanno fatto proprio il principio della plenitudo
potestatis. Infatti hanno utilizzato la formula delle cosiddette «riserve» per favorire e
sviluppare la politica centralista e la burocrazia ecclesiastica, incamerando masse ingenti di danaro dall'intera
cristianità e sfruttando ogni pretesto del sistema per accumulare ricchezze simoniache.
L'elezione del papa, per quanto tutelata, dal punto di vista formale, dalle intrusioni dei poteri politici, subisce
in realtà l'influenza della corona francese. La curia ha installato la sua amministrazione e la sua corte
lussuosa in un palazzo fortificato, a sua volta collocato all'interno di una città circondata da bastioni. Il
conclave non è più un regime eccezionale per provvedere alla continuità del potere papale alla morte del
papa, ma una condizione stabile, istituzionale d'un governo pontificio in situazione di reclusione rispetto alla
Chiesa sia romana che universale.
Il fatto che il vescovo di Roma risieda in una dimora fastosa dall'altra parte delle Alpi costituisce, agli occhi
dei sudditi del papare in terra italiana, che continuano ad essere vessati dalle sue tasse, uno scandalo
intollerabile.
È certo che durante questo esilio il papato e la corte pontificia si compromettono organicamente con i
paradigmi e gli obiettivi della società secolare, ciò che nutrirà di ragioni incontestabili il grande scisma ormai
alle porte. Ma l'analisi degli abusi dell'amministrazione avignonese permette di concludere in modo
documentato che il grande scisma non è che il prodotto d'uno scisma interno in atto nel papato da tempo e
che trova nelle rotture con la comunità ecclesiale di Roma la sua espressione più coerente e al tempo stesso
nociva.
È sintomatico che più di un conclave in questo periodo non riesca a trovare un papa all'interno del collegio
cardinalizio, tanto è screditato e moralmente compromesso. Nel 1362 viene eletto l'abate di San Vittore di
Marsiglia, Guglielmo Grimoard, che non lascia il suo saio di monaco neanche come Urbano v e che, anzi,
proprio perché deciso a combattere il lusso della corte papale, deve scontrarsi con l'ambizioso collegio
cardinalizio. A certi cardinali che protestano risponde ironicamente: «nel mio cappuccio ci sono ancora tanti
cardinali». In effetti sfida anche la loro opposizione nel 1365 quando decide di trasferirsi a Roma nella
speranza di riprendere il controllo politico dell'Italia, in particolare dei Visconti e della Toscana, e di
realizzare un migliore equilibrio con l'imperatore. Ma i suoi progetti falliscono ed egli finisce per pentirsi del
passo compiuto: torna ad Avignone, dopo aver imbottito il sacro collegio di altri sette cardinali, di cui cinque
francesi.
Il conclave cominciato il 29 dicembre 1370 con 17 cardinali ad Avignone termina la mattina del giorno
appresso con l'elezione di Pietro Roger, nipote di Clemente vi, che prende il nome di Gregorio xi. Ha solo 42
anni, ma non ne aveva che 18 quando nel 1348 lo zio lo aveva fatto cardinale diacono avviandolo ad una
brillante carriera nella Curia.
Egli è il principale destinatario e interprete delle sollecitazioni universali per il ritorno della sede papale a
Roma. «Andate tosto alla sposa vostra», lo incita Santa Caterina da Siena. «Vi aspetta tutta impallidita,
perché gli poniamo il colore.»
A favore di questa soluzione militano anche ragioni strategiche: la Francia meridionale è divenuta insicura,
in seguito alla guerra tra Francia e Inghilterra. Il regno pontificio ha bisogno di coesione interna e di ripresa
morale per poter reagire alle pressioni dei Visconti, considerati ormai gli avversari principali del papato.
Anche Firenze si agita guadagnando dalla sua parte molte città toscane a pezzi dello Stato pontificio contro
la dominazione del papa. Viterbo, Perugia, Città di Castello e molte altre importanti roccaforti pontificie
dichiarano la loro ribellione. Di qui la risoluzione che Gregorio infine assume e realizza il 13 settembre 1376
di abbandonare Avignone, molto probabilmente per tentare di evitare in extremis la perdita del territorio
pontificio e forse della stessa Roma.
Per garantirsi una migliore possibilità di manovra, Gregorio xi provvede ad incidere il sistema elettorale,
modificandone una delle principali premesse : la stabilitas loci è un principio cardine che implica che
l'elezione si debba svolgere nel luogo in cui il papa è morto. Inoltre, anche il principio della maggioranza dei
due terzi dei cardinali può giocare contro una migliore flessibilità politica, condizionando il conclave alla
presenza della maggioranza degli elettori.
Princìpi del genere sono il tema di una larga discussione, se risultano ripresi in modo critico nelle lettere che
Caterina manda al papa per incoraggiarlo al grande passo. La Santa senese chiede fortemente a Gregorio xi
di avviare una profonda riforma del collegio cardinalizio, formato da ventisei membri, ventuno dei quali
francesi, quattro italiani e uno spagnolo.
Bisogna divellere i fiori puzzolenti, pieni di immondizia e di cupidità, enfiati di superbia — scrive Caterina. — Li mali pastori e
rettori intossicano e imputridiscono questo giardino. Gittateli di fuori, che non abbino a governare. Vogliate ch'eglino studino a
governare loro medesimi in santa e buona vita. Piantate in questo giardino fiori odoriferi, pastori e governatori che siano veri servi di
Gesù Cristo, che non attendano ad altro che all'onore di Dio e alla salute delle anime, e siano padri de' poveri. Oimè, che grande
confusione è questa, di vedere coloro che debbono essere specchio in povertà volontaria [...] in tante delizie, e stati e pompe e vanità
del mondo, più che se fossero mille volte nel secolo.
Ma Caterina è decisa ad affrontare anche la questione del rapporto tra papa e cardinali per aiutare Gregorio
xi a discernere la via d'uscita: i cardinali — dice Caterina — allegano l'esempio di Clemente iv, che non
voleva fare alcunché senza il consiglio dei suoi «fratelli cardinali». Però — osserva la Santa — si guardano
bene dal citare l'esempio diverso di Urbano v
il quale delle cose che egli era in dubbio se egli era il meglio o sì o no di farle, allora voleva il loro consiglio; ma della cosa che gli
era certa e manifesta, com'è a voi l'an
data vostra, della quale siete certo, egli non s'atteneva a loro consiglio, ma seguitava il suo, e non si curava perché tutti gli fussero
contrari. Parmi che il consiglio de' buoni attenda solo all'onore di Dio, alla salute dell'anime, e alla reformazione della santa Chiesa, e
non ad amore proprio di loro. Dico che '1 consilio di costoro è da seguitarlo, ma non quello di coloro che amassero solo la vita loro,
onori, stati e delizie; perocché il consiglio loro va colà dov'hanno l'amore.
II suggerimento di Caterina al papa è di usare «un santo inganno», imparando dalle bestie, che quando
sfuggono dalla trappola non vi ritornano più:
per infino a qui siete campato dal lacciuolo delli consigli loro, nel quale una volta vi fecero cadere, quando tardaste la venuta vostra
[...]. Voi come savio, spirato dallo Spirito Santo, non vi cadrete più.
In questo modo l'indipendenza del papa dai cardinali è valorizzata non più ai fini di un rafforzamento
autocratico del potere personale del Pontefice, al di fuori delle continuità istituzionali con il collegio
cardinalizio e, per suo tramite, con la Chiesa di Roma, bensì allo scopo di recuperare precisamente quel
vincolo sponsale con la Chiesa di Roma che il collegio cardinalizio si ostina a intercettare.
Per superare queste difficoltà, teoriche e politiche, Gregorio xi dispone che il conclave potrà tenersi senza
alcuna condizione né di luogo né di numero di elettori presenti, «là dove sarà riunito il maggior numero
possibile di cardinali». La libertà dell'elezione e la sua rapidità sono considerate prioritarie rispetto ad altri
interessi di garantismo formale.
Così questo papa francese, che ha «tradito» i francesi, ottiene di rendere non necessaria per la validità
dell'elezione la presenza della maggioranza dei cardinali, che sono appunto francesi e che hanno tutto
l'interesse a trattenere il papa al di là delle Alpi. Nello stesso tempo il papa cerca di assicurarsi una migliore
indipendenza a Roma. Quando egli ritrova la sua Chiesa romana all'inizio del 1377, sei cardinali si sono
rifiutati di accompagnarlo e sono rimasti ad Avignone. Ma non resterà al papa più di un anno ancora di vita,
mentre comincia la catastrofica guerra dei cent'anni e l'Europa è preda delle compagnie dei mercenari e della
peste nera.
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CAPITOLO IV.
L'elezione papale, tra scisma e conciliarità.
Nel 1378 l'elezione di Urbano vi è la scintilla d'una spaccatura generale e prolungata. Un senso di impotenza
e frustrazione pervade l'Europa, messa di fronte ad una evidenza delusiva: contrariamente alle aspettative più
superficiali, il ritorno del papato da Avignone, si è dimostrato insufficiente alla sua riforma. Coelum, non
animum mutant qui trans mare currunt (cambiano cielo, non animo quanti corrono al di là del mare):
l'aforisma di Orazio sembra appropriato per esprimere l'esito di una tale delusione. Non sembra sufficiente,
infatti, alla liberazione del papato dai suoi vincoli politici la fine dell'esilio avignonese, né il distacco dal
controllo della solita cerchia di prelati ricchi e mondani, aristocratici d'anagrafe e di carattere, ai quali sembra
naturale trattare la sede petrina come un affare privato.
Già durante i funerali di Gregorio xi i romani, temendo di perdere nuovamente il papa a causa dei Francesi,
scendono in piazza reclamando un papa d'origine romana o almeno italiana. Dopo l'inizio del conclave nel
palazzo vaticano, la sera del 7 aprile, i tumulti popolari salgono d'intensità e di violenza, fronteggiati da
armigeri assoldati dai cardinali francesi. Il conclave è teatro di scontri tra spade francesi e rivoltosi che
gridano: «Romano, romano lo volemo, o almanco italiano!».
Il gruppo più forte è quello dei cardinali di Limoges, interessati a mantenere la linea dei tre papi limusini. Ma
questa posizione regionalistica spacca anche la solidarietà nazionale del gruppo francese che non condivide
fedeltà così ristrette. Prima del conclave un accordo è stato trovato tra i francesi dissidenti e gli italiani: il
collegio è formato da undici Francesi, quattro Italiani, uno Spagnolo. L'intesa è per un candidato italiano
estraneo al collegio, ma gradito ad entrambi i gruppi: l'arcivescovo di Bari Bartolomeo Prignano, reggente
della cancelleria pontificia, ha vissuto per anni ad Avignone.
Le pressioni della folla aumentano al punto che il vescovo di Marsiglia, custode del conclave, deve chiamare
fuori più volte i cardinali più anziani dei tre ordini per placare la gente, ventilando la riuscita d'un candidato
romano o italiano. Le operazioni di voto sono ancora incomplete, benché abbiano già assicurato una certa
maggioranza a Prignano, quando un nuovo assalto della folla romana consiglia agli elettori la fuga, sei nel
castello di Sant'Angelo, gli altri nelle loro case fortificate o fuori di Roma.
Il giorno dopo solo dodici cardinali si ritrovano in Vaticano per concludere l'elezione. Con la riserva
mentale, di alcuni, poi pubblicata, il collegio insiste su Prignano, che viene intronizzato col nome di Urbano
vi.
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Urbano e Caterina (1378-1389).
La libertà di questo conclave, svoltosi sotto assedio, è talmente dubbia da aver sollevato immediatamente il
problema della legittimità canonica del nuovo papa. Egli non fa quasi nulla per ridurre le perplessità dei suoi
elettori, anzi ricorre subito alle maniere forti, comportandosi da despota arrogante, autoritario e feroce. Con
gli oppositori è così brutale da ordinare che siano imprigionati, torturati e condannati. A Roma il clima
politico tocca in giugno il terrore: i cardinali francesi vogliono manifestare con un gesto clamoroso la loro
protesta e se ne fuggono in blocco dalla città, riparando ad Anagni. Poco dopo essi sono raggiunti dagli
italiani.
L'isolamento del papa è ragguardevole, anche se egli può contare sull'appoggio di personalità influenti e
imparziali come Santa Caterina da Siena, che però non cessa di incitarlo a riprendere la via della riforma
della curia come unico possibile strumento per ricostruire l'unità della Chiesa. La Santa lo invita a
circondarsi di «una brigata di santissimi uomini», di cardinali che «siano a voi drittamente colonne, che
v'aitino a sostenere il peso delle molte fatiche con l'adiutorio divino». La scelta dovrà cadere, a giudizio di
Caterina, su persone «che cerchino Dio, e non prelazioni». Bisognerà ripulire la Chiesa dalla «immondizia
de' barattieri, che giocano col sangue di Cristo e de' suoi poveri». Caterina ha chiarissimo il nesso tra riforma
e unità della Chiesa intorno al papa, e ciò quando ancora il processo scismatico non è giunto a stadi
irreversibili:
ben potete e dovete fare la vostra possibilità, lavare il ventre della santa Chiesa, cioè spazzarlo dal fradiciume, e ponervi quelli che
attendono all'onore di Dio e vostro, e a bene della santa Chiesa; che non si lassino contaminare né da lusinghe né per denari. Se
reformate questo ventre della sposa vostra, tutto l'altro corpo agevolmente si riformerà; e così sarà onore di Dio, e onore e utilità
vostra; con la buona e santa fama e odore di virtù si spegnerà l'eresia. Ciascuno correrà alla S.V. vedendo che voi siete estirpatore de'
vizi [...].
In questa lettera la Santa avverte Urbano vi che la situazione potrebbe precipitare se la riforma non fosse
rilanciata:
Sapete che ve ne diverrà, se non ci si pone remedio in farne quello che ne potete fare? Dio vuole in tutto riformare la sposa sua, e non
vuole che stia più lebbrosa: se non '1 farà la Santità vostra, giusta il vostro potere (che non sete posto da lui per altro, e datavi tanta
dignità) il farà per sé medesimo col mezzo delle molte tribolazioni. Tanto leverà di questi legni storti, che egli li drizzerà a modo suo.
Oimè, santissimo Padre, non aspettiamo d'essere umiliati.'
Il papa non sembra in grado di seguire l'urgente consiglio di Caterina. D'altra parte ogni tentativo di riforma
del potere cardinalizio non consegue altro risultato che quello di esasperare l'opposizione dei cardinali,
timorosi di venire degradati nell'ordinamento gerarchico e di perdere di conseguenza le quote loro spettanti
delle entrate pontificie. Essi sollevano apertamente il dubbio sulla capacità del papa di esercitare la funzione
petrina in modo ragionevole. Tentano di far credere di essersi sbagliati sul carattere e la qualità personale di
Prignano, un uomo che pur conoscevano innegabilmente da molti anni.
Vorrebbero anche negare la tesi che, dopo l'elezione, gli eventuali vizi invalidanti della medesima siano stati
sanati dal loro consenso tacito. In una serie di drammatici conciliaboli ad Anagni, i cardinali vagliano una
serie di proposte da sottoporre al papa per sbloccare l'impasse: vanno dalla tutela cardinalizia, per assisterlo
nel governo, alla convocazione d'un nuovo conclave di sanatoria che convalidi l'elezione, a ipotesi più
radicali imperniate su un programma di riforme da deliberare in un Concilio generale.
La reazione di Urbano vi è dura, intransigente: un no secco ad ogni proposta. Il processo scismatico prende
così una velocità da slavina. Il 20 luglio i cardinali francesi pubblicano una dichiarazione: l'elezione di
Urbano vi è dichiarata invalida, perché non libera, avvenuta per impressionibus ac metu qui cadit in
constantem virum. Essi proclamano formalmente vacante la sede papale e rifiutano la loro obbedienza al
papa.
// conclave di Fondi (1378).
A metà settembre, i cardinali francesi e italiani si riuniscono a Fondi. Cercano di mandare avanti dei tentativi
di negoziato con il Vaticano, senza successo. Il papa anzi fulmina su di loro minacce di scomunica. Così si
riunisce uno dei conclavi più drammatici di tutta la storia della Chiesa: a Fondi il 20 settembre viene eletto
papa il giovane cugino del re di Francia, il rude e arrogante Roberto dei conti di Genevois, che prende il
nome di Clemente VII. La Chiesa ha due papi. I maggiori dirigenti della curia romana si schierano
prevalentemente con l'antipapa. I tentativi di strappare a Urbano vi il trono vi militari si>risolvono in un
fallimento e, nel maggio 1381, Clemente lascia l'Italia per insediarsi ad Avignone.
I due campi si contendono il riconoscimento dei re, dei vescovi, delle università e delle città. Ciascuno si
dota di una curia efficace, crea un proprio collegio cardinalizio, scomunica gli avversari, rivendica un diritto
di giurisdizione universale.
Nel giro di qualche anno l'Europa si trova divisa fra due obbedienze pontificie: l'Impero, l'Ungheria, la
Boemia, le Fiandre, i Paesi Bassi, l'Inghilterra, inizialmente la Castiglia e alcune regioni d'Italia
patteggiano per Urbano vi, che ha anche il sostegno di Santa Caterina da Siena. Francia, Scozia, Savoia,
Austria e, più tardi, Aragona e Navarra sono con Clemente VII. Alcune potenze preferiscono, fin che possono,
un atteggiamento neutrale, come il Portogallo.
Lo scisma penetra anche negli ordini religiosi retti da un'autorità centrale, si formano due capitoli generali e
due superiori generali. Si dividono anche i capitoli delle cattedrali e delle collegiate.
Presto qualsiasi speranza di raggiungere un'intesa viene abbandonata. Nessuno dei due papi accetta di
imboccare la via cessionis, che consisterebbe nelle dimissioni di uno o di entrambi. Quando un papa muore
in un campo, si trova sempre pronto un successore.
L'altra via è proposta nel 1380 da due teologi conservatori di Parigi, primi difensori della teoria conciliare,
Corrado di Gelnhausen ed Enrico di Langenstein. Essi affermano che il Concilio Ecumenico, come
rappresentanza della Chiesa universale, detiene il supremo potere ecclesiastico, che esercita anche sul papa
in casi estremi, secondo il diritto dello stato di emergenza. Nella Epistola concordiae di Corrado e nella
Epistula conciliipacis di Enrico si tende ad affidare a questo organo supremo l'esigenza della riforma della
Chiesa. Non si vede altro modo per mettere d'accordo i due papi, i due collegi cardinalizi, le due obbedienze
antagoniste.
Alla morte di Urbano vi nel 1389, i cardinali non accettano di prendere in considerazione l'opportunità di
differire il conclave. Procedono subito ad eleggere un cardinale napoletano di trentacinque anni, Pietro
Tomacelli, che viene incoronato come Bonifacio ix. Nel 1394 Clemente VII muore e il collegio cardinalizio di
Avignone, sordo ai tentativi dilatori del re di Francia, elegge lo spagnolo Pedro de Luna, che prende il nome
di Benedetto xm.
Benché abbia firmato come i colleghi una capitolazione elettorale nella quale si è impegnato a dedicarsi con
tutto lo zelo possibile alla causa dell'unione e a ritirarsi dalla carica nel caso che i cardinali lo considerino
necessario, egli si rivela ben presto ostile ad accettare la via cessionis, pur sapendo che è raccomandata dalla
maggioranza in entrambi i collegi cardinalizi.
Nella stessa Avignone nell'estate 1398 i cardinali uno dopo l'altro abbandonano il papa, e a Parigi si riunisce
per la terza volta il Sinodo del clero, che decide di sottrargli la propria obbedienza. Si presume che ciò
potrebbe costringere il papa ad abdicare, venendogli meno le rendite francesi. Il re di Francia è totalmente su
questa linea. Le truppe del generale Boucicaut, assoldato dai cardinali, tentano l'assalto nell'autunno 1398
alla fortezza papale, ma Benedetto dispone di materiale bellico e di vitto sufficiente a resistere all'assedio,
finché il 12 marzo 1403 riesce a scappare lungo il Rodano e a rifugiarsi nei territori del conte di Provenza.
Il fallimento delle soluzioni di forza riabilita le vie negoziali per sbrogliare la matassa: un nuovo accordo fra
Benedetto, i reali di
Francia e i cardinali apre la strada ad un'iniziativa dell'antipapa avignonese per trattative con il papa del
Vaticano, sulla base di una piattaforma che include anche la proposta di un ritiro dalla carica. Gli
ambasciatori avignonesi sono ancora a Roma, in attesa di qualche segnale propizio, quando il primo ottobre
1404 Bonifacio muore senza aver ceduto all'avversario.
Nemmeno il suo successore, Innocenzo VII, è favorevole a negoziare con Avignone. Regna solo due anni. Nel
1406, la sua morte sembra offrire finalmente a Roma l'occasione opportuna di compiere un passo verso
l'altro papa, purché il conclave sia differito. Invece i cardinali si riuniscono regolarmente e, il 19 dicembre
1406, eleggono papa il veneziano Angelo Correr, che prende il nome di Gregorio XII.
Gregorio xu (1406-1415).
Nella sua prima notte in trono, egli si affretta a inviare messaggi a re, principi, città, università, per assicurare
di essere pronto a ritirarsi.
Durante il conclave, una capitolazione elettorale firmata da tutti i cardinali, incluso Correr, ha stabilito infatti
che l'eletto s'impegnava ad abdicare se l'altro papa avesse fatto lo stesso.
Ancora una volta la capitolazione elettorale emerge come strumento di equilibrio tra il potere del collegio
cardinalizio e la sovranità del papa, quasi un modo di avviare la trasformazione del papato in una monarchia
costituzionale: mediante le capitolazioni il collegio cardinalizio cerca di vincolare il papato successivo a
precisi impegni programmatici sul piano ecclesiastico e politico. Accordi del genere esprimono la profonda
solidarietà ancora avvertita tra il collegio cardinalizio e la figura papale. È il collegio cardinalizio in
entrambe le obbedienze a rendersi protagonista dei tentativi di rimediare al grande scisma. I cardinali sanno
bene che esso è dannoso non solo per il papato ma anche per il loro stesso potere.
Ma appunto per il loro significato ecclesiologico, in una visione oligarchica più che assolutistica dell'autorità
suprema nella Chiesa, anche le capitolazioni elettorali non sfuggono alla precarietà generale: Gregorio xu si
esime ben presto dal mantenere l'impegno. Quando cede alle pressioni dei cardinali e si mette in viaggio per
Savona, per un vertice con l'altro papa, lo fa con così scarso entusiasmo da avvicinarsi alla mèta in modo
volutamente defatigatorio, senza scoprirsi troppo, girando nei dintorni e forse temendo di cadere in una
trappola.
Visto inutile ogni sforzo, i cardinali delle due obbedienze decidono di comune accordo di ricorrere ad uno
strumento di rappresentatività superiore alla loro, il Concilio Ecumenico. Sono dunque i due collegi
cardinalizi che attivano il ricorso al Concilio per la soluzione dell'emergenza ecclesiastica, considerando che
i conclavi a ping pong
non hanno spezzato ancora la spirale dello scisma. Lo stesso collegio cardinalizio, tagliato in due dalla
divisione ecclesiale, cerca di assumere un ruolo attivo nella crisi, sulla scia della teoria
aristocraticooligarchica la quale, già sotto Bonifacio vin, ha trovato in Giovanni Monaco la formulazione più
classica: come i vescovi, anche i cardinali sono successori degli apostoli; i primi nell'ufficio della predicazione, i secondi nell'assistenza che gli apostoli prima di separarsi hanno dato collegialmente a Cristo, e poi a
Pietro. Se il papa è il capo della Chiesa romana, i cardinali ne sono le membra: insieme essi «rappresentano»
la Sede Apostolica.
Tuttavia è un passo di rilievo inusitato, e gravido di conseguenze, quello che i cardinali compiono ricorrendo
al Concilio: in qualche modo essi sono obbligati dalla gravita della crisi a fare appello ad una istanza
ecclesiastica più generale del collegio cardinalizio, un'istanza costituita dall'episcopato universale, mentre nei
più recenti sviluppi il cardinalato ha preteso di elevarsi al di sopra dell'episcopato nella scala
dell'ordinamento gerarchico.
// conclave di Pisa (1409).
II Concilio viene convocato a Pisa il 25 marzo 1409.1 due papi vi sono invitati. Essi però rifiutano di
riconoscere come valido un Concilio che non è stato convocato da nessuno dei due e reagiscono indicendo
ciascuno un proprio Concilio alternativo, Benedetto xm a Perpignano e Gregorio XII a Cividale. Rispondono
però pochissimi vescovi delle due obbedienze, mentre il grosso dell'episcopato raggiunge il Concilio di Pisa,
ove viene istruito un vero e proprio processo ai due papi.
La sentenza è firmata dai 213 partecipanti, fra cui 24 cardinali: i papi regnanti sono entrambi giudicati
scismatici, eretici ostinati e notori spergiuri, favoreggiatori dello scisma. Viene loro sottratta l'obbedienza e
dichiarata la vacanza della Sede Apostolica. Nel frattempo i due non sono rimasti inerti. Hanno avviato
contatti segreti mediante emissari per cercare di negoziare una via di scampo. Gregorio XII ha ventilato
addirittura di far prigionieri tutti i cardinali, di escluderli dall'elezione del nuovo papa e di riservare il
conclave a un comitato di quattro cardinali, due per ciascuna obbedienza. La sentenza di Pisa è una drastica,
unilaterale affermazione di sovranità del Concilio sul papa e non risolve lo scisma. Viene allestito subito un
conclave, il primo in regime conciliare. I cardinali negoziano una capitolazione elettorale: ognuno si
impegna, se sarà papa, a realizzare una riforma radicale della Chiesa, a Concilio ancora aperto. Per assicurare
senza ombra di dubbio la legalità dell'elezione, si stabilisce che sarà eletto papa colui che avrà ricevuto i due
terzi dei voti dei cardinali di ciascun campo. Iniziato il 15 giugno 1409 nel palazzo arcivescovile di Pisa, il
conclave unitario si conclude il 26 con l'elezione all'unanimità del cardinale di Milano Pietro Filargio. È il
teorico riconosciuto del potere dei cardinali: nella prolusione al Concilio di Pisa, è stato lui a difendere le 16
tesi sul diritto cardinalizio di convocare il Concilio qualora i papi fossero venuti meno al loro compito. Di
origine cretese, Filargio è stato allevato nell'Ordine francescano. Ha una cultura internazionale, maturata
negli Studi di Oxford, Parigi e Pavia, all'avanguardia delle scienze teologiche dell'epoca. Politicamente si è
dimostrato abile navigatore: ha servito i Visconti, anche come diplomatico, ma non al punto di inimicarsi la
corona francese, la quale anzi ha appoggiato la sua candidatura. Prende il nome di Alessandro v. Il documento della sua elezione, firmato da tutti i cardinali delle due aree, viene letto al Concilio nella seduta
successiva. È necessario sottolineare il fatto che, echeggiando l'origine comunitaria dell'elezione papale,
quello di Pisa è il primo conclave inserito in una dinamica conciliare nella storia della Chiesa. È singolare
che la teoria conciliare, alla sua prima apparizione in un'emergenza gravissima, non incontri l'opposizione
del collegio cardinalizio, al contrario sia da questo rivalutata. Il collegio deve il suo carattere di corporazione
chiusa al diritto esclusivo di elezione dei papi, che possiede senza discussione fin dalla costituzione di
Alessandro ni Licet de vitanda. Tuttavia, pur geloso della propria potenza, il collegio cardinalizio ha
accettato di rimettere in scena il Concilio come struttura istituzionale delle proprie operazioni esclusive. La
spiegazione di questa flagrante contraddizione non può che rifarsi alla natura di organo riformista che viene
comunemente assegnata in questo periodo al Concilio Ecumenico. Per riformare la Chiesa si fa strada l'idea
che occorra procedere dalla riforma della sua testa, cioè dal papato, e che perciò si debba fare appello alla
potestas habitualis della Chiesa universale.
Sull'onda della crisi si fa largo la convinzione che occorra rivedere l'ecclesiologia assolutista e papolatrica
culminata in Bonifacio vm. Ora si diffondono le tesi che il papa non è da considerare un signore assoluto
della Chiesa né tanto meno presumere di essere la Chiesa. La sua autorità comincia a essere concepita
piuttosto all'interno di un insieme di Chiesa universale, della quale il Concilio appare lo strumento
rappresentativo più idoneo.
Naturalmente teorie del genere non sono pacifiche. Per i legittimisti esse costituiscono anzi un attentato
inaccettabile alla costituzione monarchica della Chiesa.
// Concilio di Costanza (1414-1418).
Questo dibattito è fondamentale per capire lo sviluppo successivo dei rapporti tra il collegio cardinalizio,
diritto esclusivo elettorale dei cardinali, papato e conciliarità. Dopo il Concilio di Pisa, la Chiesa
dispone di tre papi, ciascuno dei quali non può ritenersi legittimo senza ombra di dubbio data l'esistenza
degli altri due che rivendicano la sua stessa pretesa.
Soltanto il successore di Pietro che sia legittimo indubbiamente è in possesso dell'infallibilità e della potestà
pastorale su tutta la Chiesa, anche alla luce dei canoni del Concilio Vaticano i. Se questa legittimità
indubitata non c'è, si pone la questione della quale si sono già occupati i canonisti del XII secolo (ad
esempio, Uguccione da Pisa): la questione di ciò che debba avvenire nel caso di un papa che cada
personalmente in eresia, oppure minacci con le sue decisioni e i suoi comportamenti di sovvertire la struttura
della Chiesa, comportandosi per esempio da supervescovo, o anche, nel caso estremo, di un papa che
divenga pazzo. Era giurisprudenza consolidata che in tali evenienze si sarebbe dovuto applicare il principio
Orbis major urbe e il criterio fissato da Giovanni Teutonico nel commento alle Decretali: Concilìum major
est papa.
Perciò è ancora una volta nel Concilio che si cerca la soluzione dell'emergenza, con la Chiesa scissa in tre.
Lo convoca a Costanza Baldassarre Cossa, eletto papa il 25 maggio 1410 col nome di Giovanni XXIII dopo la
morte improvvisa di Alessandro v, meno di un anno dopo l'elezione.
Sarà il più grande congresso del Medioevo. Vi partecipano i rappresentanti delle Nazioni, delle Università,
degli Studi teologici e della stessa Chiesa Orientale. In tre anni di discussioni, sono affrontate e avviate a
soluzione pressoché tutte le questioni disputate nella Chiesa del tempo.
Alcune delle innovazioni istituzionali più pregnanti sembrano orientate a ricollocare il potere del collegio
cardinalizio all'interno di una articolazione complessiva della Chiesa in regime conciliare. Infatti il collegio
cardinalizio è recepito dal Concilio come una delle cinque nazioni che hanno diritto al voto. Secondo lo
storico Hubert Jedin, a Costanza «il conciliarismo non era affatto inclinato favorevolmente alle aspirazioni al
potere da parte dei cardinali. Al Concilio essi furono considerati gli originatori del disgraziato scisma e
coloro che traevano vantaggio dagli odiati abusi del sistema curiale».
Dopo molte esitazioni, Cossa accetta di abdicare a patto che i suoi omologhi facciano altrettanto. Gregorio
XII accetta a sua volta di abdicare. Si è in attesa che Benedetto xm faccia altrettanto quando l'unico dei tre
antagonisti, quello che ha convocato il Concilio e che è ad esso presente, Giovanni xxm, abbandona in gran
segreto la città conciliare, vestito da palafreniere, col solo proposito di mandare all'aria il Concilio,
invalidandolo per mezzo della sua fuga.
È il 20 marzo 1415, una giornata nodale: alla notizia che il papa ha lasciato la città di Costanza, il Concilio è
sul punto di sciogliersi. Molti fanno le valigie, cambiavalute e mercanti, affluiti numerosi,
temono agitazioni e chiudono le botteghe. Un ruolo enorme nel recupero della coscienza conciliare è svolto
allora da re Sigismondo, il figlio minore di Carlo iv, che cavalca per la città, facendo continuamente gridare
ai quattro venti che nessuno se ne vada, visitando mereiai, negozianti, cambiavalute e tutti i cardinali e i
signori, per invitarli a restare.
Così i padri conciliari, tra i quali oltre ai cardinali e ai vescovi, figurano abati, procuratori dei capitoli delle
cattedrali e delle università, autorità laiche, di fatto e in verità insieme costituenti la rappresentanza della
Chiesa universale, si riconvocano e decidono di difendersi dall'intrigo di un uomo che avanza la pretesa di
essere stato eletto legittimamente, «che possiede anche, senza suscitare per questo contestazioni d'alcun
genere, un seguito più grande di quello degli altri due, ma che in realtà non è affatto legittimo papa in modo
indiscusso e presenta una personalità morale ambigua» (Jedin). Il Concilio si difende dunque dall'intrigo, allo
scopo di raggiungere il suo scopo supremo: la rimozione dello scisma e la ricomposizione dell'unità della
Chiesa.
Lo strumento per questo obiettivo è allestito il 6 aprile 1415, quando nella sessione v il Concilio di Costanza
approva il decreto che si è soliti chiamare Sacrosanta, mentre inizia con le parole Haecsancta. Un
documentochiave. Esso dichiara che il Concilio rappresenta la Chiesa cattolica ed ha direttamente da Cristo
la sua potestà. Ognuno, anche il papa, vi deve obbedienza nelle materie che riguardano la fede, la rimozione
dello scisma e la riforma della Chiesa nel capo e nelle membra. In quest'ultima formula è affermata la pretesa
del Concilio di essere sopra il papa, di detenere la sovranità su di lui.
Il processo al papa fuggiasco, nel frattempo catturato e riportato a Costanza, si conclude con la sua
deposizione, motivata dalla vita indegna, dagli scandali dati, dalla simonia praticata e canonizzata. Qualche
giorno più tardi il Concilio riesce ad ottenere anche il ritiro di Gregorio XII. C'è voluto un espediente per
strapparglielo: il papa non poteva riconoscere e partecipare ad un Concilio convocato da Giovanni xxm.
Occorreva che fosse lui a convocarlo. Il Concilio gli riconosce volentieri tale diritto. Così il papa ha
incaricato un cardinale di fiducia di annunciare all'assemblea che egli convocava il Concilio. Davanti ad
esso, subito dopo, ha fatto annunciare la propria abdicazione. In cambio il Concilio nomina l'ex papa Correr
cardinale vescovo di Porto e legato della Marca di Ancona: è il primo papa che diventa cardinale, che si
autoriduce il grado.
Resta da disincagliare l'ostacolo dell'avignonese Benedetto xm, un uomo fanatico del diritto e di carattere
intransigente, che si ostina a vantarsi unico legittimo successore di Pietro. La sua deposizione si compie solo
il 26 luglio 1417, dopo che anche gli Stati della penisola iberica, inizialmente a lui fedeli, hanno ceduto alle
pressioni del re di Francia e si sono uniti alla causa unitaria del Concilio.
La via è sgombra per l'elezione del nuovo papa. Ma il Concilio appare diviso sulla questione di sapere se
l'elezione debba precedere o no le deliberazioni sulla riforma della Chiesa.
Anche il sistema elettorale è il tema di lunghe controversie. Da tempo l'opinione prevalente ritiene che
quando un papa muore durante un Concilio, questo stesso Concilio ha titolo di partecipare all'elezione del
successore. E poiché il papato è divenuto causa del disordine, invece che dell'unione, è inevitabile che il
Concilio, senza il quale non può esserci riforma, sia considerato l'organo supremo della Chiesa.
I grandi scritti dell'epoca difendono quasi concordemente questa sentenza. Gli autori riformisti come
Teodorico da Niem e il vescovo di Worms Matteo di Krakau esaminano dettagliatamente le distorsioni e le
contraddizioni del sistema elettorale del papa. Essi ne invocano una revisione approfondita. Considerano che
la riserva elettorale del collegio cardinalizio non sia completamente giustificata e che anche la Chiesa
universale abbia titolo di partecipare al conclave, mediante una rappresentanza eletta dal Concilio
Ecumenico. Sostengono inoltre che il papa non debba essere scelto sempre dalla stessa nazione e in nessun
caso due volte di seguito, essendo preferibile alternare papi di origine italiana a quelli di origine transalpina.
I più critici si spingono a proporre l'abolizione tout court del collegio cardinalizio, comunque la sua riforma
dalle fondamenta. I cardinali non devono essere scelti sempre da un solo paese, ma dalle diverse province
ecclesiastiche. In ogni caso quelli di una stessa nazione non devono essere troppi al punto di detenere la
maggioranza dei voti. Il numero dei cardinali va abbassato, da 24 a 18, il massimo consentito è da stabilire a
trenta. Devono essere eletti in concistoro, non dovranno più godere di commende, ma soltanto di qualche
beneficio. I riformisti sono concreti: ai cardinali non sia concesso — dicono — un reddito superiore ai
quattromila fiorini.
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L'elezione conciliare del papa (1417).
Queste ed altre tesi riformiste forniscono un terreno favorevole alle discussioni e al progresso delle
deliberazioni del Concilio. Il 9 ottobre 1417 i Padri approvano il decreto Frequens, che stabilisce la convocazione d'un Concilio a scadenze periodiche, prima dopo cinque anni, poi dopo sette e infine regolarmente
ogni dieci anni, «per sempre».
Il Concilio diventa pertanto un'istituzione permanente della Chiesa, non più affidato alla discrezione del
papa: è il tentativo «di introdurre nella Chiesa una specie di parlamentarismo». Il decreto crea una sorta di
autorità di controllo ecclesiale sul papato, sollecitandolo a ricorrere al Concilio soprattutto in caso di scisma:
«nessuno dei pretendenti al papato possa presiedere il Concilio come papa, ma an
zi, perché la Chiesa possa riavere più liberamente e rapidamente un unico e indiscusso pastore, tutti i
contendenti dopo l'inizio del Concilio e per sua autorità siano ipso ture sospesi da ogni ufficio».
Il decreto dispone inoltre che l'elezione del papa «che fosse ottenuta con timore e pressioni tali da spaventare
anche un uomo coraggioso, sarà nulla e senza valore, e non potrà essere ratificata o approvata in forza di un
consenso successivo, anche se fosse cessata la situazione di paura. In questo caso tuttavia i cardinali non
potranno procedere a una nuova elezione, fino a che il Concilio generale non si sia pronunziato su quella già
avvenuta, salvo il caso di rinuncia o di morte dell'eletto».
Se si procederà all'elezione, essa sarà nulla ipso iure, nessuno dovrà obbedire a questo secondo eletto come
se fosse papa, sotto pena di esser considerato fautore di scisma. In quel caso, «il Concilio provveda
all'elezione del papa; ma nello stesso tempo tutti gli elettori o almeno la maggioranza, non appena possibile,
senza pericolo per le persone, anche se con pericolo di tutti i loro beni, dovranno trasferirsi in luogo sicuro e
denunciare il timore subito davanti ai pubblici notai, a personalità di rilievo e alla moltitudine del popolo in
un posto significativo [...]».
L'affermazione della eccellenza dell'istituto conciliare ha un ruolo cruciale nel corso degli eventi che portano
al nuovo conclave. Il gruppo francese prende l'iniziativa di un nuovo progetto sul sistema elettorale da
adottare, facendo delle concessioni ai conciliaristi in vista di un compromesso. Il papa, secondo questo
progetto, dovrebbe essere eletto non solo dai cardinali ma anche da sei rappresentanti delle cinque
nazionalità: una misura volta o recuperare il primitivo diritto popolarelaico nell'elezione papale. La
maggioranza dei due terzi dovrà dunque essere raggiunta sia all'interno del collegio cardinalizio sia in seno a
ciascuna nazione, in modo da manifestare anche nella fase elettorale il principio secondo il quale il papa è il
capo della Chiesa universale finalmente riunita.
Il progetto francese viene approvato nella XL sessione conciliare del 30 ottobre 1417. Il decreto, che comincia
con le parole Ad laudem, precisa che l'allargamento del collegio elettorale viene adottato «solo per questa
volta» e «per speciale e espresso consenso e concorde volontà dei cardinali di santa Romana Chiesa presenti
al Concilio generale di Costanza e dello stesso collegio e di tutte le nazioni presenti». Stabilisce pertanto che
«per eleggere il Romano e Sommo Pontefice, ai cardinali siano aggiunti sei prelati o degne personalità ecclesiastiche, già ammesse agli ordini sacri, per ogni nazione presente al Concilio e da questa eletti nel termine di
dieci giorni».
A tutti loro il Concilio attribuisce il potere di eleggere il papa nel modo seguente: «Sarà riconosciuto
pontefice romano della Chiesa universale, senza possibilità di eccezione, colui che sia stato eletto e accettato
dai due terzi dei cardinali presenti al conclave, e dai due ter
zi degli elettori aggiunti agli stessi cardinali di ciascuna nazione; e l'elezione non sarà valida e l'eletto non
sarà considerato Sommo Pontefice se due terzi dei cardinali presenti al conclave e due terzi dei rappresentanti di ciascuna nazione, da aggiungersi ai cardinali per l'elezione, non avranno raggiunto l'accordo
per eleggere il Romano Pontefice».
Viene stabilito quindi di estendere anche ai nuovi elettori il regime giuridico del conclave vigente per i
cardinali e si fa appello affinchè essi procedano «in tutta coscienza e in vista del bene della Chiesa universale, prescindendo da ogni interesse personale o nazionale, da ogni simpatia, odio, grazia o favore». Il
conclave dovrà tenersi entro dieci giorni dalla constatazione della vacanza della Chiesa romana, nella casa
più grande che la città di Costanza possa destinare e predisporre a questo scopo.
Martino v (1417-1431).
Le operazioni elettorali iniziano al Kaufhaus di Costanza, il grande centro mercantile in riva al lago, P8
novembre 1417. Questa volta l'elezione non è segreta: è uno degli effetti del clima conciliare, che favorisce
la messa in comune e la pubblicità delle deliberazioni circa il futuro della comunità ecclesiale, superando
l'arcano del potere. Per la prima volta non solo i cardinali, ma anche il Concilio sono coinvolti nell'elezione
del papa.
Durante lo scrutinio, ogni elettore è invitato a identificare la propria scheda. Il 10 novembre si lamenta
ancora una certa dispersione di voti, segno evidente che l'esito non è precostituito, e nel pomeriggio si decide
addirittura di superare il regime reclusivo del conclave classico, consentendo l'accesso al pubblico.
Vengono meno così i tre elementi costitutivi del regime conclavario classico: la riserva cardinalizia, la
segretezza del voto e la reclusione degli elettori. In compenso l'elezione può contare su un sensusEcclesiae
tale da metterla al riparo dalle pressioni e dalle intrusioni politiche degli interessi estranei: ogni giorno il
popolo di Costanza si riunisce in processione nelle vie adiacenti al canto del Veni Creator Spiritus, per
testimoniare la propria partecipazione religiosa alla ricerca del nuovo papa, e incoraggiare i cardinali.
L'elezione non è più un affare di un gruppo di signori separato dalla comunità, ma torna ad essere un evento
ricondotto alla sua natura ecclesiale. Il clima è pacifico e commosso 1' 11 novembre 1417 quando questo
conclave ampio e conciliare elegge papa il cardinale Oddo Colonna, che prende il nome di Martino v dalla
festa liturgica del giorno. È un romano che ha attivamente collaborato al Concilio di
Pisa, ma ha pure solidarizzato con Giovanni xxm, aiutandolo nella fuga. Dunque, un uomo con pochi amici,
ma anche senza avversari: un vero candidato di compromesso.
Con l'elezione di Martino v il collegio dei cardinali ha provato di detenere un'influenza ancora ragguardevole
sulle sorti della Chiesa universale e di aver esercitato una responsabilità unica nel ristabilire l'unità della
Chiesa dopo trentanove anni di scisma.
La riforma cardinalizia concordata con le nazioni segue in sostanza le linee della proposta pontificia. Essa
fissa il numero dei cardinali a 24, regola il regime delle proprietà e del reddito di questi, stabilisce anche che
nella loro nomina si debba tener conto delle varie nazioni. Tuttavia non fa una parola della loro cooperazione
al governo della Chiesa. Il papa è obbligato soltanto ad udire il collegio prima della nomina di nuovi
cardinali.
Per il Concilio di Costanza infatti il rimedio contro le minacce dell'assolutismo pontificio e per scongiurare
un altro scisma non risiede nell'affermazione dei diritti costituzionali dei cardinali, ma nelle prerogative dello
stesso Concilio secondo i decreti Haec sancta e Frequens.
Nei successivi concordati stabiliti da Martino v con le varie nazioni, in testa a tutto ricorre sempre la
preoccupazione per la scelta dei cardinali. In questi e in tutti i progetti di riforma del collegio cardinalizio
proposti nel corso del xv secolo si ritrova la sensibilità per l'internazionalizzazione del collegio medesimo. In
esso, i cardinali assumono sempre più la figura di rappresentanti delle diverse regioni della cristianità, quasi
per ridurre il rischio del loro infeudamento negli interessi e nel controllo delle grandi famiglie e della Curia
pontificia di Roma. L'obiettivo di una loro migliore indipendenza è assicurato mediante la regolamentazione
degli emolumenti loro spettanti.
Papa Martino impegna la maggior parte delle energie nella riorganizzazione dello Stato pontificio, della
Curia romana e del sistema finanziario papale. Perplesso sulla superiorità del Concilio, egli affida al
successore, il veneziano Gabriele Condulmer, eletto nel 1431 come Eugenio iv, il compito di governare il
conflitto con i conciliaristi. Nelle capitolazioni elettorali durante il conclave il collegio dei cardinali esige
non solo l'impegno per la riforma della Chiesa, ma altresì che i feudatari e gli ufficiali dello Stato pontificio
debbono prestare giuramento di fedeltà oltre che al papa anche al collegio dei cardinali; che a questo sarebbe
assicurata la metà di tutti i proventi e che senza di esso il papa non potrebbe compiere alcun atto importante
di governo. Se clausole di questo genere fossero mantenute, la Chiesa potrebbe evolversi verso un regime
oligarchico.
La sorte di questo progetto costituzionale copre il grande conflitto che oppone fino alla metà del xv secolo il
papato e i conciliaristi, tra i quali militano personalità del collegio cardinalizio come Pierre Ailly e Francesco
Zabarella. La politica di Eugenio iv è decisamente orien
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tata a contenere prima, e a isolare poi ogni tentativo di costituzionalizzare il papato. Egli è costretto a
rimangiarsi la decisione di dichiarare sciolto il Concilio di Basilea, indetto secondo il turno di Frequens dal
predecessore poco prima di morire. Tuttavia non c'è dùbbio che egli si impegna ad assicurare al primato
pontificio una rivincita teologica e politica tale da svuotare di concreta pregnanza le tesi conciliari di
Costanza e di Basilea.
Secondo Hubert Jedin, la vittoria del papato non fu tanto un merito personale di Eugenio iv quanto «una
conseguenza del rafforzamento dell'idea del primato e dei gravi errori dell'assemblea di Basilea».
Sarebbe peraltro difficile negare che, per diciotto mesi, la Chiesa ha provato che a Concilio aperto lo spirito
della riforma è stato così attivo nella Chiesa intera da permettere il superamento della crisi del grande
scisma: «per quale altra strada l'unità della Chiesa si sarebbe potuta restaurare?», chiederà Jedin ai «teorici
puri», legati all'ideale monarchico perfetto. «Esisteva qualche altro organo ecclesiastico che, per autorità,
potesse esser paragonato al Concilio generale?»
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Le riforme elettorali del Concilio di Basilea (1431-1436).
Fra le misure adottate a Basilea attirano speciale attenzione quelle sull'elezione del papa e sul collegio
cardinalizio, sullo sfondo di una diffusa preoccupazione dei Padri di riaffermare e tutelare il potere del
Concilio. Nella iv sessione del 20 giugno 1432 il Concilio stabilisce che, nel caso di vacanza della sede
apostolica durante il Concilio generale, «l'elezione del Sommo Pontefice avvenga nella sede di questo sacro
Concilio e proibisce che venga fatta altrove».
Il decreto conciliare Quoniam salus sull'elezione del Sommo Pontefice è approvato il 26 marzo 1436, nella
sessione xxm. Esso registra il massimo tentativo di qualificare il conclave per la sua dimensione religiosa. Si
prescrive che, dopo dieci giorni dalla apertura della vacanza, i cardinali presenti nel luogo dove avverrà
l'elezione si raccolgano tutti in una cappella attigua al conclave. Preceduti dalla croce, avanzeranno a due a
due, cantando devotamente Veni Creator Spiritus e così entreranno nel luogo del conclave, dove non
potranno portare che i due servitori necessari.
Le misure di sorveglianza sono rese più severe: il camerlengo dovrà ispezionare con cura le celle dei singoli
cardinali e ordinare di portar via tutte le cose da mangiare che eventualmente vi trovasse, eccezion fatta
soltanto per le medicine per coloro che siano infermi o cagionevoli di salute. Uscendo dal conclave e
chiudendone la porta, dovrà esercitare un controllo assiduo, perfino sui cibi destinati ai cardinali,
«non ammettendo se non quanto sembri necessario a una modesta refezione».
Rispetto al conclave ampio, pubblico e «democratico» accettato a Costanza, Basilea restaura la riserva
cardinalizia sul diritto elettorale attivo. L'innovazione rituale forse più interessante è il giuramento che i
cardinali dovranno formulare sui santi Evangeli prima di cominciare lo scrutinio: una formula con cui si
impegnano ad eleggere papa «quello che crederò utile alla Chiesa universale sia negli affari spirituali che in
quelli temporali, e idoneo a tanta dignità; di non dare il mio voto a colui che verosimilmente ha cercato di
farsi eleggere con la promessa o il dono di qualche bene temporale, o con suppliche, presentate
personalmente o per mezzo di altri o in qualunque altro modo diretto o indiretto; di non prestare obbedienza
a chi è stato eletto pontefice, prima che questi abbia prestato giuramento secondo la formula prevista nel
decreto del santo Concilio di Basilea».
Il giuramento pontificio prescritto da Basilea riproduce sostanzialmente la breve formula modellata a
Costanza, con l'aggiunta delle citazioni dei Concili Ecumenici di Costanza e di Basilea, particolarmente per
quanto attiene all'impegno di rispettare la periodizzazione delle convocazioni conciliari prevista dal decreto
Frequens. Il neoeletto dovrà dunque giurare di conservare la fede cattolica quale è stata tramandata dagli
apostoli e dai concili generali, inclusi gli ultimi.
«Questa fede prometto di conservarla intatta fino all'ultima sillaba, di difenderla e di predicarla fino al
martirio e ugualmente prometto di seguire esattamente e osservare il rito dei sacramenti, come è stato
trasmesso alla Chiesa. Prometto anche di lavorare fedelmente per la difesa della fede cattolica, per
l'eliminazione delle eresie e degli errori, per la riforma dei costumi e la pace del popolo cristiano. Giuro
anche di continuare nella celebrazione dei concili generali e nella conferma delle elezioni, secondo i decreti
del sacro Concilio di Basilea.»
Il decreto di Basilea prescrive inoltre che nella scheda ogni cardinale non possa indicare più di tre nomi e
che, nel caso indichi più di un nome, «uno di essi sia scelto fuori dal collegio cardinalizio».
Viene stabilito un solo scrutinio al giorno, subito dopo la messa. Fatto lo spoglio delle schede, se due terzi
non confluiscono sullo stesso nome, queste schede dovranno essere immediatamente bruciate. Prima di aver
completato sei scrutini, non si potrà ammettere accesso a nessuno: dunque solo dopo la prima settimana
priva di risultato positivo, un candidato potrà dichiarare di far confluire i voti da lui raccolti su un altro
candidato in modo da rendergli possibile il raggiungimento della maggioranza dei due terzi.
Il documento reca visibilmente le tracce e, anzi, le cicatrici delle esperienze traumatiche recentemente
concluse. Vi si esprime la premura per un sistema elettorale che al garantismo formale unisca una solida
spiritualità liturgica ed una elevata consapevolezza della re
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sponsabilità: «i cardinali mediteranno e considereranno con attenzione quanto vantaggio o quanto
pregiudizio, quanto bene e quanto male arrecheranno al popolo cristiano eleggendo un buono o un cattivo
pontefice. In nessun'altra occasione potranno meritare maggiormente la grazia o la collera del nostro Signore
Gesù Cristo che nella scelta del suo vicario per le sue pecore [...]». La stessa espressione del consenso
dell'eletto è codificata in precise procedure, che prevedono anche il caso che l'eletto non esprima
l'accettazione entro un giorno, per cui l'elezione «sia considerata come non avvenuta». In caso di
accettazione regolare, invece, «i cardinali gli prestino subito la dovuta obbedienza come Sommo Pontefice.
Una volta poi prestata l'obbedienza, da parte dei cardinali, a nessuno sìa lecito dubitare del suo pontificato».
Sulla scia di una ripresa forte dei diritti costituzionali rivendicati precedentemente dal collegio dei cardinali,
e andando molto più avanti di quanto è stato stabilito a Costanza, il Concilio di Basilea definisce nella stessa
sessione xxm che il papa è tenuto in certi casi, esattamente descritti, a chiedere il consiglio dei cardinali e
assegna a ciascuno dei tre ordini del loro collegio un diritto di controllo su determinati settori
dell'amministrazione, e a tutti e tre congiunti il diritto di correzione verso la persona del papa. Con questo
decreto — secondo Jedin — «il collegio, naturalmente sovranazionale, avrebbe dovuto essere elevato al
rango di una corporazione costituzionale dopo e accanto al Concilio».
In effetti, la stessa obbedienza al neoeletto da parte dei cardinali elettori è regolata dal decreto di Basilea in
modo che l'obbedienza cardinalizia costituisce il potere papale in actu, quasi perfezionando la validità
dell'elezione. Il ruolo dei cardinali emerge così nettamente da riprodurre i vincoli cardinalizi al potere
pontificio accettati dalla cosiddetta Professio fidei di Bonifacio vm: «Con il consiglio dei cardinali, col loro
consenso, direzione, pungolo gestirò e condurrò il mio ministero». Si fa infatti obbligo al papa, terminate le
solenni cerimonie dell'incoronazione, di riunire «almeno per otto giorni» i suoi «fratelli cardinali», allo scopo
di «approfondire con loro seriamente il modo migliore di mettere in pratica quello che con tanta solennità ha
promesso a Dio».
I vincoli collegialisti sono ribaditi più avanti, laddove il decreto stabilisce: «Poiché i cardinali di santa
romana Chiesa sono ritenuti parte del corpo del Romano Pontefice, è utilissimo per la cristianità che,
secondo l'antica consuetudine, le questioni più gravi e difficili siano risolte col loro consiglio, sotto la loro
guida, dopo matura riflessione sulla causa, specialmente se si tratta di decisioni nelle cause riguardanti la
fede, delle canonizzazioni dei santi, delle erezioni o soppressioni, divisioni, soggezioni, unioni delle chiese
cattedrali e dei monasteri, delle promozioni dei cardinali, delle conferme delle provviste
delle chiese cattedrali e dei monasteri, delle deposizioni e trasferimenti degli abati, dei vescovi e dei
superiori [...]».
Anche per la trattazione degli affari temporali della Chiesa romana è richiesto al papa di «ponderare
accuratamente con i suoi fratelli cardinali come guidare in modo efficace e salutare» tali cose. Ai cardinali è
riconosciuto il diritto di opposizione al papa nel caso in cui questi procedesse a nomine di consanguinei o
affini a uffici civili negli Stati della Chiesa.
Il Concilio di Basilea interviene, nello stesso decreto Quoniam salus su Numero e Qualità dei cardinali: non
siano più di ventiquattro — dice — scelti da tutti i paesi cristiani, «affinchè si possano più facilmente
conoscere i problemi emergenti nella Chiesa e provvedervi con più ponderazione». Precisa anche che i
cardinali provenienti da una stessa nazione non potranno superare un terzo dei cardinali viventi in un dato
momento, e che dalla stessa città o diocesi non potrà venirne che uno solo, mentre nessuno dovrà venire dalla
nazione che al momento superasse il terzo, fino a che il numero non sarà disceso a tale livello.
Preoccupato di elevare la qualità del collegio cardinalizio, il Concilio esige che «i cardinali siano uomini
eccellenti nella scienza, nei costumi e nell'umana esperienza delle cose, abbiano almeno trent'anni e siano
maestri, dottori o licenziati con rigoroso esame in diritto divino e umano. Almeno la terza o quarta parte di
essi sia formata da maestri licenziati in sacra Scrittura». Il Concilio ammette eccezionalmente la presenza nel
collegio cardinalizio, «ma in numero limitatissimo, di figli, fratelli o nipoti di re o di grandi principi», a
condizione che «uniscano alla prudenza e alla maturità dei costumi una sufficiente cultura». L'opzione
antitemporalistica è rafforzata dal divieto di far cardinali «i nipoti, figli di fratelli o sorelle, del Romano
Pontefice, o di un cardinale vivente [...]». Ai ventiquattro si potranno aggiungere «altri due nei quali rifulga
la santità della vita o le maggiori virtù», e «alcuni Greci eminenti, quando si saranno uniti alla Chiesa
romana».
Anche nella scelta dei cardinali il papa dovrà interpellare per iscritto il collegio cardinalizio: «saranno elevati
a questa dignità solo quelli sul cui nome, dopo un regolare scrutinio pubblico, la maggioranza dei cardinali si
sarà collegialmente accordata, sottoscrivendo ciascuno con firma autografa». La premessa è nella tradizione
concistoriale dell'xi secolo: «i cardinali affiancano il Sommo Pontefice nel governo della cristianità; occorre
dunque che siano creati cardinali solo persone che, come indica il loro nome, siano di fatto cardini, su cui
girano e si appoggiano le porte della Chiesa universale»: Necesse est ut tales instituantur qui sicut nomine,
ita re ipsa cardines sint, super quos ostia universalis versentur et sustententur Ecclesiae.
Il decreto circa l'elezione pontificia non si limita a elaborare un compiuto sistema che, tenendo conto del
volume di esperienza accumulata dall'istituto conclavario, ne salvaguardi la funzione costitu
zionale mediante una precisa normativa. Tutto questo è allargato ad una definizione costituzionale e
programmatica della funzione papale, a partire dall'istituzione di quell'annuale riunione del papa con il
collegio cardinalizio alla quale il Concilio riconosce compiti costituzionalmente rilevanti nel governo della
Chiesa universale, sia per l'analisi collegiale della situazione religiosa della cristianità, sia per il
discernimento delle misure da adottare. Il papa è sollecitato a coinvolgere i cardinali per gli affari «di
carattere più universale», per poi dedicarsi a riordinare la curia romana con una riforma rigorosa: «allontani e
sradichi completamente dalla curia qualsiasi macchia di simonia, qualsiasi indegno concubinato, e infine
tutto ciò che possa offendere Dio o scandalizzare gli uomini». Di rilevante interesse l'indicazione conciliare
circa l'accessibilità del papa da parte del popolo e i suoi doveri pastorali nei confronti della Chiesa romana:
Dato che il Sommo Pontefice si professa servo dei servi di Dio, lo dimostri nella pratica; poiché da ogni parte gli uomini vengono a
lui come padre comune, permetta loro di avvicinarlo facilmente. Stabilisca almeno un giorno della settimana per l'udienza pubblica,
nella quale ascolti pazientemente e benevolmente tutti, ma specialmente i poveri e gli oppressi, e per quanto gli è possibile, con
l'aiuto di Dio, li esaudisca e, come padre coi figli, provveda benevolmente a tutti col consiglio e con l'aiuto, secondo le loro necessità
e le sue possibilità [...]. Nelle domeniche e nei giorni festivi esca per andare a una messa pubblica, dopo la quale, per un certo tempo,
dia udienza ai bisognosi. Ogni settimana, o almeno due volte al mese, tenga pubblici concistori, in cui ascolti i problemi delle chiese
cattedrali, dei monasteri, ovvero dei principi e delle università, ed altre cose di maggiore importanza [...].
Il fallimento della riforma
Queste citazioni potrebbero forse bastare a discernere lo sforzo compiuto dai riformatori a Basilea allo scopo
di realizzare un cambiamento strutturale della monarchia pontificia, secondo una visione più equilibrata dei
poteri al sommo governo gerarchico. Ma Basilea appare anche l'ultimo tentativo del collegio cardinalizio di
sfruttare a fondo le tesi conciliariste per moderare gli eccessi assolutistici del potere papale, allargando le
competenze del collegio medesimo.
Punto di partenza di questo tentativo è il Depotestate ecclesiastica del cardinale Pierre Ailly, che nel 1416
riprende la teoria antica dello jus divinum del collegio cardinalizio per dedurne il diritto dei cardinali di
collaborare al governo della Chiesa universale e, in caso di gravi mancanze da parte del papa, di intervenire
in via di emergenza convocando un Concilio. Il collegio cardinalizio e il Concilio sono dunque considerati
entrambi come fattori costituzionali.
Più tardi il francese Bernard de Rousergue, futuro arcivescovo di Tolosa, consegna al collegio cardinalizio
un libro, scritto nel 1446, sull'autorità e potestà dei cardinali, ai quali riconosce un'ampia compartecipazione
al governo della Chiesa. Essi hanno diritto di
eleggere il papa quali rappresentanti tanto della Chiesa romana quanto di quella universale: come tali, essi
possono e debbono intervenire, se il papa è impedito nell'esercizio delle sue funzioni, o non è all'altezza del
compito, oppure da scandalo. In caso di scisma, o se il papa manca o ritarda di convocare un Concilio
richiesto urgentemente, spetta ad essi convocarlo.
Il Concilio di Basilea non sembra inseguire l'utopia di una Chiesa senza poteri, limitata al campo spirituale,
povera e retta democraticamente, sulle cui forme di manifestazione terrena e sulle cui proprietà comanda lo
Stato. I Padri di Basilea tengono a distanza l'anarchismo rivoluzionario del Defensor fidei di Marsilio da
Padova, anche se nella prova di forza contro il papato non resta immune da alcune concessioni alle
esagerazioni tipiche del conciliarismo. Tuttavia il complesso della riforma proposta sembra ispirato da un
senso di equilibrio, dalla premura di dare un colpo alle degenerazioni assolutiste del papato, ma anche
all'antiromanismo, che gli abusi del sistema curiale non cessano di nutrire.
Ci sarebbe voluto un genio audace al timone per interpretare questa riforma e coglierla come una
benedizione per il futuro della Chiesa. Malauguratamente questa premura per la riforma non era abbastanza
forte in Eugenio iv da superare in lui il timore delle conseguenze di un indebolimento del potere pontificio.
L'effetto di questo conflitto tra il Concilio e il papa è che il decreto della sessione xxm rimane un pezzo di
carta. La responsabilità del fallimento è generalmente assegnata alla restaurazione pontificia, alla quale il
domenicano di Salamanca Juan di Torquemada nella sua Summa ha fornito le principali basi teoriche. Già
nel 1439 la bolla Laetentur coeli al Concilio di Firenze segna la vittoria del papato sui conciliaristi:
precisamente nell'effimera ricucitura dello scisma con gli Orientali, il papa si trova reintegrato nelle sue
prerogative di successore di Pietro, vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa, padre e maestro di tutti i
cristiani, detentore di tutti i poteri dati da Cristo a Pietro per dirigere e governare la Chiesa universale.
Nella medesima Bolla di unione, il Concilio fiorentino si spinge a proclamare: «nessuno, qualunque
elemosina faccia, e se anche spargesse il suo sangue per il nome di Cristo, si può salvare, se non sarà rimasto
nel grembo e nell'unità della Chiesa Cattolica».
Una definizione così totale è la risposta al tentativo di Basilea di elevare il conciliarismo a principio
correttivo del papalismo e di trasformare il papato in monarchia costituzionale. Una tale affermazione
diventa la magna charta della restaurazione dell'autocrazia pontificia che rilutta al Concilio precisamente in
quanto organo deputato alla riforma della Chiesa.
Nel giro di pochi anni i turni obbligatori del Concilio stabiliti da Frequens a Costanza sono dimenticati, la
stessa istituzione conciliare precipita nell'obsolescenza. A metà del xv secolo Frequens è lettera
morta. Le conseguenze di questo esilio del binomio ConcilioRiforma riproducono a distanza le deviazioni
del delirio dell'onnipotenza bonifaciana: il papato rinascimentale si rimisura sul modello del principato
temporale, escludendo qualsiasi partecipazione autonoma dei cardinali all'esercizio del governo della Chiesa
universale. La funzione del collegio cardinalizio decade in maniera inarrestabile, coinvolta negli intrighi
politici, nel temporalismo, nella corruzione, nel nepotismo che tornano ad oscurare il sistema papale, fino a
infiltrarsi nello stesso sacrario del conclave, ormai di fatto senza difesa possibile.
Ancora una volta la Chiesa fa la prova che nessun congegno elettorale, nessun sistema costituzionale, per
quanto rivolto ad una migliore legittimazione dei poteri e ad una maggiore efficienza del governo, possono
supplire al vuoto di spirito evangelico e di partecipazione comunitaria, che costituiscono il segreto di ogni
vera riforma. La monarchia pontificia si autoesilia nella solitudine al sommo della piramide, in una mimesi
reale con le sovranità temporali, ed è fatale che questo meccanismo intrinsecamente scismatico dia luogo ad
un nuovo scisma esplicito che si compirà tra breve nel nome della Riforma inadempiuta.
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CAPITOLO V.
La Tiara rinascimentale.
La grande ondata del Rinascimento sale senza incontrare argini la collina del Vaticano, dove Niccolo v
lancia il progetto della ricostruzione della Basilica di San Pietro con una magnificenza ineguagliata e
trasforma la piccola biblioteca pontificia nella più importante raccolta di manoscritti latini e greci in Italia. Il
papato abbraccia allora la nuova prospettiva transpolitica: per proiettarsi al di là del confine geopolitico,
associa alla propria potenza politica l'interesse per una sovranità culturale, certo più omogenea al suo ruolo
simbolico: in questo abbinamento il trono papale entra in una rete di relazioni, pacifiche o meno, con tutte le
nuove potenze nazionali d'Europa, ma anche con i principali movimenti culturali (artistici, pittorici, letterari,
etc.) accesi dall'Umanesimo. Roma è già la capitale culturale d'Italia quando Niccolo vi accoglie fra
Angelico da Fiesole e Benozzo Gozzoli. Dei grandi umanisti come Poggio Bracciolini ed Enea Silvio
Piccolomini diventano segretari pontifici.
Sfortunatamente non si può dire che questa duplice sovranità politica e culturale sia sostenuta da una
adeguata qualità ecclesiastica e spirituale dei papi di questo periodo. Gli storici sono unanimi nel discernere
in questa fase l'emergere d'un processo di secolarizzazione che impregna di sé anche le ritualità più stabili
connesse alla sacralità dell'accesso e dell'erogazione del potere papale nonché alla sua legittimazione.
Fino a Niccolo v il papa continua a celebrare la messa come vescovo di Roma e a predicare al popolo. Nei
decenni successivi la liturgia papale dilata il suo fasto esteriore, ma deperisce nella capacità di vivificare i
simboli dell'azione sacramentale: il papa celebra soltanto tre volte all'anno, non predica mai, si limita ad
assistere. Il cerimoniale vaticano «diviene sempre più una scienza occulta strettamente connessa con l'arcano
del potere che nemmeno lo sforzo pastorale della riforma cattolica riuscirà ad incrinare».
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Una moderna signoria.
Queste progressive metamorfosi culturali incidono profondamente il modello di comportamento del soggetto
papale, ma costituiscono
anche una variabile dipendente dell'ecclesiologia dominante, ormai riconquistata al paradigma monarchico
senza attenuazioni né cardinalizie né conciliariste.
Il papato si esprime ormai compiutamente in un'iconografia che lo esalta secondo la forma della moderna
signoria. Le stesse cerimonie dell'ingresso al trono papale si distaccano gradualmente dalla radice religiosa
dell'elezione del vescovo di Roma. L'incoronazione si svolge ormai come atto culminante d'una scenografia
profana, il cui simbolo — la tiara — ha sostituito ormai la mitra, simbolo del potere episcopale e spirituale.
Dalla metà del Quattrocento la tiara, nella sua forma definitiva del triregno, esprime il potere universale del
papa con un fasto e una ricchezza che non hanno più nulla di commemorativo delle radici imperiali e
costantiniane, ma funzionano piuttosto per l'esercizio concreto della sovranità temporale.
L'ascesa del neoeletto pontefice è scandita ora su misure così secolarizzate da farne un fatto del tutto diverso
da quello dei tempi gloriosi e non da molto scomparsi dello splendido papato medievale di Innocenzo in. La
plenitudo potestatis medievale manteneva in ogni caso un riferimento prevalente all'elemento spirituale, che
ora sembra venir meno.
Il papato restaurato come monarchia, la sua ascesa politica, il suo definirsi come principato con uno Stato
riorganizzato e militarmente attrezzato e con una corte, tutto questo, ed altro ancora, hanno conseguenze
rilevanti sul sistema elettorale e sui modi di produzione del potere papale in età rinascimentale.
Il conclave che elegge il 6 marzo 1447 il cardinale di Bologna Tommaso Parentucelli, papa col nome di
Niccolo v, anticipa già la crisi dell'istituto, mettendo in scena un nuovo atto della tradizionale lotta fra i
Colonna e gli Orsini. Sebbene nessuno dei loro candidati sia riuscito a raggiungere la maggioranza dei due
terzi (Prospero Colonna per due soli voti) la soluzione di compromesso raggiunta sul cardinale sarzanese
deriva la sua coerenza politica assai meno da circostanze fortuite che dall'obiettiva necessità del papato di
misurarsi con la nuova realtà dello Stato concepito come ordine pubblico, razionalizzato nel suo sistema
finanziario e diplomatico, nello sviluppo della città di Roma adeguato ad una capitale europea, epicentro di
un sistema di grandi reti viarie e dotata di fortificazioni militari, allo scopo di tutelare l'ordine dalle
sommosse intestine e dagli attacchi esterni e, insieme, di provvedere al benessere spirituale dei sudditi.
Nel 1455 viene eletto il primo dei Borgia, Alonso: uno spagnolo di Valencia, che si fa nominare Callisto in.
È scelto perché personaggio insignificante e perché consente alle fazioni dei Colonna e degli Orsini di
risolvere, ancora una volta, le loro difficoltà.
Callisto in conferisce al papato del xv secolo alcuni dei suoi tratti più deleteri. Egli fa cardinali due suoi
nipoti e nomina un terzo prefetto di Roma e vicario di Terracina e di Benevento. In questo modo
egli straccia i divieti espliciti stabiliti dai Concili di Costanza e di Basilea contro la creazione di cardinali
all'interno dei parenti del papa e stringe l'autonomia del collegio cardinalizio in una morsa che traduce nel
senso più deteriore e subalterno la definizione canonica del collegio cardinalizio come pars corporis papae.
D'ora in poi i cardinali dipendono sempre più dal papato e vivono soltanto di luce riflessa. La loro stessa
nomina è esclusivamente nelle mani del papa: il voto dei cardinali, anteriormente considerato necessario per
la ratifica delle proposte di creazione, diventa di anno in anno meno influente, finché il papa si ridurrà a
comunicare semplicemente al concistoro, a sua volta svuotato di contenuto realmente collegialedeliberativo,
i nomi di coloro che egli ha già scelto. Le nomine sono quasi sempre determinate o da un nepotismo diretto o
da opportunità di tipo politicofamiliare.
Un tentativo di arginare la degenerazione del collegio cardinalizio emerge sotto il pontificato di Enea Silvio
Piccolomini, eletto come Pio il nel 1458. Il travaglio di questo conclave, al bivio fra recupero delle spinte
riformistiche e precipitazione secolaristica senza freno, scrive molta parte dell'agenda di un pontificato che
affaticherà non poco gli storici. Le trattative si fanno apudlatrinas, secondo un cronista del tempo. Il
cardinale più ricco dell'epoca, il francese De Estouteville, non esita a comprare un gran numero di voti.
Contro manovre cosi torbide insorge il partito italiano, che porta il senese Piccolomini, uno degli artefici del
Concilio di Basilea.
Nel corso del conclave viene giurata una capitolazione elettorale che impegna l'eletto a continuare la guerra
contro i turchi e a riformare la curia romana. Il documento include anche l'impegno a stabilire misure che
rimettano in funzione la partecipazione dei cardinali alle decisioni ecclesiastiche de re gravi e nella
ripartizione dei benefici più ricchi, una specie di cogestione dello Stato pontificio, adeguati mezzi di
sussistenza e l'osservanza delle deliberazioni del Concilio di Costanza sulla nomina dei nuovi cardinali.
Viene esplicitamente richiamata l'obbligazione del neoeletto di sottoporre il suo operato ad una verifica
annuale da parte del collegio cardinalizio, con il riconoscimento conseguente dello jus corrigendi da parte di
questo verso il papa. Prima della proclamazione dell'elezione il nuovo papa deve riconfermare la
capitolazione elettorale e in seguito pubblicare una bolla pontificia.
Effettivamente Pio II lavora intensamente alla preparazione di questa bolla di riforma, denominata Pastor
aeternus, senza riuscire tuttavia a pubblicarla. Porta a termine ed emana invece la bolla Execrabilis che
affossa le velleità revanchiste dei conciliaristi, proibendo la via di un ricorso al Concilio contro il papa.
Nondimeno, è interessante cogliere sinteticamente alcune direttive che il papa ha riunito in vista della
riforma, assumendo gli stimoli di Domenico de' Domenichi e Nicola Cusano. Ampio lo spazio dato in
questo disegno alla lotta contro il lusso e la mondanità di alcuni cardinali.
La riforma dei cardinali — secondo l'ampia concezione di Cusano — ha tre scopi: che essi siano colmi di
zelo per la casa di Dio e perciò cardines della Chiesa; che essi consiglino il papa con la miglior scienza e
coscienza; che il loro tenore di vita sia esemplare per gli altri membri della Chiesa. Nuovamente viene
sottolineato il diritto e il dovere dei cardinali di partecipare al governo della Chiesa, in quanto rappresentanti
della Chiesa universale, costituenti un «Concilio permanente». Nel loro consenso ai provvedimenti del papa
si manifesta il consenso di tutta la Chiesa come nell'elezione del papa. Cusano propone un collegio
cardinalizio che rilutti dalla ricercatezza dei cibi e delle suppellettili, così come dallo sfarzo degli abiti e dalla
cupidigia dell'accumulazione dei benefici.
Secondo Jedin, le idee dominanti nei progetti riformistici conciliari vengono recuperate e anzi depurate dai
contagi e dai rischi acuti del conciliarismo in questa bolla mancata. I Concili hanno dimostrato che una
umiliazione del papato avrebbe potuto inferire anche una umiliazione del cardinalato. Per poter rifondare il
cardinalato in modo da farne un contrappeso al papato assoluto, si avverte la necessità di costruire una
piattaforma teologica del cardinalato stesso, dimostrando che esso è stato istituito da Dio.
Si potrebbe anzi aggiungere che questo tentativo di fondazione teologica del cardinalato corrisponde alla
massima espansione secolaristica del potere della Tiara: gli ultimi seguaci delle riforme conciliari si rendono
conto che lo squilibrio del potere a favore del papato, mediante il nuovo spiegamento della sua potenza
politica e culturale, non può trovare bilanciamento adeguato se non in una ristrutturazione dogmatica del
potere cardinalizio. Ma nello stesso tempo essi sognano di poter derivare da questa rifondazione teologica
del cardinalato le energie necessarie per contrastare la mondanizzazione crescente dell'istituto, sottraendolo
alla mimesi della Tiara secolarizzata, col suo mecenatismo, lo scialo dei mezzi finanziari, la vendita delle
cariche e lo sviluppo delle datarie, le splendide costruzioni a gara nell'arte e nel lusso.
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La crisi del cardinalato.
Ora i cardinali non hanno più di fronte un papa che va pellegrinando per l'Italia, bensì un principe potente
che comanda sullo Stato della Chiesa, riceve e invia ambasciatori, scrive lettere a Maometto ii, studia e
organizza strategie politicomilitari a raggio europeo come le crociate.
La mancata convalida della bolla Pastor aeternus è dunque un fallimento ecclesiologico la cui gravita è
misurabile solo sulla accelera
zione della decadenza dell'istituto cardinalizio nei decenni successivi.
Il collegio smarrisce progressivamente anche la sua rappresentatività internazionalista. Sotto la spinta
conciliarista tutte le maggiori nazioni del mondo vi sono rappresentate sotto Pio n. Malgrado le nomine di
cardinali suoi parenti, papa Piccolomini contiene il numero dei cardinali italiani in modo che non si
assicurino la maggioranza assoluta del collegio.
Ma successivamente la presenza degli italiani si fa sempre più ampia, fino a toccare alla fine del Cinquecento
oltre l'80% dell'intero collegio con una proporzione destinata a riprodursi più o meno identica anche nei
secoli successivi. E poiché questa italianizzazione del collegio cardinalizio è il riflesso dell'accresciuta
influenza dello Stato pontificio al centro del sistema politico italiano, ne consegue che il ruolo del collegio
cardinalizio è sempre più assorbito dalle esigenze e funzioni politiche dominanti nel papato coevo.
Questo depotenziamento del collegio cardinalizio e la sua crescente dipendenza dalla Tiara si riflettono
anche nelle capitolazioni elettorali che, a partire dal 1471, cioè dal conclave di Sisto iv, perdono il loro
peculiare carattere di impegno programmatico sul piano ecclesiastico e politico per ridursi a patteggiamenti
di tipo corporativo, compensi e privilegi per tacitare gli elementi mondanizzati del collegio a spese
dell'influenza di questo sulle sorti della Chiesa universale.
Ormai la teoria del papato come principato civile, alla guida di uno Stato e provvisto di una corte, è
incompatibile con qualsiasi vincolo costituzionalista. I cardinali sono assimilati ad una aristocrazia cortigiana
dipendente dal principe. Il venir meno della loro funzione senatoriale e collegiale è una conseguenza voluta
dell'incorporazione dei cardinali nell'apparato amministrativo sia della curia che dello Stato pontificio: essi
non sono che stelle del firmamento cortense e funzionari altolocati, ma dipendenti, della macchina
stataleburocratica del papato romano.
Quanto avviene dopo l'elezione di Paolo n nel 1464 da una illustrazione di particolare evidenza a questo
processo. Durante il rapido conclave, che al primo scrutinio assegna la maggioranza necessaria a Pietro
Barbo di San Marco, viene patteggiata una capitolazione elettorale assai più meticolosa di quella in parte
evasa da Pio n. Fra l'altro si impegna il neoeletto a varare la riforma della Curia entro tre mesi dall'arrivo in
trono, a rilanciare la riforma generale della Chiesa e a rifiutare qualsiasi pressione o raccomandazione nella
scelta dei nuovi cardinali. La capitolazione esige inoltre che vengano reintegrate le decisioni di Basilea sul
tetto del collegio cardinalizio a non più di 24 membri e le deliberazioni adottate a Costanza circa la collegialità delle disposizioni del papa e dei cardinali insieme a materie di più grave momento come la
dichiarazione di guerra.
È più che evidente che il collegio cardinalizio si propone di recupe
rare, mediante questa trattativa, una parte dei propri diritti governativi ormai compromessi. Ma non è meno
evidente che la preoccupazione degli elettori rivela una forte ansietà per la conservazione e, se possibile,
l'espansione dei propri redditi: cento fiorini al mese dovranno essere versati a quei cardinali il cui reddito
annuo non raggiungesse i 4000 fiorini, non si potrà procedere al sequestro di proprietà cardinalizie in sede
vacante, etc.
Qualche vincolo, residuo del primitivo costituzionalismo, viene ancora osato alla supremazia papale: i
benefici più elevati dovranno essere disposti solo in concistoro, le nomine beneficiali solo con l'approvazione
della maggioranza del collegio cardinalizio. Il papa dovrà essere sottoposto a un controllo di fedeltà al
capitolato elettorale due volte l'anno davanti al collegio cardinalizio.
Tanta fatica viene vanificata nel momento in cui Paolo n si affretta ad annullare le capitolazioni elettorali. A
consigliarlo è lo stesso canonista Andrea Barbazza che quattordici anni prima ha difeso il diritto divino dei
cardinali. E c'è anche a sostenere il papa in questo rifiuto il parere di un suo confidente, il vescovo Teodoro
de Lelli, di Feltre, il quale non ha dubbi sul fatto che la Chiesa non è una aristocrazia né tanto meno una
democrazia, ma solo e indubitabilmente una monarchia. Di più, il cardinalato non è per nulla dejure divino,
ma soltanto una creazione del papato, mentre il papa è del tutto libero di assumere le proprie decisioni anche
senza udire i cardinali, e può procedere a creare tutti i cardinali che vuole, senza sentirsi astretto dal tetto
stabilito a Costanza.
Paolo il è passato alla storia come un autocrate moderato. Sebbene abbia infine dovuto cedere alle pressioni
dei cardinali e accettare la capitolazione, a condizione di modifiche sostanziali, l'aver così presto disatteso il
proprio impegno non gli attira la loro fiducia. D'altra parte non sembra che lo spettacolo che i cardinali
danno di sé nel gareggiare col potere pontificio per assicurarsi vantaggi materiali garantisca per sé soltanto la
loro premura per le loro sorti spirituali e i loro profili morali. Sembra piuttosto appropriato l'aforisma proposto da Jedin a questo proposito quando osserva che «ciò che i cardinali del Rinascimento hanno guadagnato
in splendore esteriore, l'hanno guadagnato grazie al papato, perdendolo quanto ad influenza collettiva».
L'elezione di Sisto iv nel 1471, in un conclave durato tre giorni, sembra aver poco a che fare con i consigli di
San Francesco del cui Ordine il nuovo papa è stato ministro generale. Questo Francesco Della Rovere è
ritenuto una personalità modesta, conosciuto per la sua abilità oratoria nelle predicazioni e come erudito. Gli
storici narrano che egli deve l'elezione all'appoggio del duca di Milano il quale, insieme a tutti i cardinali,
viene lautamente compensato.
Lo stesso favoritismo emerge nella sua politica, che non si arresta dinanzi a nessun mezzo, anche illecito, pur
di conseguire l'obiettivo
di trasformare la monarchia pontificia in una grande potenza italiana. Egli si serve dei propri nipoti come
luogotenenti. Due sono creati cardinali, benché la loro moralità non sia elevata e la loro tensione spirituale
nemmeno: sono i francescani Pietro Riario e Giuliano Della Rovere, il futuro Giulio 11. Morto il dissoluto
Riario, un altro nipote ne prende il posto, Girolamo Riario, che presto diventa «il demone maligno» del papa.
Nemmeno questa volta le capitolazioni elettorali vengono rispettate. I cardinali creati da Sisto iv
rappresentano un contributo non trascurabile alla precipitazione secolaristica del papato e del collegio
cardinalizio. La sua generosità nella distribuzione di privilegi, di indulti, di concessioni di grazie dei tipi più
diversi, la sua debolezza coi nipoti, la sua politica italiana gonfia d'intrighi, l'allargamento del fiscalismo per
coprire i buchi sempre più larghi delle casse pontificie, fanno di questo papato mecenatesco «uno dei più
fatali di questo periodo» (Jedin), anche se il suo nome sarà legato per sempre alla costruzione della Cappella
Sistina e ai geni invitati a decorarla, quali il Ghirlandaio, il Botticelli, il Perugino, il Pinturicchio e Melozzo
da Forlì.
In una politica così discutibile, non sono del tutto assenti dei tentativi di riforma, ma talmente accessori da
autorizzare il dubbio che essi siano predisposti quasi solo per esorcizzare la paura del fantasma di un
Concilio Ecumenico, dal quale papa Sisto teme una limitazione dei propri poteri. La bolla di riforma
Quoniam regnantium cura, nel capitolo De DD. Cardinalibus, mira quasi soltanto a mettere un freno al fasto
dei cardinali e dei loro familiari: ad esempio, a mensa non devono essere portati più di due piatti di carne;
quando i cardinali si recano a cavallo al palazzo papale o vanno per la città, non debbono avere con sé più di
trenta accompagnatori montati, fra cui dodici che abbiano ricevuto un ordine sacro. La bolla restaura anche
la norma del decreto di Basilea secondo la quale ogni cardinale deve dotare il suo titolo di tanto quanto basti
al mantenimento di un sacerdote; egli deve anche visitarlo una volta all'anno. Silenzio sugli altri punti della
riforma.
Del resto, i fautori di una linea di resistenza morale del collegio cardinalizio si trovano ormai in netta
minoranza, e sfiduciati: ogni tentativo di opporre qualche resistenza al nepotismo di Sisto iv sembra loro
destinato a fallire. Nei suoi tredici anni di pontificato egli crea non meno di 34 cardinali, fra i quali sei nipoti:
ogni limite patteggiato nel capitolato d'elezione viene infranto.
«Non vale la pena di lottare», scrive esausto il cardinale Ammannati al collega Gonzaga alla fine del 1476.
«Mi manca anche la volontà di farlo.»
// denaro e l'elezione.
Alla morte di Sisto iv, Battista Cibo, vescovo di Molfetta, genovese di nobile famiglia, viene eletto il 29
agosto 1484 a soli 52 anni col nome di Innocenzo vili. Il conclave è ridotto a un mercato, dominato dal
danaro di Giuliano Della Rovere che ha bisogno di un uomo di paglia sul trono per poter mantenere in pugno
il papato.
Burcardo di Strasburgo è il cerimoniere del conclave ed è il testimone involontario della compravendita dei
voti: «si son fatte varie manovre e infine sono stati assicurati circa diciassette voti sui venticinque cardinali
elettori a favore del reverendissimo signor cardinale di Molfetta, il quale, nella notte seguente, prima dell'ora
sesta della notte, cominciò a firmare in camera sua le richieste ad istanza degli stessi cardinali. Genuflesso su
un ginocchio, firmava le suppliche che venivano presentate sopra un certo forziere, con alcuni cardinali intorno, i quali aspettavano le sue firme».
Grazie a questa penetrazione della simonia e della corruzione nel conclave, Giuliano Della Rovere può
chiudere la partita con i Borgia, gli Orsini e il partito sostenuto da Milano e da Napoli in meno di quattro
giorni. Per un papato compiutamente secolarizzato, l'elezione non può che assimilarsi. Il papa riconosce un
figlio e una figlia che ha avuto illegittimi prima di farsi prete. Celebra egli stesso il matrimonio d'una nipote
con un banchetto al quale assistono anche delle dame, per la prima volta nella storia pontificia. Corruzione e
compravendita delle cariche in Curia diventano d'uso comune. Abbondano le false bolle e i falsi privilegi.
Un papa così nepotista si crea un collegio cardinalizio a propria immagine, formato da uomini ricchi e
ambiziosi, divisi in fazioni che prolungano gli intrighi pontifici nella città e nei dintorni. Innocenzo muore
poco dopo la conquista di Granada da parte di Ferdinando d'Aragona e poco prima della Conquista
dell'America in questo 1492 che si assume come crinale per l'inizio della modernità. Il denaro che corrompe
e devasta gli Indios è lo stesso che corrompe e devasta la Chiesa.
È l'anno in cui comincia a regnare Alessandro vi. Il conclave dura dall'8 al 10 agosto, con tre scrutini. I
ventitré cardinali si dividono in due schieramenti, politicamente legati rispettivamente a Ludovico il Moro di
Milano e al re di Napoli Ferrante. Il danaro corre a fiumi anche in questa elezione, nella quale non esiste una
maggioranza precostituita. Malgrado la potenza e l'attivismo di Giuliano Della Rovere, finisce per prevalere
la candidatura a lui sgradita del vicecancelliere Rodrigo Borgia, decano del collegio cardinalizio, nipote di
Callisto ni e come lui nativo di Jativa, in Valencia. Né sembra fargli da ostacolo la condotta seguita da lui da
quando, ad appena venticinque anni, ha ottenuto la porpora e il posto di cancelliere della Chiesa, una delle
leve più potenti della Roma ecclesiastica, in grado di spostare
montagne di benefici: nemmeno un'ammonizione esplicita di Pio n è riuscita a ricondurlo a modi di vita
meno indecorosi. In un'epoca che vede un Cesare Borgia far parte del collegio cardinalizio e il papato dar
prova di stupefacenti capacità erotiche e paternità reali, si potrebbe essere sorpresi neh"apprendere che
questo papa, scosso dall'assassinio del suo figliolo prediletto Juan, si fa promotore di una iniziativa di
riforma per controllare la crescente espansione della secolarizzazione e della depravazione. Studiata da una
commissione cardinalizia di cui fanno parte tra gli altri il severo Oliviero Carafa e l'incensurabile Francesco
Piccolomini, la bolla In apostolicae sedis specula rappresenta «il più completo programma di riforma
tracciato tra il Concilio di Basilea e quello Lateranense». Essa si propone di combattere nepotismo e
politicizzazione, incidendo la radice del bubbone, il cumulo delle prebende che ha toccato volumi enormi per
i singoli cardinali e specialmente per i cardinali nipoti (e figli): la critica pontificia attacca direttamente
l'eccessivo numero dei familiari, l'organizzazione di cacce chiassose, la partecipazione a lotterie e a tornei,
l'organizzazione di commedie e spettacoli classici e pagani, i costosi musici e buffoni, le sepolture fastose.
Contro il nepotismo è rivolta la norma che tutte le rocche e gli altri possedimenti dello Stato della Chiesa,
affidati dai tempi di Sisto iv a singoli cardinali, debbano esser restituiti. Secondo un'altra norma intesa a
combattere la politicizzazione, nessun cardinale il quale abbia in un paese benefici per oltre mille ducati può
far uso del suo voto in votazioni concistoriali su questioni segrete relative a questo stesso paese. Il
dispositivo combatte anche l'assenteismo dei cardinali dalla curia: chi entro due mesi, per l'Italia, o quattro,
da altri paesi, non fa ritorno al suo ufficio a Roma, perde tutte le rendite dei suoi benefici e delle sue cariche,
insieme con ogni altro suo privilegio. Per quanto particolareggiato, anche questo tentativo, come quelli
precedenti emersi sotto Pio n e Sisto iv, finisce in un fuoco di paglia. Benché si misuri seriamente con il
problema della riforma cardinalizia, pure elude la necessità di munire il dispositivo di severe misure di
sicurezza e di punizione e lascia da parte la questione delle garanzie. Come fa notare Paolo Prodi, le riforme
proposte sono settoriali, legate come sono al vecchio quadro curiale, quando ormai è in pieno sviluppo «la
nuova burocrazia papaiestatale e le nuove esigenze finanziarie rendono superata tutta l'organizzazione
tradizionale delle istituzioni ecclesiastiche centrali».
Particolarmente carente è l'attenzione al centro nevralgico del sistema, cioè la figura stessa del papato: i
pareri elaborati da Carafa arrivano a proporre misure rivolte al contenimento dell'assolutismo paPale, tra le
quali l'attribuzione al collegio cardinalizio di un controllo sul comportamento papale e di \mjus corrigendi da
esercitare in due riunioni plenarie dei cardinali due volte l'anno, per verificare l'attua
zione della bolla di riforma. Lo stesso Piccolomini, nel suo memoriale preparatorio, osa richiamare
all'osservanza dei decreti conciliari di Costanza e di Basilea sui livelli culturali e la deitalianizzazione del
collegio cardinalizio, sull'obbligo del papa di sentire i cardinali per le decisioni de re gravi (guerre,
alienazione di beni della Chiesa etc), in modo che il concistoro non sia avvilito ad una assemblea di annuenti.
Spaventato del proprio coraggio o dei sacrifici che avrebbero imposto al proprio stile di vita, Alessandro vi
tarpa le ali ai progetti riformatori e rifiuta di trasformare in legge il progetto della bolla. Del resto, alcuni dei
riformatori sembrano aver bisogno di una eminentissima riforma. Qualunque cosa ne abbiano potuto cantare
gli ammiratori, è un fatto che Oliviero Carafa, lo stesso che nel celebre voto de reformanda Ecclesia ha
sostenuto essere il cumulo dei benefici scandalo e rovina, gode di rendite immense che procura di accrescere
con ulteriori benefici. La sua collera contro Alessandro vi si scioglie di colpo non appena il papa gli
garantisce una porpora per il nipote e più ampi poteri in curia per lui. Più riformista nell'accessorio che innovatore nelle materie principali, egli non riesce nemmeno ad andar oltre una mediazione diplomatica tra gli
imperativi profetici di fra Girolamo Savonarola — che arriva a invocare un Concilio per obbligare il papa
alle riforme — e le incertezze di papa Borgia. Perfino Alessandro vi sembra disposto ad assolvere il
fustigatore fiorentino o, almeno, pronto a dare piena libertà sul caso ai cardinali della commissione de
reformanda Ecclesia.
Ma il degrado dell'istituto cardinalizio è ormai sceso così in basso che papa Borgia tenta addirittura di
comprare con un cappello cardinalizio il silenzio di Savonarola sulla Curia: una porpora che lo renderebbe
ridicolo e, per ciò che compromette, nefando.
Se ne trova traccia nella celeberrima predica del «cappello di sangue» fatta dal priore di San Marco nella
Sala Grande del Consiglio il 20 agosto 1496, presente la magnifica Signoria di Firenze:
Signore mio, io non voglio altro che te. Io non tengo modi da cercare gloria umana, absit hoc a me; a me basta questo, che tu abbia
sparso el sangue per mio amore. Io non voglio gloriarmi in altro che in te, Signore mio [...] Tu se' la mia gloria, tu esalti el capo mio,
la mente mia. Io non voglio cappelli, non mitre grande né piccole. Non voglio se non quello che hai dato alii tuoi santi: la morte. Uno
cappello rosso di sangue: questo desidero.
Il regime del Conclave subisce di riflesso il rilassamento diffuso. La clausura è praticamente nulla, gli
ambasciatori vanno e vengono a conversare liberamente con i cardinali della rispettiva fazione, e quanto al
menu degli elettori, non si trova più traccia dell'austerità del «piatto unico» voluto dalla saggezza di Gregorio
x.
Alla morte di Alessandro, causata più probabilmente da febbre ro
mana che da una pozione di veleno, i cardinali provvedono anzitutto ad allontanare da Roma il potentissimo
primogenito del papa, Cesare Borgia, se non altro per tentar di sedare l'esasperazione popolare che scuote la
città. Dal punto di vista istituzionale, la partita che si gioca in questo conclave è gravissima: si tratta di
decidere se la riproduzione dell'istituto papale debba essere assicurata dalla libera decisione di un organismo
sovrano, come astrattamente si vuole ancora il collegio cardinalizio, oppure debba esser abbandonata al
sistema dinasticoparentale, nei modi peculiari del principato signorile. L'allontanamento da Roma di Cesare
Borgia, a diciotto anni vescovo di Valencia e nel 1493 creato cardinale da suo padre, prima di diventare
plenipotenziario papale per le Romagne, costituisce quindi ben più che una semplice misura di ordine
pubblico.
Il collegio dei cardinali, per quanto invaso da personaggi che hanno comperato la porpora a colpi di fiorini,
intende sbarazzarsi del pericolo di appiattire il papato sui paradigmi della appropriazione familiare. Con le
43 creazioni cardinalizie di papa Borgia, il collegio è divenuto quasi il doppio di quello che il Concilio di
Costanza ha stabilito sul massimo di 24 membri. Fra i cardinali di Alessandro vi, diciassette sono Spagnoli,
di cui cinque della sua famiglia, altrettanti Italiani, sette Francesi, uno Inglese, uno Ungherese e uno Polacco.
Il maestro delle cerimonie pontificie Giovanni Burcardo attesta con meticolosità notarile le cifre con cui i
cardinali nominati nel 1500 hanno lucrato la dignità.
Ci si può chiedere quale possa essere l'autonomia di un organismo gerarchico talmente occupato dal mercato.
Per quanto anomalo possa sembrare, è un fatto che quando Alessandro vi nel 1493 procede alla creazione di
19 cardinali, egli deve affrontare la protesta di ventun cardinali, offesi per il fatto di non essere stati
consultati per la nomina dei nuovi colleghi. Di più, essi sostengono che i nuovi non sono affatto cardinali, e
si rifiutano di riceverli. Papa Borgia reagisce allora minacciando di creare un'altra «infornata» cardinalizia. E
benché sia proverbiale il riso con cui egli ha investito in concistoro l'anziano cardinale del Portogallo che lo
contraddiceva, pure egli deve constatare che il frate pazzo di San Marco non è più solo a risvegliare dalla
sonnolenza il regime conciliare della Chiesa per una riforma del papato che non sia soltanto una superficiale
moralizzazione degli stili.
Da questo processo di personalizzazione progressiva della monarchia pontificia scaturiscono nuove figure
istituzionali di mediazione o di delega pontificia, come ad esempio quella del cardinale nepote, una sorta di
primo ministro del papa, diverso dal segretario di Stato, e munito del rapporto di confidenza e di autorità che
discende dall'esser lui un consanguineo del Sovrano.
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La capitolazione del 1503
Sembra di cogliere dunque nel collegio cardinalizio alla morte di Alessandro vi una qualche preoccupazione
per la familizzazione del potere papale determinata più dal meccanismo politico principesco instauratosi nei
gangli della monarchia pontificia che dalla confusione tra la storia del papato e la storia dell'erotismo
eccellente durante
il ciclo dei Borgia.
Ne troviamo traccia nella capitolazione elettorale redatta dal collegio cardinalizio in quel settembre 1503.
In questo accordo si introduce una innovazione rilevante rispetto alla capitolazione del 1484, tanto più se si
considera la presa della restaurazione monarchica, oltre sessant'anni dopo il Concilio di Basilea: si stabilisce
infatti che l'eletto accetti fin d'ora d'esser vincolato dall'impegno di convocare entro due anni un Concilio
Ecumenico e che si dovrà procedere comunque ad un nuovo Concilio ogni cinque anni, al fine di riprendere e
di sviluppare la riforma della Chiesa. La capitolazione elettorale delinea anche un nuovo passo dei cardinali
in vista di recuperare una partecipazione sia pure limitata al governo della Chiesa e allo Stato della Chiesa. Il
papa assicura che non concederà a laici alcuna giurisdizione su questioni importanti, sia di carattere
spirituale sia di carattere temporale (riferendosi alla posizione mantenuta per qualche tempo dalla figlia del
papa Lucrezia Borgia), che non deciderà questioni concistoriali senza il consenso della maggioranza dei
cardinali e che esige il giuramento di fedeltà al collegio cardinalizio da parte dei castellani di tutti i borghi
dello Stato della Chiesa.
Circa la creazione di nuovi cardinali, la capitolazione escogita un nuovo dispositivo al fine di far rientrare il
collegio cardinalizio nell'ambito del controllo dei cardinali stessi, contenendo l'arbitrio papale. Essi cercano
di sventare l'istituzionalizzazione del modello prodotto da Cesare Borgia per omologare lo Stato della Chiesa
al paradigma del principato signorile. Perciò la capitolazione esige che i vecchi cardinali manterranno
illimitatamente i diritti del loro rango, mentre i nuovi non godranno del diritto di voto fino a che il numero
dei vecchi non sia sceso a venti.
Le misure di questa capitolazione resteranno lettera morta. Nel conclave riunito dal 16 al 21 settembre 1503
in Vaticano, né Giuliano Della Rovere né il francese Giorgio d'Amboise, arcivescovo di Rouen, ottengono la
maggioranza necessaria. Il collegio promuove un candidato di compromesso, Francesco Piccolomini, nipote
di Pio ii, un uomo già malato, che è però un simbolo, avendo lottato per il progetto di riforma conciliare sotto
Alessandro vi. Ma il regno di Pio in dura solo ventiseì giorni, e finisce ancor prima dell'incoronazione.
Questa volta Giuliano Della Rovere decide di giocare il tutto per tutto. In un conclave di poche ore, il 31
ottobre
1503, egli sbaraglia la resistenza dei cardinali spagnoli prima con un accordotrappola con il loro padrone,
Cesare Borgia, poi acquistandone i voti in cambio di oro.
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La riforma perdente del Concìlio Lateranense (1514).
In capo a poche settimane Giulio n emana la Cum tam divino, una bolla che decreta la nullità di un'elezione
papale ottenuta mediante simonia. «I cardinali che eleggono un papa mediante simonia», dice papa Giulio,
«dovranno essere privati di ogni beneficio e di tutte le dignità, incluso il cardinalato.» La misura non è
retroattiva. La partita con le pretese autonomistiche del collegio cardinalizio è aperta.
Ancor meno dei suoi predecessori, Giulio n è disposto a lasciarsi condizionare dal «senato» della Chiesa. Nel
1505 egli realizza la creazione di nove cardinali, tra cui due suoi nipoti, trascurando completamente le
proteste del collegio cardinalizio, e naturalmente la fedeltà alla capitolazione elettorale.
Ancora pochi anni e il papa riesce a stroncare un movimento secessionista fomentato dai cardinali
dell'opposizione e dagli awersari stranieri dopo il disfacimento della Lega di Cambrai rispondendo al
«conciliabolo di Pisa» con la convocazione di un Concilio Ecumenico in Laterano per il 19 aprile 1512: un
colpo da maestro, col quale disinnesca il tentativo scismatico di Concilio cavalcando egli stesso l'idea del
Concilio per poter governare la riforma in senso papale.
Nello stesso tempo depone i quattro capi dell'opposizione cardinalizia e crea al loro posto otto nuovi
cardinali. Di più, batte sul tempo gli innovatori e istituisce una commissione cardinalizia per la riforma della
curia, che però non può andar oltre la riduzione della pressione fiscale.
Il mito del papato secolare si specchia nel Mosè «papale» di Michelangelo, nella bramantesca costruzione
della Basilica Vaticana, nel Giudizio egualitario e antigerarchico della Sistina, negli affreschi delle Stanze di
Raffaello. Ma il dubbio che questa struttura compiutamente politicoculturale, all'apogeo della sua sovranità
secolare, possa sbriciolarsi da un momento all'altro per un'interna fragilità, è quello che persuade infine papa
Della Rovere a rompere gli indugi e ad allestire l'ultimo tentativo, prima dello scisma luterano, di una riforma ecclesiastica realizzata dal papa.
Il modello di una tale riforma resta tuttavia ancora alla periferia delle cause del male e degli abusi che
vengono deplorati. Lo stesso Giulio ii è al corrente del programma di riforme radicali preparato dai due
camaldolesi veneziani Tommaso Giustiniani e Vincenzo Quirini, per i quali la crisi non sarebbe stata superata
se anzitutto il papato politico del Rinascimento e il suo centralismo fiscale non fossero stati scardinati da un
processo di interiorizzazione e riunificazione spirituale della vita della Chiesa sotto la guida del papato. Nel
prò
memoria dei riformatori al papa, si insiste sull'idea che i cardinali devono essere liberi da ogni altro impegno,
eccetto che per la loro chiesa titolare, e ricevere i mezzi per vivere sotto forma di pensioni. Inoltre, si riabilita
il progetto del turno quinquennale del Concilio visto come regolatore dell'intera vita della Chiesa.
Né il papa né il Concilio seguono il piano ispirato dei due geni lagunari. Il conclave che comincia il 4 marzo
1513 pone tra le condizioni politiche dell'eligendo il programma della riforma della Chiesa e della curia
mediante la prosecuzione del Concilio iv del Laterano.
Toccati dall'autoritarismo di Giulio n, i cardinali si preoccupano di garantirsi misure protettive come quella
che esige i due terzi del collegio cardinalizio per appoggiare un procedimento papale contro i cardinali e per
eleggerne di nuovi o per assumere deliberazioni importanti in merito allo Stato pontificio e alla politica
estera.
L'accordo porta in trono 1' 11 marzo Giovanni de' Medici, 37 anni, figlio di Lorenzo il Magnifico, cardinale
da quando aveva 14 anni per nomina di Innocenzo vm. Il processo di lenta osmosi fra la monarchia
politicoreligiosa della Chiesa e il paradigma del principato rinascimentale raggiunge così il suo apice,
insieme reale e simbolico, nella figura papale di Leone x. L'affermazione dello Stato pontificio assume una
rilevanza assoluta nel programma pontificio nel tentativo, sfortunato, di contenere le pressioni della Francia e
dell'imperatore Massimiliano sull'Italia, rafforzando nel contempo il potere dei Medici a Firenze.
Il collegio cardinalizio non può che subire, in questa fase, la sua massima mortificazione, benché un Concilio
resti aperto e sia al lavoro. Il decano del collegio e camerlengo della Chiesa cardinale Riario viene arrestato e
rinchiuso nei sotterranei di Castel Sant'Angelo insieme ai cardinali Alfonso Petrucci e Sauli, accusati di
cospirazione. Petrucci viene giustiziato, gli altri spogliati della carica, delle rendite e dei benefici e
condannati a forti pene pecuniarie.
Da allora il concistoro cessa qualsiasi funzione che non sia quella decorativa. La Roma papale pratica
sistematicamente lo scambio tra uffici ecclesiastici e mercato, si calcola che gli uffici venali siano circa
duemila sotto questo pontificato e le finanze pontificie sono così gravate dalle faraoniche spese per il
mantenimento della corte, il mecenatismo e le esigenze della potenza statuale della Chiesa da aprire delle
voragini vertiginose nel tesoro pontificio.
Uno spettacolo del genere potrebbe spingere il Concilio a farsi carico non solo della cura dei sintomi ma
anzitutto dell'eliminazione delle cause del male. Ma le misure adottate con la famosa grande bolla di riforma
nella sessione ix del 5 maggio 1514 dimostrano una tragica inadeguatezza della visione dei responsabili. Si
regola il processo informativo per la scelta dei vescovi, con ruoli più precisi di verifica e di ispezione affidati
ai cardinali, si impone a questi la cura della loro chiesa titolare, moderazione nello stile di vita, sobrietà,
castità e pie
tà, astensione dal superfluo, dal lusso e dalla pompa, modestia sacerdotale, controllo dei favoritismi, un
numero conveniente di domestici e di cavalli, onde evitare accuse di lusso e di prodigalità.
Mentre Leone x distribuisce a piene mani benefici ecclesiastici e dispense, in cambio di danaro, il Concilio
discetta sui vestiti che i domestici dei cardinali devono indossare, disponendo che «nessuno che abbia
ricevuto un beneficio o gli ordini sacri, indossi vesti a più colori o abiti poco convenienti all'ordine
ecclesiastico», con l'unica eccezione «per i membri della famiglia papale che possono portare abiti di colore
rosso per il decoro e la consuetudine della dignità pontificia».
Un poco più consapevole appare l'altra norma che impone ai cardinali l'obbligo di risiedere nella curia
romana, «dato che la principale funzione dei cardinali consiste nell'assistere spesso il romano pontefice e nel
trattare gli affari della sede apostolica». Si può ricordare anche l'altro passo della Bolla lateranense, che
assicura al «sacro senato maggiore libertà di voto in modo che, com'è giusto, ogni cardinale esprima
liberamente e senza timori il proprio parere secondo Dio e la propria coscienza»: per questo il dispositivo
stabilisce che nessun cardinale «riveli per iscritto, oralmente o in altro modo i voti dati nel concistoro».
Sono gli anni in cui molti vescovi si nutrono spiritualmente nei libri di Erasmo. Ancora tre anni e Luterò, il
31 ottobre 1517, affiggerà le sue tesi alle porte della cattedrale di Wittenberg. Per più di mezzo secolo —
dice Jedin — si è discusso di riforma della curia e della Chiesa, ma «non è mai seguito un fatto veramente
liberatore con il quale il papato si mettesse a capo del rinnovamento della Chiesa».
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CAPITOLO VI.
Da Luterò a Sisto v.
La vendita delle cariche è da tempo uno dei modi adottati dai papi per far fronte alle difficoltà finanziarie.
All'avvento di Sisto iv, nel 1471, si contano ben 650 impieghi venali. Ma Sisto iv sviluppa il sistema a tal
punto da esserne considerato egli stesso l'inventore. Notariati, protonotariati, uffici di procuratore presso la
Camera Apostolica, ogni carica viene messa in vendita per alcune centinaia di ducati. Innocenzo vai crea 24
segretari apostolici, le cui cariche sono vendute a 6000 ducati. Alessandro vi istituisce 81 posti di scrittore
apostolico per ognuno dei quali i beneficiati devono versare 750 ducati. Il sistema conosce una importante
espansione sotto Giulio n e Leone x, dato che il bisogno di danaro fresco si accresce, e tanto più con l'incipiente crisi del sistema delle indulgenze.
Alla metà del xv secolo i papi sono così preoccupati di reperire nuove fonti di reddito da sviluppare, fino a
forme esplicitamente simoniache, l'ufficio della Dataria, istituzionalmente adibito alla accoglienza e alla
trasmissione delle suppliche indirizzate al papa. Con il tempo la Dataria si occupa anche e soprattutto delle
richieste volte a ottenere il conferimento di benefici vacanti.
«Borsa particolare del papa», la chiama l'ambasciatore veneto Giacomo Soranzo. Essa assume in quest'epoca
un rilievo autonomo rispetto alla Camera Apostolica, trasformandosi in ufficio finanziario a disposizione
personale del papa, così da costituirsi in segno e strumento della personalizzazione senza precedenti del
potere papale, sui due fronti dello Stato e della Chiesa. Mediante la Dataria il pontefice provvede alle
esigenze familiari e nepotistiche, oltre che alle ingenti spese straordinarie dell'ufficio supremo. Come nota
Paolo Prodi, «accanto alle entrate dovute alle composizioni (cioè, alle somme ricevute per le concessioni di
vario tipo e le dispense in deroga alle norme del diritto canonico), crescono le entrate provenienti dalla
vendita agli uffici, vendite che sono monopolio della Dataria stessa, mentre gli interessi gravanti su questa
forma del debito pubblico vengono sostenuti dalla Camera». Un tale accumulo di potere finanziario non
tarderà a trasformarsi in un limite e in fattore di degenerazione, a misura del suo concatenarsi con un
processo di secolarizzazione che finirà per rendere la Chiesa quasi totalmente subalter
na allo Stato, fin nei suoi organi elettorali come il conclave. In queste condizioni, è illusorio pensare che sia
ancora fattibile l'arresto della crisi storica dell'istituto cardinalizio, ormai privo di qualsiasi reale potere
autonomo rispetto al pontefice.
Le stesse promozioni dei cardinali sono soggette progressivamente al sistema del mercato, apparendo un
mezzo prezioso per incrementare le risorse finanziarie dei papi. Un rapporto dell'ambasciatore Soranzo alla
corte papale nel 1565 indica che il papa ha ricavato «più che scudi 300.000» dalla vendita dei cardinalati. Si
narra che Sisto v sia stato il primo a vendere la carica di camerlengo, in realtà la prima carica dello Stato,
ottenendo 50.000 scudi dal cardinale Gaetani.
Le mercificazione delle cariche, e non solo di quelle temporali ma anche di quelle spirituali, va posta in
relazione con lo squilibrio crescente tra entrate e uscite nelle casse pontificie nel Cinquecento. Fra le voci più
importanti del passivo è citato generalmente il tenore di vita dispendioso dei papi, con spese di palazzo
esagerate. Tuttavia Jean Delumeau ci riferisce che ancor più della vita quotidiana di un papa, «costava la sua
vacanza».
L'incidenza dei conclavi sulle casse pontificie è definita «deleteria». Essi costringono a dislocare in Roma un
numero considerevole di soldati per ragioni di ordine pubblico. Durante la sede vacante si usa inoltre
concedere uno stipendio molto elevato e numerose gratifiche ai membri dell'amministrazione comunale, che
si cerca così di impegnare al mantenimento dell'ordine, spesso turbato durante gli interregni. Quello seguito
alla morte di Pio iv nel 1565 non costerà meno di 8901 scudi d'argento. E non durerà che un mese. Costosi
sono anche i cardinali impegnati nell'elezione: i trentasette cardinali che lavorano per l'elezione di Pio v
approvano un'elargizione a proprio favore pari ad un esborso di 2585 scudi per l'erario pontificio. Anche i
funerali del papa pesano sulle finanze, e ancor più l'incoronazione: quella di Leone x, nel 1513, costa solo
per l'acquisto dei tessuti quasi 40000 ducati d'oro, cioè circa un decimo delle entrate annue dello Stato.
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Lo sfoggio della ricchezza e il bisogno dì riforma.
A Roma lo sfoggio delle ricchezze non fa che aumentare nel corso del Cinquecento: «sono andate le spese in
grandissimo eccesso», noterà l'ambasciatore veneto alla fine del secolo, «e quello splendor di vita che in altro
tempo soleva usarsi da pochi principalissimi cardinali, ovver baroni, ora è passato in tanti che è una
meraviglia».
La ricchezza ecclesiastica si manifesta con la quantità dei domestici, Protetti, segretari, servitori (306 le
«bocche» del cardinale Farnese, 275 del cardinale Cesarini, 200 del cardinale Orsini). Settecento le «bocche»
del palazzo del papa. «Il livello di vita del cardinale Farnese (il futuro Paolo in) era dunque quasi di un capo
di Stato», osserva
Delumeau, «e l'espressione ' 'principe della Chiesa' ' corrispondeva a
una realtà.»
Fra i parametri del lusso ecclesiastico mantiene ancora una certa influenza sociale la caccia: alla Magliana i
papi possiedono un casino di caccia fin dai tempi di Innocenzo vm e quanto a Leone x non è certamente
casuale che egli paragoni Luterò a uno dei cinghiali furenti che egli ama cacciare: questo papa è leggendario
per i trentasette giorni consecutivi che egli arriva a consacrare alla sua passione preferita. La sua muta conta
68 cani, bracchi e levrieri. Secondo le informazioni degli «avvisi» i Carafa possiedono oltre 1300 cani e sono
più di 400 quelli della personale dotazione canina del cardinale Carafa, «il che suscita numerosi commenti
dati i tempi di carestia che stiamo vivendo».
Un altro indice corrente del tenore di vita fastoso praticato nella Roma pontificia è lo sfarzo dei banchetti e
delle feste, come quella offerta da Leone x nel 1513 in occasione del conferimento della cittadinanza romana
a suo fratello Giuliano: in Campidoglio è installato un teatro di stile classico, nel quale viene inscenato il
Poenulus di Plauto e servito un banchetto pantagruelico di almeno settantasette
portate.
Le carrozze sono ricercate come status symbol a tal punto che lo stesso San Carlo Borromeo conia l'assioma:
«due cose sono necessarie a Roma per avere successo, amare Dio e possedere una carrozza». Ma i cocchi
dorati non sono che il decoro esterno d'un possesso fondiario, che si struttura in investimenti immobiliari
crescenti, particolarmente nella costruzione di palazzi che rinnovano il volto della città. Patrimoni consistenti
si accumulano in mano ai cardinali e ai grandi signori laici, benché non manchino cardinali poveri. È sempre
l'ambasciatore veneto Girolamo Soranzo che ci informa nel 1563: «Sono i cardinali al presente 58, numero,
per dir il vero, assai maggiore di quello soleva essere per il passato: dal che nasce non poca diminuzione
della dignità loro, essendosene dei molti poveri, che mancano di gran parte di quelle cose che sono
necessarie a sostener quel grado».
Sembra tuttavia documentato che le rendite dei cardinali con appannaggi cospicui fossero più elevate alla
fine del Cinquecento che ai tempi di Alessandro vi e di Giulio u, anche se si deve considerare la svalutazione
dell'argento intervenuta nel frattempo. All'accumulazione capitalistica dei cardinali contribuiscono le
cospicue pensioni loro accordate dai principi cattolici. La tendenza al nepotismo si accentua a tal punto da
allargare le possibilità dei prelievi da parte dei cardinalinepoti nel tesoro pontificio, il quale è la fonte più
importante per il loro stile di vita.
Secondo i calcoli elaborati da Delumeau, le rendite annuali nel 1500
vanno da 2000 a 30.000 ducati d'oro, laddove 19 cardinali possiedono 10.000 ducati o poco più, pari a 389,3
chili d'argento, in un'epoca in cui il tesoro pontificio non tocca forse i 300.000.
Nel 1571 le rendite annue sono assai più differenziate e oscillano da 510 a 130.000 scudimoneta. E 19
cardinali dispongono di rendite equivalenti a più di 400 chili d'argento fino. In totale, i 68 cardinali censiti
rappresentano una rendita annua globale di 1.000.000 di scudi d'argento, cioè 29.400 chili d'argento fino. Se
convertiamo queste cifre in baiocchi d'argento, troviamo che il Sacro Collegio nel suo complesso gode nel
1500 di una rendita di 30.870.000 baiocchi e, nel 1571, di una rendita di 100.000.000 di baiocchi, con un
aumento del 223% sulla base del valore nominale della moneta, nettamente al disopra del costo della vita. La
conclusione dello storico è che «Roma ha dunque tratto un considerevole beneficio dall'aumento del numero
dei cardinali, poiché infatti molti vi spendevano il loro patrimonio».
È forse appropriato considerare che, alla luce di questi dati, la mercificazione ecclesiastica nel corso del
Cinquecento costituisce un fenomeno strutturale piuttosto che una deviazione incidentale o accessoria. È
indubitabile che essa colpisce in larga misura anche la carica suprema e incide sulla sua trasmissione.
Se la Riforma luterana è considerata anzitutto come scissione dell'unità del cristianesimo occidentale, essa è
valutata già alla metà del secolo, anche in alto, nella cancelleria di Carlo v, come l'attuazione di antiche
speranze di rinnovamento della Chiesa, divenute urgenti e irrinunciabili. Benché Luterò e Zwingli siano
incorsi nello scisma, essi appaiono una grazia inevitabile e, anzi, benvenuta perché attaccano la corruzione
della Chiesa in capite et in membris.
L'esigenza di rinnovamento sociale nel generale stato di crisi della società europea si traduce nella Chiesa
come esigenza di rinnovamento ecclesiastico. Luterò è salutato come «eleutherius», liberatore, non solo da
cavalieri, piccola nobiltà impoverita, patriziato urbano, artigianato delle città e dai contadini tedeschi, ma
anche da strati di clero, che condivide la domanda di eliminazione degli abusi e del malcostume
amministrativo e morale, e reclama una riorganizzazione della gerarchia secondo esigenze che non sono più
quelle dell'ordine feudale, la liberazione da gravami scandalosi e anacronistici e una maggiore libertà del
cristiano nella vita della fede.
Quel vasto processo che la religiosità dell'Umanesimo ha innescato, generando la speranza di rinnovamento
della società civile e cristiana, si trova ora assorbito, e forse rattrappito, all'interno della dialettica suscitata
dalla Riforma. E tuttavia quel bisogno di rinnovazione lungi dall'estinguersi, agisce anche in questa
congiuntura ecclesiale, aprendosi a interpretazioni e reinterpretazioni non sempre coerenti, e ciononostante
incisive, malgrado l'anarchia religiosa che va dal primo affermarsi del luteranesimo agli inizi del Concilio di
Trento.
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Addano di Utrecht (1522-1523).
II primo tentativo di una riforma adeguata alla critica antipapale e antitemporalistica svolta da Luterò si
compie cinque anni dopò l'affissione delle sue 95 Tesi nella chiesa universitaria di Wittenberg, quando, nel
gennaio 1522, 39 cardinali, di cui soltanto tre non italiani, eleggono papa il cardinale di Tortosa, Adriano di
Utrecht. Uomini per lo più mondani e divisi da ostilità, i cardinali sono lo specchio vivente della situazione
della Chiesa coeva e del mondo cristiano. Tanto più sorprendente risulta perciò che la loro scelta ricada su un
«barbaro» pressoché sconosciuto. Professore di teologia a Lovanio, questo figlio di un falegname è stato
precettore, poi consigliere di Carlo v, e ha intrattenuto dei legami con i circoli evangelistici dei frati della vita
comune e con gli umanisti che circondavano Erasmo. Quando viene eletto papa, egli è assente, impegnato a
Vitoria a organizzare, per incarico dell'imperatore, misure militari per la difesa della Navarrà contro la
Francia.
Tuttavia egli non tarda, dal momento dell'elezione, a dar prova della sua volontà di mantenersi distaccato
dagli interessi politici. Nella dichiarazione dell'8 marzo 1522, nella quale egli accetta l'elezione, Adriano vi
definisce come obiettivi del suo programma la riconciliazione fra le potenze cristiane, l'imperatore e la
Francia, per salvare la cristianità dalla minaccia turca, e la riforma della curia romana. Per il viaggio alla
volta di Roma, egli sceglie la via del mare, in modo da attestare la sua indipendenza dalla Francia così come
dall'Impero.
Il viaggio dura lungamente: soltanto il 5 agosto egli salpa da Tarragona e l'approdo ad Ostia è del 28 agosto.
Nel frattempo il sultano Solimano ha conquistato Belgrado, l'Ungheria è senza riparo davanti all'invasione
turca e Rodi, ultima roccaforte cristiana nel Mediterraneo, è presa d'assedio da forze soverchianti. Quando
arriva a Roma, il papa trova la città invasa dalla peste. L'incoronazione si svolge in forma ostentatamente
austera il 31 agosto, in San Pietro.
Adriano si affretta a parlar chiaro ai cardinali riuniti in concistoro il primo settembre: il male ha raggiunto
una dimensione tale che, secondo l'ammonizione di San Bernardo, quanti sono ricoperti di peccati non
avvertono nemmeno più il fetore dei vizi.
La risposta è assai poco entusiastica: mentre il papa da l'esempio della sua dedizione agli ideali cristiani,
resistendo a Roma, i cardinali e la maggior parte dei funzionari abbandonano la città per paura della peste.
Essa ha già mietuto una vittima eminente, il cardinale svizzero Schinner, uno dei pochi collaboratori di
Adriano solidale con i suoi propositi di riforma.
Solo alla fine del 1522 la vita della curia può tornare normale, ma né la peste né il trauma luterano sembrano
essere colti come incitamenti al cambiamento se, appena l'anno dopo, esasperato dalla resistenza
dei cardinali, il papa — che ha dichiarato mille le candidature ai posti vacanti e ridotto considerevolmente la
corte e la burocrazia — reagisce alla richiesta di conferma dei privilegi accordati da Leone x al cardinale di
Santa Croce annunciando che egli è invece deciso a ridurre il lassismo precedente e a stringere i freni. Leone
x gli ha lasciato non solo le casse vuote ma anche montagne di debiti. Per ridurre gli sprechi il papa non vede
altro mezzo che il congedo delle folle di letterati, pittori, musicisti e giullari che imbottiscono la corte
pontificia. Sottopone a controlli severi le migliaia di richieste di benefici che arrivano in Vaticano. Per
evitare di esacerbare il popolo decreta l'abolizione delle tassazioni iperboliche vigenti.
Ma non è solo questa politica interna che gli attira il risentimento se non l'odio dei circoli, colpiti
direttamente dalla severità delle sue misure. La sua strategia di recupero interno delle sollecitazioni luterane
si spinge fino a riconoscere le cause profonde dello scisma e ad ammettere le responsabilità della Chiesa e
della Curia romana.
Egli persegue anche un obiettivo secondario: strappare l'esecuzione dell'Editto di Worms dagli Stati tedeschi,
e la loro alleanza nella difesa dell'Ungheria dai Turchi. Per questa somma di ragioni, egli trasmette loro un
documento in cui s'impegna a riformare la Curia dinanzi al popolo tedesco:
Sappiamo che in questa Santa Sede stessa, da molti anni, ci furono molte abominazioni: abusi nelle cose spirituali,
trasgressione di comandamenti. Tutto è divenuto corruzione. Così non è sorprendente che il male si sia trasmesso dal
capo alle membra, dai papi ai prelati. Noi tutti, prelati e chierici, abbiamo deviato dal retto cammino e da molto tempo
nessuno fa più il bene. Per questo occorre che tutti rendiamo onore a Dio e che ci umiliamo dinanzi a Lui [...]. Tu devi
pertanto promettere in nome nostro — aggiunge il papa nell'Istruzione al suo legato in Germania Francesco Chieregati
— che noi intendiamo usare ogni diligenza perché sia emendata anzitutto la corte romana, da cui forse tutti questi mali
hanno preso l'avvio; da qui allora avrà inizio il risanamento e il rinnovamento, come da qui ha avuto origine l'infermità.
Noi ci sentiamo tanto più obbligati a porre in atto tali cose in quanto tutto il mondo desidera ardentemente una riforma
siffatta.
Noi non abbiamo ricercato la dignità pontificia. Noi avremmo preferito continuare i nostri giorni nella solitudine della
vita privata. Ben volentieri Noi avremmo rigettato la tiara. Solo il timor di Dio, la legittimità dell'elezione e il pericolo
di scisma ci hanno determinato ad accettare la funzione suprema.
Noi vogliamo compiere questa non per gusto di dominio, né per arricchire la nostra famiglia, ma soltanto per rendere
alla Santa Chiesa, la sposa del Signore, la sua originaria bellezza, per prestare assistenza agli oppressi, per elevare ai
ranghi superiori uomini saggi e virtuosi, insomma per fare tutto ciò che conviene a un buon pastore e a un vero
successore di san Pietro.
In cambio delle sue assicurazioni il papa chiede che venga accolta la sua esigenza di gradualità:
Nessuno deve meravigliarsi che noi non eliminiamo tutti gli abusi in una volta. La malattia è infatti profondamente
radicata e multiforme. Occorre quindi an
dare avanti passo passo e anzitutto trattare i mali più gravi con una terapeutica appropriata, in modo da non aumentare il
disordine con una riforma precipitata di tutto.
Malgrado la sincerità e la forza di questa confessione, che era arrivata troppo tardi, essa non riesce a
convincere Luterò. Anzi, il papa si vede irriso da quest'ultimo, che gli dedica la satira sull'asino del papa,
trattato da tiranno ipocrita, da stupido e ignorante, succube dell'Anticristo. Né l'appello agli Stati tedeschi
ottiene un esito migliore se l'applicazione dell'Editto di Worms viene rifiutata. Il 21 dicembre 1522 Rodi
cade in mano dei Turchi e anche gli sforzi svolti dal papa per riunire i principi cristiani, onde arginare
l'avanzata turca, falliscono. Non riesce nemmeno il suo tentativo pacifista di imporre un armistizio triennale
all'intera cristianità. Oppresso dall'isolamento e dalla sofferenza per l'inanità dei suoi sforzi il primo papa
«barbaro» muore troppo presto il 21 settembre 1523, dopo nemmeno tredici mesi di pontificato.
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L'idea di un anonimo: i vescovi eleggano il papa La frattura non sanata si approfondisce
successivamente con lo scontro tra i papi rinascimentali e la Riforma, erede di una riforma della Chiesa che
si era sviluppata per secoli in modo spontaneo. Due mesi dura il conclave che il 19 novembre 1523 elegge il
cardinale Giulio de' Medici, deciso fautore del partito imperiale e da questo sostenuto. In un regno che si
prolunga fino al 1534 Clemente VII si allontana dalla coscienza drammatica e dagli sforzi riformistici di
Adriano. Piuttosto che ispirarsi alla priorità della visione della Grazia nella esistenza cristiana, egli fa
precipitare la Chiesa nuovamente nella logica temporalistica e mondana degli interessi politici, in un'oscillazione continua fra la Francia e l'Imperatore. Esasperato dai ripetuti voltafaccia papali, Carlo v si fa
portavoce delle nuove sollecitazioni ad un Concilio universale, particolarmente vivaci in Germania
all'indomani dell'appello di Luterò Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca di indire un Concilio
veramente libero, al fine di eliminare le manipolazioni curiali della Scrittura. A Roma la diffidenza verso un
Concilio è tanto più acuta del consueto di fronte all'eventualità che esso possa tenersi in un paese tedesco, e
non sia né convocato né diretto dal papa. Clemente da fondo alla sua abilità nello schivare ogni impegno
sulla proposta imperiale. Egli teme che un Concilio finirebbe per rafforzare il potere di Carlo v. Motivi
personali, tra cui la coscienza di essere ricattabile sul piano morale, concorrono alle perplessità del papa, che
ha ragione di considerare inevitabili le critiche che un Concilio avanzerebbe contro di lui, fino a dubitare
della legittimità come papa del figlio illegittimo dei Medici.
Tuttavia, proprio le infinite reticenze di Clemente VII finiscono per persuadere i tedeschi che le accuse di
Luterò contro la corruzione papale devono considerarsi fondate. Lo stesso Sacco di Roma da parte dei
Lanzichenecchi nel 1527 è interpretato come il giudizio punitivo contro la Roma interiormente marcita del
Rinascimento. I soldati tedeschi si danno alla rapina; rivestiti dei paramenti papali irridono il papa
prigioniero e proclamano Luterò papa in un Concilio messo in scena per burla.
È molto naturale, in questo scenario, che sia il protagonista della scena temporale della Chiesapotenza, il
danaro, a permettere a Clemente VII di riconquistare la libertà, dopo sei mesi di prigionia in mano alle truppe
imperiali in Castel Sant'Angelo. L'incoronazione dell'imperatore nel 1530, a Bologna, sembra creare le
premesse per la restaurazione dell'antico concordismo fra trono e altare. Tuttavia nemmeno in quattro mesi di
«porta a porta» con Carlo v, il papa si lascia convincere alla causa del Concilio, e tanto meno a quella del
rinnovamento della Chiesa: «egli si illuse di garantire la libertà della Chiesa con i mezzi politici e con il
soccorso di un'abile diplomazia», ha osservato Erwin Iserloh.
È interessante osservare che, sotto i papi medicei, le proposte di riforma del collegio cardinalizio e del
sistema elettorale papale sono solo sporadiche. Si può scorgere in questa rarità una nuova prova del fatto che
la linea della Chiesapotenza suppone, e produce, la crisi dell'adattamento dei suoi istituti alle esigenze
obiettive del popolo cristiano.
Tra le scarse «utopie», merita tuttavia una particolare sottolineatura quella di un ignoto del tempo di
Clemente VII. Egli vede tutta la salvezza in un nuovo ordinamento dell'elezione papale e in una trasformazione completa del collegio dei cardinali. Benché le pressioni per un Concilio di riforma irrorino quasi
l'intero arco di questo pontificato, pure questo Anonimo, citato da Hubert Jedin, preferisce far leva sulla
sostituzione del collegio dei cardinali come corporazione chiusa mediante un senato esclusivamente
consultivo, composto di vescovi e laici e convocato a tempo.
Ogni papa ha diritto di raccogliere un suo collegio cardinalizio con i «cardinali» esistenti e con nuovi da lui
scelti, collegio che alla sua morte, tuttavia, rientra automaticamente nelle file dell'episcopato. Un terzo di
questo collegio è formato da laici, che costituiscono i cardinali diaconi. Il papa garantisce loro una rendita di
6000 ducati. Egli ha il dovere di integrare fino a trecento ducati al mese, se questa somma non viene
raggiunta.
Ancora più importante, l'elezione papale non è più nelle mani esclusive di questo collegio cardinalizio, ma è
opera di una commis
sione di vescovi estratti a sorte. Senza pregiudicare il regime definitivo della sua proposta, l'autore la integra
con l'idea di una decretale da emettere come misura immediata: secondo questa disposizione, nel caso che i
cardinali entro sei giorni non si accordassero su un candidato, il diritto di eleggere il papa dovrebbe essere
conferito a 24 vescovi presenti in Curia.
Questa proposta è considerata da Jedin «chiaramente dominata da una tendenza episcopalistica e
anticardinalizia». I cardinali sono definiti senz'altro particulares tyranniì. A parte gli eccessi, lo storico
concede tuttavia che l'autore «è del tutto nel giusto indicando il motivo vero e proprio della esistenza del
collegio, come corporazione e dèi cardinalato come classe chiusa, nel diritto esclusivo di elezione del papa,
che storicamente era stato l'elemento unificante e nobilitante del collegio come ceto. Se questo diritto veniva
estinto, anche il collegio dei cardinali, nella sua forma attuale, doveva scomparire. La proposta è
naturalmente un'utopia, ma anche come tale è indicativa di quanto vacillasse l'ordinamento tradizionale».
Paolo in e il Concilio di Trento (1534-1549).
Nel 1534 un conclave di soli due giorni, dall' 11 ottobre porta in trono il cardinale decano Alessandro
Farnese, l'ex favorito di Alessandro vi. Pur restando per carattere uomo del Rinascimento, Paolo HI riconosce
la necessità di una riforma interna della Chiesa e si assume il compito di avviarla. Riforma e Concilio
costituiscono gli obiettivi indivisibili del suo programma.
Ma per sviluppare l'opera riformatrice egli sottolinea la necessità di procedere anzitutto alla riforma del
collegio cardinalizio. Egli non si lascia intimidire dalla sua situazione personale, benché il suo attaccamento
ai figli Pierluigi e Costanza, provenienti da un legame illegittimo avuto prima degli ordini maggiori, nonché
ai nipoti Alessandro e Costanza, sia motivo di intrecci dinastici e di ambizioni temporali gravidi di
conseguenze sulla coerenza della politica pontificia in Italia e in Europa con gli obiettivi generali della
riforma della Chiesa romana dopo lo Scisma.
Il punto di partenza è l'istituzione nel 1536 di una commissione papale avente il compito di elaborare le
riforme necessarie prima dell'apertura del Concilio. Nella primavera del 1537 la commissione è già in grado
di consegnare il suo rapporto, il celebre Consilium de emendando Ecclesia, un documento che Jedin
considera «eccezionale»: «sono infatti», precisa lo storico, «idee che verranno attuate secoli più tardi e che
per noi oggi sono divenute cosa naturale».
Le misure principali che il rapporto progetta sono: la separazione del cardinalato da episcopati lontani,
poiché ciò provocherebbe tensioni dovute alla scarsa cura per essi e darebbe luogo a intrecci politi
ci; la restaurazione del collegio cardinalizio come senato papale politicamente indipendente e ispirato solo da
premure ecclesiastiche; l'obbligo di residenza in curia per la maggioranza dei cardinali: soltanto qualcuno
può trattenersi lontano onde assicurare al papa la comunicazione con le diverse regioni della cristianità.
In diagnostica i redattori del Consilium non esitano a denunciare ogni pratica amministrativa della curia che
renda difficile, per le sue procedure e le sue astuzie giuridiche, la priorità del compito pastorale della Chiesa:
ogni male è visto provenire dall'esorbitanza smisurata del potere pontificio, gonfiato esageratamente dai
cortigiani e dai cardinali mondani.
Seguendo gli orientamenti del Consilium, Paolo in non esita a incidere i bubboni più malefici, la Dataria e la
Penitenzieria, gli uffici rispettivamente incaricati della distribuzione dei benefici e delle dispense. Quindi
procede all'integrazione nel collegio cardinalizio di personalità distinte per la loro scienza e la loro pietà, tra
le quali giova citare il vescovo inglese John Fischer e il nobile veneziano Gasparo Contarini, trasferitosi a
Roma dopo aver seguito in Germania, come ambasciatore della Serenissima, le prime fasi della valanga luterana. Nella capitale pontificia egli anima, incoraggiato dal papa, un circolo impegnato nei valori della
riforma della Chiesa, che ne fa il capo prestigioso del partito riformatore in Curia e fautore convinto di un
recupero dei luterani.
Successivamente il papa conferisce il cardinalato al cofondatore dei religiosi Teatini Gianpietro Carafa, il
futuro Paolo iv, all'umanista Sadoleto, all'inglese Pole, a Marcello Cervini, il prossimo papa Marcello n,
campione della riforma cattolica, al nunzio in Germania Morone, al domenicano Badia e al benedettino
Cortese, anch'egli schierato nel movimento per la riforma. Nelle sue dodici creazioni cardinalizie, Paolo in
nomina 71 cardinali, cosicché alla sua morte il numero degli elettori del papa ammonta a 54, nelle cui file gli
esponenti riformisti e le personalità di rilievo non sono più così marginali come in passato.
Dal tempo di Sisto iv il collegio dei cardinali non raccoglie un numero così elevato di spiriti fra i più religiosi
e nobili dell'epoca. Alcuni di loro sono i redattori della proposta di riforma sollecitata dal papa. Tuttavia
nemmeno così rinnovato e dotato di propria influenza il collegio cardinalizio può ancora vantare una
maggioranza decisamente orientata a favore della riforma. Contarini e Carafa sostengono l'orientamento
favorevole a riforme radicali, mentre il gruppo dei cardinali canonisti, tra i quali emergono Guidiccioni e
Ghinucci e lo spagnolo Giovanni Alvaréz da Toledo, pur condividendo l'obiettivo della riforma, inclina a
raggiungerla non già mediante interventi incisivi, ma attraverso la restaurazione dell'antico diritto, cioè
dell'osservanza delle norme del diritto canonico. Una terza posizione è sostenuta dai conservatori classici,
che fanno quadrato contro qualsiasi riforma principalmente nel timore di vedere diminuiti i loro privi
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legi. Essi respingono la tesi del Contarini, secondo il quale la radice di ogni deviazione deve essere
identificata nell'esasperazione della teoria papale e nella cupidigia del potere e della ricchezza. Tensioni del
genere hanno la loro parte nel deludente destino pratico riservato al programma così brillante dei riformisti.
Indubbiamente l'apporto più importante di Paolo in al rinnovamento nella Chiesa è la convocazione del
Concilio di Trento nel 1544. Tuttavia non può non suscitare qualche legittima domanda la constatazione che,
rispetto ai Concili di Costanza e di Basilea, sia mancata in quello di Trento una adeguata attenzione al
problema della riforma del sistema elettorale romano, benché il Tridentino, visto nel suo insieme, sia riuscito
a restituire alla Chiesa cattolica un papato purificato e a reintegrarlo fondamentalmente nell'unità collegiale
del cristianesimo. La battaglia prò o contro l'inclusione dei cardinali fra gli ecclesiastici tenuti all'obbligo
della residenza, a partire dalla seduta dei primi di giugno 1546, è un indice eloquente della resistenza opposta
a qualsiasi riforma incisiva dai burocrati della Curia. Soltanto l'intervento personale del papa — con il
decreto concistoriale del 18 febbraio 1547 — riesce a sostenere vittoriosamente le istanze dell'opposizione,
stabilendo che: i cardinali non possono possedere più di un solo vescovado, e debbano dimettersi entro sei o
dodici mesi da tutti gli altri; i cardinali che non risiedono né in curia né nelle loro diocesi siano privati dei
privilegi, di un quarto dei loro introiti e di un altro quarto se l'assenza si prolunghi per un anno. Benché
approvato a larga maggioranza nella settima sessione del 3 marzo 1547, il decreto appare fin troppo presto
come un difficile primo passo sulla strada di una ben più ardua riforma cardinalizia: una riforma molto
parziale, e ben presto aggirata dai cardinali più colpiti, in primo luogo i nipoti del papa. Essi infatti
reagiscono alla legge contro il cumulo dei vescovadi rassegnando le dimissioni a favore di parenti e familiari,
per continuare a sfruttare finanziariamente le antiche rendite di posizione. Grazie a questi espedienti i tre
cardinali membri della famiglia di Paolo ni — Alessandro, Ranuccio e S. Fiora Farnese — hanno accumulato
e, anzi, accresciuto una serie impressionante di regressi.
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La Bolla di Giulio m (1550-1555).
II programma della riforma non riesce ad imporsi sui rappresentanti del vecchio regime nemmeno con Giulio
in. Il conclave che lo sceglie dura quasi tre mesi, dal 29 novembre 1549 al 7 febbraio 1550. La prima fase è
caratterizzata dalla ascesa del cardinale inglese Pole, fervido riformista, sostenuto dall'Imperatore. Però il
partito della riforma non riesce, per un solo voto, ad assicurargli la maggioranza dei due terzi necessaria. Il
compromesso fra il partito imperiale e quello francese è inevitabile. I suffragi convergono allora su Giovan
ni Maria de' Ciocchi del Monte, valente canonista, asceso agli alti gradi della carriera di curia come nipote
del cardinale Antonio Del Monte. Un accordo fra il cardinale Carlo di Guisa — il «cardinale di Lorena» — e
il cardinale Alessandro Farnese è il segnale di via libera all'elezione. I riformisti hanno strappato l'impegno
su una capitolazione elettorale contenente l'assicurazione che il Concilio di Trento sarebbe stato ripreso.
Giulio in mantiene la promessa fatta in conclave. Benché appassionato di feste fastose, cacce, banchetti, e
incline al nepotismo, egli si schiera con le forze riformiste e, nel novembre 1550, annuncia la ripresa del
Concilio per l'anno seguente. Quanto allo scacchiere politico, egli non si lascia influenzare dagli intrighi
della Francia che non saluta favorevolmente l'unione fra il papa e l'imperatore.
Grazie all'appoggio dei più decisi fautori del partito riformista, i cardinali Cervini, Pole e Morone, egli
progetta una riforma completa della Curia romana, inclusa la riforma del conclave e del concistoro. Il
progetto assume la forma di una Bolla, la Varietas temporum, il cui cammino si insabbia come quello delle
bolle che l'hanno preceduta negli ultimi 130 anni. Le direttive preparate riflettono peraltro il grado di
mondanizzazione raggiunto dal collegio cardinalizio e la preoccupazione papale di colpire il nepotismo e la
subalternità dei cardinali alle corti europee, oltre che l'eccesso delle ricchezze materiali di cui si fregiano i
titolari delle alte cariche ecclesiastiche. Appare così il tentativo di recuperare lo spirito, in gran parte
praticamente evaso, della norma tridentina del 1547, in modo da liberare l'elezione papale dai vincoli sempre
più soffocanti della potenza temporale della Curia romana.
Nei primi giorni del dicembre 1554 la Bolla viene sottoposta ai cardinali, affinchè vi esprimano il loro
consiglio, ma ancor prima di poterla rifinire Giulio in muore, il 23 marzo 1555.
Logorato dalle delusioni, il partito riformista entra in conclave ben deciso a far riuscire uno dei suoi. E ci
riesce in appena quattro giorni di seduta, dal 6 al 10 aprile 1555, eleggendo il più impegnato dei cardinali
riformatori, quel Marcello Cervini che si è distinto come legato durante il primo periodo conciliare ed ha
fatto parte delle prime commissioni papali per la riforma della curia. Una gioiosa speranza si diffonde nella
Chiesa per questo successo: per la prima volta la riforma ha il volto d'un papa, che non vuole mutare il suo
nome e sceglie di chiamarsi Marcello n. Come per dire che egli intende restare come papa quello che è
sempre stato. Infatti, egli è deciso a procedere alla pulizia necessaria e ordina alla Segnatura e alla
Penitenzieria di non prendere alcuna decisione prima che sia pubblicata la bolla della riforma a cui egli sta
lavorando.
Ma ancora una volta il programma resta tale: Marcello n muore dopo soli ventidue giorni di regno, un
destino che gli attira la gloria della Messa di Papa Marcello, di Pier Luigi di Palestrina.
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La lotta di Paolo iv alla simonia.
Nel conclave successivo (1423 maggio 1555) l'alleanza riformista vittoriosa respinge il tentativo degli
imperiali di eleggere il cardinale Puteo, sostenuto anche dagli Spagnoli. Al suo posto riesce eletto un loro
avversario dichiarato, il decano del collegio Giovanni Pietro Carafa, nobile napoletano, leader riconosciuto
dell'ala riformista, nella sua versione più radicale ed esigente. Come vescovo di Chieti Paolo iv — questo il
suo nome — l'ha adottata nel modo più austero nella sua diocesi. Ha fatto parte della commissione di riforma
sotto Paolo in. Ha 79 anni, ma ha mantenuto ogni energia, rafforzata da una volontà di ferro e da un'indole
ostinata, talora intrattabile. Il suo ideale resta Innocenzo ni, di cui vorrebbe reincarnare le pretese teocratiche,
specie dopo l'abdicazione di Carlo v. Il suo zelo per la purezza della fede è tale che egli nutre del sospetto
persino sui suoi colleghi di schieramento cardinali Morone e Pole, e arriva a ordinare l'incarcerazione di
Morone per due anni, temendolo in odore d'eresia. Con analoga convinzione egli si getta nell'impresa, fino a
lui apparentemente vana, di riformare la curia. Egli si rifiuta di chiamare nel collegio cardinalizio persone
che non nutrano una genuina religiosità e non diano garanzie di indipendenza politica. Non esita ad applicare
misure severe contro gli indegni. Nel concistoro del 6 giugno 1555 ordina che tutti i cardinali preti siano
consacrati entro tre mesi. Dispone anche tagli dei cumuli di prebende determinati da regressi ed accessioni.
Annulla tutti i regressi su vescovati, tutte le commende conventuali, ad eccezione di quelle ammesse per i
cardinali dal Concilio v del Laterano. Col decreto del 21 agosto 1556 obbliga tutti i cardinali a compilare il 3
dicembre dello stesso anno una dichiarazione precisa di tutte le loro accessioni e regressi su benefici e
impone loro di rinunciare ad essi, conservandone non più di uno.
Questa serie sistematica di provvedimenti è ispirata dalla convinzione che la radice del male nella Chiesa sia
«l'eresia simoniaca» e che ogni intervento, anche il più determinato, sarebbe giustificato per estirparla dal
giardino di Dio. Per questo il papa potenzia a dismisura l'Inquisizione romana, assegnandole una preminenza
su tutti gli altri dicasteri curiali, che resterà la sua prerogativa per secoli, fino ai nostri giorni. È interessante
sottolineare che le funzioni repressive assunte da questo Ufficio, affidato alla direzione del cardinale Michele
Ghislieri, cercano la loro legittimazione in questa fase nello scopo di una generale moralizzazione della
direzione ecclesiastica. Ma il regime che si instaura assume caratteri di fatto terroristici, con pene punitive
sproporzionate inflitte ai trasgressori, divieti di stampare e di leggere una grande quantità di edizioni librarie,
incluse la maggior parte di quelle della Bibbia e dei Padri, l'istituzione di un Indice dei Libri Proibiti, roghi di
migliaia di libri, in un'intransigen
za così massimalista da vendicare sul popolo cristiano il lassismo che si poteva piuttosto rimproverare e
punire nel sistema e nei suoi capi negli anni precedenti.
E nonostante egli si perdoni con troppa indulgenza alcune pesanti propensioni nepotistiche, a favore del
cardinal nepote Carlo Carafa e suo fratello, pure emana una bolla, Cum secundum Apostolum, del 16
dicembre 1558, per proscrivere ogni genere di trattative sulla futura elezione papale, durante la vita del
pontefice e senza consultarlo: Pontifice vivente et inconsulto. La sua concezione della funzione consultiva ed
elettorale del collegio cardinalizio è altissima. Egli stabilisce pene severe per la violazione del segreto, ordina
che l'agenda di un concistoro non includa più di una questione importante alla volta, da efficacia al decreto di
Paolo in contro i cardinali assenti, negando ai lontani senza motivo sufficiente le entrate cui avrebbero
diritto.
Il suo ideale è un collegio cardinalizio che assista continuamente il papa come senato politicamente
indipendente, ispirato da considerazioni esclusivamente ecclesiali. Esclude tuttavia, con il suo rigore
consueto, ogni maggiorazione dei poteri cardinalizi al di là di quelli consultivi. Non appena ha l'impressione
che qualcuno abbia interesse a recuperare tesi conciliaristiche — riproponendo la teoria del potere papale
vincolato all'approvazione del collegio cardinalizio nella nomina di più di quattro cardinali — la sua reazione
è recisa.
Alla sua morte — il 18 agosto 1559 — il popolo mette a sacco il palazzo dell'Inquisizione, esasperato dal
regime repressivo che si è instaurato. La statua stessa del papa in Campidoglio viene oltraggiata. Tuttavia la
bonifica è stata così profonda da aver spento il tenore di vita lussuoso e spesso scandaloso, la
mondanizzazione che si è diffusa dai tempi di Sisto iv. Almeno da questo punto di vista l'intervento di Paolo
iv è valso ad integrare nella riforma popolare promossa dal Concilio di Trento quella riforma in capite che il
concilio ha finora in gran parte eluso.
La successione è aspra. L'intransigenza di papa Carafa non ha portato popolarità alcuna al partito della
riforma. Il relativo verticismo delle soluzioni adottate dal pontefice per accelerare i tempi del cambiamento
non appare che come la conseguenza del suo scarso entusiasmo per il processo conciliare, per sé lento e
consensuale. Si può ben comprendere come l'intesa sulla successione si presenti controversa. Infatti il
conclave dura oltre tre mesi, dal 5 settembre al 26 dicembre 1559.
Pio iv e la costituzione De eligendis (1559).
Lo scontro tocca punte drammatiche tra le forze, che si fronteggiano in proporzioni quasi equivalenti, degli
Spagnoli, dei Francesi e dei residui alleati dei Carafa. Finalmente, la notte di Natale 1559, una
maggioranza misurata premia il milanese Gianangelo Medici, candidato del duca Cosimo di Firenze, che
assume il nome di Pio iv. Diplomatico d'indole, ma addolcito da inclinazioni amabili, egli si è mantenuto
assai discreto verso le asprezze dei metodi del predecessore. Tuttavia non si mostra indulgente verso il
nepotismo politico al punto che fa trascinare in giudizio i nipoti di Paolo iv, due dei quali, riconosciuti
colpevoli, vengono avviati alla pena capitale: questa è la fine dello strapotere del cardinale Carlo Carafa e del
duca di Paliano suo fratello.
Il merito principale attribuito a Pio iv è di aver ripreso e portato a compimento l'opera del Concilio di Trento.
Con l'aiuto di suo nipote, il ventunenne Carlo Borromeo, egli rilancia anche alcuni nuclei della riforma
istituzionale, accogliendo le pressioni riformistiche dell'opposizione conciliare.
Alcuni tratti della riforma toccano l'elezione papale. Con la costituzione De eligendis Pio iv compie un
personale tentativo di tradurre lo spirito generale della riforma cattolica nell'istituto elettorale pontificio.
Durante le lunghe settimane del suo stesso conclave egli ha visto gli ambasciatori dell'imperatore e del re di
Spagna conversare tranquillamente coi cardinali dei rispettivi partiti, attraverso un buco praticato nel muro
del conclave. Ha visto tavole imbandite, vino scorrere a fiumi tra i cardinali. Perciò la legge elettorale che
egli emana nel 1559 è precisa, severa, concreta e di tono marcatamente disciplinare, nel quale si riflette il
senso dell'austerità caratteristica della Controriforma.
Di più, per non lasciare adito a malintesi, egli esige che tutti i cardinali la sottoscrivano.
La Bolla può essere collocata nel filone della tradizione medievale sulla incapacità giuridica del collegio ad
esercitare il potere di giurisdizione e di legislazione durante la sede vacante. Nello stesso tempo, si stacca da
quella tradizione, preoccupandosi di stabilire i poteri dei cardinali nell'amministrazione dello Stato
temporale, con divieti precisi e norme cautelative. Si introduce cioè una prima distinzione fra la competenza
elettorale del collegio cardinalizio, nella sua funzione specifica, e la sua competenza temporale, in riflesso
della duplice potestà assegnata al Romano Pontefice.
Questa Costituzione dispone fra l'altro che il Sacro Collegio non può disporre di alcuna somma, nemmeno
per pagare i debiti del papa defunto, salvo il denaro per i funerali (stabilito su una cifra forfaittaria di
diecimila ducati), i salari per il personale e i crediti di sicurezza della Città e degli Stati pontifici. Una
commissione permanente, composta dal camerlengo e dai tre cardinali capi d'ordine, rinnovati per rotazione,
veglierà sulla chiusura del conclave e sull'amministrazione provvisoria della Chiesa durante la sede vacante.
Le celle dei cardinali saranno estratte a sorte. Le case con finestre dirimpetto a quelle delle celle degli elettori
dovranno essere sgombra
te da ogni abitante. I conclavisti che accompagneranno i cardinali nel recinto riservato non potranno essere
legati da vincoli di parentela o di dipendenza professionale con loro.
Ancora più rilevante la disposizione che nessun cardinale potrà partecipare all'elezione se non avrà ricevuto
almeno l'ordine sacro del diaconato, in modo da escludere d'ora in poi dal conclave cardinali che abbiano
ricevuto questa prerogativa solo in ragione di titoli secolari o politici.
È con la De eligendis che si impone l'effettuazione di uno scrutinio al giorno e che si fornisce il primo
quadro normativo d'insieme circa la procedura elettorale (per ispirazione, per compromesso, per scrutinio o
per accesso).
// conclave di Pio v (1566).
Grazie a questo congegno elettorale assai sofisticato il conclave che si riunisce il 20 dicembre 1565 per dare
un successore a Pio iv, sarà considerato dal Pastor «esente da influssi esterni più di qualunque altro a
memoria d'uomo». Il cardinale Borromeo, che si è guadagnato una fama impareggiabile nel soccorso agli
appestati di Milano e nella messa in stato di Concilio della sua immensa diocesi di Milano, si oppone con
successo all'elezione del cardinale curiale Giovanni Ricci, reputato un abile affarista, benché quest'ultimo sia
spalleggiato dal duca Cosimo quanto dai Farnese, cioè, dai più forti. Per reazione, gli avversari sbarrano la
strada ai «papabili» portati dal Borromeo, in particolare il cardinale Guglielmo Sirleto, bibliotecario
pontificio che si è occupato con Paolo iv della riforma del breviario, e il cardinale Giovanni Morone, cui tutti
riconoscono cordialmente il merito di aver saputo governare con prudenza le tensioni del Tridentino,
evitando le spaccature e permettendone una conclusione efficace.
Ancora una volta la via del conclave si apre in un compromesso: è lo stesso Borromeo ad accordarsi con il
Farnese per convogliare i suffragi necessari sul nome del domenicano Michele Ghislieri, il prototipo del
grande Inquisitore sotto Pio iv. Egli viene eletto il 7 gennaio 1566 e prende il nome di Pio v. Con lui il
papato diviene, più fortemente ancora che con il Carafa, l'organo direttivo e il motore della riforma cattolica,
ma più propriamente l'agente della Controriforma, cioè di una strategia insieme, religiosa, militare e politica,
per la riconquista del potere della Chiesa nel mondo. Dal Catechismo romano al messale, dal Breviario
all'istituzione del ghetto a Roma, dalle condanne capitali fulminate dall'Inquisizione alla strage dei turchi a
Lepanto, questo papa persegue in ogni campo, e coi mezzi più spregiudicati, l'obiettivo di riunificare sotto la
guida del papa l'intera cristianità, siano pur necessarie misure repressive draconiane. Del resto, si è già
sollevato il dubbio se, senza questa inflessibilità claustra
le, il papa avrebbe potuto rimuovere la montagna di immondizia che appestava il centro della Chiesa.
Insolitamente rapida è l'elezione del suo successore, il 13 maggio 1572. È il canonista Ugo Boncompagni, un
curiale di carriera, che deve il trono all'appoggio di Filippo n. Egli regna, col nome di Gregorio XIH, fino al
1585 ed è il primo papa che non imponga rigori raggelanti come prezzo della riforma. All'impegno per la
rinnovazione interna della Chiesa egli accompagna un franco programma di sviluppo delle scienze
teologiche, grazie al quale Roma non si riduce soltanto alla sede di una burocrazia ecclesiastica, ma si
presenta anche come capitale degli studi ecclesiastici, del livello di quelli che hanno coperto di prestigio
internazionale l'Università dei gesuiti che da lui si chiama appunto «Gregoriana».
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La Curia di Sisto v (1585-1590).
II secolo sembra ormai declinare sulla vanificazione della prospettiva dell'autoriforma istituzionale di Roma,
dopo che il Concilio di Trento, cedendo a proposte esplicite dei papi, ha rinunciato alla reformatio capitis.
L'elezione di Sisto v il 24 aprile 1585 è il risultato di una scelta del cardinale Medici con l'appoggio dei
Francesi contro il Farnese. Malgrado ciò, si può dire che anche questo conclave resti quasi immune
dall'ingerenza delle grandi potenze politiche. L'elezione del minorità Felice Peretti da Montalto avviene per
acclamazione e assicura al papato una delle personalità più significative della sua storia.
Egli si dedica con larghezza di vedute ed energia straordinaria a fornire all'amministrazione della Chiesa una
organizzazione efficace, una curia funzionante, creando degli organi decisionali centralizzati fra i quali le
competenze delle materie siano distribuite in modo razionale. Nel 1588 egli istituisce quindici congregazioni
cardinalizie, che assorbono le decine di uffici istituiti dai suoi predecessori. Di queste quindici
congregazioni, nove sono chiamate ad assistere il papa nel governo della Chiesa universale; le altre hanno il
compito di amministrare l'economia e la giustizia negli Stati pontifici. I concistori cardinalizi presieduti dal
papa subiscono una drastica riduzione di competenze fino a ridursi a pura formalità rappresentativa.
Il fatto che il papa si riservi la presidenza delle congregazioni più importanti e decida in ultima istanza in
tutti i settori gli garantisce il monopolio del potere, mettendolo al riparo dalle rivendicazioni sostenute in
passato dall'oligarchia dei cardinali.
Col nuovo ordinamento, trova una definitiva conclusione la trasformazione del collegio dei cardinali nella
categoria più alta della burocrazia curiale. Come osserva Jedin, «il suo influsso come corporazione
autonoma, le sue rivendicazioni costituzionali sono definitivamente tramontate. Nessun papa trema più di
fronte all'opposizio
ne dei più potenti cardinali in concistoro. Questo è composto ora, nella sua maggioranza, da uomini che sono
stati provati nel servizio degli affari della Curia e nelle nunziature che sono validi consiglieri e indispensabili
strumenti della politica papale, ma che non rappresentano più un autonomo centro di potere».
Contemporaneamente Sisto v fissa il numero dei cardinali a 70 con \aPostquam verusdeì 3 dicembre 1586: la
cifra simbolica è basata sul numero degli anziani del popolo di Israele, tramandato dall'Antico Testamento.
Altre regole vengono emanate per disciplinare l'età minima e le qualità richieste dai candidati alla porpora.
La durata di questa normativa si prolungherà fino al nostro secolo: il tetto dei cardinali non sarà superato che
da Giovanni xxm e quanto all'organizzazione della curia romana, essa resisterà fino ai mutamenti introdotti
da Pio x e da Paolo vi.
La morte di Sisto v nel 1590 segna la fine del primo, grande e, sotto certi aspetti, tragico sforzo intrapreso a
Roma per sostituire il centralismo politico e mondano col centralismo religioso e spirituale della
Controriforma. Il sistema elettorale del papa si può considerare alla fine del Cinquecento più il risultato della
riforma generale dei costumi ecclesiastici che il prodotto di uno sforzo di revisione legislativa e di tecnica
istituzionale specifica.
Tuttavia non si può fare a meno di considerare che il conclave esce da questo lavacro globale conservando al
suo interno alcuni fattori di crisi non ancora abbastanza esplorati né tanto meno risolti. Certamente va
constatata la riduzione dell'influenza dei fattori politici o, almeno, la loro combinazione con fattori di più
spiccata spiritualità e attenzione pastorale. Le centinaia di migliaia di pellegrini che affluiscono a Roma per il
pellegrinaggio dell'Anno Santo del 1600 — un'affluenza calcolata intorno ad 1.200.000 persone — segnano
già la nuova temperie in cui il papato si interpreta al cospetto della storia europea. Il secolo che ha
conosciuto le elezioni più infiltrate dalla simonia e i regni pontifici più mondani declina con lo spettacolo di
Clemente vili che ogni mese va pellegrino a piedi alle «sette chiese». Nell'anno del Giubileo, egli si chiude in
confessionale in San Pietro, per ore, ad ascoltare i penitenti, e visita assiduamente ospedali e monasteri.
Eppure è proprio questo Ippolito Aldobrandini, eletto nel gennaio 1592 sotto l'influenza della Spagna, a
condannare al rogo Giordano Bruno e a scialacquare per i familiari le casse vaticane con la stessa
spericolatezza con la quale si curva a lavare i piedi ai pellegrini poveri e li invita alla propria mensa.
Il recupero della ecclesialità dell'elezione papale riflette la lungimiranza della strategia adottata da Adriano vi
in poi per rinnovare il
collegio cardinalizio. La condotta di vita personale, la corte dei cardinali, anche di quelli provenienti da ceppi
principeschi, sviluppano una tonalità più irrorata dalla consapevolezza religiosa. «Si danno ora anche
cardinali santi», scrive Jedin. «In luogo del lusso dei grandi cardinali rinascimentali subentra ora il decoro
dell'età cortese, conveniente al rango. Il cardinale è un principe della Chiesa.»
Tuttavia, alcune delle principali richieste innovatrici restano sulla loro fame, in un tempo in cui il papato è al
centro degli interessi internazionali e in cui emergono protettori di paesi, cardinali della corona e stati con
diritto di veto nell'elezione papale.
Venuto a mancare di un organo come il senato cardinalizio, nella sua specifica funzione collegiale di
mediazione fra il potere centrale pontificio e le diverse esigenze delle Chiese e dello stesso territorio
«temporale», il papato si trova necessariamente coinvolto nei rapporti verticistici propri del suo statuto di
potenza, a livello dei sovrani, in un intreccio di interessi materiali e politici dai quali non sarà più possibile
per molto tempo discernere la specificità dei compiti spirituali. È inevitabile che la fragilità istituzionale del
collegio cardinalizio lo esponga al pericolo della massima pressione dei poteri sovrani nella fase in cui
questi, morto il papa, hanno come interlocutore l'unico potere effettivo ancora nelle mani dei cardinali, cioè
l'elezione del nuovo pontefice. A ragione dunque, come esito di questa degenerazione ecclesiale del collegio
cardinalizio, svuotato della sua funzione concistoriale, si è indicata la precipitazione della monarchia papale
in oggetto passivo di un gioco delle potenze politiche, che trovano nella sede vacante e nel periodo del
conclave gli unici motivi di interesse. In questo equilibrio non sempre riuscito tra la sensibilità e la forza
delle riforme e l'inerzia o l'opposizione delle strutture di riproduzione della Chiesapotenza, il sistema
elettorale del papa transita verso il prossimo secolo meno gravato dalla massa degli elementi eterogenei
dell'età rinascimentale ma ancora sull'orlo di rischiose dipendenze politiche.
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CAPITOLO VII.
II veto delle potenze cattoliche.
La Chiesa romana non è logorata soltanto dagli interregni che si prolungano. Anche la moltiplicazione di
conclavi ravvicinati la obbliga ad un regime anomalo di vuoti di potere successivi. Ne deriva una instabilità
istituzionale alla quale le sue strutture secolari non sono abilitate. Sotto un certo profilo, questa fragilità
potrebbe essere considerata il prezzo versato alla loro immanente pretesa di identificazione con l'assoluto,
con la conseguente consacrazione di un'immobilità, il più delle volte destorificante in ragione della sua
abusiva mitizzazione.
Questa difficoltà di accettarsi come provvisoria, nei modi propri di un'istituzione che è anche umana e
storica, segna la Chiesa romana in quel brevissimo anno e mezzo che, dal novembre 1590 al gennaio 1592,
conosce ben quattro conclavi: quelli di Urbano VII, di Gregorio xiv, di Innocenzo ix e di Clemente vm, del
quale abbiamo già scritto.
Dobbiamo particolarmente accennare al pontificato di Gregorio xiv, dal 5 dicembre 1590 al 16 ottobre 1591,
perché, fra tutti i successori prossimi di Sisto v, la sua elezione introduce nella storia del conclave una
innovazione carica di conseguenze: il diritto di esclusiva esercitato dal potere politico. È il figlio di Carlo v,
Filippo II, che notifica al conclave del 1590 una lista di cardinali esclusi e un'altra di cardinali graditi:
quest'ultima conta sette nomi, rispetto a una cinquantina registrati dall'altra. Di fatto è uno dei sette, il pio ma
cadente vescovo di Cremona Niccolo Sfrondati, a diventare Gregorio xiv e l'anno seguente un altro della lista
bianca, il cardinale nunzio a Venezia Giovan Antonio Facchinetti, è chiamato a succedergli, col nome di
Innocenzo ix.
Le condizioni economiche della Roma pontificia, minacciata dalla carestia, contribuiscono a esporre il
conclave al ricatto dell'intrusione delle maggiori potenze. Gli spagnoli hanno avuto buon gioco nel
promettere rifornimenti di grano ai cardinali riuniti in conclave nel 1590. Ma il cibo sarebbe arrivato —
hanno avuto cura di precisare — soltanto dopo l'elezione del nuovo papa, cioè se questi, a differenza di Sisto
v, fosse stato favorevole ai loro interessi. Benché Gregorio Xiv corrisponda alla preoccupazione di
conciliarsi Filippo n, il grano tarda ad arrivare: «Gli Spagnoli forniscono solo pezzi di carta e parole»,
commentano gli «Avvisi» del gennaio 1591, «benché ottenga
no da questo dolce pontefice tutto quello che possono desiderare». Solo nel marzo 1591 il grano estero
comincia ad affluire, sia pure in misura limitata, quando Roma è agli estremi. Alcuni storici del periodo,
come Delumeau, avanzano il dubbio che il viceré spagnolo avesse già dal settembre 1590 la convinzione che
le promesse non potevano essere mantenute, il che autorizzerebbe la conclusione che la Spagna avesse
sfruttato scientemente la carestia di Roma a scopi politici.
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La crisi dell'ideale conciliare.
La Spagna è in quest'epoca la prima potenza mondiale, l'antemurale della Chiesa contro i turchi e contro
l'eresia, la rappresentante degli interessi pontifici nel continente americano. Il conclave non sembra
immaginare altra via che quella della riproduzione delle direttive spagnole. Tuttavia già con Clemente vm
una sorta di sollevazione si verifica, un movimento di protesta, che consenta al papa di riprovare, se non di
interdire positivamente, sia l'esclusiva sia l'inclusiva: l'esclusiva s'intende come una dichiarazione pubblica
con la quale un cardinale, parlando a proprio nome o a nome di un gruppo dì cardinali, o ancora come
portavoce del proprio paese, dichiara di non volere come papa un certo cardinale. Reciprocamente l'inclusiva
consiste nel gioco di far convergere i suffragi unicamente su una lista di candidati graditi alla corte
interessata. Sono anni di grandiosi mutamenti nelle visioni collettive. Keplero scrive Astronomia nova,
Matteo Ricci apre l'orizzonte della Cina al dialogo con la cultura scientifica europea e con il cristianesimo.
Nobili arriva in India e i padri gesuiti tentano in Amazzonia le vie di un'inculturazione del cristianesimo che
rimetta nel fodero la spada della Conquista. Ma i processi a Galileo e i primi bracieri delle guerre di religione
in Europa mettono in scena un paradigma della Chiesa romana progressivamente inadeguato alle revisioni in
corso nell'immagine collettiva dello spazio e dell'uomo. Questa insufficienza porta a dissipare la riserva
culturale e religiosa accantonata con la Riforma cattolica, si scarica in modo estremamente percussivo sulla
funzione papale e sul sistema elettorale che la correda. L'allontanamento degli ideali conciliari rende ormai
frammentario il riferimento alla riforma, e in particolare alla revisione e all'adeguamento del sistema
conclavario, tanto più urgente a misura dell'aggravamento delle ingerenze dei sovrani europei. Non può
essere indifferente che queste intrusioni siano il logico risultato della alleanza della Chiesa papale con il
processo di accumulazione capitalistica sviluppato dal colonialismo spagnolo nelle Americhe, di modo che si
potrebbe parlare di queste intrusioni più propriamente come il corrispettivo obbligato di una inclusione del
papato nella gestione della potenza mondiale, politica ed economi
ca, sia pure per i propri scopi apostolici e con effetti talora correttivi, come nel celebre caso della difesa
invocata da fra' Bartolomé de la Casas sulla dignità degli indios vilipesa dai Conquistadores. In questa
prospettiva, ìojus exclusivae potrebbe ragionevolmente essere inteso come «una forma di compartecipazione
delle potenze al funzionamento della monarchia elettiva papale».
Per non citare che un caso, il conclave dopo la morte di Clemente vm si sviluppa sulla linea del fuoco fra
Francesi e Spagnoli. Graditi ai Francesi, i cardinali Cesare Baronio e Alessandro de' Medici incontrano
l'opposizione degli Spagnoli, che fanno mancare appena otto voti al cardinale Aldobrandini per il successo. Il
confronto si svolge in modo assai teso dal 14 marzo ali'11 aprile 1605 quando il partito francese riesce a far
eleggere Medici, uno dei discepoli prediletti di San Filippo Neri. Prende il nome di Leone xi e, malgrado ciò,
cede in appena sedici giorni la tiara, stroncato dalla morte.
I due fronti si contendono in modo ancora più duro nel successivo conclave dall'8 al 16 maggio 1605.
Ancora una volta sono gli spagnoli a bloccare la candidatura dell'Aldobrandini. Sia lui che il Montalto
decidono alla fine di riversare i loro voti su Camillo Borghese, 52 anni, fino a quel momento mantenutosi in
disparte. Paolo v viene da una famiglia di giuristi originaria di Siena e in curia si è guadagnato una fama di
esperto in affari di Stato. Questa esperienza gli ispira la decisione di osservare il principio di neutralità nei
confronti del conflitto fra la Spagna e la Francia, ma non gli risparmia uno scontro con la Repubblica di
Venezia che rischia di precipitare l'Europa sull'orlo di una guerra. L'incendio è acceso sul caso di Paolo
Sarpi, per la sua critica all'assolutismo papale.
Nel 1618 la Guerra dei Trent'Anni comincia a devastare l'Europa. Tre anni dopo, alla morte di Paolo v, il
conclave che elegge Gregorio xv è brevissimo, dall'8 al 9 febbraio 1621. Molto amato per la sua mitezza e
apprezzato per la scienza giuridica, Alessandro Ludovisi interviene finalmente sul sistema elettorale con la
bolla del 15 novembre 162 \A etern iPatris e con la costituzione del 12marzo 1622DecetRomanum
Pontificem.
Con la prima viene prescritta come norma l'elezione mediante scrutinio segreto, senza però escludere il
sistema per «adorazione» o «quasiispirazione», a condizione che sia sostenuto dall'unanimità dei suffragi.
Viene ordinato che il sistema «per compromissum» possa essere adottato solo dopo la fine di un voto dato
per iscritto. Sembra trattarsi di meccanismi per la difesa della libertà degli elettori dalle ingerenze dei poteri
laici. Ai cardinali viene fatto divieto di dare il voto a se stessi, viene proibito di dare due voti o di votare
senza aver giurato. La dichiarazione di adesione ulteriore (o «accesso») non dovrà essere formulata che per
iscritto e soltanto una volta dopo ciascuna delle due votazioni quotidiane.
L'altro documento dello stesso pontefice regola il cerimoniale d'ingresso al conclave, centrandolo su
un'intelaiatura liturgica: buon antidoto potenziale all'invadenza della pretesa politica.
Del resto, la sua massima preferita è: «La vostra dottrina politica, i precetti di ragion di stato e gl'intimi
consiglieri siano il timore e l'amore di Dio».
A dispetto di queste encomiabili convinzioni soggettive, la politica papale appare ormeggiata ad una visione
così restrittiva degli interessi reali della Chiesa da non riuscire a prevedere le perdite che si preparano. Vista
ad una certa distanza ci sembra sostenibile la lettura di quel periodo, solo superficialmente minore, secondo
la quale esisterebbe una relazione causale tra la secolarizzazione del papato, anche se ricondotta nelle forme
della convenienza necessarie alla credibilità pubblica, e il rafforzamento del potere dello Stato che avrà la
sua ratifica solenne nella Pace di Westfalia.
/ conclavi nell'Europa di Westfalia (1648).
I conclavi di quella prima metà del secolo si svolgono nel segno della stanchezza della Controriforma e
perciò della crisi basilare della prospettiva di un rinnovamento religioso del papato e della cristianità. Nel
conclave dal 19 luglio al 6 agosto 1623 il fiorentino Maffeo Barberini, di appena 55 anni, si impone meno
per le sue indiscutibili qualità religiose che per le sue riconosciute abilità politiche e diplomatiche, emerse
particolarmente nel periodo della sua nunziatura a Parigi. Egli esce vincitore grazie all'accordo fra i due
partiti rivali, quello del Borghese e quello del Ludovisi, rafforzato dal sostegno dei seguaci di Aldobrandini,
dai cardinali tedeschi di Zollern e Klesl e dai «principi» Farnese e Medici.
Quando cercano di valutare la politica di Urbano vm (16231644) durante la Guerra dei Trent'Anni, la
maggior parte degli storici traggono la conclusione che egli si illudeva nel ritenere che potesse ancora servire
la vecchia tecnica di usare i mezzi politici e militari per scopi religiosi, mentre il pluralismo politico e
religioso, ormai irreversibile dopo lo scisma luterano, rendeva necessario il ritorno della Chiesa ad una
coerenza di fondo tra gli scopi e i mezzi religiosi. Il principio perseguito dal papa di assicurare alla Chiesa un
ruolo al di sopra dei conflitti fra le grandi potenze era del tutto classico, ma è opinione condivisa che esso
sarebbe stato meglio considerato e avrebbe avuto una maggiore efficacia per la pace se non si fosse risolto in
un favoreggiamento della Francia di Richelieu.
A questo papa «politico» viene anche contestato di non essersi avveduto in tempo che la sconfitta
dell'imperatore e della lega avrebbe rappresentato la fine del movimento controriformistico al quale alcuni
dei suoi predecessori avevano consacrato il meglio di se stessi, nel tentativo di ricucire lo strappo luterano.
Se ci concentriamo sull'impegno interno dedicato da papa Barberini ad alcuni fronti della Chiesa, egualmente
non si potrebbe evitare di notare la sproporzione grandiosa tra la gravita della crisi e i mezzi di piccolo
cabotaggio apprestati. L'idea di un Concilio generale riemerge dopo un'ibernazione decennale, per un
movimento di opinione affranto dal groviglio di interessi politici e religiosi che soffocano la circolazione
spirituale nel cattolicesimo. Ma la risposta del papa è modesta: una commissione per la riforma del breviario
romano e insignificanti modifiche al messale; l'attribuzione del titolo di «eminenza» ai cardinali, nel 1630;
una politica cardinalizia che infoltisce il già nutrito schieramento italiano nel sacro collegio al fine di ridurre
le possibilità di ingerenza delle potenze cattoliche nell'elezione papale.
Si sviluppa in questo periodo la figura del cardinale «protettore», la cui funzione è sempre più nettamente
quella di rappresentante politico dello Stato, non della Chiesa, e mandatario degli interessi del potere politico
al quale è legato. Da relatore e patrocinatore degli affari beneficiari maggiori da procacciare in concistoro a
favore di un paese, il «protettore» si presenta come agente interno alla Curia e al collegio cardinalizio,
portando la voce e gli interessi del rispettivo governo. Ne deriva la formazione di partiti contrapposti, che avvolgono il collegio cardinalizio, specie nella fase elettorale, in trame determinate e tessute aliunde. È
clamoroso lo scontro tra Urbano vm e il cardinale spagnolo Borgia nel concistoro dell'8 marzo 1632. Il papa
impone il silenzio al cardinale che difende l'operato del re di Spagna: «i cardinali in Concistoro segreto non
parlano apertamente», afferma Urbano vm, «se non con una precedente nostra licenza, o quando sono
interrogati, e quando chiediamo consiglio, che pure non siamo tenuti a seguire».
Il gioco dei veti politici entra massicciamente anche nel conclave dal 9 agosto al 14 settembre 1644, dal
quale esce papa Giambattista Pamphili col nome di Innocenzo x (16441655). È la Spagna a dichiarare
l'esclusiva nei confronti del Sacchetti, il candidato favorito dai nipoti di Urbano vm e dai francesi. Tuttavia
questo successo non è completo per la corona: i due schieramenti si alleano sul nome di Pamphili, benché
questi sia sgradito ai francesi e sia stato contrastato dal governo di Madrid al tempo della sua nomina a
cardinale.
Papa Innocenzo deve rassegnarsi, malgrado le formali e del resto tardive proteste cartacee, alla perdita
dell'influenza della Chiesa nella nuova mappa europea, definita dalla Pace di Westfalia nel 1648. Questa
toglie ormai in modo definitivo all'Impero la sua impronta cattolica e postula un regime di tolleranza
paritaria tra plurali. La Chiesa romana perde irreversibilmente i vescovadi del nord e del centro della
Germania, così come un gran numero di conventi e di monasteri.
La principale conseguenza di questo trauma è la restrizione politica dell'istituzione ecclesiastica. Le elezioni
del papa si risolvono per
10 più in un gioco di forze politiche nel quale si fronteggiano le fazioni composte da cardinali di ispirazione
rispettivamente francese o imperiale. Soltanto di rado riesce a intromettersi efficacemente la terza corrente
dei neutrali, detti anche «squadrone volante» a partire dal conclave del 1655, in virtù della sua versatilità e
mobilità politica.
La pressione politica sui conclavi implica che si debba normalmente ricorrere al sistema elettorale «per
compromesso», e il risultato è che
11 papa viene eletto in ogni caso sotto l'ombra delle aquile. È prassi abituale che nessun candidato possa
essere presentato se non goda del gradimento esplicito del re di Francia. Il costume è così permissivo ed
accettato che non è nemmeno più necessario un formale atto di esclusiva. Il veto si svolge mediante il
controllo del terzo degli elettori, dunque attraverso l'utilizzo appropriato di una minoranza di opposizione
atta ad impedire che il candidato sgradito consegua i necessari due terzi dei suffragi. Questo gioco dei veti
incrociati e degli sbarramenti fa sì che le elezioni papali si prolunghino non solo per la difficoltà delle
comunicazioni e dei trasporti in questo periodo ma anche e soprattutto a motivo degli interventi politici.
All'espansione del potere statale, anche nelle questioni ecclesiastiche, la Chiesa risponde con ripetute
riaffermazioni del proprio potere. Ciò che le manca è una classe dirigente capace di discernere nelle
convulsioni dell'epoca altro che non sia il loro carattere competitivo, e antagonistico. Le nomine dei cardinali
ricadono sempre più strettamente sotto il controllo dei governi, attenti a scongiurare il pericolo che una delle
potenze ottenga dei privilegi rispetto alle altre. I sovrani cattolici rivendicano il «diritto» non scritto di
proporre una lista di candidati alla porpora, al fine di assicurarsi una speciale rappresentanza a tutela dei
propri interessi nella cerchia del collegio cardinalizio, in vista dell'elezione papale.
D'altra parte la pressione dei poteri politici sul conclave non trova all'interno un'integrità a tal punto
inviolabile da rappresentare l'alternativa morale desiderabile: episodi di nepotismo papale continuano ad
affliggere la direzione ecclesiastica, riaffacciando intrusioni di tipo dinastico o familistico, poco compatibili
con la purezza disinteressata richiesta dalla superiore responsabilità della Chiesa universale.
E cos'altro era in grado di offrire la direzione ecclesiastica agli appelli ad una radicalità religiosa scaturiti da
Pascal e da Giansenio? Cosa all'incipiente movimento che inalbera dal cuore della Francia le prerogative
dell'intelligenza critica contro le antiche figure infantili del divino? «Poiché a questa sfida, portata avanti con
entusiasmo contro le forme tradizionali di vita della Chiesa, non si seppe contrapporre che un duro rifiuto»,
noterà il gesuita tedesco Burkhart
Schneider, «ne conseguì che la Chiesa e il papato furono considerati
sempre più retrogradi.»
Fabio Chigi di Siena diventa papa nel 1655 col nome di Alessandro vii (16551667). È stato segretario di
Stato di Innocenzo x nel 1651, dopo dodici anni di lavoro come nunzio in Germania. Il conclave si trasforma
in uno scacco per il governo francese. Il suo capo, il cardinale Mazarino, ha tentato l'impossibile per portare
in trono il cardinale Giulio Sacchetti, la cui candidatura era già fallita nel conclave precedente. Una leggenda
un po' scherzosa si è formata intorno a questo eterno papabile, che a motivo del numero dei voti che riesce a
percepire, ma mai sufficienti, viene chiamato «cardinal Trentatré». Le trattative si sviluppano per ottanta
giorni. I Francesi non sembrano disposti a cambiare la loro posizione. Essi osteggiano la candidatura
concorrente di Fabio Chigi, la cui condotta nel congresso di pace di Westfalia non è tornata gradita a Parigi.
Ma imprevedibilmente è proprio il «cardinal Trentatré» a sbloccare la situazione e a convincere Mazarino ad
appoggiare Chigi. Così questi può essere finalmente eletto il 7 aprile 1655.
Bisogna dire che Mazarino aveva ragione di temere che la politica papale si sarebbe attestata su linee
antifrancesi e che ciò avrebbe determinato una crisi come quella verificatasi, fino al ricorso alle armi, dopo il
1661.
Per quanto attiene al nostro tema, dobbiamo osservare la politica cardinalizia seguita da Alessandro VII. Egli
si attiene al paradigma filoitaliano tradizionale. Su un totale di trentotto nomine in sei diverse promozioni,
solo in due occasioni sono creati cardinali non italiani, in complesso due spagnoli, due tedeschi e un francese
alla volta. Una preferenza smaccata è riservata ai senesi, compatrioti del Chigi. Esageratamente alto il
numero dei cardinali riservati «in pectore» (diciassette).
Tuttavia si impongono in questa politica alcuni fattori meritevoli di apprezzamento, quali l'elevazione di
personalità pastorali di rilievo, come il vescovo tridentino Gregorio Barbarigo, futuro vescovo di Padova, il
gesuita Pietro Sforza Pallavicino, noto per il ruolo svolto al Concilio di Trento e il vescovo di Ratisbona
Francesco Guglielmo di Vartenberg. Non meno considerevole il fatto che il papa ha tenuto fede al tetto dei
settanta membri del sacro collegio, malgrado le difficoltà di dotazioni finanziarie adeguate per tutti, al fine di
non indurre in tentazione le potenze cattoliche di pretendere «cardinali della corona».
Il conclave che elegge il 20 giugno 1667, dopo soli diciotto giorni, il cardinale Giulio Rospigliosi, papa col
nome di Clemente ix, è assegnato al merito dell'impresa dello «squadrone volante», i cui cardinali riescono a
coagulare sul suo nome i voti necessari. Egli non re
gna che due anni, lungo i quali il papato deve subire un nuovo scacco, questa volta da Sud, quando i Turchi
conquistano Creta, malgrado i tentativi di coalizione intercristiana organizzati dal papa a difesa della
fortezza. Non gli restano che pochi giorni di vita quando Clemente crea sette cardinali per colmare il collegio
dei settanta. Il conclave che si apre all'indomani della sua morte, avvenuta il 9 dicembre 1669, dura più di
quattro mesi. Nuovamente attiva è la Francia, che pone il veto a due possibili candidati, D'Elee e Odescalchi.
La Spagna reagisce bloccando i candidati Vidoni e Brancaccio. «Mai come questa volta gli inviati delle
potenze cattoliche hanno avuto un influsso maggiore nell'elezione», riferiscono le cronache del tempo senza
impedirsi i toni satirici.
Esausti, gli elettori dei due schieramenti cedono infine alla mediazione di Venezia a favore di uno dei
cardinali freschi di porpora: la scelta cade sul cardinale più anziano dell'estrema infornata di papa Clemente,
l'ottantenne cardinale Emilio Altieri, che a dispetto delle previsioni regna sei anni, angosciato dal pericolo
dei Turchi sull'Europa e dalla disunione del campo cristiano. È opinione comune che Clemente x (16701676)
fosse suscettibile più dei predecessori ai ricatti delle potenze politiche nella scelta dei cardinali, aggravando
la degenerazione politica del collegio cardinalizio. Una tale suscettibilità si lascia più facilmente conquistare
dalla Francia, le cui pressioni sul vecchio papa sono del resto incessanti. Nei sei anni di regno, papa Altieri
porta nel sacro collegio quindici italiani e solo cinque cardinali di diversa nazionalità, ossia due francesi, un
tedesco, uno spagnolo e un inglese. Le pressioni francesi arrivano al punto di scatenare un incidente grave il
21 maggio 1675. Ciò si verifica allorché Luigi xiv, non soddisfatto di aver già ottenuto la nomina di un
cardinale a lui gradito, il vescovo Cesare d'Estrées, lo invia a Roma col duca suo fratello, e da ordine di
spingere il papa a concedere il cardinalato ad altri candidati della corona francese. In un'udienza il duca
d'Estrées, ambasciatore di Francia, esegue le direttive reali protestando col papa per il ritardo delle sospirate
porpore filofrancesi e scagliandosi specialmente contro il nipote del papa, il cardinale Altieri. Clemente x
non esita allora ad allungare la mano per far squillare il campanello, che segna la fine dell'udienza. Ma
l'ambasciatore gliela afferra, anzi impedisce al papa di alzarsi dopo un nuovo tentativo di raggiungere il
campanello. Il risultato è che nella lista dei nuovi cardinali, resa pubblica di lì a qualche giorno, non appare
alcun francese. Questa querelle non è che una sorta di aneddoto nel grande dramma del confronto tra
l'assolutismo orgoglioso di Luigi xiv e la coscienza dei papi circa i propri diritti. L'ambasciatore di Francia
scrive un giorno a questo riguardo che il re riteneva tali diritti alla stessa stregua delle prerogative del capo di
una corporazione di bottegai parigini. Almeno nove papi, la maggior parte dei quali anziani, spesso fra
gili, per lo più stimabili e pii, privi (salvo Innocenzo xi, certo il papa più grande dell'età barocca) di statura
eroica e di genio politico comparabili ai loro predecessori del Cinquecento; capi di uno Stato finanziariamente debole e territorialmente piccolo, assistiti da un collegio cardinalizio diviso, si trovano ad
affrontare, dopo le vertigini della potenza rinascimentale, la dissoluzione colpo dopo colpo dell'antico
edificio della Chiesa. Essa continua a considerarsi imperitura, ma trema sotto l'assedio d'una cultura
secolarizzata all'interno e dell'assolutismo politico in Europa, oltre che dei Turchi, all'esterno.
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L'età di Innocenzo xi (1676-1689).
L'elezione di Benedetto Odescalchi, cardinale a soli trentaquattro anni nel 1645, avviene in condizioni
imprevedibilmente propizie il 21 settembre 1676, con una maggioranza di voti schiacciante. L'opposizione
iniziale viene dalla Francia, il cui ambasciatore a Roma minaccia l'esclusiva se l'elezione avvenisse prima
dell'arrivo dei cardinali francesi. L'atteggiamento di Luigi xiv evolve tuttavia in seguito alle raccomandazioni
dei cardinali Chigi e Rospigliosi, entrambi favorevoli alla riuscita di Odescalchi. Ciò permette alla sua
candidatura di passare in sole ventiquattro ore da otto voti alla quasi totalità dei consensi.
Prima di accettare l'elezione Innocenzo xi esige che tutti i cardinali sottoscrivano quattordici articoli di
riforma che egli stesso ha presentato vanamente nel conclave precedente. Riaffiora così dall'obsolescenza
l'idea della riforma ecclesiale, che sembrava smarrita. Ciò che fa la grandezza di papa Innocenzo è l'aver
conservato il senso della sovranità spirituale del papato malgrado la crisi progressiva delle sue strutture
materiali, un tempo indiscusse e dominanti.
Il modo con cui contesta le pretese francesi sui diritti di regalia e sulla «franchigia di quartiere» nella Roma
papale — una sorta di extraterritorialità diplomatica intorno a palazzo Farnese — è molto tipico di una tale
consapevolezza sovrana. Dinanzi alla pretesa francese di far valere l'antico diritto, che una bolla pontificia ha
soppresso, il papa rifiuta di ricevere l'ambasciatore del re e lo colpisce con la scomunica per aver sfidato
l'ordine. Egli mantiene la scomunica anche quando l'ambasciatore entra nella chiesa nazionale di San Luigi
dei Francesi nel Natale del 1687 per la messa di mezzanotte. Nell'aprile 1689 questo ambasciatore rientra a
Parigi senza essere mai stato ricevuto dal papa.
Con la stessa energia papa Innocenzo affronta la difesa contro i Turchi. È in gran parte il risultato della sua
tenacia, in passione e finanziamenti, la sconfitta inflitta loro il 12 settembre 1683 nell'assedio di Vienna.
Molto opportunamente lo stendardo del Gran Vizir preso nel gigantesco bottino è mandato al papa che lo fa
appendere trionfalmente sul portale principale della basilica vaticana.
Nella politica ecclesiale l'austerità di questo papa è applicata alla restaurazione integrale della disciplina
ecclesiastica, alla lotta al nepotismo e ad ogni forma di lusso. Nella nomina dei cardinali da prova del
medesimo rigore. In tredici anni di regno opera due sole creazioni cardinalizie: la prima, nel 1681, integra
nel collegio sedici cardinali, tutti italiani; l'altra, nel 1686, assegna altre sedici porpore agli Italiani, ma anche
undici straniere, fra le quali quattro tedesche: pare che sia la quota più alta di cardinali non italiani mai prima
integrata nel collegio elettorale del papa, se si eccettua il periodo avignonese.
Il conclave tenta di schivare con qualche successo le ingerenze politiche immediate anche nel 1689, quando
elegge il veneziano ottantenne Pietro Ottoboni, papa col nome di Alessandro vni. Sia l'imperatore che il re di
Francia sono presenti mediante propri emissari nell'elezione. La maggior parte dei cardinali è orientata
tuttavia a procedere alla scelta di Ottoboni prima che i monarchi possano formulare le loro predilezioni e
farle valere coi loro mezzi. Decisiva peraltro resta pur sempre l'adesione della Francia, assicurata
preliminarmente che il nuovo papa avrebbe «assolto» i vescovi francesi presenti alla famigerata assemblea
del clero «gallicano» del 16811682, e riammesso in Vaticano l'ambasciatore umiliato da Innocenzo xi. E
tuttavia sarà precisamente Alessandro vm a pubblicare il decreto, già preparato dal predecessore, con il quale
le quattro «libertà gallicane» vengono dichiarate nulle, benché abbiano l'adesione ostinata di Luigi xiv. Il 30
gennaio 1691 Alessandro vm convoca dieci cardinali intorno al proprio letto e ordina loro di pubblicare il
decreto contro il gallicanesimo. Quarantott'ore più tardi egli muore, all'età di 81 anni.
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La lotta al nepotismo.
Cinque mesi dura il conclave che si apre il 12 febbraio 1691. Il candidato che raccoglie il consenso più largo
è Gregorio Barbarigo, un vescovo eccellente, che sarà canonizzato da Giovanni xxm.
Tuttavia il suo cammino verso il papato è sbarrato dal blocco imperiale. Vienna infatti lo ritiene troppo
francesizzante. D'altra parte, anche i francesi hanno delle riserve nei suoi confronti, sicché gli unici rimasti al
suo fianco sono gli «zelanti» dello «squadrone volante», il partito che rivendica l'indipendenza della Chiesa
dal potere politico e che abbiamo già incontrato sulla scena della storia dei conclavi seicenteschi. I tentativi
di soluzioni mediane si moltiplicano finché l'accordo si realizza sul nome di Antonio Pignatelli: uno dopo
l'altro affluiscono sulla sua candidatura i voti dei vari gruppi, da ultimo anche quello dei cardinali francesi.
Premuroso per i poveri, semplice nella condotta di vita, Innocenzo xii affronta coraggiosamente le resistenze
dei cardinali di Curia emanando una bolla del 22 giugno 1692 contro il nepotismo ed esigendo
che tutti la firmino. Essa porta il merito storico di avere inferto un colpo mortale a questa pianta tossica
allignata sul tronco di Pietro. Nella stessa direzione si collocano le misure papali dirette a ridurre la vendita
delle cariche nella Curia.
Finisce grazie a Innocenzo xii il più grande scandalo dell'amministrazione vaticana. Nel corso di non pochi
pontificati era consueto lo spettacolo di falangi di parenti che calavano a palazzo per sfruttare a loro profitto
il tempo, prevedibilmente non infinito, del regno. Con questo sistema un buon numero di famiglie della
nobiltà romana hanno accumulato una immensa ricchezza. Un costume del genere ha nuociuto all'efficienza
economica del governo pontificio. Numerosi rapporti di ambasciatori in quest'epoca informano che almeno
un terzo degli abitanti negli Stati della Chiesa conducono una vita da parassiti gaudenti.
Come amministratori civili il papa e la curia non sembrano godere di una reputazione soddisfacente. A torto
o a ragione gli Stati della Chiesa sono considerati come il paese più arretrato dell'Europa, con il sistema
giudiziario più venale, con il sistema scolastico più inefficiente e con un corpo di funzionari ecclesiastici la
cui preoccupazione principale sembra quella di preservare i cittadini da ogni contatto con la cultura del
secolo. La corruzione non è in nessun altro regno così profonda e praticata come sotto il papare. Non senza
ironia gli ambasciatori tornano volentieri sul paragone fra il regime pontificio e quello del sultano di Turchia.
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L'impotenza del papato politico.
Clemente xi viene eletto dopo sei settimane di conclave. L'impegno posto in passato, specialmente sotto
Innocenzo xi e Innocenzo XII, per instillare una maggiore formazione spirituale alla Curia romana, oltre che
uno stile di vita improntato alla sobrietà, sembra aver influito sulla struttura del collegio cardinalizio. Di
conseguenza coloro che vengono ormai comunemente indicati come «gli zelanti» — il gruppo cioè che si
batte nel solco dell'antico «squadrone volante» contro l'infeudazione politica e nazionale del papato — conta
ora una certa preponderanza.
Tuttavia non riesce ancora a disporre della maggioranza dei due terzi, se non procacciandosi un buon
compromesso con il gruppo filofrancese. Quest'ultimo ha ricevuto delle istruzioni di Luigi xiv in vista del
prossimo conflitto per la successione al re di Spagna e non lascia nulla di intentato per favorire il successo
d'un papa francesizzante e, in più, accomodante.
La battaglia degli «zelanti» è ostinata ma priva di vie d'uscita. Essa è soccorsa, il 19 novembre 1700 dalla
notizia della morte di Carlo n di Spagna, notizia penetrata in modo fortunoso al di là della cinta conclavaria.
Tanto basta a mutare le condizioni oggettive dell'elezione:
il timore di una guerra in Europa è condiviso dal corpo elettorale, che si affretta a superare le ragioni dello
scontro interno e procede all'accordo, quasi unanime, sul nome del cardinale Gian Francesco Albani, 50 anni,
ritenuto il cardinale più influente già sotto Alessandro vili. Bibliofilo appassionato, di tendenza francofila,
Clemente xi (17001721) passa per fine e flessibile diplomatico, amabile e pio, soprannominato cunctator per
le sue doti di temporeggiatore. In compenso, si è fatto ordinare prete da pochi giorni, quando già è in porpora
da dieci anni, e ha celebrato la sua prima messa soltanto ventiquattr'ore prima di entrare in conclave. Gli
manca ancora l'ordinazione episcopale.
Avviene con lui qualcosa che può candidarsi a passare nella rassegna storica dei record assoluti: in
quarantotto ore un cardinale diventa prete, papa e vescovo. Infatti Albani si affretta a mettersi in regola anche
da questo punto di vista e il 30 novembre, appena accettata l'elezione papale, si fa consacrare vescovo, così
riproponendo il principio della radicazione necessaria della funzione papale nel collegio episcopale, e della
correlativa insufficienza del cardinalato.
Un record del genere insinua qualche dubbio sulla sua fama di cunctator. Bisogna tuttavia concedergli che,
appena gli viene annunciata l'elezione, egli chiede ai cardinali una pausa di riflessione. Egli si rivolge per
consigli ad alcuni teologi. Soltanto dopo questo tempo di silenzio egli scioglie la riserva, scegliendo per sé il
nome del santo di quel 30 novembre, Clemente.
Il suo regno, di oltre vent'anni, può essere preso come lo specchio dell'impotenza del «papato politico»,
quantunque servito dalle migliori intenzioni soggettive e da una pietà personale fuori discussione. Le
oscillazioni politiche di Clemente xi, i suoi avvampanti entusiasmi per i successi delle armi francesi nella
guerra di successione di Spagna, accompagnati dai più enfatici appelli alla pace, la gestione talora brutale
delle sue relazioni con l'imperatore, il voltafaccia del 1709 quando il papa riconosce Carlo m come re di
Spagna e tradisce Filippo v, prima dichiarato in tutta solennità successore legittimo: tutto in questo
pontificato segnala lo scacco della politica vaticana, il suo discredito crescente in Europa, l'emarginazione
della sua presenza e della sua efficacia. Senza contare le difficoltà, le delusioni, le miopie nel campo
propriamente religioso, con la condanna della Chiesa gallicana, la mortificazione dei «riti cinesi», i conflitti
con la Missione d'Olanda.
L'età barocca porta dunque al disfacimento la «ragion di Stato» nella sua versione ecclesiastica. Benché il
senso delle evoluzioni storiche e culturali del secolo non sia percepito adeguatamente dai dirigenti della
Chiesa romana, pure il principio sancito a Westfalia agisce implacabilmente nelFimporre la crisi delle
congiunzioni politiche e religiose anche alla Chiesa. L'Occidente non si identifica più con la cristianità e la
«ragion di Stato» non permette che un principio trascendente possa determinare la politica.
La scissione della cristianità occidentale è ormai un fatto acquisito, in base al quale gli Stati cattolici e gli
Stati protestanti si riconoscono reciprocamente un'esistenza legittima. Per la Roma pontificia è difficile
ammettere che la nuova mappa geopolitica e il nuovo statuto laico chiamato a regolare i rapporti fra i
diversamente credenti e i diversamente pensanti possa lasciare indenne la visione totalizzante che essa
continua a nutrire, con leggere varianti, sui propri rapporti col'mondo.
Il trionfo dell'arte barocca non appare, da questo punto di vista, che l'affermazione artificiale di un'illusione,
il segno estrinseco di una potenza spaziale destinata a colmare ogni vuoto, per occultarsi in definitiva il
dovere di misurarsi con un reale diverso, e forse angoscioso; di prendere atto una volta per sempre che
YAncien Regime è esaurito e che la sfera di influenza della Chiesa romana è ormai limitata, dal punto di vista
geopolitico, alla regione mediterranea, intorno alla Città Eterna.
Gli effetti del cesaropapismo.
Lo svolgimento dei conclavi lungo il Seicento appare un riflesso il più delle volte evidente e drammatico del
carattere sempre più artificioso dell'adozione, o dell'influenza della ragion di Stato nel processo elettorale dei
papi. È questo accanimento nel riprodurre nella Chiesa i princìpi dello Stato che nuoce infine alla credibilità
dello sforzo dei papi, generalmente sincero, di mantenere la pretesa di un potere di giurisdizione universale
senza che questo sia posto in condizioni obiettive tali da poter rivelarsi esclusivamente come strumento di
una missione soltanto religiosa e morale.
Come osserva L. J. Rogier, «il padre comune della cristianità aspira naturalmente a collocarsi al di sopra dei
partiti, a godere di un'autorità veramente sovranazionale; la sua posizione di sovrano temporale contrariava
molto questa aspirazione e rendeva impossibile la sua realizzazione. Così era una assurdità flagrante
continuare a dichiarare questa sovranità come indispensabile all'indipendenza del papa nei riguardi del
mondo. Se una cosa ha reso impossibile tale sovranità nel corso della storia moderna è precisamente questa
combinazione del potere spirituale e del potere temporale [...]. Lungi dalFaggiungere rispetto a quello dovuto
al papa come pastore supremo della cristianità, la sua sovranità temporale gli faceva torto».
Il risultato di questo malinteso fondamentale è che la pressione cesaropapista dei principi cattolici si
trasforma in un principio di conservazione dell'Ancien Regime ecclesiastico, e non soltanto in una forma di
subalternità e di controllo sul processo elettorale dei papi al fine di far eleggere un candidato propizio. La
politicizzazione che si allarga nei gangli della curia romana si sviluppa in modo così intenso
a misura del declino dell'egemonia esercitata dal cattolicesimo anche negli Stati in cui deteneva posizioni di
forza come l'Austria, la Francia, la Spagna e la stessa Italia.
I regnanti cattolici ricorrono a pressioni sul papa perché accordi il cappello cardinalizio ai loro cortigiani più
servili, talora persino a uomini che, sotto alcuni aspetti, ne sono indegni. Ciò debilita, con l'autonomia degli
spiriti e delle decisioni, il livello dell'autorità del collegio elettorale. L'imperatore e i re di Francia e di
Spagna mantengono nella Curia romana i loro confidenti e i loro partigiani. La Roma ecclesiastica ribolle di
fazioni, austriaca, francese e spagnola, di lottizzazioni nazionali e politiche, di corse ad accaparrarsi i favori
dei dirigenti, dei nipoti del papa, del segretario di Stato. Nasce o comunque si perfeziona, in questo periodo,
l'arte suprema che si accredita alla diplomazia vaticana di flettersi senza rompersi, di alludere senza
affermare, di sospirare senza deplorare, di dispiacersi senza condannare, quella souplesse da serpente che un
autore tedesco le contesta, mentre suscita l'ammirazione non di rado invidiosa delle Cancellerie.
È perciò comprensibile, in questa cornice, come la maggior parte dei conclavi «barocchi» fornisca lo
spettacolo di negoziati che si prolungano bizantinamente per mesi, fra mercanteggiamenti e minacce,
simonia e ricatti. Di fatto, anche quando gli elettori sono riusciti a schivare il gioco incrociato delle esclusive,
il risultato generale permette di indicare che mai un Conclave ha osato eleggere papa un cardinale contro il
quale uno dei tre grandi monarchi cattolici, l'imperatore, il re di Spagna o il re di Francia, avesse opposto il
suo veto. Alle intrusioni dei grandi si accompagnano talora le manovre dei piccoli, Venezia, la Toscana, la
Savoia. La scelta finale riproduce un compromesso.
Secondo l'analisi di Rogier, che seguiamo, «se la maggior parte dei papi fra il Trattato di Westfalia e l'epoca
napoleonica sono stati dei personaggi senza vigore, se i loro regni potevano apparire come una serie di
disfatte e di umiliazioni, umanamente parlando è la conseguenza di tali procedure».
Ogni elezione infatti, come si è potuto constatare, si è dibattuta affannosamente nelle astuzie manovriere
degli emissari delle potenze, una specie di guerra fredda permanente. Ad un certo momento la competizione
doveva pur finire, non foss'altro che per stanchezza dei contendenti. Si arrivava così ad una maggioranza,
talora perfino all'unanimità, perché le fazioni, tra loro politicamente inconciliabili, finivano per mettersi
d'accordo su una personalità neutra, incolore, ritenuta inoffensiva, talora in là con gli anni.
I politici interessati non desideravano di meglio per il trono di Pietro che un mediocre malleabile, pio,
preferibilmente disinteressato o incompetente degli affari del mondo: dei sant'uomini, disposti a guardare al
cielo per lasciare a loro le cose della terra.
La conseguenza di questo sistema è quella formulata da Von Pastor dopo aver analizzato l'intera massa degli
interventi della Santa Sede in questo periodo: essi hanno ben poco a che fare con Dio, la religione, la
salvezza eterna degli uomini. Il papato assimilato alla potenza politica si vede orientato a perdere la propria
specificità religiosa e a cedere alle considerazioni giuridiche e diplomatiche assai più che alle preoccupazioni
etiche e spirituali. Per questo la voce del papa non poteva raggiungere, per difetto di soffio religioso,
l'evoluzione spirituale e culturale che prorompeva dalle viscere dell'Europa in questo secolo, finendo per
confondersi con i lamenti dei difensori dell'ordine del passato e di farsi considerare un ostacolo dai fautori
del progresso.
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CAPITOLO VIII.
I conclavi del xvm secolo.
II solo intervento normativo di qualche incisività sull'istituto conciavario nel Settecento risale a Lorenzo
Corsini, papa col nome di Clemente XII (17301740). Questo vecchio gentiluomo fiorentino, eletto grazie al
denaro profuso dai Medici per l'acquisto dei voti dei cardinali, pubblica nel 1732 — ormai quasi cieco —
una Costituzione apostolica, la Apostolatus officium, nella quale tenta di imbrigliare l'influenza delle corti nel
processo elettorale del papa e ostacolare l'intrusione di veti o esclusive in conclave.
Una riforma del genere appare ormai, più che matura, tardiva. Lo Stato della Chiesa versa in una tale
condizione che lo stesso cardinale Èrcole Consalvi, segretario di Stato nel 1800, ammetterà nelle sue
memorie: «È desiderabile che si vinca assolutamente ogni genere di ostacoli che si oppongono a quelle
emende e cambiamenti i quali o la vecchiezza di alcune istituzioni, o l'alterazione delle medesime, o gli abusi
introdotti, o gli insegnamenti della esperienza, o la mutazione dei tempi e delle circostanze e delle idee, e
degli usi, potranno ragionevolmente esigere».
Con la guerra di successione di Spagna il precedente sistema di alleanze ha subito dei rovesciamenti incisivi.
Prima di quella data la tensione fra Spagna e Francia ha favorito una certa libertà dei conclavi. Il blocco degli
Asburgo, alleati della Spagna, non si presentava compatto contro la Francia dei Borboni, e questa dialettica
interna aveva permesso che la pressione sugli elettori non fosse così drastica. Dopo la guerra di Spagna,
invece, il fronte francospagnolo dei Borboni contro l'Impero degli Asburgo è così coerente da assicurarsi una
preponderanza indiscussa sia in Europa sia, di riflesso, nelle fasi decisive dell'elezione dei papi.
Tuttavia questa egemonia subisce a sua volta il contraccolpo della progressiva crisi del cattolicesimo negli
Stati «cattolici» d'Europa, al punto che il provvedimento adottato da papa Corsini segna simbolicamente il
passaggio ad un altro modello di intervento politico nel processo conclavario: l'esclusiva non ha più
effettivamente bisogno di modi tipicamente politici per andare a segno. I Medici fanno scuola, ancora una
volta: lo strumento più incisivo dell'esclusiva, chiave dell'inclusiva universale, è il denaro.
L'influsso del blocco borbonico
I mutamenti intervenuti, o ancora in corso, nel sistema politico europeo trovano una immediata riproduzione
nel conclave che comincia il 31 marzo 1721 : per la prima volta i cardinali imperiali si trovano privi
dell'appoggio dei colleghi spagnoli, dato che questi ultimi, obbedendo al cambio dinastico, si sono schierati
con i Borboni. Lo scontro si annuncia subito netto tra il fronte francospagnolo e quello imperiale. Non sono
ancora arrivati più della metà dei 54 cardinali elettori quando, nelle prime ore del conclave, si profila la
candidatura del cardinale Fabrizio Paolucci, segretario di Stato di Clemente xi.
La reazione degli imperiali è immediata: Vienna contesta a Paolucci una linea esplicitamente filoborbonica e,
per bocca del cardinale Althan, lancia l'esclusiva nei suoi confronti. I negoziati continuano per cinque
settimane. I fautori dei Borboni ricorrono ad ogni mezzo, inclusa la corruzione. Grazie a queste azioni
convincenti, le durezze cominciano ad addolcirsi fino a favorire l'accordo sul nome del cardinale Mi-
chelangelo de' Conti, appartenente ad una famiglia di conti romani, un personaggio pacioso, molle, di 66
anni. È così conciliante che assicura di essere disposto ad accontentare nella sua politica sia la corona francese che gli interessi imperiali. L'8 maggio 1721 egli ottiene un'elezione all'unanimità e si fa chiamare
Innocenzo xm. Dura meno di tre anni, la maggior parte dei quali vissuti in malattia. Fa appena due concistori
in tutto il pontificato, per creare soltanto tre cardinali. Muore di stenti il 7 marzo 1724.
Gli schieramenti si ripresentano identici nel conclave che inizia il 20 marzo 1724. Esso dura due mesi. Il
fronte imperiale rinnova l'esclusiva contro Paolucci. La comunica in conclave l'ambasciatore straordinario
dell'imperatore Carlo vi, Maximilien von Kaunitz, che fa irruzione fra gli elettori con l'aiuto del cardinale
imperiale Alvaro Cienfuegos. Il compromesso si conclude sul nome di un cardinale apolitico, del gruppo
degli «zelanti», Pietro Francesco Orsini, nobile dell'ordine dei Domenicani, da cui trae l'austerità accanto alla
pietà e all'ignoranza del mondo. Viene eletto col nome di Benedetto xm il 29 maggio 1724, per un regno di
poco meno di sei anni: «non ha la minima idea di ciò che significa governare» si dice di questo papa che
resta il modesto monaco di prima anche nei panni pontifici, e si rifiuta di occupare gli sfarzosi appartamenti
vaticani.
La sua ansietà principale resta il ministero pastorale nella Chiesa di Roma, dove visita ammalati, insegna
catechismo, amministra sacramenti, consacra chiese e altari e convoca un sinodo diocesano per la
realizzazione del Concilio di Trento, ancora evaso nei suoi territori italiani.
Sfortunatamente egli non sembra dotato di abbastanza polso da fronteggiare le pressioni delle Corti
cattoliche per immettere nei ran
ghi cardinalizi personaggi di loro gradimento. Fra i ventinove cardinali creati da Benedetto xm in dodici
concistori, emerge un personaggio che segnerà questo secolo di storia della Chiesa, Prospero Lambertini, il
futuro Benedetto xiv.
Ma compaiono anche figuri torvi e nefasti come Coscia e Lercari, in particolare il primo. Niccolo Coscia,
beneventano e cliente degli Orsini, viene elevato al cardinalato nel 1725, contro il parere espresso da molti
cardinali, fra cui lo stesso segretario di Stato cardinale Paolucci. Abusando della propria influenza, e della
protezione della famiglia del papa, Coscia riesce ad ammassare, nell'arco di questo pontificato, una fortuna
enorme e a ridurre la curia ad un focolaio di corruzione e di simonia. Alla morte di Paolucci, egli ottiene il
posto di segretario di Stato per una propria creatura, il maestro di camera Niccolo Maria Lercari. I due
possono così disporre a proprio piacimento della Chiesa: è loro prassi abituale la vendita delle sedi vacanti o
il prelievo di tangenti dai detentori degli incarichi ecclesiastici. E quando il disastro delle casse pontificie,
così dilapidate, tocca il fondo, i due si rivolgono agli ambasciatori delle varie potenze esigendo lauti
compensi in cambio dei servizi assicurati.
Il papa non reagisce, perché non sa. La sua cecità è tale che non ascolta che ciò che i due furbacchioni gli
fanno intendere. Odiato ferocemente dal popolo romano, che non gli perdona di essere stato rapinato per anni
da una fiscalità smisurata, Coscia sfugge di misura al linciaggio dopo la morte di Benedetto xm.
Protetto da un salvacondotto, osa persino ripresentarsi al conclave e, a cose fatte, riesce persino a eclissarsi
senza danni. Soltanto nel 1732 viene tratto in arresto e condotto davanti a un tribunale speciale che l'anno
dopo lo condanna a dieci anni di reclusione in Castel Sant'Angelo. Clemente xo gli toglie la dignità di
cardinale, ma Coscia sembra disporre di mille vite, se riesce ad ottenere una scarcerazione temporanea per
partecipare nel 1740 anche ad un altro conclave: segno che la porpora gli è stata restituita.
In ogni modo la morte del papa il 21 febbraio 1730 segna la fine del potere dei beneventani nella Curia
romana. Accanto agli schieramenti tradizionali emerge per la prima volta un partito savoiardo, nel quale
militano anzitutto i cardinali che hanno preso parte ai negoziati per il concordato del 1727 con il Piemonte,
un concordato eccezionalmente favorevole alle posizioni di Casa Savoia.
Dopo oltre quattro mesi di conclave viene eletto il cardinale fiorentino Lorenzo Corsini, che i Francesi hanno
vanamente candidato due mesi prima incontrando il veto degli imperiali. Successivamente però Vienna si è
ricreduta ed ha mandato il suo placet. Nel frattempo anche i Francesi hanno avuto dei ripensamenti.
In realtà questa altalena della candidatura Corsini, un anziano di settant'otto anni, quasi cieco, dipende dagli
alti e bassi dei versamenti dei Medici sui conti dei cardinali nelle banche di Londra, Parigi,
L'Aja: «è più competente di questioni finanziarie che di questioni di chiesa» è l'opinione diffusa su questo
papa eletto il 12 aprile 1730 col nome di Clemente XII. Amante dello splendore, diventa completamente
cieco nel 1732 e perde la memoria nel 1736. Dalla fine del 1738 non lascia più il letto per una malattia fino
alla morte il 6 febbraio 1740. Questa situazione rivela il limite istituzionale del potere papale. Finché resta
assoluto e personale, esso non ammette deleghe, nemmeno in caso di infermità o impotenza, finendo tuttavia
di fatto per consegnare il timone del governo della Chiesa, come nel caso, a un pugno di favoriti con pochi
scrupoli.
Benedetto xiv (1740-1758).
Sei mesi dura il conclave che inizia il 19 febbraio 1740, fra i più lunghi dopo lo scisma luterano. Ne esce
eletto Benedetto xiv, il papa considerato più importante dell'intero secolo, e per alcuni anzi il più grande tra
Sisto v e Leone xm. La sua riuscita è difficile principalmente per l'improvvisa rottura del blocco egemone dei
Borboni. Al contrario, il gruppo francese si allinea con gli Austriaci, mentre quello spagnolo esce dallo
schieramento borbonico, attirando il consenso anche dei cardinali di Napoli e della Toscana. Di qui un
rimescolamento completo di carte, con candidati a ripetizione bruciati subito dopo esser scesi in campo,
qualche volta persino dopo aver sfiorato il successo per un solo voto. Durante questo conclave muoiono
quattro cardinali. Il partito dei Borboni forza sul nome di Pompeo Aldrovandi, ma non riesce a guadagnargli
quella manciata di voti che gli mancano per l'elezione.
Il conclave arriva alla svolta decisiva verso la metà di agosto, per esaurimento o per disperazione. Si riprova
a rimettere in campo uno dei candidati sfortunati della prima ora, l'arcivescovo di Bologna cardinale
Prospero Lambertini, 65 anni. All'inizio del conclave ha avuto qualche voto, poi è scomparso dalla scena. È
famoso come canonista, letterato, amante delle scienze, come «illuminista cristiano», chiamato più volte a
palazzo come consigliere personale di Benedetto xm.
Il ritorno del suo nome nelle votazioni d'agosto è folgorante. In pochi scrutini, raggiunge l'unanimità e il 17
agosto viene eletto.
La linea direttrice dei suoi diciotto anni di pontificato è l'abbandono del rigido Non possumus, il
riconoscimento del fatto compiuto del trionfo regionale della Riforma del xvi secolo, al di là di rimpianti
ormai sterili per un passato da considerare irreversibile. Durante il suo regno papa Lambertini inclina ad
apprezzare i bisogni dell'epoca e a stimare i tentativi che si affrontano per rinnovare i rapporti tra Chiesa e
società. Egli prevede i cambiamenti imminenti e parla apertamente del dovere che incombe alla Chiesa di
impegnarsi per adattarsi ad essi.
Senza incertezze mostra di saper distinguere tra sovranità spirituale e sovranità temporale e afferma senza
posa che la prima deve prevalere: alcuni grandi personaggi della Curia romana lo sospettano di voler
liquidare in gran parte il potere temporale. Lo criticano sussurrando: «magnus in folio, sed parvus in solio»,
grande sulla carta, scarso in governo.
In realtà, ciò che temono maggiormente nella sua politica è un atteggiamento ispirato ed una discrezione
religiosa inaudita per la tradizione sovrana della sua carica: «Anche se tutta la verità è racchiusa nel mio
seno», è una delle sue convinzioni, «devo confessare che io non ne trovo la chiave». Si può ammettere che
espressioni del genere possano aver dato luogo ai dubbi, diffusi nei dintorni del suo trono, se la sua dottrina
fosse veramente solida e se, nella sua persona, un relativismo deista non avesse preso possesso del trono
papale.
Dubbi del genere trovano alimento nella politica conciliante da lui seguita nei confronti delle Corti di
SardegnaPiemonte, di Napoli e di Spagna, con le quali si è piegato a concordati fin troppo perdenti per la
Chiesa, nonché per il grande riguardo da lui manifestato verso le esigenze del re Federico n di Prussia e i
suoi giochi spregiudicati sul capitolo cattedrale di Breslavia.
Anche nelle nomine dei cardinali Benedetto xiv si assoggetta, il più delle volte, ai desideri dei vari governi e
ratifica i loro candidati come cardinali della corona.
Nel 1740 muore l'imperatore Carlo vi e il papa adotta un atteggiamento di neutralità sul problema della
successione imperiale, senza cedere dinanzi alle pressioni delle varie potenze. Manifestando un'acuta
coscienza dei limiti delle proprie potestà, Benedetto si astiene da qualsiasi interferenza nel campo assegnato
alla competenza dei poteri politici e aspetta l'elezione regolare del principe Karl Albert di Wittelsbach da
parte dei principi elettori per comunicare il proprio riconoscimento formale a Carlo VII. Grazie a questo
atteggiamento rispettoso e conciliante nei riguardi delle prerogative dei sovrani, sia cattolici che protestanti,
egli contribuisce efficacemente a migliorare il clima in cui debbono convivere la Chiesa e lo Stato in una
società pluralistica.
Se una guida così illuminata solleva degli entusiasmi, ma anche delle critiche in campo cattolico, è
documentata la reputazione di cui egli è circondato fuori della Chiesa. La ragione principale di questo
interesse risiede nella passione che egli dedica allo sviluppo della ricerca scientifica, alla quale egli volentieri
riconosce la libertà necessaria. Il suo attaccamento alle scienze naturali è così autentico che egli crea nelle
Università pontificie nuove cattedre accompagnate da laboratori di fisica e di chimica e fonda accademie di
archeologia, di anatomia, di storia dell'arte e di storia liturgica. «Papa degli scienziati», lo chiamerà
Montesquieu mentre Voltaire gli indirizza la dedica del proprio dramma Mahomet nel 1740.
I
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Un'impresa così coraggiosa e complessa di riconciliazione fra Chiesa e la modernità, in numerosi campi
critici, non può non suscitare la reazione delle forze tradizionaliste. Il conclave che inizia il 15 maggio 1758
respira un clima eccellente, precisamente grazie alle premesse politiche stabilite dalla condotta di
Lambertini. Austria e Francia, divise per il passato da interessi inconciliabili, stringono un'alleanza politica
per eleggere un papa che sia anzitutto un buon pastore, un padre imparziale per tutti i cristiani, «un altro
Benedetto xiv». Tuttavia questo accordo non passa facilmente nei fatti.
La ragione principale è indicata nell'interesse della Francia a introdurre nell'agenda del prossimo pontificato
l'allineamento, se non la liquidazione, della Compagnia di Gesù. Basta che il «papabile» cardinale
Cavalchini, vescovo di Ostia, giurista di chiara fama, manifesti un certo favore nei riguardi dei gesuiti perché
i cardinali francesi lancino il veto contro di lui. In capo a sette settimane, emerge dal conclave la figura
incolore, malaticcia e abulica di Carlo Rezzonico, un nobile veneziano, che fa rimpiangere ad ogni passo il
genio del grande Contarini. Uno storico francese ha saputo disegnarne l'indole con precisione tacitiana:
«Pacifico e dolce, pio, più istruito che coltivato».
Egli riesce a malapena a raccogliere i consensi necessari, e sarebbe forse impossibile che egli persuada i
ritrosi senza l'eloquenza del cardinale austriaco Rodt. Eletto il 6 luglio 1758 più per il suo carattere reticente
di fronte alle novità e per la speranza, che lascia, di essere influenzato, Clemente xm si dimostra di tutt'altra
pasta. Infatti egli resiste alle pressioni dei circoli interessati alla soppressione della Compagnia di Gesù e
nella bolla del 1765 Apostolicumpascendi munus fa quadrato intorno ad essa, confermandola in un tempo
assai critico per la sua sopravvivenza.
Quando la sua resistenza sembra sul punto di crollare, sotto le minacce della Spagna, della Francia, del
Portogallo, della Savoia, di Toscana, Napoli, Parma, un infarto lo stronca il 2 febbraio 1769 alla vigilia del
concistoro già convocato per la sua resa.
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L'imperatore d'Austria in conclave.
II problema dei gesuiti caratterizza il conclave iniziato il 15 febbraio 1769, che dura tre mesi. Le potenze
cattoliche appaiono convergere sulla linea ostile alla sopravvivenza della Compagnia. Tuttavia non sono
d'accordo sul metodo da seguire per la soppressione. La Spagna, ad esempio, esige che il candidato più in
vista per l'elezione si impegni, in una capitolazione elettorale, a favore dello scioglimento dei gesuiti. Invece,
i cardinali della corona considerano un procedimento del genere irregolare, anzi «simoniaco», e lo rifiutano.
Il «papabile» più gradito alle potenze è l'arcivescovo di Napoli cardinale Sersale. Tuttavia i suoi legami
troppo stretti col potere politi
co dei Borboni nuoce alla sua credibilità. Su proposta del legale spagnolo Azpuru viene quindi lanciata la
candidatura del cardinale Giovanni Vincenzo Antonio Ganganelli, un francescano conventuale di
Sant'Arcangelo di Romagna, ex consultore dell'Inquisizione, noto per aver rifiutato due volte la carica di
Generale del suo Ordine allo scopo — secondo i malevoli — di riservarsi per posti più altolocati nella
Chiesa. Sul problema dei gesuiti, la sua posizione è discussa. Certamente ne era stato anticamente buon
amico. Ma da quando riveste la porpora, assegnatagli da Clemente xm nel 1759, ha cominciato a prendere le
distanze da una Compagnia sempre meno gradita ai Borboni al potere. La sua evoluzione è arrivata, a
conclave ormai aperto, a dichiarare il suo accordo alle tesi soppressive.
In un primo tempo, ha tentato di evitare di impegnarsi per iscritto in questo senso. Però appena
l'ambasciatore di Francia cardinale De Bernis lo ha invitato a firmare un protocollo del genere di una capitolazione elettorale, Ganganelli si è profuso in dichiarazioni secondo le quali egli stesso ritiene non solo
possibile ma anche auspicabile la scomparsa dei gesuiti. Di più, rilascia una dichiarazione scritta del
medesimo tenore ai cardinali spagnoli De Solis e De La Cerda.
Il conclave viene attraversato da un avvenimento inconsueto: il 15 marzo l'imperatore d'Austria Giuseppe n
arriva a Roma accompagnato dal fratello arciduca Leopoldo di Toscana. Per quindici giorni si dedica a
colloqui con i cardinali, malgrado la clausura del conclave. Egli fa intendere ai suoi interlocutori di essere
favorevole alla soppressione della Compagnia, nonostante i meriti da essa acquisiti nella storia culturale e
politica della sua nazione. Anzi, per anticipare le obiezioni, assicura che persino la regina madre Maria
Teresa, che ha un padre gesuita tra i suoi consiglieri, per non parlare del suo confessore, non muoverà un dito
a loro favore.
Il contenuto di simili assicurazioni si troverà confermato nelle corrispondenze diplomatiche scambiate tra
Vienna e Parigi. Francesco Giuseppe si spinge al punto di esprimere l'auspicio che il conclave possa eleggere
un papa simile a Benedetto xiv.
Non sono molto forti i fautori di una soluzione così avanzata, anche se il rimpianto per papa Lambertini è
aumentato in seguito alle delusioni prodotte dal suo successore. Tuttavia l'intrusione personale
dell'imperatore nel processo elettorale, la sua violazione di una soglia così munita come quella di un
conclave, impressionano talmente da spingere i cardinali favorevoli alla sopravvivenza della Compagnia ad
aggregarsi al partito imperiale.
I colloqui dei diplomatici con gli elettori continuano a Roma per tutto aprile e la prima metà di maggio. Le
loro relazioni con molti cardinali sono così frequenti da autorizzare l'impressione che il segreto del conclave
non sia ormai più che una farsa. Per qualche tempo il gruppo degli «zelanti», fedeli alla politica di Clemente
xm e attaccati alla linea «religiosa» del papato, è il solo ad opporsi all'arro
ganza dei diplomatici. Anch'essi però alla fine si rassegnano allo strapotere imperiale e fanno affluire i loro
consensi sul nome del Ganganelli.
Eletto all'unanimità il 19 marzo 1769, Clemente xiv si astiene dal mantenere l'impegno adottato, temendo,
secondo alcuni fantasiosamente, di essere avvelenato dai gesuiti. Infine cede alle pressioni della Francia,
aggravate dalle minacce di una rottura delle relazioni diplomatiche, e s'impegna formalmente con Luigi xv a
sciogliere l'Ordine. Identica promessa trasmette a Carlo in di Spagna. Tuttavia soltanto dopo quattro anni, nel
giugno 1773, il papa pubblica il documento di soppressione, il breve Dominus ac Redemptor noster, considerato responsabile di una ferita profonda inferta al sistema scolastico cattolico in Europa non meno che
all'attività missionaria svolta dai gesuiti alle frontiere più avanzate dell'apostolato cattolico.
La personalità di questo papa, in trono per meno di cinque anni, rimane controversa. Alcuni gli negano una
visione abbastanza adeguata e una sufficiente indipendenza rispetto alle influenze delle potenze temporali.
«Da questo punto di vista il pontificato di Clemente xiv è una pagina nera nella storia moderna della
Chiesa», è il giudizio di L.J. Rogier. «Malgrado la sua buona volontà non ha saputo dare alcuna prova di
capacità di governo né di esperienza di uomini.»
La fiducia che egli accorda a soggetti malfidi, intriganti e ostili visceralmente ai gesuiti, come il francescano
suo confidente padre Bontempi o il ciarlatano senza scrupoli Niccolo Bischi, è la fonte di una serie di
fallimenti in cui il suo pontificato è inciampato, fino a precipitare nella depressione psichica e in stati
ricorrenti di agitazione. La paura di essere avvelenato da presunti avversari non fa che aumentare negli ultimi
tempi. La morte lo libera dagli incubi il 21 settembre 1774, mentre la sua anima nera, il Bontempi, si affretta
a far circolare la voce, che si dimostra storicamente infondata, secondo la quale il papa sarebbe morto
avvelenato.
Pio vi e la rivoluzione (17751799)
Pio vi viene eletto all'unanimità, imprevedibilmente, il 15 febbraio 1775, dopo quattro mesi di un conclave
lacerato dalle tensio
ni e dalle manovre. Gianangelo Braschi è nato a Cesena nel 1717. Egli ha saputo gestirsi così abilmente in
quella tempesta da non risultare sgradito a nessuno dei gruppi cardinalizi. Non per nulla è stato segretario di
Benedetto xiv, oltre che tesoriere della Camera Apostolica, cioè ministro delle finanze, sotto Clemente xm,
con risultati universalmente riconosciuti: infatti, è riuscito a sollevare le finanze dello Stato pontificio dalla
crisi cronica in cui l'inefficienza curiale le aveva precipitate.
Il conclave del 1775 è dominato dalla questione dell'interpretazione, se liberale o restrittiva, del breve di
soppressione dei gesuiti. A favore di una recezione in senso moderato si dichiarano i cardinali dell'Austria e
della Francia, mentre quelli di Spagna e di Portogallo inclinano verso applicazioni di stile intransigente.
Emerge fra tali partiti una terza forza, rappresentata dal gruppo degli «zelanti». Essi criticano la debolezza di
Clemente xiv di fronte alle ingiunzioni antigesuitiche delle potenze egemoni; tuttavia sono indecisi quanto
alla scelta dei candidati.
Dopo vani e ripetuti tentativi, la mediazione del segretario di Stato, il conciliante cardinale Zelada, ottiene di
coagulare il gruppo degli «zelanti» sul nome di Braschi, facendo leva sulla sua relativa autonomia in
rapporto alle dispute politiche religiose più aspre dei precedenti pontificati. La sua candidatura è fortemente
sostenuta dall'ambasciatore francese cardinale De Bernis, che riesce a dissipare le estreme perplessità di
spagnoli e di austriaci, fino a raggiungere i due terzi dei voti necessari, anzi l'unanimità degli elettori.
In ventiquattro anni di regno, Pio vi assiste ad eventi traumatici per la società e per la Chiesa romana. Egli si
deve scontrare con la critica sempre più ampia dell'opinione pubblica nei confronti del centralismo pontificio
e dedica molta parte delle sue energie a contendere ai governi, anche cattolici come quelli di Austria e di
Toscana, gli statuti più liberali che essi intendono concedere al clero nei rispettivi territori.
Amante del gigantismo edilizio, troppo debole con i nipoti, poco felice nelle scelte di alcuni collaboratori,
come il poco edificante cardinale segretario di Stato Boncompagni, egli affronta le conseguenze della
soppressione dei gesuiti con grande prudenza, per non urtarsi con i Borboni, e finisce per accettare
tacitamente che la Compagnia si ricostituisca intorno al nucleo superstite in Russia.
Egli affronta duramente la Rivoluzione Francese, la cui onda d'urto in Italia è così sconvolgente da fargli
temere che possa scuotere alla base lo stesso papato. Dopo la condanna fulminata sulla Rivoluzione, egli
evita i consigli di quanti gli prospettano la possibilità di distinguere tra i princìpi di ordine religioso,
necessariamente immutabili, e le transazioni accettabili nell'ordine civile. Nel 1791 rompe le relazioni
diplomatiche con Parigi e tenta di convincere gli Asburgo ad appoggiare in armi la controrivoluzione in
Francia.
Nel 1796 Napoleone occupa Milano e la sicurezza che il papa sperava dall'Austria e dal Piemonte svanisce.
Egli si affretta ad avviare trattative con Bonaparte, ritirandosi tuttavia dinanzi alle pretese di quest'ultimo di
ottenere l'abrogazione delle condanne antirivoluzionarie, inclusa quella contro la costituzione civile del clero.
I Francesi occupano allora le regioni settentrionali dello Stato pontificio e puntano su Roma, fino a indurre il
papa a firmare nel 1797 il trattato di Tolentino. La Santa Sede accetta di cedere alla Francia la parte più ricca
dei suoi territori pur di mantenere il nucleo profondo del proprio potere temporale.
In realtà Napoleone può ben apparire piuttosto il rinnovatore dell'idea di Giustiniano e di Carlo Magno. A lui
non interessa soltanto una Chiesa statale da dominare ma anche lo Stato della Chiesa. Nel decreto di
Schònbrunn del 1809 l'imperatore si richiamerà alla donazione di Carlo Magno per «porre fine alle utilità
tanto dannose al bene della religione e dell'impero». Così, ad opera di Sua Maestà, «i papi (dovevano) essere
resi quelli che avrebbero dovuto essere sempre, in quanto l'imperatore ha liberato il potere spirituale dalle
tribolazioni cui è sottoposto il potere temporale», applicando il precetto di Cristo: «II mio regno non è di
questo mondo».
Questo potere appare invece al papato la base necessaria per la propria sovranità giurisdizionale e per la sua
riproduzione istituzionale. Malgrado queste concessioni il problema della sovranità temporale del papa nelle
regioni che da mille anni costituiscono lo Stato pontificio si pone per la prima volta nei modi di
un'emergenza politica e istituzionale ultimativa. La proclamazione della Repubblica Romana nel 1798 da
parte dei giacobini, sostenuti da agenti francesi, assume al riguardo un significato più che simbolico,
accompagnata com'è dalla dichiarazione della deposizione di Pio vi come sovrano temporale. Si diffondono
ipotesi inaudite, anche sulle labbra di teologi come l'ultramontano Bolgeni: il papa dovrebbe accettare il
nuovo regime politico se tiene a preservare anzitutto il proprio potere spirituale.
Il papa ha 81 anni, supplica di essere lasciato morire in pace. Trova scampo nel Granducato di Toscana,
prima tappa di una esistenza nomadica del simbolo stesso dell'immobilità. In questa nuova precarietà
istituzionale, Pio vi ha la forza di intervenire sulla normativa del sistema elettorale pontificio, per adeguarlo
alle condizioni emergenziali ormai esistenti di fatto.
Egli emana da Firenze un breve del 13 novembre 1798, che integra la costituzione dell' 11 febbraio 1797, sul
modo di organizzare il futuro conclave in circostanze e pericoli del tutto eccezionali. Fra l'altro, egli regola la
possibilità che si proceda all'elezione anche prima dei dieci giorni stabiliti dopo la morte del pontefice e che
si possa scegliere come sede del conclave qualunque città nel territorio d'un sovrano cattolico, nella quale sia
possibile riunire il maggior numero di cardinali elettori. Egli concede anche una serie di deroghe eccezionali
alla
normale regolamentazione, per esempio attenuazioni sensibili della clausura elettorale. Per la prima volta
Roma è diventata difficile non solo per un conclave ma per l'esistenza d'un papa. Pio vi viene deportato in
Francia, con un viaggio affannoso e umiliante fino a Valence, dove muore prigioniero il 29 agosto 1799.
In pochi anni uno dei sistemi che apparivano in una potenza tale da esser considerato incrollabile, offre di sé
lo spettacolo d'una debolezza tendenzialmente mortale. Il funzionamento della Curia è totalmente
disorganizzato, il collegio cardinalizio disperso, alcuni porporati incarcerati. Si può comprendere come, agli
occhi di molti osservatori, possa sembrare inverosimile che la Chiesa riesca a sopravvivere a una tale
disfatta, subita nella persona sacra del suo supremo responsabile. E non mancano i pessimisti che,
echeggiando VEcrasez l'Infame di Voltaire, disperano che Pio vi possa avere un successore.
// conclave di Venezia (1799).
Grazie alle norme emanate da Pio vi, un conclave può rapidamente riunirsi alla fine di quel 1799. La
maggior parte dei quarantasei cardinali in libertà si riuniscono a Venezia, sotto il regno austriaco. Non è stato
facile trovare un luogo che rispondesse alle condizioni di sicurezza e di tranquillità indispensabili e farvi
convenire, nei termini previsti, gli elettori dispersi dalle recenti peripezie della guerra in Italia. Ma alla fine il
cardinale decano Albani, coi poteri che gli spettano di presidente del conclave, decide di accettare l'offerta
dell'imperatore d'Austria che mette a disposizione l'abbazia benedettina dell'Isola di San Giorgio a Venezia,
ristrutturata a sue spese, assicurando inoltre la sua protezione. Il conclave può così aprirsi il primo dicembre
1799 a Venezia. Soltanto trentacinque sono i cardinali che sono potuti arrivare.
Malgrado l'emergenza storica, il conclave dura tre mesi e mezzo. E le abituali procedure del voto di scambio
vengono riadottate. La protezione imperiale non appare del tutto contraria a lucrare vantaggi dalla
congiuntura.
Il 12 dicembre arriva in conclave il cardinale austriaco Herzan, munito di istruzioni precise dell'imperatore,
suo referente politico. La corona comunica la sua preferenza per il cardinale Mattei, esperto in affari politici,
orientato contro la Francia sia pure in modo moderato. Di più, l'imperatore manifesta l'esclusiva nei confronti
di tutti i cardinali originari della Francia, della Spagna, di Napoli, di Genova e del regno di Sardegna e
Piemonte.
Il conflitto di fondo fa emergere presto i due schieramenti principali: quello degli «zelanti», fortemente ostili
alle correnti teoriche e politiche rivoluzionarie e decisi a installare strategie forti miranti alla restaurazione
integrale del potere temporale pontificio, mediante l'appoggio dell'Austria; l'altro dei «concilianti», piuttosto
orientati ad una più prudente e pastorale politica di adattamento realista alla
mutata realtà europea, considerata sostanzialmente irreversibile, con la conseguente opzione aperta al
recupero delle buone relazioni con la Francia.
Il primo raggruppamento porta come «papabile» il cardinal Mattei, candidato imperiale, ed ha come guida
strategica, o «grande elettore», l'intelligenza politica e l'autorità del cardinale Giacomo Antonelli. I
«concilianti» sono invece coordinati dal cardinale Braschi e portano la candidatura del cardinale Bellisomi.
Le prime votazioni segnalano che i più forti sono questi ultimi. Essi infatti riescono a raccogliere sul nome di
Bellisomi quasi i due terzi dei voti. Ciò che si ritiene abbia influito su questa convergenza, eterogenea sotto il
profilo ideologico, è l'arroganza del ricatto imperiale. Il «papabile» di Vienna viene definitivamente
affondato quando si viene a sapere che la Spagna gli ha lanciato una controesclusiva sbarrandogli la strada
del trono: si ritiene che a sollecitare questa mossa alla Spagna abbia influito dietro le quinte Napoleone.
Il conclave è da tre mesi nell'impasse dei veti incrociati, e tutta la cristianità assiste, affranta, alla ripetizione
dei vecchi spartiti teocratici e autocratici, dei rituali temporalistici e dei balletti barocchi sulla Laguna,
mentre la Rivoluzione soffia impetuosa da Parigi sulle piazze europee e nuovi saperi travolgono antiche
certezze e vecchissimi dèi.
A Roma le cronache segnalano il disfacimento organizzativo della curia, sommosse popolari, depressione
collettiva, crisi di identità: la Sede non appare solo vacante per la morte del papa, ma anche e principalmente
per l'incertezza crescente sul futuro istituzionale dello stesso papato.
Un candidato di compromesso è necessario. Lo cercano e gli preparano abilmente la strada due personaggi
apparentemente minori del conclave veneziano, il cardinale Èrcole Consalvi, che vi funge da segretario, e il
cardinale spagnolo Antonio Despuig, mandatario segreto della corona. Sono amici, si conoscono bene dai
tempi in cui hanno lavorato insieme come uditori alla Rota. Il terzo uomo che essi propongono è
l'arcivescovo di Imola Barnaba Chiaramonti, un benedettino di cinquantasette anni, noto per la sua saggezza,
che in questi mesi ha unito il suo voto a quello dei «concilianti», però senza parteggiare in modo imprudente
per questa o quella fazione.
Il compromesso è accettato da Antonelli. Lo stesso cardinale imperiale Herzan si rassegna a «cambiare
cavallo» dopo un colloquio col nuovo candidato. Bastano 48 ore per concludere l'accordo. Malgrado
l'insoddisfazione dei partigiani di Bellisomi e le obiezioni di altri cardinali per la giovane età del
Chiaramonti, questi viene eletto il 14 marzo 1800 all'unanimità meno un voto, e sceglie per nome Pio VII.
Il suo primo gesto è di declinare l'invito a Vienna dell'imperatore. Egli non vuole compromettere la
possibilità di un futuro modus vivendi con la Francia e i suoi alleati, e tende a ristrutturare la posizio
ne, che sembra fortemente compromessa, della Santa Sede nel concerto delle nazioni.
Fra gli strumenti cui farà ricorso ampiamente per questo obiettivo, un rilievo considerevole assume la
politica dei concordati, impostata in collaborazione con il cardinale Consalvi. Tornato a Roma il 3 luglio
1800, Pio VII si trova a gestire non soltanto uno Stato sconfitto e disorganizzato, con l'apparato burocratico
disfatto e le casse indebitate, ma anche un imprevedibile e vasto capitale di consenso e affezione, un grande
movimento di venerazione che sale dalle Chiese popolari, trepide e solidali per il destino del papato.
Nello sfacelo materiale emerge l'autorità morale della figura del pontefice romano, un fattore che le
cancellerie europee si accorgono in ritardo di non avere tenuto in considerazione sufficiente. Di qui
l'imprevedibile interesse dei governi, anche di quello inglese, a sviluppare le relazioni col papato, nella
prospettiva che il suo potere morale, la sua valenza simbolica e la sua presa, che perdura, su vaste masse
popolari, potrebbero contribuire a rafforzare quei fattori d'ordine e quei supporti culturali di tipo sacrale che
vengono considerati indispensabili per difendere le strutture dell'antico regime e motivare la strategia
controrivoluzionaria.
Anche Napoleone ha bisogno del papa. È il papa che deve incoronarlo in NòtreDame. Quando anche Roma
viene dichiarata «città imperiale libera» e su Castel Sant'Angelo sventola il tricolore francese, il papa
sottoscrive la bolla di scomunica, da tempo pronta nella Segreteria di Stato, contro «gli usurpatori del
Patrimonium Petri». Il 6 luglio 1809, prima dell'alba dopo aver dato l'assalto con scale alle finestre del papa,
l'ufficiale del generale Miollis esibisce al papa l'ordine che gli impone di spingerlo a rinunciare ad ogni
sovranità temporale. «Non possiamo rinunciare a qualcosa che non ci appartiene», risponde Pio VII. «Il potere
temporale appartiene alla Chiesa romana. Noi ne siamo solo gli amministratori.» Viene quindi trascinato a
Savona, dove Napoleone farà di tutto per strappargli delle concessioni, durante tre anni in cui il supremo
potere è a domicilio coatto. Quando viene sconfitto, l'imperatore visita il suo prigioniero ammalato, nel
frattempo trasferito a Fontainebleau, e lo chiama suo Padre. Davanti a lui progetta l'immagine fantastica di
un'Europa unita sotto l'imperatore e il papa: né questi capisce il valore liberatorio della spoliazione materiale,
né l'altro il valore della resistenza spirituale di quello.
All'alba del nuovo secolo si esaurisce la vicenda dei conclavi imperiali, le uniche sedi, malgrado tutto, di
processi elettorali almeno formalmente costituzionali nell'Europa dei re di diritto divino, fino all'avvento
della Rivoluzione. Quando la Restaurazione impone i suoi equilibri, il Cardinale Consalvi riesce a
conquistare al papato il vaso di Pandora già perduto senza accorgersi di restaurare il vicolo cieco di una
storia letale, anche se confortata dalle lusinghe dello Stato. Il
Congresso di Vienna stabilirà per i nunzi pontifici lo statuto dei decani di diritto del Corpo diplomatico e
deciderà, fra l'altro, di raddoppiare, da otto a sedici, il numero dei diplomatici delle potenze d'Europa da
accreditare presso la Santa Sede. Metà dei nuovi ambasciatori saranno plenipotenziari inviati da sovrani
protestanti.
Lo spirito di Westf alia trova così una prima accoglienza nella Roma dei papi dove comincia a insinuarsi la
consapevolezza che l'appoggio di «corone cattoliche» non è più sufficiente nella nuova carta europea, e che è
divenuto inevitabile tentare di governare con realismo lo spirito della rivoluzione, piuttosto che contrastarlo
nostalgicamente. È con Inghilterra e Russia, le due maggiori potenze uscite vincitrici dalle guerre
napoleoniche, che la Santa Sede si sforza di far evolvere le relazioni, interessata com'è a ridurre l'egemonia
austriaca sull'Italia e il potere di Vienna nel direttorio europeo e, segnatamente, nei paesi cattolici. I rapporti
con governi protestanti o con troni ortodossi sono coltivati per alleggerire la dipendenza della Chiesa dal
potere politico degli Stati cattolici, limitandone le pretese regaliste e l'effetto servile delle teorie gallicane e
giuseppiniste.
Che tali siano le preoccupazioni principali di Pio VII e del suo segretario di Stato Consalvi emerge fortemente
nel concordato concluso con Napoleone, quando il papa esige la dimissione di tutti i vescovi «civili», e nella
decisione papale di ristabilire la Compagnia di Gesù malgrado l'ostilità della maggioranza dei governi. Roma
comincia malgrado tutto a comprendere che l'antico regime ha assicurato alla Chiesa dei vantaggi limitati, e
a costi divenuti attualmente discutibili, in particolare la subalternità della Chiesa a programmi politici che
riflettono troppo passivamente il trionfo della controrivoluzione per non essere velleitari.
Solo che l'idea forte di Consalvi, di mantenere l'autorità del papato al di sopra delle lotte politiche del tempo
e persino di non immischiarlo nei programmi della Santa Alleanza, sembra circondata da una diffusa
opposizione nel collegio cardinalizio, i cui membri in maggioranza non riescono a valutare la sua strategia
concordataria e la linea riformista adottata che come concessioni allo spirito diabolico del liberalismo. Dietro
a questi cardinali «zelanti» trova protezione una massa di insoddisfatti, per i quali il ritorno integrale al
passato è la condizione stessa per continuare a sperare di lucrare sul disordine e l'arcaismo dell'istituzione.
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CAPITOLO IX.
I conclavi del xix secolo.
II 6 luglio 1823, alla vigilia del suo ottantunesimo compleanno, Pio VII scivola nel suo appartamento e si
frattura il collo del femore. La caduta segna la fine d'un regno durato 24 anni e che si conclude con la morte
del pontefice il 20 agosto 1823. A stare ad un testimone credibile, questa fine non getta il clero romano nella
costernazione, piuttosto «in una gioia spinta fino alla ferocia».
Tuttavia l'impulso spirituale di questo papa «religioso», il suo spirito conciliante, la solidarietà convinta
mantenuta alla strategia di Consalvi, malgrado la perplessità che suscitava, hanno influito sul costume
dominante a Roma. La città non può essere più assimilata a quella che appariva alla fine del Settecento,
un'oasi in cui religione e mondanità si combinavano amabilmente per la dolce vita, servita da traffici
clientelari. Non si vedono più carovane di carrozze fastose transitare velocemente per il Lungotevere con a
bordo cardinali misteriosi e i loro paggi e clienti. Nella Roma depressa dai cataclismi europei, la carrozza
cardinalizia deve ora limitarsi ad appena due valletti di scorta. Le migliaia di parassiti che formicolano nei
palazzi ecclesiastici hanno perduto l'antica presunzione dell'immunità, incalzati dal moralismo evangelistico
dei grandi teorici della restaurazione cattolica, da De Maistre a Bonald, da Haller a Lamennais.
Sembra peraltro appropriata l'osservazione proposta da uno storico eminente della Restaurazione, G. Bertier
de Sauvigny, secondo il quale il papato, nell'epoca racchiusa tra il Congresso di Vienna e la caduta dello
Stato pontificio nel 1870, non ha potuto trovare l'uomo di genio capace di percepire, nelle convulsioni del
tempo, altra cosa che il loro aspetto distruttivo, il papa che «invece di guardare al passato per accanirsi a
ricostruirlo integralmente, invece di condannare in blocco l'opera della Rivoluzione, si fosse portato
audacemente nella corrente del secolo per esaltarne le virtualità cristiane».
«Non è per insultare la memoria di questi papi», scrive Bertier, «se constatiamo che, malgrado la loro pietà e
il loro zelo reale, la loro azione resta, il più delle volte, al di qua di ciò che richiedevano congiunture
eccezionali, rimane troppo strettamente compressa nei solchi di una tradizione nella quale l'elemento umano
prende, abusivamente, in virtù soltanto della sua antichità, un valore di assoluto».
Difficilmente si potrebbe contestare che i settori ecclesiastici più sospettosi delle aperture hanno qualche
ragione di ritenere illusorio attendersi certi benefici dal compromesso con la rivoluzione. La Chiesa è stata
combattuta dove le idee rivoluzionarie si sono diffuse; la pratica religiosa ha registrato perdite più o meno
gravi. È diminuita la possibilità per l'organizzazione ecclesiastica, salassata da perdite materiali cospicue, di
provvedere al finanziamento dei seminari, delle scuole, delle reti apostoliche e missionarie. Rari gli uomini
dell'altezza spirituale di un Antonio Rosmini che arrivavano a cogliere in questo impoverimento esteriore
l'opportunità di dissipare la funesta confusione tra strutture ecclesiali autentiche e strutture oligarchiche e
assolutistiche nella Chiesa compromessa con YAncien Regime.
Dal 1815 al 1831 la sede papale torna ad essere diretta da figure largamente condizionate dal complesso
dello stato d'assedio, dal pessimismo, dall'ansietà di recuperare il terreno perduto. La curia continuava a
riprodursi con il suo equivoco di amministrazione statale e insieme religiosa, con le sue venticinque
«congregazioni», con i suoi tribunali ingolfati da quasi altrettanto personale, dove il foro ecclesiastico e il
foro civile, le funzioni giudiziarie e le funzioni amministrative s'intersecano; con i suoi uffici (Dataria,
Camera apostolica, Cancelleria) e con i cinque segretariati speciali creati ai margini della Segreteria di Stato,
divenuta con Consalvi l'organo principale del governo papale.
Forse esagera, senza tuttavia allontanarsi troppo dal vero, l'osservatore austriaco che nel 1822, in un rapporto
al suo governo, descrive questo sistema burocratico come un mondo «in cui tutti comandano e nessuno
obbedisce, dove ciascuno fa delle leggi e degli editti che vengono condannati istantaneamente al disprezzo,
dove la guerra è perpetua e dove nessuno soccombe, dove tutti hanno mani per prendere e nessuno per dare;
dove si condanna oggi ciò che si considera buono l'indomani, dove si predica il Vangelo e si serve il Corano,
dove infine tutto è contraddizione e dove tuttavia la macchina cammina sempre, senza poter fermarsi».
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La Santa Alleanza al conclave (1823).
II conclave che si apre il 2 settembre 1823, nel palazzo del Quirinale, è caratterizzato dalla decisione degli
«zelanti», che dispongono della maggioranza, di seppellire la politica di Consalvi. Essi puntano su un
pontificato di restaurazione religiosa, che riaffermi vigorosamente e senza concessioni «concordatarie» i
diritti del potere ecclesiastico e il suo posto centrale nel sistema europeo. Con l'irrealismo caratteristico di
molte correnti reazionarie, anch'essi confidano che vi sia ancora un margine sufficiente nella situazione
europea per il successo del
le politiche autoritarie e non sopportano nemmeno quel dispotismo illuminato con cui Consalvi ha cercato di
rendere meno rigida la strategia della Santa Sede al fine di garantirle una migliore possibilità di manovra
nell'Europa della Restaurazione.
«Lo spirito dominante nel conclave è quello della passione, dell'odio e della vendetta», scrive l'ambasciatore
austriaco. «Umiliare il cardinale Consalvi, distruggere la sua creazione, è diventato, per così dire, il prezzo
del papato.»
Paradossalmente queste posizioni non sono considerate utili dalle cancellerie delle grandi potenze cattoliche,
in particolare dall'Austria e dalla Francia, interessate piuttosto all'elezione di un papa che si impegni a
continuare la politica conciliante e moderata di Consalvi. È Metternich a saldare da Vienna un «fronte delle
corone» coi cardinali di Francia, di Napoli, di Spagna e di Piemonte, oltre ad alcuni, pochi romani, fedeli al
grande segretario di Stato.
Tuttavia, dopo i primi scrutini, questa coalizione si disgrega. Alcuni cardinali napoletani e piemontesi
rifiutano di seguire la strategia del capo del fronte monarchico, il cardinale primo diacono Giuseppe Albani,
il quale ha proposto la candidatura di uno «zelante» moderato, il cardinale Francesco Saverio Castiglioni. È
il candidato degli «zelanti», il nunzio Gabriele Severoli, che vede aumentare fortemente i propri suffragi,
negli scrutini dal 17 al 21 settembre, al punto di farne ritenere sicura l'elezione. Il contrasto si prolunga per
tre settimane, con Severoli a pochi voti dal successo.
Vienna lo teme. Sa che è contrario ai progetti asburgici di intervento in Italia e che il nunzio si è rifiutato di
assistere al matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d'Austria. Le informazioni in possesso di Metternich
lo sospettano connivente coi «carbonari». Il governo di Vienna si dispone a promulgare il veto, se necessario.
Albani lo formula in conclave nei termini più risoluti il 21 settembre, dopo che nello scrutinio mattutino
Severoli è arrivato ad appena sette voti dalla riuscita.
«Nella mia qualità di ambasciatore straordinario di Sua Maestà Imperiale e Reale presso il Sacro Collegio
riunito in conclave», dice la notifica di Albani a tutti i cardinali, «e in virtù di istruzioni che mi sono state
date, compio il penoso dovere di dichiarare che la corte imperiale di Vienna non può accettare per Sommo
Pontefice sua eminenza il cardinale Severoli e gli da l'esclusiva formale.» Enorme l'indignazione degli
«zelanti». L'ambasciatore austriaco conte Apponyi, informato rapidamente di queste reazioni, indirizza al
conclave una nota ufficiale. A nome del suo governo egli respinge i «sospetti ingiuriosi» formulati contro il
cardinale Albani secondo i quali egli non avrebbe agito conformemente alle istruzioni ricevute. Al contrario
«le notificazioni e le dichiarazioni fatte dal cardinale Albani», assicura l'ambasciatore, «erano conformi alle
istruzioni di Sua Maestà Imperiale e Reale».
Buon giocatore, il cardinale Severoli si leva a ringraziare l'imperatore d'Austria d'avergli risparmiato un peso
così temibile e, su proposta dei propri sostenitori, indica al conclave la candidatura del cardinale Annibale
Della Genga.
Il successo di Severoli sfuma immediatamente. Negli scrutini seguenti egli non raccoglie che uno o due voti
di bandiera. D'altra parte la figura di Della Genga appare effettivamente conveniente a sbloccare un conclave
troppo partigiano, nel quale l'elezione sarebbe più espressione di una tendenza dialettica, se non vendicativa,
che frutto di un discernimento complessivo e almeno tendenzialmente imparziale delle esigenze della
direzione suprema della Chiesa. Della Genga è un diplomatico di Fabriano, figura pia e austera, ma scialba,
indecisa per carattere e priva di significative riuscite nella carriera. Egli viene eletto con 34 voti il 28
settembre 1823, col voto determinante del cardinale francese, dopo che si è temuta la formulazione di
un'esclusiva anche da parte del governo di Parigi. Decide di farsi chiamare Leone XII.
I primi atti di Leone XII parrebbero orientati a una netta discontinuità politica rispetto alla linea precedente.
Con qualche brutalità, persino di stile, si libera di Consalvi, sostituendolo con un vegliardo di ottant'anni, il
cardinale Giulio Maria della Somaglia, più che altro un praticone, notoriamente sprovvisto di talento politico.
La realtà non tarda a prendersi la rivincita sulle ideologie, e lo si può notare allorché il nuovo papa, per
quanto intransigente e reazionario, convoca Consalvi dopo appena un trimestre dal licenziamento, per
conoscere la sua opinione sul da farsi. Subito dopo, il grande sconfitto è ufficialmente ripescato: viene
nominato capo di una delle principali congregazioni romane, quella di Propaganda Fide, il cui titolare è
definito in curia «papa rosso». Grazie ad una comunicazione costante con Consalvi, all'insaputa del
segretario di Stato, la politica di Leone XII evita di appiattirsi sulle vedute dell'estremismo «zelante» per
attenersi piuttosto al realismo moderato del segretarioombra. Infatti ne adotta infine la convinzione che è
necessario ammettere la divisione religiosa dell'Europa e gli effetti della rivoluzione, superando in quanto
ormai astratte le ricette proprie della cristianità medievale.
Nello stesso tempo il papa prosegue nel modo più rigoroso il programma di moralizzazione della curia,
incalza il clero ad uno stile di vita più austero e a una formazione teologica più accurata, incoraggia le
iniziative adatte a sviluppare nelle masse il senso religioso, convinto com'è che tale sia l'antidoto che si
impone al dilagare dell'indifferentismo liberale. In questa persuasione egli consacra la sua prima enciclica
alla condanna dell'indifferentismo e della tolleranza e indice l'anno santo del 1825, malgrado l'opposizione
generale delle Cancellerie. Tuttavia questo orientamento moderato viene sconfessato alla fine
del 1826 quando il papa, forse pentito dello spazio concesso ai gesuiti, torna alla linea più organica agli
interessi delle corone per ristabilire fra Chiesa e monarchie un fronte compatto da opporre al liberalismo.
Alla sua morte, avvenuta il 10 febbraio 1829, il cumulo dell'impopolarità è tale che l'eterno Pasquino gli
dedica l'epigrafe: «Qui Della Genga giace/per Sua e nostra pace». Le riforme moralizzatrici gli hanno
inimicato il popolo, i compromessi con la Santa Alleanza i liberali, le oscillazioni verso le correnti
consalviane gli «zelanti». Oltre tutto la politica di repressione instaurata a Roma con le inquisizioni segrete
sui funzionari della curia e dell'apparato statale e con il terrore sui carbonari (fino alle impiccagioni di
massa) non lasciano alcun dubbio sul buon fondamento dei timori diffusi di un ritorno all'oscurantismo come
salario del rigorismo «religioso». I romani ne avevano già fatto le spese sotto papa Carafa circa tre secoli
prima.
Questa eredità riduce lo spazio di manovra di cui dispone la corrente degli «zelanti» nel conclave che si apre
il 23 febbraio 1829, per quanto essi possano contare sulla maggioranza numerica del collegio cardinalizio.
Sull'opposto versante, i «politici», ben guidati da Albani, e avendo alle spalle l'appoggio delle potenze
cattoliche, costituiscono un blocco minoritario, ma solido, aggressivo, capace di fronteggiare la strategia
degli avversari. Per questo il candidato degli «zelanti», cardinale De Gregorio, viene rapidamente bruciato
attraverso quell'«esclusiva indiretta» che è rappresentata dal blocco del terzo dei voti (non dimentichiamo
che l'elezione richiede i due terzi).
La maggioranza è obbligata dunque a scendere a patti, e ad accettare il candidato proposto da Albani, quel
Francesco Saverio Castiglioni che gli «zelanti» hanno respinto nel conclave del 1823. Essi si consolano l'un
l'altro esaminando lo stato di salute del neoeletto, un canonista marchigiano di 68 anni, che ha conosciuto la
prigione sotto Napoleone. Nei venti mesi di regno, Pio vm resta ligio alla linea Consalvi, sia nelle relazioni
con i governi che nella politica interna dello Stato pontificio. Egli lascia volentieri gli affari nelle mani di Albani, che nomina segretario di Stato, per dedicarsi preferibilmente a quelli della propria anima, noncurante
delle battute sarcastiche di cui la Curia lo copre speculando su un penoso foruncolo al collo che obbliga il
papa a tenere perennemente la testa piegata da una sola parte, tanto da impedire a chi lo riguarda di vedergli
il volto.
Il problema è dunque solo rinviato. In quel 30 novembre 1830, quando la Sede torna di nuovo vacante, i
cardinali sono alle prese con la ricerca di un modello di restaurazione che sappia realizzare una sintesi
sufficientemente credibile e durevole tra le spinte tradizionali e le nuove esigenze. La rivoluzione di luglio,
che ha spodestato il vecchio re Carlo x, ha segnato in Francia il trionfo della borghesia e del regime
parlamentare sui tentativi di far arretrare le lancette della storia. L'Europa è percorsa da venti rivoluzionari,
dalla cultura romantica, dalle passioni nazionali, dalle trasformazioni econo
miche e sociali che cominciano a intaccare, sull'onda dell'utopismo socialista, l'assolutezza della grande
proprietà fondiaria come struttura delle sovranità politiche dinastiche.
Nella stessa Roma, una congiura spalleggiata dai Bonaparte per rovesciare l'antico regime e imporre un altro
che si adegui alle idee rivoluzionarie del tempo, è sventata all'ultimo momento, durante la sede vacante.
// conclave di Gregorio xvi (1831-1846).
La convinzione di molti dei 34 cardinali (sui 54 viventi) che il 14 dicembre 1830 si riuniscono a conclave nei
sontuosi saloni del palazzo del Quirinale scelto come luogo più sicuro e meno costoso, è orientata ad una
soluzione che tenti di rappresentare una risposta politica alla crisi storica del temporalismo pontificio,
abbandonando la linea delle scomuniche e della repressione poliziesca che va sollevando contro la Chiesa il
malcontento popolare e determinandone l'isolamento politico.
Cinquanta giorni e cento scrutini saranno necessari per questa elezione, nel conclave più lungo del secolo e
uno dei più difficili della storia. La causa di tanta lungaggine è addebitata principalmente alla «apparente
libertà» di cui gli elettori (41 italiani, di cui 21 appartenenti allo Stato papale, e 13 stranieri) sembrano
godere, dato che le Corti europee, contrariamente alla politica seguita nei confronti dei conclavi dei secoli
precedenti, si astengono, almeno ufficialmente, da ogni intromissione. Di fatto, l'inattività dei cardinali e
l'incapacità dei capi partito a far trionfare il proprio candidato trovano non ultima ragione nelle strategie
occulte dispiegate dalle Corti. Apparentemente estranea, quella d'Austria può dirigere il corso elettorale con
mano sicura: ha nel vecchio cardinale Albani un forte alleato e può star certa del fatto suo.
Nel primo scrutinio del 15 dicembre si vede che il Conclave vuoi essere un naturale prolungamento del
precedente, nel quale i cardinali più quotati sono stati Bartolomeo Pacca, Francesco Saverio Castiglioni (poi
Pio vm), De Gregorio e il camaldolese Mauro Cappellari. La brevità del pontificato precedente ha impedito
infatti un notevole mutamento nel Sacro Collegio.
A favore del cardinale decano Bartolomeo Pacca — uno «zelante» moderato, distintosi per la durezza della
bonifica antigiacobina a Roma dopo la sconfitta dei Francesi — lavora a tutta forza il «partito tedesco»
sostenuto dall'Albani. Pacca gode fama di uomo pratico degli affari, benché nuoccia alla sua candidatura
l'età, troppo inoltrata, di 75 anni. Egli ha partecipato nel 1813 all'incontro di Consalvi con Pio VII nel palazzo
di Fontainebleau dove papa Chiaramonti era ospite involontario di Napoleone. Insieme eran riusciti a persuadere il vegliardo a scrivere all'imperatore per ripudiare le concessioni fattegli «in un momento di debolezza»
sul problema delle investiture dei vescovi «civili» in Francia.
Nella strategia del partito dominato dalla personalità di Albani, i cui maneggi e le cui brusche maniere
turbano molti elettori, la candidatura di Pacca non può non essere considerata in qualche modo anomala. Il
nome di Pacca appare fin dai primi giorni così forte da far supporre un certo disorientamento nel partito degli
«zelanti».
Il candidato di questi ultimi è il cardinale penitenziere maggiore e vescovo di Frascati De Gregorio, che nel
conclave del 1829 ha ottenuto 24 voti. Le prime fasi dell'elezione sono caratterizzate da un equilibrio tra
Pacca e De Gregorio. Albani tenta di rafforzare la posizione del suo protetto lanciando contro De Gregorio
l'esclusiva dell'imperatore d'Austria. Gli «zelanti» decidono allora di metter fuori l'altro loro candidato, il
nunzio in Spagna cardinale Giustiniani, il quale raccoglie il 28 dicembre 7 voti di scrutinio e 9 di accessit,
regalatigli dalla fazione «gregoriana». Ma non tutti i «gregoriani» votano compatti per il nuovo candidato, se
lo stesso De Gregorio continua a raccogliere, malgrado l'esclusiva imperiale, ben 15 voti, mentre la
candidatura di Pacca non evolve oltre i soliti 19 voti iniziali.
Il 9 gennaio un'altra esclusiva colpisce il nuovo candidato degli «zelanti»: la annuncia il cardinale Marco y
Catalan a nome della Corte di Spagna, irritata per la durezza con cui Giustiniani ha rivendicato i diritti del
clero in quella nazione. Grande l'imbarazzo del partito «gregorianogiustinianeo», che dopo il fallimento della
candidatura di De Gregorio, teme ora di veder naufragare anche quella del Giustiniani. Ma questo partito
deve riconoscere che, più che per le esclusive, è per la scarsa coesione del gruppo che le sue candidature non
hanno avuto finora successo. La scaltrezza del cardinale Albani ha buon gioco nel tenere a bada gli avversari
con larghe prospettive di accordo per poi stancarli e quindi guadagnarli in favore del Pacca. Dopo la
comunicazione della nuova esclusiva, e il nobile discorso di rinuncia del cardinale Giustiniani, questi
continua a raccogliere sei voti. Ciò significa che non tutti hanno obbedito alla pressione imperiale.
L'esclusiva delude a tal punto il popolo romano, che parteggia chiaramente per il concittadino Giustiniani,
che una «solenne fischiata» accoglie la nuova «sfumata» all'indirizzo del Sacro Collegio. Ma i capi del
partito «zelante» decidono di trascendere le coppie di alternative ormai logorate e di far emergere una
candidatura di seconda o di terza fila.
Il 10 gennaio si decide di presentare la candidatura di Bartolomeo Alberto, in religione Mauro Cappellari, un
monaco camaldolese originario di Belluno, dove è nato nel 1765, e che è divenuto, dopo diversi incarichi
nella curia di Leone XII, suo cardinale e prefetto di Propaganda Fide. Cappellari ha già raccolto alcuni voti
nelle prime fasi elettorali, senza ottenerne più di otto, per cui non ha mai destato forte allarme da parte dei
«pacchisti». Ma nello scrutinio del 10 gen
naio il suo nome ottiene un'ottima risposta: ben 19 voti, 15 di scrutinio e 4 di accessit. Il giorno seguente egli
avanza ancora, raggiungendo 22 voti, un livello mai raggiunto da nessun altro candidato, mentre al Pacca
arrivano 21 voti, che scendono a 18 nello scrutinio serale, primo segno di crisi della candidatura, o forse di
un segnale di disponibilità lanciato da Albani in direzione del Cappellari.
I due partiti si palleggiano finché il 14 gennaio il Cappellari guadagna 24 voti (19 schede e 5 accessit),
livello mai raggiunto ancora da alcun concorrente. Questo risultato rinfranca i fautori del monaco bianco, e
getta nella depressione gli avversari. Malgrado tentativi di intesa, Albani non desiste dal bloccare sul Pacca,
benché sia risaputo ormai che l'elezione del Camaldolese non sia del tutto invisa dall'imperatore d'Austria.
II blocco «pacchista» si sfalda lentamente. L'arcivescovo di Milano cardinale Carlo Gaisrouk, di obbedienza
imperiale, vota per Cappellari e lo porta a 25 schede. L'elezione sembra fatta, ma negli scrutini del giorno
dopo 15 gennaio Cappellari inaspettatamente perde due voti nello scrutinio mattutino, e uno in quello serale.
Il partito «cappellariano» mostra di non saper cogliere il momento propizio per tentare il colpo decisivo, e si
ferma invece al primo ostacolo. Al successo del suo candidato mancano solo sei voti, per recuperare i quali il
conclave si protrae per altri sedici giorni.
In città questa incertezza provoca nervosismo. Per smuovere i cardinali e indurii all'intesa si ricorre per sino
ad espedienti un po' stravaganti, come una bombacarta fatta esplodere la sera del 16 gennaio sotto il portone
di Montacavallo, con un boato così fragoroso che i cardinali, chiusi al Quirinale, ordinano ansiosi
un'inchiesta, e alcuni non riescono a chiudere occhio per tutta la notte.
La situazione è arrivata a tal punto che Cappellari fa sapere di non poter più permettere la «vedovanza» della
Chiesa e di aver deciso irrevocabilmente di rinunciare alla propria candidatura. I suoi sostenitori moltiplicano
le pressioni affinchè egli ritiri una tale decisione, ma tutto è vano. Il cardinale Giustiniani dispiega tutte le
sue arti per persuaderlo, inutilmente.
Lo stesso Giustiniani il 31 gennaio avvicina l'Albani, e riesce a smuoverlo dalla sua ostinazione: a deciderlo
è un plico giunto da Modena, che gli ha portato notizie poco rassicuranti circa la situazione dell'ordine
pubblico in Emilia e previsioni di una imminente rivolta antipontificia nelle Romagne. La mattina del 2
febbraio Albani orienta il suo voto verso il cardinale vicario Bartolomeo Zurla, altri del suo partito lo
seguono, fornendo per la prima volta il segnale atteso di una desistenza della candidatura di Pacca.
La difficoltà ora proviene dal rifiuto di Cappellari. Solo il suo confratello Zurla riesce alla fine a smuoverlo,
durante un drammatico colloquio nella cella del favorito: «Don Mauro», gli dice. «È il vostro abate generale
che in virtù di santa obbedienza vi comanda di non contraddire». Secondo la ricostruzione del Cacciamani,
«il
Cappellari con le lacrime agli occhi si gettò tra le braccia del confratello; Iddio gli aveva parlato, tanto gli
bastava; con animo tremante ma fidente nella Divina Provvidenza, appoggiato al braccio dello Zurla, si
avviava alla sala del Conclave dove di lì a qualche ora doveva uscirne Vicario di Cristo».
L'elezione avviene nello scrutinio del mattino del 2 febbraio 1831. Nel volto del Pacca si nota un «mortale
pallore». Dopo 50 giorni di lotte e di speranze, egli vede sfuggirgli il pontificato ancora una volta. Al
Cappellari toccano 32 voti su 42. Quando le schede giungono a 30, i cardinali abbassano i baldacchini. Il
nuovo papa sceglie il nome di Gregorio xvi per devozione a San Gregorio Magno. Tocca all'Albani, che lo
aveva così ostinatamente avversato, annunciarne l'elezione al popolo. Essendo solo sacerdote, il nuovo papa
viene consacrato vescovo ed incoronato il 6 febbraio. Contrariamente a Pio vm, che ha sempre abitato al
Quirinale, egli stabilisce la sua residenza nel palazzo apostolico del Vaticano.
Gregorio xvi è l'ultimo papa, finora, proveniente da un Ordine Religioso.
La vicenda di questo conclave è ritenuta interessante sia perché rivela per la prima volta la crisi dello
strumento politico delle «esclusive», sia perché indizia un certo indebolimento del potere contrattuale
dell'Austria. Facendo buon viso alla sconfitta del «partito tedesco», la corte di Vienna fa sapere attraverso il
Nunzio che l'imperatore gode per l'ottima scelta fatta. In realtà il fallimento coincide in larga misura con lo
scacco delle manovre di Albani, il quale non è riuscito nemmeno a sostenere la candidatura di riserva, gradita
a Vienna, quella del cardinale Macchi legato di Ravenna: «domattina farò proporre il nostro Macchi», si è
azzardato ad annunciare Albani in un biglietto ad un collega. «Sono persuaso che il partito contrario
accoglierà questa scelta, non sospettando che possa essere gradito all'Austria. Così preparatevi, perché sarà
Papa.» Questo Macchi non ha ricevuto che dodici voti. I suoi legami con l'ex re Carlo x lo hanno reso a
priori sospetto al governo francese.
L'andamento del conclave si ripercuote sulla politica di Gregorio xvi. Egli sembra interpretarlo
correttamente, nel senso di una chance migliore per consolidare l'indipendenza del papato nei confronti delle
potenze cattoliche, ma al prezzo di un inadattamento dell'orizzonte spirituale di Roma agli sconvolgimenti
della rivoluzione e in particolare dell'idealismo tedesco, i cui giganti resteranno a lungo senza interlocutori in
Vaticano. D'altronde egli non si lascia interpretare con sicurezza, se un tale distacco dalla gestione della
politica temporale sia frutto di una scelta consapevole oppure di inadeguatezza culturale, posta al servizio di
un ideale conservatore e di una filosofia reazionaria.
Erudito più che colto, imbevuto di teologia formale, l'ex abate del
monastero camaldolese del Celio è divorato dall'ossessione che lo Stato pontificio possa cedere sotto i colpi
del liberalismo né mostra di distinguere tra le figure caduche del sistema politico dell'Ancien Regime e gli
interessi reali della Chiesa. Egli si accanisce nella difesa inflessibile di quelli che gli appaiono l'assoluta
verità e i diritti indisponibili della Chiesa, reagendo vigorosamente alle pretese dei governi di «assoggettare
il ministero ecclesiastico al dominio secolare». Egli spinge una linea politica decisa a ottenere dai governi,
malgrado il suo anacronismo, il riconoscimento della supremazia della monarchia papale e si oppone con
pervicacia a qualsiasi contatto con le «forze di sovversione».
Nel 1832 l'enciclica Mirari vos attacca il liberalismo nelle sue diverse forme: «questa massima falsa e
assurda o piuttosto questo delirio che si debba procurare e garantire a ciascuno la libertà di coscienza»; la
libertà di stampa, «libertà esecrabile per la quale non si avrà mai abbastanza orrore»; la propaganda della
rivolta contro i principi; la separazione della Chiesa dallo Stato. Senza essere esplicitamente nominati, anche
Lamennais e il suo A venir, impegnati nella lotta a favore della democrazia e della necessità di un accordo tra
cattolicesimo e princìpi liberali, si trovano riguardati dalla condanna.
Tracce di un tale pessimismo apocalittico s'imprimono nella legislazione elettorale di Gregorio xvi. Egli
interviene quattro volte, dal 1831 al 1844, per regolare, con disposizioni eccezionali, il meccanismo della
successione, secondo il modello d'un conclave d'emergenza, quasi da stato d'assedio. Il primo marzo 1831
labolla Auctasundequaque stabilisce che, nell'ipotesi che il papa sia costretto a lasciare Roma e muoia fuori
città, il cardinale decano o altri espressamente designati, scelgano il luogo ove si terrà l'elezione, che può
aver luogo appena sia presente la metà più uno dei cardinali. L'anno seguente, la Temporum quae nacti
sumus allarga le norme al caso della morte del papa in Roma.
Cinque anni dopo, la preoccupazione sembra anche maggiore nell'animo di Gregorio, se il 26 ottobre 1837 la
Teterrimis prevede una procedura mai usata: alla morte del papa, i cardinali capi delle tre classi in cui è
diviso il Sacro Collegio, insieme al cardinale camerlengo e al cardinale vicario, si riuniscano per decidere se
far uso della nuova legge. In caso affermativo, si proceda subito all'elezione, anche praesente cadavere: gli
altri cardinali presenti in curia dovranno aderire alla decisione presa dai cinque loro colleghi. L'elezione, una
volta cominciata, deve procedere sino alla fine senza interruzione. Al terzo scrutinio è sufficiente la metà più
uno dei suffragi. La stessa procedura si può adottare, a giudizio dei cinque cardinali a ciò designati, anche in
seguito, a conclave già iniziato.
Per ovviare al pericolo di possibili confusioni, il primo novembre 1844 \a.Adsupremam riordina tutta la
materia, sempre nell'ipotesi di
un grave allarme per il potere pontificio. I quattro documenti reagiscono (seguendo o precedendo di poco)
allo scoppio ormai cronico di moti rivoluzionari, circoscritti, repressi ma significativi, a Perugia, nel Lazio,
in Romagna, anche per il crescente malcontento delle classi subalterne. Alla pressione sociale il papato
risponde allestendo una normativa che aggrava il verticismo dell'istituzione ed esaspera la delega,
prevedendo l'ipotesi di un'elezione papale operata da non più di cinque cardinali, anzi da tre di loro.
Del resto la stima per i cardinali non è in questo periodo troppo elevata, se Pasquino fa sapere a Roma: «La
difficoltà non sta in der fabbrica i cappelli, ma in der trova le teste da appriccicajieli».
Con la bolla Ad supremam, che abroga le norme precedentemente emanate, Gregorio xvi stabilisce che se il
papa viene a morire nella curia romana, i cardinali presenti, ove lo ritengano necessario, possano procedere
all'elezione, dentro o fuori del regime conclavario, senza attendere l'arrivo dei loro colleghi lontani, purché
rispettino la legge che esige per la validità i due terzi dei voti. Se invece il papa morisse fuori Roma, si
dispone che abbiano vigore le norme emanate da Pio vi nel 1791, nella bolla Cum nos superiori anno: il
diritto di elezione è attribuito ai cardinali che risultino presenti in maggioranza relativa in qualsiasi luogo.
Non potremmo trascurare almeno un cenno al rapporto intrattenuto da questo papa con i suoi principali
collaboratori. Il suo primo segretario di Stato, Tommaso Bernetti, ex governatore di Roma e direttore della
polizia, è stato per alcuni mesi segretario di Stato alla fine del pontificato di Leone XII, prima di dirigere al
conclave il gruppo degli «zelanti» avversi alPaustriachismo di Albani. Egli condivide col papa la persuasione
che la sola possibilità di mantenere lo Stato pontificio si basa sulla politica conservatrice. Tuttavia né il papa
né Metternich ignorano la premura moderata di questo discepolo di Consalvi, attento ad evitare ogni traccia
di subalternità verso la corona austriaca.
Nel 1836 Gregorio xvi profitta di certi rumori curiali su presunte compiacenze di Bernetti per i circoli liberali
e lo sostituisce con il cardinale Luigi Lambruschini, ex arcivescovo di Genova e nunzio in Francia, molto
legato ai gesuiti e conosciuto come uno dei membri di curia più chiusi all'evoluzione delle idee: a lui è
addebitato l'irrigidimento reazionario dell'ultima fase del pontificato, mentre insurrezioni sempre più vaste
fanno tremare la periferia dello Stato pontificio: «voglio morir da frate, non da sovrano», dice il vecchio
papa, pochi giorni prima di spirare, fra dolori strazianti per una infiammazione più o meno cancerogena al
naso. Egli muore il primo giugno 1846, dopo sedici anni di regno e all'età di ottantun anni.
Il papato è in un vicolo cieco. La sua opzione politica reazionaria lo ha gettato nelle braccia degli «Stati
forti» ai quali deve ricorrere sempre più spesso per domare le rivolte che essa non cessa di suscitare. A
Roma il fermento, se non l'esasperazione, è percepibile dal sarcasmo di certe litanie diffuse nel popolo: «
Utpontificem optimum extra Sacrum Collegium eligere digneris... Ut viasferreas concedere digneris... Ut
alias institutiones hodiernas utilesque concedere digneris... Ut amnistiam delinquentibuspoliticis concedere
digneris... Te rogamus, audi nos!».
I cardinali presenti a Roma discutono dell'opportunità di avvalersi delle speciali facoltà riconosciute loro dal
papa defunto per procedere subito all'elezione. Prevale la tesi contraria, e si attende così l'arrivo degli altri
cardinali.
Pio ix (1846-1878).
II conclave è assorbito quasi totalmente dalla problematica politica dello Stato romano. Le aspettative
popolari a Roma sostengono i pochi cardinali riformisti, concilianti, fra i quali ricorre il nome di Giovanni
Maria Mastai Ferretti, che come vescovo di Imola si è fatto apprezzare negli ambienti liberali per le sue
vedute riformiste e il disagio manifestato, talora fino ad esplicite critiche, per il ricorso al pugno di ferro
poliziesco e alla repressione. Quanto alle corti europee, significativo appare l'auspicio formulato da
Ferdinando n, per una elezione rapida: «ci auguriamo un Pontefice che riunisca in sé tutti i numeri che sono
necessari a conservare quella stabile e fraterna unione che forma la forza di tutte le monarchie e solo può
dare la più valida guarentigia per la pubblica tranquillità».
Legalità, legittimismo, assolutismo cercano ancora una volta di riprodurre il paradigma della Santa Alleanza
anche col prossimo papa. Quanto alla Francia e all'Austria, il conclave è considerato l'occasione «per
conservare», dice lo storico gesuita Giacomo Martina, «riguadagnare o estendere quel predominio politico
nella penisola cui avevano sempre mirato attraverso i secoli. Era in sostanza la continuazione dell'antico
duello per la supremazia in Italia, che si prolungava dal tempo di Carlo Magno e dei Longobardi, degli
Angioini e degli Svevi, di Carlo v e Francesco i. Questa volta, poi, al motivo impcrialistico s'intrecciava il
conflitto ideologico: la Francia di Luigi Filippo, re dei Francesi per volontà della nazione, rappresentava i
princìpi liberali, l'Austria di Ferdinando e del Metternich era il baluardo indiscusso dell'ordine, della legalità,
dell'assolutismo e del legittimismo».
A Roma l'ambasciatore francese Pellegrino Rossi si agita tanto per questo conclave da attirarsi il nomignolo
di «conte dello Spirito Santo». Gli intransigenti si orientano per sostenere il reazionario cardinale
Lambruschini, dalla cui elezione si attendono in compenso l'appoggio dell'Austria alla repressione dei
fermenti rivoluzionari interni. Il partito dei moderati, guidati dal cardinale Bernetti, inclina in
vece a superare l'immobilismo politico e a rafforzare l'indipendenza del papato da influenze politiche esterne.
Questo gruppo porta la candidatura di Mastai.
Le direttive del governo francese al suo rappresentante a Roma sono precise: la Francia non ha un candidato
definito in anticipo sul quale far convergere i voti. Desidera semplicemente vedere sul soglio di Pietro un
uomo indipendente, ispirato a sentimenti italiani, che abbia a cuore l'indipendenza dello Stato della Chiesa e
sia disposto a difenderla, se necessario. Pertanto l'ambasciatore è autorizzato a proporre l'esclusiva contro
quei candidati che non riflettano i requisiti così stabiliti, i quali contengono un implicito segnale
antiaustriaco. Il ministro francese Guizot mette in guardia Metternich: un eventuale intervento armato
austriaco nello Stato della Chiesa susciterebbe serie rappresaglie da parte francese.
Non sembra che Metternich si lasci intimidire da avvisi del genere. Tuttavia le sue direttive all'ambasciatore
austriaco a Roma Lutzow e al suo «doppio» ecclesiastico, il cardinale arcivescovo di Milano Carlo Gaysruck
segnalano un'evoluzione della strategia ecclesiastica di Vienna: la difesa dell'ordine politico e sociale non
può ulteriormente fondarsi sugli strumenti esclusivi della forza repressiva, ma integrare elementi più o meno
ampi, secondo le circostanze, di riforme amministrative e sociali, in modo da rafforzare e riprodurre le capacità di controllo dell'equilibrio sancito in Europa.
Secondo Metternich, il papato non potrebbe trovare migliori difensori dell'Austria. Egli fa sapere di
desiderare quindi un papa convinto di questo programma e devoto a Vienna: il cancelliere non sembrerebbe
troppo entusiasta dell'idea d'un papa intransigente, «zelante», ostile alle riforme che si impongono, essendo
persuaso, come despota illuminato, che anche lo Stato della Chiesa difficilmente potrebbe evitare di
costituire un fattore di squilibrio in Europa se non provvedesse ad adottare un piano di prudenti riforme. Il
papa sperato da Metternich dovrà essere cercato fra i cardinali dotati di «principes moderés» e di carattere
«conciliant et impaniai». L'ambasciatore è autorizzato perciò a proporre il veto, tramite l'arcivescovo di Milano, all'ex segretario di Stato Bernetti che Vienna considera esponente pericoloso della «gallicomania».
A riunirsi in conclave nella reggia del Quirinale — e sarà per l'ultima volta — sono soltanto cinquanta dei
sessantadue cardinali del collegio, cinquantatré dei quali sono stati nominati da Gregorio xvi. Mancano gli
otto cardinali stranieri, per cui l'elezione è un affare tra italiani. Cinque di loro hanno funzioni di
governatore. Le grandi metropoli cattoliche, Vienna, Parigi, Monaco, Madrid, Firenze, non sono
rappresentate. Manca lo stesso cardinale di Milano, che dovrebbe introdurre il veto contro Bernetti e che
arriva con due giorni di ritardo. Sono invece presenti i vescovi dei modestissimi centri di provincia dello
Stato pontificio. Alcuni cardinali, come il Bernetti, non sono sacerdoti. La preponderanza non è solo dei
cardinali italiani, ma anzi di quelli dello Stato pontificio.
Per l'elezione sono necessari trentaquattro voti. Fin dal primo scrutinio Lambruschini raccoglie diciassette
voti, e Mastai quindici.
L'eventualità di un successo dell'ex segretario di Stato sembra non arridere troppo alla maggior parte dei
cardinali. Grazie all'azione capillare svolta tra gli elettori dal cardinale Polidori e dal cardinale Micara, il
partito contrario all'elezione di Lambruschini si organizza, fino a spostare su Mastai una quantità di voti che
già al secondo giorno gli consentono di toccare i due terzi.
L'elezione è raggiunta il 16 giugno, dopo soli quattro scrutini.
Eccone lo specchietto:
Già al terzo scrutinio, nove dei ventisette voti per Mastai, che assu
me il nome di Pio ix, sono frutto deWaccessus, cioè di quell'istituto, poi abrogato, per il quale un elettore,
conosciuto l'esito di uno scrutinio e prima che si proceda ad un'altra votazione, dichiara di assegnare il
proprio voto ad uno dei cardinali già votati, e normalmente fra i più votati.
Come abbiamo visto nel conclave di Gregorio xvi, Yaccessus si praticava subito dopo uno scrutinio dal quale
risultasse che nessuno aveva ottenuto il numero dei voti richiesti per l'elezione. In quel momento i cardinali
potevano votare per uno qualsiasi di quelli che avevano riportato almeno un voto valido o confermavano il
voto già dato con la formula: accedo nemini (non passo a nessuno). «Signori», esclamò con enfasi il
napoletano cardinale Ruffo dopo il boom di 31 nemini nella seduta dell' 11 gennaio 1831, «abbiamo il Papa,
il Papa Nemini! » Nessuno dei candidati in quel Conclave aveva infatti ottenuto un tale numero di voti: né il
Cappellari (22), né il Pacca (21). La battuta umoristica «portò un po' d'allegria negli animi sconsolati dei
presenti», secondo la storia del Cacciamani.
L'elezione in concreto avveniva nel modo seguente. I cardinali scrutatores leggevano dapprima i voti diretti.
Ciascun cardinale ne prendeva nota nell'apposito modulo. Alla fine ciascuno rilevava chiaramente quali
erano i nomi preponderanti. Prima di passare ad una nuova votazione si poteva rinnegare il proprio voto ed
assegnarlo ad uno dei nomi preponderanti. Ciò veniva chiamato Vaccessit e costituiva il secondo momento
dello scrutinio.
Per questa nuova operazione, assai lunga, intervenivano i cardinali recognitores: essi prendevano in mano le
schede dagli scrutatores e identificavano il sigillo corrispondente al cardinale che accedeva, annullavano il
primo voto, facevano la nuova attribuzione. Ciò si doveva ripetere per ogni accessit. Infine tiravano la
somma dei voti che ne risultavano.
Veniva eletto chi aveva complessivamente riportato i due terzi di tutti i voti. Se due cardinali avessero
ottenuto più di due terzi, si riteneva eletto legittimamente colui che, oltre i due terzi, avesse ottenuto anche il
maggior numero di voti.
Abitualmente, coloro che guadagnavano nell'accesso erano i cardinali più favoriti del primo turno, perché
essi progredivano per così dire in virtù della velocità già raggiunta e dell'influenza che l'esempio del grande
numero esercita sempre sugli indecisi. È incontestabile — e più volte fu avvertito — che un tale sistema si
prestava facilmente a speculazioni non sempre disinteressate, se non ad usi clientelari per ingraziarsi
all'ultimo momento il vincente ostentando il carattere determinante del proprio apporto. Nei due scrutini
decisivi per Mastai, appare evidente che il ruolo dell'accessus è stato risolutivo.
Per una coincidenza curiosa, Mastai è, come Amat e Fieschi, tra i recognitores, impegnato nel
funzionamento della piccola macchina elettorale come addetto allo spoglio delle schede. È lui che pronuncia
a voce alta
il proprio nome, man mano che appare dai voti. L'emozione a un
certo punto lo sovrasta ed egli è costretto a chiedere di essere sostituito.
Le dicerie hanno tramandato l'episodio, che Martina contesta, di un Mastai che crolla, svenuto, per
l'emozione del papato. Non si hanno dubbi invece sullo scarso entusiasmo dimostrato dai romani affluiti al
Quirinale per l'annuncio dell'elezione. La folla rimane fredda e incerta, alla proclamazione del nome, forse
disorientata per la rapidità inconsueta dell'elezione. Le voci diffuse alla vigilia hanno fatto credere che
l'eletto potesse essere l'ex legato in Romagna, il popolare cardinale Gizzi, in seguito alla notizia che era stata
richiesta d'urgenza la riduzione degli abiti bianchi, pronti per l'eletto, ad una statura inferiore, come appunto
quella di Gizzi. Però la voce era fuorviante: Gizzi ha ricevuto appena due voti nei primi tre scrutini.
L'improvvisa ma intempestiva popolarità gli ha giocato uno scherzo crudele perché i suoi domestici,
ritenendolo per sicuro papa, ne hanno bruciato gli abiti cardinalizi in un festoso rogo augurale, lasciandolo
per così dire nudo.
Nelle capitali si esprime soddisfazione. Metternich elogia la scelta non meno di Parigi. Ovunque si è
impressionati per la velocità del conclave, a paragone delle più laboriose ricerche avvenute nella maggior
parte dei conclavi precedenti. «La preoccupazione di evitare una esclusiva possibile da parte delle potenze
che ne possedevano il diritto», scrive il 24 giugno 1846 il conte Ludolf al governo del regno di Napoli,
«sembra spiegare la prodigiosa celerità che i cardinali hanno posto nel procedere all'elezione del nuovo
pontefice.»
Quello che comincia in uno dei conclavi più brevi del secolo è il pontificato più lungo della storia, trentadue
anni. Difficile ricondurlo ad un paradigma abbastanza comprensivo e sintetico, dopo che la vasta biografia
critica, redatta da padre Martina sulla scorta di un monumentale spoglio degli archivi vaticani, ha fatto
emergere la complessità dell'azione di questo pontefice e il fluttuante diversificarsi della sua condotta. Ciò
che si può brevemente dire è che la sua preoccupazione dominante è parsa dirigerlo verso una restaurazione
globale della vita cattolica per reagire all'ondata montante del liberalismo. Si riconosce però che sono
anzitutto delle ragioni pastorali, non disgiunte da certe propensioni teocratiche a sollecitare il suo interesse a
sviluppare la centralizzazione romana e ad una veemenza critica inusitata contro le filosofie progressiste.
Assistito dall'abile segretario di Stato cardinale Giacomo Antonelli, che per venticinque anni dirigerà la
politica temporale della Santa Sede, Pio ix verifica nelle esitazioni e nelle intransigenze del suo regno
l'impraticabilità delle scelte programmatiche adottate dal suo conclave allorché ha ritenuto ancora valido il
principio della necessità del potere temporale per l'esercizio della sovranità spirituale nel ministero petrino.
Illusoria e, anzi, inadeguata appare pure la ricerca
d'un adattamento estrinseco di tale principio, nei modi del dispotismo illuminato, di fronte alle lezioni che
insorgono dalla storia dei popoli, dinanzi alle quali la Chiesa rimane, se non contraria, certo perplessa.
Le delusioni inflitte all'Italia risorgimentale, che sperava nel suo appoggio per la liberazione nazionale dal
dominio austriaco, la teologizzazione disperata delle sovranità pontificie con la proclamazione
dell'infallibilità dogmatica al Concilio Vaticano i nel 1870, alla vigilia dell'ingresso delle truppe piemontesi a
Roma, la condanna dei valori della modernità col Sillabo, la condanna all'Indice delle opere di Gioberti, del
gesuita padre Pietro Ventura e dello stesso abate Antonio Rosmini, il mancato segretario di Stato della
«primavera» del Pio ix «liberale»: ecco alcuni capitoli di un malinteso di fondo, che Roger Aubert ha così
efficacemente descritto: «Pio ix fu incapace di fare la distinzione tra ciò che, nei princìpi del 1789, aveva un
valore positivo e preparava a lungo termine una spiritualizzazione maggiore dell'apostolato, e ciò che era la
trasposizione in termini politici di una ideologia razionalista ereditata dal secolo dei Lumi. Confondendo la
democrazia con la Rivoluzione e questa con il rovesciamento di tutti i valori cristiani tradizionali, non
comprendendo d'altra parte che era storicamente impossibile pretendere di ottenere allo stesso tempo per la
Chiesa la protezione dello Stato e la piena libertà alla quale essa teneva tanto, egli non seppe adattarsi alla
profonda evoluzione politica e sociale che caratterizza il xix secolo [...]. Importa tuttavia, per comprendere il
rigore col quale Pio ix non ha cessato di combattere per tanti anni il liberalismo (che egli stigmatizzava "l'errore del secolo") situare questa lotta in funzione degli sforzi che egli non ha cessato di sviluppare al fine di
centrare di nuovo il pensiero cristiano sui dati fondamentali della rivelazione. Sforzi di cui il Concilio
Vaticano i doveva, nella sua idea, segnare il coronamento».
In effetti è al Vaticano i che l'autoaffermazione del papato, spogliato del potere temporale, imbocca la via
della definizione della propria giurisdizione universale in riferimento a sovranità teologiche non più
condizionate dal potere territoriale.
L'orientamento catastrofista di papa Mastai irrora gli interventi normativi sul conclave che egli promulga
all'indomani della caduta dello Stato pontificio, e accresce negli anni successivi. Con la costituzione In hac
sublimi del 23 agosto 1871, Pio ix accorda ai cardinali la dispensa dalla tradizionale clausura. Essa annulla
altresì l'obbligo di attesa dei cardinali assenti per un tempo definito, determinando l'impossibilità di fatto dei
cardinali residenti fuori dell'Europa alla morte del papa di intervenire nell'elezione.
L'8 settembre 1874 un'altra costituzione, Licei per apostolicas, semplifica l'organizzazione del conclave e
mette in guardia i cardinali contro eventuali ingerenze delle autorità italiane nella libertà del
conclave. Infine, con la Consultori del 10 ottobre 1877, il papa da facoltà ai cardinali di procedere
all'elezione fuori d'Italia, qualora le condizioni politiche in questa nazione non siano considerate sufficienti a
garantire la immunità del conclave da ogni pericolo di interventi secolari.
In particolare nella In hac sublimi Pio ix esclude ogni autorità laica dall'elezione del papa e regola la
possibilità di procedere all'elezione se e quando i cardinali presenti in curia lo ritengano opportuno, in modo
molto simile alle disposizioni di Gregorio xvi. L'inquietudine del papa e del suo entourage, scaturita da
diverse voci allarmanti, anche se probabilmente prive di fondamento, lo porta a prevedere una serie di
pericoli e di corrispondenti misure eccezionali che testimoniano sicuramente della sua premura per la libertà
dell'elezione papale, senza ridurre per questo l'impressione d'una patologica ossessione per l'ignoto destino
del papato, ora che si trova destituito dalle sue sicurezze materiali.
Le norme prevedono infatti le più bizzarre ipotesi: per esempio, che italiani travestiti da preti possano
infiltrarsi tra i conclavisti e gettare il panico tra i cardinali, terrorizzandoli. Un'ipotesi del genere — politicamente infondata — da al papa l'occasione per abrogare la funzione dei guardiani del conclave,
tradizionalmente svolta dai magistrati civili e municipali di Roma, che la breccia di Porta Pia ha reso ai suoi
occhi inaffidabili. Ne deriva la rottura dell'ultimo legame, residuato simbolico delle elezioni dei primi secoli,
tra l'elezione papale e la comunità civile di Roma.
Non ritenendo sufficienti precauzioni del genere, Pio ix detta un regolamento segreto, fitto di trentadue
articoli, nei quali prevede, tra l'altro, che la monarchia italiana, installatasi nell'ex reggia papale del
Quirinale, tenti di mettersi in contatto con il Sacro Collegio alla morte del papa, oppure di introdursi nei
preparativi e nelle procedure dell'assemblea elettorale. Il regolamento consiglia perciò in questa eventualità
che gli agenti italiani siano accolti diplomaticamente «nelle forme consacrate dalla cortesia internazionale»,
ma in modo da prevenire ogni equivoco sull'intenzione del Sacro Collegio di restare sovrano in casa propria.
Gli agenti non potranno essere ricevuti che in un parlatorio di secondaria importanza, installato accanto ai
Musei vaticani, e per stornare sospetti e diffidenze, si dovrà provvedere immediatamente ad avvertire della
cosa gli ambasciatori delle altre potenze, mediante una nota ufficiale.
Il papa non lascia cadere nemmeno l'ipotesi di tentativi di violenza che potrebbero prodursi da parte italiana:
in questo caso sciagurato, prevede che il conclave sia sospeso ipsofacto.
Nei giardini vaticani, aperti al pubblico, salgono per la prima volta a passeggiare le giovani coppie romane,
per la prima volta dei bambini giocano con le fontane pontificie e riempiono di grida festose i silenzi
obitoriali di quell'oasi sacrale.
Il 7 febbraio 1878 Pio ix muore lasciando un'istituzione segnata dall'isolamento e dalla crescente ostilità di
coloro che non intendono rinnegare la civiltà moderna. Il rifiuto della democrazia incide inevitabilmente
sulla struttura elettorale, la quale segna un'involuzione difensivista e centralista tanto più incongrua per un
istituto, come il conclave, che può vantare di aver precorso nei secoli, nonostante ogni limite e
contraddizione, l'adozione dei princìpi e dei metodi democratici come base di legittimazione del potere.
La realtà è che il Vaticano è troppo assorbito dalla lotta contro il liberalismo politico e contro le pretese
regaliste di numerosi governi per poter affrontare con la necessaria chiarezza critica il problema
dell'adeguamento della Chiesa alla cultura politica della borghesia liberale e nazionale, che nel corso del xix
secolo si è sostituita alle vecchie élites sociali. E soprattutto, non è apparsa al vertice un'interpretazione
adeguata del carattere necessario e definitivo del tramonto dello Stato della Chiesa, al quale il papato si è
opposto con un Non possumus quasi patologico. Soltanto con papa Giovanni, dopo quasi un secolo, la
sciagura immanente sarà letta come una liberazione provvidenziale.
Questa inadeguatezza è risentita con crescente disagio in alcuni settori cattolici filodemocratici nei quali
opera attivamente la lezione spirituale di Antonio Rosmini: «E si pronunzieranno invettive contro
l'indifferenza pubblica in materia di religione?» è stata la sua drammatica avvertenza nel libro Delle cinque
piaghe di Santa Chiesa, censurato dal Sant'Offizio. «Quando si esige pur dal popolo e lo si educa in modo,
ch'egli sia disposto a ricevere a suo vescovo qualsiasi incognito e straniero personaggio, col quale né ha
comunanza alcuna di affetti né vincoli di ricevuti benefizi, e le cui sante opere né mai vide né udì tampoco
per fama, ovvero ne vide o ne udì di ben poco edificanti? Ma l'esigere e rendere il popolo indifferente ai
propri pastori, non è il medesimo che renderlo indifferente a qualunque dottrina gli s'insegni, indifferente ad
esser condotto per una o per l'altra via?»
Al popolo romano non resta che il lazzo di Pasquino, amaro e feroce graffio sui rituali elettorali per un papa
divenuto lontano, confuso con i potenti:
Si son chiusi i cardinali nelle celle Quirinali per creare il papa nuovo che più cerco e meno trovo fuor di quei che i re son usi
dichiarar dal trono esclusi.
{{Pause=2}}
La svolta di Leone xm (1878-1903).
II palazzo del Quirinale è divenuto ormai indisponibile dopo la breccia di Porta Pia, e tuttavia il problema
centrale del conclave, convocato l'8 febbraio 1878, è pur sempre quello di ridurre la separazione del processo
elettorale del vescovo di Roma dalle logiche comunitarie proprie della Chiesa. Per la prima volta però si
tratta di dare alla Chiesa romana un vescovo che non avrà più la funzione di sovrano temporale, dopo la
perdita del Patrimonium Petri. L'elezione si trova così sollevata dai problemi inerenti il governo dello Stato
pontificio, che hanno gravato i conclavi precedenti: «il futuro conclave, a differenza di quelli che lo hanno
preceduto, non è diviso in partiti devoti alle varie potenze», scrive il rappresentante belga a Roma il 16
febbraio. «Si può anche dire che, salvo i cardinali di Corona, le cui simpatie sono acquisite ai rispettivi paesi
di origine, non c'è frazione nell'augusta assemblea che abbracci gli interessi di un governo piuttosto che di un
altro.»
Questa maggiore libertà virtuale del conclave rispetto all'abituale presa dei poteri politici trova incentivo
nella stessa composizione del Sacro Collegio, nel quale i cardinali stranieri rappresentano ormai il 40%. Su
64 cardinali, 38 sono italiani e 26 stranieri (nove francesi, cinque austroungarici, quattro spagnoli, tre inglesi,
due tedeschi, tre portoghesi, un belga e uno statunitense). Grazie allo sviluppo raggiunto dalle ferrovie quasi
tutti possono trovarsi all'appuntamento a Roma.
La scelta del luogo, ancora una volta, non è pacifica. Il primo problema che si pone ai cardinali è
precisamente quello di stabilire se non sia consigliabile trasferire il conclave fuori d'Italia, per garantirne
l'immunità dalle eventuali pressioni da parte italiana, ricorrendo alle facoltà concesse dalle norme di Pio ix.
I più intransigenti propongono di tenere il conclave fuori d'Italia, tanto temono un intervento coercitivo da
parte del governo «usurpatore». Il più rigido è il cardinale Oreglia, tanto da attirarsi l'obiezione di un irritato
cardinale Innocenzo Ferrieri: «Andremo in pallone, o in qualche macchia, Eminenza, a tenere il conclave?».
Nella prima congregazione (8 febbraio 1878) una minoranza di soli otto cardinali sui trentasette presenti
sceglie Roma come sede del conclave. Il giorno successivo il cardinale prodecano Di Pietro, ex nunzio a
Lisbona e vicino alle posizioni dell'ala «liberale» del collegio, fa presente con un intervento pacato ma fermo
che nessuna potenza straniera ha formulato un invito, mentre l'Italia ha garantito la non interferenza. Nella
votazione seguente, soltanto cinque cardinali restano ancora attaccati alla proposta del trasferimento, precisa-
mente in Spagna, e trentadue votano per restare a Roma. Ciò fa emergere una corrente d'opinione disposta a
non condividere il pessimismo del papa defunto.
Del resto se sono indubbiamente presenti gruppi radicali che vorrebbero allontanare il papa da Roma, la
maggioranza sa che l'Italia non può nutrire alcun interesse in questa operazione, ciò che rende politicamente
credibile la sua Legge sulle Guarentigie promulgata il 13 maggio 1871 per attestare l'intangibilità della
funzione del Sommo Pontefice. Al governo italiano è pervenuta una comunicazione nella quale Francia e
Austria hanno manifestato il loro vivo desiderio che il conclave possa svolgersi in piena libertà.
Da questo momento le ricerche si concentrano sull'identità del candidato e sull'opzione programmatica cui è
associato. Un settore di cardinali curiali, ormeggiati alla linea del più intransigente rifiuto del liberalismo, si
orienta per un papa che sia il più possibile uomo di preghiera e di dottrina, disinteressato di politica. Un altro
gruppo, assai piccolo, non tace il proprio favore per la soluzione più audace, quella della «conciliazione» con
l'Italia.
I più non osano tanto: pur giudicando suicidaria la politica seguita da Pio ix e da Antonelli, ritengono che
l'obiettivo di un recupero della sovranità temporale del papato sia da mantenere, tuttavia adottando metodi
più aperti agli apporti accettabili del progresso, in modo da rimediare al discredito della Chiesa e al
deterioramento delle sue relazioni con i governi. In particolare sono i cardinali stranieri a farsi eco
dell'interesse dei governi di evitare l'elezione di un intransigente.
Come esponente di questa tendenza alcuni suggeriscono il cardinale Alessandro Franchi, ex nunzio in
Spagna e prefetto di Propaganda Fide, considerato fra i più intelligenti diplomatici della Santa Sede, di
tendenze nettamente moderate. Tuttavia i cardinali di tendenza legittimista lo accusano di essersi mostrato
troppo conciliante verso il governo della regina Isabella e quello dell'attuale re di Spagna, e a Roma egli
dispone di una scheda di «politicante» che non vale più come un tempo da referenza assolutamente positiva.
II nome che segna una convergenza importante, dal momento del suo annuncio, è quello dell'arcivescovo di
Perugia, Gioacchino Pecci. E non se ne parla solo a ridosso del conclave. Sono anni che l'attenzione di molti
si rivolge a questo pastore, non privo di talento diplomatico (da giovane è stato nunzio a Bruxelles), stimato
come uno dei vescovi migliori d'Italia e apprezzato anche per l'emarginazione che ha subito da quando,
cardinale nel 1853, si è trovata ostruita la carriera a Roma dal cardinale Antonelli. In conclave la candidatura
di Pecci, che vi svolge funzioni di camerlengo con straordinaria autorità, è sostenuta con vigore dal cardinale
Domenico Bartolini, segretario della Congregazione dei Riti. Costui avvicina Franchi e, prospettandogli la
nomina a segretario di Stato col nuovo papa, lo guadagna alla causa di Pecci.
Bartolini si rivolge poi alla decisiva massa di cardinali stranieri, che riesce a integrare nella base elettorale di
Pecci con l'aiuto determi
nante del cardinale arcivescovo di Westminster H.E. Manning. L'operazione si trova facilitata dal comune
sentire che l'elezione di un non italiano avrebbe comportato più complicazioni che vantaggi.
Quanto al candidato della destra, è il principale redattore del Sillabo, cardinale Luigi Bilio, un barnabita, che
è stato assai prossimo a Pio ix. Ma la sua candidatura sembra persa in partenza, sia perché minacciata dei veti
francese e spagnolo, sia perché l'interessato ha premesso che avrebbe rifiutato l'eventuale elezione,
considerandosene inadeguato. In effetti, le sue posizioni sono ritenute anacronistiche dalle stesse potenze
cattoliche: tutti desiderano ormai un papa «conciliante».
Dato questo scenario, il conclave si può ritenere risolto ancora prima di aprirsi. Nel primo scrutinio, la
mattina del 19 febbraio 1878, Pecci raccoglie 18 voti, contro i 6 andati a Bilio e i 15 a Franchi, mentre i
restanti suffragi si distribuiscono su altri 74 cardinali. Nella votazione pomeridiana, le preferenze per Pecci
aumentano a 26, quelle per Bilio a 7 mentre Franchi scende a 2. Ai 26 voti in prima battuta, si aggiungono
altri 8 per dichiarazione in accessit.
Il mattino seguente 20 febbraio, Pecci viene eletto con 44 suffragi e annuncia di voler assumere il nome di
Leone in memoria di Leone XII, il papa che l'ha aiutato agli inizi e che non cessa di attirare la sua
ammirazione «per l'interesse dimostrato agli studi, per l'atteggiamento conciliante nei rapporti con i governi
e per il suo desiderio di rawicinamento ai cristiani separati».
È l'elezione papale più breve mai avvenuta fino a questo momento, più breve di alcune ore anche di quella di
Pio ix. Questa rapidità suscita una gradita sorpresa a Roma e nell'intera Chiesa; e la scelta dei cardinali è
salutata con interesse da quanti, ecclesiastici, politici, intellettuali sperano dal nuovo pontificato una svolta
nei rapporti con la società moderna. Leone xin decide d'impartire la benedizione urbi et orbi non dalla loggia
esterna sulla piazza San Pietro, ma rivolgendosi verso l'interno della basilica, al fine di ribadire che la
condizione riservata dall'Italia alla Santa Sede resta un problema da discutere.
Asceso alla cattedra petrina a sessantott'anni Leone xm dirigerà la Chiesa per un quarto di secolo con lo stile
di un capo naturale e una capacità politica universalmente ammirata. A lui si assegna il merito di aver saputo
comporre in modo soddisfacente tutta una serie di conflitti ancora in corso alla morte di Pio ix, il
Kulturkampf'm Germania e le tensioni con la Svizzera e con la maggior parte delle repubbliche dell'America
Latina. Grazie alla sua abilità politica ottiene una certa distensione anche nei rapporti con la Russia,
problema che gli sta particolarmente a cuore. Evolvono positivamente anche le relazioni con la Spagna e
l'Inghilterra (e persino con la Francia nei primi anni) e si fanno eccellenti i rapporti con gli Stati Uniti mentre
si riprendono i contatti tra Santa Sede e Impero cinese. D'altra parte non manca chi indica in questo papa
l'inclinazione ad una sorta di «im
perfetta spiritualizzazione della sovranità papale, che ha certi aspetti teocratici» (E. Passerin d'Entrèves).
Certo, è il papa che evita le proteste veementi tipiche dell'intransigenza e definisce l'orientamento nuovo
dell'azione della Santa Sede assumendo un atteggiamento più positivo verso le istituzioni liberali, adottando
disposizioni più concilianti verso i governi e riservando ai valori della nuova civiltà un discernimento critico
là dove imperava il rifiuto indiscriminato. La stessa preoccupazione di riannodare il dialogo della Chiesa col
mondo suggerisce al papa di sfumare gli anatemi del suo predecessore contro le libertà moderne, fino a
riconoscere la legittima indipendenza del potere civile, nel suo ordine, per rapporto al potere spirituale.
Con l'enciclica Rerum novarum egli apre la visuale di una Chiesa, fino a ieri rattrappita sugli interessi della
Sacra Alleanza, allo scenario dei conflitti di classe nella società produttiva, prendendo le difese della dignità
dei lavoratori e dei loro diritti. L'angoscia per i progressi del socialismo a pochi anni dal Manifesto di Engels
e Marx, non è da considerarsi estranea alle motivazioni dell'enciclica, non meno che la speranza di
recuperare alla Chiesa l'adesione delle masse popolari, alle quali viene esteso quasi ovunque il suffragio
universale, per controbilanciare la politica anticlericale praticata troppo spesso dalla classe borghese al
potere.
Quantunque irriducibile ai soli lati politici, non si può trascurare quanto questo papa ricerchi una
ricollocazione autorevole del papato nella scena internazionale, fino al successo spettacolare raggiunto con
l'arbitrato del 1885 nel conflitto tra Germania e Spagna per le Isole Caroline. Aristocratico, privo di forti
passioni per la democrazia moderna, egli nutre una aperta nostalgia per la teocrazia medievale di Innocenzo
ni e sembra perseguire un'attualizzazione della formula imperialista dell'azione della Chiesa nella società.
Secondo Roger Aubert, «la sua teologia politica era pronta ad ammorbidirsi e a mettere al loro posto le
istituzioni moderne che in America e in Europa avevano sostituito quelle deli'Ancien Regime, ma la
prospettiva finale del suo ideale pastorale restava una prospettiva di cristianità: la supremazia della Chiesa
sul mondo non solo nel campo religioso, ma anche in quello politico e sociale. Egli era dunque abbastanza
intelligente per capire che il quadro in cui si collocava allora il problema era profondamente mutato dal
Medioevo, ma non aveva perso la speranza di vedere il papato tornare ad essere una potenza
contemporaneamente internazionale e sovrannazionale, arbitro all'interno di ogni Stato delle controversie fra
le classi sociali e, all'esterno, dei conflitti fra Stati, cioè una ricostituzione della cristianità reinvestita con il
consenso universale della supremazia dell'autorità morale».
Un'attenzione particolare va riservata alla linea seguita da Leone xin nei confronti del collegio cardinalizio e
della Curia romana. Secondo alcune testimonianze, alcuni cardinali avevano sollevato, nel conclave del
1878, l'esigenza che il collegio cardinalizio fosse revitalizzato dal nuovo papa, con l'assegnazione di funzioni
di collaborazione al governo della Chiesa, dopo la prassi accentratrice rimproverata a Pio ix.
In realtà questo problema continua a sussistere con papa Leone il quale, se interpella sistematicamente i
cardinali per trame consiglio, mantiene una visione autoritaria del ruolo del papa che gli impedisce di
riconoscere loro più che una funzione meramente consultiva. La sua stima per il livello di un collegio
cardinalizio, effettivamente mediocre e privo di personalità di valore, non gli fa ritenere interessante una
dinamica di partecipazione né egli sembra innovare rispetto al sistema vigente, che fa del Sacro Collegio
l'approdo quasi automatico delle carriere diplomatiche e curiali.
Anche le sue creazioni cardinalizie non risultano particolarmente brillanti «L'E.mo Rampolla non pensa ad
altro che a far entrare nel Sacro Collegio nullità ligie ai suoi valori», annota nel suo diario il cardinale
Francesco di Paola Cassetta, alludendo agli «intrighi» del segretario di Stato per prepararsi la tiara nel
prossimo conclave.
Durante il primo concistoro di Leone xm ci sono solo due italiani su dieci cardinali e nel 1895 gli stranieri
nel Sacro Collegio sono quasi altrettanti che gli italiani, cosa che non si è verificata dal tempo del ritorno dei
papi da Avignone (nella stessa Curia romana, su una trentina di cardinali, gli stranieri sono una decina). Ma
con il concistoro del marzo del 1901, su dodici porpore nuove, gli italiani sono 10, così da comporre un
collegio che, alla morte del papa, conterà 37 cardinali italiani e 23 stranieri.
Anche la sua politica verso la Curia romana appare riflettere schemi e strutture organizzative e
rappresentative della vita ecclesiastica che risentono più che in passato della necessità di adattamento alla
mutata situazione politica e culturale del papato, ormai proiettato in un'azione a respiro universale. Leone xm
istituisce una commissione cardinalizia per la riforma della curia romana, ma incontra l'aperta o latente
opposizione della maggior parte del Sacro Collegio, che ne indirizza il lavoro su binari morti. Egli deve
rassegnarsi perciò a lasciare le cose allo stato precedente, con un'amministrazione intrisa di legalismo e di
centralismo, scarsamente incline ad una visione dinamica della società e della Chiesa.
Man mano che Leone xm s'inoltra nell'estrema vecchiaia, l'interesse per la sua successione si accresce sia
nelle cancellerie che nell'ambiente ecclesiastico. Lo stesso papa ne è a tal punto consapevole che, in colloqui
familiari, arriva a suggerire i cardinali sui quali vorrebbe si concentrassero i voti del prossimo conclave.
La questione della sufficienza psicofisica del papa rispetto alle ne
cessità della carica è un argomento che ricorre nelle preoccupazioni e nei discorsi della curia. «Il papa
conserva una grande freschezza di spirito», confida il cardinale Lucido Maria Parocchi a Ludwig von Pastor
nel 1901, «ma non è più in grado di prendere, a novantun anni, alcuna iniziativa.»
Alcuni testimoni riferiscono che il papa non può sostenere molto a lungo una discussione di una certa
importanza e che in alcuni giorni appare realmente sfinito. Dei visitatori raccontano, impressionati, di aver
incontrato un vecchio «ossuto, incartapecorito, quasi mummificato, nel quale ogni segno di vita si è
concentrato negli occhi». Il cardinale decano Luigi Oreglia di Santo Stefano sospira: «Abbiamo eletto un
Santo Padre, non un Padre Eterno».
Contrariamente a quanto si fa credere, questi episodi rivelano che il carattere vitalizio assegnato alla
funzione papale, anche quando essa non può essere sostenuta da sufficienti condizioni fisiche, non può essere
giustificato adeguatamente dalla considerazione della convenienza di evitare una prematura apertura della
«campagna elettorale», con la conseguente instabilità nella situazione generale della Chiesa romana. Ciò che
sappiamo negli ultimi anni di Leone xm costituisce una verifica inequivocabile del carattere relativo di una
simile argomentazione. Infatti il dibattito sulla sua successione è in pieno svolgimento nella curia romana,
vivente ancora il papa. Il conclave prossimo è già obiettivamente aperto ed egli stesso vi partecipa con
discrezione, aiutando i cardinali a cercare il prossimo papa. I suoi «papabili» sono Siciliano di Rende, prima,
poi Gotti e infine Sarto.
Anche più significativo l'interesse di Leone xm a rimettere allo studio diverse questioni riguardanti il sistema
elettorale. Fin dai primi anni del pontificato egli fa preparare una serie di documenti su questi problemi. Il 18
maggio 1882 approva la minuta di un regolamento da osservarsi nel caso che la sede pontificia si renda
vacante in circostanze d'eccezione. Pur essendo passata il 24 seguente agli atti ufficiali, la minuta del
documento rimane segreta insieme a quella di altri, che hanno come oggetto la convenienza, o meno, di
indire il futuro conclave a Roma.
Sulla stessa questione Leone xm fa elaborare due motuproprio il 21 e 26 agosto 1884. Come il regolamento
del 1882 e gli altri documenti, anche questi ultimi sono trascritti in cinque copie autentiche, sigillate e
diversamente siglate prima di essere affidate in custodia a cinque persone.
Nel 1892, in seguito a nuove informazioni sulle pratiche che l'Italia sta svolgendo in Austria e presso altre
potenze per influire sul futuro conclave, in base ad un appunto di Rampolla, Leone xm costituisce una
commissione cardinalizia, composta dallo stesso segretario di Stato e dai cardinali Raffaele Monaco La
Valletta, segretario del Sant'Offizio, e Tommaso Zigliara, il domenicano prefetto della
Congregazione degli Studi, ai quali da l'incarico di studiare e suggerire nuove norme, idonee a garantire la
libera elezione del papa. Nel marzo dello stesso anno il gesuita padre Sebastiano Sanguineti svolge uno
studio giuridico sul diritto di veto e viene incaricato poi di preparare il progetto di una nuova costituzione
apostolica sull'elezione del papa, la quale però non deve entrare nel merito del privilegio di esclusiva
concesso in passato ai sovrani cattolici. Ma anche in questo settore, progetti e intenzioni innovatrici di Leone
xm, in relazione all'adeguamento della macchina organizzativa del papato, non trovano seguito. L'esame
della questione viene dilazionato e quindi accantonato.
Leone xm muore a novantatré anni, il 20 luglio 1903, dopo due settimane di penosa agonia. Il 7 luglio,
quando la pleurite non lascia alcuna illusione sulla sua sorte, gli è stata proposta e preparata la cerimonia
dell'estrema unzione. Ma il papa, concentrato sulla stesura di alcuni versi latini e del breve di nomina del
segretario della Concistoriale, si è ritenuto disturbato dai preparativi dei cerimonieri. «Ci iavéteprescìa de
mannamme a l'atro monno?», li ha apostrofati, drizzandosi sui cuscini.
Egli ha voluto ricevere ancora tutti i membri del Sacro Collegio presenti a Roma. I giornali insistono
nelFannunciare come probabile il ricorso dell'Austria al diritto di veto per impedire l'elezione del cardinale
Rampolla, la cui candidatura continua a mantenersi a galla nonostante le numerose contrarietà. Il gioco
diplomatico in corso tra Roma, Vienna, Berlino, Parigi, Madrid e persino Mosca, indica che le Cancellerie
non rinunciano alla pretesa di ingerirsi nella libertà del conclave.
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CAPITOLO X.
Pio X e l'ultima «esclusiva».
L'ultima volta dell'esclusiva d'un governo cattolico contro un papabile sgradito comincia prima del conclave,
il 7 luglio 1903. Leone xm è morto alle 16. Alle 20 di quello stesso giorno il conte Agenor Goluchowski,
ministro degli Esteri di Francesco Giuseppe imperatore d'Austria e re apostolico di Ungheria, ha già ordinato
di trasmettere al conte Nikolaus Szécsen di Temerin, suo ambasciatore presso la Santa Sede, il seguente
telegramma: «Rigorosamente segreto. Pregasi di decifrare personalmente. Il membro del Sacro Collegio contro il quale l'esclusiva dovrebbe eventualmente e in caso estremo essere data, è il cardinale Rampolla».
La candidatura di Mariano Rampolla del Tindaro costituisce il tema dirimente dell'elezione di quel principio
del secolo. Essa è sostenuta o avversata in quanto è chiamata a segnare la continuità della linea di Leone xin.
Vienna osteggia l'ex segretario di Stato, che ha sostenuto i cristianosociali in Austria e in Ungheria e ha
favorito le aspirazioni degli Slavi nei Balcani in fermento. La monarchia teme perciò che l'elezione di
Rampolla possa nuocere alla stabilità della duplice monarchia. A Rampolla non ha giovato nemmeno il fallimento della sua politica di riavvicinamento alla Francia, dove l'anticlericalismo si esprime in modo via via
più aggressivo. La sua avversione alla Triplice Alleanza inquieta sia i cardinali tedeschi sia quelli, fra gli
italiani, che sono favorevoli a ridurre il conflitto con lo Stato liberale per poter fronteggiare insieme
l'avanzata del socialismo.
Per i cinque cardinali dell'impero austroungarico è difficile trovare un candidato presentabile. Solo il
vescovo di Cracovia Jan Puzyna de Kozielsko è al corrente dell'esclusiva, insieme all'intransigente vescovo
di Breslavia Georg Kopp. Secondo alcune testimonianze, quest'ultimo sarebbe anzi il regista dell'affare e
l'ispiratore delle mosse di Puzyna. Secondo altri, la prima idea dell'esclusiva sarebbe partita dal cardinale
cracoviense, che avrebbe persuaso l'amico Kopp a sostenerla con vigore presso un restio imperatore. La
ragione dell'iniziativa di Puzyna di sbarrare la strada, alla elezione di Rampolla, ricorrendo al braccio
secolare, sarebbe da individuare nella politica filorussa dell'ex segretario di Stato, considerata nociva agli
interessi
polacchi.
Informati da Puzyna dell'esclusiva antirampolliana, i cardinali austroungarici si orientano verso la
candidatura di Serafino Vannutelli, noto per le sue buone disposizioni verso l'Austria, senza escludere
l'appoggio eventuale al conservatore Girolamo Maria Gotti, il carmelitano prefetto della Congregazione di
Propaganda Fide, che gode fama di larghe vedute limitatamente alla politica ecclesiastica. Nei giorni
prossimi al conclave il cardinale Kopp tenta di concludere un'intesa con Rampolla su un candidato gradito a
quest'ultimo, ma l'ex segretario di Stato, già al corrente delle intenzioni di Vienna, preferisce schermirsi.
Kopp tenta allora di dissociare da Rampolla i suoi più preziosi alleati, i cardinali francesi e spagnoli, ma non
trova fortuna migliore in questa manovra.
{{Pause=2}}
L'opposizione al cardinale Rampolla.
La ritrosia di settori cardinalizi alla riuscita di Rampolla non è dovuta solo a valutazioni politiche. Vi sono
anzi, fra i cardinali, alcuni che considerano provvidenziali le ostruzioni contro Rampolla al fine di liberare la
sede pontificia dalle prevalenti premure di ordine diplomatico per dare la priorità a quelle di natura più
squisitamente pastorale. «Vorremmo un papa che sia stato estraneo a ogni polemica», racconta il cardinale
francese Francois Desirée Mathieu. «Un uomo che abbia trascorso la vita nella cura delle anime e che si
occupi minuziosamente del governo della Chiesa e che, soprattutto, sia padre e pastore. Un tale pontefice noi
lo abbiamo a disposizione. Ha dato ottima prova di sé nella sua importante diocesi. Unisce una retta capacità
di giudizio a una grande austerità di costumi e ad una ammirevole bontà [...]. Noi voteremo per il patriarca di
Venezia.»
Quando viene avvicinato da Puzyna, Mathieu non tarda ad accorgersi che il collega è gravato «dal segreto
dell'imperatore». «Ho un candidato contro, non uno prò», ammette Puzyna. «Ci occorre un papa che faccia
della politica un mezzo, e non un fine. Preghiamo dunque, invochiamo lo Spirito Santo!»
«In realtà», è il commento di Mathieu, «egli ha in tasca una ingiunzione formale verso lo Spirito Santo, sotto
forma d'un messaggio che lo imbarazza molto, e che vorrebbe far recapitare da un altro.»
Anche fra i cardinali italiani c'è chi, come l'arcivescovo di Milano cardinale Andrea Carlo Ferrari, non vede
di buon occhio l'elezione di Rampolla, la cui candidatura gli appare troppo politicizzata tanto dall'eccessivo
zelo dei Francesi, quanto dall'eccessiva ostilità degli Austrogermanici. Anche Ferrari è favorevole a Sarto,
ormai da una decina d'anni incluso nella rosa dei papabili e racco
mandato dallo stesso Leone xm. Inoltre è noto il favore della Segreteria di Stato nei confronti di un'ascesa
papale di Sarto nella prospettiva di affrettare la chiusura del conflitto fra cattolici e liberali in Italia e
l'avvento di una pace religiosa ormai necessaria agli interessi della Santa Sede. Sarto è considerato dallo
stesso governo italiano «il più transigente degli intransigenti». Ed è stato notato da molti lo stile prudente con
cui è riuscito a intrattenere a Venezia i contatti con i circoli della massoneria, che si sa ben presente nel
governo nazionale.
Nel pomeriggio del 31 luglio sessantadue cardinali entrano in Vaticano per chiudersi nel recinto del
conclave. La mattina del primo agosto iniziano gli scrutini, che saranno complessivamente sette, due per
ogni giorno elettorale. Sarà eletto il cardinale che avrà conseguito i due terzi, cioè 42 voti.
Al primo scrutinio Rampolla raccoglie 24 voti, Gotti 12, Sarto 5 e Serafino Vannutelli, danneggiato
dall'eccessivo zelo propagandistico esercitato dal fratello Vincenzo, appena 4.
Nel pomeriggio la distribuzione dei voti conferma la forza del blocco rampolliano: Rampolla sale a 29 voti e
Sarto a 10, mentre Gotti ne riceve solo 16, e altri voti si disperdono. Probabilmente i cardinali austrotedeschi
hanno fatto affluire i loro cinque voti a Sarto, ritenendo che Gotti abbia perduto ogni possibilità.
Mariano Rampolla avverte subito il grosso errore tattico di concentrare immediatamente tanti voti sul suo
nome. «È uno sbaglio!», non esita ad esclamare, dal suo posto di scrutatore, man mano che egli stesso ripete
il proprio nome nel silenzio dell'aula.
Subito dopo lo spoglio, il cardinale Felice Cavagnis presenta al Decano una domanda: «Bisogna preparare
l'accesso?». Il cardinale Oreglia reagisce bruscamente, temendo che l'accesso possa attirare su Rampolla un
tale soccorso di suffragi da determinare l'elezione immediata: «Non ci sarà accesso», risponde.
I cardinali si ritirano nelle loro celle. Molti intuiscono il pericolo che i lavori del conclave ricadano nella
morsa dei blocchi antagonisti. Il conclave respira già un clima senza paragone più spirituale che in passato. A
credere alla testimonianza del Mathieu, «la fisionomia morale del conclave non somiglia in nulla a quella
delle nostre assemblee politiche. È una riunione di uomini, quasi tutti disinteressati nei risultati dell'elezione,
che cercano in tutta coscienza il migliore capo che potrebbero dare alla Chiesa. La più grande cortesia non
cessa di regnare fra loro. Le polemiche violente, le calunnie, le insinuazioni
perfide, le esagerazioni di ogni sorta spirano sulla soglia del Vaticano. Le celle non sentono contestazioni
brucianti, si discute sui candidati rispettando le loro persone e si sa combattere sorridendo, l'urbanità delle
forme non impedisce affatto la decisione nelle idee, e da sabato si vedono formarsi i due campi nei quali il
Sacro Collegio si divide quasi alla pari; si è per o contro Rampolla. A dire il vero, non c'è altro dibattito».
Andrea Carlo Ferrari ed altri italiani, estranei alla Curia, più il cardinale Francesco Satolli, prefetto della
Congregazione degli Studi, svolgono una discreta azione a favore del Sarto. «Il partito della Francia mandò
così in alto una candidatura», annota del suo diario Ferrari. «Ma non risponde agli attuali bisogni sia
dell'Italia che delle altri nazioni. È sproposito pensare ad un'elezione a base di politica francese. Lasci pure il
Concordato la Chiesa, ma avrà in ricambio la libertà; perciò la candidatura Sarto mi sembra provvidenziale.»
D'altra parte la situazione delineatasi dopo il secondo scrutinio appare meno favorevole a Rampolla di
quanto dica la cifra da lui ottenuta. Dei 38 elettori che al mattino hanno votato altri candidati, solo 5 gli
hanno dato il voto, un contributo troppo esiguo per modificare sensibilmente la posizione in suo maggior
favore. Su 62 elettori, 10 soli dall'esito della prima votazione hanno tratto motivo per orientare diversamente
il loro voto: i 5 passati al partito di Rampolla e i 5 che hanno aderito alla candidatura di Sarto. Si può
prevedere che sarà difficile che i voti di Sarto siano attribuiti, nel prossimo scrutinio, a Rampolla. Data la
loro provenienza, i dieci voti a favore del patriarca di Venezia hanno un esplicito significato antirampolliano
e contribuiscono soprattutto ad una migliore definizione dei voti acquisiti dalla corrente antirampolliana,
impedendone l'ulteriore dispersione. La corrente ne risulta consolidata.
Sostanzialmente le due correnti si sentono in qualche modo paralizzate dalla pregiudiziale contraria al
candidato dell'opposta fazione. Il saggio di incremento proporzionale dei voti offerto dalla votazione sembra
indicare che il ritmo di accrescimento non è più preponderante per la candidatura Rampolla, la cui scalata
registra piuttosto dei rallentamenti. Al termine della prima giornata del conclave, la spinta propulsiva è pari
per Rampolla e per Sarto. Questa ormai ha un suo peso.
«Volunt jocari supra nomen meum» (vogliono divertirsi sul mio nome) sussurra Sarto al cardinale Victor
Lucien Sulpice Lecot, arcivescovo di Bordeaux, che occupa il tronetto accanto al suo.
Malgrado queste tendenze interne, i timori che la candidatura Rampolla abbia successo continuano a
serpeggiare. Il cardinale Antonio Agliardi, cancelliere di Santa Romana Chiesa, avvicina Kopp per avvertirlo
del pericolo di eleggere un cardinale «acerrimo nemico dell'Austria e niente affatto sincero amico della
Germania che temeva
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sì, ma non meno odiava». Sconsiglia anche di insistere su Gotti «compromesso anche dalla banca di Pacelli»
e caldeggia la candidatura di Sarto, «che merita fiducia sotto ogni rispetto».
Il ruolo svolto da Agliardi in questo conclave è ritenuto, forse esageratamente, notevole, soprattutto da
quando si possono apprezzare alcuni diari di elettori, come quello del cardinale Francesco di Paola Cassetta,
prefetto della Congregazione del Concilio, secondo il quale «il veto dell'Austria dato contro il card.
Rampolla fu scritto in Roma dal card. Agliardi con l'ambasciatore austriaco» proprio per favorire il
«papabile» della Segreteria di Stato. Sta di fatto che il gruppo austrotedesco desiste dal sostenere la
candidatura di Gotti e preferisce confluire su Sarto. Ma nello stesso tempo incarica Puzyna di dare corso alla
comunicazione dell'esclusiva (imperiale?) contro Rampolla.
Si assiste ora ad una sorta di balletto dell'esclusiva pentita, con Puzyna che gira per il conclave con un
foglietto in mano tentando di scaricare su altri il compito di pronunciare in aula il veto austriaco. Non trova
nessuno disposto a sobbarcarselo. Persino il segretario del Sacro Collegio monsignor Raf ael Merry del Val,
ricusa di accettare il foglietto, ritrae la mano lasciandolo svolazzare per terra, dove Puzyna è costretto a
raccattarlo. Lo stesso diniego è opposto dal cardinale decano, il camerlengo Oreglia. Secca la motivazione
data da Merry del Val: «Devo manifestare a sua eminenza che si tratta di manovra lesiva dei diritti della
Chiesa. Il minimo che si può prevedere è che la reazione dei cardinali sarà indignata».
Il 2 agosto mattina la tensione del conclave è palpabile. Puzyna incontra Kopp, informandolo dei rifiuti
ricevuti. Kopp non ha esitazioni. Teme che i sostenitori di Rampolla possano accordarsi con quelli di Gotti e
ingiunge a Puzyna di procedere subito al veto. Puzyna accetta, ma prima cerca di alleggerirsi la coscienza
avvertendo Rampolla di quanto si accinge a fare. L'ex segretario di Stato non ne è certo sorpreso. Entrato in
conclave sapendo che l'Austria non lo vuole papa, si limita a «rinviare il cardinale al tribunale della sua coscienza». E si affretta a vergare il testo d'una protesta.
Mentre i cardinali stanno per riempire la scheda, Puzyna ottiene di poter leggere la sua dichiarazione. La
legge a voce così bassa da esser costretto a ripeterla, dopo che molti cardinali hanno invocato a viva voce
una lettura più forte e chiara.
Questo il testo tanto aulico quanto ambiguo della dichiarazione, che passerà alla storia come l'ultima
ingerenza formale di un potere imperiale nell'elezione di un papa:
Honori mihi duco, ad hoc officium jussu altissimo vocatus, humillime rogare Vestram Eminentiam, prout Decanum Sacri Coìlegii
Eminentissìmorum Sacrae Roma
nae Eccìesiae Cardinalium et Camerarium S.R.E., ut ad notitiam suampercipiat idque notificare et declorare modo officioso velit,
nomine et auctoritate Suae Majestatis Apostolicae, Francisci Josephi, Imperatorìs Austriae et Regis Hungariae, jure et privilegio
antiquo uti volentis, veto exclusionis contro Emìnentissimum Dominum meutn cardinalem Marianum Rampolla del Tindaro.
Romae, 2 Augusti 1903
J. Card. Puzyna
(Mi faccio un onore, essendo stato chiamato a questo ufficio da un ordine altissimo, di pregare umilissimamente Vostra Eminenza,
come Decano del Sacro Collegio degli Eminentissimi Cardinali di Sacra Romana Chiesa, e Camerlengo di S.R.C., di voler
apprendere per sua propria informazione e di notificare e dichiarare in modo ufficioso, in nome e con l'autorità di Sua Maestà
Apostolica Francesco Giuseppe, Imperatore di Austria e Re d'Ungheria, che volendo Sua Maestà usare d'un antico diritto e privilegio,
pronuncia il veto d'esclusione contro il mio Eminentissimo Signor Cardinale Mariano Rampolla del Tindaro.)
Subito dopo l'intervento di Puzyna, tanto il Camerlengo quanto Rampolla protestano per l'ingerenza del
potere civile. Le circostanze in cui l'esclusiva è stata pronunciata faranno dubitare se si sia trattato veramente
d'un veto o piuttosto di un voto, comunicato in forma ufficiosa. L'opinione di Snider è che «rinunciando alla
notificazione formale e imperativa per attenersi alla semplice comunicazione in modo officioso, l'imperatore
conteneva la manifestazione della sua volontà entro i limiti ristretti della espressione di un desiderio. La comunicazione assume così il valore di un voto».
Sta di fatto che anche l'espressione d'una esclusiva sotto forma di semplice desiderio rappresenta un atto che
la coscienza del collegio, nelle sue funzioni elettorali, e dunque nel pieno della sua sovranità, mostra di voler
repugnare. «Un episodio disgustoso», dirà il cardinale Ferrari. «La cosa in se stessa, e il modo, recò stupore e
indignazione al S. Collegio.» «Grande e penosa l'impressione per tutti», dirà il cardinale Domenico Ferrata,
ex nunzio in Francia.
Sorpresa e indignazione appaiono facilitate dalla persuasione che l'atto risulta ormai inutile, nella dinamica
elettorale. È sicuro che Rampolla non potrebbe andar oltre. Nella votazione di quella mattina egli non
guadagna nessun voto oltre ai 29 della sera precedente, mentre Sarto sale a 21. Tramonta la candidatura di
Gotti, che mantiene solo i suoi 9 voti, cedendo così a Sarto il secondo posto nella graduatoria. Al blocco
Gotti, che controbilancia il blocco Rampolla, si oppone ora quello più solido di Sarto.
«Se non si elegge Rampolla per non sembrare servi dell'Austria e della Triplice», commenta Ferrari,
«eleggendolo si serve la Francia, la quale del resto ha bisogno di una lezione. Quale impressione in Italia e
fuori produrrebbe la nomina del Card. Rampolla? Tranne la Francia, quasi dappertutto l'impressione non
sarebbe felice, e in modo speciale in Austria od in Germania [...]. Il Card. Rampolla, otti
ma persona, di vita santa, di distinta pietà, più che per altro, per ragioni d'ufficio che tenne fin qui, per
necessità dovette incontrare odiosità senza fine. Eppoi il papa che ci vuole adesso ha da avere spiccatamente
la nota pastorale più che politica e tale non può essere il Card. Rampolla od almeno può esserlo molto più il
Card. Sarto.»
I sette cardinali francesi sembrano i più irritati dall'esito dello scrutinio, che segna la sconfitta del loro
candidato. Uscendo dalla Cappella Sistina con questa agitazione si riuniscono, prima di raggiungere le
rispettive celle, presso il cardinale Lecot e decidono di compiere nella sessione pomeridiana un passo di
protesta contro l'intervento austriaco.
La protesta viene letta all'inizio delle operazioni di voto, dopo la recita del Veni Creator e il sorteggio dei
nuovi cardinali scrutatori e degli infermieri, dal cardinale AdolpheLouis Albert Perraud, vescovo di Autun. È
fatale che il passo sia interpretato come un tentativo pressante per trascinare al seguito della corrente
rampolliana altri cardinali, così da agguantare la maggioranza sfruttando la reazione di sdegno suscitata dal
veto imperiale.
Dopo Perraud, prende la parola Sarto. Egli scongiura i colleghi di non continuare a dargli il voto: egli è
partito da Venezia con il biglietto di andata e ritorno. «È sicuro», dice, «che non accetterò mai il papato, per
il quale mi sento indegno. Chiedo che gli Eminentissimi dimentichino il mio nome, ut nomen meum
obliviscerentur.»
Finalmente si procede alla votazione. Lo scrutinio porta solo un voto in più a Rampolla, che sale a 30. Sarto
sale da 21 a 24 voti. Gotti scende da 9 a 3 e l'area dei dispersi si riduce. Questa resistenza di Rampolla
dimostra che i suoi fautori non si sono lasciati intimidire dal veto imperiale. E tuttavia che l'aumento sia così
piccolo — appena di un voto — dopo tanta e così santa indignazione e riprovazione, segnala che il partito di
Rampolla, con o senza veto, ha raggiunto il massimo ed è costretto dalla logica conclavaria a portarsi su un
altro candidato.
In una riunione convocata dopo lo scrutinio, alcuni cardinali incaricano Ferrari di svolgere una discreta opera
di persuasione su Sarto per convincerlo ad accettare l'elezione. «Mi sento affatto impari a tanto peso», insiste
Sarto «e non è assolutamente possibile che io mi sobbarchi [...]. Io avrò i primi nemici fra i più vicini; quelli
stessi che mi portarono li conosco bene, non possono esser benevoli.»
«Nemici vicini li avremo sempre tutti», replica l'arcivescovo di Milano, «e saranno i più terribili, perché
fingeranno benevolenza in faccia e useranno cortesia la più affettuosa. Non ci feriranno mai in pieno petto,
ma ci pianteranno i coltelli alla schiena. E noi che siamo vescovi, non lo sappiamo?»
Ancora ignaro di descrivere in anticipo il suo proprio destino, che gli porterà estrema afflizione proprio da
Sarto, il cardinale «sociale» di Milano gli suggerisce: «Eppure ci tocca dissimulare, tacere, patire
per amor di Dio, e per confortarci ricorriamo all'esempio di Gesù nel Cenacolo e nell'Orto col perfido
traditore. Ricordiamo il "vinci il bene col male" e il "benedici coloro che ti maledicono". Però è da dire la
verità per ogni verso. Se Vostra Eminenza avrà nemici vicini, avrà non pochi ai quali potrà dire con verità: ' '
vos amici mei estis' ' ».
Non basta. Ferrari ricorre alla sollecitazione più diretta: «Un rifiuto potrebbe costarle assai caro e penoso per
tutta la vita. Ritornerà a Venezia, con un rimorso che Vostra Eminenza dovrà trascinarsi dietro insieme con
la vita, senza forse poterlo mai abbandonare. Pensi alla responsabilità dei danni che deriverebbero alla Santa
Chiesa o da una elezione che sarebbe invisa in Italia e fuori, o da un tale prolungamento del Conclave da non
sapersi bene dire (e tutti ne convengono) se di giorni, di settimane o anche di mesi».
«Ma io mi sento morire», mormora Sarto. «La notte passata non ho chiuso occhio. Oggi non ho preso cibo.
Insomma, io morirò presto.»
Data la irremovibilità del Patriarca, Ferrari rinnova il tentativo anche l'indomani mattina, persuaso da altri
elettori. È il 3 agosto. Sarto gli pare munito di una «tranquilla fermezza che difficilmente si può espugnare».
Anche lui è convinto che la reazione austriaca non sarà incontenibile, nell'eventualità dell'elezione di
Rampolla perché — dice con sicurezza — «il dispaccio di ieri era un puro e semplice artificio, che fu
fabbricato a Roma».
Nel frattempo si sviluppa una manovra di Oreglia sui cardinali francesi per orientarli a favore di Gotti. Il
camerlengo non crede alla candidatura di Sarto: «è solo una manovra per far cadere quella di Rampolla»,
dice, «e farne poi prevalere un'altra, tenuta finora di riserva: quella del cardinale Ferrata». Corrono apprezzamenti non sempre benevoli in quel gabinetto radiologico che è ogni conclave: «se Sarto è un santo, preghi
per noi», dicono alcuni conclavisti francesi. «Se è dotto, ci insegni. Ma per governare la Chiesa, ci vuole, con
una mano ferma, della saggezza, e l'esperienza degli affari.»
Il primo scrutinio antimeridiano di quel 3 agosto porta Sarto a 27 voti, mentre Rampolla comincia la
parabola discendente raccogliendone 24, sei in meno della sera precedente. La distribuzione degli altri voti
indica un timido tentativo di far riemergere la candidatura di Gotti, che da tre voti sale a sei. Gli altri cinque
voti si disperdono.
Giunto in testa alla graduatoria, Sarto chiede di nuovo la parola: «Insisto perché dimentichiate il mio nome.
Davanti alla mia coscienza e davanti a Dio non posso accettare i vostri voti».
«Un secchio d'acqua fredda», commenta Ferrari, sconcertato. «Ritornammo alle nostre celle
sconfortatissimi.» I Francesi compiono un passo verso Rampolla per prospettargli, imbarazzati, l'opportunità
di cedere ad un altro candidato i suoi voti. L'ex segretario di
leu
Stato oppone una questione di principio: «Occorre sostenere e difendere l'indipendenza del Sacro Collegio e
la libertà nella scelta del papa. Per questo considero mio dovere non ritirarmi dalla lotta, seguendo anche il
parere formale del mio confessore».
Mentre vari gruppi di cardinali si riuniscono durante l'intervallo, avviene il fatto che sblocca il conclave.
Sarto lascia la sua cella e si incontra col cardinale Francesco Satolli, che non esita a parlargli duramente:
«Vostra Eminenza vuoi resistere alla volontà di Dio manifestata così apertamente dal Sacro Collegio, e come
Giona fuggire dalla faccia del Signore. Il Signore potrebbe permettere uno scontro, in cui Vostra Eminenza
potrebbe restare vittima, insieme a tanti altri, e Lei andrebbe davanti a Dio responsabile di tante altre
vittime».
Pauroso persino di viaggiare in treno, istintivamente contrario alle automobili — che considera poco meno
che arnesi diabolici — l'ex parroco di Salzano (nella campagna di Treviso) si sente toccato nel vivo: «Non
mi dica queste cose», supplica, «ho tanta repugnanza del
sangue».
«Gliele dico perché lei non accetta di essere papa», precisa Satolli. «Sia fatta la volontà di Dio», si arrende
Sarto, a mani alzate. La notizia che Sarto ha cambiato idea corre rapida per le logge. Anche i cardinali
francesi, delusi dall'ostinazione di Rampolla, si sono convcrtiti alla sua candidatura. Nello scrutinio del
pomeriggio del 3 agosto, Sarto sale a 35 voti, mentre Rampolla scende a 16 e Gotti a 7. «Promette di essere il
pastore atteso e desiderato», annota un conclavista francese quella sera, per la prima volta favorevole a Sarto.
«Ha fatto prova di virtù dichiarandosi indegno della tiara. Promette di essere estraneo alle cose della politica,
un Vescovo ecumenico piuttosto che il re di Roma, più incline forse di altri a dire: "II mio regno non è di
questo mondo".»
Sono i Francesi, irritati per una ulteriore mossa autoconservatrice di Rampolla, a decidere di passare dalla
parte di Sarto, permettendogli coi loro sette voti di raggiungere la maggioranza. Lo scrutinio poco dopo
annuncia la conclusione: il cardinale Sarto raggiunge 50 voti, Rampolla ne ottiene 10, Gotti 2. Alla
convenzionale richiesta se accetti l'elezione, Sarto — secondo le versioni concordi dei testimoni — risponde
accasciato, gli occhi pieni di lacrime, la guance madide di sudore: «Quoniam calix non potest transire, fiat
voluntas Dei», dice. (Poiché il calice non può passare, si compia la volontà di Dio.)
E alla richiesta del nome con cui vuoi esser chiamato, risponde in latino: «Fiducioso nella protezione divina
e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e dei Santi Pontefici che si sono chiamati col nome di Pio, soprattutto di
quelli che strenuamente nel secolo scorso combatterono contro le sette e gli errori dilaganti, assumo il nome
di Pio Decimo».
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La restaurazione di Sarto (1903-1914).
Con Giuseppe Sarto, la sociologia del papato subisce una innovazione degna di rilievo: per la prima volta,
dopo molti secoli, un papa è tratto dalla campagna — quella di Riese, in provincia di Treviso — dove i suoi
genitori fanno mestieri umilissimi. Lo storico Aubert invita ad osservare inoltre che «nella storia vi sono
pochissimi esempi di papi che, come Pio x, abbiano percorso tutti i gradi del ministero pastorale, prima
cappellano, quindi parroco, vescovo e patriarca».
In effetti Sarto è l'unico papa dell'epoca contemporanea, prima di Giovanni xxm, a provenire da un ambiente
popolare. Formatosi sotto Pio ix e nel clima reazionario della monarchia asburgica, in un ambiente
conservatore dal lato politico e paternalistico dal punto di vista sociale, egli si colloca nella cultura cattolica
intransigente, che non gli impedisce tuttavia di compiere passi sulla via del riawicinamento con l'Italia
ufficiale, né di avvertire l'urgenza di introdurre delle riforme per avvicinare la Chiesa ai bisogni spirituali
delle masse.
Il fatto che, per quanto povere fossero le sue origini, egli rifiuti di elargire benefici alla famiglia è inteso
come un atteggiamento critico che rompe con un costume consolidato di favoritismi e nepotismi più o meno
larvati.
Dati i problemi lasciati insoluti da Leone xm, egli ritiene necessaria una linea di ripiegamento, di «difesa
cattolica», secondo un programma di «restaurazione» per fronteggiare il processo di scristianizzazione
sociale. Il suo pontificato si dedica ad una riaffermazione priva di sfumature dei diritti della Chiesa e ad una
strategia ad ampio raggio per ristabilire l'ordine sociale quale egli reputa secondo il volere di Dio. Davanti
agli spettacolari progressi di un liberalismo prevalentemente antireligioso, di un socialismo prevalentemente
materialista e di uno scientismo presuntuoso, Pio x avverte l'imperativo di erigere il papato contro la
modernità, spezzando ogni tentativo di avviare un compromesso efficace tra i cattolici e la nuova cultura. Il
suo orientamento reazionario, che tanta delusione suscita negli ambienti che hanno atteso un papa «non
politico», suscitatore di rinnovamento religioso, si esprime anzitutto in campo dottrinario, con la condanna
del modernismo nell'enciclica Pascerteli (1907) e la repressione, spesso di tono poliziesco e indiscriminato,
delle correnti più fresche dell'intelligenza cattolica.
In campo politico, egli si lascia orientare dalla convinzione che la linea conciliante di Leone xm fosse
perdente e, salvo il caso dell'Italia (dove approva il Patto Gentiloni fra l'ala moderata dei cattolici e i liberali,
affossando il popolarismo della nascente Democrazia Cristiana) riprende la politica intransigente di Pio ix.
Egli considera la separazione della Chiesa dallo Stato come un sacrilegio, come gravemen
te ingiuriosa nei confronti di Dio, al quale bisogna rendere, a suo avviso, non solo un culto privato, ma altresì
uno pubblico. Nell'anticlericalismo non pare discernere la richiesta, ancora incerta ma degna di
approfondimento, di una società postsacrale né riesce a cogliere la lezione implicita nella crescente
divaricazione tra l'ideale cristiano e le nazioni.
Le relazioni della Santa Sede con la Spagna, con il Portogallo, con l'Inghilterra, e persino con la Russia, più
tardi quelle con la Germania, infine con l'Austria (che rifiutava di sospendere un professore di diritto
canonico di Innsbruck, di aperte simpatie modernistiche) portarono talora a rotture diplomatiche, comunque
all'isolamento, proprio quando, allo scoppio della grande guerra, la missione del Vaticano avrebbe potuto
essere più utile, per le sue risorse di moderazione e di mediazione, a scongiurare la precipitazione
dell'Europa verso il peggio.
In effetti, i documenti disponibili sembrano confortare l'opinione secondo la quale l'atteggiamento di Pio x di
fronte alla guerra austroungarica contro la Serbia fosse piuttosto improntato all'approvazione che non alla
distanza critica. Dopo la rottura della Francia con Roma, l'Austria gli appare il solo grande Stato cattolico in
Europa, il baluardo contro il protestantesimo tedesco e contro lo slavismo ortodosso. Col suo segretario di
Stato Merry del Val, egli sembra scorgere nella Serbia il tarlo roditore che potrebbe alla lunga mettere in
pericolo l'esistenza stessa dell'Impero asburgico. Essi sono persuasi che qualsiasi indebolimento
dell'influenza austriaca nei Balcani e nel bacino danubiano non potrebbe che giocare a favore della Russia,
che considerano il principale avversario del cattolicesimo nel Vicino Oriente. Anche a non contare le
personali simpatie del papa per il vecchio imperatore Francesco Giuseppe, sono molteplici i fattori obiettivi
che riducono l'atteggiamento pontificio dinanzi alla guerra a blande esortazioni alla preghiera, senza una
parola profetica di condanna.
Questa visione pessimistica e teocratica trova una manifestazione particolarmente incisiva nella politica di
Pio x verso l'istituzione romana. La riorganizzazione della Curia porta a rafforzare gli interventi delle
congregazioni romane nei confronti del mondo cattolico, accelerando il processo di concentrazione del
potere nelle mani di pochi uomini. Il controllo curiale si accentua sugli ordini religiosi così come sulle
nomine dei vescovi. Si assiste ad una espansione della tendenza di assegnare in pratica alle congregazioni
romane la medesima autorità del magistero infallibile.
Nel corso della repressione antimodernista il papato sollecita la più incondizionata adesione non solo agli
ordini diretti di Sarto ma anche all'espressione dei suoi desideri, inoltrati mediante il suo entourage. Insieme
al carattere autoritario del papa, questi e altri segnali persuadono la maggior parte dei testimoni sinceri che si
voglia esten
dere in modo abusivo l'infallibilismo papale, quasi per sopperire con un eccesso di autorità religiosa alla
ferita ancora aperta del potere temporale perduto. È indubbia la tendenza a identificare l'istituzione papale
con la Chiesa intera, la Santa Sede con il popolo di Dio. «Vi è un solo vescovo ormai nel mondo, ed è Pio x»,
scrive un testimone, a cui fa eco il vicario generale d'Albi, L. Birot: «Mi sembra di poter affermare che la
Chiesa è sotto il regime d'una dittatura. Le condizioni di diritto sono abolite, le garanzie individuali non
esistono più, di fronte ad un potere personale formidabile». Questo processo di monarchizzazione della
figura papale si traduce non solo in un'arbitraria amplificazione della nota dell'infallibilità al magistero
ordinario, ma anche in un costume di ossequio non di rado sconfinante nel servilismo, nel gregarismo, nella
sudditanza acritica e taciturna scambiata per fedeltà. È un costume che si allarga nel mondo cattolico, e che
trova il suo racconto, per così dire tipico, in una pagina delle Sorelle Materassi, dove Aldo Palazzeschi riproduce l'eco del mito papale quale si recita in quel giugno 1914. Le sarte fiorentine del romanzo vanno a
Roma, in udienza. Portano per Pio x una stola, una magnifica stola, ricamata con le loro mani per giorni e
notti, con commozione struggente. A Roma «si avvicinano annichilite al palazzo apostolico, inghiottite dalle
fauci maestose di quella mole». Arriva il papa, ed è un'apparizione, in un fascio di luce, col potere di
impartire «la suprema benedizione terrestre». Quando giunge dinanzi a loro, nella Sala delle Benedizioni, le
sorelle non sanno che cadere in ginocchio, schiantate, erompono in un pianto silenzioso, chiedono
mormoranti qualche benedizione per le anime dei loro morti, mentre sulla loro confusione scende dalla bocca
papale, «sorridente di amore paterno e peraltro mancante di alcuni denti», una anonima protezione.
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La riforma elettorale del 1904
Premuroso tuttavia di mettere il clero cattolico in condizione di svolgere al meglio la sua missione, Pio x
procede ad un certo aggiornamento del diritto e delle istituzioni ecclesiastiche, rimaste sostanzialmente
strutturate sulle norme tridentine di quasi quattro secoli prima. Già all'indomani dell'elezione egli manifesta
l'intenzione di far preparare un nuovo codice di diritto canonico, che sarà pubblicato dopo la sua morte. Nel
1908 pubblica tre decreti per la riorganizzazione della Curia romana per adeguarla allo sviluppo della
centralizzazione ecclesiastica e per redistribuire gli uffici in modo più razionale fra i dicasteri.
Nemmeno il sistema elettorale resta indenne dall'interesse di Pio x.
184
Nella costituzione Commissum Nobis del 20 gennaio 1904, provocata dai fatti accaduti nel conclave
dell'anno precedente, egli abolisce «il Veto civile, o esclusiva come vien detta, anche sotto forma di semplice
desiderio, così come tutti gli interventi, intercessioni in qualsia' si forma». Egli fulmina contro i cardinali che
ardiscono comunicare in qualsiasi modo al Sacro Collegio un veto dei governi la scomunica latae sententiae,
riservata in modo speciale al futuro pontefice. Meno di un anno e mezzo dopo l'elezione, Pio x riprende da
cima a fondo l'intera materia. La costituzione Vacante Sede Apostolica, del 25 dicembre 1904, abroga l'intera
normativa precedente e plasma uno strumento nuovo, modificando per quasi un secolo la fisionomia del
conclave. Il tono generale è di inasprimento delle norme. Non c'è solo la convalida delle proibizioni
dell'ingerenza laica, ma anche il rafforzamento delle clausole sul segreto, che viene esteso anche dopo l'avvenuta elezione del nuovo Pontefice, a meno di una formale dispensa del papa stesso. Si elimina, tra i sistemi
di votazione, quello dell' accessus, sostituito dalla duplice votazione mattutina e pomeridiana, ripetuta seduta
stante quando venga proclamato il mancato raggiungimento del quorum.
La clausura del conclave viene rafforzata, ma non le viene più assegnato lo scopo prioritario di sollecitare
una scelta più celere, bensì quello di garantire la segretezza dell'intero processo elettorale e difenderlo così
dalle intrusioni, in modo che l'eventuale portatore di un messaggio al conclave possa essere soggetto
esclusivamente alla legge ecclesiastica e, grazie ad essa, sottrarsi alle verifiche da parte di altri poteri. Quanto
alla documentazione sul conclave, Pio x dispone che venga conservata, ma escludendo qualsiasi trasmissione
di informazioni dagli elettori all'esterno.
Con le costituzioni Apostolicae romanorum Pontifìcum del 15 aprile 1910 e Edita a Nobis del 5 maggio
1914, Pio x interviene anche nei meccanismi interni del collegio cardinalizio, al fine di eliminare l'inconveniente del rapido mutamento di titolari delle sedi suburbicarie, con la conseguente perdita di stabilità di
governo pastorale per le diocesi loro affidate: il papa provvede a concedere ai cardinali di quei titoli un vescovo suffraganeo, che governi in nome e in vece loro. Anche le creazioni cardinalizie registrano
l'inclinazione centralista del «buon curato di campagna». Alla sua morte nel 1914 egli lascia un collegio
formato da 64 cardinali, di cui 61 europei, 3 nordamericani e uno latinoamericano. Di loro, 24 appartengono
alla Curia romana. Temibile appare la triade dei cardinali, tanto spesso oggetto di giudizi storici severi, che
concentrano nelle loro mani al vertice della Curia il massimo del potere: il cappuccino José Calasanz Vives y
Tuto, prefetto della Congregazione dei Religiosi, proveniente dalle file dell'integralismo spagnolo; l'uomo
forte Gaetano De Lai, segretario ' della Concistoriale e sorvegliante implacabile di nomine di vescovi,
diocesi e seminari; il segretario di Stato Rafael Merry del Val, an
ch'egli spagnolo e intransigente, cui una riforma della Curia quanto mai verticista finisce per assegnare un
campo di intervento praticamente sconfinato, allargando i poteri della Segreteria di Stato. Esaminata
complessivamente, quest'opera legislativa per la riorganizzazione dell'apparato ecclesiastico e del sistema
elettorale pontificio risente dell'esigenza non secondaria che si fa strada nella politica complessiva della
Santa Sede del xx secolo: quella di recuperare la borghesia. Il modello giuridico dell'elezione accoglie
sostanzialmente le conquiste elementari dello Stato borghese: la certezza del diritto, la regolarità delle
procedure, la cura della democrazia formale, la protezione delle libertà individuali di manifestazione del
pensiero, il l|,
rifiuto dei brogli elettorali e delle corruzioni, infine — paradossal
^
mente — una più acuta sensibilità nella distinzione della Chiesa dallo
Stato, del sacro e del profano, e delle rispettive autonomie. Con tutto ciò il sistema elettorale mostra anche di
reagire negativamente ai due maggiori fenomeni del tempo: il cambiamento ideologico della natura delle
potenze politiche, marcate dalla laicità quando non da un'ostilità verso la Chiesa, e la crescente influenza
della stampa nella società.
Mai in passato le leggi elettorali hanno mostrato una preoccupazione così acuta di difendere la libertà dei
cardinali, fino a ieri manipolata dalle potenze «cattoliche», come da quando gli interlocutori diventano
«laici» e, di fatto, la presa politica delle potenze — compresa l'Italia — si allenta, fino ad assicurare
oggettivamente alla Chiesa i conclavi meno condizionati e più liberi della sua storia dopo molti secoli.
Lo si può constatare: è solo ora che la difesa dell'indipendenza del conclave diventa reale, munita dì un
codice penale severo, ora che sono cessati o stanno per cessare gli «Stati cattolici» e le loro sistematiche
invadenze nell'elezione papale. Inoltre, si temono l'infiltrazione e i condizionamenti del nuovo potere,
rappresentato dalla stampa: perciò la legislazione elettorale impone misure sempre più rigide per il segreto
del conclave.
Così la segregazione del momento elettorale rispetto alla comunità cristiana si accentua, al pari di una certa
separatezza «infallibilista» delle funzioni del papa. Per cui, in buona sostanza, è ammissibile l'ipotesi che,
anche e soprattutto dopo i colpi inferti al potere temporale pontificio dal Risorgimento italiano, il processo di
laicizzazione dell'elezione papale e della sua subalternità alle logiche della potenza continui ad agire,
malgrado l'effettiva e incontestabile evoluzione religiosa dell'istituto. I punti di riferimento per l'elaborazione
giuridica non tornano ad essere principalmente le esigenze delle comunità cristiane come tali, bensì, sia pure
in modo più prudente, le esigenze politiche della Santa Sede, nella nuova situazione internazionale, e nei
nuovi equilibri del sistema borghese quali si vanno definendo e riconcentrando con la prima guerra
mondiale; mentre la Russia dei
bolscevichi si avvia alle prime ondate rivoluzionarie del febbraio 1917 e il movimento socialista preme sul
vecchio ordine anche nelle fabbriche e nelle campagne d'Italia.
Questa luce storica rimbalza freddamente sul volto mite di un papa che gli archivi hanno rivelato capace di
durezza. Emerso dall'ultima pretesa di ingerenza politica degli Stati cattolici, il suo modello di conclave non
si fa che ritratto d'una pretesa, simile e contraria, di autosufficienza della stessa Chiesa come potenza
ordinatrice della società. Non sono ormai più rari gli storici che, pur aderendo — talora con disagio — ai
motivi per i quali quest'uomo è stato proclamato santo da Pio XII, non esitano ad indicarne le pesanti
responsabilità per aver ritardato il clero e il laicato cattolici del suo tempo ad inserirsi nel processo evolutivo
del mondo contemporaneo, e per aver tollerato, e persino favorito, l'azione oppressiva di un pugno di
cardinali reazionari, poco disposti a moderare le visioni troppo unilaterali del Superiore, per valorizzarne
invece le generose aperture al rinnovamento religioso.
Quasi ottantenne, Sarto — che da anni soffre di gotta — subisce un tracollo nel 1914, nella congiuntura della
crisi europea. Egli muore di polmonite acuta nella notte del 20 agosto, giorno dell'ingresso delle truppe
tedesche a Bruxelles, nel Belgio neutrale. La Grande Guerra è cominciata.
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CAPITOLO XI.
II conclave nella crisi europea: da Benedetto XV a Pio XII.
I cardinali raggiungono Roma a stento in quell'agosto del ' 14, attraverso un'Europa sconvolta dalla guerra,
per stazioni ferroviarie rigurgitanti di eserciti in marcia verso il massacro. Nessuno di loro è in grado di
prevederne le agghiaccianti proporzioni finali. Vi è peraltro la sensazione che la posizione della Santa Sede
si è fatta critica e che il papa da eleggere deve essere dotato di una abilità diplomatica poco comune. La
guerra non oppone solo le maggiori potenze, l'Intesa e la Triplice Alleanza, ma anzitutto e più
profondamente concezioni politiche antitetiche, culture, interessi economici, modelli politicosociali
contrapposti, una visione irriducibilmente conflittuale dei rapporti internazionali.
Una belligeranza ideologica di tale portata investe anche la Chiesa romana, precisamente nella fase in cui ha
portato all'apogeo il tentativo di rinserrarsi in una propria campana di vetro, per ricompattarsi su se stessa,
illusa di poter isolare il proprio destino da quello della sorte comune.
La investe invece questa storia di lacrime e sangue, e la sconvolge precisamente nei giorni d'una Sede
Vacante, dunque della sua massima esposizione istituzionale, diciamo della sua fragilità pubblica oltre che
del suo isolamento internazionale.
Si può dire che la guerra entra, in certo modo, nel conclave, determinando direttamente uno e forse il
principale criterio di selezione dei candidati.
Si nota infatti un ampio accordo tra i cardinali sull'impossibilità di eleggere un papa che, per quanto coerente
con la propria funzione, possa apparire espressione di una delle parti in causa o di essa sostenitore. L'Italia
mantiene per ora una linea neutrale, e questo favorisce l'orientamento verso un «papabile» italiano. Tuttavia
la rosa dei candidati subisce una riduzione ulteriore non appena si eliminino coloro che sono stati nunzi nelle
nazioni ora in guerra, tanto più se abbiano preso partito per questo o quello dei fronti.
Non c'è solo la guerra a incombere sul conclave. Ci sono anche i veleni della violenta campagna
antimodernista condotta per anni dagli integralisti, all'ombra del papa veneto e del suo Sodalitiumpianum,
l'organizzazione segreta istituita per la repressione. Lo sanno in molti che un certo numero di cardinali, anche
italiani (Andrea Carlo Fer
rari di Milano, ad esempio, Pietro Maffi di Pisa, Giacomo Della Chiesa di Bologna) sono convinti che si è
esagerato, specialmente sulla questione dell'epurazione dei sindacati cristiani e che è necessario porre fine
alle forme eccessive di caccia antimodernistica. Proprio per questo — osserva Monticone — «l'equilibrata e
solerte attività pastorale finiva per essere il più sicuro metro di valutazione per una bene accetta
candidatura».
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L'elezione di Giacomo Della Chiesa.
II conclave prende quattro giorni, dal 31 agosto al 3 settembre 1914, con dieci scrutini, quattro al giorno,
segretissimi. Vi partecipano 57 cardinali (di cui nove francesi, otto austrogermanici, cinque spagnoli), otto
altri essendo assenti o perché, non avendo prestato ancora giuramento, non sono stati convocati, oppure per
motivi di salute. I due terzi sono costituiti esattamente da 38 voti.
Considerando i criteri di selezione scaturiti dall'esame congiunto della emergenza bellica e di quella
ecclesiastica, il collegio sembra maggioritariamente propenso a vagliare candidature moderate, di uomini
tenuti ai margini dal Vaticano di Pio x, come appunto Maffi e Della Chiesa, che vanno in testa fin dal primo
scrutinio con 12 voti ciascuno. Maffi è reputato «italianissimo» e aperto dal punto di vista sociale, ciò che gli
attira molte simpatie, ma anche opposizioni accanite. Perciò egli non riesce a superare mai i 16 voti. Invece,
di scrutinio in scrutinio, Della Chiesa vede avanzare i propri: 16, 18, 21.
Sotto l'influsso del cardinale De Lai, gli avversari della tendenza più liberale corrono ai ripari, coagulando i
loro voti intorno al pio cardinale benedettino Domenico Serafini, che riesce a toccare rapidamente i 24 voti.
Tuttavia la lenta progressione di Della Chiesa prosegue e, al decimo scrutinio, il 3 settembre, egli è eletto con
38 voti, contro i 18 di Serafini: i due terzi netti.
La scelta di un diplomatico rampolliano come Della Chiesa conferma una delle costanti storiche dell'istituto
conciavano, quella sorta di pendolarismo che coglie l'interruzione tra un papato e l'altro, se non per una
rivincita delle minoranze, certo per un riadattamento degli equilibri acquisiti. Anche in questo conclave si
verificano delle alleanze programmatiche che, pur senza assumere la portata di un vero e proprio capitolato
elettorale, introducono orientamenti nuovi e squadre politiche corrispondenti al vertice del governo
ecclesiastico. La scelta come segretario di Stato di Domenico Ferrata e, dopo la sua morte appena tre
settimane più tardi, di Pietro Gasparri, segnala che la linea si ridefinisce su un ritorno allo spirito di Leone
xm.
Del resto un brano nell'enciclica inaugurale Ad beatissimi intima
esplicitamente agli integralisti l'ordine di por fine alle loro campagne di denuncia e spionaggio
indiscriminate.
Per cogliere la relazione tra la vicenda del conclave del ' 14 e le scelte governative di Benedetto xv è
indispensabile approfondire l'analisi dell'elezione, e delle alleanze che vi si sono verificate. L'impresa sarebbe per sé difficile, se non impossibile, dato che da questo conclave è entrata in vigore la normativa di
Sarto sul segreto degli scrutini.
Tuttavia, la pubblicazione nel 1963 del diario segreto dell'arcivescovo di Vienna cardinale Federico Gustavo
Piffl (18641923) ha messo a disposizione degli studiosi tutti i dati necessari per «entrare» nei conclavi del
1914 e del 1922.
Il cardinale non aveva certo intenzione di violare la clausola e infatti in cima alla busta contenente i due
carteggi aveva scritto: «da bruciare alla mia morte». Senonché, qualcuno evitò di dare alle fiamme quelle
carte e così l'archivista Max Liebmann potè pubblicarle.
Il primo carteggio mostra non solo il clima generale dell'elezione, ma il sottile tramarsi delle manovre, delle
diffamazioni taglienti, delle aggregazioni politiche sotto lo sguardo dominatore e l'intensa attività della Curia
romana.
È uno spaccato dal vivo di quello che è la materia umana, molto umana, talora troppo umana d'un conclave.
Le notizie più interessanti riguardano il gruppo omogeneo dei cardinali austroungarici e la loro decisione di
«votare per Della Chiesa al primo scrutinio per poi concertare in seguito nel conclave il nostro voto».
La decisione viene adottata in una riunione tenuta alla vigilia del conclave nella chiesa di Santa Maria
dell'Anima a Piazza Navona. Essi convengono di «scartare Maffi come italianissimo e modernizzante;
Ferrata per ragioni private. Per noi entrerebbero più particolarmente nel conto: Gasparri, Pompili e Della
Chiesa».
Nella pagina 190 si veda il quadro sinottico degli scrutini, quale è riportato dalle note di Piffl.
Prima del secondo scrutinio, il diario di Piffl riferisce che il cardinale Agliardi, ex nunzio a Vienna e
vicedecano del Sacro Collegio, «invita i tedeschi e gli austriaci a votare per Maffi che ha un'intelligenza di
maggior spicco, mentre Della Chiesa è un "mediocris homo", un buon burocrate. Nondimeno, al nuovo
scrutinio, noi voteremo ancora per Della Chiesa».
Un altro attacco al candidato viene portato dall'arcivescovo di Colonia cardinale Felix von Hartmann,
ispirato dal curiale cardinale Gaetano Bisleti.
La sera del primo settembre Hartmann «emette l'opinione che noi non perverremo a far eleggere Della
Chiesa, dato che: 1. la sua elezione sarebbe interpretata come un affronto verso Pio x; Della Chiesa è stato
infatti sottosegretario di Stato di Rampolla e, in seguito, ha continuato
a lavorare nel suo spirito, per questo d'altronde è stato trasferito a Bologna; 2. egli ha un carattere violento; 3.
egli non è rappresentativo. Noi decidemmo tuttavia di votare di nuovo per Della Chiesa e di concertarci
un'altra volta se la posizione rispettiva dei candidati dovesse modificarsi». Si sfalda dunque il fronte
austroungarico. E tuttavia la candidatura dell'arcivescovo di Bologna si consolida, passando dai 20 voti nel
quinto scrutinio ai 27 del sesto e ai 31 del settimo. La candidatura di Maffi contemporaneamente si brucia,
scendendo da 13, a 7, indi a 2. La Curia propone allora il suo uomo, il cardinale Domenico Serafini, che dal
1911 è assessore del Sant'Ufficio. Egli sale da 10 a 17 a 21 voti.
Nell'ultimo scrutinio, l'ottavo, di quel 2 settembre, Della Chiesa migliora a 32 e Serafini gli si presenta ormai
solo antagonista, con 24 voti. Il primate d'Ungheria e arcivescovo di Esztergom cardinale Giovanni Csernoch
confida al collega Piffl: «Serafini è il candidato di De Lai e di tutti i cardinali della Curia che non vogliono
perdere la loro posizione. Che De Lai manovri a favore suo è un fatto certo e significativo. De Lai desidera
una marionetta da poter dirigere a suo piacimento».
Il ruolo inquisitoriale di Serafini basta a far capire il significato della sua candidatura: lo scontro non è solo
fra cardinali più o meno austriacanti, ma principalmente tra cardinali fautori della linea di Pio x, i più
intransigenti, e quelli favorevoli a una linea distensiva. I primi volentieri porterebbero al papato Merry del
Val, ma essendo egli ormai bruciato, votano Serafini con lo scopo preciso di impedire che il successo di
Della Chiesa sia troppo consistente. Il 3 settembre, la soluzione: al nono scrutinio, Della Chiesa migliora
ulteriormente, conquistando altri due voti e raggiungendone in totale 34, mentre Serafini ne perde
esattamente 2, scendendo a 22.
Il decimo scrutinio, il decisivo, assicura a Giacomo Della Chiesa i trentotto voti sufficienti all'elezione:
un'elezione di stretta misura.
Il partito curiale ha perseverato fino all'ultimo nel sostenere Serafini. A norma di legge e secondo una
richiesta del partito curiale si procede all'apertura delle schede per controllare se Della Chiesa abbia votato
per se stesso. Infatti se il sospetto si rivelasse fondato l'elezione sarebbe nulla, perché i due terzi dei voti
sarebbero stati raggiunti solo con il voto determinante dell'eletto.
Adoperando il complicato sistema che salva il segreto pur consentendo di controllare i voti, il conclave
individua la scheda di Della Chiesa la quale è contrassegnata da un simbolo a lui solo noto. La si apre. Così
infatti prescrive la legge, e si accerta che il voto dell'eletto è stato leale. Ma certo, a parte l'umiliazione
terribile per il nuovo papa, resta difficile evitare il sospetto che si tratti di un espediente della Curia, se non
per annullarne l'elezione, almeno per fargli capire con chi avrà a che fare.
Con la nomina immediata dell'ex nunzio a Parigi Ferrata come segretario di Stato, il nuovo papa reagisce alla
prova di forza del partito della Curia affermando invece la propria decisione di esercitare liberamente la
propria sovranità, in funzione della nuova linea uscita vincente dal conclave. «È una sorpresa», annota Piffl,
«che non farà una troppo buona impressione sul governo austriaco, anche se io credo che l'integrismo di una
marionetta di De Lai sarebbe stato più pericoloso dei sentimenti del cardinale Ferrata di cui si è sempre affermata, ma non provata, la natura francofila.»
Benché le sanzioni minacciate da Pio x nei riguardi di chiunque tentasse di interferire con veti analoghi a
quelli che hanno estromesso la candidatura di Rampolla nel 1903 abbiano sconsigliato nuove intercettazioni
della libertà degli elettori, pure le pregiudiziali politiche e gli impasti nazionalistici dei singoli gruppi
cardinalizi non hanno fatto nemmeno questa volta del conclave una serra mistica.
Due giorni dopo la morte di Pio x, ad esempio, il conte Leopold Berchtold, ministro degli Esteri austriaco,
inviava al suo ambasciatore in Vaticano le seguenti istruzioni: «il cardinal Ferrata è considerato franco filo, il
cardinal Maffi un convinto nazionalista, mentre il benedettino Serafini viene descritto quale persona pia e
dotta, e dal punto di vista politico del tutto scevro da pregiudizi. Io faccio sapere ai cardinali portatori del
segreto dell'Austria che noi non abbiamo alcuna velleità di influenzare in un modo qualsiasi l'elezione
papale, ma che d'altra parte non possiamo fare a meno di prendere in considerazione il fatto che sarebbe di
comune interesse, sia per la Chiesa che per la monarchia asburgica, che dal prossimo Conclave non uscisse
un papa legato da sentimenti politici o nazionalisti».
In realtà, l'atteggiamento del gruppo austroungarico non seguì, come abbiamo visto, le «veline» della corte
viennese, e seppe adottare criteri abbastanza autonomi, quasi segnalando la preoccupazione
egemone in quel conclave, anzitutto di procedere alla svelta, per rendere possibile ai cardinali di tornare con
urgenza nei paesi sconvolti dalla guerra (il cardinale francese Billot, a scrutini già iniziati, fu raggiunto dalla
notizia che due suoi nipoti erano caduti sul campo di battaglia), poi di spingere la Chiesa al di là del
pessimismo di papa' Sarto, sulle frontiere d'un mondo insanguinato, in una ripresa dello slancio di Leone xm.
Benedetto xv (1914-1922).
È in spirito leoniano che si svolge il regno di Benedetto xv, papa dal 3 settembre 1914 al 22 gennaio 1922. A
lui gli storici assegnano concordi il merito di aver intuito che la Santa Sede sarebbe potuta uscire
dall'isolamento internazionale in cui era precipitata soltanto con una compiuta scelta religiosa e un bagno
salutare di realismo umano. Come sottolinea Monticone commentando la prima enciclica, «il richiamo al
Buon Pastore e al mandato di pascere il gregge del Signore viene assunto a fondamento di tutta l'azione del
successore di Pietro con una rilevante novità: quel gregge non è identificato soltanto nella Chiesa, bensì in
tutta l'umanità, per cui il papa è ripetutamente definito padre di tutti gli uomini e la sua missione vista in
prospettiva universalistica. Anche i predecessori non avevano mancato di sottolineare la pienezza e
l'universalità del ruolo del pontefice, ma Benedetto xv vi annette aspetti originali nella loro accentuazione
quali un vivo senso missionario, uno spirito di chiara tendenza ecumenica e un primato della paternità. Così
evangelizzazione e diplomazia, magistero e carità, appello ai cattolici e mano tesa agli altri, trovano la loro
comune giustificazione in questo punto di partenza del programma pastorale di Benedetto xv.
Malgrado la crisi in cui versa la credibilità della Santa Sede sul piano internazionale, e benché la sua voce
rimanga più spesso elogiata che ascoltata, questo papa persegue il disegno di trasformare il papato in una
istanza della coscienza dei popoli, libera dalla subordinazione politica dei potenti e delle potenze. Egli
impegna attivamente la Santa Sede in un rilancio della sua attività diplomatica per sollecitare le potenze a
desistere dalla guerra, fino ai concreti quanto sterili interventi di mediazione tra i belligeranti e all'appello
contenuto nella Nota ai Capi dei popoli belligeranti del primo agosto 1917, con la condanna così recisa e
totale della guerra, definita «inutile strage», quale mai era apparsa prima nella Chiesa romana.
Questo attivismo del papa, coadiuvato da un ristretto gruppo di collaboratori e diplomatici della Segreteria di
Stato (Gasparri, Tedeschini, Cerretti, Pacelli, Maglione, Ratti, Marchetti) adotta un pragmatismo e un
dinamismo impensabili nel pontificato appena cessato. Papa Della Chiesa lo collega alla tesi, che gli è tanto
cara quanto evidente, secondo
ir
la quale la Santa Sede è «non neutrale ma al di sopra delle parti», non dunque estranea alle tensioni e alle
tragedie del consorzio civile, bensì in una superiore imparzialità, perché pronta a confondersi con le ragioni
delle vittime, non più con le ragioni dei potenti.
Questa fase di rifondazione teorica della presenza del papato nella scena internazionale si avvale di una
cospicua gamma di argomenti politici, rispetto al prevalere delle questioni ecclesiastiche del decennio
precedente: si ammette facilmente, tanto è evidente, che l'interesse vaticano è rivolto ai problemi pastorali,
alla tutela delle istituzioni cattoliche, alla promozione del laicato, alla legittimazione delle sue autonomie
responsabili in un campo politico e, del tutto originalmente, ad una ristrutturazione ideologica dell'attività
missionaria della Chiesa, che l'enciclica Maximum ìlluddel 30 novembre 1919 distingue nettamente dagli
interessi del colonialismo e dell'eurocentrismo culturale.
Tuttavia emerge con più maturità e coerenza, in questa fase, un'attenzione non più strumentale né tanto meno
irritante o sospettosa allo spessore della realtà sociopolitica, con un ripensamento globale della missione
della Chiesa che si ritiene di dover verificare anzitutto nella risposta ai bisogni dei popoli e alle esigenze
della condizione umana, tanto più se gravata dall'oppressione e dalla sofferenza.
Sotto l'abile guida del cardinale Gasparri, la Santa Sede svolge un'azione che è insieme religiosa, umanitaria
e politica, laddove la politica si propone ora in modo sensibilmente diverso da quella temporalistica.
Malgrado i suoi sforzi, l'ansietà etica e umanitaria del papa non incontra che rifiuti, malintesi e
incomprensioni, anche presso i cattolici, forse troppo invischiati nei nazionalismi per intuire la verità
dell'appello di Benedetto xv a considerare «i diritti e le giuste aspirazioni dei popoli».
Verso la fine del pontificato il papa compie una ricognizione della debole efficacia dei suoi interventi, anche
presso governi o partiti cattolici, riesaminando i rischi d'una nuova forma di compromissione temporalistica
della Chiesa. La netta distinzione tra compito religioso e intervento politico ha già improntato le prese di
posizione papali tra i belligeranti, ma ora gli effetti della Rivoluzione d'ottobre, le vicende iniziali della
Repubblica di Weimar e specialmente la congiuntura italiana inducono la Santa Sede ad assumere più
nettamente le distanze dalla battaglia politica, benché ritenga di non poter esimersi dal rivendicare il proprio
diritto a garantire anche nella politica la salvaguardia dei valori etici e religiosi.
La storiografia più accreditata di questo pontificato di poco più di sette anni conclude per un enorme
guadagno di universalismo per il papato. L'espansione delle nunziature e l'intensificazione dell'attività
diplomatica su tutti i fronti critici della scena internazionale non sono che il riflesso politico di un aumento
della «cattolicità del cattolicesimo» sul piano delle missioni e della cultura, terreni sui quali il
papa autorizza il dialogo con la società moderna. Nel 1921 egli dispone lo scioglimento del nefasto
Sodalitium Pianum. Tuttavia lo scacco, nell'immediato, appare incontestabile: tenuta ai margini della
Conferenza di Versailles e di SaintGermain, esclusa dalla Società delle Nazioni, inascoltata sui princìpi del
diritto internazionale alla cui tutela ora appare sinceramente appassionata, la Santa Sede ha modo di riflettere
sul fatto che l'aver lasciato troppo a lungo inevasa la formazione delle coscienze ad una fede adulta è una
lacuna più gravida di perdite di quanto lo siano i suoi fallimenti diplomatici.
Nel 1917 Benedetto xv promulga il Codice di Diritto Canonico, elaborato da una commissione all'epoca di
Pio x. Il sistema elettorale pontificio trova in questo quadro una definizione caratterizzata dalla prudenza:
l'elezione papale resta sempre e comunque prerogativa esclusiva del collegio cardinalizio, nel quale per questa occasione recuperano pieni diritti anche gli scomunicati, gli interdetti o sospesi, ma non i deposti o coloro
che abbiano rinunciato al cardinalato.
Riemerge la diffidenza del moderno diritto canonico verso il Concilio, che viene dichiarato sciolto alla morte
del papa, per cui non si può affacciare il pericolo d'una elezione «conciliare» del papa. La struttura del
collegio cardinalizio resta articolata in 6 cardinali vescovi, 50 cardinali preti e 14 diaconi, per un complesso
di settanta membri, secondo il tetto stabilito da Sisto v. Come sospetto è il Concilio, così ogni altra funzione
del Sacro Collegio che non sia quella elettorale: il potere di giurisdizione viene devoluto esclusivamente al
papa, così rinserrando con autorità il dibattito sulla compartecipazione del collegio cardinalizio al governo
della Chiesa romana.
Del resto Benedetto xv appare assai più favorevole ad accentuare le funzioni dei vescovi che non quelle dei
cardinali: egli attende quindici mesi prima di nominare i suoi primi cardinali, e ne lascia di nuovi appena
venticinque, su un collegio di sessantuno membri complessivamente, in maggioranza creati dai suoi
predecessori.
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L'elezione di Achille Ratti.
La relativa importanza attribuita alla questione del rinnovamento del collegio cardinalizio da Della Chiesa si
fa avvertire in modo poco positivo nel conclave del 1922, che si prolunga per cinque giorni e per quattordici
scrutini, un record nel ventesimo secolo.
Come dopo la morte di Pio x, due tendenze si affrontano in questo conclave, che si apre il 2 febbraio,
presenti 53 cardinali dei 60 aventi diritto (i cardinali americani non potevano arrivare a Roma in nave nei
dieci giorni fissati per l'attesa dei lontani): da una parte, coloro che esigono un ritorno alla linea rigida di Pio
x, dall'altra coloro che
auspicano la continuazione della politica più aperta di Benedetto xv.
Questi ultimi sostengono la candidatura dell'ex segretario di Stato cardinale Gasparri, i cui voti salgono
progressivamente a 24 mentre gli altri prima votano per Merry del Val, quindi — visto che la sua candidatura
non decolla — si spostano sul patriarca di Venezia Pietro La Fontaine, che non sfonda il soffitto dei 22 voti.
A partire dal nono giro, il conclave conosce un riawicinamento, e lo realizza sul nome del cardinale milanese
Achille Ratti, che ha ottenuto dall'inizio 4 o 5 voti.
Ma seguiamo anche la vicenda di questo conclave sfogliando le pagine delle note segrete lasciateci dal
cardinale di Vienna Federico Gustavo Piffi, che potremmo integrare con le note vergate dal cardinale La
Fontaine.
Arrivato a Roma il 27 gennaio 1922, accolto alla stazione dall'incaricato d'affari austriaco in Vaticano,
barone Ludwig von Pastor, il cardinale Piffl partecipa la sera stessa a una riunione dei cardinali di lingua
tedesca: «facciamo un giro d'orizzonte delle candidature da ritenere. Cinque qualità ci sembrano richieste: 1.
un uomo con una vita religiosa profonda; 2. un diplomatico; 3. uno scienziato; 4. un uomo politico; 5. una
posizione corretta verso il governo italiano. Van Rossum, secondo quanto ci riferisce Schulte (arcivescovo di
Colonia) è del parere che converrebbe eleggere questa volta un cardinale che non sia italiano e propone la
candidatura di Merry del Val. Gasparri non riuscirà. Ratti è troppo poco uomo di princìpi; lo stesso è di
Laurenti. Le relazioni del papa futuro col governo italiano continuano sempre a giocare il loro ruolo. Noi
dobbiamo tenerne conto».
Per un papa straniero si pronunciano anche i cardinali spagnoli, il cui candidato è proprio Van Rossum,
prefetto di Propaganda Fide. Tra riti funebri e riunioni dei «novendiali», si sviluppano i contatti e i negoziati.
Le posizioni si vanno precisando: il partito dei diplomatici, capeggiato da Valfré di Bonzo, è per Ratti.
Il barone Pastor può già parlare di un terzo gruppo, quello dei partigiani del cardinale Maffi, «che hanno
Ratti per candidato». C'è il partito della Curia, capeggiato da Scapinelli, che è per Bisleti, prefetto della
Congregazione degli Studi; infine, il partito dei cardinali stranieri residenti a Roma, che è contro il cardinale
Gasparri e per Laurenti. «Noi ci accordammo anzitutto sulla scelta di Gasparri e per il secondo turno su
quella di Laurenti», annota Piffl. I sostenitori della linea di Benedetto xv sono per Gasparri, quelli della linea
di Pio x ben presto svelano la candidatura del patriarca di Venezia, La Fontaine, in accoppiata con Merry del
Val, il segretario di Stato di papa Sarto.
Emergono gli istinti di restaurazione e di rivincita. Il 3 febbraio co
ÌT,
minciano gli scrutini, presenti cinquantatré cardinali: ci vogliono almeno trentasei voti per l'elezione.
Il primo scrutinio serve a saggiare la consistenza degli schieramenti: Merry del Val è subito in testa, con 12
voti, seguito da Maffi con 10, da Gasparri con 8, da La Fontaine con 4, da Ratti con 5 e da Van Rossum con
4.
Si intuiscono già le coppie antagoniste: Merry del Val e La Fontaine, come temporanea riserva, da un lato
(16 voti); Maffi con Gasparri e Ratti, dall'altro (23 voti), senza contare le naturali dispersioni degli incerti.
Al secondo scrutinio, quella stessa mattina, Merry del Val scende a 11, Maffi mantiene i suoi 10, mentre
Gasparri sale a 10 e La Fontaine a 9. Cinque elettori continuano a bloccare su Ratti. «Dopo il secondo
scrutinio, La Fontaine sembrava aver più possibilità», annota Piffl, «perché aveva ottenuto nove voti, ma al
terzo turno già perdette 7 voti, dato che, come si afferma, casi di squilibrio mentale si sono verificati nella
sua famiglia. Il risultato del terzo e quarto scrutinio ha manifestato l'esistenza di due tendenze: 1. la
riapparizione dei vecchi integristi con in testa Merry del Val; 2. la continuazione della politica di Benedetto
xv, tendenza per la quale il candidato è Gasparri. Merry del Val ha ottenuto 17 voti; Gasparri 13 voti. Merry
del Val è principalmente sostenuto da Van Rossum, perché costui auspica l'elezione di un non italiano e
attende dall'energia e dallo spirito di costanza di Merry del Val un rafforzamento della disciplina
ecclesiastica. A Gasparri si rimprovera soprattutto il suo nepotismo: se diventasse papa, sarebbe un
giocattolo nelle mani dei suoi parenti. Altri cardinali di Curia non condividono questo timore. La giornata di
domani chiarirà la situazione. Per mio conto, è un nuovo candidato di compromesso che mi piacerebbe di
più. Scapinelli propone in questo senso di eleggere Bisleti. Io preferisco Laurenti.» Sabato, 4 febbraio, la
sorte della candidatura di Merry del Val si estingue fra il quinto e il sesto scrutinio: perde 10 voti, scende a 7.
Questi voti affluiscono a La Fontaine, che il partito restauratore non teme di riproporre, malgrado il suo
passato di inquisitore e di eminenza grigia nella Curia sotto Pio x. La Fontaine ottiene anche due voti andati
a Bisleti. Cresce sull'altro versante la candidatura di Gasparri , che da tredici voti sale a ventiquattro,
recuperando i nove voti di Maffi e un voto di Ratti, per la prima volta in perdita. È a questo punto che i
giochi si decidono: se il partito novatore riesce ad acquisire a Gasparri anche solo alcuni voti in più nei
prossimi scrutini, il nuovo papa sarà nel solco di Benedetto xv. Non avverrà così. La composizione del
Collegio, rimasta strutturalmente e politicamente quasi identica a quella dei tempi di Pio x, ha per
conseguenza che la forza del partito intransigente è ancora troppo elevata per non frenare la spinta del partito
«benedettino»: si calcola infatti che il partito «romano», coordinato da De Lai, controlli ancora il 31% dei
voti.
Nel pomeriggio del 4 febbraio, il settimo e l'ottavo scrutinio lasciano Gasparri fermo a 24 voti, un segnale
pessimo, mentre il fronte avversario dimostra maggiore flessibilità e dinamismo, riuscendo a concentrare su
La Fontaine altri nove voti, portandolo a 22, prima, e a 21 poi. C'è un voto che fa la spola,
significativamente, tra La Fontaine e Ratti: il quale prima cede uno dei suoi 5 voti a La Fontaine, poi se lo
riprende, nel momento decisivo del conclave. L'ago della bilancia, di più l'arbitro di questa elezione è dunque
il gruppetto che porta Ratti e che non sposta un voto su Gasparri, preferisce darlo semmai al fronte
reazionario: e intanto lascia che i due maggiori antagonisti si elidano a vicenda.
Domenica 5 febbraio, al nono e al decimo scrutinio, i giochi sembrano fatti: le due parti si convincono che
bisogna disarmare e ripiegare sulla ricerca di un «terzo uomo». Salta così anche la seconda linea GasparriLa
Fontaine, dopo quella MaffiMerry del Val. Sembra dunque probabile, secondo queste testimonianze, che la
maggioranza per Ratti sorga per la cessione dei voti di Maffi e di Gasparri a suo vantaggio. In effetti, è lo
stesso Gasparri a favorire l'ascesa del Ratti, il quale passa da 5 a 11 e poi a 14 voti. Nei due turni pomeridiani, ottiene 24 e 27 voti, mentre La Fontaine (che recupera solo 4 voti di Gasparri) va a 23 e a 22.
Lo stesso Piffl riferisce l'ipotesi che «Gasparri sarebbe egualmente partigiano dell'elezione di Ratti»: un
accordo indubbiamente è avvenuto tra i due ecclesiastici, che si conoscevano dal tempo in cui Ratti era
prefetto alla Biblioteca vaticana.
Il revirement improvviso di Gasparri viene così ben dissimulato che solo tardi il capo dei reazionari,
cardinale De Lai, se ne accorge.
Prevedendo ciò che sarebbe avvenuto, e cioè che, una volta papa, Ratti avrebbe conservato Gasparri al posto
di segretario di Stato, De Lai avvicina il vincente promettendogli di far affluire sulla sua candidatura —
quasi rinnovando il sistema ora proibito dell'accessit — anche i voti del proprio gruppo a patto che fornisca
assicurazioni che chiamerà un altro al posto di segretario di Stato.
Secondo alcuni, l'impegno per l'allontanamento di Gasparri forma addirittura l'oggetto di una capitolazione
elettorale segreta. Indipendentemente dalle opinioni sul personaggio («una coscienza nobilmente cinica»,
secondo alcuni; «il Giolitti della Chiesa, uomo di gran mestiere, ma mestiere», secondo monsignor Giuseppe
De Luca; «un altro Consalvi», secondo Giovanni Spadolini) resta che quello che si trama alle sue spalle in
conclave è un passo gravissimo: significa condizionare l'elezione del papa e implica la scomunica automatica
per chi lo compie.
Secondo alcune fonti, il De Lai — che è stato uno dei più spietati cacciatori curiali dei modernisti, il
poliziotto dei primi preti e cristiani sociali agli inizi del secolo, come prefetto della Congregazione del clero,
e noto anche per aver accusato il giovane Roncalli di moderni
smo — non è però l'unico responsabile dell'operazione. Più volte il Gasparri riferirà ai suoi intimi, e annoterà
persino nelle Memorie, giacenti nell'Archivio vaticano, che il Merry del Val e il De Lai sono incorsi
entrambi nella scomunica, durante il conclave del 1922. .
Nel volume degli Atti di beatificazione e canonizzazione del cardinale Merry del Val si legge, tra l'altro, la
deposizione di monsignor Primo Principi: «dal cardinale Gasparri», riferisce il prelato al tribunale, «ascoltai
questa frase: "il cardinale Merry del Val era di un'ambizione sconfinata e durante il conclave che portò
all'elezione di Pio xi, il cardinale Merry del Val incorse nella scomunica' '. Chiesi al cardinal Gasparri come
la cosa fosse possibile e il cardinale mi disse che il cardinale De Lai, che era capo del gruppo che sosteneva
l'elezione del cardinale Merry del Val, quando si accorse che l'elezione non poteva riuscire, volle imporre al
cardinale Ratti, che stava per essere eletto pontefice, la condizione di non eleggere a segretario di Stato il
cardinale Gasparri».
Lunedì 6 febbraio, tredicesimo e quattordicesimo scrutinio. Nel primo, Ratti ottiene 30 voti e La Fontaine
soltanto 18. La manovra di Gasparri è riuscita. Nell'ultimo scrutinio, il decisivo, vista perduta la partita, nove
elettori di La Fontaine confluiscono su Ratti insieme a tre voti di Laurenti: per cui l'arcivescovo di Milano
viene eletto con 42 voti, sei in più dei due terzi, dopo quattro giorni di conclave durissimo.
Il diarista annota un episodio emblematico: «alla domanda del decano Vannutelli, se accettasse l'elezione,
Ratti non fornì subito, per qualche tempo, alcuna risposta. Fece conoscere in seguito la sua accettazione in un
discorso molto posato in latino e si diede il nome di Pio xi».
Questo lo specchietto globale degli scrutini:
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La politica di Pio xi (1922-1939).
Sarà Gasparri il nuovo segretario di Stato, ma non più che per sette anni: e gli apparirà chiaro, allora, il
significato di quel primo voto pendolare dal partito dei restauratori sartiani al candidato che egli ha pur favorito, illudendosi di poterlo assistere politicamente da un posto privilegiato.
Come scrive Giacomo Martina, «il nuovo pontefice era giunto alla tiara dopo una lunga vita di bibliotecario
e dopo un inatteso lancio nella vita diplomatica e una rapidissima carriera, in cui influirono largamente
circostanze fortuite [...]. Per la sua profonda avversione al liberalismo, in cui scorgeva soprattutto la tendenza
laicizzatrice, irriducibilmente ostile a un riconoscimento di quanto egli riteneva diritti propri della Chiesa,
per la fortissima opposizione al marxismo, di cui, come nunzio a Varsavia, aveva conosciuto da vicino il
pericolo, per il suo carattere fondamentalmente autoritario, Pio xi fu indotto ad assumere un atteggiamento di
cauto ottimismo verso il regime fascista, il cui avvento al potere nell'ottobre 1922 segue di poco la sua
elezione».
In contrasto con l'intransigenza inflessibile verso l'Action Frangaise — condannata nel 1926 come una
«nuova forma di modernismo politico e sociale» per il suo «nazionalismo integrale, la sua concezione
pagana della città e dello Stato, in cui la Chiesa non ha posto che come pilastro dell'ordine» — la Santa Sede
firma con l'Italia della dittatura fascista il Concordato del 1929, in occasione del regolamento definitivo della
Questione Romana, e conclude nel 1933 con la Germania un altro Concordato all'indomani dell'avvento di
Hitler al potere. Ovunque ne ha la possibilità, Pio xi cerca di ottenere la garanzia diplomatica di un
concordato. Nei diciassette anni del suo regno, la Santa Sede stipula dieci concordati — oltre a quelli con l'Italia e la Germania —, ventun patti diplomatici, otto convenzioni.
Questa «mania» concordataria di Pio xi non resta indenne da perplessità, anche in ambienti cattolici: per non
citare che alcuni esempi, essa solleva le preoccupazioni di George Bernanos, Alcide De Gasperi e don Primo
Mazzolari per la nuova confusione che si crea tra la religione e la potenza politica, con la richiesta agli Stati,
benché retti da regimi totalitari, di sostenere in modo privilegiato le attività della Chiesa romana. Pare che
Pio xi e i suoi consiglieri, profondamente convinti dell'influsso esercitato sulle masse dalle istituzioni, siano
inclini a vedere nei concordati la possibilità di far penetrare nelle legislazioni secolari un certo numero di
precetti del codice di diritto canonico, nella speranza di poter battere in breccia in questo modo la
secolarizzazione «laicista» della società, specialmente nella legislazione matrimoniale e nella scuola. Anche
la libertà della Santa Sede nella nomina dei vescovi è tra le stipulazioni costanti in questi negoziati, e tuttavia
l'istituto del gradimento governativo, o addirittura il riconoscimento di antichi privilegi nella scelta dei
vescovi mostrano quanto sia disponibile il pragmatismo ecclesiastico quando miri ad intascare vantaggi
d'altra natura, non sempre riconducibili alla testimonianza evangelica.
Ma in questa pesante partita doppia, figurano anche altri sacrifici. Il Vaticano saluta la firma del Concordato
con il Terzo Reich come la migliore garanzia possibile per i diritti della Chiesa. Ma il prezzo è elevato: il
cattolicesimo politico muore in Germania per la chiusura del partito del Zentrum e i sacerdoti si trovano le
mani legate dall'esclusione di ogni interesse «politico».
Non meno gravi i costi del Concordato col fascismo in Italia. Fra di essi, l'esilio di Don Sturzo,
l'accantonamento del suo Partito Popolare, la riduzione concordataria dell'Azione Cattolica alle sole attività
religiose, per compiacere il desiderio fascista di liquidare ogni organizzata opposizione, la rimozione di
Ernesto Bonaiuti dalla cattedra di storia del cristianesimo nell'Università di Roma, l'integrazione degli scouts
cattolici nell'Opera Nazionale Ballila, e in definitiva la cessione dell'obiezione statutaria del cristianesimo
alla mentalità di massa, al gregarismo e alla dittatura. Lo si è autorevolmente osservato: se la Santa Sede
firma concordati del genere per garantirsi una base giuridica utile alla resistenza della Chiesa contro le
violazioni del diritto comune, si è sbagliata almeno per eccesso di fiducia negli interlocutori, dato che
nessuno di questi dittatori concordatari si è arrestato davanti a un pezzo di carta, né potevano rispettare i
diritti della Chiesa ove non nutrivano rispetto alcuno per la sacralità dei diritti elementari della persona
umana.
Piuttosto, è opinione consolidata che i regimi fascisti che si sviluppano in Europa fra le due guerre
presentano alcuni aspetti che non sembrano talmente disgustosi al pontefice. Con la liquidazione dei Popolari
di Sturzo, egli sa bene di aver contribuito alla liquidazione della democrazia parlamentare in Italia. Del resto,
egli segue con simpatia i regimi di Salazar e di Dollfuss, appoggia 1' Anschluss dell'Austria alla Germania,
considerandolo una diga contro il socialismo viennese, è naturalmente con Franco in Spagna e parla di
Mussolini come di «uomo della Provvidenza».
La Chiesa di Pio xi appare lusingata nel vedere le idee di autorità, di ordine e di gerarchia, l'organizzazione
corporativa della società, la famiglia in onore, il controllo della moralità pubblica, il carcere per la
bestemmia, i crocifissi nei tribunali, negli ospedali e nelle scuole, i cappellani nelle caserme e nelle carceri,
la lotta alla massoneria e soprattutto al comunismo, tutto questo esser acquisito, sostenuto, creduto e pagato
dagli Stati. Di più, il papa e Civiltà Cattolica non risparmiano le manifestazioni di giubilo e di gratitudine
quando le truppe coloniali italiane, capeggiate dal generale Badoglio, conquistano Addis Abeba a colpi di
bombardamenti sulle popolazioni civili e di rappresaglie di massa, permettendo al regime di proclamare il 9
maggio 1936 l'impero.
Solo verso la fine del pontificato, l'accentuazione di aspetti anticristiani dei principali regimi fascisti
(ipernazionalismo, statolatria, razzismo) induce il papa a impegnarsi risolutamente in una lotta su due fronti,
in nome dei diritti della persona umana, contro le ideologie totalitarie di destra e di sinistra. La pubblicazione
simultanea, nel marzo 1937, di due encicliche, l'una contro il comunismo ateo — Divini Redemptoris —
l'altra contro il nazismo, — Mit Brennender Sorge — (il cui primo progetto è redatto dal cardinale Faulhaber
su richiesta del cardinale Pacelli) inaugura questa fase del pontificato caratterizzata dal tentativo di
ricostituire la Chiesa in principio di resistenza critica dinanzi alle pretese degli assolutismi statalisti, nazionalisti, classisti e razzisti.
Al momento della morte, il 10 febbraio 1939, Pio xi è impegnato nella stesura del discorso destinato
all'episcopato italiano convocato per l'indomani in Vaticano, per la prima volta nella sua storia, in occasione
del x anniversario dei Patti Lateranensi. Questo testo, incompiuto, non sarà reso pubblico che vent'anni dopo
e riflette — accanto alla preoccupazione di evitare la rottura — le disillusioni del papa, che dirige la sua
protesta contro il trattamento riservato alla Chiesa in Italia dal fascismo, equiparato allusivamente alla
persecuzione di Nerone.
Diversamente da Benedetto xv, Ratti intensifica la sua premura per restituire il collegio cardinalizio ad un
prestigio più adeguato. Dopo appena undici mesi dall'elezione egli tiene il primo concistoro e crea i
nuovi cardinali. Non passa anno, dal 1924 al 1930, senza un concistoro, che viene riconvocato altre quattro
volte dal 1933 al 1937.
A dispetto di questo attivismo, rimane il fatto che, alla morte di Pio xi, il collegio conta sessantadue
cardinali, con una forte maggioranza di italiani (35, pari al 56%) e 27 della Chiesa universale. Ben ventisette
sono cardinali di Curia, tutti italiani, salvo l'eccezione del cardinale Eugenio Tisserant, creato cardinale nel
1936 insieme a un altro uomo di cultura, il cardinale Mercati.
L'atteggiamento osservato da Pio xi nei confronti dei cardinali sfugge ad una classificazione categorica: nel
gennaio 1937 egli convoca i tre cardinali tedeschi per consultarsi con loro prima di decidere la stesura
dell'enciclica antinazista. D'altra parte ricorre al pieno della propria autorità quando spoglia della porpora il
brillante ma intransigente cardinale gesuita Louis Billot, — che l'aveva ricevuta nel 1911 da Pio x in premio
per la collaborazione teologica data alla redazione della Pascerteli e che era troppo coinvolto con il
movimento già condannato di Maurras. E non c'è dubbio che si appoggia sulla collaborazione del cardinale
Eugenio Pacelli, segretario di Stato a partire dal febbraio 1930, con tanto maggiore abbandono a misura del
venir meno delle proprie forze, specialmente per la grave malattia del novembre 1936. Ma intanto il Sacro
Collegio è svuotato di ogni funzione.
Si potrebbe dunque indicare nella forma diarchica che assume di fatto il potere pontificio nel Vaticano fra le
due guerre mondiali l'esito d'una esasperata condensazione politicodiplomaticogerarchica della struttura della
Chiesa romana, che rafforza enormemente il processo di centralizzazione interna nella convinzione di
riuscire a opporre la propria compattezza istituzionale alle pressioni degli assolutismi: senza tuttavia che si
presti sufficiente attenzione alla crescente separatezza che ciò apre tra il vertice della Chiesa e il «popolo di
Dio», e al rischio sempre più grave di isolamento interno del papato.
L'ideologia fondamentale per cementare questa Chiesa monolitica viene attinta alla teoria della «nuova
cristianità». Essa oppone ad una «pace illusoria, scritta soltanto sulla carta in un solenne conclave tra i
belligeranti», l'istituzione «capace di santificare la santità della legge delle nazioni, la Chiesa di Cristo:
questa istituzione è parte di ogni nazione, allo stesso tempo è al di sopra delle nazioni. Essa gode, anche,
della suprema autorità, la pienezza della potestà ministeriale degli apostoli» (enciclica Ubi arcano Dei, 22
dicembre 1922). Per la cooperazione internazionale il papato raccomanda alle nazioni che riprendano la parte
seconda della Summa Theologica di Tommaso d'Aquino, dove troveranno le norme per il governo dei popoli
e per stabilire reciproche relazioni. Il motto è «Pax Christi in Regno Chrìsti» (la pace di Cristo nel regno di
Cristo) e questa pace non si troverebbe che all'interno della «vera comunità delle nazioni» assicurata
dalla Chiesa cattolica. Una tale pretesa di centralità si riflette anche nei rapporti con il mondo ortodosso, che
vi scorge inevitabilmente una ripresa dell'imperialismo romano, e nelle relazioni con i protestanti, considerati
peggiorativamente alla stregua di «dissidenti da far tornare all'unica vera Chiesa di Cristo».
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L'elezione dì Eugenio Pacelli.
II conclave che si apre la sera del primo marzo 1939 sarà il più rapido (con quello di Luciani nel 1978) fra
quanti avvenuti negli ultimi tre secoli, e dall'esito più scontato.
Gli scrutini cominciano la mattina del 2 marzo e alle 17,25 dello stesso giorno, al terzo scrutinio, c'è già la
fumata bianca. Un'ora dopo, appare alla loggia della basilica vaticana la figura del cardinale Eugenio Pacelli,
eletto col nome di Pio XII.
Pacelli viene da una famiglia della piccola «nobiltà nera» romana e ha passato l'intera vita di sacerdote e di
vescovo al servizio della Segreteria di Stato: nel 1930 è divenuto segretario di Stato. Ha viaggiato molto ed è
molto conosciuto. È un «politico» e, personalmente, stagliato da un rigido senso di pietà ascetica.
In un momento di crescenti tensioni internazionali, sull'orlo di un'altra guerra mondiale e di fronte alla
crescente aggressività tedesca, l'ex nunzio in Baviera rappresenta per il collegio cardinalizio una conclusione
prevedibile. È stato lui a negoziare il concordato con la Germania nazista, lui ad avere un'esperienza dura, di
prima mano, della rivoluzione bolscevica quando la nunziatura è stata colpita da pallottole vaganti ed egli
stesso si è trovato di fronte ad un commando di spartachisti furenti.
I cardinali presenti sono 63 e procedono al conclave dopo aver atteso per diciotto giorni i colleghi americani:
per la prima volta, dopo molto tempo, tutti i cardinali viventi possono partecipare all'elezione, grazie ad una
disposizione di Pio xi che ha allargato appositamente i termini dell'inizio del conclave. La curia controlla da
sola il 44% dei voti, un pacchetto coordinato dal cardinale Granito Pignatelli di Belmonte, decano del
collegio, e ben sostenuto dai cardinali Canali, Pizzardo e Piazza. Se, da parte italiana, un certo numero di
cardinali residenziali inclina per un papa meno politico, cercandolo nella figura dell'arcivescovo di Firenze
Elia Dalla Costa, non si possono nutrire dubbi sulla prevalenza immediata dell'opzione per Pacelli, sostenuto
dalla maggioranza anche dei cardinali stranieri fin dalle congregazioni preconclavarie.
Poco dopo l'elezione, si è diffusa la voce che il cardinale Pacelli abbia ottenuto, al terzo scrutinio, l'unanimità
dei suffragi, meno il proprio, e sia stato dunque eletto con 62 voti, dato che i cardinali elettori presenti erano
appunto 63. La voce è stata lanciata da un informatore molto ascoltato dalle ambasciate, dalle agenzie di
stampa e dalle
redazioni dei giornali. Ma non si tratta di voce fondata. Anzi, essa è stata diffusa appunto per far credere a
un'unanimità che Pacelli certamente ha cercato e che non si è verificata e per dissimulare l'esistenza di una
minoranza che — secondo quanto ha riferito un testimone attendibile — «non poteva essere che italiana».
Il mito dell'unanimità è franato presto attraverso il modo d'informarsi senza interrogare tipico delle astuzie
delle case religiose che ospitano i cardinali venuti da fuori.
Per esempio, si grida dinanzi al cardinale Alfred Baudrillart: «È stupenda, questa unanimità che si è
affermata sul nome del cardinale Pacelli!».
«Unanimità? Veramente, ci si sbaglia», brontola il cardinale.
Resta da conoscere la cifra, almeno approssimativa della maggioranza. Per questo, il gioco continua: «II
cardinale Pacelli ha ottenuto 52
voti».
«Quarantotto», rettifica subito il vecchio storico francese, che si ritrova nel ruolo di professore. Attraverso
questo tipo di sondaggi, si arriva a farsi un'idea di ciò che è avvenuto nel fulmineo conclave. I dati saranno
confermati dalla pubblicazione di particolari fatta dalla Revue nouvelle. Dal complesso di testimonianze e di
notizie si può stabilire che il cardinale Pacelli è stato eletto al terzo scrutinio, con 48 voti su 63, sei più dei
due terzi. Quattordici voti, oltre al suo, sono rimasti all'opposizione. Il segretario di Stato ha ottenuto, al primo scrutinio, un numero imponente di voti: più di trenta. Secondo alcuni informatori, anche trentacinque. Per
riunire subito un blocco così alto di suffragi, bisogna che i cardinali stranieri abbiano votato il suo nome,
salvo poche eccezioni.
Di fronte al blocco dei suoi partigiani, gli avversari di Pacelli, quasi tutti italiani, si sono divisi. Essi hanno
sparso i loro voti fra parecchi candidati. Uno di questi è stato il cardinale Maglione, che ha probabilmente
ceduto i propri voti al futuro papa con un gesto di stima e un implicito patto: sarà presto il nuovo segretario
di Stato. Maglione non è stato però l'unico candidato alternativo (nei limiti di una testimonianza).
Il cardinale più votato dagli italiani è stato Elia Dalla Costa, arcivescovo di Firenze (18721961): un pastore
delle cui straordinarie qualità spirituali, umane e governative si parlava già molto. Al secondo scrutinio, il
numero di voti a favore di Pacelli si è avvicinato tanto alla maggioranza dei due terzi che la sua elezione
poteva essere ritenuta, fin da allora, sicura: una quarantina di voti quando gliene occorrevano 42.
Uno dei fattori del successo di Pacelli è attribuito da alcuni informatori al fatto che anche Dalla Costa ha
riversato i propri voti, otte
nuti al secondo scrutinio, sulla candidatura del segretario di Stato. Nell'intervallo, dopo pranzo, il cardinale
Pacelli è stato visto passeggiare a grandi passi nel cortile di san Damaso, leggendo il suo breviario, senza
levare gli occhi dalle pagine del libro.
Quando il collegio è rientrato nella Sistina per il terzo scrutinio, tutti sapevano ormai che egli sarebbe stato il
nuovo papa: ma non con il consenso plebiscitario che egli attendeva. Resta da considerare la ragione della
eccezionale velocità con cui la maggioranza dei voti è stata formata, e ciò malgrado una certa riluttanza nel
settore degli Italiani. Una delle ragioni, che sono molte, è attribuibile ovviamente all'imminenza dello
scoppio della seconda guerra mondiale. Un'altra: la notorietà già acquisita dal cardinale Pacelli, il quale si è
fatto conoscere non solo in Germania, dove è stato nunzio, ma anche negli Stati Uniti, dove ha soggiornato
per alcuni periodi, ospite di Francis Spellmann e di Amieto Cicognani, delegato apostolico a Washington.
Inoltre, negli ultimi due anni Pacelli è stato di fatto la guida politica della Chiesa, essendo Pio xi limitato
dalla malattia.
Va considerato infine che un'alternativa di tipo religioso come quella balenata con la candidatura di Dalla
Costa, non è sembrata abbastanza compatibile con le esigenze politiche del sistema, in una fase in cui il
grande scontro politico in Europa e nel mondo porta a privilegiare l'importanza della diplomazia e dunque di
una guida diplomatica al vertice della Chiesa, specie tenendo conto delle relazioni di Pacelli nell'uno e
nell'altro fronte degli imminenti belligeranti.
Il conclave è stato dunque dominato dalle necessità anzitutto politiche dell'istituzione. Dovranno passare
quasi vent'anni prima che un altro conclave possa riunirsi. Dirà il cardinale Marchetti Selvaggiani, vicario di
Roma: «se votavano gli angeli, avrebbero fatto Dalla Costa. Se votavano i demoni, avrebbero fatto me.
Hanno votato purtroppo gli uomini».
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La solitudine di Pio XII (1939-1958).
II pontificato di Pio XII inizia un anno dopo YAnschluss dell'Austria, sei mesi dopo Monaco, una settimana
prima dell'annientamento della Cecoslovacchia. Appena eletto egli intraprende passi per impedire una guerra
ormai decisa. «Nulla è perduto con la pace, tutto può essere perduto con la guerra», esclama il 24 agosto
1939, il giorno dopo la firma del patto tra Stalin e Hitler. Il primo settembre le truppe del Reich invadono la
Polonia.
Egli mostra di sapere quali siano i suoi doveri nell'incendio che devasta l'umanità. «Si danno circostanze
nelle quali il papa non può tacere», ammette. E ancora: «Per queste vie diplomatiche non si vede che cosa sia
ancora possibile fare». La questione del riserbo che paralizza il suo spirito si accompagna alla fiducia
completa che nutre negli strumenti diplomatici: «Laddove il papa vorrebbe gridare alto,
purtroppo talora gli è imposto il silenzio. Laddove vorrebbe agire e aiutare, la paziente attesa», scrive ai
vescovi tedeschi.
Questo senso di impotenza, l'angoscia di non poter impedire gli eccessi della guerra né le sue crudeltà e
nemmeno il genocidio degli Ebrei,corrispondono al reale isolamento della Santa Sede sul piano diplomatico,
prezzo estremo pagato al suo non del tutto superato né estinto malinteso temporalista.
Quando il presidente Roosevelt fa bombardare Roma e invadere l'Italia, la distanza tra l'ordine eticopolitico,
raffigurato dai radiomessaggi natalizi del papa, e la violenza obiettiva gli appare così profonda quanto il
fallimento della ragione moderna. È tra i primi ad intuire che in età moderna nessun Sacro potrebbe ottenere
il minimo spazio e conservare l'immunità di un tempo se non si dedichi ogni sforzo alla salvezza dell'uomo,
come bene sacro supremo. Esce quasi d'impeto, spinto da un moto supremo di compassione, dopo il bombardamento americano alla vigilia del 24 luglio 1943, per esser presente fra le rovine del quartiere romano di
San Lorenzo, cratere d'una violenza che ha segnato simbolicamente la fine dell'età sacrale ad opera
dell'Occidente, nel cuore della sua città più santa: la gente è accorsa intorno al papa, vestito di bianco, muto,
fra mucchi di macerie. Migliaia di visi emaciati, disperati hanno gettato la loro disperazione sulle sue braccia
che si spalancavano a forma di croce, tendendosi verso un cielo plumbeo, fattosi improvvisamente truce, per
un'estrema richiesta di pietà.
Di Pio XII si sottolinea drammaticamente la solitudine. Un papa delle masse, dei grandi raduni in piazza san
Pietro, ma un papa solo. Ha la consapevolezza di essere investito di una missione per la salvezza della civiltà
umana e cristiana, come guida morale del mondo, autentico defensor civitatis non solo per la sua Roma ma
anche per tutto ciò che da Roma ha preso nei secoli ispirazione e che ora si trova minacciato.
In quegli anni di guerra e della prima ricostruzione, mentre s'innalzano le logiche della guerra fredda, egli
continua impavido ad incarnare il grandioso tentativo di interpretare il compito papale non più soltanto in
termini confessionali, ma anche e, in alcuni momenti, soprattutto nei modi di un'autorità etica, impegnata a
formulare i princìpi di un nuovo ordinamento internazionale, di rifondare le basi della democrazia e di un
rinnovato umanesimo cristiano. E tuttavia egli, con la sua Chiesa, si trova solo nella sua missione di
insegnare, riflesso e salario della sua convinzione di detenere in esclusiva una verità assoluta e unica cui
educare tutte le nazioni.
«Un monarca solitario», dirà di lui padre Robert Leiber, il gesuita tedesco che lo segue come un'ombra dal
1929. Il tratto ieratico e aristocratico, l'ascetismo di una vita che appare in comunicazione segreta con
l'invisibile e come avvolta in una instancabile nube sacrale, il corpo esile, rimasto giovanile anche in età
avanzata, quel profilo
bianco che alza le braccia nel gesto dell'invocazione e dell'offerta, sospeso tra cielo e terra, dopo ogni
udienza di massa, continuano a suggestionare le folle quanto la stupefacente memoria, la lucidità della
visione dottrinaria e la fluidità del discorso, che corre senza mai incappare in un minimo dubbio, seguendo
uno schema logico e un tono apodittico.
Lavoratore instancabile ma grande accentratore, non ha voluto nominare un nuovo segretario di Stato dopo la
morte del cardinale Maglione nel 1944: «non voleva collaboratori, ma solo esecutori», dirà monsignor
Domenico Tardini. Rari e impersonali i contatti coi vescovi, ciò che esaspera la tendenza di Pio XII a un
governo tutto personale, facendo di lui «il grande isolato», che riconduce il papato alle forme di una
singolare, modernizzata ierocrazia. Egli consolida una prassi di governo centralizzato nella sua persona. Tra
gli uffici è la segreteria particolare del papa, interpretata da Suor Paschalina Lehnert, che assume le funzioni
supreme della mediazione tra il sovrano e la Curia, tra lui e il resto del mondo. Ma anche la Segreteria di
Stato cresce d'importanza.
Tutto fa credere che un regno così proiettato intemazionalmente possa intraprendere la riforma della Curia,
portando energie fresche e personale internazionale fra i quadri dell'apparato centrale. Il papa incoraggia
progetti a riguardo, ne incarica il gesuita padre Riccardo Lombardi ma alla fine non osa procedere.
Le inclinazioni riformistiche marcano il primo dopoguerra di Pacelli, per spegnersi alle prime difficoltà. Nel
1946 ha grande eco la promozione di ventun cardinali, segnata da un'audace impronta universalistica:
trentadue nuovi cardinali — un record storico — di cui solo quattro italiani e ventotto dalla Chiesa
universale, con diciotto nazioni rappresentate, da tutti i continenti (un orientale siriano, un portoghese
d'Africa, un cinese, per la prima volta): «Roma apparirà in tal modo veramente come la Città Eterna, la Città
universale, la Città di cui tutti sono cittadini», commenta Pio XII in un discorso alla Curia romana,
rattrappita nella sua «provincia» italiana. Egli cerca per questa via di proporre la Chiesa come modello di
civiltà: «Come un faro potente la Chiesa, nella sua universale interezza, getta il suo fascio di luce in questi
giorni oscuri, per i quali passiamo». Egli respinge l'idea tutta rattiana d'un «imperialismo cristiano», perché
— rettifica — «la Chiesa non è un impero, cerca anzitutto l'uomo». L'obiettivo della sua Chiesa è differente,
in modo radicale: «La Chiesa non può, rinchiudendosi inerte nel segreto dei suoi templi, disertare la sua
missione provvidenziale di formare l'uomo completo».
Ma le riforme strutturali necessarie non tengono dietro al grande utopismo pontificio. Come avverte
lucidamente Andrea Riccardi, «il processo di unificazione e di decisione delle diverse posizioni che
si confrontano in Vaticano avviene nella persona del pontefice e in un clima di isolamento e di rarefazione di
rapporti [...]. Con l'allargamento dell'impegno missionario di papa Ratti e con i nuovi orizzonti emersi dalla
seconda guerra mondiale, il problema di governare una Chiesa così vasta e complessa appare sempre più
difficile».
Dominato dalla priorità assegnata alla sfida comunista, questo papa si confronta con gli scenari mondiali che
vanno spostando il baricentro effettivo della storia moderna ben oltre il contesto europeo, nel quale la Chiesa
è annidata da secoli. Le sue propensioni controriformistiche, le sue spinte alla centralizzazione, ad una
riabilitazione e rilegittimazione della monarchia papale — nel senso più esistenziale e supremo del termine
— non gli vietano significative istanze riformistiche, in materia liturgica, nell'opera missionaria, addirittura
nella teologia morale, col famoso discorso alle Ostetriche in cui riconosce alle coppie cattoliche che è lecito
ricorrere ai periodi infecondi per il controllo della natalità. Ma una doccia fredda sugli sviluppi liberali del
regno è l'enciclica Humani generis del 12 agosto 1950, scritta in stile difensivo e alla vecchia maniera
tomistica, e gli sforzi successivi di rimuovere i teologi contrari dall'insegnamento e i loro libri dalle
biblioteche pubbliche.
A limitare l'universalismo effettivo del papa è chiamata in causa la sua visione limitata, ormeggiata a un
modello di Chiesa potente, «società perfetta», dotata di tutti gli strumenti anche terreni e diplomatici per
poter influire signorilmente sull'ordine mondano. A questa concezione si fa risalire anche l'assillo
anticomunista del papa, che temeva l'espansione del comunismo come potenziale minaccia all'egemonia
mondiale della Chiesa romana, nel prevedibile crollo della civiltà moderna. In questo disegno potrebbero
collocarsi il sostegno assicurato da Pio XII al Patto Atlantico e al riarmo tedesco, l'alleanza tra Vaticano e
Stati Uniti, la scomunica promulgata dal Sant'Ufficio il 30 giugno 1949 per coloro che professano la dottrina
«materialistica e anticristiana» del comunismo, il tentativo di piegare agli interessi immediati della Chiesa
alla politica dei cattolici in Italia e l'ardente sforzo papale di sollecitare una coalizione delle nazioni «libere»
per difendere l'insurrezione antisovietica ungherese del 1956.
Non manca di aspetti paradossali il fatto che un pontificato talmente universalista si sia infine esposto al
rischio di farsi assimilare alla funzione di pilastro morale del blocco occidentale. Questa contraddizione si
duplica nell'altra, d'un pontificato che si separa dalla sua stessa piattaforma, che taglia i fili con la Curia, coi
cardinali, assistendo impassibile al formarsi di nuclei interni di potere come quello del «partito romano», lo
stesso che riesce a ottenere nel 1954 l'esilio del sostituto Giovanni Battista Montini a Milano.
La monarchia pontificia si isola, e ritiene di risarcire questo isolamento, questo vuoto di legami partecipativi
e comunitari, con la
psicoterapeutica delle folle. È l'epoca in cui dilagano i modelli di vita americani, si affermano i bisogni di
autonomia e di emancipazione delle donne, dei popoli del Terzo Mondo, cresce il movimento operaio, si
scompone un modello patriarcale di società e di cultura, l'urto fra Est e Ovest spinge il pianeta al riarmo
nucleare. In questo scenario Pio XII si affaccia in cima a un'istituzione che deve essere tanto più roccia quanto
più la mobilità delle trasformazioni epocali incide sulla saldezza dei riferimenti ai valori. Ma si ha
l'impressione che egli rimanga nel fondo un teocrate, a capo d'una Chiesa defraudata del proprio territorio,
sia a Oriente che a Occidente, una Chiesa che si ritiene così «al di sopra» della mischia da ridursi a castello
remoto.
Per questo diventa sempre meno probabile che Pio XII avverta il bisogno di riaprire intorno al suo trono i
circuiti della comunione, dando corso — se non a un Concilio Ecumenico (al quale ha cominciato a pensare)
— almeno ad una riattivazione del collegio cardinalizio. Dopo il concistoro del 1946, devono scorrere altri
sette anni prima che, nel 1953, Pacelli proceda ad una seconda promozione cardinalizia di ventiquattro
cardinali, di cui dieci italiani (otto di essi curiali), diciotto europei, un indiano. Però la proporzione degli
Italiani rimane identica: in tutto settanta cardinali, di cui quarantatré della Chiesa universale, e ventisette
italiani.
Nel collegio cardinalizio non si trovano però personalità spiccate in cui il pontefice possa riconoscersi, se si
eccettua forse Giuseppe Siri, precoce arcivescovo di Genova e da molti considerato l'autentico erede di
Pacelli. Con il cardinale Tisserant, i rapporti non sono buoni. I curiali romani, come Pizzardo e Ottaviani,
condividono con Pio XII il senso delle certezze, ma non il suo carattere inquieto. Né il palermitano Ernesto
Ruffini né Giacomo Lercaro, che irrompe nella rossa Bologna con le sue liturgie stilizzate, i suoi «frati» della
Volante e i suoi Carnevali, né Roncalli a Venezia, con il suo conciliarismo politicoreligioso, hanno speciali
rapporti col papa. Un personaggio così significativo, per cultura e apertura, come Celso Costantini, è relegato
a Roma in un ufficio secondario. «Insomma, il papa era solo», dice Riccardi. «Aveva attorno a sé esecutori e
forse nemmeno tanti [...]. Il papa non vuole cambiare le strutture, nonostante i problemi che fanno capo a
Roma siano enormemente aumentati, sia per l'espansione missionaria e demografica del cattolicesimo, sia
per la nascita di nuovi Stati, sia per la complessità della situazione mondiale. Si rivela in lui l'ansietà di
abbracciare tutto, di vagliare ogni cosa con la sua intelligenza pessimistica e analitica, come in una sfida tra
le sue energie di uomo solo e la complessità del mondo.»
Quando le prime malattie serie gli impongono di venir meno a questa sovranità personale così esclusiva e
totale, e di lasciare il globo scendere dalle proprie spalle, egli non può che pensare alle dimissioni. Dopo
quasi vent'anni di pontificato, il collegio cardinalizio è ridotto a cinquantaquattro cardinali, meno che nel
1922, e in una con
dizione di stasi e di emarginazione da essere paragonato «a un ospizio di vecchi»: trentasette cardinali sono
della Chiesa universale, diciassette" italiani, una quota mai stata più bassa prima di ora, al di sotto del terzo
necessario per controllare l'elezione del prossimo papa.
Anche lo statuto di questa elezione ha subito degli irrigidimenti, coerenti con il carattere del papa.
La costituzione Vacantis Apostolicae Sedis dell'8 dicembre 1945 regola nei particolari il funzionamento della
Curia romana nella fase successiva alla morte del pontefice, e dispone che cessino dai loro uffici il segretario
di Stato, i prefetti delle Congregazioni, non però il penitenziere, il camerlengo e il vicario di Roma. Invece
della maggioranza dei due terzi almeno dei votanti, Pio XII impone i due terzi più uno, onde evitare per il
futuro l'inconveniente occorso al conclave di Della Chiesa, rendendo così non più necessario all'elezione il
voto dell'eletto nel caso dei due terzi netti. Anche le clausole sul segreto del conclave subiscono una
restrizione e un rafforzamento. Pio XII rinnova anche la legge di Pio x la quale impone una seconda votazione, sia al mattino che al pomeriggio, qualora la prima non abbia sortito esito alcuno.
È con queste serrature che la Chiesacastello di Pio XII si prepara al conclave del 1958. Il papa muore il 9
ottobre nella villa di Castel Gandolfo, dopo una settimana di malattia. Una morte solitària, crudelmente
monarchica. Forse la fine d'un ciclo storico.
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CAPITOLO XII.
Un papato «di transizione»: Giovanni xxm (19581963).
La formula di un «papato di transizione» affiora in modo significativo nel dibattito sulla successione a
Pacelli. Essa ricorre nei rapporti diplomatici che le ambasciate accreditate in Vaticano inviano già nel 1954
ai loro governi per aggiornarli sugli orientamenti vaticani a proposito del nuovo papa. L'ambasciatore
francese Wladimir D'Ormesson informa il suo ministro degli Esteri George Bidault che la ricerca dei
candidati appare determinata dal presupposto che, dopo un regno così ingente come quello di Pio XII, la
Chiesa romana avverte l'esigenza di un papato breve, una sorta di traghetto, «per un pontificato di
transizione».
Il 1954 è l'anno della crisi dei preti operai in Francia, dell'epurazione della Gioventù Cattolica in Italia, della
estromissione di monsignor Montini dalla Segreteria di Stato per l'esilio di Milano, della destalinizzazione
krusceviana a Mosca. Il papa in quei mesi confida all'archiatra Riccardo Galeazzi Lisi: «Un papa non deve
essere malato». Gli attacchi allo stomaco sono così acuti da indurlo ad accennare con qualche confidente alle
proprie dimissioni: «Siamo afflitti da troppi mali; fanno di noi una cariatide. Ancora, non siamo più un
sostegno per la Chiesa: siamo un peso».
Anche l'ambasciatore italiano Francesco Giorgio Mameli, in un rapporto al ministro degli Esteri Attilio
Piccioni nel 1954, individua la tendenza dei cardinali a orientarsi per un porporato anziano in funzione di un
papato «di transizione». Dopo una attenta ricognizione della struttura del Sacro Collegio e delle modalità
elettorali, l'ambasciatore analizza le tendenze alla luce di tre principali quesiti: il prossimo papa sarà italiano
o straniero? Politico o religioso? Starà nella media dell'età oppure no?
Fra le varie ipotesi, Mameli valuta probabile l'elezione di un italiano non giovane: «per un papa più giovane,
specie nell'attuale composizione del Sacro Collegio, le simpatie sembrano minori. Un papa più vecchio
potrebbe riuscire meglio accetto, specie se prevalesse l'idea d'un Pontificato di "transizione"». Esclusa perciò
una candidatura del troppo giovane cardinale Giuseppe Siri di Genova (nato nel 1906), il rapporto procede
alla identificazione dei papabili, indicandone tre (Alfredo Ottaviani, Giacomo Lercaro e Ernesto Ruffini) su
cui si concentrano certe aspettative, ma rispetto ai quali potrebbero
emergere degli outsider, come l'arcivescovo di Napoli Marcello
Mimmi.
Inoltre, «se prevalesse l'idea d'un papa diplomatico», aggiunge Mameli, «vi sono i vari Nunzi creati nel
recente Concistoro, la cui età varia tra i 70 e i 73 anni. In alcuni ambienti si accenna al nome del Cardinale
Roncalli, patriarca di Venezia, che unirebbe le qualità di "diplomatico" e di "religioso"». A lui, secondo
Mameli, si potrebbe opporre uno straniero di Curia come Gregorio Pietro Aga
gianian.
Le previsioni dei diplomatici non sembrano subire variazioni consistenti all'indomani della morte di Pio XII,
salvo registrare alcune istanze rispettose ma critiche dei cardinali nei confronti del regno concluso. Con la
morte di Pacelli si percepisce che non solo un certo modello di pontefice, scolpito nella ierocrazia, ma altresì
un ciclo storico si è esaurito, senza che si abbia peraltro un'idea del futuro abbastanza chiara e
sufficientemente condivisibile. Pio XII è considerato un autentico gigante della successione apostolica. Il suo
pontificato, e l'interpretazione che egli ha dato della propria responsabilità, sono fonte di qualche
inquietudine. «È stato l'ultimo papa che ha impersonato la Chiesa del Concilio Vaticano i», scrive Divo
Barsotti, un teologo di Firenze. «Con lui, forse, come ha raggiunto la più grande espressione, così è finito un
certo tipo di papa, quale si è venuto plasmando attraverso un millennio.» Ma l'ombra di Pacelli è già
attraversata da valutazioni ancor meno reverenziali. Il prosegretario monsignor Domenico Tardini non si
astiene dal criticare il metodo oligarchico del defunto. Tardini è noto per le sue posizioni pragmatiche,
classiche nella Curia romana, ravvivate da un irriducibile spirito, e spiritaccio spregiudicato, non privo di
autoironia.
Sarebbe impensabile attribuirgli propositi di sovvertimento del sistema di governo, ma anche appartenenze
organiche al «partito romano» di Ottaviani e Pizzardo. In effetti, ciò che egli si limita a suggerire è quel tanto
di iniziative utili a revitalizzare l'apparato centrale della Chiesa. Egli interpreta così un'opinione diffusa tra i
cardinali a favore di alcuni mutamenti al centro della Chiesa, senza peraltro deviare dall'orientamento di
fondo del pontificato pacelliano. Riassumendo tali posizioni, Andrea Riccardi ha citato la revisione
dell'amministrazione della Santa Sede, la moderazione dei metodi del Sant'Uffizio, una maggiore autonomia
dei vescovi, evitando che debbano dipendere dalla Santa Sede per una serie di atti che potrebbero fare da sé.
Al di là di queste concessioni, si pone l'esigenza di adattare la strate
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già della Chiesa romana al nuovo contesto internazionale, nel quale si rafforzano le aspirazioni alla pace e
alla distensione, la cortina di ferro comincia ad aprirsi, lo sviluppo economico attenua i toni militanti e le
contrapposizioni ideologiche più aspre, l'appello del papato allo schieramento anticomunista, alla
mobilitazione delle masse e ad una ricostituzione della cristianità non sembra, agli occhi di un numero non
lieve di porporati, rispondere con l'efficacia sperata ad una società che la secolarizzazione svela non ancora,
o non abbastanza, o non più cristiana, se non in strati sempre meno ampi ed assidui della popolazione.
Fra le voci che intervengono dalla periferia al dibattito di questa vigilia del conclave attira l'attenzione quella
di don Primo Mazzolari, ardente parroco di campagna nel Mantovano, animatore delle avanguardie cristiane
della sinistra in Italia: «Può darsi», scrive nel suo foglio, Adesso, «che la Provvidenza, giocando l'aspettativa
temporale di parecchie sfere clericali, ci mandi un Pontefice silenzioso, senza incanto di corpo e senza
fascino di cultura, un "profeta" che sappia appena balbettare: "a", "a". In un mondo traboccante di paurosa e
provocante violenza, non sarebbe del tutto strano se il Signore si compiacesse di regalare alla Chiesa un
Pontefice umile e povero e di nient'altro preoccupato che di proteggere gli inermi, dissipare dalle menti la
tenebra e il terrore dai cuori. Siamo stanchi di troppa scienza e di troppa cultura; stanchi di troppo potere e di
troppi spettacoli [...], stanchi di grandezze e di prestigio e di primi posti [...], stanchi di parole. Non osiamo
chiedere nulla. Ma se il Signore, usandoci pietà, scegliesse per la sua Chiesa — la Chiesa dei poveri, degli
oppressi, degli orfani, dei tribolati, la Chiesa degli "ultimi" — l'ultimo dei suoi Sacerdoti e gli mettesse sulle
labbra, unicamente e perdutamente, la sua Parola e nel cuore tale apostolica fermezza da ripeterla senza
riguardo di persona, disposto a perdere il superfluo e il quotidiano pur di rimanere fedele: il resto, questo
inutile e ingombrante resto, che arriva sin sulle soglie del conclave con strane congetture e assurdi voti, il
resto cadrebbe da sé, con sollievo di tutti».
Genesi di una candidatura.
I cardinali che affluiscono a Roma per i novendiali trovano la città turbata dagli episodi sgradevoli accaduti
alla morte del papa. Non si parla d'altro. Un prelato di corte, poi fatto cardinale, ha accettato di segnalare ad
alcuni giornalisti suoi amici il momento in cui il papa sarebbe spirato: la tenda d'una certa finestra nel
palazzo di Castelgandolfo sarebbe stata tirata in modo che i «vaticanisti», in attesa nella piazza sottostante,
sarebbero stati i primi a saperlo e a lanciare la notizia. Senonché il segno c'è stato, ma prematuro e
involontario, P8 ottobre: quella tenda è stata tirata casualmente dal principe Pacelli,
che aveva bisogno di luce nella stanza in cui si era ritirato a parlare con un amico, accanto alla camera del
papa moribondo. Così alcuni giornali di Roma, sono usciti in edizione straordinaria gridando l'epitaffio,
doppiamente eccessivo: II Papa è morto, quasi che alla fine fosse l'istituzione stessa.
Il peggio è accaduto dopo la morte, quando le foto del cadavere sono state vendute e pubblicate. Le ha
scattate occultamente l'archiatra Riccardo Galeazzi Lisi. Egli va offrendo a giornali stranieri e italiani anche
un diario dell'agonia, nel quale non si risparmiano i particolari fisiologici della fine. Un giornale romano lo
pubblica scrivendo d'esser stato costretto a purgarlo dei particolari più raccapriccianti. In una conferenza
stampa, Galeazzi Lisi ha fornito dettagli tecnici sull'imbalsamazione della salma, fino a provocare «reazioni
di sdegno».
La cerimonia di sepoltura si svolge in San Pietro il pomeriggio di lunedì 13 ottobre 1958. È presente con gli
altri cardinali il patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli, la cui candidatura sembra prendere quota
nelle prime conversazioni: «generale il lamento per la obbligata assistenza alla deposizione della salma nelle
tre casse di prescrizione», annota quel giorno nel suo diario, «ed ugualmente sgradito il miserabile castello
piantato nell'emiciclo della Confessione da parere un palco per la ghigliottina. Queste due operazioni non
occorre che il gran pubblico vi assista [...]. Una volta posto il velo bianco di seta sulla faccia del cadavere, il
resto deve essere riservato a pochissimi testimoni. Questa è l'impressione dei cardinali». Roncalli non può
fare a meno di ammettere: «II ricordo più vivo della giornata fu l'ultimo sguardo al viso cadaverico del S.
Padre. Oh, la grande
lezione della morte!».
Secondo l'uso di ogni preconclave in età moderna, i cardinali svolgono un intenso programma di visite
reciproche, in una comunicazione necessaria per la formazione degli orientamenti e per la migliore
conoscenza reciproca. Le congregazioni generali del collegio cardinalizio acquistano tuttavia un valore
singolare dopo la sostanziale dissuetudine dell'istituto durante il regno pacelliano. È la ripresa effettiva della
funzione specifica del senato cardinalizio che interrompe non solo il verticismo invalso nella prassi pontificia
ma anche l'obsolescenza dello stesso ruolo partecipativo e concistoriale del collegio, in una fase di massima
responsabilità come quella della Sede Vacante.
Questa esperienza preconclavaria non sarà avara di effetti, come vedremo, sulla riapertura della vena
conciliare al centro del governo ecclesiastico. Di fatto possiamo constatare che nelle riunioni cardinalizie per
nazioni, a Roma, non si parla unicamente dell'agenda
specifica dell'elezione, ma naturalmente di tutta una serie di problemi che attengono al governo ecclesiastico,
ad una svolta cruciale della storia mondiale.
Questa concertazione, la prima ad un tale livello dopo molto tempo, è favorita dalla composizione del
collegio cardinalizio, che alla morte di Pio XII si compone di 55 membri, trentotto della Chiesa universale
(quasi il 70%) e diciassette italiani, dei quali ben undici funzionari di Curia in Vaticano. Una tale
proporzione a favore dei non italiani non trova precedenti e permette a questo conclave di affacciarsi su una
universalità della Chiesa non solo potenziale, ma anche effettiva, in actu. Fra i cardinali sono assenti
l'arcivescovo di Budapest Jozip Mindszenty, rifugiatosi nell'ambasciata americana nei giorni della
repressione sovietica della rivolta ungherese nel novembre 1956, e l'arcivescovo di Zagabria Alois Stepinac,
la cui porpora nel 1952 è stata il detonatore della rottura delle relazioni fra Belgrado e Santa Sede. Nelle ore
a ridosso del conclave vengono meno a Roma a causa di malattie due cardinali: il grande missionologo Celso
Costantini, primo rappresentante vaticano in Cina dove ha promosso il primo «concilio» cinese, e
l'arcivescovo di Detroit cardinale Edward Mooney. Così gli elettori presenti si riducono a 51.
Sebbene non disponga che di una sparuta minoranza inferiore al 20% del collegio, dunque al di sotto delle
possibilità di controllo del terzo dei voti, il gruppo curiale sviluppa una intensa attività nella fase di
avvicinamento al conclave, nella speranza di poter influire sull'orientamento comune. L'elezione dell'anziano
cardinale romano Benedetto Aloisi Masella a camerlengo, l'ufficio che assume il governo supremo
nell'interregno — carica vacante come molte altre nella Curia di Pio XII, — sembra interpretabile come un
sondaggio che la Curia compie per tastare la consistenza dei gruppi. Negli ambienti prossimi a Tardini,
Aloisi Masella è un «candidato neutro per eccellenza» secondo le informazioni trasmesse da D'Ormesson.
Circola anche il nome dell'arcivescovo di Palermo cardinale Ernesto Ruffini, sodale del «partito romano»,
però fin troppo per poter aggregare più voti di quanti esso non possa assicurargli.
C'è anche chi sembra in grado di azzardare la candidatura di Giuseppe Siri, il «delfino» di Pio XII:
l'iniziativa sarebbe adottata dai cardinali Gaetano Cicognani, Aloisi Masella e Ignace Gabriel Tappouni,
patriarca di Antiochia dei Siri. Secondo Cicognani, Siri sarebbe «l'unico in grado di continuare il magistero
di Pacelli». Però una candidatura del genere urta, se non sul rifiuto dell'interessato, certo sulla sua troppo
giovane età (52 anni appena) che male si adatta alla prospettiva di un «pontificato di transizione».
Normalmente un compromesso si realizza nella fase conclusiva del conclave. In quello del 1958 appare
invece la preoccupazione del gruppo romano di raccogliere fin da subito una consistente affluenza
di favori su una o due candidature propizie. Non può essere altrimenti, data la scarsità dei voti del pacchetto
romano. Vi è una pregiudiziale, diciamo personale, cui il partito romano sembra particolarmente ormeggiato,
accanto alla pregiudiziale programmatica su un riformismo minimo: la Curia è contraria al ritorno di Montini
dall'esilio e non cessa di informarsi discretamente presso questo e quel candidato in pectore, se, una volta
papa, richiamerebbe l'ex sostituto da Milano per affidargli un ufficio che non potrebbe essere meno della
direzione della Segreteria di Stato. Alcuni elettori francesi parrebbero inclini a questa eventualità, benché si
rendano conto che la scelta si caricherebbe di sensi risarcitori e, comunque, non sarebbe facilmente adattabile
alle convenzioni invalse, non essendo Montini cardinale. Un uomo strategico del «pentagono vaticano», il
cardinale Giuseppe Pizzardo, chiede al riguardo garanzie a Roncalli il 17 ottobre. Il patriarca reagisce con
calma, facendo presente a Pizzardo che è da scartare l'eventualità di una propria candidatura. «Ma chiunque
diverrebbe papa», gli fa rilevare Roncalli, «come potrebbe fare segretario di Stato un uomo che non è voluto
proprio dai
cardinali di Curia?»
«Negli ambienti romani», scriverà il segretario di Roncalli, monsignor Loris F. Capovilla, «la voce sulla
possibile elezione del patriarca di Venezia doveva essere abbastanza diffusa.» Tra i simpatizzanti, egli cita i
cardinali Francis Spellman, Maurice Feltin, Valerio Valeri, Gaetano Cicognani e Clemente Micara.
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Un movimento di farfalle.
La frequenza con cui gli emissari della Curia visitano Roncalli — che alloggia alla Domus Mariae sulla Via
Aurelia — è un segnale sicuro dell'interesse che la sua figura riveste per i disegni della conservazione ecclesiastica.
Il diario di Roncalli in quelle giornate costituisce una guida ineguagliabile per seguire lo sviluppo della sua
candidatura al papato.
«Orandum est, flectis genuis, ut non sit conclave nefastum Ecclesiae Universae.» (Bisogna pregare a ginocchia piegate, affinchè il
conclave non sia nefasto alla Chiesa universale.)
Questa l'esortazione pressante che Roncalli rivolge a se stesso nel diario di quei giorni. Essa vale
presumibilmente ad interpretare anche la tensione diffusa nell'intera Chiesa per l'evento. Alludendo alle
molteplici visite che riceve, egli annota il 15 ottobre, mercoledì: «In giornata, gran movimento di farfalle
intorno alla mia povera persona. Qualche incontro fuggitivo che però non turba la mia tranquilli
tà». Come tutti, egli partecipa alle Congregazioni cardinalizie nella Sala del Concistoro.
Un commento improvviso, ben più che una pennellata, rivela il suo rammarico per la segretezza che il
regolamento ha esteso anche alle questioni affrontate e discusse nelle Congregazioni preconclavarie: «Tutto
bene, ma tutto segreto».
Sono i cardinali Maurilio Fossati di Torino ed Elia Dalla Costa di Firenze i più decisi fautori di Roncalli per
il papato. Dalla Costa lo va a trovare due volte: «Lei sarebbe un buon papa», insiste. Il patriarca si
schermisce: «Ma ho settantasette anni!».
«E allora? Sono dieci meno dei miei», replica l'arcivescovo di Firenze.
Anche i sette cardinali francesi sono orientati per Roncalli, ex nunzio in Francia e rimasto in buone relazioni
con loro. L'arcivescovo di Parigi Maurice Feltin lo visita il 21 ottobre, dichiarandogli la disponibilità del
gruppo, confermata dai cardinali Grente e Roques di Rennes due giorni dopo: «assai amabili per la mia
povera persona», annota Roncalli.
«La personalità dell'ex nunzio a Parigi è sufficientemente conosciuta in Francia», ha scritto l'ambasciatore di
Francia al Quai d'Orsay. «Io dirò solamente che il suo saper vivere e questo incomparabile insieme di qualità
che gli avevano valso il successo presso certe personalità e in diversi circoli parigini, vicini o lontani dalla
Santa Chiesa, sono gli stessi meriti che potrebbero acquisirgli domani i suffragi del Sacro Collegio. Comodo
per gli integralisti, rassicurante per gli indecisi o i concilianti, è in situazione di presentarsi come candidato di
giusto mezzo e sento dire da fonti differenti che le sue quotazioni sono in rialzo.»
V'è una ragione specifica per cui i Francesi gli sono favorevoli: essi chiedono al nuovo papa una
riconsiderazione della questione dei pretioperai e sanno che la nunziatura Roncalli, meglio sensibile del
Sant'Offizio ai valori di quella testimonianza, aveva fatto discretamente il gioco dei vescovi di Francia —
d'intesa con Montini in Segreteria di Stato — fino a trattenere per quanto possibile la pressione romana per
una condanna. Di fatto essa fu emanata solo dopo che Roncalli è stato trasferito a Venezia, nel 1954. «I
cardinali francesi furono i grandi elettori di Roncalli», confermerà il cardinale decano Eugenio Tisserant
nelle memorie postume. «Essi erano interessati alla soluzione del problema dei preti operai e Roncalli li
aveva assicurati che avrebbe risolto la questione.»
Se una parte della Curia resta orientata per la candidatura di Aloisi Masella e un'altra considera con interesse
l'appoggio a Roncalli, un terzo gruppo inclina verso il nome di Gregorio Pietro Agagianian,
uno straniero sui generis, da diversi anni in Curia, dove dirige la congregazione di Propaganda Fide. La sua
candidatura sembra patrocinata da Celso Costantini, nella prospettiva di liberare la Santa Sede da un'ipoteca
eccessivamente italiana e allargare Roma ad una universalità effettiva verso l'Oriente cristiano. Né potrebbe
trascurarsi — sottolineano i suoi sostenitori — il peso del fattore geopolitico: Agagianian è d'origine armena
e come patriarca degli Armeni cattolici, nato nel Caucaso ora sovietico, potrebbe disporre di opportunità
migliori che non altri a far evolvere i contatti con la realtà d'Oltre Cortina.
Un ruolo che non si avrebbe ragione di minimizzare è svolto in questi giorni dal prosegretario di Stato
monsignor Domenico Tardini. Egli manifesta un interesse singolare per Roncalli, che va a trovare due volte a
Roma alla Domus Mariae. «Fra il mezzodì e le 13 conversazione preziosa con mgr Tardini, che trovai
amabile e buono», annota Roncalli nel diario del 15 ottobre. «Mostrò desiderio di essere invitato a colazione
qui, e verrà.»
Puntuale l'ospite arriva il 20 ottobre, quando il patriarca ricorda: «[...] Poi sono passato al S. Offizio per un
lungo colloquio col card. Ottaviani. Di là salii ad una visita al card. Aloisi Mosella, camerlengo [...]. Vero
sorriso di questa giornata fu la visita all'Istituto Nazareth di mgr Tardini. Questi si trattenne a colazione qui
alla Domus Mariae, sempre amabile e spassoso». Tanto sembrerebbe bastare a far cadere l'illazione attribuita
al cardinale Siri, secondo la quale quel pranzo a due è divenuto «un'adunanza alla Domus Mariae alla quale
prese parte anche monsignor Tardini e il designato, cioè il cardinale Roncalli». «Cosa abbiano detto, cosa
abbiano fatto», continuerà Siri, «precisamente non so, perché non ci andai, non fui invitato. Credo che in
quella di cui si parla [...] sia stato deciso di promuovere l'elezione di Roncalli al pontificato e di Tardini a
segretario di Stato.»
Resterebbe peraltro da considerare anche questa illazione di Siri, per quanto incongrua, come una prova,
indiretta, della contiguità di Tardini, dunque d'un moderato, quasi gasparriano della vecchia curia, alla
candidatura di Roncalli, nella prospettiva di una sostanziale, pragmatica evoluzione del disegno «romano»
col nuovo papa.
Lo stesso patriarca è impressionato dal ritmo con cui aumentano le adesioni alla sua candidatura. Si tratta
ben più che di un futile «movimento di farfalle». Il 23 ottobre egli sale in segreteria di Stato a visitare il suo
vecchio amico monsignor Angelo Dell'Acqua, che lo vede insolitamente «confuso e pensieroso». «Che devo
fare?», gli chiede il cardinale.
«Si metta nelle mani del Signore, eminenza», è la risposta. «E se questa risultasse la sua volontà, non dica di
no. Buoni e bravi collaboratori non le mancheranno.»
Una lettera nella stessa data al vescovo di Bergamo Giuseppe Piazzi contiene alcune indicazioni
riconducibili alla chiamata suprema, e persino a motivi programmatici scanditi sul tema del rinnovamento,
che troveranno solo in seguito la loro reale pregnanza: «L'animo si conforta nella fiducia della nuova
Pentecoste, che potrà dare alla Santa Chiesa nel rinnovamento del Capo e nella ricostituzione dell'organismo
ecclesiastico, nuovo vigore», scrive il cardinale. «Poco importa che il nuovo papa sia bergamasco o non
bergamasco. Le comuni preghiere devono ottenere che sia un uomo di governo, saggio e mite, che sia un
santo e un santificatore.»
Ben più esplicita la lettera del 24 ottobre al vescovo di Faenza, Giuseppe Battaglia, per autorizzarlo a lasciar
venire a Roma il proprio nipote prete, nel caso d'una elezione: «Sto passando attraverso qualche
preoccupazione. Vi prego di leggere insieme con me i salmi 76 e 85 della Compieta di oggi, venerdì. Vi
troverete il mio spirito nella sua pulsazione eventuale. Vi scrivo in fretta per invitarvi alla preghiera con me.
Ho già scritto a don Battista perché non si muova fino a mio avviso eventuale. L'ambiente qui è così viziato
dalla maldicenza orale e dalla stampa da farmi subito provare tediosa la chiacchiera: "ecco il nipote, ecco i
parenti". Saremo alle solite che non potrei permettere. Io sto nel solco di Pio x e basta. Quando sentiste dire
che ho dovuto cedere al volo dello Spirito Santo espresso dalle volontà riunite, vogliate lasciar venire don
Battista a Roma, e accompagnatelo con la vostra benedizione... Quanto a me, volesse il cielo ut transeat
calixiste [...]. Io sono nel punto che se si dovesse dire di me: Appensus est staterà et inventus minus habens
(Dn 5,27) [È stato pesato sulla bilancia ed è stato trovato carente] ne godrei intimamente e ne benedirei il
Signore. Di tutto questo naturalmente acqua in bocca».
Il 25 ottobre, quando i 51 cardinali si chiudono in conclave, gli schieramenti sono sufficientemente
abbozzati: da una parte la candidatura di Agagianian, dall'altra quella di Roncalli, con alcuni nomi di
fiancheggiamento negli scrutini di assaggio (Aloisi Masella e Ruffini). Gli elettori assistono alla Messa dello
Spirito Santo e ascoltano il discorso del segretario dei Brevi ai Principi monsignor Antonio Bacci «de
eligendo pontifice», piuttosto critico nei riguardi della linea di Pio XII ; si notano i cenni di consenso del
cardinale Pizzardo. «Il nuovo papa», avverte Bacci, «sarà pronto a ricevere e ad ascoltare i vescovi come
suoi collaboratori nel regger la Chiesa di Dio; sarà pronto a consigliarli nei loro dubbi, ad ascoltare e
confortare le loro ansie [...]. Non basta un pontefice dotto. Non basta un pontefice che conosca le scienze
umane e divine e che abbia esplorato e sperimentato le sottili ragioni della diplomazia e della politica [...]
Quello che soprattutto occorre, eminentissimi padri, è un pontefice santo.»
Suona la campanella, che segna Vextra omnes e l'inizio della clausura: succede un episodio curioso, Roncalli
non sente la campana ed entra per ultimo, con passo ansimante per la rincorsa, nella Cappella Sistina.
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L'elezione.
II conclave si svolge per quattro giorni, dal 25 al 28 ottobre 1958, impegnando undici scrutini. La gestazione
è lenta. La candidatura di' Roncalli risulterebbe già abbastanza solida all'esordio accanto a quella di
Agagianian. Se le mie informazioni sono buone, alcuni voti, probabilmente quattro, vanno a Lercaro, altri a
Valeri, l'ex nunzio a Parigi all'epoca di Pétain, due sorprendentemente a Montini, dato forse dai cardinali
francesi, per una sorta di dimostrazione affettiva, non priva di intenzione politica. Per Roncalli ci sarebbero
presto circa venti voti, per Agagianian diciotto.
La sera del 27 ottobre, visto l'esito dello scrutinio antimeridiano, che non fornisce sostanziali spostamenti, il
cardinale Tisserant incoraggerebbe un'ipotesi di compromesso, imperniata su Aloisi Masella, che riuscirebbe
pertanto a rastrellare fino a diciotto voti. Il pacchetto dei suffragi per Roncalli resterebbe tuttavia
sostanzialmente solido. Fossati, che ha la cella vicina a quella del patriarca nell'appartamento della Guardia
Nobile pontificia, va a trovarlo durante l'intervallo. Sente infatti il bisogno di confortarlo, dopo un'altra
tornata incerta e tesa di scrutini, che ha visto consolidarsi la sua posizione. Racconterà più tardi: «Eravamo
vicini di cella. A un certo momento l'amico ha sentito il bisogno di entrare nella cella dell'amico, confort ans
eum».
Il 28 ottobre la terza fase del conclave può persino prospettare la possibilità, almeno di scuola, di un papa
non italiano. Se Agagianian conserva il suo pacchetto di voti, si suppongono diciotto, e Aloisi Masella ne
attira ancora dieci, l'ala del «partito romano» potrebbe disporre di almeno ventotto o anche trenta suffragi,
poco meno dei trentaquattro necessari per raggiungere i due terzi. Sull'altro fronte, sommando i voti per
Roncalli e qualche disperso, tra Montini, Valeri (che il patriarca insiste nel votare) ecc, non parrebbe
realistico sperare un superamento del varco di ventitré voti, una minoranza.
Sembra che le strategie subiscano una correzione quella mattina, tra il nono e il decimo scrutinio: pare infatti
che la coppia AgagianianAloisi Masella non riesca a sfondare il limite raggiunto — segno che i non italiani
non sono favorevoli all'elezione di un uomo della Curia — mentre su Roncalli affluiscono invece alcuni
nuovi suffragi, che aumentano al decimo scrutinio.
In questa lettura della dinamica conclavaria, parrebbe evidente lo smottamento di voti da Aloisi Masella a
Roncalli, con un'erosione progressiva, anche se leggera, dell'altra area. Se le mie informazioni sono valide,
Agagianian perderebbe otto voti scendendo da diciotto a dieci, Roncalli salirebbe da venti a
trentunotrentadue voti sfiorando già l'elezione. A mezzogiorno la fumata dopo il decimo scrutinio è ancora
nera. Ma all'ora di pranzo corrono delle confidenze tra i conclavisti: «il papa è fatto!».
Parrebbe confermarlo il diario di quel martedì 28 ottobre, l'ultimo giorno da cardinale di Roncalli:
Conclave al ni giorno. Festa dei ss. apostoli Simone e Giuda. S. Messa nella Cappella Matilde, con molta devozione da parte mia.
Invocati con speciale tenerezza i miei santi protettori: s. Giuseppe, s. Marco, s. Lorenzo Giustiniani, s. Pio x, perché m'infondano
calma e coraggio [...]. Non credetti bene discendere a desinare coi cardinali. Mangiai in camera. Seguì un breve riposo e un grande
abbandono. AU'xi scrutinio, eccomi nominato papa. O Gesù, anch'io dirò con Pio XII, quando riuscì eletto papa: Mìserere mei, Deus,
secundum magnani misericordiam tuam. Si direbbe un sogno, ed è, prima di morire, la realtà più solenne di tutta la mia povera vita.
Eccomi pronto, o Signore, «ad convivendum et ad commorìendum» [ndr, «per vivere e morire insieme», 2 Cor. 7,3]. Dal balcone di
S. Pietro circa 300 mila persone mi applaudivano. I riflettori mi impedirono di vedere altro che una massa amorfa in agitazione.
Secondo le informazioni di mons. Capovilla, Roncalli accetta l'elezione prima delle 17, il 28 ottobre.
Secondo le indiscrezioni delle agende di Tisserant, l'elezione di Roncalli è avvenuta con trentasei voti,
appena due più dei due terzi. Fino al termine sarebbe dunque continuato il duetto RoncalliAgagianian, sul
quale il nuovo papa aprirà uno spiraglio, il primo febbraio 1959 in un discorso al collegio armeno a Roma:
«Sapete che il vostro cardinale ed io eravamo come appaiati nel Conclave dello scorso ottobre? I nostri due
nomi si avvicendavano or su or giù, come i ceci nell'acqua bollente».
La metafora sembra appropriata alla vicenda di un conclave destinato, al di là delle finalità immediate dei
suoi artefici, a ricucire nel modo più tradizionale e, allo stesso tempo, innovativo la frattura che si era aperta
drammaticamente tra il papato e la riforma della Chiesa. Eletto per «un papato di provvisoria transizione»,
come egli stesso scriverà nel Giornale dell'Anima, Roncalli («un uomo senza fama» come scriverà un
vaticanista laico deluso in quei giorni) da forma ad una interpretazione nuova della funzione papale,
recuperando l'istituto conciliare che sembrava essersi esaurito col Vaticano i nel 1870.
Dai diari, dalle confidenze di quei giorni, emerge che il nuovo papa ritorna all'idea, in lui ricorrente, della
ripresa conciliare nella Chiesa precisamente nel serrato sviluppo delle conversazioni coi cardinali, in
occasione del conclave. Avviene ancora una volta che l'analisi dell'emergenza storica della Chiesa spinga
alcuni settori del collegio cardinalizio a prospettare un rimedio del tutto eccezionale, che tuttavia in questa
occasione non trova nel papato un'istanza timorosa o contraria, ma anzi un interprete coraggioso ed efficace.
In continuità con il conclave sembra dunque porsi la scelta per molti inattesa e sorprendente adottata da papa
Giovanni nelle prime ore del pontificato di convocare un Concilio Ecumenico di riforma della Chiesa e di
promozione dell'unità dei cristiani. A tutto ciò lo ha del resto incitato, sul letto di morte, il cardinale
Costantini, il quale era da tempo con
vinto che i problemi della Chiesa esigevano ormai un Concilio: quasi una consegna testamentaria.
«Ci Vuole un Concilio», ripete infatti il nuovo papa al segretario particolare, monsignor Loris F. Capovilla il
2 novembre 1958. Sono passati appena cinque giorni dall'elezione e Giovanni xxm fissa in un foglio di
udienza rapide note sulle indicazioni ricevute dai cardinali venuti a congedarsi da lui.
«Il progetto gli balenò alla mente», dirà Capovilla, «come risposta ai problemi e ai quesiti che i cardinali
elettori, prima di rientrare alle loro sedi, sottoponevano alla sua attenzione. La Chiesa si interroga
seriamente, diceva. Si preoccupa di dare di sé l'immagine impressale dal suo Fondatore; la Chiesa vuole
aggiornare le sue antiche e valide esperienze.»
// vostro fratello Giuseppe (19581963).
Si può anche ammettere che risale già alla fase elettorale quella invenzione dello stile papale che contribuirà
grandemente a meritare a Roncalli un posto nella genesi della forma pontificia, oltre che alla sua fama
popolare. Egli non tarda ad abolire il bacio al piede e l'incensazione del papa fatta in ginocchio, nonché a
dispensare nelle udienze dalla triplice genuflessione, fino a lui abituale.
« Vocabor Joannes», ha annunciato ai suoi elettori. «Mi chiamerò Giovanni. Come il Battista, il precursore.
Come l'Evangelista che Gesù amava.» È stata una sorpresa per i cardinali, la prima di molte: da oltre cinque
secoli un papa non si chiama così e l'ultimo è stato un antipapa, Baldassarre Cossa nel 1410, quando fu
deposto dal Concilio di Costanza.
Si può riconoscere che sarebbe difficile per chiunque, in quel momento, attribuire alla scelta di un tale nome
l'intenzione ecclesiologica di riabilitare tutto il sommerso, e il rimosso, racchiuso nel nome di Costanza.
Eppure, Giovanni xxm legittima la scelta del nome precisamente evocando fattori storici: «È nome solenne
di innumerevoli cattedrali, che sono sparse in tutto il mondo, e in primo luogo della sacrosanta basilica
lateranense, cattedrale nostra. È nome che nella lunghissima serie dei Romani Pontefici gode di primato
numerico. Infatti sono enumerati ventidue Sommi Pontefici di nome Giovanni di legittimità indiscutibile.
Quasi tutti ebbero un breve pontificato. Abbiamo preferito coprire la piccolezza del nostro nome dietro questa magnifica successione di Romani Pontefici».
Tuttavia l'intervento forse più incisivo sul modello dell'istituto papale, quale Giovanni xxm intende proporre,
può essere ritenuto il discorso dell'Incoronazione, che egli fa il 4 novembre 1958, e assume il respiro affatto
convenzionale d'un impegnativo e lungimirante di
scorso programmatico. A quanti si immaginano che egli continuerà ad atteggiarsi come «l'uomo di Stato, il
diplomatico, lo scienziato, l'organizzatore della vita collettiva, ovvero colui il quale abbia l'animo aperto a
tutte le forme di progresso della vita moderna» dice, con qualche severità, che sono fuori strada, perché si
fanno un'idea sbagliata di ciò che un papa deve essere. Giovanni preferisce ispirarsi a un pensiero di San
Bernardo: «Papa dicitur quasi amabilis pater».
Riferisce poi, che il papa è un buon pastore, come vuole Cristo, e come nel Vangelo riferisce San Giovanni
con le parole del Maestro. È il pastore che è pronto a dare la vita per le sue pecore, si impegna in
combattimento contro il lupo, e guida innanzi il gregge, finché l'orizzonte non si dilati, ed altre pecorelle
ancora accorrano, anche queste da guidare: «Udranno la mia voce, e si farà un solo ovile sotto un solo
pastore».
Ma v'è un momento, di quell'omelia, che può dirsi il suo culmine simbolico, come il luogo dove sembrano
condensarsi il passato e il futuro: «il nuovo papa», dice Giovanni, «per le vicissitudini della sua vita può
paragonarsi a quel figlio del patriarca Giacobbe che ammise alla propria presenza i fratelli colpiti da sventure
gravissime e scopre loro la tenerezza del cuor suo, e scoppiando in pianto dice: "Sono io, il vostro fratello
Giuseppe. A noi sta a cuore in maniera specialissima il compito di pastore di tutto il gregge"». E nel pronunciare questo messaggio inaudito per una Chiesa che la «cultura nemica» divide, fino all'uso politico della
scomunica, la voce di Giovanni sottolinea: «tutto il gregge».
Notiamo che papa Giovanni non esita a rimarcare la differenza del suo stile rispetto ai modelli invalsi. Egli
rivendica il diritto di misurare ed articolare il «vero ideale» di papa non tanto su paradigmi astratti di
sovranità, che si imporrebbero in ragione della loro mitologia arcaica, bensì con il proprio vissuto. Di più,
egli si paragona a «quel figlio». Nel messaggio della corona, egli delude le categorie verticistiche della
paternità sovrana, usa un linguaggio non omogeneo al livello monarchico, per assumere come criterio di
identificazione la figura, in qualche modo discendente, del figlio. Parla anche dei fratelli bisognosi, di
sventure gravissime, di tenerezza, riattualizzando in sé, all'atto della presentazione ufficiale dei suoi poteri
sovrani, una fra le più emotive pagine della Scrittura, quella del disvelamento dei legami fraterni fra
Giuseppe e i suoi fratelli, alla corte d'Egitto.
Soprattutto non può non impressionare il riferimento alla tenerezza. Come Giuseppe, anche Giovanni vuoi
mostrare ai fratelli «la tenerezza del proprio cuore». Così egli risponde alle manovre nemiche subite da loro,
aprendo una breccia nel circuito della violenza. Egli ha il potere, ma lo usa teneramente. Non è certo
frequente, neanche nella successione dei papati in età moderna, seguiti alla sconfitta storica del
temporalismo, ritrovare una così intensa immedesimazione
della figura papale — nel momento culminante della sua responsabilità programmatica e della sua forma
politica — nella categoria, diciamo debole e femminile della tenerezza, agli antipodi della categoria della
forza. Bisogna forse riandare a Gregorio Magno per trovare una consapevolezza del genere, a quella
ridefinizione del papa come servus servorum Dei, quando alla formula corrispondeva un contenuto effettivo.
Giovanni dichiara dunque di voler essere papa al modo tenero di Giuseppe. Egli non si dilunga in
disquisizioni politiche circa la complessa sfera di responsabilità connesse col ministero petrino. Parla di
lacrime piante, di sventure gravissime, di vicende esistenziali, di un momento vitale di una storia umana
attinta nel vissuto del popolo di Israele, la quale viene assunta ora come metafora di un intero pontificato.
Perciò Giovanni si impegna a essere non diplomatico ma pastore, non progressista ma tradizionale, padre
amabile e addirittura figlio, non al di sopra del dolore del mondo ma confuso lacrime nelle lacrime, non
forte, severo e ansioso, ma tenero, non padrone e giudice ma fratello e liberatore, non fratello per alcuni
soltanto ma «per tutto il gregge». E proprio in questo e per questo il papa sarebbe stato «nuovo».
Il 6 novembre il nuovo papa concede udienza «a coloro che hanno frequentato, durante la sede vacante e il
conclave, i locali del servizio stampa del Vaticano». Roncalli ammette di aver inteso così «ricompensarli del
fatto che in questa occasione non aveva avuto alcuna attenuazione l'ostracismo stabilito anni prima dalla
Commissione cardinalizia nominata da Pio XH per la Città del Vaticano». Più divertito che sdegnato,
Giovanni xxm coglie l'incontro con i giornalisti come lo scenario più adatto per farsi conoscere. Nello stesso
tempo egli nega valido fondamento alle indiscrezioni corse sullo svolgimento del conclave, raccolte nei
giorni precedenti da alcuni quotidiani.
«Durante queste ultime notti», confida bonariamente papa Giovanni, «mi era difficile prendere sonno. Ho
dato perciò una scorsa ai molti giornali, perché fa piacere vedere che il mondo si interessa al papato. Ho
constatato però che gli sforzi che i giornalisti hanno fatto sono stati notevoli, ma che il silenzio dei cardinali
è riuscito anche meglio.»
Egli aggiunge, con ilare volto, come non sia andata l'elezione in conclave: «Così si parla di un papa politico
e di un papa dotto, di un papa diplomatico, etc., mentre il papa è papa, è il Pastor bonus che cerca i mezzi
per raggiungere le anime, per diffondere la verità».
La decisione di fondare sulla pastoralità l'essenza del servizio petrino porta Giovanni xxm a riabilitare una
effigie papale piuttosto fraterna che monarchica di cui sembravano essersi perdute le tracce.
Roncalli comincia subito a esercitare il proprio ministero di vescovo
di Roma, a uscire dal Vaticano per visite pastorali nelle parrocchie e, già nelle prime settimane, a compiere
«opere di misericordia»: egli cioè fa emergere i titoli radicali di legittimazione del servizio papale, lasciando
in secondo piano le rappresentazioni internazionaliste, politiche e diplomatiche, che andavano proponendosi
quasi come titoli esaurienti di convalida della presenza del papato nella società moderna.
Ciò comporta il recupero di una nuova, ma allo stesso tempo antichissima base ecclesiologica del ministero
petrino e della sua dimensione pastorale, ben radicata nella comunità romana per svolgere, a partire da
questa, la propria diaconia pastorale al servizio di tutte le altre Chiese. Lo spazio che papa Giovanni sceglie è
quello di una figura papale ricondotta al proprio statuto fraterno («sono il vostro fratello Giuseppe») — la
Chiesa romana da un lato, le Chiese dall'altro, urbi et orbi da servire con una presidenza nella carità — ed è
in questa normalizzazione ecclesiale della funzione papale che si può cogliere il compimento del processo
secolare segnato dalla crisi del papato monarchista e temporalista nelle sue cangianti formulazioni storiche,
da Innocenzo ni a Pio XII.
Ma Giovanni xxm offre la dimostrazione che, accettando questa apparente diminuzione, la figura papale è
destinata a ricevere una nuova, e più vera solidarietà e grandezza. Assumendo come interlocutori naturali del
papa le coscienze, prima che i poteri, egli allarga come nessun altro pontefice prima di lui la cattolicità del
cattolicesimo, inteso nella sua natura teleologica di katàolòn, «presso tutti». In un'epoca di grandi minacce
alla pace del mondo, egli si mostra «operatore di pace» senza lasciarsi inibire da preoccupazioni ideologiche.
Le visite ai quartieri, agli ospedali e al carcere «Regina Coeli» di Roma offrono, fin dai primi giorni del
pontificato, la prospettiva di un papa che non si lascia rinchiudere nel palazzo del Vaticano.
«Ho messo il mio cuore vicino al vostro», dice Giovanni ai carcerati. «A dirvi il cuore che ci metto,
parlandovi, non ci riuscirei. Ma che altro linguaggio volete che vi parli il papa?»
Molti osservatori imparziali notano nel suo pontificato l'esaurimento della «Questione romana». In occasione
delle celebrazioni del primo centenario dell'unità d'Italia, nel 1961, Giovanni xxm riconosce la mano della
Provvidenza nel processo storico, che «pur attraverso variazioni e contrasti, talora accesi», ha guidato l'Italia
alla unità nazionale; un discorso che viene salutato con la formula spadoliniana del «Tevere più largo».
Pellegrino inerme, il papa tornerà in treno, il 4 ottobre 1962 ad Assisi e a Loreto, attraverso le terre che Pio
ix ha visitato da disperato sovrano temporale.
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Le riforme nella transizione.
La scelta di un ministero a carattere prevalentemente pastorale non può non mettere in tensione il vecchio
apparato, plasmato sul modello del papato come potenza, ancorché alleggerita dalle funzioni amministrative
dello Stato. In effetti Giovanni xxm interviene sulla struttura del collegio cardinalizio e sulla legislazione
elettorale, lasciando peraltro inalterato l'assetto fondamentale della Curia romana, della quale del resto ha
bisogno per realizzare l'impresa del Concilio Ecumenico. È notevole che negli interventi in questi campi
Giovanni xxm introduca per la prima volta uno spirito diverso da quello influenzato dallo «stato d'assedio»
che sembra presente, in misura più o meno ampia, nelle normative di alcuni dei suoi predecessori. Per la
prima volta un papa detta leggi elettorali caratterizzate da spirito di fiducia./
La Curia si aspettava dal nuovo papa che rimettesse in moto i rapporti — da tempo inattivi — tra la
monarchia papale e l'istituzione. Questa «fine della solitudine» del papa caratterizza i primi movimenti di
Giovanni xxm e, si direbbe, il suo breve pontificato complessivamente. I contatti con i capi dei dicasteri
romani vengono ripristinati e viene riempito un vuoto istituzionale della Curia di Pio XII, che non ha voluto
nominare il segretario di Stato. La sera stessa dell'elezione Giovanni xxm provvede a questa nomina nella
persona di monsignor Tardini.
Se il papa non ha sempre mano libera negli affari sui quali la Curia romana ha delle competenze che
rivendica, può essere relativamente più sciolto nella nomina di quelle che sono le sue «creature», i cardinali.
Perciò la politica di Giovanni xxm verso il Sacro Collegio merita di essere seguita particolarmente. Egli
decide, già nel primo colloquio del 30 ottobre 1958 con Tardini, di superare, con la prima lista dei nuovi
cardinali, il tetto dei settanta stabilito da Sisto v nel 1586 (il primo cardinale di questa prima creazione è
Montini).
È interessante la nota diaristica di quel 30 ottobre vergata dal papa sulla decisione: «Io detto i nomi (dei
nuovi cardinali) cominciando da mgr Montini arcv. di Milano e da mgr Tardini, coi quali si inizia una litania,
su cui ci troviamo perfettamente d'accordo. Arrivati al n. di 70, tra vecchi e nuovi, ci arrestiamo un
momento, ma poi, avvertendo che ai tempi di Sisto v la Chiesa cattolica occupava un terzo delle regioni
attuali, si continua, ed arriviamo al numero 23 di nuova nomina».
Senza precostituire nuovi tetti, egli stesso nel '60 porta a 88 i membri del collegio. In meno di cinque anni di
pontificato, fa cinque concistori, creando cinquantasette cardinali complessivamente, un numero quasi
uguale a quello di tutte le creazioni cardinalizie di Pio XII
in diciannove anni. Per la prima volta i cardinali europei scendono sotto il 70%, per la prima volta viene
nominato un cardinale d'Africa, Laurean Rugambwa della Tanzania, un cardinale cinese, vari cardinali
latinoamericani come il peruviano Juan Landazuri Ricketts e il cileno Raul Silva Henriquez.
Nonostante questo allargamento universalista, la politica cardinalizia di papa Giovanni è stata considerata
«una reazione». Egli non si sarebbe opposto al disegno della Curia quanto alla nomina dei cardinali, non
volendo, per ragioni umane, rifiutare un segno di gratitudine a dei funzionali incanutitisi al servizio della
Santa Sede. Il risultato sarebbe stato inevitabile: precisamente sotto questo papa del Concilio, il collegio cardinalizio «ebbe una azione più conservatrice di prima» secondo la Frankfurter Allgemeine Zeitung del 21
aprile 1965.
Tale valutazione non è stata condivisa da padre Robert Rouquette. In un articolo pubblicato dalla rivista dei
gesuiti francesi Études nel marzo 1965, il prestigioso commentatore gesuita di cose vaticane invitava a
notare che, se papa Giovanni aveva incontestabilmente assegnato la porpora a uomini che non erano di
primaria importanza apostolica o intellettuale, egli era determinato anzitutto dalla necessità di riempire i
vuoti lasciati nella Curia da Pio XII. Per questo il numero degli Italiani entrati nel collegio cardinalizio con
papa Giovanni è stato considerevole: nel primo concistoro del 1958, gli italiani erano tredici su ventitré
nuovi cardinali; nel 1959 erano tre su otto, nel 1960 due su dieci, nel 1961 uno su quattro, e nel 1962 tre su
sei.
Alla morte di Giovanni xxm il 3 giugno 1963 il collegio cardinalizio contava ventinove italiani su ottantadue
cardinali (35% invece che il 31% alla morte di Pio XII). Tuttavia il ventaglio multiversale si era nel
frattempo accentuato: su trentadue cardinali di curia nel 1962, dieci non erano italiani, anche se la maggior
parte dei postichiave restava in loro mano. Inoltre, alla morte di Roncalli, i cardinali appartenevano a trentun
nazioni. L'Europa non aveva più di ventinove rappresentanti su ottantadue, mentre nel 1939 disponeva di
quarantasei seggi cardinalizi su sessantadue. Se nel 1939 i cardinali latinoamericani erano due, nel 1963
erano dodici. Tutte le razze vi erano rappresentate: quattro cardinali dell'Estremo Oriente, due del Medio
Oriente, un nero africano.
Non meno incisiva la mutazione introdotta nello statuto ecclesiale del cardinalato grazie ad una serie di
interventi legislativi, volti a ricondurne il profilo ad una migliore coerenza teologica, liberandolo per quanto
possibile da ogni residuo politicomondano o semplicemente civilistico. Infatti, non appena muoiono i
cardinali Tedeschini e Mimmi, Giovanni xxm abroga il diritto di opzione sulle sedi suburbicarie e riserva a
sé il diritto, come vescovo di Roma, di nominare i cardinali nei titoli e nelle sedi che si rendono via via
vacanti. A ciò provvede col motuproprio del 10 marzo 1961 Adsuburbicaria diocoeses, ampliato 1' 11 aprile
1962 dal motuproprio «Suburbicariis sedibus».
Ancora più radicale l'intervento del motu proprio «Cum gravissima» del 15 aprile 1962 con il quale
Giovanni xxm stabilisce che tutti i cardinali siano consacrati vescovi, pur conservandosi distribuiti nei tre
ordini — vescovi, preti e diaconi — del collegio cardinalizio. Egli porta così a compimento quel vasto e, non
di rado, penoso processo che ha determinato le derive mondane del cardinalato recuperandolo alla sua radice
teologicoapostolica come sua intrinseca fonte di legittimazione ministeriale, accanto al successore di Pietro.
Poiché intende l'elezione papale come fatto ecclesiale, e non politico, papa Roncalli esige che tutti i cardinali
siano vescovi, dunque associati ad una Chiesa.
Come interventi accessori, si ricordano di Giovanni xxm quelli intesi a eliminare il carattere vitalizio
attribuito al ruolo del decano, premessa per rendere la sua funzione elettiva, come avverrà nel 1983, e nel
superare le barriere fisse esistenti tra i tre ordini del collegio.
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La legge elettorale di Giovanni xxm
II 5 settembre 1962 Giovanni xxm pubblica il motuproprio «Stimmi Pontificis electio» per modificare il
sistema elettorale pontificio. È la prima normativa del genere che, piuttosto di riprodurre le preoccupazioni
classiche di separare il regime conclavario, o addirittura di aggravarne l'isolamento, si muove nel senso di
avvicinarlo alla Chiesa complessiva. Il quadro sostanziale nel conclave, quale la vicenda storica ha coniato,
rimane immutato, nelle sue strutture basilari: la riserva cardinalizia e la clausura. Tuttavia, la riforma
giovannea vi introduce delle varianti sufficienti a costruire una prima inversione di tendenza nella storia della
legislazione elettorale pontificia.
Il suo motuproprio mitiga infatti la disciplina del conclave in alcuni punti non accessori, e introduce degli
elementi di relatività laddove si è annidato un discreto impulso sacralizzatore. Il segreto è ribadito, però
questa legge prevede la possibilità che il papa possa rimuoverlo con una speciale dispensa. Ancora più
significativo: la riforma giovannea stabilisce che debba ritenersi valida un'elezione del papa fatta «in altro
modo», cioè fuori di un conclave, così introducendo di diritto, prima ancora che il fatto sia avvenuto, la
possibilità di una forma elettorale non connotata né dalla segretezza né dalla clausura, né tanto meno da una
assolutezza malintesa della forma attualmente vigente.
Papa Giovanni abroga la norma pacelliana sui due terzi più uno come maggioranza necessaria nell'elezione, e
ripristina i livelli tradizionali dei due terzi dei votanti: solo se il numero dei cardinali presenti non può essere
diviso per tre, si dovrà aggiungere un voto.
Il segreto elettorale viene alleggerito anche per rispetto delle esigenze storiografiche. Pio XII ha ordinato di
bruciare, insieme alle schede, qualsiasi genere di scritture possedute dai cardinali, sull'esito di
ciascuno scrutinio. Papa Giovanni ordina che siano bruciate solo le schede. Le scritture cardinalizie
riguardanti l'esito di ogni scrutinio dovranno invece, «in virtù della sacra obbedienza», essere consegnate al
cardinale camerlengo o a uno dei tre cardinali capi d'ordine, dopo essere state impacchettate da ciascun
cardinale e sigillate. Il pacco sarà portato in archivio, «dove sarà custodito con ogni cura e donde non potrà
venire prelevato per poter essere aperto e letto senza l'autorizzazione del Sommo Pontefice». Il camerlengo
dovrà stendere una relazione contenente i risultati di ogni singolo scrutinio. Anche questo documento, chiuso
in busta sigillata da conservare in archivio, non potrà esser aperto da nessuno se non col permesso esplicito
del papa. Se ne desume che la normativa giovannea apre la possibilità di una consultazione dei documenti
elettorali d'archivio, senza fissare intervalli di tempo, a discrezione del papa.
Infine, la riforma adottata da Giovanni xxm disegna un conclave alleggerito dalle minacce penali. Le
scomuniche erogate dalla legislazione precedente sui cardinali e conclavisti che si rendessero responsabili di
violazioni delle norme vengono dimezzate, da dieci a cinque. Le scomuniche latae sententiae, che nel regime
anteriore potevano esser risolte solo per intervento grazioso del pontefice, ora sono rimesse all'indulgenza
della Curia romana.
Forse una delle proibizioni più severe è prevista per salvaguardare il rispetto della dignità della morte, col
divieto di fotografie indecenti del papa morto, quali sono corse sul cadavere di Pio XII. Si nota anche una
certa preoccupazione per le possibili intrusioni in conclave delle nuove tecnologie della comunicazione, in
particolare le radio trasmittenti.
Nel complesso, però, si hai'impressione di uno sforzo per reintegrare l'istituto conclavario all'interno di una
dinamica compiutamente ecclesiale, correggendo la forma conclavaria ereditata da otto secoli di vicenda
giuridica e di travaglio storico. Il conclave viene reso conoscibile, vicenda storica e anche materiale degno di
essere conservato e riesaminato per la storia: appassionato cultore di storia, Roncalli fornisce un motivo
ulteriore agli elettori per un comportamento elettorale responsabile non solo dinanzi a Dio e alla propria
coscienza, ma altresì davanti al «tribunale degli uomini».
Una valutazione d'insieme sembra poter suggerire che una tale riforma, per quanto contenuta nei limiti del
realmente possibile, riflette sufficientemente non solo la fiducia propria di Roncalli nei riguardi del mondo
— così differente dal pessimismo ossessivo di alcuni papi scorsi — ma anche alcune opzioni decisive del
pontificato in ordine alla visione spirituale della Chiesa, alle prerogative dell'episcopato e alla natura
comunitaria della Chiesa per una più intensa partecipazione di tutti ai suoi momenti nodali, come appunto
l'elezione del vescovo di Roma.
Non priva di significato è la data posta in calce al motuproprio: il 5
settembre 1962 papa Giovanni — che è già al corrente di essere affetto da un male e di avere i mesi contati
— può considerare conclusa la fase preparatoria del Concilio Vaticano u, la cui inaugurazione è prevista per
l'il ottobre seguente. In un messaggio radiofonico 1' 11 settembre egli sollecita i vescovi, in procinto di
affluire a Roma per l'assise, a corrispondere agli obiettivi proposti, di cercare la Chiesa «nella sua struttura
interiore (vitalità ad intra) e nei suoi rapporti ad extra, di fronte alle esigenze e ai bisogni dei popoli».
Commentando la formula «Lumen Christi, lumen gentium», Giovanni xxm afferma che «il mondo ha
bisogno di Cristo ed è la Chiesa che deve portare Cristo al mondo». Egli lancia una formula che avrà un
destino nella storia del cattolicesimo contemporaneo: «In faccia ai paesi sottosviluppati, la Chiesa si presenta
quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri».
È normale che proposte del genere non incontrino subito una disponibilità cordiale e universale. Tuttavia, le
ricerche storiografiche possono già provare che, in soli cinque anni di pontificato, Giovanni xxm si è
cimentato nell'impresa di integrare l'istituzione ecclesiastica nel suo progetto di riforma. Da cultore di storia,
è con cognizione di causa che egli rivendica la sovranità papale del Concilio Ecumenico. «Presidente del
Concilio è il papa», risponde al cardinale Canali il 25 gennaio 1959, dopo che i cardinali di curia, perplessi,
hanno ascoltato l'annuncio del Concilio nella sala capitolare dell'abbazia di San Paolo fuori le Mura.
// Concilio papale.
Concilio autenticamente papale, il Vaticano n è chiamato a rimettere in auge nella Chiesa una dinamica
partecipativa da tempo carente. Lo stesso collegio cardinalizio ne è investito, e infatti, dopo una obsolescenza più che ventennale, assume una serie di impegni nell'organigramma della preparazione del
Vaticano n, con la gestione diretta delle commissioni preconciliari.
Ma il papa mostra di tenere alla propria sovranità del Concilio e nel novembre 1962, durante la crisi
determinatasi sullo schema De duobus fontibus Revelationìs nel corso della prima sessione, egli interviene a
favore dell'autonomia dell'aula rispetto alle rivendicazioni egemoniche della curia romana. È uno dei casi in
cui si può verificare che il rapporto fra papa Giovanni e il Concilio è genetico, senza paragone possibile con
l'atteggiamento competitivo o sospettoso che alcuni papi hanno assunto in passato verso l'istituzione
conciliare.
Si deve infatti al papa non solo se i vescovi hanno di nuovo la parola in un Concilio — allorché sembrava
che la proclamazione dei poteri pontifici al Vaticano i avesse esaurito definitivamente la stagione dei Concili
universali — ma anche concrete misure di salvaguardia della libertà di parola e della sovranità dei Padri sul
Concilio: «Le sono
grato, Santo Padre», scriverà presto il primate belga cardinale Leon Joseph Suenens a Giovanni xxm, «di
aver salvato il Concilio nelle svolte decisive, di aver combinato con tanta saggezza il silenzio e la parola e di
aver dimostrato — talora exabsurdo, l'argomento più incisivo secondo Aristotele! — che il collegio
episcopale ha bisogno di una guida e che il "confirma fratres tuos" (conferma i tuoi fratelli) resta, dopo venti
secoli, di scottante attualità».
In un'assemblea conciliare mai stata più numerosa — 7 patriarchii, 80 cardinali, 1619 arcivescovi e vescovi
residenziali, 975 vescovi titolari, 97 superiori generali di ordini e congregazioni religiose, — Giovanni xxm
non è portatore d'un proprio progetto. L'allocuzione inaugurale dell'11 ottobre 1962, tutta scritta di suo
pugno, è piuttosto un grande disegno teologico e storico proposto alla Chiesa per ridefinirne il compito nel
mondo alla luce della Parola di Dio e degli imperativi che scaturiscono dal discernimento dei «segni dei
tempi», letti con occhi positivi e fiduciosi. Papa Giovanni si pone piuttosto come «preside e primate tra i
vescovi che come ordinatore del Vaticano II». Ma è precisamente questa sua decisione di autodiminuirsi che
fa crescere l'assemblea in uno spazio di insperata libertà, consentendo l'emergere al suo interno d'una
maggioranza favorevole al rinnovamento, e non più disposta — grazie all'appoggio papale — a subire
incondizionatamente la centralità del potere curiale.
Giovanni xxm non introduce molte riforme nelle strutture vaticane. I flabelli che appariranno ridicoli e
anacronistici dopo la sua morte continuano ad accompagnarlo nel suo avanzare sulla sedia gestatoria. Il
priore di Taizé Roger Schutz gli chiede, in un'ora in cui il papa gli sembra particolarmente disteso, se riesca
ad immaginare di poter abbandonare un giorno il Vaticano, segno della separazione e pietra d'inciampo per i
protestanti e gli ortodossi. Il papa ne resta visibilmente impressionato e pensieroso, e congedandolo quella
stessa notte: «Lei ha ragione», gli dice. «Ma io ho troppe cose da fare. Lo farà il mio successore.»
Tuttavia si può ammettere che anche questa relativa indifferenza ai problemi del rinnovamento delle
tappezzerie rinvia ad una strategia più esigente di riforma. Non avendo preso di mira direttamente il fasto
della corte, Roncalli è riuscito infatti a farlo sentire superfluo, superato. Il centro dell'interesse è situato nel
suo progetto fuori di quei margini.
Servire l'umanità
Dopo secoli in cui il papato si è preoccupato soprattutto della strutturazione della propria difesa e del suo
posto nella società politica,
Giovanni xxm si è provato ad uscire per andare incontro agli uomini e alle donne che erano stati lasciati fuori
dall'accampamento. Da lì egli ha cominciato a guardare la Chiesa e le ha chiesto di dare quello che l'umanità
ha diritto di attendersi da essa. Non ha ritenuto di procedere a riforme sostanziali nell'istituzione, si è limitato
a guardarla dal di fuori e ha rinnovato nell'umanità il diritto di esigere dalla Chiesa il senso della storia e il
senso della vita di ciascuna creatura umana, di qualunque creatura.
Come un ambasciatore di terre lontane e considerate «infedeli», egli ha immesso nel suo progetto di governo
questa decentralizzazione, dando un colpo di grazia al narcisismo così diffuso nei gruppi religiosi che si
ispirano al paradigma della Chiesa come potenza (Arturo Paoli).
Probabilmente l'originalità di Giovanni xxm consiste neh"aver capito che le sue spalle sono veramente fragili
e che Dio non può chiedergli di essere l'Atlante che porta sulle sue spalle il mondo. Una delle sue massime è:
«Non immaginatevi di insegnare all'Eterno Padre il governo del mondo». Per questo sono molti i teologi e gli
storici i quali indicano che con papa Giovanni la Chiesa romana ha l'opportunità di liberarsi
dall'ecclesiocentrismo per entrare, a piedi scalzi e molto umilmente, nell'età del regno di Dio esteso a tutta
l'umanità, senza confini possibili né tantomeno discriminazioni tra fedeli e infedeli, tra alleati e avversari.
In questa prospettiva si può intendere più adeguatamente il paradosso della formula «papa di transizione». Il
meno che si può dire è che alcuni elettori di papa Giovanni l'hanno adottata in modo piuttosto riduttivo, e
comunque senza bene sapere a cosa andassero incontro. La transizione investe in modo importante le
tradizionali alleanze politiche della Chiesa romana. La linea di Giovanni xxm lavora per una Chiesa libera
dalla soggezione delle potenze, inclusi gli Stati Uniti d'America, che si sono investiti di fatto del ruolo di protettori degli interessi e della libertà della Chiesa in Occidente, con le relative contropartite. «Non mi
allarmano i rumori scomposti che tentano forse di impressionare gli uomini di Chiesa», scrive Giovanni xxm
nel diario del 30 aprile 1963, dopo aver ricevuto il capo della Cia John McCone. «Io benedico tutti i popoli e
non sottraggo fiducia ad alcuno.» La Cia era preoccupata delle aperture della Santa Sede verso Mosca, dopo
l'udienza privata concessa dal papa al genero di Kruscev Alexei Adjubei, contro il parere del cardinale
Ottaviani, del cardinale Siri e del «partito romano».
La Curia rimprovera al papa il «disimpegno» morale del campo dell'Occidente, di fare il gioco del
comunismo internazionale. Giovanni xxm risponde nel 1963 con l'enciclica Pacem in terris, probabilmente il
testo più importante pubblicato dal papato in questo secolo: senza usurpare funzioni temporali che non gli
competono, egli dimostra come sia possibile contribuire a mettere in crisi le grandi pi
ramidi ideologiche che incombono col loro ricatto nucleare sull'umanità intera. Egli dichiara per la prima
volta improponibile una «guerra giusta», e anzi bolla qualsiasi guerra moderna come «contraria alla
ragione». Egli chiede alla Chiesa di servire non tanto se stessa, quanto l'umanità, richiamandola al lavoro per
la pace non solo come compito politico quanto anzitutto come obbligo religioso.
Sul letto di morte egli detta un prezioso testamento che si può intendere anche come un piccolo breviario del
compito papale evangelicamente rinnovato: «Ora più che mai, certo più che nei secoli passati», dice
Giovanni xxm al segretario di Stato Cicognani, «noi siamo intesi a servire l'uomo in quanto tale, e non solo i
cattolici. A difendere anzitutto e ovunque i diritti della persona umana, e non solamente quelli della Chiesa
cattolica. Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio. È giunto il
momento di riconoscere i "segni dei tempi", di coglierne le opportunità e di guardare lontano».
Il 3 giugno 1963, la morte di papa Giovanni suscita il cordoglio universale. La sua fine è vegliata da
un'immensa folla, silenziosa e commossa, di cristiani e di non cristiani, di credenti, di agnostici e di non
credenti, in piazza San Pietro.
Alla espressione coniata per la sua elezione, «papa di transizione», un teologo contemporaneo, Karl Rahner,
ha dato una più vasta e prospettica significazione: «II papa di transizione Giovanni xxm ha operato la
transizione della Chiesa nell'avvenire».
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CAPITOLO XIII.
Paolo VI (1963-1978).
La mattina del 18 giugno 1963 alcuni fra i cardinali della maggioranza novatrice del Concilio si ritrovano in
segreto nel convento dei Cappuccini di Frascati. Arrivano alla spicciolata, in abiti irrituali. Ci sono il
francese Achille Liénart, che ha rotto il ghiaccio al Concilio nella prima sessione, l'olandese Bernard Alfrink,
il canadese Emile Léger, l'austriaco Franz Kònig, il belga Leon Joseph Suenens, il tedesco di Colonia Joseph
Frings. Quando ad essi si unisce l'arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, le porte della stanza si
chiudono. All'ordine del giorno figura la strategia da seguire per il conclave, che inizia l'indomani
pomeriggio.
È un conclave duro, questa è l'opinione comune. La maggioranza novatrice, che per la prima volta ha
ridimensionato il potere della Curia romana al Concilio, risulta assai più debole nel Collegio cardinalizio,
dove i cardinali romani e curiali mantengono delle posizioni sufficienti per condizionare qualsiasi risultato.
D'altra parte è accertato che la scelta del nuovo papa avrà un'influenza decisiva sugli sviluppi conciliari. Per
la prima volta, dall'epoca del Concilio di Trento, il conclave è in una relazione così stretta col Concilio che
non è esagerato ritenere che l'elezione papale è una variabile del Concilio stesso.
«Il Concilio ha preparato il conclave», riconosce il cardinale decano, Eugenio Tisserant nel commentare il
precipitarsi a Roma, fin dalle prime ore successive alla morte di papa Giovanni, di tanti cardinali della
Chiesa universale. «Se ogni cosa fosse certa e scontata», osserva l'anziano cardinale Pietro Ciriaci, «non vi
sarebbe questa calata di cardinali esteri a Roma.»
Il Vaticano n appare come la vera discriminante dell'elezione. Il Concilio ha messo in comunicazione Chiese
e leader fra loro lontani, ha consentito delle solidarietà e delle alleanze, ha fatto emergere e conoscere sul
piano universale dei nuovi protagonisti della Chiesa cattolica. Questo è ora un capitale che attende di essere
reinvestito nel processo elettorale. Alcuni di questi leader delle Chiese centroeuropee hanno imparato negli
scontri dei primi mesi del Concilio che il nucleo ierocratico romano, passata la «transizione» giovannea, non
aspetta altro che l'occasione formale per un ribaltamento di quella prospettiva. Forse per Ottaviani, Pizzardo
e Siri — i maggiori
sconfitti della prima sessione — il conclave rappresenta l'ultima e unica opportunità per invertire una
tendenza che al Concilio è apparsa straripante.
Ma nella riunione di Frascati, non si parla solo di alleanze e di schieramenti. Il più preoccupato appare
Frings, che teme una divisione nel campo dei novatori. I cardinali centroeuropei sono decisi a candidare
Montini, su un «capitolato elettorale» che includa la continuazione del Concilio. Sanno che Montini potrebbe
essere un candidato ideale, l'unico forse capace di saldare l'ala «progressista» con il settore della Curia
romana meno oltranzista: del resto, solo acquistando alcuni consensi fra i cardinali «romani» sarebbe
possibile ai «conciliari» portare il loro candidato sul trono.
Ma questa operazione ha un costo: occorre ridimensionare la riforma conciliare su metri meno radicali, più
attenti alla complessità dell'istituzione. La piattaforma per la nuova agenda conciliare è stata preparata da
Suenens ed ha già ricevuto l'adesione di Montini in aperto Concilio. L'intervento di Montini, uno dei rari in
aula, è stato elogiato da papa Giovanni, ma si è fatto apprezzare per equilibrio anche dall'ala conservatrice.
La pastorale pubblicata dall'arcivescovo di Milano per la Quaresima 1962 ha messo in guardia dall'illusione
che il Concilio decreti «riforme radicali e sbalorditive negli ordinamenti presenti della Chiesa». Questa linea
di «moderatismo progressivo», come l'ha definita L'Osservatore Romano in un articolo di fondo quasi
certamente ispirato, appare ai cardinali del Centro Europa la sola che possa assicurare al conclave il
compromesso vincente.
Non è della stessa opinione Lercaro. Chiuso nel convento delle Oblate benedettine presso le catacombe di
Priscilla sulla via Salaria, dove ha il suo domicilio romano, l'arcivescovo di Bologna è anch'egli al centro di
un'aspettativa di elettori italiani e stranieri. Il successo del progetto sulla riforma liturgica preparato dalla sua
commissione — l'unico degli schemi preconciliari che i vescovi non abbiano rifiutato nella prima sessione
— è valso al cardinale una notevole stima internazionale. Lercaro è fautore di un modello alto di riforma
cattolica, misurato più sulle esigenze radicali del Nuovo Testamento che sulle complessità istituzionali, più
sulla profezia che sulla politica. In Concilio egli è intervenuto per proporre un ritorno della Chiesa alla povertà evangelica ed è indiscutibile che, per i suoi sostenitori, egli rappresenterebbe, più di altri, la saldatura
tra il Concilio, il papato e la riforma della Chiesa, la vera continuità rispetto a papa Giovanni, su una linea di
pontificato «religioso», più che «politico».
Ciò che preoccupa Frings è che una tensione del genere, normalmente salubre per il benessere della Chiesa,
potrebbe indebolire nelle attuali circostanze lo schieramento dei fautori della continuazione del Concilio, di
fronte al gruppo dei cardinali decisi a ottenerne la liquidazione al più presto possibile e al minor costo
possibile. Si tratta
dunque di riunificare il campo «conciliare» intorno ad alcuni obiettivi di salvaguardia, primo dei quali la
riapertura del Concilio, che la morte del papa ha interrotto e che solo il nuovo papa ha il potere di
riconvocare, se lo vorrà. E non c'è dubbio — pare a Frings e ai suoi, amici — che Montini ha molte più
possibilità di Lercaro di attirare i voti necessari da qualche settore curiale.
Qualche ora dopo Montini va a trovare Lercaro a Santa Priscilla. Contemporaneamente si sviluppa il
sondaggio dei novatori sull'ala curiale. Montini trova un sostenitore in un personaggio insospettabile, tanto è
lontano dalle posizioni teologiche e politiche dell'ex sostituto di Pio XII : si tratta del vicario di Roma
Clemente Micara, uno dei personaggi più potenti della vecchia Curia, un cardinale feudale che Pacelli ha
tentato invano di rimuovere per avviare la diocesi romana a qualche svecchiamento. Si parla anche di un
altro alleato imprevedibile, e altrettanto potente, l'arcivescovo di New York cardinale Francis Spellman che
infatti si fa ricevere in quello scorcio di vigilia da Montini. A queste candidature i conservatori rispondono
proponendo il cardinale friulano Ildebrando Antoniutti, un diplomatico, intimo dell'Opus Dei fin dall'epoca
della sua nunziatura in Spagna. Papa Giovanni lo ha richiamato a Roma per diminuire i legami troppo ardenti
del nunzio col franchismo e gli è toccato riservargli un cappello, secondo consuetudine. Il volto affilato, il
tratto severo segnalano la misura aristocratica del suo conservatorismo spirituale, non meno che dottrinario: è
il candidato ideale di Siri e di Ottaviani, per seppellire senza colpo ferire la primavera giovannea.
Ed è un manifesto per la restaurazione che viene promulgato in Vaticano, la mattina del 19 giugno, nella
predica De eligendo pontifice fatta ai cardinali prima della loro reclusione. Un intervento senza sfumature,
che ha il solo vantaggio di dichiarare francamente il disegno della Curia di chiudere la «transizione» di papa
Giovanni. Descrivendo ai cardinali elettori un ritratto ideale del futuro papa, il segretario delle «lettere
latine» Amieto Tondini oppone all'ottimismo del papa defunto una visione apocalittica del mondo. Egli
insiste sull'assenza di ogni sentimento morale e religioso nell'entusiasmo col quale è stato accolto il
messaggio di pace di Roncalli: «sarebbe infatti da tacciare di pessimismo chi avanzasse riserve sul
significato di non pochi di quegli entusiastici applausi, rivolti al Papa della pace, e si domandasse se essi
fossero davvero tutti espressione di anime che sentivano i veri valori dello spirito e credeva, a Cristo o agli
insegnamenti dogmatici e morali della Chiesa?».
Tondini mette l'accento sugli errori dello scientismo contemporaneo, del materialismo, del relativismo:
dichiara di vedere ovunque rovine. Sottolinea il fatto che le relazioni tra i popoli continuano a basarsi
sull'odio e sulla violenza. Suggerisce che, prima di riprendere il Concilio, il nuovo papa lasci maturare
meglio le questioni, il che equivarrebbe a chiedergli un rinvio a data lontana. E si augura il ristabili
mento dell'ordine. Egli non può trattenersi dal proclamare in faccia al mondo ciò che tanti uomini, in questo
momento, anche in seno alla Chiesa e persino nel Sacro Collegio, attendono, sperano dal prossimo
pontificato: che esso reagisca, con prudenza ma con forza, contro la linea di Giovanni xxm; che su un punto
essenziale — l'apertura all'Est — il nuovo papa demolisca, prima che sia troppo tardi, ciò che Roncalli ha
iniziato.
L'elezione
La sera del 19 giugno 1963 ottanta cardinali entrano in conclave. Mai gli elettori di un papa sono stati più
numerosi. Gli italiani sono ventinove, un numero mai stato, prima, così basso in proporzione, pari al 3 5 °/o.
Ventidue sono i cardinali di Curia (27 % ), un gruppo abbastanza nutrito per controllare l'elezione mediante
la manovra sul terzo bloccato dei voti. Cinquantasette sono i cardinali europei. Per essere eletto occorrono
cinquantaquattro voti. Il conclave dura dal 19 giugno sera al 21 giugno in tarda mattinata. Si conclude con
l'elezione dell'arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, il quale assume il nome di Paolo vi e si
prepara ad affrontare quindici anni di un regno lungo e contrastato.
Le notizie disponibili non sono molte, ovviamente. Di quel conclave drammatico, per tanti aspetti decisivo
sugli orientamenti del pontificato, sono accessibili piuttosto delle linee generali, corredate da frammenti
sparsi che occorre ricomporre in modo prudente e per lo più probabilistico.
Un primo dato sicuro è che la candidatura di Montini trovò vigorose e ostinate opposizioni, capeggiate
dall'arcivescovo di Genova, cardinale Giuseppe Siri, e fino a un certo punto dal prefetto del Sant'Offizio,
cardinale Ottaviani. Opposizioni teologicamente attrezzate e politicamente sostenute, comunque così tenaci
da impaludare il conclave in un impasse logorante. I due blocchi si affrontarono abbastanza a lungo incapaci
di mediazioni.
Ci furono sei scrutini, complessivamente, però già al quarto, la sera del 20 giugno Montini aveva raggiunto
50 voti, quattro meno dei due terzi, e l'elezione gli era sfuggita per poco. «Era nominato la sera innanzi il 21
giugno», ha scritto, esagerando, il conte Giuseppe Dalla Torre nelle sue Memorie. «Volle che ci si pensasse
la notte. E così fu.»
Se le mie fonti non si sbagliano, nelle prime due votazioni, la mattina del 20 giugno, i due candidati maggiori
erano già visibili con alte cifre di suffragi: trenta voti per Montini e venti per Antoniutti. Accanto a loro
figurava Lercaro, con una ventina di voti. Nella terza votazione, il pomeriggio, i voti di Lercaro confluivano
su Montini, che saliva così a cinquanta suffragi.
Tuttavia, l'opposizione della Curia non accennava a diminuire, se nel paesaggio elettorale appariva, accanto
ad Antoniutti — che manteneva il suo pacchetto di voti — anche la candidatura del cardinale curiale
Francesco Roberti.
Il significato di questa operazione non poteva sfuggire: il partito conservatore, sotto l'impulso
dell'intransigenza antimontiniana di Siri, non sembrava orientato a consentire il successo di Montini, mentre
il blocco conciliare aveva toccato ormai il tetto delle proprie possibilità, e si trovava al bivio: o accettare fino
in fondo la sfida dei conservatori, e insistere su Montini, o cambiare candidato, ripiegando su un nome di
compromesso, cioè in sostanza sul candidato proposto dalla Curia stessa: Roberti. La candidatura di Lercaro,
abbandonata troppo presto dai «conciliari», era divenuta ormai impraticabile. Altri nomi non erano stati
immaginati. Così stando le cose, era chiaro che difficilmente uno dei due blocchi avrebbe avuto la possibilità
di prevalere sull'altro. L'impasse venne avviato a soluzione nel pomeriggio del 20 giugno, in modo imprevedibile e del tutto irrituale. Nel silenzio della Cappella Sistina, mentre gli addetti distribuivano le schede per la
quarta votazione, si levò dal suo scanno il cardinale Gustavo Testa, bergamasco, amico personale del papa
defunto e prefetto della Congregazione per le Chiese orientali. Egli si avvicinò ai cardinali Carlo
Confalonieri e Alberto Di Jorio, entrambi di Curia, e chiese loro, a voce abbastanza alta perché anche altri
sentissero, di adoperarsi perché certe manovre fossero abbandonate.
L'iniziativa era per lo meno inconsueta. La legge elettorale la proibiva: non si poteva parlare in conclave, tra
uno scrutinio e l'altro. Nessuna consultazione era ammessa fra le due votazioni — l'una immediatamente
successiva all'altra — e tutto doveva avvenire in religioso silenzio. La sostanza dell'iniziativa di Testa
consisteva in un appello, rivolto alle coscienze del partito curiale perché le logiche dei blocchi fossero
superate, trovata un'intesa per il bene generale della Chiesa, per non dissipare il patrimonio morale
guadagnato al papato romano da papa Giovanni, in faccia al mondo. Alcuni affermano che il cardinale —
uomo pragmatico, uso alla franchezza, imponente di corporatura — non evitò le parole dure e le critiche. La
posizione del cardinale Testa non era facile, anche solo dal punto di vista psicologico. Egli era stato tra i
cardinali di Curia, non molti, che avevano collaborato in modo convinto con Giovanni xxm, specie per
riaprire i contatti con il Patriarcato di Mosca. Tuttavia era poco convinto che la scelta della candidatura di
Montini fosse, il 17 giugno, la più adatta, e aveva manifestato i suoi dubbi a un prelato vaticano dell'ala
giovannea, venuto a parlargli su mandato di monsignor Angelo Dell'Acqua, che era stato sostituto di papa
Roncalli e suo uomo di fiducia. Il prelato aveva una missione precisa da compiere: persuadere il cardinale
Testa ad agire a favore di Montini al
l'interno del gruppo curiale, nel tentativo di spostare un certo numero di suffragi sul nome dell'arcivescovo di
Milano.
Quel colloquio, segreto, svoltosi in un angolo sicuro del Vaticano, al riparo di sguardi indiscreti, avrebbe
avuto una certa importanza nella genesi dell'elezione. Testa era bene al corrente del fatto, che il prelato gli
ricordava, che papa Giovanni aveva auspicato Montini come il più probabile dei suoi successori. Ma ciò non
bastava a superare le perplessità del cardinale: Montini gli sembrava incerto, dubbioso, forse non troppo
adatto a reggere il timone.
«Voi lo conoscete veramente?», diceva. «Potrebbero essere anni gravi per la Chiesa.»
Tuttavia, le argomentazioni addotte dal prelato fecero breccia, alla fine, e il cardinale accettò di svolgere
l'azione che gli veniva suggerita: «Aderisco», disse, «per rispetto a Dell'Acqua, non perché intimamente
convinto».
Si può supporre che Testa cominciasse allora una serie di avvicinamenti fra gli elettori, allo scopo di
sollecitare l'adesione di alcuni cardinali dell'ala conservatrice all'elezione di Montini. L'ipotesi può essere
suffragata da un articolo pubblicato da // Corriere della Sera nel quale Fabrizio De Santis, insigne e
rimpianto vaticanista, ha riferito che fu il cardinale vicario Clemente Micara a «porsi alla testa dei
"montiniani"» e a tranquillizzare alcuni elettori di parte conservatrice circa il sostanziale moderatismo dell'ex
sostituto, senza tuttavia fornire elementi sull'esito della mediazione.
Del resto, si sarebbe potuto contare, per la sua riuscita, anche su altri personaggi che, pur lavorando nella
Curia romana, ne rappresentavano la complessità di tendenze e sfumature, quali, ad esempio, il cardinale
gesuita tedesco Agostino Bea, messo da Giovanni xxm a capo del Segretariato per l'Unione dei Cristiani e
contraltare di Ottaviani nella Commissione Dottrinale del Concilio, o anche uomini di notoria indipendenza
come Agagianian, Tisserant, Confalonieri, Di Jorio e lo stesso Testa.
D'altra parte, si può comprendere come l'altezza della posta in gioco apparisse a entrambi i blocchi tale da
rendere difficile, in quell'ora del conclave, un primo passo formale dell'uno verso l'altro. Le posizioni
ideologiche risultavano incomponibili, più di quanto fosse stato previsto alla vigilia: per gli uni era questione
vitale la continuazione del Concilio e la riforma della Curia romana, per gli altri l'imbrigliamento del
Concilio e la sua conclusione già con la seconda sessione.
Secondo alcune fonti lo stesso Testa dovette essersi reso conto che i margini di mediazione non erano
sufficienti a un compromesso in quelle condizioni. Per questo è possibile che il cardinale abbia immaginato
che solo un'iniziativa straordinaria sarebbe stata in grado di scuotere l'assemblea.
Coloro che hanno seguito da vicino questa vicenda ricordano che il cardinale appariva turbato dallo
spettacolo dei contrasti tra le fazioni, dal clima di sospetto e di sotterfugio in cui il conclave era precipitato.
«C'è stata lotta», ammetteva Testa appena uscito dal conclave. «Sono successe cose orrende. Sento il bisogno
di chiedere il permesso al papa di poterne parlare, per liberarmene. Anche a Montini è sfuggita qualche
parola grave, che non ha contribuito alla calma. La minoranza era decisa a non schiodarsi dal voto su
Roberti.»
In questo scenario nasce l'iniziativa di Testa. Appena raggiunti gli scanni dei cardinali Alberto Di Jorio, capo
delle finanze vaticane, e Carlo Confalonieri, prefetto della Concistoriale, dall'altra parte della Cappella, egli
manifesta a voce alta il suo appello ad un cambiamento spirituale, riprovando con forza i comportamenti in
atto.
La reazione dei cardinali varia tra la meraviglia, la solidarietà, lo sdegno. Alcuni leader dell'ala conservatrice
appaiono duramente contrariati, per un atteggiamento che temono possa scompaginare la compattezza del
loro gruppo. Impietrito, il cardinale Siri, per il quale l'elezione di Montini sarebbe «carica di oscure
previsioni» si leva a sua volta, chiede la parola ed eleva la sua protesta formale per un'iniziativa che minaccia
di rompere sulla sua destra il blocco conservatore. Lo stesso cardinale decano Tisserant non può che unirsi a
tale riprovazione.
Umiliato dalla vicenda, Montini vorrebbe alzarsi a sua volta per dichiarare il proprio ritiro dalla «corsa». È il
cardinale veneziano Giovanni Urbani che ha il seggio accanto al suo, a persuaderlo a tacere: «Lei non parli»,
gli sussurra, trattenendolo con una gomitata in extremis. È in questa tensione che i cardinali scrivono per la
quarta volta il nome del rispettivo candidato sulle schede. Lo spoglio è rapido. Difficile prevedere se
l'appello avrà qualche successo. Il rischio comunque è che la candidatura di Montini esca da questo
frangente, priva di ulteriori possibilità. Quando lo scrutinio viene pubblicato, ci si rende conto che Montini
ha rastrellato ancora qualche voto, ma non sufficiente per l'elezione, la quale anzi sembra chiusa dalla
ostinata opposizione di trenta irriducibili.
È la sera del 20 giugno e nelle celle del più intimo Vaticano il venticello del tramonto romano mitiga appena
l'arsura. Uscendo dalla Sistina lungo la galleria del Lapidario il cardinale Kònig si accompagna a Montini,
entrambi diretti alle loro celle attigue. «Spero che i voti non vadano più nella direzione della mia elezione»,
gli dice Montini, stremato dalla tensione. «Io mi trovo ora in un buio... Mi trovo nella notte! Però, so per
certo che colui che sarà eletto dovrà seguire la strada di papa Giovanni.»
Quella sera il cardinale Amieto Giovanni Cicognani, ex segretario
di Stato di Roncalli, visita Montini, ottenendone la conferma nella carica nella eventualità dell'elezione.
Comincia ad emergere una certa flessibilità, una scomposizione del muro degli intransigenti: lo stesso
Ottaviani appare incline a desistere. Il gruppo Di Jorio passa nel campo di Montini. Questa mossa è
risolutiva, perché assicura lo sblocco del processo grazie all'aggregazione in extremis dei conservatori
all'area progressista ormai ferma in un angolo, per condizionare il successo. La proposta non sembra
suscitare eccessivi entusiasmi. Vi è un nucleo di curiali e di conservatori nei quali l'antico sospetto su
Montini appare difficilmente esauribile, e che considerano disagevole accettare il ritorno nelle vesti bianche
dell'esule che avevano visto con qualche sollievo allontanato da Roma nel 1954.
«A suo avviso, quale sarà il compito del nuovo papa?», chiede l'arcivescovo dì Parigi cardinale Maurice
Feltin a Siri, suo vicino di seggio.
«Roncalli è morto lasciando spalancate le porte», risponde Siri gelidamente. «Vostra Eminenza sarà
d'accordo con me che le porte non chiuse sbattono. Toccherà comunque a Montini chiuderle.» Sembra una
dichiarazione programmatica, dura e combattiva e come tale infatti si dimostrerà. L'arcivescovo di Genova, il
«delfino» appare stizzito, non si saprebbe bene se più col partito dei montiniani o col gruppo dei «pentiti»
curiali, che hanno inferto un colpo inatteso alla sua intransigenza.
Il mattino successivo, 21 giugno il sesto scrutinio riflette le acquisizioni politiche raggiunte e le alleanze
stabilite tra novatori e il settore curiale che va da Ottaviani a Dì Jorio: l'elezione è ottenuta con 57 voti,
appena tre sopra la maggioranza necessaria. Un gruppo di ventidue oppositori ha mantenuto fino in fondo il
proprio rifiuto.
Il leader riconosciuto del gruppo conservatore al Vaticano n, Alfredo Ottaviani, appare ilare al fianco di
Paolo vi, nel fulgore del mezzogiorno di quel primo giorno d'estate, quando il neoeletto si presenta alla folla
romana dalla loggia della Basilica vaticana. È il primo indizio pubblico di quanto è avvenuto tra le mura del
conclave. Il secondo segnale è la conferma immediata di Amieto Cicognani come segretario di Stato, a
testimoniare fedeltà all'impegno adottato di continuare la costruzione di cui Giovanni xxm ha appena gettato
arditamente le basi. Un terzo indizio affiora quando il nuovo papa si china su Lercaro in ginocchio per la
cerimonia dell'«adorazione»: «Vede com'è la vita eminenza», gli dice. «A questo posto dovrebbe esserci lei.»
Subito dopo aver benedetto la gente, Paolo vi rientra tra i cardinali nella sala da pranzo usata durante il
conclave. Il decano Tisserant gli offre naturalmente il posto di capotavola. Ma Montini,
già rivestito dell'abito bianco, preferisce sedere al posto che ha occupato da cardinale.
Il giorno dopo Paolo vi compie la prima uscita dal Vaticano, per visitare il cardinale spagnolo Pia y Daniel,
che si è ammalato. Prima di uscire dall'Arco delle Campane, ordina all'autista di fermare davanti
all'appartamento del cardinale Testa. La visita non è annunciata. Il cardinale si precipita sull'uscio a ricevere
il papa, che moltiplica gli elogi per il cardinale, ringraziandolo per l'iniziativa presa poche ore prima. La
domenica successiva Paolo vi si affaccia per la prima volta alla finestra del suo studio privato nel palazzo
apostolico per la benedizione del mezzogiorno. Accanto a lui chiama a benedire la gente anche il cardinale
Suenens.
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Un ritratto di Montini.
A dispetto di questi gesti concilianti, le cicatrici del conclave del 1963 non si rimargineranno tanto
facilmente. E il «capitolato invisibile» trattato per quella elezione graverà fortemente sulla linea di Paolo vi.
Come osserva A. Riccardi, l'elezione di Montini al papato «era uno spettro contro cui gli ambienti romani
avevano lottato fin dagli anni Cinquanta. Ed erano riusciti nel loro intento con la sua esclusione dal Collegio
dei cardinali al momento dell'elezione di papa Roncalli. Ma le scelte di papa Giovanni, come la straordinaria
convocazione del Concilio, avevano innescato una logica non più controllabile neppure da una Curia forte
[...]. Erano più di vent'anni che Ottaviani e i suoi amici avevano intuito in lui una presenza particolarmente
diversa, partecipe di un'altra visione religiosa, contrassegnata da un diverso atteggiamento verso il mondo
moderno. Questa visione, maturata negli anni, era calata in una struttura da "perfetto diplomatico" e da
maturo ecclesiastico, capace di valutare l'importanza della gradualità e delle attese. Montini era un curiale,
senza essere un romano [...]. L'elezione di Montini rappresenta un'indubitabile affermazione della
maggioranza del Vaticano n nel conclave. Tuttavia, in questa area, Paolo vi rappresenta la personalità meno
esterna all'universo del governo centrale del cattolicesimo».
L'ambiguità che costituisce la costante delle critiche rivolte alla condotta di Paolo vi appare, in questa luce,
una componente strutturale della sua carriera, anzi della sua forma mentale. Uscito da una famiglia della
borghesia bresciana nel 1897, figlio d'un giornalista deputato del Partito Popolare, il giovane Montini era
stato ordinato prete nel 1920 senza aver seguito studi regolari in seminario. Egli aveva ricevuto da giovane il
fascino delle grandi personalità della Controriforma cattolica nei contatti con gli uomini dell'Oratorio sia a
Brescia che a Roma. Ma l'atteggiamento eticoreligioso di Montini aveva ereditato da quella radice culturale
anche una profonda sim
patia per il liberalismo cristiano e cattolico, in una interpretazione avanzata del Tridentino.
I cardinali Ferrari, Maffi e Mercier erano stati nella sua giovinezza altrettanti punti di riferimento, al pari di
Newman: questo insieme di sollecitazioni culturali, alle quali nel 1928 venne ad aggiungersi quella di
Jacques Maritain, aveva marcato il cattolicesimo inquieto e complesso di Montini, facendogli presagire la
necessità d'una riforma cattolica, purché contenuta nei limiti precisi in cui non mettesse in dubbio la
continuità della tradizione, né cedesse ad un soggettivismo arbitrario: «bisogna essere cauti a parlar di
riforme», aveva scritto nella prefazione alla traduzione italiana dei Tre Riformatori di Maritain, «cioè a
inventare sistemi nuovi e mai prima scoperti, e a procedere nel pensiero e nella vita con la spavalda e
avventurosa libertà degli egoisti e dei rivoluzionari».
Dal 1921 Montini aveva vissuto nella Roma ecclesiastica, spendendosi nel ministero coi giovani intellettuali
cattolici della FUCI non meno che nei gangli della diplomazia vaticana, ove dal 1937 al 1954 — sotto
l'immediata autorità di Pizzardo — era stato a fianco di Pio XII come sostituto della Segreteria di Stato.
Notevole, di quel periodo, la confidenza da lui fatta a padre Riccardo Lombardi circa la necessità che il papa
abbandoni finalmente il mantello del sovrano temporale «e se ne vada, almeno alcuni periodi, in San
Giovanni in Laterano, a vivere coi suoi seminaristi, col suo popolo, con un altro rituale nuovo [...]; lasci il
Vaticano e tutti lì, coi loro stipendi, e in San Giovanni inizi il nuovo governo della Chiesa, come il povero
Pietro». In seguito ai tentativi da lui compiuti per evitare l'alleanza dell'Azione Cattolica con i neofascisti e la
politicizzazione della Chiesa, il «partito romano» aveva presentato a Pio XII un'immagine dubitativa della
fedeltà del suo prosegretario di Stato, che indubbiamente non simpatizzava con operazioni del genere, anzi
era accusato di favorire l'apertura a sinistra. Così si era riusciti a indurre il papa a mandarlo arcivescovo a
Milano. Questo distacco aveva contribuito a circondare la figura di Montini di fama di ecclesiastico aperto,
fama che le iniziative pastorali (come la missione cittadina del '56), le aperture ai lavoratori, e i suoi interessi
culturali «moderni» avevano alimentato.
Riabilitato da Giovanni xxm, il primo dei suoi cardinali, Montini era stato quasi il solo vescovo italiano,
insieme a Lercaro, a proporre per il Concilio un programma di vaste riforme. Nei «vota» dell'arcivescovo, si
può vedere che egli aveva anticipato alcune tendenze maggiori che si sarebbero imposte nel Vaticano n:
spirito di dialogo ecumenico, adattamento della pastorale, largo impiego delle lingue vive e della Bibbia
nella liturgia, valorizzazione dell'episcopato individuale e collettivo, riforma e internazionalizzazione della
Curia ro
mana, limite di età per i titolari di funzioni pastorali, spirito di povertà e di semplicità delle strutture della
Chiesa, una ridefinizione dell'atteggiamento della Chiesa verso i non credenti.
«Meno insisteremo sui diritti della Chiesa e più avremo la possibilità di essere ascoltati, specie in quelle zone
del mondo in cui la Chiesa è considerata un'istituzione paternalistica e di spirito colonialista», aveva detto il
5 dicembre 1962 nel suo intervento in Concilio, nel quale aveva aderito — deludendo nuovamente la Curia
— al piano proposto da Suenens per la totale riforma degli schemi conciliari.
Il riformismo prudente professato da Montini, la sua origine culturale, la sua cultura politica sinceramente
democratica e antifascista, la lunga pratica di Curia, l'esperienza pastorale in una grande diocesi che riuniva
tutti i nodi del cristianesimo a contatto con la civiltà moderna, costituivano altrettanti titoli per rendere
ineluttabile che su di lui ricadesse, morto Giovanni, il compito di dare un quadro strategico e una
realizzazione, graduale e consensuale, alla brusca svolta giovannea, evitando pericoli di rottura.
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Una tiara incerta.
In questo solco Paolo vi affronta il compito pontificale. Le linee principali della sua azione sono la ripresa e
lo svolgimento del Concilio in un quadro papale, la riforma delle istituzioni ecclesiastiche sia centrali che
periferiche, in special modo della Curia romana, l'impegno per il dialogo ecumenico, l'intensificazione
instancabile e originale del rapporto fra Chiesa e mondo moderno, accanto ad una costante attenzione a
difendere l'unità della Chiesa da tensioni potenzialmente laceranti e da errori dottrinali. Con molto coraggio
egli provvede alla riforma del Sant'Uffizio e a riconoscere larghe autonomie alle Conferenze episcopali, così
rimisurando adeguatamente il tradizionale centralismo romano su un paradigma più aperto al pluralismo.
È stato notato che «il triregno, portato da tutti i suoi predecessori, non si attaglia allo stile di questo papa, che
non lo userà». Eppure egli lo assume ancora una volta per la cerimonia dell'Incoronazione — sarà l'ultima
d'un papa — in spirito di continuità, entro cui solo egli ritiene pensabile il cambiamento. 11 suo triregno è
moderno e stilizzato, dono dei fedeli milanesi, e finirà sull'altare del Concilio, quasi per una simbolica
immolazione, prima di essere mandato a lucrare dollari ad un'asta a New York.
Anche l'aula delle udienze cambia, non è più una cornice sacrale quella in cui il papa si presenta alle folle dei
pellegrini, ma un ambiente laico, un moderno auditorium. Intorno al papa non si vedono più flabelli bizantini
né guardie nobili, la corte pontificia viene spazzata dalla sua riforma, pezzo per pezzo scompare la forma
sacrale e regale in cui il papato romano aveva per secoli riprodotto intatto il senso
w
l
della propria funzione. Nell'appartamento papale i damaschi delle tappezzerie vengono sostituiti da stoffe
beige e ocra, un soffio di modernità salottiera, ornata da pezzi di antiquariato.
Nei primi mesi, il papa va pellegrino in Terra Santa, dove incontra il patriarca ortodosso Àthenagora. Nel '64
va a Bombay, nel '65 alle Nazioni Unite a New York. Tre grandi viaggi, i primi internazionali per un
successore di Pietro, dopo le deportazioni in Francia dei Pii. Coi viaggi il papa si ridefinisce nella figura del
pellegrino di una Chiesa che si abbevera alle fonti, si fa missionaria, si offre al mondo come «esperta di
umanità».
L'interpretazione che questo «principe riformatore» propone del potere supremo non può non sorprendere
per l'intreccio, tormentato ma talora riuscito, di continuità e di innovazione. «Papa del dubbio», egli lo è
meno per l'impotenza decisionale che per l'acuta consapevolezza, che lo caratterizza, della complessità dei
nuovi problemi che fronteggiano la Chiesa. L'Infallibile rivela, nelle sue viscere, una sana ambiguità e si fa
apprezzare perché sa accettarla irriducibile, quasi a suggerire il modello d'un magistero che si impegna nel
cammino della sua incoerenza effettiva, senza l'angoscia unificatrice e astratta d'un tempo. In questo, la sua
esitazione psicologica appare piuttosto il riflesso d'una problematicità coerente con la cultura moderna. Essa
reagisce in lui mettendo in tensione fino all'angoscia il suo essere prete e il suo essere uomo del tempo, il
dogma e la ricerca del nuovo, il suo essere Pietro e il suo essere Paolo.
Per questo si può ritenere che — dopo una serie cospicua di papati antimoderni — la modernità sia apparsa
sul trono pontificio, nella consapevolezza critica della fides quaerens intellectum (la fede che cerca
l'intelligenza), rendendo però più arduo e ingrato il compito papale.
Montini non manca di rivendicare «il potere pieno, supremo, universale del Romano Pontefice, potere che
non può essere ridotto a circostanze particolari». Ma è il papa che procede a decisive autocritiche sul caso
Galilei e sulle scomuniche del Mille contro la Chiesa ortodossa di Costantinopoli. Egli si getta a baciare i
piedi dell'inviato del Patriarca Àthenagora, in San Pietro, durante la festa papale per eccellenza, il 29 giugno.
Egli preferisce avviare delle discussioni con Hans Kùng che ha riaperto, per la prima volta in casa cattolica,
la questione bruciante della revisione del dogma dell'infallibilità pontificia.
Egli estende a una collettività, il collegio episcopale, la responsabilità «affettiva» — anche se non ancora
giuridica — della Chiesa universale (senza diminuire l'autorità del primo dei vescovi, il successore di Pietro)
di riesaminare in molti campi delicati — teologico, esegetico, liturgico, catechistico, pastorale, ecumenico e
sociale — le posizioni tradizionali della Chiesa, per tentare di assicurarle una
continuità di presenza e di efficacia in un mondo che minaccia di emarginarla.
Il suo metodo preferito è lontano dalla convinzione che Bertolt Brecht formula nella Lode del dubbio : «I
piccoli mutamenti sono nemici dei grandi mutamenti». Egli è assai più persuaso che, in un cammino anche
lungo mille chilometri, la cosa più importante sia il primo passo. Per questo egli confida nella gradualità,
negli spostamenti anche minimi della grande Roccia: per esempio, non chiude la segreteria di Stato, ma
nomina segretario di Stato un non diplomatico e un non romano, l'ex segretario dell'episcopato francese Jean
Villot. Porta alla testa dei dicasteri di Curia un notevole numero di pastori provenienti dalle Chiese locali del
mondo.
Lo stesso metodo si trova applicato nella sua politica: senza amare le discontinuità né credere nelle rotture,
egli avvia delle relazioni sistematiche con i regimi comunisti per normalizzare la vita ecclesiastica nelle
nazioni dell'Europa centroorientale dove la Chiesa vive a stento nell'oppressione dell'ateismo ufficiale. Una
politica del genere, che viene realizzata da un diplomatico di qualità come monsignor Agostino Casaroli, non
consegue risultati proporzionati ai costi, nel breve periodo.
I circoli che hanno ereditato l'intransigenza anticomunista del vecchio «partito romano» non esitano a
contestare al papa di aver tolto le castagne dal fuoco ai sovietici, svuotando la forza invincibile dell'obiezione
fino al martirio, particolarmente con l'ordine impartito al cardinale Mindszenty di lasciare l'autoesilio
ungherese e di raggiungere il Vaticano. Tuttavia Montini crede che la politica del salvare il salvabile all'Est
possa infiltrare dentro la piramide sovietica quella minima forza spirituale che, come l'acqua del Tao, scava
lentamente i sentieri della propria resistenza e finisce, con una inesorabile e incessante erosione, per vincere.
Politico, egli nutre una fede indiscussa negli strumenti della ragion pratica. Se i regimi atei firmano con la
Santa Sede dei modus vivendi, per Montini ciò equivale in ogni caso ad una vittoria: essi avranno dovuto
riconoscere formalmente che la religione vive ed ha diritto di vivere.
L'apice di questa dottrina è la decisione di far partecipare la Santa Sede come membro a parte intera alla
Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, dove siedono per la prima volta i paesi dell'Est e
dell'Ovest su un'agenda dei diritti umani da riconoscere da parte di tutti, incluso il diritto alla libertà
religiosa. Nella visione per così dire «laica» di papa Montini, il processo del dialogo sul piano etico e
giuridico, condivisibile dalla maggioranza, potrebbe assicurare una maggiore efficacia di quanto possa la
linea dell'intransigenza e della crociata, muro contro muro. Questa convinzione è coerente, infine, con la sua
fede nel pluralismo, che lo porta a legittimare nella Octogesima adveniens il principio dell'esaurimento della
dottrina
sociale della Chiesa come «parola unica» per le situazioni cangianti e a riconoscere che «una sola fede può
portare a scelte politiche differenti», nella autonoma responsabilità dei laici.
Si può cogliere in definitiva in questo pontificato meno la sua esasperata ansietà per le mediazioni tra
situazioni in cambiamento e dunque necessariamente di elevato tasso conflittuale, che non la tendenza,
ineluttabile, ad adeguare il potere pontificio — conservandone la sostanza — alla frana del regime di
cristianità.
Lo scenario del pontificato è ora segnato dalla multiversalità effettiva della Chiesa, diffusa in ogni angolo
della terra. È sollecitato dalla condizione esplosiva del mondo verso la fine del xx secolo, in un quadro
culturale e storico segnato da cambiamenti planetari, rapidi e radicali. La stessa ripartizione dei battezzati
agli inizi degli anni Settanta è diversa da quella dell'età di Roncalli: la cristianità abbandona ora la sua culla
eurooccidentale, e scivola rapidamente verso Sud, facendo prevedere l'Africa e l'America Latina come i
primi continenti «cristiani» per numero di battezzati nel Duemila. In questo contesto gli stessi presupposti
della riforma conciliare «eurocentrica» risultano sorpassati dalla rivoluzione antropologica mondiale del
1968, prima ancora che essa venga generalmente condivisa. Perciò il regno di Paolo vi si espone ad
incomprensioni ed asprezze difficili da comporre.
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Il papa del Concilio.
Anche ammettendo che alcune riserve possano avere fondamento, sarebbe impossibile rifiutare a Montini il
merito di aver ripreso e portato a termine il Concilio di papa Giovanni per altre tre, faticose sessioni, fino alla
promulgazione dei sedici documenti ai quali, complessivamente considerati, si fa risalire la svolta dottrinale
e pastorale della Chiesa romana. Anzi, è proprio all'autointerpretazione del proprio ruolo in senso
pienamente petrino, ad imitazione delle qualità mediatorie di Pietro, del suo affaticarsi a riconciliare parti in
rottura della Chiesa, del suo assicurare a tutti aria da respirare, che si potrebbe ascrivere questo successo
conciliare di Paolo vi, sebbene non universalmente apprezzato.
Di fatto è il Concilio Vaticano n, i cui atti il papa firma come il «primo dei vescovi», ad avviare una
riconsiderazione equilibrata del ministero petrino all'interno della struttura gerarchica della Chiesa. Benché
la sintesi cercata fra visioni ecclesiologiche differenti non sia approdata ad una coerenza convincente, questa
giustapposizione riesce a ridimensionare l'assolutezza della figura di Chiesa predominante prima del
Concilio mettendo al primo posto, almeno a livello dottrinario, una nuova immagine della Chiesa. Questo
approfondimento si esprime nella precedenza accordata alla considerazione sacramentale della Chiesa su
quella giuridica, nel primato della dottri
na circa il popolo di Dio rispetto a quella della gerarchia, nella dottrina sulla collegialità episcopale che
equilibra quella sul primato pontificio sancito dal Vaticano i.
Il passaggio teorico è netto, malgrado gli interventi pontifici in senso prudenziale sollecitati dalla minoranza
dei conservatori: il Concilio approva il superamento della Chiesa fortemente centralizzata della
Controriforma o del Vaticano i, «società perfetta» rigidamente ordinata, burocratica e clericale, per
appoggiare una più matura visione di Chiesa comunità, mistero di Cristo e popolo di Dio, chiamata ormai a
manifestarsi più come servizio della comunione che come potere, soggetta all'errore e alla conversione,
pellegrina e peccatrice, nella quale deve fiorire un vivo senso di solidale corresponsabilità di ogni fedele; una
Chiesa che, liberata dalla tentazione di ripiegarsi su se stessa e di difendersi all'interno dei propri baluardi,
«abbatta i bastioni» (secondo l'espressione di Urs von Balthasar), tenda a superare i suoi confini giuridici e
istituzionali, riconosca i valori positivi della storia, scruti i segni dei tempi, ammetta, a priori e con fiducia,
la possibilità di diversità e di variazioni nelle espressioni storiche dell'unica e permanente verità di fede,
perciò solleciti l'apporto di tutte le prospettive, purché queste accettino di farsi complementari nella ricerca di
una più piena verità; una Chiesa che si ponga infine al servizio degli uomini e delle donne, specie dei più
deboli, e mentre ricerca se stessa e la propria identità alla luce della Rivelazione, cerchi nel contempo il
dialogo con il mondo dichiarandosi solidale con le speranze e le angosce dei contemporanei.
Unico Concilio ad essere concentrato sulla Chiesa, il Vaticano n contribuirà alla sua «relativizzazione», dirà
il teologo parigino J. Thomas. Nei testi conciliari infatti la Chiesa non è vista come grandezza a sé stante, ma
è rimessa «in relazione», da un lato al Cristo, dall'altro al mondo in cui è inviata per essere «segno e
strumento di salvezza». Da questa decentrazione, si attendono importanti innovazioni istituzionali: uno
sviluppo del dialogo ecumenico con le altre Chiese e comunità cristiane, la riscoperta dei vincoli originari
con gli Ebrei, il dialogo con le grandi tradizioni religiose dell'umanità, il riconoscimento per la prima volta,
del diritto alla libertà religiosa come conseguenza necessaria e universale della dignità della persona, e non
derivato dall'ambigua distinzione tra tesi e ipotesi, accettato quale male inevitabile della nostra epoca.
Ma è soprattutto sulle dinamiche della collegialità che l'ecclesiologia del Concilio compie il tentativo
nevralgico di una rilettura della figura del Romano Pontefice. «Due estremi vuole evitare il Concilio»,
sottolineaHermann J. Pottmeyer. «Nei vescovi sono semplicemente vicari o delegati del papa, né il papa è il
vicario delegato del collegio episcopale. L'unità organica e il vincolo interno del primato con l'episcopato il
Concilio la vede fondata nel fatto che entrambi riposano su un comune, solido fondamento che è Gesù
Cristo. Non
solo il papa, come successore di Pietro, è Vicarius Christi, ma anche i vescovi, come successori degli
apostoli, sono Vicarii et legati Christi, secondo la formula della costituzione dogmatica Lumen Gentium (27)
[...]. Nella prospettiva sacramentale il papa non può essere visto prescindendo dal suo ufficio di vescovo di
Roma, egli appartiene al collegio episcopale, anche se ne è il capo. Nella dottrina del collegio episcopale
viene evidenziata la comune responsabilità del capo e dei membri del medesimo per la Chiesa intera. Questa
responsabilità ha anche carattere giurisdizionale.»
I compromessi raggiunti con i rappresentanti delle tendenze centraliste si rivelano particolarmente onerosi
quando, dopo il Concilio, si tratterà di metterne alla prova le dottrine riformando la figura della Chiesa
secondo una struttura sinodale, ancor oggi vigente nella Chiesa ortodossa e adottata dalla stessa Chiesa occidentale per quasi un millennio. L'imbarazzo maggiore riguarda le concrete conseguenze della collegialità
sull'esercizio dell'ufficio monocratico del primato petrino. La formula del potere supremo che il papa può
esercitare «ogni volta a sua discrezione» è stata inserita d'autorità per ordine del papa nel testo alla vigilia
dell'approvazione finale, sotto la forma d'una Nota praevia, rivolta ad attirargli il consenso delle tendenze
centraliste: «una formulazione infelice» dirà Ratzinger.
In questa ambiguità si anniderebbe la debolezza della prospettiva collegiale aperta dal Concilio, il suo
svuotamento teologico, la sua riduzione a consulti non vincolanti, premessa e condizione per una restaurazione aggiornata del potere papale, sia pure con i possibili adeguamenti, quale il Sinodo episcopale in
funzione consultiva periodica, cioè ad una forma subalterna di assistenza alla monarchia pontificia. In effetti
si assiste in questi anni ad un accrescimento del potere del papa nella Curia romana alla cui riforma generale
il papa provvide nel 1967 con la costituzione Regimini Ecclesiae Universae. La Curia stessa si ristruttura, si
modernizza, si allarga. Mentre Roma sviluppa seriamente un programma di decentramento delle responsabilità agli episcopati, il centro si rafforza: dai 1322 impiegati e funzionari del 1961 l'apparato centrale
passa ai 3146 nel 1978, alla fine del pontificato montiniano. È però una Curia che si sprovincializza,
perdendo il suo tono «romano» e, assumendo piuttosto quello internazionalista d'una burocrazia sui generis,
al servizio del primo, effettivo governo mondiale, sia pure di segno spirituale.
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Le concessioni ai conservatori.
II metodo di Paolo vi rimane ostinatamente ormeggiato alla ricerca del consenso. In questo egli mostra di
rivivere di continuo il dramma del suo conclave. Nel 1968 un atto illuminante del montinianesimo è la
rottura con Lercaro, costretto dal papa a dimettersi da arcivescovo di Bologna a causa di una inchiesta del
Sant'Uffizio in quella diocesi. Il cardinale aveva criticato il politicismo di Montini sulla guerra americana in
Vietnam: «la via della Chiesa è la profezia, non la politica», aveva dichiarato.
Dirà Suenens: «Paolo vi doveva governare la barca di Pietro tra correnti avverse che agitavano le acque.
Alcuni, dalla stessa Roma, pensavano che egli accettasse con eccessiva disponibilità le tendenze della
maggioranza. Infatti le riforme sollevarono contro di lui gravi obiezioni a livello locale, mentre fuori Roma
venivano contestate certe sue esitazioni e il procedere a passi lenti». Paolo vi è in effetti troppo preoccupato
delle reazioni della Curia — e di mantenere lealmente l'accordo stipulato in conclave con essa — per poter
cadere nell'errore di farle passare le riforme sulla testa: «Non basta che la periferia sia disposta ad accettare
le riforme», dice al segretario della riforma liturgica padre Annibale Bugnini. «Anche la Curia deve esserlo,
altrimenti, non sa come si dice a Roma: un Papa bolla e uno sbolla, e non vorrei che chi verrà dopo di me
riportasse ogni cosa allo statu quo.»
Si può supporre che a questa sua leale disponibilità verso il gruppo di Ottaviani Paolo vi deve forse la crisi
più severa d'immagine e di autorità, con l'enciclica Humanae vitae del 1968, che disattende il voto della
speciale Commissione a favore dell'apertura sul tema del controllo delle uscite e rappresenta concessione alle
forze conservatoci della Curia.
Malgrado ciò egli non viene risparmiato dall'offensiva dei conservatori, sia in Concilio sia successivamente,
anzi con una pressione crescente. La crisi vertiginosa del clero, la riduzione verticale delle vocazioni
religiose maschili e femminili, la caduta della pratica religiosa nei paesi tradizionalmente cattolici si somma
al rifiuto vaticano di modificare la disciplina del celibato per i sacerdoti di rito latino e di adottare una linea
più flessibile sulle questioni della morale sessuale, per un indebolimento istituzionale senza precedenti che
viene contestato al papa.
Negli ultimi anni del regno egli è duramente e pubblicamente attaccato dal vescovo Marcel Lefebvre in
nome di una tradizione che si sente insicura nelle sue mani. I settori di Curia nei quali si occultano i
burattinai dell'affare Lefebvre sono gli stessi che costringono Paolo vi a disfarsi del suo braccio destro, il
sostituto Giovanni Benelli, che si è opposto agli affari di Michele Sindona con I'IOR di monsignor Paul
Marcinkus ed ha respinto «per gravi motivi morali» due candidati all'episcopato favoriti dal cardinal Baggio.
Con l'uscita di scena di Benelli, mandato cardinale a Firenze, nel giugno 1977, Montini vede fallire uno dei
presupposti, non privi di certo fideismo, ai quali ha ispirato il pontificato: la riforma della Curia concepita e
realizzata dalla curia stessa.
// Sinodo dei vescovi.
Gli interventi montiniani per ricollegare il potere pontificio ad una visione più coerente della struttura
collegiale della Chiesa — una volta concluso il Concilio senza danni formali per le prerogative pontificie —
sono considerati abbastanza incisivi, ma non fino al punto di esaudire le aspettative dei «conciliari» per
correggere una secolare prassi della monarchia papale. Egli istituisce il Sinodo dei vescovi, nel quale la
sovranità assoluta del romano pontefice si «costituzionalizza» nella figura del presidente di un'assemblea di
delegati eletti dagli episcopati di tutto il mondo. Rompendo la coalizione «progressista» del Concilio, il
cardinale Suenens gli obietta, in un'intervista del 1969 che rimbalza rumorosamente nell'opinione pubblica
mondiale, che la corresponsabilità è un concetto più esigente e che il Sinodo in versione montiniana si riduce
a una caricatura della collegialità, «ad una camera in funzione consultiva piuttosto che in un organismo all'insegna della corresponsabilità». Il primate belga va oltre, e propone che l'elezione del papa sia demandata
agli episcopati: «II corpo elettorale sia per esempio in prima istanza il corpo stesso episcopale, e poi in
seconda istanza un collegio più ristretto di vescovi. Oppure bisogna fare appello direttamente al Sinodo dei
vescovi organizzato in un modo o in un altro?».
Reagisce severamente il cardinale Siri: «nessuna idea di costituzione democratica o federalista», scrive nella
sua rivista teologica, «può affiorare quando si pone teologicamente e giuridicamente la questione
dell'elezione del Romano Pontefice. È la Chiesa romana che deve eleggere il suo vescovo».
Malgrado queste osservazioni, Paolo vi riprende sostanzialmente, sia pure solo a livello teorico e virtuale, la
provocazione di Suenens. Dinanzi ai cardinali appena creati, nel concistoro del 5 marzo 1973, rivela di
essersi chiesto «se non convenga prendere in considerazione la possibilità di associare al Sacro Collegio dei
cardinali, in questa importante funzione dell'elezione papale, coloro che il Sinodo dei vescovi, emanazione
dell'episcopato mondiale, ha eletto come suoi rappresentanti e componenti il consiglio della segreteria
generale dello stesso Sinodo, non esclusi quelli che vengono designati dal Roma
no Pontefice». Il papa ammette anzi, nella sua ipotesi, che non solo i vescovi eletti dal Sinodo alla sua
segreteria, ma anche i patriarchi delle Chiese cattoliche d'Oriente potrebbero essere integrati nel corpo
elettorale del papa.
Tre settimane dopo, il 24 marzo, Paolo vi riprende il tema di questo progetto: «nell'ipotesi che quanto sopra
venga attuato», dice ai vescovi della Segreteria del Sinodo, «stabiliamo che i quindici membri di questo
Consiglio siano abilitati a partecipare ad un'elezione papale che potrebbe effettuarsi durante il loro mandato.
Questo progetto, al quale pensiamo da tempo e che riteniamo in armonia con la storia del Sacro Collegio
cardinalizio, e corrispondente ai vari voti manifestati dopo il recente Concilio Ecumenico, presenterebbe, a
nostro avviso, il duplice vantaggio di associare allo stesso Sacro Collegio, per l'elezione del papa, una
rappresentanza altamente qualificata del Sinodo dei vescovi, e di ammettere alla stessa elezione un gruppo
che si rinnova di frequente».
Questo progetto sembra rispondere al disegno di fare del Collegio cardinalizio «la massima assise
internazionale del cattolicesimo». Il papa, eletto dai cardinali, risulterebbe in pratica designato da un collegio
di vescovi, col rischio di funzionare da super vescovo della Chiesa universale. Non rari sono i rilievi critici
che il progetto solleva: «i vescovi sarebbero integrati come membri del collegio dell'alto personale dirigente
della Chiesa universale» (Karl Rahner); oppure: «la Chiesa si ridurrebbe ad un'immensa macchina
canonicoamministrativainternazionalista, che assorbirebbe le Chiese locali come agenzie periferiche, per la
completa e razionale realizzazione di una Chiesa aristocratica» (Giuseppe Alberigo).
Indubbiamente una simile prospettiva urta con la tradizione e l'ecclesiologia della Chiesa particolare, che
fonda la legittimazione del papa come vescovo di Roma in questa stessa Chiesa di cui il collegio cardinalizio
costituisce il sinodo proprio. Ma Paolo vi persegue un obiettivo, quello di ristrutturare il potere papale come
terza forza mondiale. Egli è persuaso che l'istituto conclavario, nelle forme ereditate, è giunto ai suoi limiti
storici. Jean Guitton è autorizzato a far sapere nell'Osservatore Romano quale sia la mente del papa al riguardo: «Ero a Roma, nove anni fa», scrive nel 1972, «durante il conclave che vide eletto Paolo vi. Una volta
ancora, l'ultima forse, fu in auge questa usanza del conclave, che consiste nel rinchiudere, come fossero
sottili frodatori, questi Padri venerabili dall'abito color sangue, segno che devono essere pronti a morire per
la verità». Secondo il filosofo francese, l'elezione papale avrebbe potuto svolgersi non più al chiuso, nel
recinto della Sistina, ma al Laterano, dove ha sede la cattedra del vescovo di Roma. Gli elettori avrebbero
avuto la possibilità di comunicare con le comunità cristiane delle diverse Chiese di Roma delle quali i
cardinali portano i titoli, prima di ritirarsi nella necessaria riservatezza per votare. In questa restaurata
cornice ecclesiale e religiosa, si sarebbe potuto sperare che il processo elettorale avesse maggiori probabilità
di essere al riparo dalle manomissioni della politica.
Ma anche questi propositi non tornano graditi a Siri per il quale «la clausura del conclave è ancor più
necessaria», perché «coi mezzi moderni, con le tecniche moderne, senza clausura assoluta non sarebbe
possibile sottrarre un'elezione alle pressioni dei poteri esterni». «Oggi», argomenta Siri, «le superpotenze (e
le potenze minori) hanno troppo interesse ad avere dalla loro parte, per condiscendenza o per debolezza, la
più alta autorità morale del mondo. E farebbero tutto quello che sanno benissimo fare. Le pressioni per
rovesciare la sostanza della legge del conclave potrebbero essere guidate dalla volontà di ottenere proprio
questo risultato.»
Non ritenendo matura una riforma del genere, Paolo vi ripiega su una serie di interventi rivolti a diminuire il
potere del cardinalato «romano» mentre accresce il ruolo di quello internazionale, residente nelle varie
Chiese del mondo. In realtà il papa dimostra una lucidità migliore di quella dei suoi critici quando prende
atto che l'ecclesiologia di comunione, adottata dal Concilio, ha investito alla radice la fondazione dottrinale
del cardinalato, spostando sull'episcopato il relativo privilegio di intervenire nella scelta del nuovo papa.
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Le riforme elettorali.
II primo, importante intervento di Paolo vi sul conclave e sul collegio cardinalizio è contenuto nel
motuproprio «Ingravescentem aetatem» del 21 novembre 1970, col quale viene abolito il diritto dei cardinali, che abbiano compiuto ottant'anni, di partecipare all'elezione del papa. Montini ricorda di aver
adempiuto al disposto conciliare sulla rinuncia dei vescovi diocesani al compimento dei 75 anni e di aver
ugualmente provveduto a fissare, nel Regolamento della curia romana del 1968, il limite di età a 75 anni per
gli uffici maggiori nelle congregazioni romane. Ora tocca anche ai cardinali. A 75 anni devono rinunciare
agli uffici di Curia, anche se è facoltà del pontefice sospenderne le dimissioni. Al compimento degli
ottant'anni i cardinali cesseranno dai loro uffici di Curia e decadranno pure dal secolare diritto di eleggere il
romano pontefice, anche nel caso che continuassero a governare una diocesi. Persino il camerlengo e il
decano ricadono nella fattispecie della norma.
È la prima riforma elettorale dopo il Concilio e solleva reazioni infuocate di Ottaviani (80 anni) e Tisserant
(86 anni) nei riguardi di papa Montini (73). «Tutti domandano che i vecchi scompaiano», commenta
sarcastico Tisserant. Il provvedimento colpisce maggiormente il settore curiale del collegio cardinalizio,
estromettendo dal conclave, immediatamente, una dozzina di cardinali di Curia. Esso con
tribuisce a ridurre il potere del nucleo ierocratico, che in caso di morte del papa ha quasi costantemente
gravato in senso autointeressato
sul processo elettorale.
Il primo ottobre 1975 Paolo vi affronta direttamente la riforma della macchina elettorale con la costituzione
Romano Pontifici eligendo. Accantonando le progettazioni internazionaliste ed episcopaliste di pochi anni
prima, egli riconferma il principio che l'elezione del vescovo di Roma non compete ai rappresentanti della
Chiesa universale, bensì solo alla Chiesa Romana, «cioè al Sacro Collegio dei Cardinali che la
rappresentano». A questa convinzione Paolo vi approda dopo il Sinodo del 1974 sull'evangelizzazione, che
ha delineato uno schieramento più ampio del previsto a favore dell'inculturazione pluralistica dell'annuncio
cristiano, e quindi ha prodotto risultati sorprendenti nelle elezioni per la propria rappresentanza permanente:
fra i primi quindici eletti al primo scrutinio, risultano molti fra i vescovi favorevoli ai cambiamenti, sei
africani, quattro asiatici, tre americani, soltanto due europei, nessun cardinale di Curia, appena cinque
cardinali residenziali, nessun italiano. La prima parte riguarda il periodo della Sede Vacante. Il governo della
Chiesa viene assegnato in questa fase al collegio cardinalizio, nei limiti delle questioni che non ineriscano
alla giurisdizione e alla potestà del pontefice, che restano riservate al successore. È il collegio dei cardinali a
doversi impegnare a difendere i diritti e le prerogative della Sede Apostolica. Tuttavia il collegio non può
innovare nelle regole dell'elezione del papa, può solo eventualmente interpretare le norme procedendo con
voto a maggioranza semplice dei soli presenti, non degli aventi diritto (in ipotesi i cardinali romani
potrebbero decidere interpretazioni restrittive della legge elettorale prima dell'arrivo dei cardinali della
Chiesa universale).
È notevole che Paolo vi abbia ammesso la deroga alla sua legge sull'esclusione degli ottantenni,
ammettendone invece la partecipazione alle Congregazioni generali in Sede Vacante. È previsto che, accanto
alla congregazione generale quotidiana dei cardinali, se ne abbia una, particolare, alla quale intervengono
soltanto il cardinale camerlengo e i suoi tre assistenti, tratti a sorte tra gli elettori, per il disbrigo degli affari
ordinari. Fra queste incombenze, ci sarà eventualmente la traslazione della salma del papa a Roma. La
Costituzione allarga il segreto del conclave alle Congregazioni generali. In esse va data lettura degli atti
lasciati dal papa defunto e si predispongono le questioni relative al conclave, inclusa la data del suo inìzio.
Una lunga parte della Costituzione regola il funzionamento degli uffici di Curia durante la vacanza: in
generale viene decretata la decadenza di tutte le cariche alla morte del papa, eccezion fatta per quella del
sostituto della Segreteria di Stato, il quale deve rispondere al Collegio. Restano attivi anche gli uffici del
vicario di Roma, del camerlengo e del penitenziere di Santa Romana Chiesa.
Nella seconda parte, la Costituzione regola il processo elettorale. È rilevante anzitutto che si disponga il
ritorno alla maggioranza dei due terzi più uno, secondo il modello pacelliano, che Giovanni XXIII aveva
attenuato. Colpito dall'impasse che il suo conclave ha subito, Paolo vi elabora un nuovo meccanismo per
produrre lo sblocco del processo in circostanze analoghe. Dopo tre giorni di fumate nere, ci sarà una
sospensione degli scrutini, per un giorno, da dedicare a «libero colloquio tra i votanti». Per la prima volta
dunque si ammettono consultazioni informali tra gli elettori, nel corso degli scrutini. Seguiranno altri sette
scrutini, e ancora una sospensione, se inutili. Infine un terzo turno di sette scrutini. Se anche questi fossero
vani, il camerlengo assumerà l'iniziativa di proporre il cambiamento del sistema, accettando, oltre a quello
dei due terzi più uno, anche quello della maggioranza assoluta dei voti, più uno, oppure il sistema del
ballottaggio fra i due candidati che nello scrutinio precedente abbiano riportato più voti.
Il dispositivo montiniano regola la previsione d'un conclave lungo, difficile, contrastato. Esso ribadisce la
riserva del diritto elettorale ai soli cardinali. Questo diritto viene fondato sul riconoscimento del principio
che l'elezione papale «è di competenza della Chiesa di Roma, e cioè del collegio dei cardinali che la
rappresentano». Si riprende e si ribadisce dunque lo sforzo di evidenziare la fonte di legittimazione del
potere papale, nella sua organica e costitutiva connessione con la Chiesa di Roma.
Mentre nella Costituzione di Pio XII si legge che «manifestato il consenso [...] l'eletto è subito vero papa e
sull'istante acquista e può esercitare piena e assoluta giurisdizione su tutto il mondo» (art. 101), la
Costituzione di Paolo vi dice: «Dopo Paccettazione, l'eletto, che abbia già ricevuto l'ordinazione episcopale,
è immediatamente vescovo della Chiesa romana, vero papa e capo del collegio episcopale. Lo stesso acquista
di fatto la piena e suprema potestà della Chiesa universale e può esercitarla. Se invece l'eletto è privo di
carattere episcopale sia subito ordinato vescovo» (art. 88).
Inoltre, Paolo vi introduce per la prima volta il riferimento alle prerogative del Popolo di Dio anche
nell'elezione papale, benché non ritenga di poter trarre delle conseguenze reali dall'affermazione del
principio: «l'elezione del nuovo Pontefice non sarà un fatto isolato dal Popolo di Dio e riguardante il solo
collegio degli elettori, ma in un certo senso un'azione di tutta la Chiesa», azione che viene principalmente
formulata con «preghiere per ottenere luce agli elettori e una sollecita, unanime e fruttuosa elezione». Nelle
attuali circostanze, infatti, Montini non ritiene possibile né opportuno dar corso alte regola già richiamata da
Antonio Rosmini: nullus invitte deturEpiscopus, nessuno sia dato vescovo a coloro che non lo vogliono.
Nella Costituzione montiniana, anzi, si da una esplicita separazione
tra la funzione elettorale del collegio cardinalizio e qualsiasi coinvolgimento comunitario della Chiesa: viene
espressamente proibito che il Sinodo dei vescovi o il Concilio eventualmente aperti intervengano
nell'elezione. Esclusi dall'elezione i cardinali ottantenni, viene fissato il nuovo tetto del collegio a 120
cardinali elettori. L'attesa degli assenti deve durare non meno di quindici e non più di venti giorni. È tuttavia
ammesso l'ingresso tardivo o il reingresso di chi non fosse giunto o fosse dovuto uscire per gravi ragioni.
Sul regime della clausura e del segreto, la Costituzione montiniana riproduce il rigore novecentesco nel
garantire la riservatezza e nel difendere il conclave dalle ingerenze. Ogni cardinale, secondo il modello
roncalliano, poteva farsi accompagnare in conclave da due persone e anche da tre, in caso di infermità. Con
Paolo vi gli accompagnatori sono vietati: «Non è permesso ai cardinali elettori di portare con sé conclavisti o
inservienti personali, né chierici né laici. Ciò potrà essere concesso soltanto in casi particolari e in via
eccezionale, per un grave motivo di infermità». Né parrebbero sufficienti eventuali esibizioni di certificati
medici personali: la verifica fiscale della malattia è affidata ad una commissione cardinalizia.
Per la prima volta dunque al conclave vengono ammessi esclusivamente i titolari del diritto elettorale. Paolo
vi ammette che il conclave possa anche avvenire in luogo diverso dal Vaticano ma non sembra transigere su
questa solitudine: il luogo dovrà avere comunque carattere «quasi di sacro ritiro, senza alcun rapporto con
persone e cose estranee». Il testo del giuramento esprime la preoccupazione del papa di rendere questo
«sacro ritiro» immune da qualsiasi intrusione. Vengono ribadite le ormai canoniche proibizioni di «veti» e di
«esclusive». I cardinali sono però anche obbligati a giurare «di non prestare mai aiuto o favore a qualsiasi
interferenza, opposizione o altra qualsiasi forma di intervento con cui autorità secolari di ogni ordine e grado,
o qualunque gruppo umano o singole persone volessero ingerirsi nell'elezione del Romano Pontefice».
Una serie di misure proibisce l'introduzione e l'uso di apparecchi trasmittenti (il cui ritrovamento
comporterebbe l'esclusione dal conclave), lo scambio di corrispondenza da dentro a fuori e da fuori ai
conclavisti senza il controllo del segretario del conclave. Solo la corrispondenza tra il penitenziere e la
penitenzieria è esente da controlli. La stampa è proibita e così pure la televisione. Non meno severa la
disposizione: «Gli scritti di qualsiasi genere che i cardinali elettori abbiano presso di sé relativi all'esito di
ciascun scrutinio, siano consegnati al cardinale camerlengo, affinchè siano bruciati insieme con le schede».
Solo una relazione del camerlengo, alla fine del conclave, chiusa in busta sigillata, con l'esito delle votazioni
di ciascuna sessione, dovrà «essere conservata in archivio e non potrà essere aperta da nessuno se il Sommo
Pontefice non l'avrà permesso esplicitamente» (art. 73). Giovanni xxm aveva salvato dalla distruzione anche
gli
appunti personali degli elettori, destinandoli agli archivi. Paolo vi preferisce che tutto sia bruciato.
L'impressione complessiva è di una sostanziale restrizione del conclave, nel quale le norme sembrano
allestire una sorta di barriera contro le ingerenze massmediali ed elettroniche, prevedendo per sino una
polizia interna munita di detector antispionistici, perquisizioni frequenti degli elettori, cacce a eventuali
transistor, magnetofoni, microchips, radio ricetrasmittenti, telefoni, censura sulla posta in arrivo e in partenza
(quando, nei conclavi precedenti, i cardinali erano esentati dalla censura). Due periti tecnici muniti di
appositi strumenti dovranno accompagnare il camerlengo e i tre suoi assistenti durante le frequenti ispezioni,
e ciò perché «i cardinali elettori possano tutelarsi dall'altrui indiscrezione e da eventuali insidie che
potrebbero esser tese alla loro indipendenza di giudizio e alla loro libertà di decisione».
// collegio cardinalizio «montiniano»
Se la tendenza seguita da Paolo vi è apparsa complessivamente mirata a scompaginare la riserva cardinalizia
sull'elezione, non v'è dubbio che egli si lascia alla fine assorbire dalla tradizione. Diversamente da ciò che le
sue proposte sinodali hanno lasciato prevedere, egli persegue un disegno di allargamento del collegio
cardinalizio in vista di una sua rinnovata legittimazione e funzionalità. In successivi concistori egli porta il
numero dei cardinali a livelli mai prima conosciuti: cento, centodieci, un anno si contavano anche
centoquarantatré cardinali, infine centoquarantaquattro, col diritto elettorale riservato però solo ai minori di
ottant'anni e con un tetto massimo di centoventi elettori fissato per legge.
L'obiettivo è di rendere più rappresentativo il collegio in rapporto alla cattolicità nella sua duplice
dimensione: anzitutto geografica (essendo i cardinali della Chiesa universale sempre più numerosi a
confronto di quelli italiani e curiali), e quindi funzionale, dato che vengono integrati nel collegio
cardinalizio, per la prima volta in età moderna, diversi ministeri apostolici e vari carismi, quelli dei teologi,
per esempio, o degli intellettuali, o dei semplici preti (si è ripetuto che Montini avesse offerto la porpora
anche ad un laico come Jacques Maritain).
«Le proporzioni della Chiesa d'oggi», dice Montini nel concistoro del febbraio 1965, «non sono quelle del
xvi secolo, sono molto aumentate e si sono dilatate, per grazia di Dio, sulla faccia della terra. Inoltre, la
funzione rappresentativa del Sacro Collegio si è fatta più ampia e più esigente, e ciò per il netto impulso dato
da papa Pio XII al carattere sovranazionale della Chiesa, il quale si riflette nella struttura del corpo
cardinalizio, oltre che per la diffusione dell'idea ecumenica alla quale il Concilio conferisce tanto splendore e
tanta speranza.»
Un aspetto originale delle creazioni cardinalizie di Paolo vi consiste nella tendenza da lui osservata in modo
sistematico ad integrare nel collegio tutti o quasi i presidenti delle conferenze episcopali (che risultano
normalmente eletti dalle rispettive assemblee a determinati intervalli di tempo) e i leader ecclesiastici delle
varie Chiese. La sua internazionalizzazione è tale da aver rafforzato la presenza dei cardinali extraeuropei,
sicché alla fine del pontificato oltre la metà dei cardinali provengono da paesi extraeuropei.
Il progresso più spettacolare è quello dell'Africa, passata a dodici cardinali su 118 elettori. Gli asiatici hanno
dodici elettori, l'Oceania quattro, l'America Latina venti. Africa, Asia, America Latina hanno 44 cardinali
elettori, un blocco mai stato così forte, mentre la fascia nordamericana conta dieci cardinali statunitensi e tre
canadesi. In complesso, su 118 elettori, gli europei sono 57, cioè il 47%, mentre nel conclave del 1963
l'Europa cardinalizia rappresentava il 70%, nel '58 il 72%, nel '391'89% e nei primi conclavi del secolo oltre
il 92%.
È interessante osservare che con Paolo vi vengono per la prima volta rappresentate nel Sacro Collegio
nazioni come il Congo, il Kenia, il Madagascar, il Dahomey, il Pakistan, le Antille, le Isole del Pacifico, il
Vietnam. Nell'estate del 1977 ci sono già cardinali di 53 paesi. Non si è mai dato un collegio cardinalizio non
solo meno eurocentrico ma altresì meno curiale, ed è per questa via — costituita dall'espulsione degli
ottantenni e dall'internazionalizzazione episcopalista — che Montini raggiunge l'obiettivo di indebolire il
tradizionale potere di controllo esercitato dalla Curia romana sull'elezione pontificia.
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Il papa si dimette?
Questa premura di rimodellare il collegio cardinalizio, per renderlo più omogeneo alla complessità della
Chiesa, è colta da alcuni per dimostrare che egli intende reggere il timone fino alla fine, nella pienezza delle
responsabilità, malgrado il peggioramento di un'artrosi penosa.
Tuttavia è normale che un papa così moderno, che ha dimostrato una acuta sensibilità per le relazioni tra l'età
avanzata e le esigenze delle funzioni di responsabilità di cardinali e di vescovi, sia più dei suoi predecessori
sollecitato dall'opinione pubblica, non meno che dal suo senso della coerenza, a confrontarsi con l'idea d'un
papato a tempo. Il dibattito sulla possibilità delle dimissioni del papa si accende nel settembre 1966 dopo il
viaggio di Paolo vi nel castello di Fumone, dove era stato esiliato Celestino v, il papa che aveva accettato «il
peso del pontificato» per dovere, e per dovere vi aveva rinunciato, nauseato per le vendemmie di cui era
oggetto da parte dei cacciatori di benefici. «Per dovere, e non per viltà, egli accettò di rinunciare», aveva
precisato Montini, rettificando il giudizio di Dante.
Le voci si sono rinfocolate negli anni finali del pontificato, puntualmente contraddette dal Vaticano: «II
ministero di Pietro non può essere confuso con la Presidenza di una repubblica o con un mandato
manageriale», scrive L'Osservatore Romano del 2 settembre 1977. «Né la Chiesa può essere confusa con una
democrazia. Esso è un ministero permanente, che di regola solo l'autentica impossibilità ad esercitarlo può
interrompere prima della morte, motivazione su cui si fondano le ipotetiche dimissioni considerate nei testi
canonici.» Tuttavia si troveranno nelle carte d'archivio le dichiarazioni e gli appunti di pugno di Montini
nelle quali risulta chiaramente la sua personale inclinazione a questo distacco, per lasciare il timone a mani
più agili.
Negli ultimi tempi il suo pessimismo naturale si aggrava. Egli incarna quel senso di solitudine nella quale si
sente costituito come papa: «La posizione è unica», ha scritto in una meditazione del 5 agosto 1963, appena
un mese e mezzo dopo l'elezione. «Vale a dire che mi costituisce in un'estrema solitudine. Era già grande
prima, ora è totale e tremenda. Da le vertigini... Come una statua sopra una guglia; anzi, una persona viva
quale io sono. Niente e nessuno mi è vicino. Devo stare da me, fare da me, conversare con me stesso,
deliberare e
pensare nel foro intimo della mia coscienza [...]. Non devo avere paura, non devo cercare appoggio esteriore,
che mi esoneri dal mio dovere, ch'è quello di volere, di decidere, di assumere ogni responsabilità, di guidare
gli altri, anche se ciò sembra illogico e forse assurdo. E soffrire solo [...].» E tuttavia anche in questa
solitudine istituzionale, egli ha la coscienza che il papa, come la lucerna sopra il candelabro, «arde e si
consuma da sola, ma ha una funzione: quella di illuminare gli altri. Tutti, se può. Posizione unica e solitària:
funzione pubblica e comunitaria. Nessun ufficio è pari al mio impegnato nella comunione con gli altri. Gli
altri: questo mistero verso il quale io devo continuamente dirigermi, superando quello della mia individualità, della mia apparente incomunicabilità. Gli altri che sono miei — oves meas (mie pecore) e di Cristo. Gli
altri che sono Cristo. Gli altri che sono il mondo [...]. Ecco, ognuno è mio prossimo».
Questo pellegrino si spegne fuori le mura la sera del 6 agosto 1978, festa della Trasfigurazione, che i Greci
chiamano E metàmorphosis, dopo quindici anni di pontificato. Negli ultimi tempi ha sofferto — lui, il papa
«diplomatico» — dell'ultima impotenza dei mezzi e dei linguaggi della diplomazia, che nulla hanno potuto
nel tentativo di salvare la vita del suo amico Aldo Moro, sequestrato dalle Brigate Rosse. Nel migliore
documento del suo pontificato, Evangelii nuntiandi, pubblicato nel 1977, questo papa «politico» ha
prefigurato la missione della Chiesa nell'inerme annuncio del Vangelo a tutte le genti, libera da premure
politiche.
Per il suo funerale egli ha disposto una bara d'acero, nuda sulla gradinata di San Pietro, senz'altro che il libro
dei Vangeli aperto, e sfogliato dal vento.
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CAPITOLO XIV.
Albino Luciani (1978).
II conclave dopo Montini è anche il primo che si svolga dopo il Concilio. Questa condizione determina il
principale cambiamento del clima in cui si prepara l'elezione del successore di Paolo vi. L'interrogativo che
emerge nei dibattiti e nelle ricerche non riguarda più soltanto la figura del futuro papa. Alla domanda
tradizionale: «Quale papa?» si aggiungono ormai, in successione, le domande: «Per quale Chiesa? E per
quale mondo?».
L'ermeneutica trasforma, più che in passato, l'elezione del papa in una scelta ecclesiologica. Con il Concilio,
la concezione della Chiesa è evoluta verso un modello meno «politico» e più escatologico — la Chiesatenda
in pellegrinaggio verso il Regno. Questa figura più spirituale ha integrato nel regime papale un certo
correttivo dell'assolutismo tradizionale e una migliore consapevolezza della provvisorietà di tutte le
istituzioni ecclesiali. Nel disegno del Vaticano n la Chiesa è anzitutto un Popolo di Dio, non più solo una
piramide gerarchica. La monarchia pontificia dovrebbe articolarsi con le prerogative collegiali dei vescovi e
il teologo francese Yves Congar ricorderà agli immemori che, secondo l'antica tradizione dei Padri, un papa
che si comportasse come proprietario assoluto della Chiesa, senza una considerazione sufficiente delle
esigenze della comunità cristiana e dei diritti dei vescovi, sarebbe un papa «eretico».
// ruolo dell'opinione pubblica.
II tema qualificante del dibattito preconclavario è lo sviluppo della collegialità episcopale e del suo organo
istituzionale, il Sinodo dei vescovi. I cardinali dell'area «conciliare» appaiono nelle loro dichiarazioni
particolarmente sensibili a questo tema, che è preparato dalle innovazioni istituzionali dell'età di Paolo vi, ma
è anche gravato dalle frustrazioni delle sue titubanze sui poteri reali del Sinodo.
Il gruppo conservatore, che ha già collezionato dure sconfitte negli
ultimi due conclavi, organizza la propria rivincita facendo leva sul tema della restaurazione dell'ortodossia e
dell'ordine disciplinare per riparare ai disordini, alle divisioni, alla crisi delle vocazioni che si ascrivono ai
quindici anni di regno di Montini.
«Se è vero che la Chiesa non è una multinazionale controllata da un'oligarchia, ma il popolo di Dio in cammino», avverte Giuseppe
Alberigo in questa vigilia, «sarebbe atto di responsabilità aprire sin dal preConclave un approfondito scambio assembleare tra i
cardinali sui grandi nodi della vita della Chiesa. » Lo storico dell'Università di Bologna sottolinea che negli ultimi decenni la Chiesa
cattolica ha vissuto la propria unità «piuttosto come comunione sui grandi orientamenti condivisi dalle comunità che come uniformità
rigida di comportamenti identici. In questa prospettiva il servizio papale si configura sempre più come responsabilità di orientare —
attraverso una fraterna condivisione con tutti i vescovi — l'attenzione e la testimonianza dei cristiani sui grandi fatti critici della vita
dell'umanità». L'indicazione di questa corrente di opinioni va nel senso di una Chiesa che si faccia «più piccola, meno ingombrante,
perché si sveli in tutta la sua chiarezza il rapporto misterioso che corre tra il Cristo e la storia degli uomini di ogni tempo».
L'opinione pubblica partecipa con un interesse precedentemente sconosciuto al dibattito che prepara il
conclave. I cardinali accettano di essere intervistati dai giornali, dalle radio e dalle televisioni. Malgrado la
riservatezza che copre le riunioni delle congregazioni generali dei cardinali un conclave in pubblico va
emergendo parallelamente a quello che si prepara al chiuso. Negli Stati Uniti il Committeefor a responsable
electìon of thè pope (CREP) pubblica l'opera di Gary McEoin, The Inner Élite, che contiene le schede
biografiche di tutti i membri del collegio cardinalizio, un libro che fa parte del bagaglio di alcuni elettori.
Padre Congar pubblica sulla Croixun articolo molto letto a Roma, intitolato Un pontificai. Une suite? nel
quale raccomanda la candidatura di un papa non italiano, di un pastore ecumenico e terzomondiale, in
accordo con le prospettive pancristiane e sociali d'una Chiesa che più intensamente cammini sulla strada dei
poveri della terra e sulla via dell'unione fra tutti i cristiani. Il teologo suggerisce anche due possibili nomi,
quelli del cardinale Joannes Willebrands, il vice di Bea al vertice del Segretariato per l'Unione dei Cristiani,
e quello di Paulo Evaristo Arns, il francescano arcivescovo di Sào Paulo del Brasile.
Il 16 agosto alcuni giornali pubblicano un Manifesto sottoscritto da alcuni teologi progressisti di fama
internazionale, fra i quali oltre a Congar, Hans Kùng, Marie Dominique Chenu, Gustavo Gutierrez ed
Edward Schillebeeckx. Essi caldeggiano l'elezione di un papa pronto «ad accettare il rischio di dividere il
proprio potere con i vescovi», trasformando il Sinodo episcopale «in organo deliberativo».
Più discreto l'appello al corpo elettorale rivolto dai teologi tedeschi Johann Metz e Karl Rahner, che invitano
a scegliere un papa capace
di rispondere alle aspettative dei popoli più poveri della Terra. Anche a Roma alcune comunità di base si
pronunciano a favore della designazione di un vescovo che rinunci a tutti i privilegi temporalisti rimasti
incollati al suo rango e alle funzioni politiche connesse alla sua carica. Alcuni gruppi cristiani di Roma
svolgono un'azione promozionale a favore della candidatura del vicario cardinale Ugo Poletti, nella
prospettiva di un ritorno simbolico del papato alla sua funzione originaria di ministero episcopale nella
Chiesa di Roma.
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Le congregazioni preparatorie.
Fra il 7 e il 24 agosto i cardinali, affluiti alla spicciolata a Roma, partecipano a quattordici congregazioni
generali, presiedute da Carlo Confalonieri, decano del collegio cardinalizio (toccato dalla regola espulsiva
degli ottantenni) assistito dal cardinale camerlengo Jean Villot. Nelle congregazioni hanno diritto di
intervento anche i quindici cardinali che non hanno diritto di voto al conclave, avendo superato gli
ottant'anni.
Le riunioni vengono impegnate dalla lettura delle relazioni, fatte preparare da Villot, sulla situazione della
Chiesa in diversi campi, incluso quello della Chiesa nei paesi comunisti e il delicato settore delle finanze
pontificie.
La relazione finanziaria, tenuta dal cardinale Egidio Vagnozzi in veste di presidente della Prefettura per gli
Affari Economici, suscita qualche perplessità, per l'indicazione conclusiva circa l'enorme aumento del deficit
del bilancio sotto Paolo vi. Il cardinale Pietro Palazzini, ritenuto l'alfiere dell'Opus Dei nella Curia romana,
contesta a Vagnozzi la reticenza mantenuta sugli affari dell'Istituto per le Opere di Religione (IOR), la
cosiddetta banca vaticana presieduta dal vescovo americano Paul Marcinkus, le cui scorribande hanno contribuito a coinvolgere la finanza pontificia nel clamoroso fallimento della Banca Privata Italiana del
banchiere siciliano Michele Sindona, a sua volta immischiato nei traffici, allora ignoti ai più, del Banco
Ambrosiano di Roberto Calvi. Alle richieste di chiarimenti, Villot oppone tuttavia che lo IOR non dipende
dalla Santa Sede, benché svolga la sua attività in Vaticano, e che, non rientrando nelle amministrazioni
soggette al controllo della Prefettura per gli Affari Economici della Santa Sede, non può essere oggetto di
esame da parte del collegio cardinalizio.
Nel corso di una seduta il cardinale Suenens prende l'iniziativa di attirare l'attenzione dei colleghi
sull'opportunità, per il prossimo papa, di poter contare su un consiglio della corona, riproduzione dell'antica
figura concistoriale, per essere coadiuvato nell'esercizio delle funzioni pontificali, tanto più considerando
l'enorme sviluppo assunto dalle responsabilità del papato moderno.
La proposta viene fortemente combattuta dal cardinale Pericle Fé
liei, ex segretario del Concilio, che vi teme una riedizione del conciliarismo e una ferita inferta al potere
supremo del Romano Pontefice. Inoltre, il partito romano, di cui Felici è emissario, non ha interesse a far
emergere un tema del genere nelle congregazioni generali, sia per evitare che su di esso si coaguli la simpatia
dei cardinali della Chiesa universale, che costituiscono la maggioranza, sia per escludere che una
capitolazione elettorale possa vincolare di fatto il programma del futuro pontefice ad una riforma che la
Curia romana intende respingere fermamente.
Il partito romano sa che la composizione del collegio cardinalizio, dopo la strategia seguita da Montini, rende
assai improbabile il successo d'un proprio candidato. Gli elettori sono 111, mancanti Gracias di Bombay,
Wright di Boston e il polacco curiale Filipiak per malattia. Degli elettori 28 appartengono alla Curia romana,
e rappresentano un arco plurale di orientamenti, 83 sono stati o sono tuttora capi di diocesi. La proporzione
dei cardinali europei, che erano 55 su 80 nel conclave del 1963, è attualmente di 56 su 111.1 cardinali
originari dell'Africa sono 12, dell'Asia 9, dell'Australia e del Pacifico 3, del Nord America 10, dell'America
Latina 21.
È il conclave col maggior numero di elettori di trenta diverse nazionalità, con un collegio elettorale in cui per
la prima volta i cardinali non europei sono in numero pari a quelli europei e gli elettori di Curia non
raggiungono il terzo dei voti sufficienti a bloccare l'elezione d'un candidato. Soltanto dodici sono fra i 111
elettori i cardinali nominati dai papi prima di Paolo vi, e ciò sottolinea l'importanza dell'opera di
rinnovamento adottata da Montini e il fatto che il conclave è un'esperienza nuova per la stragrande
maggioranza dei cardinali.
Degli elettori di papa Giovanni restano soltanto Siri, Léger e Wyszynski, il quale si rivolge a Karol Wojtyla
durante una delle congregazioni generali, per fargli osservare: «Quante facce nuove! ». Uomini dei quali si
parla per la rosa dei papabili o comunque attivi come grandi elettori sono dei neofiti del conclave, ad
esempio Giovanni Benelli, Albino Luciani, Sergio Pignedoli. Per alcuni addirittura il Vaticano è quasi uno
sconosciuto: «Non conosco molto bene questi luoghi», ammette il patriarca di Venezia Luciani conversando
in ascensore con il cardinale di Tolosa Guyot. «Io non ci vengo spesso.»
Nelle congregazioni generali si assumono le decisioni regolamentari sullo svolgimento degli scrutini e si
tirano a sorte le celle destinate agli elettori. Ma i cardinali si riuniscono anche fuori del Vaticano, e si nota fra
le altre una riunione la sera del 23 agosto, al Seminario francese, dei cardinali Marty, Renard, Gouyon e
Guyot «con dei cardinali stranieri della Francia», per la messa in comune di «un'ampia mole di documenti».
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La strategia dei gruppi.
Incontri del genere punteggiano la vigilia. Il partito romano si rivolge a Siri per sondarne la disponibilità ad
accettare la candidatura, in funzione restauratrice. Vagnozzi e Palazzini svolgono questa missione, che si
conclude positivamente: «mi fu chiesto di esprimermi in merito ad una mia eventuale candidatura», dirà Siri
al suo biografo ufficiale. «Risposi che non chiedevo nulla a nessuno e non negavo niente a nessuno.»
Secondo una fonte citata dal medesimo, Siri «prevede probabile la sua elezione». La sua disponibilità viene
comunicata all'arcivescovo di Colonia Joseph Hòffner, al cardinale di New York Terence Cooke, all'africano
Paul Zoungrana, al brasiliano Avelar Brandào Vilela. «Credo che si debba metter ordine nel campo
dottrinale», dichiara Siri alla televisione italiana. «La minaccia più grave che incombe sulla Chiesa oggi è
quella che troppi parlino e non parlino bene.»
Siri non è però il solo nella rosa della Curia romana. Molto attivi, oltre a Poletti, si rivelano Sebastiano
Baggio, prefetto della Congregazione dei vescovi, e Sergio Pignedoli, presidente del Segretariato per i Non
Cristiani, entrambi per diverse ragioni legati all'eredità di Montini attraverso legami personali. Essi si
presentano come possibili rappresentanti di un «partito montiniano di Curia» che presume di coagulare le
esigenze di continuità conciliare, avvertite dagli episcopati periferici, con il programma d'ordine che
interessa ai romani e servendosi della loro ostilità all'idea d'un possibile ritorno di Benelli in Vaticano, con o
senza la veste bianca. «Dopo lo sconvolgimento seguito al Concilio», dice il cardinale Gabriele Garrone, uno
dei pastori francesi chiamati da Paolo vi a imprimere una linea pastorale alla Curia romana, «la Chiesa ha
bisogno di tornare ad una pausa riflessiva. Occorre un uomo che possa attuare il Concilio in un clima di
serenità.»
// ruolo di Benelli.
Giovanni Benelli arriva da Firenze soltanto per poche ore, e di rado, il minimo per partecipare alle riunioni
coi Latinoamericani al Collegio Pioamericano, e coi Francesi e gli altri Centroeuropei al Seminario francese.
Ma è lui che tira i fili della strategia che conta per questo conclave. Egli comprende che il candidato
«montiniano», Baggio o Pignedoli, non potrebbe ottenere una maggioranza sufficiente e che d'altronde la
Curia romana è troppo divisa, tra «montiniani» moderati e Siri, per poter determinare l'elezione. Infine, la
maggioranza del collegio è costituita da pastori che desiderano espii
citamente un pastore di spirito conciliare e difficilmente lo riconoscerebbero nei candidati romani che stanno
brigando per sé.
L'ex sostituto ha un candidato personale, Albino Luciani, un «allievo» del Concilio che sa disposto a
sviluppare la collegialità episcopale ma allo stesso tempo sensibile alle esigenze dell'ortodossia. «Non c'è
dubbio», dichiara Benelli il 24 agosto a un giornale, «che i vescovi debbano divenire compartecipi nel
governo della Chiesa. I vescovi sono un collegio il cui capo è il papa, e il collegio con la guida del papa deve
appunto partecipare al governo della Chiesa.»
Riferendosi al Sinodo dei vescovi, il cardinale Benelli manda un messaggio assicurativo ai cardinali dell'area
progressista: «è un istituto che in seguito potrà essere modificato secondo le esigenze dei tempi», mediante
«uno sviluppo che includa anche i poteri deliberativi».
Una vera e propria dichiarazione programmatica che si conclude con accenti terzomondisti: «In un'epoca in
cui domina il consumismo quale nuova forma di vera e propria schiavitù, il compito del papa oggi è quello di
riportare il mondo a Dio attraverso il dialogo con la storia, la predicazione della giustizia, la riaffermazione
dei diritti umani, l'annuncio del Vangelo». L'assicurazione principale, anche se non priva di toni retorici,
riguarda la realizzazione del Concilio: «II Concilio è il fatto centrale della Chiesa oggi e non può non essere
attuato fino in fondo».
A questo programma Benelli allega la candidatura di Luciani, sul quale attira l'attenzione di numerosi settori
cardinalizi, inclusi alcuni romani: «Luciani era uno dei nomi sui quali si era puntata maggiormente
l'attenzione degli elettori negli ultimi giorni del preconclave», dirà Confalonieri. Lo sforzo dell'arcivescovo
di Firenze investe anche l'area dei cardinali terzomondiali, che parrebbe incline a una soluzione clamorosa,
con il sostegno ad una candidatura non italiana, sui nomi di Willebrands, dell'argentino di curia Pironio e del
polacco Karol Wojtyla, che si è fatto notare nell'ultimo Sinodo dei vescovi, dove è stato eletto fra i
rappresentanti nella Segreteria permanente.
«Non è stata quella di Luciani una scelta improvvisa», dirà lo storico Gabriele De Rosa. «Essa è arrivata
come frutto di una più lontana e attenta riflessione, forse già prima della scomparsa di Paolo vi. In effetti il
suo nome correva da tempo nel mondo extraeuropeo periferico. I cardinali del Terzo Mondo, arrivando a
Roma, chiedevano notizie di Luciani. Posso confermare che risponde al vero che i cardinali latinoamericani
portavano Luciani da tempo.»
L'arcivescovo dì Dakar, Hyacinthe Thiandoum, dirà di essersi avvicinato a Luciani durante le congregazioni
generali e di avergli det
to: «Ci sono pronostici anche se timidi circa la sua eventuale elezione. Si sentono in molte riunioni». La
risposta di Luciani è secca: «Non è affar mio».
Il gruppo di Siri e Felici attraversa un periodo di panico, di fronte alle iniziative di Benelli. Per riprendere le
redini della situazione, esponenti del partito romano chiedono al camerlengo Villot di prendere posizione
contro riunioni o iniziative collettive come quelle promosse dai Brasiliani e dai Francesi e di richiamare le
norme del segreto, al fine di evitare che i cardinali concedano interviste sulla stampa e alla tv.
Malgrado l'invito, i cardinali maggiormente in vista del Terzo Mondo e dei settori centroeuropei continuano
a invocare nelle loro dichiarazioni una direzione papale capace di esprimere una linea pastorale, di
sviluppare i poteri del Sinodo episcopale e di accentuare l'impegno della Chiesa sui problemi della giustizia
internazionale. Anche i cardinali nordamericani in un'altra conferenza stampa, e alcuni Africani si schierano
a favore di questo orientamento, e così i gesuiti con una conferenza stampa, atre giorni dall'apertura del conclave, degli assistenti del Generale della Compagnia Pedro Arrupe. «Non voglio un papa politico», dichiara
l'arcivescovo di New York Terence Cooke. «Lo stesso Paolo vi è stato un ottimo papa perché anzitutto un
pastore più che un diplomatico.»
Il 26 agosto mattina i nomi dei «papabili» più fondati — Siri e Luciani — appaiono nelle cronache de //
Tempo e de // Resto del Carlino. Luciani è pronosticato daLeMatin di Parigi come il candidato di uno
schieramento eterogeneo che comprende i pochi curiali dai quali Benelli non continua ad essere detestato, gli
italiani residenziali come Michele Pellegrino o Corrado Ursi di Napoli, che difficilmente approverebbero il
successo di Siri, gli Africani, i Latinoamericani amici di Benelli, alcuni esponenti dell'episcopato tedesco.
Ma il giornale francese aggiunge che un'alleanza del genere sarebbe aperta al consenso anche dei
conservatori, interessati alla restaurazione dottrinale e disciplinare, data la dimensione teologicamente
conservatrice della scheda biografica del patriarca Veneto.
Il Time nel numero del 28 agosto pronostica Luciani come il favorito di Benelli e di Confalonieri e
L'Espresso in data 27 agosto da Luciani come il candidato «incolore» dell'ultimo momento, tenuto in riserva
da Benelli. Secondo una confidenza attribuita al direttore della Radio Vaticana padre Roberto Tucci,
all'inviato di Le Monde, Luciani «avrà al conclave le più forti chances di portare all'unanimità richiesta i
cardinali divisi, come candidato di Benelli». Uno storico belga, Jan Grootaers, suggerisce di non trascurare
«gli stretti lega
mi che uniscono il cardinale Suenens e il cardinale Benelli». «Non è escluso», aggiunge, «che gli eccellenti
rapporti esistenti tra l'arcivescovo di MalinesBruxelles e i cardinali americani e canadesi, il cardinale di
Westminster Basii Hume e i cardinali olandesi, servano nel conclave a inclinarli nel senso della strategia di
Benelli. Noi disponiamo anche di indici di prima mano secondo i quali, alla vigilia del conclave, la
Conferenza episcopale italiana ha messo avanti il patriarca di Venezia come suo candidato.» Ciò
significherebbe che la Cei avrebbe preferito il proprio vicepresidente Luciani a Siri, il suo primo ex
presidente. Il «papa non eletto» non disponeva per l'elezione nemmeno del voto dei suoi.
// conclavelampo.
I centoundici elettori si chiudono in conclave il pomeriggio di venerdì 25 agosto 1978, al canto del Veni
Creator Spiritus. Ciascuno raggiunge il seggio che gli è assegnato nella Cappella Sistina. Dopo l'intimazione
dell'extra omnes il camerlengo Villot ordina che sia data lettura dei principali passaggi della Costituzione
apostolica di Paolo vi. Il giuramento di osservarne le prescrizioni è pronunciato personalmente da ciascuno
degli elettori secondo una formula breve, con la mano posata sul libro dei Vangeli. La cerimonia si conclude
con una allocuzione di Villot che esorta gli elettori ad affrontare l'elezione con intenzione retta e curandosi
unicamente del bene della Chiesa universale.
Ciascuno si ritira poi nella propria cella ammobiliata sommariamente: letto militare, catino e brocca d'acqua,
un piccolo tavolo per scrittoio. La clausura è reale nel senso più stretto della parola: porte chiuse dall'esterno,
finestre occultate con una mano di pittura e con gli infissi sigillati, niente radio, niente giornali, niente posta.
II caldo è asfissiante: «la mia camera era un forno», ricorda Suenens. «Una specie di sauna. È difficile
immaginare cosa vuoi dire dormire in un forno. C'era solo una finestra, ma sigillata. L'indomani, con la forza
delle mani, riuscii a far saltare i sigilli: che dono divino l'ossigeno e un po' d'aria fresca. Si poteva rischiare di
ammalarsi.»
Anche la mancanza di riservatezza reciproca suscita disagi psicologici nel collegio, disabituato a una vita
realmente collegiale: «la mia stanza, la numero 88, era in comunicazione con la numero 86, assegnata al
cardinale Duval», ricorda Suenens. «Dovevo passare attraverso questa stanza per entrare nella mia, dove,
come in qualunque altro appartamento, Benelli aveva intelligentemente fatto installare l'acqua corrente. Il
cardinale Luciani, e insieme a lui molti altri, disponevano solo di una brocca d'acqua.»
A sua volta la testimonianza del cardinale Silvio Oddi, un diplomatico molto vicino a monsignor Marcel
Lefebvre, metterà in rilievo l'incongruenza di questo serraglio asfissiante rispetto al compito elettorale:
«Crcpavamo di caldo, l'asfissia sembrava prendere il sopravvento e io mi accorsi che alcune eminenze erano
sull'orlo del collasso. Allora mi ribellai e, con l'autorità di membro del comitato di sorveglianza, dissi: "vi
ordino di aprire i finestroni". Alcuni risposero: "Eminenza, non è permesso aprire le finestre. Dalla
Segreteria di Stato potrebbero sentire gli applausi". Risposi: "e anche se sentono? ". E feci aprire le finestre.
Sul volto dei moribondi tornò il colore [...]. I cardinali sono quasi tutte persone d'età, con problemi di prostata, affaticati, con un bagno ogni dieci persone. Io dormivo vicino alla toilette, ma vedevo dei poveri vecchi
di notte fare sessanta metri di corridoio per arrivare al bagno e poi trovarlo occupato. Una pena,
un'umiliazione, sapesse! I pasti erano preparati dalle brave suore, buone cuoche, gentili, silenziose. A tavola
servivano sei o sette camerieri che facevano parte del personale, che poi erano allontanati. E i cardinali
dovevano anche rifarsi il letto».
L'indomani sabato 26 agosto, concelebrata la messa nella Sistina, in onore dello Spirito Santo, i cardinali si
ritrovano alle 9.30, dopo la piccola colazione, ai loro seggi nella Cappella per il primo scrutinio. Dopo un
tempo consacrato alla preghiera e la distribuzione delle schede, ha luogo il sorteggio dei cardinali che
saranno incaricati di raccogliere le schede, di contarle e di farne lo spoglio.
Quindi ogni elettore scrive segretamente nella propria scheda il nome di colui che egli ha scelto come
Sommo Pontefice e si reca, quando tocca il suo turno di chiamata, a portarla all'altare, per farla cadere nel
calice aperto recitando la formula: «Prendo a testimone Cristo Signore, che mi giudicherà, che io eleggo
colui che, secondo Dio, io giudico che debba essere eletto». Dopo che tutti i 111 elettori hanno così votato,
gli scrutatori contano le schede, poi le aprono e uno di loro recita a voce alta e intelligibile il nome dell'eletto.
«Primo scrutinio: una rosa di nomi», dirà Suenens. «All'inizio, opinioni molto disperse», preciserà
l'arcivescovo di Vienna Franz Kònig. «Si poteva credere che il conclave fosse lungo e difficile. C'è stata una
convergenza al terzo scrutinio e soprattutto al quarto scrutinio.»
Sono necessari 75 voti, per conquistare i due terzi più uno prescritti. Le confidenze del cardinale Mario
Casariego, di Città del Guatemala, permetteranno una ricostruzione meno letteraria: al primo scrutinio, 25
voti per Siri, 23 per Luciani, 18 per Pignedoli, 9 per Baggio, 8 per Kònig, 5 per Bertoli, 4 per Pironio, 2 a
Felici e 2 al brasiliano Lorscheider.
Probabilmente uno di questi ultimi è il voto di Luciani, che ha fatto una dichiarazione in questo senso molto
tempo prima del conclave. In un'ipotesi astratta, lo schieramento dei novatori (sparso tra Luciani, Kònig,
Pironio e Lorscheider) potrebbe basarsi su 37 voti, quello del partito romano (Siri, Bertoli, Felici) su 32,
mentre in una posizione mediana si colloca l'area dei montiniani di Curia Baggio e Pignedoli con 27 voti.
Al secondo scrutinio, che segue immediatamente il primo, il taccuino di Casariego indica un aumento
notevole del consenso a Luciani che va in testa con 53 voti, mentre Siri mantiene sostanzialmente la propria
base con 24 voti e Pignedoli scende a 15. Alcune schede — forse 4 — portano il nome di Wojtyla. Le schede
dell'intero scrutinio sono bruciate e la fumata di color nero — la prima — si leva nel cielo di Roma.Uscendo
dalla Sistina, l'ungherese Lazio Lékai dice a Luciani: «I voti stanno aumentando». Luciani sdrammatizza:
«Questo è soltanto un temporale d'estate», risponde.
Secondo le confidenze dello spagnolo Vicente Enrique y Tarancòn, egli stesso riunisce nella propria cella,
durante l'intervallo, alcuni cardinali al fine di rastrellare i voti sufficienti per portare Luciani al successo e
respingere l'offensiva di Siri. Alla riunione partecipano Suenens, Alfrink, Kònig, il pakistano Joseph
Cordeiro e altri ancora. «Parlammo tra di noi perché ci sentivamo fuori pista», confesserà l'arcivescovo di
Madrid.
La svolta si verifica al terzo scrutinio delle 16.30. Secondo la stessa fonte, Luciani registrerebbe
un'impennata a 70 voti, mentre si ridurrebbero a 12 quelli per Siri e a una decina quelli per Pignedoli. Se
questi dati sono credibili si sarebbe portati a ritenere che il progresso di Luciani sia scaturito dalla decisione
del partito romano di convergere sul candidato di Benelli, abbandonando sia Siri sia gli illusi candidati
«montiniani». Il fattore determinante parrebbe riconoscibile nella confluenza dei voti controllati da Baggio e
da Felici (circa venti) sul patriarca di Venezia, e non su Pignedoli e nemmeno su Siri. Non a caso è in questa
fase che Felici manda un bigliettino indirizzandolo al «nuovo papa»: una piccola Via crucis. «Grazie», gli
risponde subito Luciani. «Ma non è ancora fatto.» Si passa subito al quarto scrutinio, in un clima sciolto,
quasi eccitato. L'esito è quasi plebiscitario: secondo le indiscrezioni che seguiamo, 101 voti su 111 per
Luciani: una «maggioranza straordinaria, un regale tre quarti per una personalità poco conosciuta», dirà
Suenens. Da ogni settore si leva l'applauso, i cardinali sono in piedi, festanti, lasciando cadere secondo l'uso
il baldacchino dei loro seggi in segno di ossequio all'eletto.
Luciani «restò calmo», dirà il francese Guyot. «Subì con l'elezione
quasi uno shock», assicura invece Kònig. «Non voleva accettare. Fu convinto dai suoi vicini, Willebrands e
il cardinale portoghese Ribeiro. Io vidi il suo gesto netto di rifiuto e il suo parlare concitato. Aspettammo
infatti un po', prima di giungere alla accettazione ufficiale. Una volta accettato si rasserenò.» Lo ribadirà
Oddi: «Io ricordo Luciani. Era preoccupato, angosciato».
Versione analoga quella di Siri. Andando con Villot e Felici al seggio di Luciani per la domanda formale
dell'accettazione, l'arcivescovo di Genova si sente tirato per la manica da Baggio. «Consiglialo di prendere
nome Eugenio», gli dice, ricordando come l'ultimo papa veneziano fosse stato Eugenio iv. «Non è questo il
momento. Non sappiamo se accetterà», replica Siri. «Come faccio a suggerirgli il nome?»
Alla domanda di rito rivoltagli da Villot: «Accetti l'elezione canonicamente ora fatta della tua persona come
Sommo Pontefice?», Luciani risponde con un filo di voce: «Accetto».
«Con quale nome vuoi essere chiamato?», incalza Villot.
Luciani si esprime allora in modo abbastanza diffuso, ma con una voce ancora troppo debole per essere
intesa dall'assemblea. È con meraviglia che essa apprende che il nuovo papa vuole chiamarsi Giovanni
Paolo. «Giovanni Paolo Primo», precisa Siri. Ma la scelta si spiega presto quando egli stesso dice che porterà
i nomi dei suoi predecessori per sottolineare la sua fedeltà alla loro memoria e significare la continuità del
ministero che intende esercitare come vescovo di Roma e come capo del collegio episcopale.
In sacrestia egli indossa la sottana bianca, poi ritorna al centro dell'altare e si siede nella cattedra pontificia
per ricevere l'omaggio dei cardinali, ai quali mormora, scrollando continuamente la testa: «Dio vi perdoni
per quello che avete fatto! ». L'assemblea si riunisce in un glorioso TeDeum: «Pregate, pregate per me», non
cessa di raccomandare il nuovo papa ai cardinali che salgono per inginocchiarsi ai suoi piedi, nel rito
dell'obbedienza. «Sono un umile papa, sono un povero papa...»
L'annuncio che la Chiesa romana ha il 263mo, successore di Pietro viene dato alle 19 dal cardinale Pericle
Felici dalla loggia della Basilica vaticana. È stato un conclavelampo, il più rapido del secolo dopo quello del
'39 per Pio XII. Troppo rapido per non testimoniare, da un lato quella sensibile azione dello Spirito che molti
elettori dichiareranno di aver avvertito nella Sistina, dall'altro lato l'esistenza di un processo ben preparato di
convergenza di consensi per sé eterogenei su un disegno programmatico sufficientemente apprezzato dalla
maggior parte, ancorché compromissorio assai più che unitario.
La figura che appare alla loggia della Basilica sorprende e rallegra per la semplicità del sorriso e del gesto, la
remissività e la pace dell'atteggiamento, quando l'eletto benedice la folla. Egli fa un rapido dia
rio dell'evento e confessa di non possedere né la sapientia cordis di papa Giovanni né l'intelligenza di Paolo
vi, che a Venezia gli mise sulle spalle la propria stola, facendolo diventare «tutto rosso», un gesto che ora
può essere inteso come un simbolico passaggio delle consegne. Egli decide di trattenersi a cena con i suoi
elettori e di rinviare all'indomani l'apertura del conclave. Egli si siede a tavola allo stesso posto che aveva al
pranzo precedente.
Alla prima udienza ai cardinali, il 30 agosto, egli rinuncia a pronunciare il testo del discorso preparato dalla
Segreteria di Stato e decide di improvvisare: «Sono un novizio qui in Vaticano», dice. «Non so niente degli
ingranaggi di questa specie di orologeria. La prima cosa che ho fatto è di sfogliare l'Annuario Pontificio per
vedere "il Chi è" di ogni persona e come funziona la macchina.» Egli rivolge un appello caloroso ai cardinali
a partecipare alle sue responsabilità di governo della Chiesa: «spero che aiuterete voi cardinali questo povero
Cristo, il vicario di Cristo, a portare la croce [...]. Credo di avere estremo bisogno anche dei vescovi che sono
fuori Roma».
Il 3 settembre ha luogo la cerimonia che un tempo era chiamata «incoronazione» del papa e che Luciani
trasforma in un semplice rito di inaugurazione pastorale, chiamato ufficialmente «messa solenne che segna
l'inizio del personale ministero di sommo pastore». Gesti e simboli in piazza San Pietro sanno di spoliazione,
di Chiesa catacombale. Comincia l'età di Giovanni Paolo i, il primo papa che rifiuta tiara e incoronazione.
Per mille anni l'inizio di un pontificato è stato omogeneo a ciò che di trionfo, di troni temporali e di
Controriforma è simboleggiato dalla mole gigantesca della Basilica di San Pietro. Adesso questa forma, che
si riteneva immobile, si spoglia e un papa montanaro, figlio di un emigrante, la riconduce all'essenza. Mille
anni finiscono qui, davanti ad un altare bianco, nel quale si vedono solo due libri: l'Evangelo in latino e
l'Evangelo in greco.
Luciani scende da solo sulla tomba di San Pietro, sotto la Confessione: resta in ginocchio là sotto per dieci
minuti, mentre i cerimonieri guardano spazientiti l'orologio.
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Le radici di Luciani.
«II papa meno papa» che sia salito su un trono che gli è penoso è figlio di un muratore socialista del
bellunese, ove è nato nel 1912. Vescovo di Vittorio Veneto, scelto personalmente da Giovanni xxm alla fine
del 1958, egli partecipa al Concilio «come scuola e conversione»: «sono un allievo, sto imparando di nuovo
la teologia, e mi costa grande fatica», dice. Egli propone a Siri, capo dei vescovi italiani, di chiamare periti
stranieri di diverso orientamento teologico a parlare all'episcopato nazionale sulle questioni dibattute
nell'aula conciliare. Ma Siri non accetta tale proposta: «è un uomo intelligente, dalla
logica ferrea», confida Luciani, «ma chiuso nel proprio sistema e incapace di dialogo».
Nella propria formazione teologica, Luciani annette una grande importanza ad Antonio Rosmini, il cui
protettore era il cardinale bellunese Cappellari, papa col nome di Gregorio xvi. La laurea di Luciani, ottenuta
alla Gregoriana, era sull'Origine dell'anima in Rosmini, una tesi discussa col padre Zoltan Alszeghy. È
divenuto quindi vicario generale della diocesi di Belluno col vescovo Girolamo Bortignon. In epoca di
compromessi della Chiesa col potere politico, egli ha preferito tagliare corto: «non ingeritevi nella politica»,
ha raccomandato ai preti di Vittorio Veneto. Alla fine del 1969 Paolo vi lo manda patriarca a Venezia, dove
Luciani si distingue per l'allineamento piuttosto passivo alle direttive della Segreteria di Stato di Benelli, e
reprime decisamente i fermenti del clero e degli intellettuali critici della sua diocesi. Nel 1974 corrono voci
insistenti d'una probabile chiamata di Luciani in Vaticano, dove Montini vorrebbe affidargli la carica di
prefetto della Congregazione del Clero. È un modo per «allevarlo» alle maggiori responsabilità ma anche per
sottrarlo al conflitto esploso tra lui e Siri al Consiglio di Presidenza della CEI dopo che Luciani si è opposto
alla decisione — fermamente sostenuta da Siri — di impegnare la Chiesa italiana nella crociata contro la legge sul divorzio.
La tensione tra Luciani e Siri non ha nulla di personale, naturalmente, ma si qualifica fortemente per le sue
differenti visioni ecclesiologiche. Essa arriva al conclave da lontano, fin dall'inizio del Concilio. Se Benelli è
l'apparente vincitore del conclave, la piattaforma di compromesso in cui è insorta la velocissima elezione
rimane col suo carico di ambiguità sotto il trionfalismo unanimistico con cui viene salutata dai protagonisti e
dall'opinione pubblica.
Siri si precipita a bussare alla porta del papa nei giorni successivi, per chiedere l'udienza. È un modo per far
pesare l'appoggio finale della sua base elettorale sul nuovo pontificato, se non per condizionarlo, non meno
che per tentare di scongiurare un richiamo troppo rapido di Benelli a Roma, a un posto che non potrebbe
essere inferiore a quello di segretario di Stato: un'eventualità che il vecchio partito romano comincia a
combattere con ogni energia. Ma il nuovo papa, per quanto apparentemente ingenuo, decide di rinviare
l'incontro con Siri. E poiché il cardinale insiste, gli differisce l'appuntamento al 30 settembre.
In questo contesto, il grande discorso programmatico che il papa pronuncia 24 ore dopo l'elezione assume un
rilievo particolare. Non solo vi si ritrovano i due temi maggiori emersi nel preconclave — garanzie alla
tendenza conservatrice sul piano della fermezza dottrinale
e della grande disciplina e garanzie alla tendenza novatrice sul piano della collegialità e dell'impegno sociale
— ma ci si trova visibilmente dinanzi ad un'opera che difficilmente può essere espressione solo d'uno sforzo
personale compiuto in quella notte, anzi suppone piuttosto una riflessione strategica di respiro istituzionale
sulle linee prossime dell'azione della Chiesa. In realtà quel discorso è stato scritto nella notte tra il 26 e il 27
agosto da un alto dirigente della Segreteria di Stato, monsignor Giovanni Coppa, della generazione dei
«benelliani».
// soffio di un pontificato
È in questa direzione che si impegna Giovanni Paolo i in quel brevissimo scorcio del suo pontificato, che
durerà il soffio di appena trentatré giorni. Le rivelazioni dei diari del prete e teologo ecumenico veneziano
don Germano Pattaro, integrate da altre testimonianze autorevoli attinte direttamente al cardinale Villot,
rivelano l'artificiosità dello stereotipo applicato a Luciani di papa «sorridente ma sprovveduto». Egli mostra
invece di essere pienamente consapevole della scelta compiuta dal conclave, che ha privilegiato una figura
pastorale di papa su un'ipotesi di personalità titanica in cui prolungare la figura di un «papa
dell'onnipotenza». «Comincio a capire ora cose che non avevo capito prima», confida a Pattaro, che Luciani
ha chiamato in Vaticano come consigliere personale. «Ognuno qui parla male dell'altro. Sa, parlerebbero
male anche di Gesù Cristo.» Molte cose fanno ritenere a Pattaro che «il papa è pentito di avere accettato»,
ma che la croce non gli impedisce di programmare una serie di interventi molto corposi e dirompenti di
riforma.
Alcuni di questi riguardano il conclave. Giovanni Paolo i intende introdurre una novità importante: «Sono
maturi i tempi perché al conclave partecipino con diritto di voto i vescovi presidenti delle Conferenze
episcopali nazionali di tutto il mondo. Il suffragio avrà allora un valore più universale e più completo. La
collocazione poi dei padri all'interno e durante il conclave deve essere più decorosa e più efficiente. Non si
può rinchiudere cento persone, più o meno anziane, in un luogo così ristretto, costringendole a dormire su un
letto di ferro e a lavarsi in un catino con una brocca d'acqua».
La chiave di volta della riforma sta nella determinazione del papa di applicare il Concilio e di aggiornare in
tutti i campi la prassi della Chiesa, riconducendola ad una reale povertà e semplicità per adeguare l'annuncio
del Vangelo ai bisogni reali dell'umanità contemporanea.
Egli comincia la riforma da se stesso. Non c'è cosa che tema mag
giormente quanto il culto della personalità che viene nutrito verso il papa. Rifiuta scorte e armigeri. Ordina
che le guardie svizzere non si inginocchino più al suo passaggio.
«Qui tutti guardano al papa come se stesse sulla cima di un albero», dice a Villot passeggiando per i giardini
vaticani. «Un essere lontano, intoccabile, uomo di nessuno. Io non sono un re, sono un padre, un fratello e
desidero essere trattato come padre e fratello di tutti. Lo dica.»
Egli appare «sconvolto», sfogliando VAnnuario Pontificio, dalla quantità di titoli di cui il papa è insignito:
«manca solo il titolo di papare», osserva. «È un retaggio del potere temporale. I titoli veri dovrebbero essere:
eletto vescovo di Roma e per questo successore dell'apostolo Pietro e per questo servo dei servi di Dio.
Come può il papa presentarsi a dialogare con le Chiese sorelle investito di tutti questi titoli?»
L'idea che la Chiesa deve riconoscere tutti gli errori e i peccati commessi ritorna più volte nelle
conversazioni di papa Luciani. «Noi», sottolinea, «non dobbiamo chiuderci nel nostro guscio ritenendoci i
soli possessori della verità. Guai a noi se faremo torto alla speranza e se ritarderemo con il nostro egoismo e
la nostra superbia i disegni di Dio.»
Una colpa che lo angustia è la tolleranza, antica e recente, degli uomini di Chiesa verso le politiche
oppressive in Africa e in America Latina. Egli ritiene necessario un atto penitenziale del papato anche per
tutto ciò che è stato compiuto «dalla tristissima Inquisizione e nei tristissimi tempi del potere temporale dei
papi». All'obiezione che non si possono giudicare i fatti di un tempo con la sensibilità attuale, risponde che
«non è problema di sensibilità ma un fatto di verità».
Il riconoscimento degli errori delle gerarchie, specialmente romane, è chiaro nel riesame che egli avvia di
alcuni casi classici, in particolare quelli relativi al «suo» Rosmini (per la messa all'indice de Le cinque
piaghe di Santa Chiesa), al cardinale Ferrari, a don Mazzolari e a don Milani. «Noi preti, noi vescovi fermi
nel nostro quietismo», dice a proposito di questi ultimi, «non abbiamo capito che essi vedevano chiaro,
vedevano giusto, vedevano lontano.»
Egli progetta di affrontare una riforma della Curia molto incisiva. «Vorrei poter rivedere tutta la struttura
della Curia e dei suoi rapporti con il papa», insiste con Villot. «Non accetto questa macchina che condiziona
meccanicamente il papa. Il lavoro fatto in questo modo diventa insopportabile.» Egli desidera un
decentramento effettivo e una maggiore responsabilizzazione dei singoli uffici, in modo da essere libero
dah"obbligo di firmare ogni atto.
«Il papa è infallibile alle condizioni sancite nel dogma, ma non è onnisciente, non è corazzato contro
l'imprudenza», dice. «È un uomo. Ricevo ogni giorno due valigie di carte: una al mattino e una al pomeriggio. Una va e l'altra viene. Devo leggere, controllare, dare risposte
e pareri su problemi a volte difficili da risolvere da solo, a volte dolorosi, che fanno tremare il cuore. Io non
ho la resistenza di Pio XII e di Paolo vi, che avevano alle spalle l'esperienza di trent'anni di Curia. Io non
conosco gli uffici. E di notte devo dormire. Mi accorgo che l'apparato della Curia, come è ora, è un
gigantesco ufficio, quasi un monumento, forse necessario, insostituibile, ma molto ingombrante. Io voglio
presiedere la Chiesa con tutti i vescovi... Lei, eminenza», dice a Villot, «si prenderà gran parte di queste
carte. Ma a partire dai primi di ottobre non voglio più valigie sul mio tavolo. Non sono stato fatto papa per
fare l'impiegato.»
Progetti del genere, anche se possono sembrare utopistici, rivelano un maturo interesse di spessore teologico
per una visione più equilibrata e più autenticamente petrina del compito papale. Luciani infatti ha attinto
profondamente all'ecclesiologia conciliare e propone un'interpretazione dell'identikit del papa che sia
coerente con tale visione. Egli cerca di elaborare una sintesi fra due modelli papali divergenti, l'uno visto
come pastore della Chiesa di Roma, l'altro di tipo internazionalista, come guida diretta e immediata anzitutto
della Chiesa universale, ma anche, mediatamente, dell'umanità intera. Egli rincorre una soluzione che radichi
la pastoralità del suo ministero di vescovo in mezzo al popolo, alla stregua di un parroco, come investimento
prevalente della funzione pontificia e la piattaforma reale dei suoi interventi universali.
Le sue udienze generali son dedicate ad illustrare in modo semplice le virtù teologali della fede, della
speranza e della carità. Il 13 settembre egli dichiara che Giovanni xxm aveva la speranza che con il Concilio
la Chiesa avrebbe fatto un balzo in avanti, «un balzo sulla strada delle virtù certe e immutabili, e non su
quella delle verità cangianti». «L'aggiornamento consiste nel proporre queste verità, in modo adatto ai tempi
nuovi», precisa.
Egli difende questa sua interpretazione dalle critiche che toccano anche il modo catechetico di gestire le
udienze generali: «Qualcuno mi definisce una figura insignificante», confida a ViJlot. «Io come Luciani
posso essere una ciabatta rotta, ma come papa è Dio che opera in me. Un vescovo in questa casa ha detto che
l'elezione del papa è stata una svista dello Spirito Santo. Può darsi. Non so allora come sia avvenuto che più
di cento cardinali abbiano eletto questo papa quasi all'unanimità e con entusiasmo. Ho saputo che i tutori dell'ortodossia hanno gridato allo scandalo quando ho parlato di Dio come Madre. Sono parole del profeta Isaia.
Qualcuno ha perfino esclamato: il papa bestemmia! Questa gente dimentica che tutta la Bibbia è attraversata
dal grido dell'amore di Dio che cerca l'uomo.»
Le riforme Giovanni Paolo i le abbozza già nella seconda settimana di governo. Esse riguardano lo sviluppo
della collegialità episcopale, l'ecumenismo, la struttura dello IOR, il Sant'Offizio e il costume papale. Egli
ordina di preparare un progetto di motuproprio per la tra
sformazione della segreteria del Sinodo dei vescovi in un vero e proprio governo permanente della Chiesa
universale, con e sotto il papa, in rappresentanza delle Chiese.
«Desidero coinvolgere sempre più concretamente», dice a don Pattaro, «i vescovi e i cardinali nel governo
pastorale e in tutti i grandi, vitali e universali problemi che toccano il patrimonio della fede e della vita della
Chiesa. La collegialità deve esprimersi anche nella scelta dei vescovi: anche i consigli presbiterali diocesani
e le conferenze episcopali dovranno essere valorizzati per la scelta dei nuovi vescovi. Nessun vescovo potrà
essere scelto senza che vengano tempestivamente consultati questi organismi collegiali. Il loro parere sarà
tenuto in considerazione.»
Quanto alla Congregazione per la dottrina, egli riconosce che la riforma adottata nel 1965 da Paolo vi non le
ha tolto «quel sapore e quell'unzione di Inquisizione che ancora le è rimasto». «Cristo ci ha insegnato di non
"pregiudicare" nessuno», avverte, «e che, davanti all'errante, vale solo l'amore della verità.»
Il programma pontificio di Luciani include una bonifica radicale della banca vaticana: «desidero che siano i
vescovi e i cardinali, con una loro rappresentanza», dice, «a decidere cosa fare dello IOR. Chiedo che le sue
azioni siano tutte lecite e pulite e consone con lo spirito evangelico. Il mondo deve sapere cosa è, cosa fa lo
IOR, quali le vere finalità, come vengono raccolti i denari e come vengono spesi. Si deve arrivare alla
trasparenza nei conti economici vaticani. Dobbiamo pubblicare i bilanci controllati nella loro interezza. Il
presidente dello IOR (Marcinkus) deve essere sostituito, nel rispetto della dignità della persona. Un vescovo
non può presiedere e governare una banca. Quella che è chiamata la sede di Pietro, e che si dice anche Santa,
non può degradarsi al punto di mescolare le sue attività finanziarie con quelle dei banchieri, per i quali
l'unica legge che vale è il profitto e dove viene esercitata l'usura. Abbiamo perduto il senso della povertà
evangelica, abbiamo fatte nostre le regole del mondo. Ho già patito da vescovo amarezze ed offese per fatti
legati al denaro. Non voglio che ciò si ripeta da papa».
La povertà evangelica cui Luciani intende ricondurre la Chiesa investe anche i simboli: niente più ori, argenti
o gemme preziose sul bastone pastorale dei vescovi, che dovrà essere di legno, come ai primi tempi della
Chiesa. Egli pensa a un grande istituto di carità, con mensa, servizi sanitari, magazzino di vestiario per i
poveri di Roma. «La domenica», dice, «andrò anch'io a servire a tavola, come faceva papa Gregorio Magno
nel Tricliniumpauperum al Celio. Sono il vescovo di Roma: quanto più sarò e farò bene il vescovo, tanto più
sarò e farò bene il papa.» E ancora: «Dieci discorsi di meno e una testimonianza di carità in più. Ai poveri
spetta la precedenza».
Il principio ispiratore di questi progetti è che la Chiesa «non deve avere potere né possedere ricchezze». Egli
confida a Villot che farà
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La morte del papa.
Corrono voci secondo le quali il nucleo ierocratico della Curia si accinge a far leva sul senso di
inadeguatezza di Giovanni Paolo i per persuaderlo a dimettersi, in modo da lasciare il posto a uno più «papa»
di lui, nel senso romano del termine. E intanto si spiano i segni del suo logoramento fisico: nel 1975 Luciani
era stato colpito da un embolo all'occhio destro e sul finire del luglio 1978 egli era andato, su ordine del suo
medico, al Lido di Venezia per un periodo di riposo, al fine di ridurre le difficoltà circolatorie del suo
organismo. Egli soffriva di continui gonfiori ai piedi e alle mani e gli si intorpidivano spesso le ginocchia. Il
5 agosto era tornato dal Lido con un'attenuazione dei gonfiori, non con la loro scomparsa. Inoltre Luciani
lamentava tormentosi mali alla testa dai primi mesi del '78. Questi dolori si sono acuiti e sono divenuti
frequenti durante le prime settimane da papa.
Durante la presa di possesso in Laterano Luciani è stato visto terreo in volto, grondante sudore. «Il suo
aspetto ci fece colpo», dirà Giulio Andreotti. «Era terreo, quasi disfatto, tutto diverso dal sorridente ottimista
della prima settimana. E anche durante la messa notammo il pallore crescente ed un sudore che gli imperlava
la fronte di continuo.» Il canonico Joseph Geraud, procuratore generale dei sulpiziani, medico prima di
entrare nell'Ordine, non esiterà ad esclamare: «Se fossi stato il medico del papa, gli avrei ordinato di mettersi
immediatamente a letto».
Da qualche giorno il papa non riesce più a calzare le scarpe quando si sveglia al mattino, tanto gambe e piedi
sono gonfi. È stato chiamato d'urgenza in Vaticano il suo medico personale dottor Antonio da Ros, di
Mestre, che lo ha visitato e gli ha ordinato di fare delle grandi passeggiate e di non stancarsi con l'eccessivo
lavoro. Per questo circola già la foto sui giornali del papa che da l'udienza mattutina «di tabella» al segretario
di Stato Villot camminando per i giardini vati
:22
cani".
Ma suor Vincenza Taff arel, che segue Luciani da quando era vescovo a Vittorio Veneto e che ha il diploma
di infermiera ed esperienza di ospedali, confida a flon Pattaro di essere preoccupata: «la sua pressione non
reggerà all'affanno di tanti impegni», dice.
Dopo l'udienza generale di mercoledì 28 settembre, suor Vincenza si accorge che le pieghe del viso del papa
si sono approfondite, le mani sono divenute più pesanti. «Mi pare che le sue mani si siano ingrossate», dice a
Luciani appena salito nell'appartamento. «Non solo le mani», le conferma il papa. «Anche i piedi sono come
due pesi morti che tirano giù. Mi sento le ginocchia legate. È certo per la stanchezza di questi giorni. Ma
passerà.»
«Avvisiamo ancora il dottor Da Ros?»
«No, no. Non disturbiamo nessuno per un po' di peso ai piedi. Da Ros è stato qui sabato, mi ha detto che il
cuore va bene.»
«Santo Padre, lei sa che il suo cuore non ha mai ceduto. È la pressione il pericolo. Dica, dorme la notte?»
«Poco. Sono alcune notti che mi sveglio tra le due e le tre e non riesco a riprendere sonno. Così leggo fino
all'ora di alzarmi. Ho tante cose in sospeso.»
«Da noi sui monti dicono che fra le due e le tre viene l'ora del lupo», dice la suora. «L'ora in cui si muore.»
«Speriamo che non sia così», mormora Luciani.
La sera del 28 settembre 1978, prima di cena, il papa confida ai segretari John Magee e Diego Lorenzi di
aver avvertito un forte dolore al petto. Padre Magee si offre di chiamare subito un medico.
«Ne riparliamo domani», minimizza Luciani. Nessun medico del Vaticano, o altro di fuori, viene avvertito o
interpellato.
Dopo cena il papa ha una lunga conversazione telefonica col cardinale di Milano Giovanni Colombo, sempre
a proposito della questione della successione a Venezia e, forse, di un alto incarico in Curia per lo stesso
Colombo.
Padre Magee prende congedo dal papa, dopo la preghiera di compieta in comune: «Santità, mi sembra stanco
stasera».
«Sì, ho un mal di testa.»
«Come al solito?»
«Sì, sì, ho letto troppo oggi.»
«Allora, buona notte! Se ha bisogno di qualcosa, vicino al letto ci sono due campanelli, uno per parte, a lei
basti suonare.»
«Oh, no, non c'è bisogno.»
All'alba del 29 settembre Albino Luciani viene trovato morto nel suo letto. È quasi seduto sui cuscini, con la
lampada del comodino ancora accesa e con dei fogli tenuti fra le dita. Suor Vincenza si è insospettita quando
ha trovato intatta e ormai fredda la tazzina di caffè da lei lasciata come al solito davanti alla porta della
stanza alle 5.
Il medico Renato Buzzonetti del Servizio sanitario vaticano stila un referto di morte «avvenuta
presumibilmente verso le ore 23 per infarto miocardico acuto». Suor Vincenza dirà invece che «il papa è
morto per embolia polmonare e non di infarto, e che la sua morte è avvenuta fra le due e le tre del mattino
del 29 settembre. Il tepore da me riscontrato sul viso del papa, quando lo trovai morto alle cinque, fu sentito
anche da don Diego Lorenzi durante la vestizione. È impossibile che il papa sia rimasto sveglio fino all'ora
indicata da Buzzonetti tra le 23 e la mezzanotte. Non era nelle sue abitudini. Non era mai capitato. È
probabile invece che si sia svegliato verso le due e si sia mes
so a leggere come faceva da qualche notte. La morte lo colse mentre era intento alla lettura».
L'impressione a Roma e nel mondo è enorme. Giovanni xxm era morto col mondo intorno, da patriarca,
Paolo vi fuori le mura. Il loro successore dentro il palazzo ma da emarginato, sperduto nella grande
Istituzione, come un immigrato della provincia disorientato nell'anonimato metropolitano. È una morte senza
sorriso, angosciosa, solitària, simile ad altre frequenti nella cronaca della città, degli extracomunitari di cui si
trova il corpo tardi, già freddo, come estrema violenza di un sistema violento; una morte che ha riportato in
qualche misura la condizione reale dell'esclusione dei più deboli all'interno del palazzo dei papi, a ridosso del
trono supremo fra i troni rimasti in terra, come un papa ricondotto realmente e nella morte stessa alla
condizione del comune mortale che egli ha voluto essere in vita, negandosi ai trionfi esteriori del rango.
L'immunità che ha circondato un certo modello di papa sembra veramente ferita. L'abbandono di cui Luciani
è stato gratificato dai suoi — si dice in Vaticano che, quando si è sentito male, ha cercato affannosamente coi
campanelli del suo segretario don Lorenzi, che era fuori palazzo, a quell'ora notturna, in una festa di amici —
non cessa per questo di essere fonte di meditazioni accorate, e persino di
sospetti incresciosi.
«Lo hanno ammazzato»: è un rumore di fondo che in un modo indistinto, con la intuizione della verità
popolare, si aggira intorno al palazzo dei papi, dove centinaia di migliaia di uomini e donne, sotto una
pioggia torrenziale, fanno ore di coda per vedere il papa, disteso su un catafalco nella Sala Clementina,
vestito di abiti liturgici rossi sotto un Crocifisso di legno.
Si fa largo ben presto nei media una visione riduttiya e piuttosto speculativa degli avvenimenti: una tragedia
umana è istituzionale viene buttata in cronaca nera, quella che attribuisce fantasiosamente la morte di
Luciani al veleno. Ciò appare evidentemente un modo persino rozzo per fare il gioco di chi ha interesse a
depistare la comprensione del messaggio esplicito in questa morte. Se il papa è stato stroncato dal peso del
papato, fuori misura per le sue spalle, la lettura di questa troppo rapida fine investe infatti in modo diretto
l'istituzione.
«È necessario», dichiara subito il cardinale Franz Kònig di Vienna, «ridurre ancora di più di quanto fatto
finora il sovraccarico fisico e psichico cui è sottoposto il papa, il peso che la carica comporta, delegando ad
altri alcune funzioni pontificali in modo da non superare i limiti di fatica tollerabili di un essere umano.»
Ciò che l'arcivescovo di Vienna discerne in questi trentatré giorni di regno è la necessità di far compiere alla
monarchia pontificia una trasformazione proprio nel senso dell'abbreviamento del cumulo dei poteri
(pastorali, politici, culturali, ecumenici, diplomatici...), di una semplificazione e di un abbassamento della
vetta della Piramide, di un movimento discendente, veramentepetrino, per articolare meglio il potere papale
non solo con le esigenze del Vangelo e della Chiesacomunità, ma anche con i limiti umani del soggetto
chiamato a gestirlo.
Per i circoli cristiani che ritengono di cogliere la brevità del regno di Luciani come «segno dei tempi»,
diventa imperativo tradurne le provocazioni, in vita e in morte, nei modi di una riforma dello statuto papale,
liberandolo dalla mitologia del papato forte, titanico, monocratico, spettacoloso e onnicomprensivo. In
qualche modo l'annuncio di Luciani, e la durata del suo insegnamento consistono per essi precisamente nella
sua brevità(vedi nota): egli ha adempiuto, per il semplice fatto di esistere, un compito che in futuro
difficilmente potrebbe es
NOTA. In un classico al riguardo, il De brevitate vitae Pontiflcum Romanorum et divina providentia di Pier Damiano si legge che in
appena sedici anni, dal 1045 al 1061, si erano avvicendati otto papi. Damaso n aveva pontificato appena 24 giorni, e la cosa aveva
impressionato a tal punto i contemporanei che non si trovava nessuno disposto a succedergli. Cfr. Giuseppe Cacciamani,
«Osservazioni storiche sul De Brevitate Vitae Pontiflcum», in Vita monastica (Camaldoli) xxvi, 110111, pp. 226242.
Del resto su 258 papi (secondo la cronotassi del Frutaz) 133, cioè più della metà, hanno avuto un regno inferiore ai sei anni. I papi
che da Pietro a Paolo vi non hanno superato un anno di pontificato sono 27, il mese di pontificato 12. Nel periodo 421061 i papi che
non raggiunsero i sei anni di pontificato sono 88, più della metà. In appena 22 anni, dall'882 al 904, si contano ben 12 papi: in media
un papa ogni due anni. Il secolo x è il più gremito di papi (22). Seguono i secoli VII e ix con 20 papi ciascuno, il secolo xi con 18.
Invece, il secolo xix contiene la serie più breve: appena 6 papi. Il secolo xx, fino al 1993, contiene 8 papi. I papi che da San Pietro a
Giovanni Paolo II non superarono un anno di regno sono 28, il mese di pontificato 12.
A proposito delle chiacchiere sul veleno, diffuse in relazione alla morte di Luciani, trascrivo questa nota dal mio Diario del 30
settembre 1978: «Le voci di una morte artificiale, in qualche modo provocata e non naturale, non cessano di diffondersi. Il vescovo
Mendes Arceo di Cuernavaca chiede pubblicamente l'autopsia. Alcuni miei amici medici della Cattolica giudicano quanto meno
frettoloso il referto mattutino dell'archiatra Buzzonetti (infarto al miocardio). C. mi suggerisce di aprire l'interrogativo in modo
prudente. Ricorda che il card. Tisserant continuò ad affermare fino alla morte che Pio xi era stato avvelenato. L'elemosiniere di papa
Ratti, monsignor Diego Venini consigliò all'entourage di Papa Giovanni, mentre moriva: "State con gli occhi aperti, perché a noi ce
l'hanno fatta!". Tuttavia l'ipotesi di un complotto gli appare difficile da sostenere: "Mancherebbe la motivazione", benché sia noto
che lo stile di Luciani fosse "fastidioso" per i curiali: "Forse aveva cominciato a non stare alle regole del gioco".
Gli appunti che Luciani teneva in mano, morto, erano — secondo Don Germano (Pattaro) — note circa la conversazione di due ore
che il papa aveva avuto con il Segretario di Stato Villot la vigilia (non dunque VImitazione di Cristo né la serie di altre cose, appunti,
omelie, discorsi etc, indicate dalla Radio Vaticana: troppe cose, ed eterogenee per poter essere tenute strette fra due dita). L'ultima
telefonata l'aveva fatta al cardinale Colombo a Milano e riguardava ancora la copertura della sede patriarcale di Venezia: aveva
chiesto a Colombo di intervenire sul vescovo di Rovigo, Giovanni Maria Sartori per vincerne le resistenze e convincerlo ad accettare.
Luciani ha lavorato, dunque, anche quella notte fino a tardi. Particolare increscioso: ha cercato del suo segretario quando si è sentito
male ma non lo ha trovato. Era andato ancora una volta fuori del Vaticano [...]». Fine nota.
sere eluso dai suoi successori senza gravi conseguenze. Giovanni Paolo i ha rappresentato per un settore
notevole della Chiesa romana il compito di avvertire che era maturo il tempo di portare a più compiuta
conclusione il ciclo della forma assolutista e politica della monarchia pontificia, mediante un recupero del
modello petrino dei primi secoli.
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CAPITOLO XV.
Un papa polacco.
Le prime dichiarazioni dei cardinali, dopo la notizia che papa Luciani era stato trovato morto nel suo letto,
esprimevano molto più che un cordoglio di circostanza. Poche volte nella storia della Chiesa la sede del
vescovo di Roma era tornata vacante dopo appena trentatré giorni dall'elezione, e in un periodo altrettanto
critico per la fede cristiana e per l'istituzione ecclesiastica. Indubbiamente la vita della Chiesa non si
arrestava per la fine brutale d'un pontificato che era cominciato sotto il duplice segno del sorriso e
dell'unanimità, e Georges Montaron aveva ragione di ricordare, nella circostanza, che «la Chiesa non è più
una truppa, che sfila allo stesso passo, sotto gli ordini di un capo che, da Roma, regna sull'Universo. Essa è
un popolo in cammino, con volti diversi, che riflette fedelmente le caratteristiche d'un mondo pluralista».
Tuttavia proprio le trasformazioni globali che dal Concilio Vaticano II erano scese nella Chiesa e che dalla
Chiesa avevano cominciato a rifluire sul papato romano, rendevano più grave il carico di incognite e di
esigenze della nuova emergenza elettorale. Era comune la sensazione che un equilibrio splendidamente
riuscito nel conclave fulmineo del 26 agosto era stato intaccato e che il sogno di una gestione bonaria del
compromesso allora raggiunto si fosse dissolto.
A Roma non si faceva che nutrire di nuovi episodi il racconto dell'abbandono che Luciani aveva sofferto in
una Curia sconcertata dal suo stile dimesso e dalle sue prime manifestazioni di indipendenza. Egli si era
rifiutato di sottoscrivere automaticamente alcune proposte dei dirigenti curiali e, il 24 settembre, quattro
giorni prima di morire, aveva nettamente superato i livelli parrocchialistici che gli erano stati attribuiti come
limiti culturali, con una forte presa di posizione teologica circa le sue funzioni di vescovo di Roma: l'omelia
tenuta a San Giovanni al Laterano, per la presa di possesso della cattedra episcopale, attualizzava il modello
pastorale del papato coniato da Gregorio Magno. Ciò aveva risignificato il rifiuto dell'Incoronazione e
fornito sostanza teologica al fatto che per la prima volta, con lui, la cerimonia d'inizio del pontificato aveva
assunto una forma pastora
le, con l'insegna del Pallio in luogo della tiara, considerata simbolo dei poteri del papato temporale e
monarchico. È probabile che i settori conservatori, che avevano contribuito ad eleggerlo, avessero
cominciato a ritenere che l'immagine nuova di ciò che deve essere il papa, che Luciani andava componendo,
non corrispondesse esattamente alle loro vedute. In sostanza, nei limiti di una sofferta sensazione di
inadeguatezza personale, l'inizio pontificale aveva posto dei gesti che lasciavano indovinare la possibilità di
un superamento della piattaforma minimalistica dell'elezione: forse ciò non sarebbe potuto durare, forse
l'uomo sarebbe stato divorato dall'istituzione e la sua immagine sarebbe presto ingiallita. Tuttavia il suo
atteggiamento di pastore bastava a riaprire e ad acuire la contraddizione rispetto al significato del conclave
che lo aveva eletto: un'elezione raggiunta più per linee di riflusso istituzionale che per decisione di
sviluppare la riforma del Vaticano n, a prezzo di un accantonamento della scelta fondamentale: o una
ricezione più ampia e approfondita del Concilio, visto come tavola per la riforma, e non solo per un
«aggiornamento» della Chiesa, o il tacito rigetto
di esso.
Questa scelta ora si imponeva. La morte del papa aveva sconvolto mediazioni e attendismi. «È un momento
che ci limita e ci condiziona», disse l'arcivescovo di Firenze, cardinale Giovanni Benelli, che del conclave di
agosto era stato tra i principali artefici.
«Le vie del Signore stanno sconcertando la nostra prospettiva umana», dichiarò l'arcivescovo di Parigi,
cardinale Francois Marty. Il cardinale Bernardin Gantin, primo vescovo africano alla presidenza di un
organismo curiale, la Pontificia Commissione «Justitia et Pax», non esitò a riconoscere: «I cardinali sono
sconvolti e cercano il da farsi nel buio».
Cominciava una nuova fase elettorale, che molti dei cardinali arrivando a Roma riconoscevano più difficile
dell'altra, benché i problemi trattati allora fossero gli stessi e gli elettori sì conoscessero meglio. Non c'erano
però i tempi per una preparazione remota, come quella realizzatasi negli ultimi anni di papa Paolo vi, e si
doveva ammettere che l'accordo di agosto era tanto più precario e irripetibile quanto più era stato esaltato
come «miracoloso», anzi dovuto per intero allo Spirito Santo.
Tutti lodavano Luciani sinceramente, affermando che il modello papale che egli aveva incarnato avrebbe
dovuto determinare anche la scelta del successore. Tuttavia delle correnti revisioniste emergevano, da
opposti settori cardinalizi, in nome del realismo: il leader dei conservatori, cardinale Giuseppe Siri, faceva
sapere che «non è solo con un sorriso che si governa e neppure con le attestazioni di umiltà e semplicità» e
che egli riteneva che Luciani si sentisse «sovrastato da
troppe, e troppo gravi, responsabilità». In altro versante, il cardina
le Franz Kònig, di Vienna, metteva in evidenza che la morte di Luciani implicava «la necessità di ridurre
ancor più di quanto fatto finora il peso che la carica comporta, delegando ad altri alcune funzioni pontificali,
in modo da non superare i limiti di fatica tollerabili da parte di un essere umano». Un'ipotesi che suonava
dura ai difensori della «totalità» del potere pontificio e dell'intangibilità monocratica del Primato del Romano
Pontefice.
Era chiaro che si tendeva da alcuni a rimarcare, sia pure in modo velato, il relativo fallimento del papato di
Luciani, per la sua inesperienza politica e curiale, in modo da reintrodurre più facilmente nella rosa delle
possibilità anche candidature di amministratori e di uomini di Curia. Si cercava insomma di mettere in crisi il
partito del «pastore puro» e dunque di ridimensionare l'utopia accarezzata dai novatori per un papato sotto
forma evangelica, gestito da cristiani ordinari. Molti cardinali novatori si sforzavano di difendere il valore
dell'apparizione di Luciani in Vaticano, specie per il consenso popolare che egli aveva ricevuto, e si
preoccupavano di indicare che questo fulmineo papato non poteva essere condannato all'inesistenza o messo
tra parentesi, poiché aveva contribuito a suo modo ad accelerare la fine del «papare».
Tuttavia anche i cardinali novatori dell'America Latina, dell'Asia e dell'Europa, dovevano ammettere che non
bastava trovare un gemello di Luciani, se pure esisteva, e che il nuovo «papabile» doveva avere qualcosa in
più: esperienza politica, capacità amministrativa, doti di governo, salute di ferro.
L'elettrocardiogramma sicuro entrava tra i fattori determinanti della scelta, perché nulla era ormai più
temuto, si può dire da tutti, quanto un'altra emergenza elettorale, a breve o medio termine, nella Chiesa.
Analogamente, cadeva anche la pregiudiziale dell'anzianità collegata al postulato di un papato breve, e si
ampliava la rosa delle candidature per comprendere in essa fasce di età relativamente giovanili: più intorno ai
sessantanni che ai settanta.
La maggior parte degli elettori manifestava un certo orientamento a pescare il papa tra i «pastori»
residenziali, confermando la preminenza della pastoralità affermata per il conclave di agosto: tuttavia anche
questo dato era rimesso in discussione da alcuni: «Tutti i cardinali sono un po' pastori, anche quelli che sono
stati chiamati a un lavoro burocratico in curia», dichiarava Gantin. «Anch'io sono ormai un curiale, ma sono
anche un pastore.»
Gli faceva eco il cardinale di Curia Silvio Oddi: «il papa è certamente un pastore. Ma questa pastoralità va
intesa in un senso molto largo, molto elevato. Nessuno pensa debba andare nelle varie chiese a fare
catechismo, che debba in qualche modo sostituirsi all'azione dei vescovi e dei parroci. Allora sì che sarebbe
schiacciato dal peso di un lavoro immane... Voler escludere dal papato o dalla possibilità di essere papa un
cardinale, un ecclesiastico che non abbia esercitato di
rettamente e per un tempo piuttosto lungo la pastorale in una parrocchia, in una diocesi, ecco, questo lo
ritengo assurdo».
Confermato anche l'orientamento dei più, per una candidatura italiana. E tuttavia non più con l'assolutezza di
prima: ci si cominciava a chiedere quale ragione teologica o consiglio spirituale potesse motivare tale
stereotipo storico. L'ipotesi di un papa non italiano era infatti più esplicitamente trattata. Il cardinale Jubany
Arnau, di Barcellona, la aveva manifestata apertamente all'arrivo a Roma, il brasiliano Evaristo Arns aveva
indicato che egli optava tranquillamente per un candidato del Terzo Mondo mentre il cecoslovacco Frantisek
Tornasele, arcivescovo di Praga, aveva detto: «anche se la nazionalità non ha valore preminente, penso che
sia giunto il momento per un papa non italiano. Sarebbe opportuno un uomo che viene dall'America Latina
per la sua maggioranza cattolica».
Questi ragionamenti potevano essere il frutto di una constatazione: per gli uni e per gli altri, infatti,
l'esperienza di Luciani aveva mostrato che nemmeno un pastore italiano, vescovo di una sede aperta ai
processi culturali mondiali e a correnti di pensiero religioso, quale Venezia, aveva potuto sentirsi all'altezza
dei compiti spettanti a un papa in versione universalista. Il fatto di essere in Italia, a ridosso della Sede
apostolica, appariva non assolutamente abilitante, per ciò solo, a questo paradigma forte di papato. Tanto
bastava forse a convincere alcuni — non ancora sufficientemente liberi dallo stereotipo del papato potente —
che la vicinanza geografica era ormai un criterio relativo per la selezione.
Nessuno tuttavia sembrava disposto a concedere — almeno in pubblico — la minima possibilità ad una
candidatura straniera. Nel precedente conclave, essa era stata esplorata col nome di Karol Wojtyla,
arcivescovo di Cracovia, il quale tuttavia non aveva ricevuto — si confidava — più di una cinquina di voti.
Queste prime fasi elettorali indicavano invece che, malgrado l'esperienza fatta nel conclave di agosto, i
cardinali non italiani erano giunti senza una candidatura precisa e che sembravano ancora dipendenti dalle
iniziative del gruppo curiale.
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La vigorosa iniziativa del gruppo «conservatore»
Erano infatti i settori conservatori a manifestare la decisione maggiore nella condotta del preconclave. Essi
miravano a congelare il compromesso raggiunto in agosto, ma spostandolo a destra, mediante la candidatura
di un uomo del loro schieramento. Per evitare la rimessa in discussione dell'accordo precedente, essi
ottennero subito che la data del conclave fosse anticipata al massimo: infatti già il
30 settembre la prima congregazione generale dei cardinali (29 presenti di cui 26 di Curia) decideva di
fissare al 14 ottobre la data del conclave, nel primo giorno consentito dall'intervallo fissato per legge.
In tutte le omelie funebri per Luciani, i cardinali e prelati di Curia esaltavano la sua bontà e il sorriso,
trascurando diligentemente la parte del programma favorevole alle riforme e il significato ecclesiologico di
alcuni suoi gesti e prese di posizione. Il sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Giuseppe Caprio, si
ricordò soltanto dei moniti fatti da Luciani alla disciplina del clero e all'obbedienza. Il cardinale Pericle
Felici esaltò il suo «sorriso di amore sofferto» e il cardinale decano, Carlo Confalonieri, ai solenni funerali
del papa il 4 ottobre sul sagrato di San Pietro, ignorò completamente, ricordando il discorso programmatico,
l'impegno assunto da Giovanni Paolo i di sviluppare la collegialità e il Sinodo episcopale, citando solo la
parte riguardante la disciplina ecclesiastica e l'integrità della fede. Il decano non si ricordò nemmeno che il
santo del giorno era Francesco d'Assisi e che ciò avrebbe potuto aiutarlo a valorizzare l'importanza dello
«stile povero» portato da Luciani nell'esercizio del papato.
«A seguire la logica, si dovrebbe ritenere che sarà proprio un conclave breve, se non anche brevissimo»,
assicurava Confalonieri in un'intervista. Poiché il decano era uno degli uominichiave, che mediava tra gruppi
curiali e cardinali esteri e che era al corrente delle cose come presidente delle congregazioni generali, se ne
arguiva che un accordo fosse già realizzato in una buona parte del collegio elettorale.
In effetti fonti ben introdotte negli ambienti del preconclave facevano sapere, il 9 ottobre, che un accordo era
maturato tra importanti settori di cardinali per fare papa il cardinale Giuseppe Siri. La candidatura
dell'arcivescovo di Genova, alfiere della controriforma al Concilio Vaticano n, era sostenuta — secondo le
stesse fonti — da settori della Curia romana, da cardinali italiani e mitteleuropei, in particolare tedeschi, e
poteva contare su una cinquantina di voti, per le prime espressioni del conclave.
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L'ascesa della candidatura di Siri.
Dall'inizio alla fine, la scena elettorale pubblica del secondo conclave dell'anno fu dominata dall'inquietante
candidatura di Siri, che aveva ricevuto almeno 25 voti nel primo scrutinio del 26 agosto, voti poi in parte —
e lui nolente — passati a Luciani. L'arcivescovo di Genova era senza dubbio consapevole che le sue
possibilità erano questa volta maggiori. Il primo ottobre, in un'intervista al Lavoro di Genova, egli aveva
fornito di sé un'immagine rassicurante ed evolutiva: «Non sono né conservatore né progressista e ho spesso
osservato che
queste definizioni sono superficiali: nella vita i migliori progressisti sono i peggiori conservatori e i migliori
conservatori sono i peggiori progressisti. Se dovessi qualificarmi, vorrei essere considerato un indipendente,
un uomo che marcia da solo e non fa parte di gruppi. Cerco di osservare, e di fare osservare, la legge di
Cristo». Inoltre, egli aveva abbozzato un programma altrettanto polivalente, indicando, come problema
maggiore per il nuovo papa, di fronte al governo della Chiesa, quello di «difendere la purezza della dottrina
di Cristo, difendere la legge cristiana di vita; e la disciplina interna della Chiesa, che è molto mal combinata.
Ma il problema più grande è di aggiornare la Chiesa di fronte ai cambiamenti immani del mondo di oggi...
La Chiesa, fedele a Cristo, deve sapersi adattare, senza toccare le cose intoccabili, ma cambiando quel che è
giusto aggiornare, negli spazi che gli sono consentiti... La Chiesa non può essere immobile». Arrivato a
Roma, Siri aveva esaltato Luciani, nel novendiale del 5 ottobre, per il suo «richiamo non casuale, ma
organico e coerente, alla dottrina di Dio e alla spiritualità» e per aver ripreso «il necessario discorso della
fermezza sulla dottrina cattolica, sulla disciplina ecclesiastica, sulla spiritualità». Circolavano voci di un suo
accordo con il gruppo più forte della Curia, che si riconosceva nel cardinale Felici, e di un suo tentativo di
sondaggio con il gruppo che si riconosceva nel cardinale Benelli, di Firenze.
La questione della «restaurazione dottrinale e disciplinare» era discussa con particolare fervore nelle
congregazioni generali di quei giorni. In particolare si poneva il problema di un riesame della dissidenza di
monsignor Lefebvre, le cui attività — ritenevano alcuni cardinali di Curia e lo stesso Siri — avrebbero
potuto essere recuperate con un loro spazio legittimo nella Chiesa cattolica, per evitare un allargamento
incontrollato dello scisma.
Agli inizi dell'ultima settimana del preconclave, la candidatura di Siri appariva in ogni caso talmente forte da
suggerire seri allarmi negli ambienti «conciliari». Si affermava che, a suo favore, si erano schierati anche
potenti cardinali tedeschi, il che gli avrebbe assegnato una forza imbattibile. Si riconosceva infatti che il
gruppo tedesco era il più influente su molti orientamenti della Curia romana, delle missioni e della Chiesa.
Mentre la Santa Sede era in gravi difficoltà finanziarie, l'episcopato tedesco godeva di una situazione
prospera, giovandosi per di più della moneta più forte del mondo. Il cardinale Hòffner, arcivescovo di
Colonia, aveva dichiarato con orgoglio, ai primi di ottobre, di avere per la sola sua diocesi un bilancio più
forte di quello dell'intero Vaticano. Si poteva osservare che sui giornali italiani il tema della crisi finanziaria
della Santa Sede era all'ordine del giorno, nelle cronache dei loro informatori vaticani: «al nuovo
papa si richiede di essere un buon finanziere», intitolava II Resto del Carlino, e ciò non poteva non riflettere
una corrente di opinioni presente nella Curia e destinata ad allarmare gli elettori del Terzo Mondo. Si poteva
ricordare inoltre che dall'episcopato tedesco arrivava un sostegno vitale non solo alle esauste casse vaticane,
ma anche alle Chiese povere dell'America Latina, e che ciò implicava spesso un'influenza di natura non
esclusivamente spirituale sulla gerarchia cattolica di quel continente, che era rappresentato nel collegio
elettorale da 19 cardinali. Inoltre tale influenza era collegabile ad alcune esigenze emergenti nel
cattolicesimo tedescooccidentale, per una unità europea costruita sull'ideologia di una «Europa cristiana»
(alla vigilia delle elezioni europee a suffragio universale previste per il 1979) e contro ogni ipotesi di dialogo
o di confronto con il marxismo e l'eurocomunismo.
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La singolare presa di posizione politica dell'arcivescovo di Monaco.
Le preoccupazioni si aggravavano per l'esplicita introduzione di criteri politici nella discussione sulla scelta
del nuovo papa. Questa immissione era operata inopinatamente da un teologo, il cardinale Joseph Ratzinger,
arcivescovo di Monaco di Baviera. In un'intervista pubblicata dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung dell'8
ottobre egli affermava con certezza che il nuovo conclave si sarebbe trovato sottoposto alla «pressione delle
forze di sinistra», le quali avrebbero voluto un papa favorevole al cosiddetto «compromesso storico».
Per dimostrare la validità della sua tesi, Ratzinger ricordava alcune posizioni di Giovanni Paolo i le quali, a
suo avviso, erano state assunte proprio per cominciare a contrastare la tendenza al «compromesso storico».
Si riferiva in particolare alla critica compiuta da papa Luciani alla «teologia della liberazione» (quando definì
non approvabile l'aforisma: «ubi Lenin, ibi Jerusalem») e concludeva che era preferibile un papa «pastore» a
un papa con qualità politiche e sociali.
La presa di posizione di Ratzinger, benché forse occasionata dalla vigilia delle elezioni in Assia, era ben
collegabile, oggettivamente, all'ipotesi allarmista che circolava in ambienti romani in quel medesimo
periodo: si indicava infatti la necessità di una guida forte della Chiesa, perché resa necessaria non solo da
urgenze interne, ma anche da emergenze politiche internazionali, così gravi da far prevedere una fase acuta
della crisi della distensione con la conseguente pressione dell'uRss sull'Europa occidentale.
In quel tempo, il settimanale vaticano Osservatore della Domenica indicava la possibilità di una terza guerra
mondiale durante il prossimo pontificato. Lo stesso giorno, 12 ottobre, su L'Osservatore Romano appariva un
articolo del cardinale Siri in elogio di Pio XII, nel
xx anniversario della morte: «gli errori più fondamentali furono colpiti con perfetta chiarezza teologica. Egli
sapeva che il primo attacco lo si fa sulla linea intellettuale e che la prima difesa va stabilita allo
stesso punto».
Mentre il terrorismo politico delle Brigate Rosse faceva nuove vittime nella stessa Roma e i quartieri
«cristiani» di Beirut venivano bombardati, tutto sembrava convergere verso un blocco difensivo e un
conclave garantista, nel quale la pregiudiziale politica concorreva di fatto alla pressione psicologica per una
soluzione arretrata.
Da un conclave di compromesso a un conclave di scelta I più dovevano riconoscere che l'accordo
elettorale di agosto doveva ritenersi largamente superato dalla radicalizzazione delle posizioni ormai
intervenuta. L'unanimità del 26 agosto era difficilmente immaginabile e a un conclave «di compromesso» si
sostituiva la previsione di un conclave «di scelta».
La questione dei «soggetti» da candidare era strettamente collegata alla questione del programma. Era chiaro
che la vera posta in gioco era il futuro della riforma conciliare.
Nelle riunioni frequenti dei gruppi i temi più dibattuti erano la conciliarità della Chiesa, i mezzi per una
Chiesa sempre più spirituale, l'unità e la pluralità, l'articolazione tra Istituzione e Carisma, tra società
strutturata e comunione, se far prevalere la diversità o l'uniformità, in una realtà ormai così complessa,
multinazionale e multilaterale come la Chiesa cattolica. E quanto al suo servizio all'umanità, anche la
previsione di un ritorno alla guerra fredda era utilizzata da alcuni per incoraggiare, più che arroccamenti, la
soggezione della Chiesa ai bisogni della pace mondiale e del dialogo tra gli uomini, oltre i blocchi ideologici,
la preoccupazione di non collocare la Chiesa
da una parte sola.
Si aveva ragione dunque di prevedere che lo scenario dell'elezione papale, dopo il Concilio Vaticano n,
sarebbe stato profondamente influenzato dalle tematiche e, più precisamente, dalle sintesi non ancora
maturate e raggiunte del Concilio nonché dalle esperienze vaste e complesse del postConcilio nella realtà
multiforme della Chiesa.
La questione papale era più radicalmente divenuta una variabile della questione ecclesiale, e probabilmente
le prese di posizione e il fatto stesso della candidatura di Siri concorrevano a maturare questa consapevolezza
in larghi strati del collegio elettorale.
Restava l'incognita, se e in che misurale dinamiche presenti nella situazione ecclesiale complessiva potessero
riprodursi e riflettersi nel collegio cardinalizio munito di diritto di voto: per la prima volta nella storia i
cardinali non europei (56) superavano gli europei (55), dato che, rispetto al conclave di agosto, all'europeo in
meno (Luciani) corrispondeva lo statunitense Wright, allora assente per malattia.
Dei non europei, 19 erano latinoamericani, 13 nordamericani, 12 africani, 9 asiatici e 4 dell'Oceania. 1
cardinali elettori italiani erano 26, dei quali nove capi o ex capi di diocesi, gli altri di Curia. Dei 111 elettori,
cento erano «creature» di papa Montini, tre di Pio XII, otto di Giovanni xxm.
Mercoledì sera 11 ottobre, una quindicina di grandi elettori parteciparono ad una riunione, convocata al
Seminario francese per rispondere all'alleanza formatasi intorno a Siri. Erano presenti i francesi Paul Gouyon
e Francois Marty, gli africani Bernardin Gantin e Hyacinthe Thiandoum, i canadesi Georges Flahiff e
Maurice Roy, i brasiliani Paulo Arns e Aloysio Lorscheider, l'inglese Basii Hume, il coreano Stefano Kim, il
belga Leo Suenens e due italiani: Salvatore Pappalardo e Giovanni Colombo. Essi cercarono di verificare la
possibilità di candidature «conciliari».
Erano al corrente, come gran parte degli elettori, di ciò che Siri rappresentava. Un dossier preparato in circoli
cristiani italiani era stato inviato d'urgenza ai cardinali, con la documentazione dei pronunciamenti del
cardinale genovese contro la riforma liturgica, la libertà religiosa e la collegialità episcopale durante l'ultimo
Concilio. Se i più potevano escludere realisticamente che egli potesse raggiungere i due terzi più uno
necessari per l'elezione restava il dubbio se la consistenza dei suoi voti fosse tale da raggiungere il terzo
bastante a bloccare qualsiasi altra candidatura.
Il preconclave, che era stato più fitto di incontri informali, a due o di gruppo, del precedente, aveva
conosciuto, in una prima fase, le candidature di Colombo e di Ursi; in una fase successiva, concomitante con
il rafforzamento dell'ipotesi Siri, la candidatura del vicario di Roma, cardinale Ugo Poletti, la cui figura
assieme a quella dell'arcivescovo di Milano Colombo, notoriamente lineare al pontificato di Montini, poteva
prestarsi ad un'ipotesi di compromesso.
Tuttavia il nome sul quale sembravano concentrarsi gli orientamenti di molti elettori latinoamericani, africani
e centroeuropei era quello del cardinale Benelli: la necessità di non disperdere i voti, di entrare in conclave
con una forte candidatura almeno per la fase iniziale sembrava favorire la convergenza sull'arcivescovo di
Firenze.
Egli presentava molti degli aspetti che venivano cercati, specie per l'associazione tra pastoralità e capacità di
conoscenza e di governo della Curia romana, che aveva dimostrato per dieci anni come sostituto di Paolo vi.
Alla vigilia del conclave di agosto aveva fornito assicurazioni sullo sviluppo delle riforme conciliari e ciò
aveva consentito di rendere praticabile l'elezione di Luciani. Potevano nuocere alla sua candidatura altri
aspetti: il suo interventismo in fasi cruciali della storia politicoreligiosa in Italia, la difficoltà di rapporti con
la Curia romana, ancora impressionata dalla straordinaria decisione con la quale egli l'aveva trattata.
All'inizio della nuova fase elettorale, Benelli aveva dichiarato a Li
sieux, dove aveva guidato un pellegrinaggio della diocesi di Firenze, che «è necessario attuare fino all'ultimo
le riforme del Concilio, non solo nel campo liturgico, ma anche in quello dei rapporti della Chiesa cattolica
con il mondo. Questa continuità è indispensabile», aveva aggiunto, «perché è il Concilio Vaticano n che
prepara la Chiesa ad affrontare i problemi del Terzo Millennio». In un rapido passaggio a Roma aveva avuto
incontri con vescovi francesi, latinoamericani e africani, tra i quali Gantin. Aveva partecipato poi al
novendiale riservato alla Curia e presieduto da Caprio, suo successore alla Segreteria di Stato.
Non poteva passare inosservata l'assenza, alla riunione del Seminario francese, di uno dei leader dei settori
novatori, il cardinale dì Vienna, Franz Kònig. Infatti, egli sembrava mantenere una posizione indipendente,
che solo gli avvenimenti successivi avrebbero permesso di valutare in tutta la sua portata. Secondo una
testimonianza data dal giornalista polacco Jerzy Turowicz, di Cracovia, direttore del settimanale cattolico
Tygodnik Powszechny e amico personale dell'arcivescovo Karol Wojtyla, Kònig era «tra i cardinali che
pensavano di fare papa Wojtyla».
Il nome del cardinale polacco era incluso in una lista di venti papabili, in uno degli ultimi posti. Benché
nessuno, nemmeno Turowicz, fosse in grado di attribuirgli più che delle possibilità teoriche, pure risultava
che egli sarebbe potuto emergere nel caso di un conclave lungo, caratterizzato dalla difficoltà di convergenza
su un candidato italiano. Turowicz poteva indicare di avere trovato i cardinali francesi molto favorevoli alla
candidatura di Wojtyla.
Indicazioni analoghe provenivano da un sondaggio condotto tra cardinali asiatici, africani e brasiliani. Come
assicurava una fonte romana, 1' 11 ottobre, dopo una visita ai cardinali Cordeiro, Parecattil, Vilela, Arns e
Thiandoum, «Benelli è il candidato più quotato, sia nel Terzo Mondo sia nell'Est europeo, escluso Tornasele.
Se lo fanno subito, è Benelli il Papa. Altrimenti, Poletti o Pappalardo. Ma se nessuno degli italiani riuscisse,
allora si andrebbe al candidato straniero: per esempio a Wojtyla (a Hume osta il fatto che non sa l'italiano)».
A Barcellona il settimanale Bianco y Negro pubblicava un' analisi di un vaticanista bene introdotto, don José
Luis Martin Descalzo, che assegnava la maggioranza relativa ai montiniani di destra, ma ben 28 voti ai
conservatori, tra i quali era associato il cardinale cracoviense. Ai montiniani di sinistra — quelli di
Willebrands — accreditava 27 voti i quali, sommati ai 14 dei riformisti, sarebbero restati ben lontani dai 70
75 voti necessari per l'elezione. «In agosto c'erano due papabili di cui la stampa non parlò mai», era il
pronostico del cardinale Antonio Samoré riferito alla fine dell'articolo. «Essi erano Luciani e
Wojtyla. Luciani è morto. Allora...»
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Le ragioni profonde sottese all'ipotesi Wojtyla.
Riguardando alcuni miei appunti, posso però riconoscere che la candidatura di Wojtyla non dipendeva se non
in modo del tutto contingente dalle circostanze immediate del conclave. Al contrario, essa trovava già il suo
fondamento in precisi postulati storicoteologici, propri in particolare della visione del cardinale Kònig, che la
sosteneva.
Il cardinale austriaco, in una conversazione concessami il 3 febbraio 1976 a Roma, aveva manifestato la sua
convinzione «assoluta» che «nei nostri Paesi di questa parte del mondo ciò che si usa chiamare civiltà è
ormai al tramonto». Facendo con la mano il gesto di un aereo che precipita, aveva aggiunto: «Stiamo
andando giù e il futuro non è più da questa parte».
Allora, da quale parte? La risposta di Kònig era stata: «Sono convinto che il rinnovamento dei valori, e della
stessa religione cristiana, verrà dall'Europa, dalla stessa Russia, da quella parte del mondo attualmente a
regime socialista, e nella quale l'ateismo di Stato non è riuscito a fare breccia e i giovani si risvegliano alla
Trascendenza. D'altra parte, nei nostri Paesi di antica cristianità, sta forse emergendo il valore della fede
personale in luogo del cristianesimo sociologico; si cercano le fonti. È come una richiesta di rifondazione
della Chiesa. In ogni caso, ci si deve rivolgere ormai a gente che ha più familiarità con l'ateismo che con la
religione».
L'ipotesi globale del presidente del Segretariato vaticano per i Non Credenti includeva specificamente
l'analisi della crisi delle strutture ideologiche nella società a «socialismo realizzato», come egli aveva potuto
accertare in un viaggio recente in Polonia. Che tale piattaforma fosse stata adottata dai vertici stessi della
Chiesa cattolica era apparso il 14 gennaio 1978, nel discorso rivolto da Paolo vi al Corpo diplomatico
accreditato presso la Santa Sede: nel formulare la domanda di libertà religiosa agli Stati che si proclamano
atei, papa Montini aveva detto: «nelle vicissitudini dei popoli, anche dopo i più radicali sconvolgimenti, non
c'è forse una maturazione naturale degli eventi, una distensione degli spiriti, un cammino delle generazioni
che affrontano una nuova tappa, più aperta e più umana, nella quale si consuma e si dissolve ciò che oppone
e divide, mentre rinasce ciò che accoglie, affratella e riunifica?».
Questi dati, fra gli altri, potevano essere riordinati e riconosciuti come i punti di partenza fondamentali per
un'ipotesi di papato che fosse pienamente collegata a ciò che si riconosceva come urgenza storica per il
futuro immediato del cristianesimo.
Già prima del conclave di agosto, il problema era stato discusso in una riunione congiunta di cardinali
tedeschi e nordamericani ed era stato precisato nel problema del papa non italiano, anche per evitare al papato il rischio di compromessi con una situazione politicoreligiosa italiana che appariva degenerata e
comunque in grave emergenza, dopo l'affare Moro.
Alla ricerca dell'uomo ideale, essi avevano stabilito tre condizioni: una personalità tale da permettere ai suoi
sostenitori di appoggiarne la candidatura; capacità di parlare molte lingue, tra cui l'italiano correntemente,
dato che si trattava del vescovo di Roma; esperienza personale dei rapporti con i marxisti, e non solo in
ragione della influenza crescente del Partito comunista italiano.
Due cardinali erano apparsi fin da allora corrispondere a queste clausole: l'arcivescovo di Berlino Alfred
Bengsch, e Karol Wojtyla. Troppe ragioni sconsigliavano la candidatura tedesca. Così era potuto emergere
fin da allora il nome dell'arcivescovo di Cracovia. I pochi voti che egli aveva ricevuto nei primi scrutini del
26 agosto avevano assunto il valore di un sondaggio, ma anche della ammissibilità almeno teorica di
un'ipotesi del genere.
Questa ipotesi era ora ripresa dal cardinale Kònig in vista del secondo conclave dell'anno. La sua iniziativa
comportava la messa in crisi della compattezza del gruppo tedesco, nel quale militavano uomini, come
Ratzinger, che avevano combattuto le posizioni di Siri durante il Concilio e che difficilmente avrebbero
potuto votarlo. Essi avevano accolto Wojtyla durante le riunioni della Conferenza episcopale di Fulda, alla
fine di settembre, ospite d'onore dell'episcopato tedescooccidentale, insieme al cardinale primate polacco
Wyszynski, al suo primo viaggio in Germania Ovest dalla fine della guerra.
L'altro fautore della candidatura di Wojtyla era l'arcivescovo di Philadelphia, cardinale John Joseph Krol, di
origine polacca e di fama conservatrice, del quale l'arcivescovo di Cracovia era stato ospite per parecchie
settimane nel '76 per il congresso eucaristico di Philadelphia, prima di viaggiare per le numerose e fervide
comunità cattoliche polacche sparse negli Stati Uniti, specie a Chicago (dopo Varsavia, prima città polacca
del mondo, con un milione di Polacchi), puntualmente ospitato da ciascuno dei cardinali americani. I quali, a
differenza dell'altra vigilia elettorale, apparivano in questa straordinariamente distaccati dalla mischia:
evitavano dichiarazioni e interviste, trascuravano gli inviti a consultazioni allargate, si defilavano in una
posizione autonoma, come del resto faceva Kònig.
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La crisi della candidatura Siri.
Gli ultimi giorni del preconclave furono polemici, aspri. L'unico dato sicuro era la mancanza di un accordo
preliminare. Ciò faceva prevedere una soluzione incerta, forse sorprendente, e un conclave più lungo di
quanto fosse stato immaginato. Le tensioni fra gli Italiani, nonché diminuire si erano aggravate: ciò lavorava
segretamente per l'alternativa.
La candidatura di Siri mostrava segni di crisi. L'Osservatore Romano, uscito la sera di venerdì 13 ottobre,
prendeva posizione a favore di un papa che si impegnasse a sviluppare la collegialità episcopale
nel governo, la partecipazione dei laici e l'ecumenismo. Era il giornale ufficiale della Santa Sede che
scendeva in campo, uscendo dalle sue abitudini neutrali, in una fase delicatissima.
Le tesi coincidevano con quelle che, nelle ultime ore di vigilia dell'altro conclave, aveva tenuto ad affermare
il cardinale Benelli, come garanzia preliminare ai «novatori», in una intervista alla Gazzetta del Popolo. La
funzione dell'intervento del giornale vaticano era forse la medesima, il valore più elevato, data la sede.
L'articolo in prima pagina, a firma del gesuita della Gregoriana Juan Alfaro, significava che i vertici della
Curia gestiti in sede vacante dal cardinale camerlengo Jean Villot, avevano valutato la pericolosità della
situazione e cercavano all'ultimo momento di isolare le spinte controriformìstiche. La frase principale era la
seguente: «la posizione presa dal Vaticano n intorno alla collegialità e corresponsabilità dell'episcopato col
papa, la cui attuazione è stata iniziata da Paolo vi (conferenze episcopali, sinodi dell'episcopato) domanda un
impulso ulteriore verso strutture concrete più efficienti, in modo che il mutuo interscambio fra il centro della
Chiesa e quella presente in tutto il mondo (con la diversità delle loro situazioni e culture) venga intensificato
e reso così più fecondo. Non la paura paralizzante ma il dinamismo della speranza cristiana potrà creare
nuovi rapporti di comunione e di vita».
Sabato 14 ottobre, a poche ore dall'inizio del conclave, i cardinali di ritorno dalla messa «dello Spirito
Santo» in San Pietro potevano leggere sulla Gazzetta del Popolo — recapitata ai loro indirizzi romani —,
un'intervista del cardinale Siri. Era un esplicito attacco alle riforme del Concilio e in particolare alla
collegialità episcopale, con una svalutazione degli impegni programmatici assunti in tal senso da papa
Luciani nel primo discorso: «quel discorso glielo hanno fatto gli altri al papa. Lui lo ha soltanto letto... Non
vi era nulla di speciale e di specifico».
Ancora: «Non so neppure cosa voglia dire lo sviluppo della collegialità episcopale... Il Smodo non potrà mai
diventare istituto deliberativo nella Chiesa perché non è contemplato nella costituzione divina della Chiesa».
Inoltre: «Dire soltanto la parola pastore è decapitare la figura del papa. Non umiliarla, ma decapitarla. Deve
essere un pastore, d'accordo, ma deve essere uno che governa la Chiesa. Se non governa la Chiesa, cosa sta a
fare lì, a pascolare le pecorelle?».
L'immagine «continuistica» e indipendente che il cardinale Siri si era costruita subiva un colpo
probabilmente nefasto. Egli aveva chiesto al giornalista che l'intervista fosse pubblicata quando gli elettori,
ormai segregati in conclave, non avrebbero potuto leggerla. Lo
riferì lo stesso giornale, mettendo a disposizione del cardinale la bobina con l'intervista, per rispondere ad
una sua smentita. Fonti ben informate attribuirono al cardinale Benelli l'idea di far anticipare la
pubblicazione dell'intervista, che il giornalista suo amico gli aveva fatto ascoltare subito dopo averla
raccolta. Gli elettori furono accompagnati dal rumore dell'intervista nell'ora dell'ingresso nella Sistina;
l'arcivescovo di Vienna confermerà che l'intervista «circolò all'interno del conclave».
Questi episodi indicavano allo stesso tempo la povertà dei mezzi usati nello scontro, la difficoltà di una
composizione in conclave per l'irriducibilità delle posizioni e infine l'altezza della posta in gioco, costituita
esplicitamente dalla ricezione o dal rigetto della riforma conciliare nel programma pontificale.
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Le discutibili ricostruzioni giornalistiche dell'andamento degli scrutini.
Le votazioni in conclave cominciarono la mattina di domenica 15 ottobre e si conclusero la sera del 16
ottobre. Gli scrutini furono otto, quindi sfociati nella zona statutaria ove è prevista l'elezione a maggioranza
semplice. Le ricostruzioni delle fasi del conclave, pubblicate da numerosi organi di stampa nel mondo, hanno
rivelato una difficoltà maggiore di quelle sul conclave del 26 agosto.
Infatti non hanno potuto basarsi su dichiarazioni, per quanto frammentarie, degli elettori, i quali hanno
mantenuto il segreto tanto più rigorosamente quanto più lo avevano forzato uscendo dall'altro conclave. In
difetto di dichiarazioni pubbliche, sono state utilizzate indiscrezioni estremamente generiche. Esse sono alla
base dei racconti pubblicati da Newsweek (30 ottobre), da Time (30 ottobre), da Le Point (23 ottobre) e da
L'Express (2128 ottobre). Lo schema che essi hanno suggerito è unico, con poche varianti non sostanziali. Le
notizie in nostro possesso se ne discostano tuttavia su punti di qualche importanza. Possiamo procedere
anzitutto con la sintesi dello schema già noto delle riviste anglofrancesi, per proporre poi la nostra versione.
Secondo le ricostruzioni della stampa internazionale, il conclave si sarebbe aperto con il duello tra Siri e
Benelli. Il cardinale di Genova avrebbe ricevuto, al primo scrutinio, 25 voti, quello di Firenze 35
(Newsweek). Le Point ha assegnato 30 voti a Siri e circa altrettanti a Benelli. Tutti hanno indicato che, alle
spalle dei due antagonisti, v'era una grande dispersione di voti tra altri candidati italiani e che alcuni voti
erano andati a Wojtyla (forse, cinque). L'Express ha indicato in questa prima fase l'affiorare della
candidatura del cardinale Felici. «Nel primo giorno», ha detto il cardinale Marty, «abbiamo cercato di sapere
se andavamo in Italia o no.»
Per il secondo scrutinio, le versioni divergono: per Newsweek, Benelli avrebbe ricevuto «tra due e quindici
voti meno dei 75 necessari per l'elezione», mentre per Time, sarebbe stato Siri a raggiungere 46 voti, seguito
da Benelli, con alcuni blocchi di voti minori per Colombo, Pignedoli e Ursi. Si sarebbe determinata allora
una reazione degli Italiani più vicini alle posizioni della Curia non favorevoli all'ex sostituto di Paolo vi.
Al terzo scrutinio, Benelli avrebbe ricevuto 36 voti, Siri sarebbe diminuito e si sarebbe affacciato sulla scena
elettorale con 30 voti il cardinale Poletti (secondo Time). Per Le Point, sarebbe stato Benelli a far votare
Poletti. Sul quarto scrutinio, l'ultimo della prima giornata elettorale, Le Point ha indicato «Felici ben
piazzato» e Newsweek la discesa di Benelli, 30 voti per Siri e l'insistenza di cinque voti per Wojtyla.
Lo scenario informativo appare contraddittorio, anche all'interno di ogni singola versione. Lo schema che se
ne potrebbe ricavare, sommariamente, è di una polarizzazione del conclave tra Siri e Benelli, con timide
esplorazioni di altre candidature, soprattutto italiane, e con un tentativo di far emergere quelle di Poletti e di
Felici. Si tende insomma ad attribuire alla forza elettorale di Siri la capacità di bloccare qualsiasi altra
candidatura, mediante la manovra sul terzo dei consensi. Dall'altro lato si suggerisce l'idea che il gruppo
conservatore tentasse di trasferire i propri voti da lui a Felici e a Poletti.
Gran parte delle versioni hanno indicato, per la sera di domenica, che diversi cardinali avevano sostenuto
come la lotta interna tra gli Italiani imponesse una scelta di compromesso al di fuori dei ranghi italiani e che
si cominciò a parlare di non italiani come «per combustione spontanea». Il germe della candidatura di
Wojtyla «nacque durante la notte», «una parola qui, un'altra là», e sostanzialmente per arrestare la salita del
cardinale Felici.
Lunedì 16 ottobre, alla quinta votazione, si sarebbe determinato uno spostamento sensibile verso Colombo e
Poletti, mentre anche l'olandese Willebrands avrebbe ricevuto «un voto rispettabile». L'ipotesi che un
accordo fosse stato raggiunto su un candidato non italiano è basata da alcuni su una dichiarazione del
cardinale francese Gouyon: «andando lunedì al conclave, sapevo che la sera avremmo avuto il papa».
Tutte le versioni hanno indicato che, al sesto scrutinio, la candidatura di Wojtyla fece un balzo in avanti
notevole, e che il cardinale Willebrands aveva deciso di ritirarsi a favore del cardinale polacco. Lo scrutinio
dovette svolgersi più rapidamente del previsto, dato che la «fumata nera» apparve dal comignolo della
Cappella Sistina già alle 11.15, invece che alle 12.
Alcuni hanno riferito che a pranzo Wojtyla «era così visibilmente sconvolto dalle forze che si coagulavano
intorno a lui che i suoi amici temettero che potesse rifiutare il papato».
«Ebbi paura che in quel momento potesse rifiutare», ha detto Kònig. «Certamente non era Wojtyla il
candidato all'elezione. Non posso dire di più.» Perciò Wyszynski lo prese da parte e gli rammentò che
l'accettazione è il dovere di un cardinale.
Secondo Newsweek, erano gli Americani e i Tedeschi, che sostengono molte diocesi nel Terzo Mondo, ad
aver persuaso precedentemente i loro amici in Africa e in America Latina, a unirsi a loro. Secondo Time,
«solo la mancanza di voti tra gli Italiani continuava a bloccare l'elezione di Wojtyla al settimo scrutinio».
All'ottavo, «Benelli cedette il suo pacchetto di voti a Wojtyla» (Newsweek). L'elezione dell'arcivescovo di
Cracovia sarebbe avvenuta con 104 voti secondo Newsweek, con 94 voti, per il rifiuto degli ultraconservatori
di appoggiarlo, secondo Time, «con un po' più di 75 voti» secondo Le Point. Si è riferita la dichiarazione del
cardinale Marty: «sono stato colpito dalla grande disponibilità di tutti i cardinali italiani, senza eccezione,
verso un papa non italiano». Ciò non significava peraltro che tutti gli Italiani lo avessero votato.
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La svolta del conclave.
Se confrontiamo queste ricostruzioni con altri lotti informativi, di fonte privata, ci imbattiamo in una visione
più complessa di quella segnata dalla polarizzazione tra Siri e Benelli. Secondo queste fonti il primo giorno
del conclave non fu determinato dall'antitesi SiriBenelli, bensì da un confronto tra settori di Curia e
conservatori, da un lato, e Benelli dall'altro. Secondo queste fonti ciò poteva significare all'inizio una polarità
tra Felici e Benelli, con alcuni elettori che rivolgevano i loro voti d'assaggio all'arcivescovo di Milano
Giovanni Colombo e al vicario di Roma Ugo Poletti.
Secondo alcune fonti a lui vicine, al cardinale Siri mancarono «pochi voti» per ottenere la maggioranza
stabilita: «non più di quattro o cinque» secondo l'opinione di un confidente troppo vicino al cardinale per
essere un informatore obiettivo. Tuttavia alcuni cardinali considerarono già al termine della prima giornata,
cioè dopo soltanto quattro scrutini, che la candidatura di Siri aveva raggiunto il colmo delle sue possibilità e
che doveva perciò essere abbandonata.
«Dio si è servito della malignità degli uomini e della divisione degli italiani», dirà il cardinale di Madrid
Tarancon riferendosi alle manovre adottate dagli Italiani per contendersi il papato.
«Certi di essere diretti verso il Polo Sud», dirà pittorescamente Suenens, «siamo arrivati al Polo Nord.
Ancora una volta il Signore ha compiuto prodigi.»
Nella competizione maggiore, tra Siri e Benelli, si era scavato una nicchia personale anche l'indomito
Sebastiano Baggio, che tentava
forse una personale rivincita sulle contusioni subite nel conclave precedente. Anche i sostenitori di Colombo
non sembravano disposti a cedere le loro risorse ad uno dei candidati maggiori.
Dinnanzi allo spettacolo poco edificante di queste lacerazioni, gli incerti non potevano non sentirsi attirati da
una soluzione estranea all'agitato campo italiano. La prospettiva di un conclave lungo, che avrebbe aggravato
gli astii, era ormai nei timori diffusi. Il processo elettorale appariva bloccato. Ma anche il settore tedesco era
diviso: «peccato che la leadership di Julius Doepfner non abbia trovato un erede», dicevano a Roma in quei
giorni. Più tardi si potè comprendere ciò che questa critica poteva significare: Joseph Ratzinger era indubbiamente a favore di Benelli, ma non era riuscito a trascinare con sé il potente Hòffner, che continuava a
votare Siri, o Felici oppure Poletti durante i primi scrutini.
Inoltre, le fonti fanno supporre che potrebbe essersi verificato un incidente, che aveva gettato il collegio nel
panico. Si fa ritenere che la candidatura di Colombo avesse cominciato a salire, raccogliendo i voti degli
insoddisfatti dell'andamento del conclave, fino a essere considerata come la terza via certamente vincente tra
i due litiganti maggiori. Ma si lascia anche immaginare che Colombo avesse recisamente ricusato di essere
candidato. Lo stesso Franz Kònig, quando il collegio cominciò a cercare fuori dell'area italiana, avrebbe
opposto un rifiuto netto. E questo negativismo conclavario sarebbe culminato con il «no» del cardinale
Willebrands.
In questa situazione di stallo, e di depressione, lo stesso cardinale Kònig avrebbe adottato un'iniziativa forte,
irrituale. In accordo con Ratzinger, egli avrebbe proposto al conclave di applicare il modello dell'Esodo
biblico, abbandonando le logiche degli schieramenti, e di verificare, quasi per un sondaggio libero, la
disponibilità del collegio all'accettazione di una candidatura sorprendente, come quella di Karol Wojtyla.
L'idea sarebbe stata lanciata la sera di domenica 15 ottobre e avrebbe cominciato a navigare la mattina di
lunedì 16, trovando subito vento propizio. Al sesto scrutinio la candidatura dell'arcivescovo di Cracovia
doveva essere già ben sostenuta se il cardinale Wyszynski, che fino a quell'ora aveva votato per Siri, sussurrò
al collega polacco: «Se ti eleggono, ti prego, non rifiutare».
Nell'intervallo fra le votazioni, i sostenitori di Wojtyla avvicinarono altri invitandoli ad associarsi alla
soluzione, in un clima già più sereno. Fra aperitivi, digestivi e caffè, nella sala vicina a quella del refettorio,
il conclave maturò la tappa decisiva. Al secondo scrutinio di quella sera di lunedì, ottavo dei due giorni di
conclave, l'arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla raggiunse più dei 75 voti necessari all'elezione, addirittura
99 secondo la lettera di un cardinale riportata da
Giulio Andreotti. Anche gli Italiani, più o meno volenti, si associarono.
Per questo il cardinale Marty poteva dichiarare che «tutti gli italiani, senza eccezione» avevano mostrato
«grande disponibilità» verso un papa non italiano, il primo papa slavo della storia. «Siamo rimasti sorpresi
dall'emergere di questo candidato», disse il cardinale di Dakar, Hyacinthe Thiandoum. «Se il suo nome fosse
emerso il primo giorno, tutto si sarebbe svolto più presto.» Alla domanda se non si trattasse di una scelta
anticomunista, Thiandoum rispondeva negativamente, non senza un profumo d'ironia nei confronti di Siri:
«Se si trattava di trovare qualcuno che fosse contro il comunismo, l'elezione si faceva subito».
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Una scelta nel senso del Concilio e dei diritti umani.
Con tutte le riserve d'obbligo, in una fase ancora immatura storiograficamente e carente di possibilità di
verifica, la versione che proponiamo sembra tale da risolvere alcune contraddizioni interne delle
ricostruzioni già note in modo da identificare con maggiore verosimiglianza il dinamismo sostanziale di
questo conclave. L'elezione del primo papa non italiano, dopo Adriano vi, è stata evidentemente il risultato
dell'impotenza del gruppo italiano, che aveva dato uno spettacolo suicidano di divisione. Tuttavia è difficile
pensare che soltanto queste circostanze negative potessero produrre una scelta così straordinaria.
Ciò che potrebbe aver invece agito principalmente appare l'esigenza di gran parte dei cardinali di assicurare
alla Chiesa una direzione impegnata nel senso di un prudente rinnovamento e dell'universalismo, ma anche
capace di contenere la crisi della Chiesa e di assorbire le spinte lefebvriane.
Ed è certo che solo una procedura straordinaria poteva permettere tanto lo sblocco delle preclusioni esistenti
quanto la manifestazione di una nuova opzione, sorprendente per gli stessi elettori.
Questa scelta ha fatto del secondo conclave del '78 qualcosa di molto più qualificato e decisivo del
«compromesso» del precedente. Il referendum tra i cardinali prò o contro il Concilio si era risolto con
l'impegno di mantenere la linea delle riforme dei papi precedenti e di dare una prova della maturità delle
Chiese locali, sebbene in un quadro che includesse ormai tassativamente il postConcilio entro una ferrea
cornice papale, sottraendolo alle disordinate spinte periferiche.
Nello stesso tempo emergeva, con la scelta di un papa dell'Est, un'area ecclesiastica scarsamente presente
nelle premure pastorali delle Chiese di Occidente. Questo allargamento ad Oriente segnava
un'uscita decisiva del papato dai suoi tradizionali ormeggi italiani, quasi a concludere il ciclo storico della
crisi del potere temporale aperto nel 1870. Era ben sensibile questa consapevolezza anche nell'emozione e
nello stupore dell'annuncio immediato. I primi commenti mettevano in luce i rapporti causali tra la scelta
polacca del conclave e almeno due evoluzioni gradualmente verificatesi dopo l'ultimo Concilio:
l'internazionalizzazione del collegio cardinalizio, nel quale gli italiani un tempo predominanti erano divenuti
una minoranza di 26 membri su 111 elettori e il complesso dei non europei superava ormai i cardinali del
vecchio mondo. Dall'altro lato, lo sviluppo delle relazioni orizzontali nella Chiesa cattolica, accanto alle
secolari relazioni verticali, un tempo esclusive. La struttura relazionale papavescovipopolo, dal vertice alla
base, era stata infatti progressivamente equilibrata da una struttura di scambi orizzontali tra le Chiese locali
sparse nei vari continenti, mediante le riunioni delle conferenze episcopali e dei Sinodi triennali dei
rappresentanti da loro eletti. Ciò aveva favorito l'avvicinamento delle comunità cristiane alle realtà culturali e
ai problemi del popolo, e nello stesso tempo aveva reso inevitabile il distacco, sia pure graduale e non
sempre lineare, tra la Chiesa e gli Stati, un tempo visti come mediatori privilegiati delle sue relazioni con la
storia. Infine, si sottolineava che aveva avuto un peso determinante la considerazione politica della fragilità
della piramide sovietica — secondo la tesi di Kònig — e del contributo che un papa polacco avrebbe portato
al processo di crisi del sistema comunista, crisi che il Vaticano analizzava già allora come irriducibile e forse
imminente.
L'elezione di Karol Wojtyla apparve molto meno sorprendente per chi aveva potuto osservare i dinamismi
orizzontali delle relazioni tra le Chiese locali negli ultimi anni. La sera della «fumata bianca», quando egli si
presentò alla loggia della Basilica vaticana — col nome di Giovanni Paolo n, e con un saluto ormai arcaico,
tipico dei preti dell'Ottocento: «Sia lodato Gesù Cristo» — , pochi nella straordinaria folla che faceva ancora
una volta di piazza San Pietro la «piazza del mondo», potevano dire di conoscerlo. E tuttavia egli non era
uno sconosciuto per i cardinali dei cinque continenti. Essi sapevano che l'uomo che eleggevano sarebbe stato
il primo papa nato dopo la Rivoluzione d'Ottobre, nel 1920, e il primo che avesse lavorato in fabbrica,
vivendo direttamente la condizione operaia durante gli anni dell'occupazione nazista della Polonia. Egli si
era fatto prete in età adulta, a 22 anni, e aveva fatto i primi studi teologici di nascosto, nella casa
dell'arcivescovo di Cracovia, il cardinale Adam Sapieha, uno dei maggiori personaggi della resistenza
polacca al nazismo. Il giovane Wojtyla aveva partecipato all'opposizione antinazista militando nel teatro
clandestino di Mieczyslaw Kotlarczyk e nei movimenti di intellettuali cattolici che a Cracovia si ispiravano
alle correnti più aperte del cattolicesimo sociale francese. Diventato vescovo nel
1958, egli aveva simboleggiato il cambiamento in corso nella Chiesa polacca, obbligata dopo il x?<
congresso a misurarsi con il regime socialista sul terreno dello sviluppo della democrazia e delle riforme
sociali.
Quando Paolo vi, nel 1964, lo aveva nominato arcivescovo di Cracovia, Wojtyla aveva aperto la sua casa a
convegni di scrittori, filosofi, teologi e artisti, cercando di favorire il riavvicinamento tra intellettuali e operai
e contestando il regime in nome dei diritti umani. Dopo i grandi scioperi del '76, sotto l'influenza di Wojtyla,
l'episcopato polacco si era pronunciato per la prima volta contro la repressione antioperaia e a favore della
democrazia. Nello stesso tempo egli aveva protestato contro l'alienazione umana causata in Occidente dalle
logiche del capitalismo, cioè «dall'incontrastato primato dell'ordine economico e del processo economico»,
che riduceva l'uomo e la sua coscienza a mero strumento.
Egli aveva avuto durante il Concilio un ruolo riservato, con interventi quasi sempre nel senso della
tradizione.
Più visibile era stato nei Sinodi dei vescovi, dai quali era stato eletto, con maggioranze crescenti, come
membro del Consiglio della Segreteria permanente del Sinodo. Passava per convinto fautore della
collegialità episcopale. Nel 1974 Paolo vi gli aveva affidato la relazione di base al Sinodo dei Vescovi
sull'evangelizzazione. Forse, in altre circostanze, l'età relativamente giovane — 58 anni, il più giovane papa
del secolo — avrebbe potuto ostacolare la sua candidatura, tuttavia questa difficoltà era stata sostanzialmente
abbattuta mediante la candidatura di Benelli, che ne aveva 57.1 viaggi che Wojtyla aveva compiuto in
Francia, Belgio, Germania, negli Stati Uniti, nelle Filippine e in Australia, lo avevano fatto conoscere. Le
conferenze che aveva dato anche in Italia avevano provato la solidità dottrinale e l'attaccamento alla
tradizione teologica romana dell'uomo e la sua attenzione agli sviluppi della cultura contemporanea. Dopo il
modello «debole» e fraterno del papato di Luciani, con quello subito incarnato da Giovanni Paolo n nei
linguaggi della sicurezza e dell'universalismo si ripresentava sullo scenario del Vaticano un modello più
classico anche se non convenzionale nelle forme. Sebbene le sue prime parole ai romani — «se sbaglio mi
corriggerete» — rinviassero alle leggi del dialogo ormai obbligatorie per ogni autorità, pure la novità di
questo papa era troppo spettacolare, impressionante e complessa per suscitare consapevolezze immediate.
I primi atti del nuovo papa sembravano assicurare alla sua elezione il significato di un contributo al processo
di integrazione in corso nel mondo fra le culture e di un appello all'apertura dei sistemi ideologici. «Aprite le
porte a Cristo», fu la sua prima apostrofe al mondo. Egli si impegnò solennemente ad attuare un piano di
riforme nel senso del Concilio, specie per sviluppare la partecipazione collegiale dei vescovi e la
partecipazione dei laici.
Ciò amareggiava alcuni leader conservatori, al punto che il cardinale Siri, appena uscito dopo il discorso
programmatico del nuovo papa, dichiarava polemicamente di «non ricordarlo». Indubbiamente le
contraddizioni esplose nel conclave — malgrado l'esito quasi trionfale e unitario — avevano in realtà
irrigidito le posizioni, rendendo più difficile un reale accordo nell'alta gerarchla cattolica. Col discorso
dell'investitura, sembrò di comprendere che il metodo che Giovanni Paolo n intendeva seguire per risolvere
la crisi della Chiesa fosse quello di un grande appello a concentrarsi sull'essenziale della fede cristiana e sui
problemi dell'annuncio del Vangelo in un mondo in attesa. Da molto tempo Wojtyla era convinto che un
nuovo tempo di martirio fosse in corso per il cristianesimo nel mondo moderno. Egli sembrava consapevole
della necessità che il papato aiutasse la Chiesa cattolica a liberarsi da tanti pesi superflui, incluse certe forme
storielle ormai obsolete dello stesso potere pontificio, per impegnarsi su ciò che egli considerava l'essenziale
della missione cristiana del mondo.
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CAPITOLO XVI.
Giovanni Paolo li: un bilancio politico.
II pontificato di Giovanni Paolo n, ha già fornito dati sufficienti per abbozzare alcuni tentativi di sintesi,
evidentemente provvisorie e non esaustive, dell'azione da lui intrapresa nella Chiesa cattolica e nella società
contemporanea. La maggior parte degli osservatori si è principalmente interessata agli aspetti politici del
pontificato, benché la sua azione nella Chiesa sia stata in realtà preponderante e fondamentale.
Di fatto il punto di partenza delle analisi proposte dai più è stata la constatazione che il pontificato di
Giovanni Paolo 11 è stato segnato dall'evento cruciale del secolo: il collasso nel 1989 del comunismo, considerato l'avversario principale della Chiesa romana a causa della visione totalitaria e atea, o antireligiosa,
adottata come dimensione pubblica dello Stato. Il processo che ne è seguito, con la fine della guerra fredda e
della divisione del mondo in due blocchi, l'avvento di regimi democratici e di sistemi ad economia di
mercato nei paesi dell'Europa centroorientale e l'ondata incendiaria dei nazionalismi, ha aperto una fase
nuova anche per la Santa Sede, alle prese con sfide inedite e, in certa misura, impreviste.
Dopo aver contribuito a scuotere le basi morali della piramide del «socialismo reale», il papa polacco non ha
tardato a condurre la Chiesa lungo un percorso differente da quello tracciato dalla sola potenza mondiale
rimasta, su alcuni dei massimi problemi di ordine internazionale: egli si è dissociato apertamente dalla guerra
condotta nel 1991 dagli Stati Uniti e dai loro alleati in nome dell'oNU per la restaurazione della legalità
internazionale in Kuwait, violato dall'invasione di Saddam Hussein.
La campagna guidata da Wojtyla nei viaggi in Polonia, in Ungheria e nei Paesi Baltici, a ridosso del fatidico
1989 del Muro infranto, è stata dominata da una critica martellante dei modelli materialistici diffusi in
Occidente. Nei viaggi in Africa e in America Latina il Papa ha impegnato la Chiesa cattolica — seconda
forza religiosa mondiale per numero di seguaci dopo l'Isiam — a misurarsi sulle questioni delle «strutture
perverse» dell'economia mondiale e in una enciclica, la Centesimus annus, la prima che affrontasse i
problemi del mercato, ha sostenuto che lo scacco del sistema comunista non squalifica qualsiasi forma di
socialismo né accredita il capitalismo liberale di virtù incontestabili.
In un discorso all'Università di Vilnius, il 4 settembre 1993, egli ha sottolineato che «il marxismo non è stata
l'unica tragedia del nostro secolo» e che «le stesse democrazie, organizzate secondo la formula dello Stato di
diritto, hanno registrato e ancor oggi presentano, vistose contraddizioni tra il formale riconoscimento delle
libertà e dei diritti umani e le tante ingiustizie e discriminazioni sociali che tollerano nel proprio seno».
Proseguendo il suo viaggio nei Paesi Baltici il papa che ha «abbattuto il comunismo» ha invitato — in un
discorso all'Università di Riga il 10 settembre — a riconoscere «l'anima di verità del marxismo» nella critica
allo sfruttamento capitalistico e all'alienazione della mercé: una tesi difficile da sovrapporre allo stereotipo
del comunismo come «intrinsecamente perverso» che aveva alimentato alcune condanne del passato. Egli ha
fatto rilevare che «dopo il fallimento storico del comunismo, io stesso non ho esitato a sollevare seri dubbi
sulla validità del capitalismo», ricollegandosi a una tradizione della dottrina sociale della Chiesa che, «fin
dalla Rerum Novarum di Leone XIII, ha sempre preso le distanze dell'ideologia capitalista, ritenendola
responsabile di gravi ingiustizie sociali».
Nella stessa linea critica, Giovanni Paolo n ha ribadito, in un'intervista a La Stampa: «Secondo me,
all'origine di numerosi gravi problemi sociali e umani che attualmente tormentano l'Europa e il mondo, si
trovano anche le manifestazioni degenerate del capitalismo».
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Un papato politico.
II 7 dicembre 1992, quella che poteva sembrare solo una tappa, per quanto importante, della vita interna
della Chiesa cattolica — la presentazione del nuovo Catechismo — apparve chiaramente con i segni d'un
avvenimento anche politico del papato.
Nella Sala Regia del palazzo apostolico, tradizionalmente riservata ai ricevimenti dei capi di Stato, e, in
antico, dei principi, degli imperatori e dei re, erano presenti non solo i cardinali e i vescovi cattolici del
mondo, ma anche gli ambasciatori accreditati dai governi di 145 Paesi presso la Santa Sede: «nei confronti di
questo libro», disse il Papa in un discorso, «nessuno deve sentirsi estraneo, escluso o lontano». In effetti il
grosso volume poteva essere ritenuto non solo un prontuario della teologia cattolica ma anche un
vademecum dell'etica politica ed economica della Chiesa e, in qualche misura, il breviario del pensiero
politico di Giovanni Paolo II.
Per la prima volta un Catechismo non si occupava solo delle questioni «esterne», ma anche dei regimi
politici e dei diritti umani,
della guerra giusta e della pena di morte, della disobbedienza civile e delle distorsioni inegualitarie nella
produzione e nella distribuzione della ricchezza, oltre che dell'ecologia e del governo mondiale.
Questo atto politicoreligioso della Chiesa romana si prestava in modo eccellente a servire da chiave di lettura
dell'identità del papato, che alcuni osservatori avevano considerato «un enigma». Esso permetteva infatti di
cogliere la caratteristica funzione storicopolitica che la Chiesa cattolica aveva attribuito al cristianesimo in
questa fase della sua storia, specialmente a partire dal Concilio Vaticano n. Ma era l'interpretazione specifica
che di quella funzione aveva svolto il Papa polacco a meritare una ulteriore attenzione.
In pochi papi del xx secolo, infatti, la politica è apparsa a tal punto interpretata come un capitolo della
missione della Chiesa come in Giovanni Paolo II. Papa «tutto religioso» analogamente a quanto era reputato
Pio x, Wojtyla ha rivelato una forte convinzione della politicità intrinseca del religioso. In generale il suo
papato si è astenuto dal riprodurre modelli confessionali, ritenuti obsoleti, e il Papa stesso non ha mostrato
particolare interesse per le mediazioni di vertice tra Chiesa e Stato. Piuttosto egli si è dedicato ad un intenso
sfruttamento dello spazio più pubblico che la laicità lasciava aperto anche alla Chiesa, fra il campo delle
istituzioni politiche e quello delle nazioni e della società civile. Penetrando in questo spazio più
pubblicodibattimentale che istituzionale, egli ha impegnato il ruolo della Chiesa nella politica mondiale,
assicurando una nuova e per certi versi sorprendente proiezione del fattore eticoreligioso nelle relazioni
internazionali.
Il fatto che fosse polacco, e che la sua elezione nel 1978 avesse interrotto una tradizione di più di
cinquecento anni di papi italiani, ha sicuramente avvantaggiato le aspirazioni dell'ecumenismo politico
caratteristico del suo regno, non meno che il messianismo delle sue visioni.
Tuttavia non può essere trascurato il peso della sua cultura teologica, che durante il Concilio Vaticano n si
era dimostrata d'accordo solo in parte con l'evoluzione. Uno storico del movimento cattolico italiano,
Antonio Acerbi gli ha riconosciuto i tratti tipici della cultura intransigente dell'Ottocento, per il tentativo
compiuto di ricostruire l'unità fra momento religioso e momento politico, secondo schemi tipici della Chiesa
romana prima di Pio xi. L'obiettivo di questa politica religiosa è pure caratteristico dell'intransigentismo: una
sorta di nuova apologetica sociale, questa volta su scala mondiale, grazie ai mass media, per proiettare la
Chiesa nei punti critici della modernità, reagire all'isolamento culturale da cui la Chiesa si sente
accerchiata nella società laicizzata e affermare, invece, la dimensione pubblica della fede cattolica, la sua
capacità di contribuire in termini di etica pubblica alla soluzione della crisi moderna.
La politica internazionale di Wojtyla è apparsa sostanzialmente una variabile di questo programma. Esso ha
trasformato la figura papale in un'istituzione pubblica civile universale, e non più solo confessionale, a capo
di una Chiesa, benché il ciclo della sovranità politica del papato, iniziato circa mille anni prima con Gregorio
VII, fosse generalmente ritenuto esaurito. I viaggi internazionali in almeno 170 Paesi, con le relative visite ai
capi di Stato, ai diplomatici accreditati, ma anche ai dirigenti politici e ai rappresentanti delle opposizioni,
sono stati l'occasione per Giovanni Paolo n di sviluppare l'intervento della Chiesa nel campo dell'agire che
conta per il futuro dell'umanità, e non solo in quello della vita privata, tradizionalmente affidato ai ministri
della religione.
Anche i messaggi per le Giornate della Pace, inviati ogni Capodanno alle Nazioni Unite e ai rappresentanti
dei popoli, hanno documentato l'interesse della Chiesa romana per i problemi dell'agorà mondiale, quali il
razzismo e la fame, la salvaguardia dell'ambiente e il disarmo, le migrazioni e i diritti delle minoranze. «La
Santa Sede non si limita a dichiarazioni solenni, ripetute e insistenti», sottolineò il segretario di Stato
cardinale Agostino Casaroli, «né collabora soltanto con richiami a princìpi morali che devono presiedere ad
una vita sociale giusta e ben ordinata. Essa cerca di scendere sul piano concreto delle diverse situazioni
storiche e geografiche».
Sembrava così accantonato il dibattito sul ruolo internazionale della Santa Sede, alla quale il Trattato del
Laterano nel 1929 aveva imposto di rimanere estranea alle competizioni fra gli Stati, secondo una visione
attinta al positivismo giuridico, che non poteva ammettere altro soggetto di diritto internazionale che lo
Stato. Tuttavia anche i fautori di una Chiesa spirituale non tacevano il loro disagio di fronte ai rischi di
neotemporalismo attribuiti al programma pontificio.
Quanto agli interessi forti del sistema mondiale, essi trovarono un modo che poteva essere tragico per
commentare il ruolo politicoreligioso del papato e la sua natura tendenzialmente destabilizzante: il 13
maggio 1981 le revolverate di un giovane terrorista di destra turco, Ali Agca, lasciato evadere da un carcere
militare ultrasorvegliato in Turchia, mostrarono fino a che punto avesse ragione Wojtyla
nel ritenere che la convinzione religiosa d'un cristiano poteva spingerlo sulla linea del fuoco delle forze del
dominio. Il reinserimento della Santa Sede nel pieno della scena politica internazionale ha utilizzato il
linguaggio specifico di una forza eticoreligiosa universale, ma ha egualmente portato ad una espansione
senza precedenti gli strumenti che più di ogni altro rimandavano all'epoca della Chiesa potenza e della
regalità temporale. Agli inizi del pontificato Giovanni Paolo n aveva ereditato da Paolo vi 89 nunziature
apostoliche e 21 delegazioni, prive di statuto diplomatico. Dopo 18 anni, nel 1996, le nunziature avevano
raggiunto il massimo storico di 160, oltre alle 15 delegazioni apostoliche e ai 24 uffici di rappresentanza
mantenuti dal Vaticano presso le Organizzazioni internazionali governative, le Organizzazioni internazionali
non governative, le Comunità Europee e la Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE).
Papa Wojtyla ha inoltre proseguito la linea dello sviluppo dei concordati e delle convenzioni della Santa
Sede con gli Stati o le altre società politiche seguita da Paolo vi: ai 40 documenti ratificati tra il 1963 e il
1978 da Giovanni Battista Montini, Giovanni Paolo n ne ha aggiunti un'altra quindicina. Notevoli in
particolare i dieci conclusi in America Latina, con i quali la Chiesa ha ottenuto una maggiore libertà in
materie come la designazione dei vescovi e l'esercizio dell'attività pastorale con modalità meno segnate dai
privilegi. Pochi atti come la mediazione svolta dalla Santa Sede nel 1979 per risolvere l'interminabile litigio
tra Argentina e Cile per il Canale di Beagle hanno provato la tendenza di questo Papa a sfruttare fino in
fondo la forza politica della Chiesa romana. Intervenire in un contenzioso politico e giuridico si iscriveva
nella storia della funzione arbitrale del papato antico. Ma era una tradizione che rispecchiava concezioni e
strutture classiche della cristianità medievale, quando il Papa era visto come «il giudice dei principi tanto nel
campo temporale che in quello spirituale».
Ai nostri giorni l'opinione pubblica ammetteva ormai pacificamente che le funzioni politiche toccassero agli
Stati, alle organizzazioni internazionali e, nel caso, alle giurisdizioni internazionali, mentre alla diplomazia
vaticana fossero demandate le funzioni religiose e, al meglio, quelle umanitarie, in via di supplenza.
D'improvviso, la mediazione pontificia tra Stati sovrani rimetteva in causa questa ripartizione, tanto più per il
successo che essa conse
guiva col trattato di pace firmato nel 1984 nella Sala Regia del Vaticano tra le parti in causa.
Non fu questo l'unico fronte di guerra sul quale la Santa Sede offrì o svolse interventi di mediazione.
Missioni pontificie furono inviate in Libano, in Iran e in Iraq, in Etiopia e in Manda del Nord.
Una mediazione internazionale fu portata a termine con successo da un soggetto nuovo nelle attività
internazionali della Santa Sede, la Comunità di Sant'Egidio, un'associazione pubblica di laici riconosciuta
secondo il diritto canonico, che contribuì agli accordi di pace in Mozambico conclusi nel 1992. La Chiesa
apparve coi suoi buoni uffici nei vulcani politici centroamericani, come in Guatemala e in Salvador, o nelle
tensioni tra Colombia e Perù: scenari nei quali l'opera di mediazione fu condotta piuttosto dai vescovi locali,
appoggiati dalla Santa Sede e dai suoi nunzi.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Si può riconoscere in generale che, sotto questo papa, la Chiesa è stata
incoraggiata più semplicemente ad assumere posizioni pubbliche a favore dei diritti umani, senza lasciarsi
limitare da premure nei confronti dei tradizionali legami con il potere politico.
Anche un episcopato così compromesso col regime, come quello argentino, è uscito con delle critiche severe
nei riguardi del governo e sarebbe difficile contestare il ruolo svolto dalla Chiesa a favore della transizione
democratica in Brasile. Per quanto tortuosa, anche in Cile la condotta del Vaticano è stata giudicata la più
valida possibile, in quelle circostanze, per l'obiettivo che si riprometteva e che effettivamente potè essere
raggiunto: quello di assicurare la transizione pacifica dalla dittatura del generale golpista Pinochet ad un
regime democratico. Nel 1987 Giovanni Paolo n fu criticato per aver accettato alcune concessioni sul piano
formale a Pinochet nel corso della visita in Cile. Tuttavia sarebbe difficile ignorare che, in questa stessa
circostanza, l'udienza papale alle rappresentanze dell'opposizione, incluse le sinistre, e la sua visita ai
prigionieri politici costituirono un colpo importante inferto all'ideologia del regime.
Nelle Filippine — il solo paese asiatico in cui i cattolici sono maggioranza — il Vaticano si è associato al
cardinale di Manila Jaime Sin per appoggiare l'allontanamento di Marcos e l'instaurazione del regime
democratico di Cory Aquino. In Corea una Chiesa minoritaria, ma significativa, ha visto valorizzato il
proprio ruolo umanitario, a protezione dei diritti umani, con la visita di Wojtyla, sia pure guastata da
un'esorbitante presenza militare.
Giovanni Paolo n non ha tralasciato occasione per ribadire il carattere eticoreligioso, e non politico, dei suoi
interventi. Egli lo difese esplicitamente nel discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1979,
allorché osò identificare la sua Chiesa «con quella stessa di Gesù Cristo che, dinnanzi al tribunale del giudice
romano Pilato, ha dichiarato di essere re, ma di un regno che non è di questo
mondo». Di fatto, la moltiplicazione e la tendenza generalmente riformistica dei suoi interventi sulla scena
internazionale è sembrata accelerare la revisione del tradizionale neutralismo religioso della Chiesa cattolica,
fino a scuotere le procedure felpate della diploma ' zia vaticana, famosa per i «piedi di piombo» e per il suo
«pensare in
secoli».
Il saggio probabilmente più eloquente di ciò che Giovanni Paolo n intendeva per politica della Chiesa
apparve il 27 ottobre 1986 ad Assisi, dove egli si riunì con i rappresentanti delle Chiese cristiane e delle
grandi religioni mondiali per una giornata di preghiera per la pace mondiale. Ripetendo uno dei motivi tipici
dell'intransigentismo, egli affermò in quella circostanza la sua convinzione che «la preghiera è in se stessa
azione». «Occorre prendere coscienza», aggiunse, «che esiste un'altra dimensione della pace e un'altra
maniera di promuoverla, che non risultano da negoziati, compromessi politici, mercanteggiamenti
economici: risultano dalla preghiera, che esprime una relazione con una potenza suprema, che sorpassa le
nostre sole capacità umane.»
Il suo disegno ecumenico, allargato alle grandi forze religiose mondiali, comprendeva lo sviluppo di uno
spirito di riconciliazione fra sistemi da gran tempo separati, se non ostili, come contributo effettivo alla pace
fra i popoli. Negli anni successivi, le assemblee interreligiose promosse a Varsavia, Bari, Malta, Bruxelles e
Milano dall'associazione «Uomini e religioni», con la copertura diretta di Giovanni Paolo II, rappresentarono
l'unico forum al mondo di incontro e di dialogo fra Santa Sede, ebrei, musulmani, e altre tradizioni religiose
mondiali in un'epoca contusa dai fondamentalismi. Accanto agli strumenti religiosi specifici, Giovanni Paolo
u è ricorso all'uso ampio di propri dispositivi ideologici. La dottrina sociale della Chiesa ha ottenuto sotto il
suo pontificato un importante rilancio, quasi fosse adibita ad una funzione sostitutiva del ruolo esercitato
dalle ideologie secolari della modernità, nel momento in cui subivano i colpi di una crisi radicale.
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La dottrina internazionale di Wojtyla.
II magistero etico di Giovanni Paolo 11 è stato probabilmente il mezzo principale da lui utilizzato per
formare un movimento di opinione intorno alle questioni vitali del futuro umano. La dottrina sociale era
sembrata al tramonto nella Chiesa cattolica dopo il Vaticano n. In una lettera apostolica del 1971, la
Octogesima adveniens, Paolo vi aveva ammesso che il magistero pontificio in materia politica e sociale
trovava delle difficoltà nel «pronunciare una parola unica» e nel «produrre una soluzione che abbia valore
universale». Egli aveva riconosciuto alle comunità cristiane, nel pluralismo delle loro situazio
ni, il compito di realizzare le mediazioni necessarie tra i princìpi evangelici, la tradizione sociale della Chiesa
e le scelte concrete.
Con papa Wojtyla, invece, la dottrina sociale ha conosciuto un risalto eccezionale. Non solo le ha attribuito
una funzione etica a destinazione universale — quasi una nuova codificazione del diritto naturale delle genti,
jus gentium — ma anche l'ha dichiarata parte costituzionale della teologia cristiana, fino a suscitare le
perplessità di alcuni teologi, timorosi della politicizzazione della fede: «la pace in ogni sua dimensione è un
bene che rientra nella salvezza» secondo Giovanni Paolo n. «Essa costituisce un aspetto integrante del progetto salvifico da Dio offerto all'umanità in Cristo.» A questo si collegava l'istituzione in Vaticano nel 1994
della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.
Il meno che si può dire è che la teoria politica di Wojtyla ha mantenuto una sua coerenza con la funzione
missionaria assegnatale. Contro la pretesa totalizzante della politica, la parola papale si è incaricata di
ricordare che esistono questioni senza risposta, di rimettere in scena l'importanza dello spirituale e di
criticare gli errori antropologici dei pensieri dell'efficacia.
Lavorato dalla sfida ai regimi totalitari, egli affermava la persuasione che soltanto imponendo alla politica
dei paradigmi etici si sarebbe potuto sottrarla al comando degli interessi. Nel 1979, a Dublino, egli rivendicò
il diritto e dovere della Chiesa «di influenzare coloro che detengono la spada dell'autorità». «Ci sono ragioni
più profonde della spada e leggi più forti», disse, «alle quali uomini di azione e popoli sono soggetti. È
nostro dovere discernere queste ragioni e alla loro luce diventare, di fronte alle autorità, portavoce dell'ordine
morale. Quest'ordine è superiore alla forza e alla violenza. In questa superiorità dell'ordine morale è espressa
tutta la dignità degli uomini e delle nazioni.»
Nello stesso anno, a Varsavia, egli indicò alla Chiesa il compito di trasformare il mondo «in una società
teologica» e spiegò che le condizioni fondamentali per qualsiasi ordine politico erano le norme dell'etica e le
leggi divine.
A Puebla, in Messico, nell'aprire a fine gennaio del 1979 la Conferenza generale dei vescovi latinoamericani,
egli precisò che la Chiesa «vuole mantenersi libera di fronte agli opposti sistemi, per optare solo in favore
dell'uomo». «Non sarà attraverso la violenza, i giochi di potere, i sistemi politici», aggiunse, «ma mediante la
verità sull'uomo che l'umanità troverà il suo cammino verso un futuro migliore. Fondandosi su questo
umanesimo i cristiani troveranno la forza di superare l'ostinata contrapposizione e di contribuire alla
costruzione di una civiltà giusta, fraterna e aperta alla trascendenza.»
Il collasso del comunismo, nel 1989, gli fornì l'occasione per «ammonire quanti, in norme del realismo
politico, vogliono bandire dall'arena politica il diritto e la morale».«Se non esiste nessuna verità
ultima a guidare e orientare l'azione politica», scrisse nella Centesimus annus, «allora le idee e le convinzioni
possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte
facilmente in un totalitarismo aperto, oppure subdolo, come dimostra la storia.»
I principali motivi della dottrina internazionale di papa Wojtyla sono stati l'affermazione della dignità
umana, con i diritti fondamentali che le appartengono, il principio della sussidiarietà e quello della
solidarietà. Egli ha sostenuto la convinzione che la causa ultima del disordine economico mondiale doveva
essere cercata «non tanto nel sistema economico stesso, quanto nel fatto che l'intero sistema socioculturale,
ignorando la dimensione etica e religiosa, ormai si limita solo alla produzione di beni e servizi» {C.A., 39).
La sua maggiore insistenza è andata all'assioma che la libertà di iniziativa economica, molla del progresso e
protettrice della dignità dell'uomo, non può mai essere separata dal pieno rispetto delle esigenze della
giustizia sociale. «La Chiesa non ha una proposta concreta di organizzazione sociale o di modello
economico», precisò a Natal, in Brasile, nel 1991. «Ma essa mai potrà tacere, dinnanzi a tutti, quando è in
gioco la vita, la libertà, la dignità della persona umana, di tutti gli uomini in tutte le latitudini, di qualsiasi
razza, condizione sociale o credo religioso.»
Nel 1990, in Burkina Faso, i suoi accenti apparvero più pressanti: «voglio dire chiaramente alla comunità
internazionale che la solidarietà tra i popoli non ha frontiere, che le grandi trasformazioni in atto nell'Europa
dell'Est non devono spostare l'attenzione dal Sud, e dal continente africano in particolare». Al contrario, «le
società sviluppate non devono forse interrogarsi sul modello che presentano al resto del mondo, sui bisogni
che hanno creato, sulla natura e anche sulla provenienza delle ricchezze divenute necessarie?» Secondo il
Papa, la solidarietà non era più sufficiente per aggredire alla radice la questione Nord/Sud: «bisogna
guardarsi anche da ogni fuorviamento», disse, sollevando il problema del debito estero. «Non si tratta di
vedere nei paesi più poveri soltanto dei clienti o dei debitori più o meno solvibili. Questo tipo di
comportamento ha portato a troppi punti morti.»
Di qui le proposte da lui avanzate nella Centesimus annus per una strategia globale di azione per la vittoria
sulla fame, una terza via tra liberismo assoluto e protezionismo nazionalistico: secondo l'enciclica occorre
anzitutto la riorganizzazione delle relazioni economiche internazionali, mediante la riforma delle istituzioni
finanziarie scaturite dagli accordi di Bretton Woods, decisi dai vincitori della guerra mondiale nel 1945;
occorre in secondo luogo, l'eliminazione o la ridiscussione del debito estero dei paesi che ne sono soffocati, e
occorre infine il superamento delle abituali modalità di fare affari con i governi dei paesi in via di sviluppo.
La conclusione di Wojtyla era che, con l'enorme sviluppo del potere produttivo contemporaneo, la cronica
persistenza della fame e la ricorrente virulenza delle carestie dovevano essere considerate come politicamente inaccettabili e moralmente oltraggiose. Nella sua enciclica rifiutava di accettare l'assioma secondo il
quale la disfatta del socialismo reale lasciava il posto al solo modello capitalista di organizzazione economica. Sebbene alcuni avessero cercato nell'enciclica l'idea che il Papa avesse sotterrato l'ascia di guerra del
vecchio conflitto tra Chiesa ed economia liberale, un'analisi contestuale indicava la preoccupazione del Papa
di incitare il liberalismo a procurare una vera libertà non solo per un piccolo numero di privilegiati, ma per la
maggior parte dell'umanità, dato che egli ricordava che la democrazia non è compatibile con le pance vuote.
La democrazia economica non era l'unica condizione della democrazia politica, nella visione di Wojtyla. Egli
cercava di abbozzare una vera socializzazione, in cui la «soggettività» della società sarebbe riconosciuta
mediante una reale e diffusa partecipazione. Ammettendo la democrazia come un valore, Giovanni Paolo n
chiudeva il conflitto, che aveva occupato un intero ciclo storico, tra cattolicesimo e democrazia. Tuttavia
questa conciliazione non era autorizzata se non a condizione che la democrazia fosse vincolata ai valori etici.
Nello stesso tempo egli esprimeva una sostanziale distanza critica nei riguardi dello Stato, con una
simmetrica preferenza per le categorie prestatuali dei popoli e delle nazioni. Nel 1980 all'Unesco egli non
fece che teorizzare l'eccellenza della Nazione rispetto allo Stato e, in un discorso ai diplomatici nel 1986,
arrivò ad affermare che «i diritti e le libertà fondamentali non debbono essere definiti, concessi o limitati da
uno stato, essi trascendono ogni potere». «Occorre che l'uomo possa essere sicuro della Nazione», aggiunse.
I diritti delle nazioni: di essi doveva preoccuparsi la comunità internazionale. Era il 1986 ed era chiaro che la
critica antiStato svolta dal Papa polacco era condizionata dal suo programma di far leva sulle nazioni, come
in Polonia, per erodere il sistema comunista dall'interno, togliendogli il monopolio degli spiriti. «Le Nazioni
hanno il diritto», disse, «a conservare e difendere la loro indipendenza, la loro identità culturale, la possibilità
di organizzarsi socialmente, di gestire i loro affari e regolare liberamente il loro destino, senza essere in
balìa, direttamente o indirettamente, di potenze straniere.»
Relativizzando lo Stato, lo sguardo del Papa poteva sollevarsi dalla «famiglia delle nazioni» ad un «bene
comune internazionale», capace di assumere fino ad un governo mondiale i compiti necessari di re
golare la convivenza fra i popoli in un sistema politico, economico, culturale sempre più segnato dalla
interdipendenza.
Questa dottrina nazionale fu riproposta da Giovanni Paolo n in un discorso all'Assemblea delle Nazioni
Unite il 4 ottobre 1995, in occasione del 50° anniversario della loro fondazione, segno che essa non era
soltanto strumentale e non assumeva le derive nazionalistiche esplose nei Balcani nella prima metà degli anni
Novanta se non come ulteriore argomento della necessità di aprire la patria sulle altre patrie.
L'enciclica Centesimus annus si concludeva invitando ad approfondire le ricerche di un umanesimo
economico internazionale capace di dotare di dispositivi giuridici l'antico principio biblico della destinazione
universale dei beni della terra.
I pronunciamenti sociali planetari successivi a quell'enciclica permettevano di fondare una interpretazione
meno fluttuante di quella invalsa tra certe connessioni fatte all'economia di mercato e le invettive pontificie
lanciate contro i fautori del «capitalismo selvaggio».
«Si può banchettare tranquillamente quando innumerevoli esseri umani soffrono e muoiono di fame?», disse
Wojtyla il 17 marzo in occasione della Quaresima del 1996. Egli definì la fame crescente del Sud del mondo
«il grande scandalo del nostro tempo». Ancora più esplicitamente, il 22 marzo 1996, in un discorso alla
Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, egli precisò che «la prosperità e la crescita sociali non possono
realizzarsi a detrimento delle persone e dei popoli. Se il liberalismo e ogni altro sistema economico non
privilegia i possessori di capitali e non fa del lavoro che uno strumento di produzione, esso diventa fonte di
gravi ingiustizie. La concorrenza legittima, che stimola la vita economica, non deve andare contro il diritto
primordiale di ogni uomo ad avere un lavoro che possa farlo vivere con la sua famiglia. Perché, come una
società potrebbe essere giudicata ricca se nel suo seno numerose persone mancassero del necessario vitale?
Finché un essere umano sarà ferito e sfigurato dalla povertà, è in certa maniera tutta la società che ne sarà
ferita».
II 24 marzo 1996 l'apostrofe riguardò la «cultura del dominio» che nutre il capitalismo producendo «un uso
distorto della natura» fino a pregiudicare gli equilibri ecologici senza arrestarsi nemmeno dinanzi alla
minaccia del disastro. Ma la critica papale non lasciò indenne nemmeno uno dei dogmi neoliberali:
«Purtroppo ancor oggi non manca», disse a Colle Val d'Elsa, il 30 marzo 1996, «chi crede che la più ampia
libertà di mercato, favorendo l'iniziativa e la crescita economica, si traduca automaticamente in ricchezza per
tutti. Ma la storia e la realtà sotto i nostri occhi mostrano che non è così. Assistiamo anzi a momenti di
espansione produttiva che, a motivo dell'innovazione tecnologica, si accompagnano ad un aumento di disoccupazione e relativo disagio sociale».
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L'imparzialità della Santa Sede in questione.
Per alcuni anni la preoccupazione istituzionale di Agostino Casaroli fu di mettere d'accordo
l'intransigentismo politicoreligioso di Karol Wojtyla con la cultura della mediazione adottata dalla Santa Sede in questo secolo, e più compiutamente, dopo che il Concilio aveva autorizzato il dialogo della Chiesa con
i valori della modernità. Una impresa del genere non era del tutto facile, soprattutto quando l'uso del pedale
missionario diventava incontenibile nella condotta papale e rischiava di innescare crisi politiche nei rapporti
con i governi. Un timore del genere dovette toccare soglie allarmanti durante il viaggio papale in Polonia nel
1984, quando il cardinale segretario di Stato dovette adoperarsi per contenere la contestazione di Giovanni
Paolo n alla politica del generale Jaruzelski, al quale sarebbe stato difficile negare qualche merito nel
salvataggio del paese dall'invasione sovietica. Secondo Casaroli, la linea maestra della politica vaticana
doveva continuare a ispirarsi all'imparzialità e al nonallineamento: «ciò non vuoi dire», precisò il cardinale in
un discorso al Corpo diplomatico nel 1989, «mettere sullo stesso piano il bene e il male, il giusto e l'ingiusto,
la ragione e il torto, ma non lasciarsi guidare da idee preconcette da simpatie o antipatie, da esigenze
ideologiche e da altro di simile».
Bisognava ammettere che l'imparzialità era non di rado un ideale più che un programma possibile in un
tempo in cui la forza percussiva del Papa polacco sulla piramide sovietica rischiava di sovrapporsi
obiettivamente alle campagne di Ronald Reagan contro «l'impero del male», le quali facevano leva per
demolirlo sull'aumento degli armamenti (in modo da dissanguare l'economia sovietica nella competizione) e
simmetricamente sulla potenza religiosa del papato, a sostegno di Solidarnosc.
La politica vaticana apparve in più occasioni oscillante, nello sforzo di mantenersi in equilibrio. Ci fu un
momento in cui le opposizioni cristiane all'apartheid in Sud Africa ebbero l'impressione di non essere più
sostenute dalla Santa Sede come un tempo.
In Centro America, l'arcivescovo Oscar Romero di San Salvador aveva più di un motivo per rammaricarsi
della freddezza con cui erano state ricevute le sue ragioni dal Papa, prima di cadere assassinato sotto i colpi
di un commando di destra nel 1980. E anche i sei gesuiti uccisi dieci anni dopo in Salvador non erano affatto
entusiasti della revisione a cui si trovava esposta in Segreteria di Stato la linea della Chiesa dei poveri,
benché fosse stata approvata a Puebla dall'episcopato dell'America Latina. Al contrario, sembrava che
l'arcivescovo di Managua, Obando y Bravo, insignito della porpora di cardinale, avesse ogni motivo di
soddisfazione per l'appoggio assicuratogli dalla Santa Sede nella battaglia intrapresa contro il regime
sandinista in Nicaragua. Nemmeno il timore di confondere la Chiesa con gli interessi della Casa Bianca, che
alimentavano la controrivoluzione ar
mata, impedì a Giovanni Paolo n di denunciare pubblicamente la «Chiesa popolare» e di esigere
l'estromissione dei pretiministri dalla giunta rivoluzionaria. «Usted tiene a reglar su posicio con la Iglesia»,
intimò il Papa al poetaprete Ernesto Cardenal, ministro nicaraguense della Cultura, inginocchiato ai suoi
piedi sulla pista dell'aeroporto di Managua, il 3 marzo 1983.
Era evidente che ciò che maggiormente disturbava la visione pontificia era il timore della politicizzazione del
clero e dei religiosi e quella particolare forma di impegno che poteva tradursi nella solidarietà con i
movimenti comunisti. La «Chiesa dei poveri» era presente in lui come categoria religiosa, nei limiti della
dottrina sociale della Chiesa, attenta a non farsi utilizzare dai compromessi «ideologici».
Questo paradigma, tipico della cultura intransigente, forniva la chiave di volta delle coperture che durante
questo pontificato hanno consentito ai proseliti dell'Opus Dei e di Comunione e Liberazione di presentarsi
come emissari autorizzati dalla politica papale in molti paesi del mondo, specie in quelli latinoamericani nei
quali la teologia della liberazione aveva le adesioni di importanti settori gerarchici, come in Brasile e in Perù.
Accantonare la teologia liberatoria di Gustavo Gutierrez e di Leonardo Bof f diventava indispensabile per
contenere le tendenze di una parte significativa della Chiesa latinoamericana a imprimere una connotazione
sociale al processo di democratizzazione del continente, destinato a prendere il posto dei regimi di sicurezza
nazionale degli anni Settanta. Giovanni Paolo n voleva impedire che la Chiesa funzionasse come fonte di
sostituzione delle ideologie rivoluzionarie di ispirazione marxista, per quanto minoritarie nell'emisfero
americano, e dedicò ogni sforzo per ricondurre sia la teologia della liberazione sia le organizzazioni dei
religiosi nei binari segnati dalla politica centrale della Chiesa, con l'aiuto del capo della Congregazione della
Dottrina, cardinale Josef Ratzinger.
Durante il viaggio di ritorno in Nicaragua, nel febbraio 1996, dopo la vittoria di Violeta Chamorro e la
sconfitta dei sandinisti, il papa non fece alcun mistero sulla sua convinzione che «la caduta del comunismo
ha comportato la caduta della teologia della liberazione, che non rappresenta più un problema». In una sola
frase, per quanto semplificatoria egli affermava contro le smentite di molti teologi latinoamericani, che la
teologia della liberazione era stata legata non solo per metodo col marxismo, ma anche ideologicamente e
politicamente col comunismo.
Non si poteva ignorare il fatto che, per quanto obbedissero ad interessi interni dell'ortodossia ecclesiastica,
queste ingiunzioni venivano a corrispondere obiettivamente agli scopi definiti fin negli anni Settanta dal
rapporto Rockefeller, redatto per la presidenza repubblicana degli USA. In quel documento era lanciato
l'allarme per gli orientamenti rivoluzionari del clero cattolico in America Latina e si
proponevano adeguate contromisure per ridurre la pressione della Chiesa cattolica, un tempo considerata un
ovvio pilastro del sistema dominante nel continente.
Lo scenario negli anni Ottanta era tanto più complicato per il fatto che, mentre il Vaticano sacrificava agli
interessi dominanti la teologia della liberazione, il sistema non esitava ad investirlo sul piano religioso,
foraggiando l'insediamento e lo sviluppo di una enorme quantità di sette evangeliche ad alto tasso di
spiritualismo metafisico nei luoghi più critici della dipendenza di massa.
Per tamponare l'emorragia dei fedeli, in un'area dove la Chiesa romana manteneva una consistente pratica
religiosa del popolo, il papato decise di rincorrere la destra sul suo stesso terreno: gli episcopati più avanzati,
brasiliano e peruviano, si trovarono «riequilibrati» con una serie di nomine episcopali orientate
romanamente, mentre il programma papale della «Nuova Evangelizzazione» definiva il nuovo equilibrio
della Chiesa al centro del conflitto sociale, in un ruolo religioso di mediazione, e assai meno come parte
schierata coi poveri.
Come fu sostenuto alla Conferenza dei vescovi latinoamericani a Santo Domingo, nel 1992, «l'opzione
preferenziale» della Chiesa non doveva rivolgersi solo ai poveri, ma anche alle classi medie e alle culture.
Ciò al termine di un decennio nel quale le politiche di aggiustamento imposte dal Fondo monetario
internazionale ai governi democratici dell'America Latina avevano determinato un sensibile peggioramento
della situazione sociale, portando la popolazione sotto la soglia della povertà da 112 milioni a 184 milioni di
persone.
Questa linea di contenimento moderato emerse nella politica vaticana anche in altri scacchieri, con brusche
oscillazioni, dovute per lo più alle «libere uscite» del magistero personale di Wojtyla.
La questione della pace e della guerra mise in scena le contraddizioni più significative. Nel 1982 il Vaticano
intervenne in senso prudenziale sui vescovi americani, che avevano messo in cantiere la prima bozza di una
lettera pastorale fortemente critica sulla politica riarmista di Reagan. Essi avevano progettato di ricusare ogni
giustificazione morale alla deterrenza nucleare.
Giovanni Paolo II in linea di principio non poteva che essere d'accordo. Tuttavia si rendeva conto che questo
profetismo avrebbe molto probabilmente prestato una cauzione morale alla destabilizzazione dell'Occidente
nei confronti dei sovietici, fornendo loro una ragione retorica in più per rallentare la propria disfatta
ideologica e politica. Se la Casa Bianca puntava sull'effetto economico disastroso che i sovietici avrebbero
subito a causa del dispiegamento degli euromissili, la Chiesa avrebbe potuto disinnescare moralmente questo
deterrente? Di qui la decisione del Vaticano di intervenire sui vescovi americani al fine di consigliare loro di
moderare le punte del loro documento, adattandolo alle teorie classiche della «guerra giusta». Ci
volle un apposito simposio in Vaticano dei delegati dei vescovi atlantici — francesi, tedeschi, inglesi,
italiani, belgi, olandesi e canadesi — sotto la guida di Ratzinger, per persuadere i loro colleghi degli Stati
Uniti ad ammettere, in certi casi, la necessità della deterrenza, prima definita «immorale». Nella stessa
direzione andava una lettera del Papa, portata da Casaroli alla sessione speciale delle Nazioni Unite a New
York sul disarmo, il 7 giugno 1982. Pochi mesi più tardi venivano avviati i negoziati per l'apertura delle
relazioni diplomatiche tra gli Stati Uniti e la Santa Sede, formalizzate nel gennaio del 1984. Il riserbo
vaticano verso la potenza egemone giunse al punto che le conclusioni di un Simposio della Pontificia Accademia delle Scienze sul progetto dì scudo spaziale non videro mai la luce. Alcuni anni più tardi l'accordo
fra Wojtyla e Reagan sarebbe stato presentato come «un vero patto di unità di azione» per il coordinamento
delle pressioni, strategiche, politiche e religiose, mirate ad abbattere la piramide sovietica. In Vaticano si
risponderà che, più che di una nuova Santa Alleanza, non si trattava che della simmetria fra scelte strategiche
convergenti, benché autonome. Qualunque fosse la verosimiglianza di queste ricostruzioni, è un fatto che,
una volta liquidato il comunismo europeo, la condotta di Giovanni Paolo n apparve tutt'altro che appiattita
sugli interessi americani. Nel gennaio 1991 egli si oppose con forza alla guerra del Golfo, presentandola
come «avventura senza ritorno e declino dell'umanità». Contro l'opinione sostenuta dal blocco occidentale,
coadiuvato da un potente fuoco di sbarramento degli intellettuali organici e dei mass media, il Papa indicò la
razionalità di percorsi negoziali e politici per un corretto e proficuo approccio ai problemi mediorientali. Egli
si attirò le critiche dei filomilitaristi per aver suggerito di accettare il linkage, tra la questione del Kuwait da
liberare e la questione della patria palestinese, e di convocare una conferenza sul Medio Oriente a cui
invitare i rappresentanti dei palestinesi. Il governo degli Stati Uniti capeggiato dal presidente George Bush
sottolineò a tal punto la propria disapprovazione da negare alla Santa Sede l'informazione sull'apertura del
fuoco su Baghdad mentre le relazioni fra Santa Sede e Israele toccarono il punto più basso della loro storia
tormentata. Benché importanti strati di opinione pubblica, in Occidente e nei paesi arabi, manifestassero a
favore del Papa, la Santa Sede ebbe l'impressione di trovarsi isolata rispetto alle sue tradizionali alleanze
occidentali. In effetti essa si trovò esclusa dagli inviti alla Conferenza di Madrid.
Tuttavia l'intransigenza papale non tardò ad ottenere una rivalsa storica più rapida del previsto: la
Conferenza che il Papa aveva incoraggiato fu effettivamente istituita, il linkage con la questione pale
stinese fu accettato e le previsioni del Papa si avverarono puntualmente. Secondo il bilancio provvisorio
redatto dalla Civiltà Cattolica: «il Kuwait è stato liberato, ma è uscito distrutto dalla guerra ed è tornato al
precedente regime autoritario; l'Iraq, da paese tecnologicamente abbastanza avanzato, è stato riportato
indietro nel tempo, ma Saddam Hussein è ancora saldamente al potere e il popolo iracheno, nonostante le
terribili sofferenze a causa dell'embargo, si stringe intorno a lui. La Conferenza di Pace per il Medio Oriente
[...] non va avanti, soprattutto per l'opposizione israeliana a ogni regolamento della questione palestinese che
comporti l'abbandono dei territori occupati».
Di fatto, le cose presero un nuovo corso con il Patto di Washington adottato il 13 settembre 1993 dal
presidente del governo israeliano Yitzhak Rabin e dal capo dell'oLP Yasser Arafat sulla autonomia di Gaza e
di Gerico in Cisgiordania, e sulla cooperazione israelopalestinese nei programmi economici e di sviluppo,
dopo quarantanni di guerra.
L'intervento papale nella guerra del Golfo ha aperto un nuovo spiraglio sull'orientamento complessivo della
politica vaticana. Non solo la Santa Sede ha dato prova di non essere disposta ad oliare i paradigmi del
«nuovo ordine mondiale» confezionati a Washington per il dopo guerra fredda, ma ha anche suggerito il
diverso orizzonte nel quale si collocavano le proprie preoccupazioni principali. Riprendendo le posizioni
definite dal Papa, i patriarchi e i vescovi cattolici del Medio Oriente, convocati in Vaticano il 4 marzo 1991,
affermarono in un comunicato che, nella guerra del Golfo, «non è da vedersi né un conflitto tra Oriente e
Occidente, né tanto meno un conflitto tra Isiam e Cristianesimo». Il 5 marzo giunse in Vaticano il messaggio
del segretario generale dell'Organizzazione della Conferenza Islamica, Hamid Algarid, un segnale senza
precedenti dall'Isiam al Papa di Roma. «Il mondo musulmano», scriveva Algadir, «segue con grande
considerazione gli sforzi che Voi non cessate di intraprendere nel senso di un contributo concreto della
Chiesa cristiana all'instaurazione della pace in Medio Oriente e al consolidamento del dialogo
islamocristiano».
La questione islamica aveva infatti assunto la priorità nell'agenda di Giovanni Paolo n dopo il collasso della
piramide sovietica.
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L'ecumenismo tripolare.
Alcuni mesi prima della guerra del Golfo, Giovanni Paolo n chiamò nel suo studio monsignor Pietro
Rossano, vescovo ausiliare di Roma per la cultura, universalmente conosciuto come il miglior esperto vaticano di religioni non cristiane. Impressionato dalla notizia che l'I
slam aveva realizzato il sorpasso del cattolicesimo per quantità di seguaci, gli chiese di tenergli un corso
privato di alcune lezioni sull'Isiam e di indicargli i modi più convenienti per sviluppare il dialogo con una
religione seguita da oltre un miliardo di persone, abitanti prevalentemente il meridione della Terra. Il Papa
era convinto che, con la diaspora delle testate nucleari sovietiche nel Sud mondiale, specialmente nei paesi a
maggioranza islamica si sarebbero riuniti alcuni fattori di instabilità senza eguali in alcune regioni del
mondo: l'alto tasso di crescita della popolazione, l'aumento della povertà, una fede religiosa unificante e ad
elevata intensità e, ora, la bomba atomica. Una miscela esplosiva che consigliava di valutare la criticità ,
politicoreligiosa di quelle aree come il nuovo baricentro della scena internazionale, tanto più valutando
l'espansione in corso delle minoranze fondamentaliste.
Rossano era un convinto fautore del dialogo tra Ebrei, cristiani e musulmani, ma non taceva il suo
pessimismo: «difficile arrivare a conciliare volti così diversi di Dio quali appaiono mediante Mosè, Gesù e
Maometto e le loro differenti modalità di intervenire nella storia. Ma anche il modo di concepire l'uomo, lo
stato, i diritti umani, il dialogo, gli Altri appare diversissimo, malgrado il fondo comune e i valori spirituali
che si condividono». Il consiglio di Rossano al Papa era che il dialogo andava sviluppato «sulle cose e sui
valori, più che sulle differenze religiose», tenendo conto «della irriducibilità del mondo islamico agli schemi
del pensiero e del diritto occidentale riguardo alla libertà religiosa, della loro ostilità alla missione cristiana e
ad una libera presenza di comunità cristiane nei loro paesi».
D'altra parte, era saggio prendere in considerazione il fatto nuovo che i musulmani avevano «preso coscienza
della loro forza demografica ed economica, e della debolezza religiosa e spirituale dell'Europa, a paragone
della compattezza e autosufficienza della loro religione».
A questi dati, altri se ne dovevano associare simmetricamente: l'espansione più consistente del cattolicesimo
veniva registrata fuori delle sue aree storiche e centrali d'Europa, in Africa, in America Latina e in alcune
aree asiatiche come l'India, la Corea, l'Indonesia, al punto che i sociologhi avevano calcolato per il 2000 un
cattolicesimo in maggioranza dislocato nel Sud mondiale e precisamente nelle regioni a più alto sviluppo
islamico.
La decisione del Papa di sganciarsi dalla guerra del Golfo era la conclusione logica di questa analisi. «Non
può esserci una guerra santa», si affrettò a precisare il Papa. «I valori di adorazione, di fraternità e di pace,
che derivano dalla fede in Dio, inducono all'incontro e al dialogo.» Egli temeva che la guerra avrebbe
risospinto l'Isiam sulla via dell'odio antioccidentale, ridando fiato all'integrali
smo islamico. Il ponte del dialogo fra cristiani e musulmani, appena iniziato, avrebbe riportato danni
considerevoli e le istituzioni cristiane, la cui presenza in Medio Oriente diveniva ogni giorno più fragile,
sarebbero state costrette al soffocamento. Al contrario, la Chiesa cattolica, ma anche l'Occidente, avrebbero
avuto da guadagnare da una opzione più lungimirante e complessiva.
In ogni caso, Giovanni Paolo 11 ritenne che la congiuntura dovesse essere usata per proporre il papato
romano come ponte religioso tra l'Occidente e l'Isiam, i fronti che si erano combattuti lungo i secoli.
Occorreva una voce che, dal cuore dell'Occidente, raccogliesse l'eco molteplice delle stagioni feconde in cui
i cristiani e musulmani avevano accordato fedi e culture per creare il meglio della civiltà apparso sotto i cieli
d'Europa. Occorreva un'Istituzione che, solidale nel bene come nel male con la storia complessa
dell'Occidente, facesse prova di tale universalità da tenere chiusi i demoni delle Crociate, sempre in agguato,
e puntasse tutta l'autorità spirituale di cui era capace sulle risorse del dialogo con l'Isiam, senza sottintesi
egemonici.
Questa mediazione sembrava a Wojtyla tanto più indispensabile osservando la rotta di collisione tra la
razionalità strumentale del Nord, col suo sistema economico, e il potenziale religioso del Sud, col suo
progetto di islamizzare la modernità.
Di una cosa egli era sicuro: l'incontro tra cristiani; ebrei e musulmani non era solo una necessità teologica,
ma anche, al tempo stesso, un fatto di civiltà. E non poteva che svolgersi nello scenario di una città, la Città
tre volte Santa, prevista allo scopo da millenni: Gerusalemme. Di là passava il percorso obbligato non solo
della pace mediorientale, ma anche dell'equilibrio epocale tra Nord e Sud. Precisamente la Città che le tre
religioni si erano contesa e spartita nei secoli sarebbe dovuta emergere, in questa prospettiva, come Città dell'Incontro.
Il sogno di Giovanni Paolo n si scontrava col fatto che, dal 1980, Gerusalemme era stata annessa da Israele e
dichiarata capitale dello Stato, in qualche modo secolarizzata. Inoltre, i rapporti con Israele erano insabbiati
sulla preclusione vaticana a stabilire relazioni diplomatiche con quel governo.
Le condizioni che la Santa Sede avanzava per sciogliere queste difficoltà erano tre: la questione dei diritti
nazionali dei Palestinesi da riconoscere, la questione dello statuto internazionale di Gerusalemme come Città
Santa per le tre religioni monoteiste e, infine, le difficoltà che la Chiesa cattolica incontrava in Israele e nei
territori occupati. Almeno due di queste condizioni erano considerate non negoziabili da Israele: il fatto che
Gerusalemme fosse irrevocabilmente capitale del suo Stato e che non fosse divisa nuovamente. Quanto al
conflitto araboisraeliano in quella fase non ne sembrava generalmente vicina la conclusione.
Di fronte a un tale immobilismo, il Vaticano accrebbe il proprio in
tcresse per l'avvicinamento ai paesi arabi. I rapporti diplomatici con gli Stati islamici, conobbero una
notevole espansione negli anni Ottanta, fino a toccare, nel 198990, il tetto storico di 40 ambasciatori di stati
islamici o paesi a importante popolazione musulmana accre. ditati presso la Santa Sede e di 30 nunziature in
quegli stessi paesi.
Pochi ritennero di assegnare l'importanza che meritava all'incontro tra Giovanni Paolo n e re Hassan del
Marocco la sera del 2 aprile 1980 in Vaticano. Portavoce di un gran numero di paesi arabi, il re era venuto
dal Papa a trattare il futuro di Gerusalemme: «ci vuole una soluzione originale, uno slancio nuovo, un
approccio nuovo», rispose entusiasta il Papa. «Una soluzione prossima, definitiva, garantita e rispettosa dei
diritti di tutti: un atto insomma che traduca la fraternità più fondamentale.»
Giovanni Paolo li dava l'impressione di avere fretta. La sua strategia aveva un obiettivo ultimo —
l'ecumenismo tripolare del Tempio, della Moschea e del Santo Sepolcro a Gerusalemme — e uno intermedio: l'alleanza con l'Isiam per strappare statuti di libertà religiosa negli Stati islamici, dal Sudan all'Iran,
come primo fattore di antintegralismo e di laicità dello Stato in area islamica, almeno al modo ottenuto a suo
tempo da Ataturk in Turchia, e tuttavia rimesso in causa dagli integralisti.
Su questa via, Wojtyla riuscì a conseguire dei successi molto ridotti. Salvo che in Iraq e in Libia, le
istituzione cattoliche attraversavano un periodo più o meno pericoloso in tutti gli Stati islamici, nel Sudan
meridionale specialmente. Nel 1984 il Papa riuscì a concludere proprio con re Hassan un accordo che
garantiva alla Chiesa cattolica lo statuto giuridico. E fu proprio in Marocco che il Papa venne accolto nel
1985, per la prima volta, da un capo di Stato islamico e invitato a parlare a centomila giovani musulmani,
riuniti nello stadio di Casabianca.
Nell'aereo che lo riportava a Roma, Wojtyla rivelò ai giornalisti l'intesa in corso con parti significative
dell'Isiam a proposito di Gerusalemme: «i musulmani», disse, «sono convinti che Gerusalemme dovrebbe
avere uno statuto speciale. È la capitale delle tre religioni monoteiste e non dovrebbe essere solo la capitale
di Israele. Dovrebbe avere invece i caratteri di capitale religiosa. Questa è anche l'opinione della Santa
Sede». L'11 novembre 1987, al vertice di Amman della Lega Islamica, gli Stati islamici membri
concordarono all'unanimità di appoggiare il progetto dello statuto di Gerusalemme come corpus separatum,
enclave sacra con garanzie internazionali, che le Nazioni Unite nell'immediato dopoguerra avevano
escogitato e al quale la Santa Sede aveva aderito.
I successi con gli Arabi non potevano che aumentare la difficoltà del Vaticano con gli Israeliani. Le
molteplici udienze del Papa al leader dell'oLP Yasser Arafat confermavano che per la Santa Sede, e tanto più
per un Papa che aveva fatto del diritto delle nazioni un
punto fisso della sua costellazione politica, la patria palestinese rappresentava una condizione irrinunciabile
per mandare un nunzio in Israele in luogo del semplice delegato apostolico esistente.
La tensione con Israele era salita dopo l'udienza papale a Kurt Waldheim, la controversia sul convento di
Auschwitz e le visite mancate di Shamir in Vaticano. Solo il «lungo viaggio» di Giovanni Paolo II alla
Sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986, aveva introdotto una schiarita in una stagione così burrascosa. Nel
gennaio 1988, la nomina di un arabo palestinese, monsignor Michel Sabbah, per la sede patriarcale della
Chiesa latina di Gerusalemme, diede un altro colpo alle comunicazioni vaticanoisraeliane: era la prima volta
che un palestinese saliva alla più alta carica ecclesiastica fra i cristiani di Gerusalemme, e questo avveniva
mentre esplodeva l'intifada nei territori occupati.
La Santa Sede mostrò da allora di redistribuire il carico delle responsabilità degli interventi riconoscendo
sempre più spazio all'ordinario del luogo, Sabbah. Il metodo facilitava per la prima volta la distinzione tra
responsabilità pastorali e interventi politici. Il patriarca svolgeva una pastorale dell'intervento nel vivo della
tragedia lungo le linee classiche della non violenza, della denuncia dell'ingiustizia, della solidarietà con i
senza patria e senza tetto suoi compatrioti e della compassione. Il Vaticano lo copriva affermando che non
era possibile trascurare il fatto che la comunità cristiana in Terra Santa era costituita in larghissima
maggioranza da Arabi e subiva le stesse discriminazioni di cui soffriva la popolazione palestinese intera sotto
l'amministrazione israeliana. Tuttavia sempre più evidentemente andava emergendo l'interesse della Santa
Sede per gli sviluppi della «teologia della terra» nel dialogo ebraicocristiano e il motivo della simmetria tra i
diritti nazionali dei Palestinesi e i diritti allo Stato e alla sicurezza degli Israeliani.
Il fatto nuovo arrivò all'indomani del cessate il fuoco nei deserti del Kuwait, quando il Vaticano rese noto di
aver deciso un mutamento significativo della sua posizione. Giovanni Paolo n si era dovuto arrendere
dinnanzi al fatto che, con la vittoria alleata, il progetto arabovaticano su Gerusalemme si era allontanato nel
tempo. Egli era convinto che la città non poteva «continuare ad essere motivo di discordia e di discussione» e
aveva anzi fatto comunicare che egli non aspettava che il momento favorevole per andare pellegrino nella
Città Santa a pregare con i seguaci delle altre «religioni del libro». Il segretario dei Rapporti con gli Stati,
monsignor Jean Louis Tauran, dichiarò che la Santa Sede manteneva il principio del riconoscimento
internazionale per le istituzioni e comunità religiose di Gerusalemme, ma non insisteva ulteriormente sullo
statuto speciale.
Ciò significava che la Santa Sede abbandonava le posizioni internazionali, difese coerentemente dal 1949 in
poi, pur di sbloccare «laicamente» la situazione. Essa era pronta ad accettare la sovranità «relativa»
israeliana su Gerusalemme, in cambio di un sistema di garanzie internazionali per la difesa dei Luoghi Santi
e dei diritti delle comunità cristiane, musulmane ed ebraiche.
Il 29 luglio del 1992 una commissione vaticano israeliana ad alto livello cominciò a trattare in una sala del
palazzo apostolico in Vaticano i termini dell'istituzione delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Israele,
alle quali l'accordo di Washington del 1993 avrebbe offerto alcune facilitazioni, senza peraltro dissolvere
completamente le specifiche ragioni della prudenza vaticana di fronte all'interpretazione esclusivista che gli
Israeliani fornivano alla loro visione integrale della terra, della razza, della religione e dello Stato, elementi
considerati tra loro strettamente congiunti. Fu per personale decisione di Giovanni Paolo n che nel dicembre
1993 Santa Sede e Stato di Israele istituirono le relazioni diplomatiche, malgrado i nodi pendenti.
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La Santa Sede e le derive europee.
Nel novembre 1991, alcuni vescovi dell'Est fecero notare al Sinodo paneuropeo convocato da Giovanni
Paolo n che, con il collasso del comunismo, la Chiesa aveva perduto un nemico ma, paradossalmente, anche
una forma di sicurezza. Essi raccomandavano perciò di astenersi dal trionfalismo e di guardarsi dall'illusione
di servirsi delle prove subite come per una rendita di posizione, quasi immaginando la restaurazione del
passato remoto.
Ciò che stava avvenendo in Ungheria, in Cecoslovacchia e nella stessa Polonia ratificava ogni giorno la
previsione di Hugo Bogensberger, secondo il quale l'esistenza della Chiesa in una società democratica «è
ancora più difficile che in un sistema totalitariocomunista». I rapporti che affluivano sulla scrivania di papa
Wojtyla erano concordi nell'indicare che il problema più difficile per la Chiesa dell'Est era di definire il
proprio posto all'interno della società pluralista, che pure essa aveva contribuito in modo decisivo a forgiare,
con la sua opposizione al sistema totalitario. Si trattava per lei di scegliere fra un modello di presenza
finalizzata alla ripresa del dominio del sistema sociale e un modello per cui la Chiesa avrebbe accettato una
situazione di dialogo, di essere «una voce tra le altre e cercare di ottenere l'adesione all'ordine dei valori, e
non esigerla d'autorità».
Questa difficoltà non risparmiava né papa Woj tyla né la politica del Vaticano per l'Europa postcomunista.
Nel giugno 1991 Giovanni Paolo ii non seppe trattenere lo sdegno per l'approvazione parla
mentare assicurata alla legge sull'aborto in Polonia, con il concorso dei deputati di Solidarnosc, e deprecò
con accenti drammatici la deriva nichilista della società polacca, sotto la valanga del consumismo liberista.
Sempre più frequentemente egli additò il pericolo di una svendita indiscriminata all'Occidente dell'identità
culturale e spirituale dei popoli decolonizzati dell'Est. Dopo aver interpretato il crollo del Muro come la
prova della forza irresistibile dello spirito in azione nella storia, egli doveva ammettere il suo disagio
culturale, e il suo allarme, dinanzi agli effetti non voluti delle azioni che egli stesso aveva aiutato a venire
alla luce.
L'Est sembrava sfuggire, in certo modo, al Papa dell'Est. Probabilmente egli si aspettava che certi paesi
dell'Europa orientale esercitassero, in ragione delle prove attraversate sotto il comunismo, un ruolo trainante
e, anzi, messianico rispetto all'Europa complessa, in modo da opporre un argine alla laicizzazione e da
servire da avamposti per la rinascita dell'umanesimo europeo. Non era stata precisamente questa dottrina la
chiave di volta del suo conclave? Una certa, naturale tendenza a teologizzare artificialmente le realtà storiche
lo aveva indotto a ridurre la considerazione di altri, molteplici e pastosi fattori che avevano concorso a
determinare lo sviluppo delle cose a Mosca e dintorni e che difficilmente avrebbero potuto essere riferiti
direttamente all'azione della Provvidenza o a quella del Papa.
Una valutazione più proporzionata del processo fu suggerita dal cardinale Agostino Casaroli e mantenuta
finché, alla fine del 1990, egli non dovette cedere l'ufficio di segretario di Stato all'ex nunzio in Cile Angelo
Sodano. In un discorso all'Accademia Teologica di Cracovia, il 2 giugno 1990, Casaroli invitò a considerare,
tra le forze che avevano prodotto il collasso del comunismo, tanto l'azione sviluppata da Giovanni Paolo a,
particolarmente efficace in Polonia, quanto l'influsso esercitato dall'ostpolitik di Giovanni xxm e di Paolo vi,
con un'attenzione particolare al ruolo promozionale e di convinto sostegno svolto dalla Santa Sede perché la
Conferenza di Helsinki raggiungesse il suo scopo. «Ogni sforzo compiuto a favore di una maggiore libertà
della Chiesa con l'ostpolitik», disse calorosamente Casaroli, «venne intrapreso nella convinzione che esso
sarebbe stato, al tempo stesso, un servizio alla libertà dei popoli.» Né si sarebbe dovuto sottostimare —
continuò il cardinale — l'apporto di Mikhail Gorbaciov, «una voce di altissima autorevolezza, levatasi al
centro stesso del sistema, a denunciare il fallimento e a riconoscere l'urgenza di cambiare rotta e di risanare,
attraverso il ricorso alle vie democratiche, le ferite mortali arrecate ai popoli da una lunga dittatura». Al
momento di congedarsi da un posto nel quale aveva partecipato a 40 anni di politica internazionale, il
cardinale tornò a ribadire che l'opera di Gorbaciov doveva essere considerata «gigantesca». E citava in
particolare i meriti del protagonista della perestrojka per le garanzie procurate alle Chiese dalla legge sulla
libertà di coscienza
e sulle organizzazioni religiose, entrata in vigore il primo ottobre
1990.
La duplicità dei linguaggi si rifletteva nella diversità dei paradigmi politici a confronto al vertice della
Chiesa, in quel periodo. Pochi dirigenti politici in Occidente avevano saputo anticipare Wojtyla nell'intuire,
come lui, la serietà dell'azione di Gorbaciov al Cremlino e nell'assicurargli ogni credito. D'altra parte
nemmeno il Papa aveva potuto contare sull'adesione universale dei suoi cardinali quando aveva deciso, già
nel 1987, di assicurare a Gorbaciov la lealtà dei cattolici in Lituania e una politica moderata di Solidarnosc a
Varsavia in cambio di precise garanzie sulla libertà religiosa in URSS e sullo statuto legale dei grecocattolici
ucraini, dati per estinti da Stalin. L'accordo, sancito da Casaroli e Gorbaciov nel 1988 a Mosca, durante le
celebrazioni del Millennio del cristianesimo russo, aveva portato naturalmente allo straordinario vertice in
Vaticano tra Giovanni Paolo li e Gorbaciov, il primo dicembre 1989. Il clima era sostenuto dalla persuasione
che le trasformazioni avviate potevano essere governate dall'alto tanto più efficacemente se l'Occidente,
uscendo dalle perplessità, avesse fornito l'appoggio economico che Gorbaciov aveva invocato. Wojtyla si era
rivolto per l'occasione al leader sovietico come al simbolo di «tutti coloro che hanno a cuore le sorti
dell'umanità», affinchè «si uniscano in un comune impegno per la sua elevazione materiale e spirituale».
Meno di tre mesi più tardi, con una rapidità eccezionale per le sue tradizioni, la Santa Sede allacciava
relazioni diplomatiche con I'URSS. Ma non cedeva immediatamente alle pressioni baltiche per riaprire le
relazioni anche con quelle repubbliche, segno che intendeva sostenere il tentativo neofederalista di
Gorbaciov, per quanto le competeva. Tuttavia qualcosa della realtà, una volta scatenata, si rifiutava di
marciare sui binari prestabiliti. Il Papa, che aveva pur accettato di trattenere Solidarnosc in un quadro
responsabile, dopo averlo animato e protetto dalla morte civile, non sembrava riuscire a governare l'enorme
marasma delle Chiese dell'Est. Ondate di zelanti cattolici cominciarono a invadere con spirito missionario i
territori delle nuove catacombe, come se il cristianesimo non vi fosse arrivato da un millennio. In Ucraina
una serie di incidenti, di tumulti e di violenze fisiche segnava il conflitto esploso tra ortodossi e
grecocattolici sulla riassegnazione delle proprietà degli edifici del culto. La Santa Sede rivelò in quel periodo
una fretta sconcertante nel riprodurre rapporti diplomatici con i paesi ex comunisti, esponendosi all'obiezione
di mettere a repentaglio, nella nuova situazione favorevole, le risorse spirituali e le lezioni politiche maturate
in quella sfavorevole. Alcuni vescovi dell'Est, fra i quali quello di Praga Miloslav Vlk, fecero notare al
Sinodo paneuropeo di aver ricevuto «una grande liberazione interiore quando la persecuzione ci ha liberati
dai beni materiali. Es
sendo stati svuotati materialmente possiamo dire che siamo stati liberi anche sotto il comunismo». Egli
metteva in guardia il Vaticano dalle conseguenze di una linea «preoccupata dell'importanza del nostro
ruolo», la quale riproponeva nel nuovo scenario la vecchia figura politicodiplomatica della Chiesa, come se
niente fosse successo.
Anche le «ansietà per la Nuova Evangelizzazione» erano nel mirino della critica, così come un «ecumenismo
cattolico» anzitutto preoccupato degli interessi confessionali. La prova più eloquente di quanto un tale
pericolo fosse reale fu ciò che accadde in seguito alle nomine di vescovi e amministratori apostolici, tra cui
quello di Mosca, pubblicate da. L'Osservatore Romano il 13 aprile 1991, per il governo delle comunità
cattoliche in URSS senza previo avviso agli ortodossi.
La conseguenza di queste azioni febbrili fu una crisi violenta nei rapporti tra Vaticano e Chiesa russa. Non
tutte queste azioni erano volute. In parte erano solo tollerate ed erano più il risultato di ritardi teologici ed
ecumenici delle comunità cattoliche dell'Est, tagliate fuori dai venti delle riforme conciliari, che di
deliberazioni e orientamenti di Roma. Anzi, il Papa non cessava di incitare i cattolici orientali a sviluppare
spirito di dialogo e di pace con gli ortodossi. Direttive autorevoli in questa direzione furono concordate con il
Patriarcato di Mosca per tenere sotto controllo il ritorno alla visibilità degli uniati in Ucraina.
Malgrado questi sforzi, la Chiesa russa ebbe la sensazione che una politica del doppio binario spingesse la
Chiesa romana a profittare della situazione per erodere con una sorta di «neocolonialismo religioso», la sua
presenza religiosa nel territorio, sorprendendola in una fase di debolezza istituzionale gravissima, in seguito
alla fine dell'appoggio reciproco della Chiesa e dello Stato che durava da circa novecento anni. Le tensioni
religiose si sovrapponevano all'instabilità politica e alle pressioni nazionalistiche. Il clero russo più conservatore non esitava a indirizzare a Gorbaciov l'accusa di essersi sbilanciato in modo troppo affrettato a
favore del Papa di Roma; e ciò rendeva più arduo il compito del patriarca Alexei n di contenere le correnti
scismatiche conservatrici che serpeggiavano nella sua Chiesa. La questione dell'orientamento delle riforme,
se verso l'antico cuore slavo dell'Eurasia o piuttosto verso Occidente, coinvolse in modo drammatico i
rapporti ecclesiastici tra Mosca e Roma, incidendo sull'equilibrio precario che sosteneva Gorbaciov. In
questo clima si produsse il golpe di agosto, col fallimento del progetto neofederale di Unione e
l'estromissione di Gorbaciov dal Cremlino.
Giovanni Paolo n tentò di assorbire la crisi con la Chiesa russa al Sinodo paneuropeo, quantunque apparisse
disorientato dalla brusca precipitazione delle sue strategie per il postcomunismo. Il nuovo segretario di Stato,
cardinale Angelo Sodano, diede agli ortodossi le spiegazioni che la Santa Sede riteneva esaurienti. Tuttavia
non avrebbe potuto fondatamente misconoscere che la Chiesa
russa non era del tutto priva di ragioni se riteneva di essere stata raggiunta da un cambiamento
inequivocabile di linea. Infatti, anche nei periodi più pesanti della sovietizzazione, la Santa Sede non aveva
pensato di ingerirsi in modo concorrenziale in Russia danneggiando' quella Chiesa. Piuttosto, aveva
mantenuto in modo costante il sostegno alle Chiese sorelle, privilegiando le relazioni ecumeniche sui rapporti con i governi. Per non fare che un esempio, Giovanni xxm si era astenuto dal nominare un vescovo per
la comunità grecocattolica di Turchia, per evitare l'imbarazzo che ciò avrebbe procurato al patriarca
ecumenico Athenagora, in situazione difficile al Phanar. Quel pontefice aveva anzi assicurato ogni
informazione al patriarcato russo sui passi che andava facendo nel dialogo col Cremlino.
Ci vollero parecchi mesi di negoziati prima che lo stile del dialogo ecumenico tornasse a nutrire le relazioni
tra le due Chiese. La Santa Sede accettò l'autocritica e, dopo avere ottenuto di vedere accolti i suoi
chiarimenti, emanò una serie di direttive per regolare i comportamenti dei pastori cattolici nei confronti degli
ortodossi in Russia, al fine di rimuovere qualsiasi pericolo di proselitismo e persino di «zelo smoderato» e,
anzi, di sviluppare iniziative pastorali, caritative e sociali in comune. L'apertura più coraggiosa riguardava gli
edifici del culto, questione vessatissima, che il Vaticano autorizzava a concedere anche per i riti ortodossi,
fraternamente.
Sul piano politico, la risposta della Santa Sede alla dissoluzione delI'URSS e dintorni non sembrò distinguersi
per speciale originalità. Le relazioni diplomatiche con la Mosca di Gorbaciov divennero le relazioni con la
Mosca di Boris Eltsin, al quale furono spalancate subito le porte del Vaticano. I rapporti con gli Stati baltici
furono ripristinati. Non solo la Comunità degli Stati Indipendenti, ma anche Ucraina, Geòrgia, e man mano
altre Repubbliche ex sovietiche indipendenti stipularono legami diplomatici a catena con la Santa Sede.
Nel dicembre 1991, mentre la bandiera rossa stava per essere ammainata al Cremlino dove sventolava dal
1917, e l'Europa assisteva impotente alle stragi e alle deportazioni di massa nei Balcani, il Papa di Roma si
congedava dal Sinodo sull'Europa con un discorso pervaso di delusione e di pessimismo.
Alle prese con il riemergere della questione nazionale in Europa, la Santa Sede doveva scontare una certa
perplessità della sua riflessione e una limitata capacità di manovra, dinnanzi all'orrore che cresceva in quella
che era stata la Federazione Iugoslava. Facendosi trascinare nel corto circuito delle frammentazioni nazionali
— che l'esperienza dell'Europa fra le due guerre sembrava aver riservato agli archivi — la Santa Sede si
affrettò a procedere il 13 gennaio 1992 al riconoscimento delle Repubbliche di Croazia e di Slovenia, prima
ancora che vi provvedessero la CEE O altri soggetti di diritto internazionale. Con la stessa urgenza fu rilasciato
il riconoscimento vaticano alla BosniaErzegovina nel pieno dell'attacco serbo dell'agosto.
Il Vaticano ritenne necessario allontanarsi per l'occasione da una tradizione consolidata che lo aveva
orientato in passato a rispettare il principio di non procedere al riconoscimento di uno Stato o di nuove
frontiere di Stati se non in presenza di atti significativi e sufficienti della Comunità Internazionale che
avessero provveduto a consacrarne formalmente la legittimità. Per non fare che qualche esempio, c'era voluto
oltre un anno perché la Santa Sede si decidesse a riconoscere lo Stato slovacco del 1939, che pure aveva
come presidente un prelato, monsignor Jozef Tiso. E il riconoscimento era potuto avvenire solo dopo che la
nuova repubblica era stata riconosciuta dai principali governi europei, inclusa PURSS di Stalin. Non meno
prudente era apparsa la Santa Sede prima di procedere al riconoscimento delle frontiere postbelliche tra
Polonia e Germania sull'OderNeisse, finché non fosse sopraggiunto il Trattato di Pace a stabilirle.
Considerando una tale consuetudine, non restava che vagliare la consistenza dei motivi di un'eccezione che
rischiava di ripresentare la Chiesa come fonte di legittimazione politica e di immischiarla nei conflitti
nazionali, piuttosto che confermarla nel suo ruolo istituzionale, semmai, di moderatrice pastorale dei
medesimi.
La dottrina nazionale cattolica, che sembrava alimentare questa politica vaticana, aveva già ricevuto dai papi
Benedetto xv e Pio xi gli impulsi teorici e politici per un'evoluzione che, passando per la dottrina
internazionale cristiana di Pio xu, era arrivata a fondare il superamento dello Stato Nazione con la Pacem in
Terris di papa Roncalli e le tesi da lui sostenute sulla edificazione consensuale di un'autorità mondiale.
Senza negare questi sviluppi, la Santa Sede fece alcuni sforzi in varie sedi europee per chiarire che il suo
appoggio alle nuove nazioni non aveva nulla a che vedere con un nazionalismo sul quale manifestava la sua
condanna. Al contrario essa assicurava di aver steso la sua protezione giuridica unicamente per contribuire a
tutelare quelle repubbliche dall'oppressione dei loro diritti, minacciati dalle forze dell'esercito serbo. In ogni
caso la Santa Sede faceva sapere di essere decisa a difendere, come in passato, il principio
dell'autodeterminazione dei popoli e, in particolar modo, il diritto delle minoranze, un diritto che veniva
basato su due principi fondamentali: «da un lato, rispettare la dignità collettiva in quanto minoranza
nazionale e, dall'altro, riconoscere l'unità del genere umano».
Questa posizione era stata sostenuta dal rappresentante della Santa Sede alla riunione di Ginevra della CSCE il
2 luglio 1991, mentre infuriava l'attacco della Grande Serbia alla Croazia: «ogni membro di una minoranza
deve sapere», aveva sottolineato monsignor Justo Mullor Garcia, «che il futuro e lo sviluppo della sua
comunità non consiste nel rinchiudersi in se stessa per paura dell'estraneo, ma nel' l'accogliere chi è diverso.
L'interdipendenza è oggi, in Europa, il percorso obbligato se non si vogliono vedere rinascere le condizioni
che anche in questo secolo hanno fatto dell'Europa il continente dell'odio e dell'orrore».
In un successivo intervento alla riunione di Mosca della Conferenza sulla «dimensione umana» della CSCE, il
13 settembre 1991, il segretario per i Rapporti con gli Stati monsignor Tauran aveva insistito nel valutare la
vicenda iugoslava «una gravissima violazione della lettera e dello spirito del processo di Helsinki». Dopo la
Riunione di Vienna e la Carta di Parigi, aveva ribadito il prelato, «non si può tollerare che popoli europei si
facciano ciò che si può definire "una guerra' '[...]. L'Europa di oggi e di domani deve essere un continente in
cui la guerra è impossibile». La Santa Sede non cessava di richiamarsi ai dieci principi dell'Atto finale di
Helsinki, la cui filosofia — faceva notare — era stata quella di affermare che, d'ora in avanti, in Europa, «la
forza e l'oppressione non sono più i mezzi migliori per risolvere i problemi politici e sociali».
Si moltiplicarono, con gli appelli pontifici, le pressioni vaticane per chiamare sulla scena devastata dei
Balcani la CSCE, quando era visibile che gli altri non erano sufficientemente disposti ad appoggiare in modo
concorde un intervento per arrestare il processo di disgregazione. Sul Vaticano si scaricarono le accuse dei
Serbi, il cui governo affermò di considerarlo responsabile, in solido con la Germania, di aver provocato la
dissoluzione di uno Stato sovrano. Il patriarca ortodosso di Belgrado, Pavle, accusò a sua volta il Papa di
Roma di «ostinarsi a considerare i Balcani, abitati in maggioranza da popoli di religione ortodossa, come
terra di missione». In Occidente non ci si asteneva, nei circoli diplomatici, di rilevare ancora una volta, la
dissociazione della Santa Sede dalle strategie seguite da Washington per l'equilibrio nei Balcani, e il
convinto filoeuropeismo del papato, che andava prodigandosi in una situazione incerta per favorire lo
sviluppo di un'Europa come autonomo soggetto politico sulla scena internazionale, una volta sgombrata dalle
opposte egemonie dei blocchi del mondo bipolare. Sebbene il parallelismo tra strategia vaticana e interessi
pangermanici potesse contare su elementi obiettivi, pure era chiaro che il papato era anzitutto preoccupato di
procurare alla nuova Europa, in una congiuntura storica del suo destino, una caratterizzazione umanistica
coerente con le sue «radici cristiane», premessa indispensabile per
differenziare l'Europa dai programmi di espansione economicomilitare di altri giganti mondiali e in
particolare dalle prese strategiche, se non addirittura carolinge, dell'alleato d'Oltre Atlantico. Il Papa non si
stancava di indicare che, solo se fosse riuscito a riattingere alle risorse spirituali delle origini, il Vecchio
Continente avrebbe potuto purgarsi dei propri demoni e svolgere un proprio ruolo specifico sulla scena
mondiale.
In Vaticano non ci si asteneva dall'invitare a riflettere sull'importanza anche politica dell'alleanza umanistica
proposta da Giovanni Paolo II fra correnti culturali diversamente orientate, allo scopo di emancipare l'Europa,
ridivenuta «complessa», anche dall'egemonia dei modelli americani e dai loro dispositivi strategici. Senza
indulgere ad un paradigma dialettico, la Santa Sede era orientata a suscitare le condizioni effettive affinchè
l'Europa, ricca della propria identità multiforme, diventasse un cantiere delle libertà e delle solidarietà, dei
diritti umani e della democrazia economica, di accoglienza e di stabilità per il mondo. In questa prospettiva
andavano situati gli elementi di insoddisfazione che trasparivano in Vaticano per i limiti strutturali del
Trattato di Maastricht, che aveva disegnato per mano dei 12 un volto dell'Europa «del capitale», ancora
limitato al «polmone occidentale».
Era grandioso l'orizzonte nel quale il Vaticano invitava a valutare la decisione di precorrere o seguire di
pochissimo sia la CEE che la Germania ed ogni altro Stato nel riconoscere l'indipendenza croata e slovena:
non era solo questione di coerenza con la dottrina pontificia dei diritti umani e con la omogenea Carta di
Helsinki. Si trattava anzitutto di imprimere il sigillo dell'«Europa dello spirito» sui primi Stati sorti
nell'Europa del postcomunismo. In ogni caso la Santa Sede si assicurava l'arrivo, in una scena europea a
marcato profilo laico, di due nuovi Stati a dominante tradizione cattolica. Sarebbe stato problematico
supporre in quel tempo che gli sviluppi politici in Croazia e Slovenia corrispondessero in pieno all'ideale
schema adottato dal Vaticano sulla funzione naturalmente democratica dell'idea di nazione. Al contrario, il
ritorno in scena di personaggi compromessi col fascismo, i successi elettorali delle destre, l'emergere di tendenze oligarchiche e di orientamenti neoliberisti in economia, accanto al dilagare d'una cultura populista e
d'un clericalismo nazionalistico revanchista, lasciavano pochi dubbi sull'attendibilità delle tesi contrarie,
enunciate negli anni Venti da Nìcolaj Berdiaiev, esule a Parigi dalla Mosca rivoluzionaria. Il filosofo
spiritualista russo aveva ricordato, sulla soglia delle bufere nazionalistiche europee, che «il nazionalismo
funziona per l'egemonia di una minoranza dominatrice, privilegiata, e più precisamente per le classi dei
proprietari». Egli aveva invitato ad analizzare il fatto che «si fa appello al tutto nazionale per soffocare le
classi più deboli» con la conseguenza che «il nazionalismo sfocia nel rafforzamento idolatrico dello Stato
sovrano,
in una ostilità feroce verso le altre nazionalità. Reclama sempre uno Stato forte e tiene più allo Stato che alla
cultura del popolo, creando nuove forme di potere». Berdiaiev aveva concluso esprimendo il timore che «il
nazionalismo si risolva nella perdita della specificità nazionale, oltre che in distruzione dell'universale. Si
potrebbe piuttosto contribuire a risolvere la questione nazionale sopprimendo l'idea della sovranità degli stati
nazionali».
Ancora una volta, era sul piano spirituale e in quello ecclesiale che gli sforzi pontifici dovevano lamentare la
maggiore carenza. In un'area multireligiosa, distribuita tra Serbiortodossi (41%), cattolici (32%) e
musulmani (11%) le religioni erano in prima linea, soggetti insieme attivi e passivi della disfatta del
dispositivo federale allestito da Tito, il solo nella storia balcanica che avesse accettato il riconoscimento delle
nazionalità del tessuto interstatale jugoslavo, sia pure coi limiti ideologici del sistema del tempo. Ancora
contuse dagli odi feroci della seconda guerra mondiale, la Chiesa ortodossa serba e quella cattolica,
maggioritaria in Croazia e Slovenia, subivano gli effetti di una scarsa ospitalità ecumenica e di carenze
teologiche prolungate. Ognuna rinchiusa nella cerchia del proprio piccolo mondo, esse non avevano potuto
rielaborare nei decenni l'eredità criminale del recente passato bellico, né infrangere le proprie autosufficienze
in un abbraccio di pace liberatorio e collettivo. Per questo esse trovarono impossibile, nella nuova
emergenza, assumere la testa di una generale mobilitazione riconciliatrice fra i popoli. Questo deficit religioso ed ecumenico non lasciava che alla politica vaticana il compito di un'iniziativa alla quale veniva a
mancare l'indispensabile consenso interreligioso nella regione e dunque la possibilità di una propria specifica
forza. Era in certo modo fatale che questo movimento a spirale — nel quale il politico era chiamato a
supplire il religioso — si concludesse con un'efficacia quasi soltanto retorica delle sollecitudini vaticane nei
diversi fori europei.
Vista l'inutilità dei ricorsi alla CSCE e vani gli appelli papali all'ecumenismo, il cardinale Sodano annunciò
nell'agosto 1992 l'appoggio del Papa al principio del dirittodovere di ingerenza umanitaria, da riconoscere
agli Stati europei e alle Nazioni Unite, «per disarmare qualcuno che vuole uccidere». «Non si tratta di
favorire la guerra, ma di impedirla», aggiunse il segretario di Stato, alludendo al piano della «pulizia etnica»
perseguito dai Serbi in BosniaErzegovina, abitata da un «tappeto» di gruppi etnici e religiosi.
Di fronte al persistere di interpretazioni ambigue, che assegnavano alla Santa Sede un'opzione bellicista o,
quanto meno, orientata a giustificare il ricorso alle armi, il Vaticano intervenne alla riunione di Stoccolma
della CSCE, nel dicembre 1992, per precisare che il ricorso alla forza doveva essere soltanto «protettivo e
dissuasivo» — «non è la guerra!» — e che, prima di qualsiasi decisione al riguardo, era indispensabile
«valutare la proporzione tra i rischi inevitabili e il fine che ci si propone».
Lo stesso principio venne ripreso da Giovanni Paolo n in un contesto più ampio per legittimare dal punto di
vista dell'etica l'intervento di forze internazionali in Somalia, nelle stesse settimane: «La coscienza
dell'umanità, ormai sostenuta dalle disposizioni del diritto internazionale umanitario», disse il Papa in
un'allocuzione alla Conferenza della FAO sull'alimentazione, «domanda che sia resa obbligatoria l'ingerenza
umanitaria nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di interi popoli e gruppi etnici:
si tratta di un dovere per le nazioni e la comunità internazionale».
Giovanni Paolo II decise in quei giorni di lanciare un estremo segnale di pace: un pellegrinaggio ad Assisi il
10 gennaio 1993 con Ebrei, musulmani, ortodossi, per intercedere la pace in BosniaErzegovina. Il fallimento
delle iniziative svolte sul piano politico, di fronte alla compattezza e alla vischiosità della realpolitik nel
mondo monopolare, aveva convinto il Papa a giocare nuovamente la carta del linguaggio puramente religioso
nello scenario inquietante dell'Europa postcomunista.
Peraltro sarebbe stato difficile trascurare che, di fronte alla sfida lanciata dai nazionalismi, le opzioni
politiche della Santa Sede non erano completamente esenti dalla responsabilità storica propria delle religioni
e delle Chiese cristiane di non aver saputo assumere criticamente, sul piano propriamente religioso, le
dinamiche nazionalistiche, ispirando intenti di pace e di riconciliazione al loro interno.
Del resto, il dubbio al riguardo è stato avanzato dallo stesso Giovanni Paolo II. Infatti nel corso del primo
incontro di Assisi per la pace in Europa egli ha detto: «Ciascuna nazione ha diritto all'autodeterminazione
come comunità. Si tratta di un diritto che si può realizzare sia mediante una propria sovranità politica, sia
mediante una federazione o confederazione con altre nazioni. Poteva essere salvata l'una o l'altra modalità tra
le nazioni della ex Jugoslavia? È difficile escluderlo. Tuttavia, la guerra che si è scatenata sembra aver
allontanato una simile possibilità».
Alla preghiera di Assisi, le assenze degli ortodossi, in particolare del Patriarca Ecumenico Bartolomeo i e del
Patriarca di Belgrado Pavle
— per quanto fossero stati caldamente invitati — riaprirono la questione circa la dimissione
dell'ecumenismo, di fatto, a istanza di secondo grado rispetto a quella politicodiplomatica. Erano in molti a
sollecitare la Chiesa romana ad impegnare ogni attenzione per prò, muovere atti di riconciliazione maturi fra
cattolici, ortodossi, musulmani in Jugoslavia, dando vita ad un tentativo religioso di mobilitazione popolare
per intercettare la pretesa inesorabilità prima dello sfaldamento della Federazione a colpi di secessione, poi
del conflitto interetnico. La prova che questa era una via praticabile fu data nel dicembre 1992 dall'iniziativa
del movimento «Beati i costruttori di pace», che in cinquecento raggiunsero dall'Italia Sarajevo, inermi, per
offrire un seme di riconciliazione ad una città colpita dalle conseguenze più mostruose della «pulizia etnica».
La Santa Sede non aveva mancato di produrre appelli e deplorazioni per Pesplosione del conflitto interetnico.
Ma pur astraendo qui da ogni valutazione su quello che è stato definito «l'alibi umanitario» resta il dato che
la voce pontificia si trovava ormai a risuonare dopo che la Santa Sede aveva preso parte per le nazioni
secessioniste a maggioranza cattolica: era fatale che questo «partito preso» mettesse in corto circuito la
possibilità di far accettare agli uni e agli altri il senso della sua battaglia per i diritti umani, la protezione delle
minoranze e l'autodeterminazione dei popoli.
Del resto, il Papa non si limitò ad Assisi a sollevare i propri dubbi sulla strategia adottata dal suo staff prima
ancora che la Jugoslavia diventasse la ex Jugoslavia. Egli introdusse anche un principio metodologico per il
dialogo interreligioso, in un discorso alla massiccia delegazione della Comunità Islamica: «Ciascuno accetta
l'altro com'è, e lo rispetta come fratello e sorella nella comune umanità e nelle personali convinzioni. Le
differenze che ci separano rimangono [...]. Soltanto nella mutua accettazione dell'altro e nel conseguente
mutuo rispetto, reso più profondo dall'amore, risiede il segreto di un'umanità finalmente riconciliata, di
un'Europa degna della sua vera vocazione».
Soltanto nel settembre 1993 la crisi con gli ortodossi parve effettivamente superata, allorché una delegazione
del Patriarcato di Mosca fu presente alla visita del papa nei Paesi Baltici. Un accordo era stato adottato, nel
giugno precedente, alla riunione di Balamand, in Libano, della Commissione della Chiesa cattolica e delle
Chiese ortodosse su gran parte delle questioni più disputate, tra cui quelle del proselitismo e dell'uniatismo.
Nel settembre 1994 il papa si accinse ad un viaggio a Sarajevo, per condividere direttamente l'insicurezza
della città assediata dai serbi. Ma dovette rinunciare al progetto anche per lo scarso entusiasmo con cui la
Segreteria di Stato lo sosteneva.
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Tra senso e potenza.
Allo stato delle informazioni, l'esame della politica internazionale della Santa Sede nel tempo di Giovanni
Paolo n porta ad alcune conclusioni, sia pure provvisorie, data la criticità e imprevedibilità delle
trasformazioni in corso. Si può osservare anzitutto che, nel mondo «unipolare» sorto, secondo alcuni, sul
naufragio del sistema comunista in Europa, la Chiesa cattolica continua a esercitare un ruolo di erosione
critica anche nei confronti delle tendenze materialistiche e dei pericoli totalitari emergenti nelle democrazie
liberali. La Chiesa aveva saputo custodire e produrre il relativo, nella lotta alle pretese monocratiche del
comunismo. Contestandone l'ideologia su un punto essenziale — il crollo degli spiriti — aveva creato le
premesse basilari del risveglio democratico all'Est.
Dopo il crollo del Muro, la Chiesa non abbandona il compito di tener vivo un processo di differenziazione
analogo per rapporto all'Occidente. Si può prevedere che un'opzione come questa — caratteristica del
magistero sociale di Wojtyla — porterà la Chiesa a misurarsi sempre più direttamente sul terreno politico.
Essa mostra di essere decisa a ridefinire ancora una volta i limiti del politico del nuovo ordine mondiale per
ricondurli sul terreno dell'etica. Tuttavia quest'impresa critica è più difficile nelle società plurali e secolari
dell'Occidente di quanto non fosse nelle società totalitarie di segno sovietico.
È su questo terreno che la Chiesa attraversa una fase di incertezza. In una società pluralista essa può essere
accettata, ed è spesso benvenuta, come agenzia di valori attiva nel pubblico, per concorrere con altre voci al
dibattito etico. Questo atteggiamento è ritenuto dalla cultura del Concilio più coerente con la missione
cristiana, che è di ispirare, e non più di fondare il legame sociale. Quando questo si è verificato, come in
Polonia, dei dubbi si sono affacciati sull'idoneità della Chiesa ad accettare in modo indivisibile le condizioni
proprie della società democratica.
Un altro punto critico riguarda l'interventismo della Chiesa nella politica internazionale. Si è notato che più
si moltiplica, nel mondo complesso e interdipendente, la necessità di mediazioni e trattative, unica alternativa
possibile al dominio della guerra, più emerge l'utilità di un soggetto giuridico spirituale come la Santa Sede,
di sua natura portata alla mediazione «petrina». Essa agisce già — ha notato Margiotta Broglio — «come
elemento positivo delle interazioni cooperative tra Stati ed è per sua natura in grado di mobilitare la capacità
di un sistema di controllare e mitigare conflitti». Se si valuta poi l'importanza crescente della cultura nelle
relazioni internazionali, a causa delle dinamiche delle comunicazioni, delle migrazioni e degli interscambi,
ne consegue un argomento ulteriore a favore della Chiesa come forza «culturale», data la sua attenzione al
rispetto delle
identità dei popoli, al di là dei calcoli delle convenienze politiche ed economiche.
È nel campo dei diritti umani che la Chiesa ha soprattutto riabilitato la sua politica. Una «terra incognita»
prima dei pontificati di Paolo vi e di Giovanni Paolo n, che l'ha obbligata a confrontarsi con un ordine di
procedure, problemi e sfide talora assai diverse da quelle abituali alla diplomazia vaticana. La necessità di
reagire rapidamente a processi politici a loro volta rapidi, tumultuosi e a carattere globale — anche se i
conflitti inizialmente rivestono tutti carattere regionale — ha comportato per la Santa Sede vaste innovazioni
di comportamento e di metodo, ma altresì ripensamenti di principio. Non sono mancate apprensioni per il
rischio di una secolarizzazione eccessiva della missione della Chiesa, in seguito a premure troppo spinte
nell'immediato, fino a prendere parte nei conflitti, come nel cataclisma jugoslavo. Analoghe preoccupazioni
sono emerse fra i teologi, per l'appiattimento del messaggio di fede ad una tavola eticopolitica, sia pure utile
a sbarrare il passo al nichilismo montante e fornire valori per il riordinamento civile planetario.
Il ripensamento principale riguarda lo statuto teologico della politica della Chiesa. Essa considera ormai le
questioni del destino storico dell'uomo, le lotte per i diritti umani, per la giustizia e la pace, dimensioni
costitutive della salvezza religiosa e capitoli integranti la missione della Chiesa. Questa evoluzione rende
difficilmente proponibile, nei suoi termini tradizionali, la differenziazione classica tra «papato religioso» e
«papato politico». Mediante un dispositivo del genere la diplomazia vaticana, la cui sopravvivenza era stata
motivo di perplessità all'epoca del Concilio, ha creduto di guadagnare una nuova giustificazione per lavorare
in un mondo in cui «il senso accusa un ritardo sulla potenza». Le sue relazioni diplomatiche hanno
conosciuto un'estensione senza precedenti e i suoi interventi, nell'ordine dei princìpi eticopolitici e sul piano
pratico, un'intensità e ampiezza sorprendenti.
Si può dire che l'azione della Chiesa sul piano internazionale ricopra ormai le dimensioni del pianeta, al di là
dei confini del suo universalismo confessionale. L'uscita dai vincoli del bipolarismo sem
bra averle restituito una libertà di azione maggiore di quella inevitabilmente condizionata, in passato, dalle
solidarietà obiettive con il campo occidentale. L'obiettivo dichiarato di tanto attivismo è di gettare il peso
morale della Chiesa, riconosciuto universalmente, sul piatto del Senso, in modo da equilibrare quello
soverchiato dalla Potenza. La Chiesa, secondo alcune opinioni, tenterebbe in questo modo di dare il cambio
alle ideologie «laiche» della salvezza ritenute allo stremo.
Ma l'analisi indica che non sempre lo sviluppo della presenza della Chiesa e dei suoi interventi nel politico si
traduce, per sé solo, in un segnale indiscusso del Senso, valido universalmente. La diplomazia vaticana si
affida, per l'efficacia, ai suoi ormeggi spirituali, ma oscilla a sua volta tra l'intransigenza dell'obiezione
papale alla realpolitik degli Occidentali nella guerra del Golfo, e le «astuzie fortunate» con cui agisce per la
salvaguardia degli interessi istituzionali del religioso.
Opzioni e comportamenti riflettono la duplice dinamica dell'o//argamento e della restrizione. L'esperienza ha
insegnato che la massiccia estensione della rete diplomatica vaticana all'Est dopo 1*89 non si è tradotta
ipsofacto in un guadagno di Senso e di universalità. Anzi, talora si sono verificati degli effetti nocivi non
solo per la figura religiosa, ma anche per la credibilità di quella politica della Chiesa. Si è dovuto osservare
che la precedenza delle premure nell'ordine politico su quelle nell'ordine ecumenico è stata almeno in parte la
causa della crisi esplosa nei rapporti tra Chiesa di Roma e Chiesa russa, e poi moderata.
Non vi è dubbio che il Senso fosse dalla parte dell'episcopato americano, deciso a criticare il riarmismo
reaganiano e a dichiarare «immorale» la deterrenza nucleare. Tuttavia il Vaticano, che teneva ad aprire
rapporti diplomatici con la massima potenza militare mondiale, e ad abbattere il comunismo sovietico, non
esitò ad imporre la sua logica restrittiva.
Un altro caso può essere individuato nel comportamento del Vaticano nella crisi dei Balcani. Anche in
questo, si può notare che, all'origine della politica vaticana, la preoccupazione diplomatica — il riconoscimento degli Stati croato e sloveno — ha preceduto la preoccupazione ecumenica e, anzi, l'ha inibita.
Erano in molti a proporre alla Chiesa romana di impegnare ogni energia per promuovere degli atti di
riconciliazione fra cattolici, ortodossi, musulmani, dando vita così ad un tentativo religioso di mobilitazione
popolare per intercettare la spirale del conflitto in Jugoslavia. La Santa Sede si è affrettata a «prendere parte»
restrittivamente per le nazioni a maggioranza cattolica, e si può temere che questo «partito preso» abbia
messo in corto circuito la possibilità di far accettare agli uni e agli altri il Senso della sua battaglia per i diritti
umani. Le mediazioni tra Senso e Potenza si fanno più complesse ed ambivalenti ogni volta che la Chiesa
abbandona le «sacre neutralità» e si sporca nei conflitti.
Non mancano fra i cattolici coloro che temono gli effetti «costant iniani» del nuovo pragmatismo militante
vaticano, proprio sugli interessi della Chiesa a medio e lungo termine: quelli che vantaggi immediati
inducono troppo affrettatamente a ritenere «allargamenti» potrebbero in realtà rivelarsi una perdita secca, se
non uno scialo teologale, se a subire restrizioni è il piano che più dovrebbe imporsi nella Chiesa, quello del
senso evangelico e della sua profezia.
La Santa Sede si è trovata politicamente isolata in seguito all'obiezione pontificia alla guerra del Golfo, al
punto che ha dedicato ogni premura per riagganciare i consensi smarriti. Difficile predire se giovi più agli
interessi lunghi della Chiesa — al suo «andare al largo» — la restrizione nell'ordine della realpolitik o
l'allargamento nella «profezia» del Senso. È fuori dubbio che l'abbandono della posizione «sacra» sullo
statuto separato di Gerusalemme ha aperto alla Santa Sede nuovi margini di manovra in Medio Oriente, una
boccata d'aria per i suoi interessi istituzionali in asfissia. Ma è problematico immaginare se le concessioni
fatte alla laicità di Gerusalemme, capitale di uno Stato, non ricadranno come un boomerang sul Senso di una
Città tre volte Santa.
Intransigentismo e realpolitik si mescolano come in un gioco di specchi nella politica della Chiesa, che resta
pur sempre un riflesso mutevole del problema del suo stare al mondo. Wojtyla dice che solo la preghiera può
salvare la pace, ma con nessuno dei suoi predecessori, forse dai tempi di Bonifacio vm, la Chiesa aveva
conseguito una figura politica più pervasiva. Il problema non è più definibile sui profili in parte obsoleti del
«potere costantiniano», ma sulla densità critica degli allargamenti del potere spirituale e morale della Chiesa
oggi, rispetto allo status quo dei sistemi di potenza nel mondo.
La Centesimus annus può essere citata come il modello metodologico aggiornato della strategia forgiata dal
Papa per un allargamento del Senso nell'epicentro della potenza moderna, il Mercato. Prendendo le distanze
da questa Potenza, il papato ha rivelato i modi nei quali intende riesprimere la propria influenza in Occidente
e ottenere una rielaborazione del quadro delle sue alleanze «di civiltà». Il Vaticano non ha fatto mistero di
non ritrovarsi con la tesi della «glaciazione unipolare» e della «apoteosi del capitalismo», come immancabile
effetto del collasso sovietico e persino come «fine della storia».
Il mondo che si osserva dalla cupola di San Pietro è troppo complesso, ambivalente, rilassato e irriducibile
per farsi interpretare da schemi così univoci e piramidali. La ricchezza e la potenza sono più diffuse che dieci
o vent'anni fa, e sul piano strettamente economico, tecnologico, commerciale e finanziario si nota volentieri
dai Palazzi apostolici l'emergere di una pluralità di soggetti, egualmente ramificati nell'universo, ma affatto
interessati a totalizzare il controllo di tutti i forni nei quali si ripartisce la potenza nel sistema multipolare.
Civiltà Cattolica ha parlato di «realismo della complessità». Dissolta
la «potenza totale» URSS, indebolita la «locomotiva» degli USA per recessione, brillano nel firmamento di
questo fine del xx secolo la Germania, il Giappone e la Cina, stelle di una «costellazione complessa». Non
c'è più posto, secondo la rivista dei gesuiti italiani, per una Super Nova che concentri potenze economica,
politica, militare, nucleare, tecnologica, demografica in un monstrum globale. Appena gli Stati Uniti hanno
tentato una mossa del genere, con la guerra del Golfo, la realtà li ha costretti a riflettere sulla saggezza del
vecchio proverbio: «il calzolaio ha le scarpe rotte». L'allargamento del Senso è ciò che il papato sta tentando
di fare nello scenario Nord/Sud. Ed è qui che lo scontro con i grandi interessi politici, strategici, economici si
è tradotto più chiaramente in un testa a testa tra il Senso e la Potenza. Ogni volta che il Vaticano ha preso
posizione sul debito estero, sul consumismo dei «pochi con molto» contro l'impoverimento e la condanna a
morte dei «molti con poco», il Senso ha integrato la Chiesa come istituzione ponte tra Nord e Sud. Questa
proiezione verso Sud, che i viaggi papali in Africa e in America Latina hanno così frequentemente incarnato,
appare del resto come l'effetto necessario d'un processo che va incidendo profondamente i tradizionali assetti
eurocentrici della Chiesa, con riflessi inevitabili sulla sua politica internazionale.
I cattolici abitanti nel Sud erano il 51% nel 1970, secondo stime di Walbhert Bùhlmann. Nel 1980 erano già
il 58% e nel 2000 saranno il 70%. Secondo dati del demografo Gabriel Mare, nel 2000 i cattolici occidentali
saranno 346 milioni e nonoccidentali 954 milioni: un rapporto tra il 36% e 64%. Più di due terzi dei membri
della Chiesa cattolica appartengono già ora alle Chiese del Sud mondiale. La sola Chiesa cattolica in Africa
galoppa verso i 300 milioni di seguaci, al ritmo di due milioni e mezzo di battezzati l'anno, ciò che ha già
triplicato gli effettivi del cattolicesimo africano negli ultimi 25 anni.
II Vaticano ha speso grandi energie per governare un processo tanto vertiginoso di meridionalizzazione della
Chiesa. L'operazione del Catechismo universale va letta in quest'ottica. Essa permette di discernere le
preoccupazioni vaticane per assicurare l'unità di una stessa visione mentre il centro di gravita della Chiesa si
allontana dai suoi bacini storici, suscitando le richieste di maggiori autonomie delle Chiese un tempo
periferiche.
Così è andata in scena una nuova puntata dell'interazione tra allargamento e restrizione. Il papato si muove
sul fronte Sud come vessillifero dei diritti umani degli impoveriti, ma applica una linea di con
tenimento moderato sulle pressioni identitarie delle Chiese «dei poveri» e «dei neri». Il Concilio africano è
stato contenuto in una camicia papale, la teologia della liberazione criticata, e il movimento della «Chiesa dei
poveri», uscito vincente dalle Conferenze latinoamericane di Medellin e Puebla, si è trovato inquadrato nelle
opzioni strategiche adottate in quella di Santo Domingo, nel '92, meglio rispondente alla funzione politica
stabilizzatrice che la Chiesa si assegna in quel continente. In pochi casi come in quello dell'America Latina il
Vaticano aveva a disposizione altrettante forze del Senso per la Chiesa futura, dal martirio di Oscar Romero
a quello dei gesuiti salvadoregni, dalle Comunità di Base al profetismo di moltitudini di catechisti, religiosi,
suore, preti e vescovi schierati per la difesa dei deboli. Eppure, ha preferito i tracciati «realisti» disegnati
sulle mappe delYOpus Dei e della Congregazione per la Dottrina.
Non può mancare il riferimento alla sfida più vistosa che la Chiesa sta affrontando, quella dell'Isiam. Il
sorpasso effettuato dall'Isiam con oltre un miliardo di seguaci, sul cattolicesimo come religione più seguita
del mondo, ha indotto il Vaticano a rivedere un atteggiamento di sufficienza, se non di sottovalutazione del
fenomeno. In passato l'approccio privilegiato era meno quello del dialogo interreligioso, per sua natura
improbo tra queste fedi, che quello del rapporto politicodiplomatico. L'allargamento è stato assicurato, in
questo caso, dalla politica, mediante le relazioni diplomatiche intrattenute dalla Santa Sede con i paesi a
maggioranza islamica e, anzi, con Stati islamici. Su questo piano «improprio» cattolicesimo e islamismo
nutrono rapporti che sarebbero stati storicamente difficili, per non dire impossibili, sul piano strettamente
religioso.
Ma è stato sufficientemente chiaro, lungo il regno di Wojtyla, che per questa via il dialogo non sarebbe
andato lontano. Occorreva ricominciare dalla «politica del Senso», possibilmente, per quanto il terreno fosse
accidentato dalla memoria delle Crociate e dai nuovi fanatismi. Di conseguenza la questione islamica si è
istallata fra le nuove variabili della politica della Chiesa. Per la prima volta patriarchi e vescovi di aree
prevalentemente islamiche, come il Medio Oriente e il Maghreb hanno avuto una propria voce in capitolo
nell'elaborazione di questa politica.
Non c'è dubbio che la premura per salvaguardare gli albori del dialogo islamocristiano abbia giocato un ruolo
preminente nelle opzioni pontificie contro la guerra del Golfo. Piuttosto che mettere a repentaglio i primi
tracciati di Senso, per quanto deboli, il Papa ha preferito relativizzare le alleanze con il fronte della Potenza.
Il risultato nell'immediato è stato la restrizione degli spazi della Chiesa fra le Potenze e il suo allargamento in
quelli del Senso. «Ho capito cos'è lo sfruttamento, e mi sono messo subito dalla parte dei poveri, diseredati,
oppressi, emarginati e indifesi», ha detto Giovanni Paolo n a La Stampa. «I potenti di questo mondo non
sempre guardano bene un Papa così. A volte lo guardano addirittura male anche per le questioni attinenti ai
princìpi morali.»
In pochi campi, come in questo, la politica della Chiesa è obbligata a guardare lontano, e a fare la fila
pazientemente. L'obiettivo per cui il papato lavora è l'adozione di statuti legali di libertà religiosa nei paesi
islamici. Dopo il naufragio del sistema comunista non si pongono più problemi di libertà religiosa all'Est.
Questi problemi si presentano invece a Sud, negli Stati islamici. E, come per l'Europa orientale, anche per la
libertà religiosa al Sud il Vaticano è orientato a un'esperienza simile a quella della Conferenza per la
Sicurezza e la Cooperazione in Europa, dove riuscì ad ottenere che i princìpi della libertà religiosa fossero
codificati.
Anche in Europa la politica vaticana è in riassestamento. Non c'è dubbio che l'Europa «senza confini» e «a
due polmoni» di Wojtyla non è una nozione considerata archiviata con P89. Al contrario, continua ad essere
attiva nelle operazioni e nelle visioni del papato, che non tace le sue delusioni per l'appiattimento
mercantilistico e occidentalistico dell'Europa di Maastricht e le impotenze europee nei Balcani in esplosione.
La visione vaticana dell'Europa nega di tendere ad un'Europa «vaticana». Del resto Giovanni Paolo 11 lo ha
escluso, nel discorso al Parlamento europeo di Strasburgo, e non si vede come non gli si potrebbe credere. Il
disagio nasce per l'ambivalenza del tema della restaurazione dell'Europa delle origini, che si affermano
troppo univocamente e integralmente «cristiane» mentre in ogni caso la tradizione della cultura
cattolicodemocratica europea è stata più sensibile alla questione di quale debba essere la presenza della
Chiesa nella società secolare per essere significativa pubblicamente, ma anzitutto per le coscienze.
Possiamo notare come la spinta all'allargamento, inclusa nel motivo dell'Europa «che respira a due polmoni»,
dall'Atlantico agli Urali, vasto e multiforme cantiere della complessità, interagisca con le dinamiche
restrittive di altri temi, ambigui come possono esserlo quelli dell'Europa cristiana e dell'Europa «delle
identità nazionali».
È solo un assaggio di quanto sia carica l'agenda politica della Chiesa per l'avvenire. Passati i venti delle
euforie per la «rivoluzione di velluto» nell'Europa centroorientale, nessuno dei campi nei quali la Chiesa è
presente, nel sistema delle relazioni internazionali, sembra lasciare i problemi negli stessi termini di prima.
Dopo essersi battuta per smantellare la piramide comunista, la Chiesa si trova a disagio col pluralismo delle
democrazie che ha aiutato a nascere. La fine del gregge sovietico è accettata per se stessa, ma sembra con più
difficoltà quando annuncia anche la «fine del gregge» di ogni apparato totalitario, incluso quello della
subalternità gerarchica, ove non rispettasse la dignità della coscienza dei fedeli. Il tema antiideologico, che
funziona perfettamente contro il marxismo sovietico, ha bisogno di altri e più compiuti strumenti critici
prima di penetrare l'individualismo liberale.
In ogni caso, come osservava il gesuita economista Luis Aleman alla Conferenza di Santo Domingo, uno
degli «impegni necessari» del prossimo avvenire per i cattolici richiede un approccio più serio alle questioni
dei «mali economici», che l'anticomunismo aveva finito per occultare. Ed è divenuto più difficile di prima
per la Santa Sede riuscire a rispecchiare in politica il senso universale dell'uomo, misurarsi con incisività coi
problemi reali dell'ordine/disordine strutturale e, dopo tutto, pretendere di mantenersi indenne dagli ingaggi
politici, evitando di pagare i prezzi dell'allargamento del Senso, così come quelli della sua restrizione
«realista», talora per mano della stessa
istituzione ecclesiastica.
Il papato ha cercato con Wojtyla una soluzione prevalentemente missionaria ai dilemmi dell'adattamento
polìtico. Tutto ben esaminato, resta confermata la convinzione che egli abbia puntato sul religioso per fare
politica. La cultura intransigente glielo consentiva. Quella cattolicodemocratica, da Maritain a Giovanni
Battista Montini, con qualche riserva. In ogni caso alcuni ammettono volentieri che questo papa ha lavorato
per fare del religioso un principio di riordinamento complessivo delle società, anzi un legame indissolubile
tra Nord e Sud e un fattore di Senso, talora anche a costo di mettere in tensione, con abitudini consolidate, le
stesse premure per l'allargamento della Potenza della sua Chiesa, che voleva restituire al centro del pubblico
e, possibilmente, del planetario.
Quando si esamina in modo panoràmico questo regno, all'ora del suo diciottesimo anno, riesce difficile però
evitare l'impressione che, al di là delle masse trionfanti che lo hanno circondato, egli si sia trovato
sostanzialmente isolato in Occidente, specie dopo la fine dell'avversario marxista, cioè allorché i legami
oggettivi con il campo residenziale e politico del papato si sono potuti allentare. Se l'Oriente sembrava in
parte sfuggire al primo Papa d'Oriente, anche le società secolari hanno dato l'impressione di applaudire il
cantante, per non ascoltarne la canzone: «A volte i potenti ci guardano male», ha detto Wojtyla, preoccupato
di ciò di cui avrebbe potuto evangelicamente rallegrarsi.
La causa dell'esilio della parola papale, quantunque tambureggiata agli angoli del pianeta dai mass media, è
molteplice. Ma va almeno accennato il fatto che la potenza della modernità non può essersi rallegrata di
vedersi rinfacciare da un Papa di aver smarrito il Senso del relativo, la forza della ragione, l'apertura
all'Altro, al Possibile, all'Utopico, gran parte insomma di ciò che aveva creato il mito dei Secoli dei Lumi. È
toccato ad un Papa slavo ricordare all'Occidente
che un trionfalismo troppo banale sul crollo del comunismo non poteva occultare le proprie crepe, le
impotenze del Senso e i deficit delle solidarietà sotto l'eccesso dei beni materiali che riesce a produrre.
Questo esilio s'imprime nell'agenda della Chiesa futura come una delle sfide più problematiche. Essa fonda
la previsione che il cristianesimo e il sistema dominante della potenza organizzata dal capitalismo mondiale,
escano dall'attuale coesistenza più o meno pacifica, per esprimere piuttosto e valorizzare i motivi di una
reciproca incompatibilità valoriale. In uno scenario del genere, le forze cristiane sarebbero presto o tardi
obbligate ad una scelta tra la funzionalità delle Chiese all'universo tecnologico del dominio planetario oppure
il loro passaggio all'opposizione, per servire la pluralità, le differenze culturali e i valori della dignità umana,
specialmente nei settori più oltraggiati della popolazione mondiale.
Una sfida come questa ha già cominciato ad interpellare la Chiesa in quanto soggetto politico. Tuttavia
alcune vicende del pontificato forse più «politico» del secolo sembrano autorizzare la conclusione che una
volta di più, i mezzi della Potenza politica non sembrano i più idonei alla produzione del Senso, anche in un
sistema simbolico come quello della Chiesa, né all'allargamento reale dell'universalità. Piuttosto, più validi
sarebbero gli umili, semplici e pazienti semi spirituali che la pace nelle terre sa suscitare nella comune
umanità, fuori dei circuiti della Potenza, politica o religiosa che sia. Di qui la problematicità della scelta del
papato venturo, tra un programma anzitutto inteso a moderare prudentemente la tensione emergente tra la
Chiesa e l'Impero «unipolare», e un progetto di più lungo respiro, inteso anzitutto a sostenere il cristianesimo
come forza criticoprofetica a servizio dell'umanità planetaria.
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CAPITOLO XVII.
Giovanni Paolo il: un bilancio ecclesiale.
Chi si aspettava una strategia riformatrice da Giovanni Paolo n non ha dovuto tardare troppo per ammettere
di essersi sbagliato. Ma anche le aspettative per una restaurazione pura e semplice della «fortezza cattolica»
si sono sentite deluse da un papa che venendo da terre lontane, ha dedicato il suo pontificato — con i viaggi
internazionali e un magistero a tutto campo — ad allargare lo spazio intorno alla Chiesa romana, a farla
uscire dai ristretti confini mentali, decisi dalla sua antica simbiosi culturale con l'Occidente, e a misurarsi con
nuove terrae incognitae, più larghe di quelle registrate nella mappa eurocentrica dell'ultimo Concilio
Ecumenico. Si può dire che, con questo papa, una nuova tensione si è trasmessa tra i poli simbolici più
antichi del servizio petrino: la
Pietra e la Nave.
Non si è trattato solo del primo papa non italiano dopo mezzo millennio, ma anzitutto di un papa uscito dal
mondo slavo, immerso nella tradizione cattolica ma a contatto con delicate frontiere come quella della
cristianità ortodossa russa é dell'ebraismo passato attraverso il fuoco tragico dell'Olocausto. Per la sua stessa
esperienza personale Karol Wojtyla poteva portare nel papato il cattolicesimo quale era stato segnato
incisivamente nel Novecento dalle due guerre mondiali, fino al vallo supremo scavato da Yalta con la cortina
di ferro nel cuore dell'Europa postbellica: una frattura epocale destinata a ferire non solo l'unità del Vecchio
Continente, ma anche la sua capacità di porsi da protagonista nel processo ricostruttivo della
società mondiale.
Nella sua elezione, Giovanni Paolo n dichiarò di vedere anzitutto il superamento di questa frattura storica
dell'Europa, un segno tangibile di quanto la Chiesa romana fosse consapevole della propria missione
universale, né intendesse farsi condizionare dai paradigmi geopolitici dominanti. Era un vescovo del
Concilio a sedere nella cattedra del vescovo di Roma, con l'impronta d'un pensiero conservatore unito ad una
maschera personale suggestiva e ad un dinamismo missionario potente, quello che lo avrebbe portato in
viaggio per oltre 160 paesi del mondo e a lavorare per far respirare l'Europa «coi suoi due polmoni».
Difficile proporre attualmente una sintesi definitiva di un pontificato così incisivo e multiforme: secondo
Andrea Riccardi, «Gio
vanni Paolo II ha assunto la complessità contemporanea, senza dimettere l'identità evangelica. I prossimi
anni», dice lo storico, «con un po' di distacco riveleranno quante dimensioni ricche abbia recepito il
cattolicesimo nel decennio trascorso».
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Una rilettura intransigente del Concilio.
Senza alcuna ambizione di completezza, potremmo appena suggerire alcuni possibili punti per un bilancio
provvisorio relativamente all'azione di questo papa nella vita della Chiesa romana. Una delle costanti del
pontificato è stata la proiezione della missione cristiana sul lungo periodo, attraverso il programma della
«nuova evangelizzazione» e il motivo del «terzo millennio». D'altra parte sono ricorsi, nello strumentario
pontificio, motivi tipici della cultura e del modello della cristianità, con la Chiesa cattolica proiettata in un
ruolo tanto più forte, centrale e visibile nella società mondiale quanto più marcato andava facendosi il
processo di secolarizzazione e più grave la crisi religiosa in Occidente.
Nel pontificato sono venuti a sovrapporsi, in tal modo, motivi palesemente controriformistici, tanto più
imbarazzanti dopo il ventennio dei mutamenti autorizzati dal concilio e da Paolo vi, accanto ad un
programma di generoso slancio missionario e di fervore politico planetario. Coadiuvato dal cardinale tedesco
Joseph Ratzinger, ex teologo dell'ala progressista al Concilio e suo elettore al Conclave, nominato nel 1981
prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Giovanni Paolo n ha provveduto ad una personale rilettura dell'eredità del Concilio Vaticano n. Egli ha lasciato al sistema curiale, oppresso da una serie di
pontificati sfavorevoli, l'opportunità di un recupero in alcuni campi, pur di mantenere il Concilio come
orizzonte autorevole di riferimento della Chiesa romana. A questo scopo egli si è avvalso direttamente del
contributo di movimenti di cattolici zelanti, riuniti sotto le sigle di Opus Dei e di Comunione e Liberazione,
come lui capaci di articolare massimalismo spirituale, attivismo esteriore, senso della potenza e capacità di
penetrazione spettacolare nella modernità.
Quando Giovanni Paolo n ha lanciato lo slogan «Aprite le porte a Cristo», il mondo, non solo cattolico, ebbe
subito l'impressione che il papato delle mediazioni, modellato dal Concilio e dalla cultura moderna di papa
Montini, fosse scosso dal papato della sfida.
Sul trono sembrò assidersi una nuova intransigenza, incline al modello d'una cristianità forte, quella tipizzata
dal nazionalcattolicesimo polacco, continuamente forgiata dal rapporto con forze ostili. Il «nemico» che
Giovanni Paolo n aveva dinanzi non era più l'eretico, o il pagano, e forse nemmeno il comunismo, in quanto
fattori in passato di «cultura nemica» per la Chiesa romana. Dinnanzi a Giovanni Paolo il «nemico»
principale era piuttosto l'ateismo dei consumi, la
laicizzazione come estremo prodotto della modernità, sia all'Est che
all'Ovest.
Il tempo in cui il papa polacco ha guidato la Chiesa era caratterizzato in Occidente dalla crisi del Senso, dalla
caduta delle tensioni ideali e ideologiche su larga scala, dal rifugio nei nidi del Privato senza più spinte alla
partecipazione e alla solidarietà, senza più «politica» nel senso autentico della parola. Sembrava anzi
consumarsi in quest'epoca la rottura dell'alleanza fra ceti medi e Chiesa: i ceti medi rifiutavano una cultura
spiritualista e si orientavano verso un sistema di vita privo di vincoli e di riferimenti all'etica tradizionale. Gli
obiettivi e gli stili dei nuovi ceti affluenti includevano il successo, il primato dell'Io, il desiderio, l'erotismo, il
danaro conquistato facilmente, il potere politico ed economico come mezzo di dominio a qualunque prezzo:
un sistema che non solo faceva tranquillamente a meno del cristianesimo, ma ne interrompeva la storia, salvo
a usare la Chiesa come medico del pronto soccorso per guarire le piaghe sociali del capitalismo in questa
fase «psichedelica» di deregulation.
Il papa reagiva a tutto questo. Il mondo gli si presentava pervaso da una pretesa malsana: il rifiuto a
sottostare ai valori religiosi, anzi ai valori come tali. La strategia della Chiesa subiva un profondo mutamento: se il «mondo» aveva deciso di sbarazzarsi di Dio, la Chiesa doveva cercare di creare spazi per
portarlo in pubblico, ad una società che lo ignorava programmaticamente, in modo da assicurargli significato
e visibilità.
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L'ecclesiocentrismo.
Giovanni Paolo n ha affermato più volte di sentirsi portatore di un'investitura «provvidenziale», come primo
papa slavo. Essa doveva riguardare non solo la salvezza «religiosa» ma anche quella materiale e storica
dell'umanità, nell'ora in cui si trovava minacciata nella sua stessa esistenza biologica dal disegno razionalista
e dal sistema di dominio scaturiti dai Lumi. Egli si è perciò impegnato a proporre una figura di Chiesa
capace di assumere un ruolo centrale nell'elaborazione di una lingua spirituale per l'universo unificato dalla
tecnica, ma diviso da fossati economici crescenti; una Chiesa fautrice di una convergenza etica intorno ai
valori, tale da rappresentare il principio di un riordinamento complessivo dell'ordine politico. Con Wojtyla la
Chiesa romana si è proposta come interprete privilegiata delle aspirazioni dell'umanità, fonte di
civilizzazione, portatrice di salvezza globale. Di qui la sua rimessa in vigore anche come soggetto politico,
sostenuto da una teologia politica in senso effusivo e globale, quasi a dettare una più vigorosa formula di
cristianità universale a fronte delle nuove formule laicizzate elaborate dalle religioni politiche «laiche»
nell'ultimo secolo all'ora del loro declino. Un programma del genere non poteva non investire criticamente la
modernità e la «idealizzazione chimerica della Ragione».
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La critica alla modernità
«La ragione ha preteso di costituirsi in sovrana, di darsi da sé la propria norma, invece che riceverla da una
obiettività trascendente e da una finalità originaria»: questa tesi, che postula una critica della modernità
databile alla cultura cattolica degli anni Cinquanta, approda alla conclusione che «la morte di Dio» implica
ineluttabilmente «la morte dell'uomo». Forte della sua esperienza polacca, Giovanni Paolo II ha ripetuto assai
spesso la medesima convinzione, ricavandone la conclusione che la cultura europea resta indissolubilmente
legata al cristianesimo.
Per altri settori cattolici, al contrario, la modernità non era all'origine anticristiana, anzi dei cristiani vi sono
stati operatori attivi e vigili, mentre il gioco delle tensioni fra fede e ragione ha finito per generare un misto
composito in cui l'una e l'altra sono evolute in una contaminazione reciproca incessante. Non era possibile
ricondurla ad un atteggiamento di rivalsa o di annessione come quello che poteva facilmente essere accusato
di ricadute clericalistiche, se non di nostalgia teocratica.
La critica antimoderna svolta da Giovanni Paolo n è stata analizzata con acume dalla sociologa parigina
Daniele HervieuLéger. Nel suo libro Verso un nuovo cristianesimo? l'autrice ha sostenuto che la critica
romana delle autonomie, politica, culturale, etica, religiosa, e la ricostruzione, a marce forzate, dell'unità
intellettuale, dottrinale e disciplinare del corpo ecclesiastico rientrano «in un movimento più ampio di
concentrazione cattolica».
Questa non deriverebbe tanto da una contemplazione nostalgica del passato quanto da «una coscienza viva
delle forze di dispersione che minano la Chiesa non solo dall'esterno, ma anche dall'interno, non solo dalla
periferia ma anche dal suo centro».
Dispersione culturale dei cristianesimi non occidentali, perdita di peso e disseminazione delle Chiese
d'Occidente, minate dagli effetti dell'esplosione soggettivista che qualifica le società postmoderne o a
modernità compiuta: il Vaticano sembrava in effetti scarsamente disposto ad accettare questa condizione
diasporica, che Karl Rahner indicava invece come il guado necessario del cristianesimo alla fine del
millennio. Secondo HervieuLéger è questa paura ad aver prodotto il ripiegamento neocentralista, il quale a
sua volta era talmente artificioso e autoritario da produrre rischi di scisma oggettivi nella Chiesa romana.
Tutt'altro era l'approccio del Concilio Vaticano u alla modernità e alla sua intrinseca valenza. Il programma
del Concilio esigeva non solo il dialogo della Chiesa con la modernità, ma anche e anzitutto un principio di
Chiesa come comunione, pellegrina nella storia, strumento provvisorio in vista del Regno, non già come fine
in se stessa.
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Un nuovo temporalismo?
Date le premesse era inevitabile che l'architettura fondamentale del modello ecclesiologico del Concilio si
trovasse fortemente turbata dal sisma polacco: non più il primato dell'«annuncio della fede», come compito
esclusivo della Chiesa, non più l'abbandono di privilegi e strumenti politici per la sua missione, bensì una
Chiesa impegnata in un ruolo eticosociale su scala planetaria, quasi risolvendo il secolo della crisi della sua
sovranità temporale mediante una nuova forma di sovranità innocenziana, sia pure di tipo
eticoumanisticosecolare. Al centro della visione di Giovanni Paolo n la questione «uomo» apparve tutt'uno
con l'annuncio della fede, la teologia con l'antropologia.
Ansioso di portare Roma fuori Roma, di fornire spazi pubblici all'universalismo cattolico nella modernità, il
papato non poteva non sacrificare quell'incipiente cristianesimo spirituale che aveva suggerito alla Chiesa del
Concilio la riscoperta delle fonti e la concentrazione suìl'unum necessarium, anche come risanamento
effettivo della crisi del cristianesimo contemporaneo.
La Chiesa si è ripresentata dunque come potenza salvatrice, dotata di tutti i mezzi per stare al mondo, dai
privilegi concordatari ad una compiuta dottrina sociale, dai satelliti televisivi alle piazze colme di folle. Non
più una Chiesa «serva e povera» bensì capace di interventi diretti sulla scena politica come suprema
consigliera, elaboratrice di valori, mediatrice di conflitti sociali. Piuttosto che una Chiesa schierata coi
poveri, una «mediatrice» fra le parti sociali, che sentiva il dovere di criticare il «capitalismo selvaggio» e di
dettare agli abbienti, con la Centesimus annus, i comportamenti necessari per far partecipare i non abbienti al
loro modello di sviluppo: una Chiesa pertanto tornata pienamente a essere soggetto politico, con più peso di
quanto ne avesse al tempo del Congresso di Vienna e della Santa Alleanza. Tuttavia alcuni settori cattolici
non hanno tardato ad allarmarsi per i rischi, anch'essi più gravi, di un simile programma: un nuovo presenzialismo, l'impegno sugli effetti più che sulle radici, il tentativo fondamentalista di dilatare lo spazio
religioso fino a pretendere di sostituire i processi propri della ragione, il pericolo conseguente di distogliere il
discorso cristiano dal circuito del discorso umano complessivo per ridursi ad una sorta di «fondamentalismo
dell'azione». Il cardinale Ratzinger presentava in un libro la formula politica del cattolicesimo in versione
wojtyliana. Egli rivendicava al Sacro un'autosufficienza anche politica, dinanzi alla quale le autonomie della
storia non potevano che evaporare: la Chiesa cattolica era considerata dal cardinale tedesco come l'unica
istituzione capace di risolvere pienamente la crisi di identità e di legittimazione della società
politica, mediante la dottrina etica di cui la Chiesa si voleva interprete privilegiata.
Tuttavia il progetto di Wojtyla era suscettibile di una lettura meno semplificatoria. La stessa analisi proposta
da HervieuLéger ammetteva che l'antimodernismo tradizionale della Chiesa cattolica si trasformava con
Giovanni Paolo n in «una critica postmoderna della modernità». Il papa non mirava ad opporsi all'avanzata
della modernità, quanto piuttosto a mettere in causa la distorsione tra le promesse secolari della Ragione
(scienza, tecnica, mercato...) e la realtà spesso catastrofica e comunque devastata dei rapporti umani, sociali e
internazionali.
La lotta per i diritti umani e la rimessa in questione delle evoluzioni conciliari erano dunque «due facce
inseparabili» di una medesima strategia: «Giovanni Paolo n che mobilita l'entusiasmo dei giovani attraverso
il mondo, il cardinale Ratzinger che condanna Leonardo Boff al silenzio o il cardinale Jeròme Hamer che
rimanda le carmelitane dietro le grate e le costituzioni del xvi secolo, non sono dei volti contraddittori del
cattolicesimo, ma le figure perfettamente coerenti d'uno stesso progetto: quello di porre la Chiesa agli
avamposti del superamento della modernità».
Un progetto molto più complesso di una semplice riattivazione delFantimodernismo preconciliare: quella che
poteva sembrare regressione suicida ai fedeli del Vaticano n sviluppava al contrario una strategia audace
intesa a rivalutare la posizione della Chiesa traendo vantaggio da una congiuntura di crisi. La Chiesa di
Giovanni Paolo 11 giocava la sua marginalità alla rovescia, come anticipazione profetica di un possibile
superamento della modernità. La critica cattolica alla modernità non cercava più la propria base nel Sillabo,
né copertura nella riproduzione stereotipa della Tradizione. Essa si dichiarava apostola della sopravvivenza
futura dell'umanità, minacciata di distruzione dai progressi della scienza e della tecnica, nonché dell'economia liberale, che erano viste un tempo come vettori della salvezza globale. La posizione del papa in
materia di etica sessuale, di disarmo e rapporti internazionali, di diritti umani, di rapporti tra soggetto e Stato,
di paradigma etico dell'economia, della politica e della scienza finiva per assumere la valenza di una
controutopia, senza per questo interrompere la continuità della linea dottrinale tradizionale della Chiesa.
Questa interpretazione trovava conforto in alcune opzioni del pontificato poco in armonia con le
preoccupazioni di certe componenti sociali del cattolicesimo per l'ordine passato: ad esempio, l'affermazione
della libertà di coscienza, la difesa della libertà religiosa, lo sviluppo del dialogo con le religioni mondiali, il
rovesciamento delle «strutture di peccato» dell'economia mondiale inegualitaria.
D'altra parte, Giovanni Paolo n aveva più di una ragione di lamentarsi che «i potenti di questo mondo non
sempre guardano bene un
Papa così. A volte lo guardano addirittura male anche per le questioni attinenti ai princìpi morali. Chiedono
la via libera, ad esempio, per l'aborto, per l'anticoncezione, per il divorzio [...]». Dal punto di vista che è
quello proprio della missione della Chiesa, il problema più importante, dopo quello della decisione di
combattere il male ovunque e da chiunque compiuto, era quello dei mezzi da adottare per questa missione.
Se il cristianesimo doveva uscire dallo spazio riservato del Sacro per sviluppare in pieno le sue ispirazioni
nella società moderna, con quali mezzi avrebbe dovuto svolgere il suo compito? Con l'inerme testimonianza
della carità e del sacrificio dei suoi proseliti, dispersi come lievito nella pasta e sale nella minestra del
mondo, oppure con la potenza del Sacro? Con l'annuncio profetico e liberatore del Vangelo oppure con i
privilegi dei Concordati, con la pretesa di fondare il legame sociale, come nell'età «costantiniana»? E per
quanto riguardava lo statuto del successore di Pietro, con quali mezzi avrebbe potuto svolgere il suo
ministero: con la semplicità evangelica del vescovo romano o con l'universalismo planetario e il contropotere
sacrale di un supervescovo?
'
Si inseriva in questo dibattito l'intervento del cardinale Carlo Maria Martini, nel discorso pronunciato a
Milano il 7 dicembre 1995: «È necessario prendere atto», disse l'arcivescovo di Milano, «che non è dato oggi
di perseguire l'obiettivo di cristianizzare la società con strumenti forti del potere», sibbene «di preservare con
la massima cura e quasi gelosia la differenza della parola cristiana, per renderla efficace anche per la
salvaguardia e la promozione dell'ethos pubblico di una nazione». «È chiaro», sottolineò il cardinale, «che
solo una proposta continua e instancabile del primato di Dio e dell'Evangelo sarà quella che avrà la forza di
generare e specificare di volta in volta le forme e i modi di presenza dei cattolici nella società.» Non erano
rari coloro che, durante il pontificato, osservavano con qualche perplessità la ricerca di affermazioni del
ruolo pubblico — se non politico in senso stretto — della Chiesa romana, mettendo in relazione questa
ansietà estrinseca con la crisi spirituale della cattolicità. Essi consideravano che i mezzi dell'affermazione
mondana e i linguaggi della potenza sociale tendevano a farsi largo nella Chiesa, come in altre epoche, a
misura in cui le ragioni più puramente spirituali e teologali non sembravano più considerate con l'attenzione
principale che delle autorità religiose avrebbero dovuto accordare ad esse. La rinuncia alla Chiesa dei poveri
come dimensione teologica fondamentale cercava di giustificarsi accusando di «sociologismo» e di
«orizzontalismo» coloro che vi aderivano. Tuttavia, era agevole a
questi ultimi ritorcere l'accusa: non si poteva abbandonare la teologia della povertà della Chiesa senza una
preliminare adozione della teologia della potenza, e un tentativo di riciclare il vecchio temporalismo in forme
più sofisticate e suggestive.
L'impressione complessiva di alcuni osservatori era che questo ritorno neotemporalista finisse per occultare
una debolezza di fondo del cattolicesimo dinnanzi alle sfide mondiali. La fede cattolica veniva attirata sul
proprio lato sociologico e pubblico, rendendosi per così dire più fattuale, esteriore, nel senso barocco delle
«opere», e ciò precisamente nella stagione in cui, per la prima volta dopo la Controriforma, essa aveva
l'occasione di sperimentare la crisi della cristianità sociologica, i percorsi impervi ma fecondi dell'approfondimento biblico e intcriore, del silenzio, della fine delle formule autoritarie universalmente proclamate; della
fiducia nella maturazione delle coscienze, nella forza del seme nascosto piuttosto che del prodotto esibito
sulla piazza, del mercato; nel riconoscimento dei molti e liberi cammini della salvezza più che nella
affermazione identitaria e nell'onanismo ecclesiastico.
Tale era la via appena cominciata dalla Chiesa dopo il Concilio, secondo la promessa fatta nel 1965, all'ora
della sua solenne chiusura, da Paolo vi: «Avremo un periodo della vita della Chiesa, e perciò in ogni suo
figlio, di maggiore libertà, cioè di minori obbigazioni legali e di minori inibizioni interiori. Sarà ridotta la
disciplina formale, abolita ogni arbitraria intolleranza, ogni assolutismo, sarà temperato l'esercizio
dell'autorità, sarà promosso il senso della libertà cristiana». Tale la risposta che la Chiesa dava alla sfida del
tempo: «il nostro tempo», aveva precisato Montini «reclama libertà e di esso il Concilio si fa interprete e
guida».
Promesse del genere dovettero misurarsi successivamente con preoccupazioni istituzionali piuttosto diverse,
orientate a una politica di riunificazione della complessità cattolica sotto la guida forte del papa, in uno
scenario sociale marcato dal soggettivismo e dall'individualismo liberista. Questa politica fu considerata
sotto la denominazione, di origine francese, di «ricentraggio». Essa apparve in numerosi campi nevralgici,
alcuni dei quali prenderemo ora in esame.
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La politica finanziaria.
Agli inizi degli anni Ottanta il pontificato fu visitato da una tremenda catastrofe finanziaria, a causa del
compromesso della banca centrale della Santa Sede, l'Istituto per le Opere di Religione (IOR) negli affari di
una banca privata cattolica, il Banco Ambrosiano, colata a picco in un mare di debiti. Pur rifiutando ogni
responsabilità diretta nel fallimento, la Santa Sede ritenne di offrire ai creditori un «contributo volontario» di
220 milioni di dollari.
Il papa resistette all'inizio anche alle autorevoli pressioni di cardinali americani, italiani e tedeschi perché si
liberasse del prelato considerato moralmente l'artefice principale dello scandalo, l'arcivescovo americano
Paul Marcinkus, che era già nella lista dei partenti con papa Luciani. Alla fine Wojtyla trovò il modo più
dignitoso per provvedere al ritorno di Marcinkus nella sua diocesi d'origine, senza cedere alla consuetudine
romana di usare la porpora come scopa per spazzare gli uffici da titolari sgraditi.
Il papa si era convinto che la questione dello IOR fosse anzitutto di carattere strutturale e non solo un
problema di abilità o moralità personale. Personalmente il papa si era espresso a favore di una riforma
radicale del sistema finanziario, sostenendo che la Chiesa doveva mantenersi solo grazie alle offerte dei
fedeli, e liquidare come superfluo ciò che nella sua istituzione centrale superasse il livello delle loro offerte.
Per varare questo principio egli convocò un plenum del Sacro Collegio, sottoponendo per la prima volta a
tutti i cardinali del mondo le informazioni necessarie sullo stato delle finanze della Santa Sede, incluso lo IOR,
sul quale le informazioni erano state negate nelle Congregazioni generali precedenti il conclave di Luciani.
Tuttavia la Curia romana si oppose ad ogni riduzione della propria struttura e la sola riforma degna di nota in
questo campo fu, con la riorganizzazione statutaria dello IOR, la pubblicazione del bilancio della Santa Sede,
benché ancora pervaso da qualche nebbia di ambiguità.
Pubblicati annualmente, i bilanci indicavano, ad una lettura dinamica, l'aumento esponenziale del deficit fino
al 1995, quando un pareggio di bilancio venne raggiunto. Il bilancio previsionale per il 1993 prevedeva una
spesa di circa 242 miliardi di lire e un sensibile contenimento delle entrate, ridotte da 125 miliardi del '91 a
117 miliardi, con un disavanzo di 125 miliardi di lire, il più elevato mai registrato nella storia delle finanze
vaticane. Il disavanzo toccava soltanto i 17 miliardi nel 1979, agli inizi del pontificato di Giovanni Paolo n, e
tuttavia questa cifra — che pure va considerata al lordo dell'inflazione monetaria per essere riferita al valore
attuale — era stata sufficiente a turbare i cardinali riuniti per dare un successore a Paolo vi. Di fatto il
disavanzo era andato aumentando in modo anomalo. Per citare solo i risultati finanziari degli anni Novanta,
il passivo era di 100 miliardi e 747 milioni nei conti del 1991 e di 105 miliardi in quelli del 1992, prima di
raggiungere il record del 1993. La cosa che maggiormente turbava i responsabili era la diminuzione delle
entrate che nel 1990 erano state 143 miliardi e 557 milioni di lire italiane, nel 1991 erano già scese a 125
miliardi e 278 milioni per segnare una ulteriore flessione nel 1993 con 117 miliardi. Lo stesso Obolo di San
Pietro non sembrava seguire l'espansione consolante della sua storia negli anni Ottanta, anzi mostrava alcuni
segni di cedimento, pur man
tenendosi su livelli sempre generosi. Inoltre, le risorse dell'Obolo, per sé destinate alla carità del papa,
dovevano essere stornate invariabilmente a pagare i funzionari della Curia.
Per fronteggiare queste carenze, — scartata la via «pauperistica» della riforma della Curia centrale
vagheggiata dal papa — si è ricorsi con più larghezza che in passato alle risorse attive dello IOR, il cui intervento risanatore è arrivato a coprire il valore di un terzo del passivo complessivo delle finanze della Santa
Sede e a ripianare ogni anno il deficit di bilancio. Ma si è anche inciso sulla politica dei costi, soprattutto con
severe riduzioni del personale della Santa Sede e una linea di austerità reale imposta a tutti gli uffici.
Il pontificato ha dato luogo infine ad una duplice innovazione istituzionale, nella quale si è riflessa la sua
peculiare visione centralista dei rapporti con le Chiese locali. Un nuovo sistema di contribuzione delle
diocesi è stato istituito, a norma del canone 1271 del Codice di Diritto Canonico, per far fronte alle esigenze
di sempre più denaro da parte della macchina del potere centrale pontificio. Secondo dichiarazioni del
cardinale Rosario José Castillo Lara, presidente del Patrimonio della Sede Apostolica, era un vero e proprio
«sistema fiscale» che era stato allestito nella Chiesa romana, e ciò non mancava di sollevare l'ombra del
trauma luterano di fronte alla natura obbligatoria dei vincoli finanziari ai quali la Santa Sede andava
assoggettando le 2507 diocesi cattoliche del mondo.
Tuttavia nemmeno questo sistema canonico di prelievo è sembrato sufficiente a tranquillizzare i dirigenti
vaticani, che si aspettavano una raccolta assai più abbondante dei 7 miliardi di lire rastrellati dalle diocesi per
il bilancio 1993. Perciò si è varata la seconda istituzione, la Fondazione Centesimus annusPro Pontifice,
lanciata il 4 giugno 1993. Si trattava di una cordata di alti esponenti del mondo finanziario e imprenditoriale
internazionale disposti a entrare con contributi iniziali di almeno 50 milioni di lire italiane nell'operazione di
sostegno delle attività della Santa Sede e dei suoi organismi centrali. In pochi giorni 65 finanzieri si erano
affrettati a sottoscrivere le loro quote, assicurando alla Fondazione denaro fresco per 3 miliardi e 250 milioni
di lire. Sfortunatamente uno dei primi si trovò poco dopo accusato dalla magistratura italiana di corruzione
finanziaria ai danni dello Stato.
L'innovazione era addirittura sorprendente: nella storia moderna del papato non si era mai vista una cerchia
di detentori del capitale così istituzionalizzata intorno al successore del Pescatore di Galilea. La stessa idea
era stata proposta nel 1860 allorché il papato si era trovato con le casse vuote per la perdita delle regioni più
ricche dello
Stato pontificio. Tuttavia Pio ix aveva preferito declinare l'offerta, rivoltagli dai «capitalisti» cattolici, e
trovare il soccorso dalle offerte spontanee e disinteressate del popolo dei fedeli, una colletta che era divenuta
sempre più organizzata fino a diventare l'istituzione stabile conosciuta col nome di Obolo di San Pietro. Di
qui il Pontefice aveva tratto la base popolare che dava sicurezza alla rivendicazione della sua libertà nella
storia moderna della Chiesa romana: «La Chiesa primitiva era povera, ma Ubera», aveva ammonito Antonio
Rosmini. «La Chiesa non aveva vassallaggio, non protezione, meno ancora tutela: sotto queste infide e
traditrici categorie si infiltrò la servitù dei beni ecclesiastici. Da allora fu impossibile alla Chiesa di
mantenersi fedele alFEvangelo.»
Ispirati da questo avvertimento del riformatore della Chiesa dell'Ottocento, alcuni gruppi cristiani di Roma
gettarono l'allarme per la «nuova servitù del papato che consiste nel ricercare presso i ricchi la sua protezione
materiale», mentre lo storico Giuseppe Alberigo dell'Università di Bologna indicava gli effetti vincolanti del
nuovo sistema fiscale imposto su tutta la Chiesa per finanziare le attività del papato, con il pericolo di uno
sviluppo abnorme del centralismo ecclesiastico a danno della comunione della Chiesa. D'altra parte la
relativa crisi evidenziata nelle rendite «popolari» dell'Obolo di San Pietro poteva suggerire la conclusione
che i viaggi internazionali di Giovanni Paolo n, se avevano contribuito alla popolarità della figura papale nel
mondo, non sembravano costituire un fattore decisivo per ridurre la distanza tra l'istituzione simboleggiata
dal papa e le esigenze del «popolo di Dio».
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Il controllo degli episcopati.
Un altro strumento per il contenimento moderato di una Chiesa i cui fedeli crescevano proporzionalmente
meno della popolazione mondiale, fu la politica delle nomine episcopali, specialmente nelle chiese più
implicate nei processi di liberazione popolare, in modo che le rispettive Conferenze episcopali potessero
beneficiare col tempo di nuove maggioranze.
Attraverso un Sinodo straordinario a Roma la Chiesa cattolica dei Paesi Bassi fu normalizzata mentre gli
episcopati del Perù e del Brasile, della Spagna, della Svizzera, dell'Austria si trovarono presto sconvolti
dall'arrivo di una nuova leva episcopale, piuttosto sensibile a interpretare letteralmente il rapporto con Roma.
Nella stessa direzione un progetto della Curia pretese il ridimensionamento dei poteri delle Conferenze
episcopali che il Concilio Vati
cano II aveva invece innalzato come figure embrionali e locali di una collegialità effettiva nella Chiesa.
Sulle chiese locali si impose la figura del Papa itinerante come supervescovo, fonte di un magistero
universale penetrante e di una nuova forma plenaria di esercizio del primato, spinto all'interno delle chiese, al
di là delle regole tradizionali della sussidiarietà: pur convocando con sufficiente regolarità i Sinodi dei
vescovi, Giovanni Paolo II non ritenne di poter concedere uno sviluppo istituzionale a questa forma di
collegialità episcopale, anzi lasciò volentieri cadere i voti favorevoli a nuove riforme espressi da tali
assemblee. Preferì invece valorizzare il collegio cardinalizio col ripristino dei concistori in assemblee
plenarie, sottoponendo al plenum dei cardinali problemi di grave momento per il governo della Chiesa
universale, quali la riforma del sistema finanziario della Santa Sede, la riforma della Curia romana, la
strategia della Chiesa per la difesa della vita, etc.
Quanto alla Curia romana, nel 1988 provvide ad una riforma a dieci anni da quella di Paolo vi, diminuendo il
ruolo dei vescovi periferici e rafforzando il potere dei cardinali romani, quasi per conferire una struttura più
romana alla nuova cattolicità del cattolicesimo nel momento della sua massima spinta policentrica.
L'opinione di uno storico quale Giuseppe Alberigo è che Giovanni Paolo II ha «avviato in modo pragmatico
il superamento della fissità romana del papato».1 viaggi frequenti in tutte le parti della Chiesa hanno
assegnato al ministero petrino una dimensione itinerante profondamente innovativa rispetto al modello
papale che, per la sua stabilità locale, aveva finito per costituirsi in simbolo dell'immobilità non solo nel
sacro ma anche nel campo politico e sociale. L'impatto istituzionale del viaggio apostolico era principalmente riconosciuto nell'infrazione dello stereotipo geofissista della romanità del papato, quasi in una
versione più ricca, simbolicamente, dei suoi rapporti con la tomba di Pietro, per una migliore valorizzazione
delle relazioni orizzontali tra il vescovo di Roma e le Chiese particolari.
Malgrado l'intensificazione di questi rapporti, nei viaggi, nelle visite ad limina e negli incontri del papa con
le Conferenze episcopali, alcuni teologi cattolici che avevano aderito alla riforma conciliare si dichiaravano
delusi per la riproduzione di un tessuto istituzionale impermeabile all'ecclesiologia di comunione. La
speranza che la figura medievale del papato si sarebbe mutata in un primato di comunione, liberandosi
dall'assolutismo gregoriano, era frustrata dalle rivalse di un rinnovato centralismo romano, che si nutriva di
ogni iniziativa per quanto generosa, destinata a rivalutare la figura papale nella Chiesa e nel mondo.
Il problema della sinodalità come struttura fondamentale per l'integrazione del potere papale nel collegio
episcopale restava eluso, e anzi si acuì
va man mano che i Sinodi episcopali convocati dal papa non approdavano a esiti operativi coerenti. Il disagio
per questa nuova verticalizzazione dei rapporti ecclesiali si aggravava dinanzi alle manifestazioni della
crescente egemonia della Congregazione per la Dottrina della fede, la quale, come in passato la suprema
congregazione del Sant'Offizio, tendeva ad esercitare una leadership globale, talora esorbitando dai limiti
della propria competenza istituzionale.
Nel 1983 Giovanni Paolo n promulgava il nuovo Codice di diritto canonico, concludendo una gestazione
durata circa un quarto di secolo.
Era riconoscibile nella rinnovata struttura canonica l'influenza delle novità conciliari, specialmente per il
rilievo attribuito al collegio episcopale, posto a ridosso della figura del papa. Anche le Conferenze episcopali
ricevevano un riconoscimento mentre erano ammesse anche nuove unità ecclesiali «personali» accanto a
quelle territoriali, come le «prelature personali», pressoché esenti dall'autorità episcopale, secondo il modello
dell'Opus Dei.
Un rilievo particolare acquistavano le norme canoniche sull'elezione del papa. Il canone 332 ribadiva infatti
la decisione di Paolo vi per cui in caso di elezione di un cristiano che non sia vescovo, questi non diviene
automaticamente papa in forza della legittima elezione, ma solo in seguito alla consacrazione episcopale che
lo associ al collegio episcopale. Il Codex riconosceva pertanto la centralità della consacrazione episcopale
come fonte autentica dei poteri episcopali a tutti i livelli.
Di conseguenza si veniva ad ammettere che il cardinalato non era più sufficiente per fondare il diritto di
partecipare al governo della Chiesa universale. Questo rovesciamento concettuale era confermato dal fatto
che i canoni sui cardinali non figuravano più, come nel codice piobenedettino, sotto il titolo De clericis, ma
erano stati inclusi nel libro n, Depopulo Dei, all'interno della trattazione sulla costituzione gerarchica della
Chiesa.
La conseguenza di queste innovazioni era che il collegio cardinalizio non poteva più invocare per sé la
continuità del collegio apostolico, come era stato all'inizio della sua ascesa, e che dunque non poteva che
essere definito (come fa il canone 349) proprio a partire dall'elezione del vescovo di Roma. Passerebbero
così in secondo piano le funzioni di assistenza al papa nel governo e l'antico titolo di «senato del Romano
Pontefice» con cui il collegio cardinalizio era chiamato nel canone 230 del Codice precedente. Del resto, il
Concilio Vaticano II aveva mantenuto un «fragoroso silenzio» sul collegio dei cardinali e sul conclave, quasi
prefigurandone il superamento nella nuova affermazione del principio collegiale dell'episcopato.
In una enciclica, la Ut unum sint (30 maggio 1995) questo papa al quale alcuni hanno attribuito un rilancio
neomedievalistico della centralità della figura del pontefice romano, dichiarò di accettare di mettere in
discussione con i responsabili delle Chiese cristiane la que
stione delle «nuove forme di esercizio» del primato pontificio, in modo che «pur non rinunciando in nessun
modo all'essenziale della sua missione, esso si apra ad una situazione nuova».
La proposta era tuttavia limitata dalla clausola che integrava fra le strutture essenziali del potere papale,
sottratte alla discussione, «il potere di dichiarare excathedra che una dottrina appartiene al deposito della
fede» sia pure alle severe condizioni statutarie stabilite dal dogma del 1870.
Nel novembre 1985 la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicò la risposta ad un dubium nella
quale sosteneva che la dottrina di Wojtyla contenuta nella Lettera apostolica Sulla ordinazione sacerdotale
da riservarsi soltanto agli uomini (22 maggio 1994) per escludere «per sempre» il sacerdozio femminile,
doveva essere considerata «infallibile»: un tentativo estremo di reprimere d'autorità il dibattito crescente fra i
cattolici, inclusi i teologi, verso le posizioni ufficiali contrarie a qualsiasi riforma.
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Un papa di confine.
All'esperienza nazionale del cattolicesimo polacco Karol Wojtyla doveva la sua singolare cultura messianica,
il «punto di vista» sul mondo e sulla storia. Tuttavia, questa cultura, non lo disponeva senza difficoltà a
discernere nelle profonde trasformazioni storiche un valore evangelico, al di là del loro aspetto distruttivo al
punto che egli mostrava qualche fatica a spostarsi con altrettanta disponibilità sui bisogni e sui valori
emergenti dalle altre storie cristiane ed umane.
Egli visitò spesso l'Africa senza però assumere tempestivamente la richiesta di un Concilio africano alla
quale l'episcopato continentale allegava il destino stesso del cristianesimo futuro africano. Gli africani
dovettero più realisticamente aderire alla convocazione di un Sinodo africano privo di poteri deliberativi.
Piuttosto che rispondere al processo di mondializzazione mediante una nuova articolazione regionale delle
autonomie della Chiesa sul modello degli antichi patriarcati, il papa diede non di rado l'impressione di cedere
all'ansietà centralizzatrice del nucleo ierocratico della Curia romana, fornendo un modello di autorità totale,
mobile, poliglotta ed esuberante, a contatto con folle cosmopolite, in un rapporto di tipo carismatico più che
strettamente istituzionale.
Perciò si potè osservare che il primo papa slavo della storia continuò ad essere anche a Roma un papa di
confine, dunque a reinterpretare Roma in termini apparentemente meno romani, a spostare i confini dell'Urbe
verso quelli dell'Orbe, fino a rendere più acuta la tensione tradizionale fra centro romano e periferia
complessa. Lo scopo di un'operazione così ardita sembrò quello di incarnare, almeno in abbozzo, una nuova
sintesi tra carisma e istituzione, tra convinzione e pluralismo, tra romanismo e universalità cattolica.
Una macchina di espansione, dilatazione, dissipazione impressa
nante: mai papato fu altrettanto visibile, grazie ai mass media, altrettanto rappresentato, così efficiente, così
totalitario, febbrile e umano, egemonico ed eccentrico, duramente conservatore e fantasticamente futurista,
massificato e tuttavia capace di relazioni soggettive, ipertrofico e insieme minimo, scolpito dalle certezze e
insieme eccentrico, teatrale ma anche pronto a levarsi le maschere, a dissipare le cortine di incenso, a
togliersi i vestiti da papa. Ad alcuni settori del cattolicesimo rimasti aderenti allo spirito del Vaticano n,
questo papa parve innalzare verso il mondo moderno muraglie che il Concilio aveva cercato di demolire.
Tuttavia era incontestabile la decisione da lui posta nelP abbattere le recinzioni dorate che da secoli isolavano il papa dalla Chiesa romana.
Il suo pessimismo di fondo, frutto di un'infanzia attraversata da tragedie familiari lo portò a valutazioni
desolate e ad accenti apocalittici sui destini della società postindustriale, percorsa da ondate di violenza, da
catastrofi ecologiche, dall'impotenza delle istituzioni politiche, dalla crisi dei valori, dal nichilismo, dalla
droga e dall'Aids.
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La restaurazione del potere morale della Chiesa.
Colui che apparve il maggior predicatore religioso del suo tempo, in uno scenario ricco di moralisti quanto
privo di leadership morali, diede ogni energia nella rivendicazione dei diritti umani e della libertà religiosa,
affrontò con convinzione anche se non in modo sempre convincente i problemi nuovi posti dal potere
scientifico sul futuro della specie umana e dell'ambiente. Egli chiese agli scienziati di contrapporsi con una
precisa obiezione di coscienza alla trasformazione dei loro laboratori in strumenti di morte.
Egli autorizzò la Congregazione per la Dottrina della Fede ad emanare norme morali restrittive a proposito
dell'ingegneria genetica e della fecondazione in vitro.
Benché avesse accordato il monopolio del potere ad una scuola teologica separata dal movimento
complessivo delle ricerche nel campo della morale sessuale e familiare, Wojtyla cercò di far evolvere la
posizione tradizionale della Chiesa nel solco di una dottrina personalista, arrivando ad una riabilitazione
della corporeità sessuata e della stessa figura femminile: a questa egli dedicò nel 1988 la lettera
apostolicaM«//erà dignitatem, e nel 1995 una Lettera alle Donne nella quale si schierò a favore di una loro
maggiore presenza sociale, al fine «di far esplodere le contraddizioni di una società — organizzata su puri
criteri di efficienza e di produttività — fino a costringerla a riformulare i sistemi».
Il papa rifiutò tuttavia ogni liberalizzazione sul fronte del controllo delle nascite, del sacerdozio della donna e
dei sacramenti ai divorziati incolpevoli e in situazione irreversibile, benché numerosi episcopati invocassero
in questo campo delle aperture. Si oppose anche a forme di istituzionalizzazione dei rapporti sessuali diverse
dal modello del
matrimonio occidentale, escludendo istituti come quelli tradizionali in Africa e in Estremo Oriente.
«L'amore coniugale deve essere pienamente umano, esclusivo e aperto alla nuova vita», tale il principio
difeso dal papa per rilegittimare la norma morale nel campo dell'etica della responsabilità sessuale e familiare. Il rifiuto dei metodi contraccettivi artificiali usciva dal tipico pessimismo cattolico per assumere invece
i motivi salienti della protesta femminista per la dignità della donna e quelli del movimento ecologista. Il
sesso non è peccato, ma il suo valore creativo e ludico può esprimersi autenticamente solo se assunto nel
linguaggio del dono fra le persone, ciò che potrebbe avvenire, secondo Giovanni Paolo n, coi metodi
«naturali» di controllo della fecondità.
«Per comprendere il valore della norma morale», sottolineava il papa nella Famìliaris Consortio, pubblicata
in seguito ad un Sinodo assai tormentato, «è necessaria la conoscenza della corporeità e dei suoi ritmi di
fertilità [...]. Tale conoscenza deve sfociare nell'educazione all'autocontrollo.»
Una delle principali preoccupazioni di Giovanni Paolo n è stata la battaglia contro la legalizzazione
dell'aborto nelle società progredite. L'istruzione Sul rispetto della vita umana nascente (1987) annunciava
che la Chiesa romana si poneva l'obiettivo di ottenere dagli Stati la riforma delle leggi civili «moralmente
inaccettabili», facendo leva sull'opinione pubblica mondiale e su ogni altro mezzo di pressione legale.
Appoggiandosi ad alcuni personaggi di tendenza conservatrice, come i cardinali Fiorenzo Angelini e Alfonso
Lopez Trujillo, Wojtyla lanciò una mobilitazione sistematica della Chiesa per opporre «alla cultura della
morte», in particolare all'aborto legale e all'eutanasia, un impegno a tutto campo per la difesa della vita. Su
questi temi egli manifestò il suo dissenso dalla politica del presidente americano Bill Clinton e dalla
piattaforma della Conferenza del Cairo su «Popolazione e Sviluppo» che nel 1994 affrontò la questione
demografica del pianeta.
Una serie di interventi della Congregazione per la Dottrina ebbe l'effetto di mettere in difficoltà gli
atteggiamenti di quei settori della Chiesa che agivano in modo più liberale nei confronti dell'omosessualità,
della fecondazione in vitro tra coniugi, della sperimentazione non direttamente terapeutica sugli embrioni.
D'altra parte una linea così severa e restrittiva — la stessa che ridusse drasticamente le dispense dal celibato
ai preti in difficoltà — si trovò a coincidere con alcune penose emergenze del pontificato: la scoperta che
alcuni vescovi mantenevano relazioni more uxorio, lo scandalo (assai gonfiato da gruppi anticattolici) di
limitati casi di preti pedofili negli Stati Uniti, e il fatto che un certo numero di preti americani erano afflitti
dall'Aids.
Nel 1993 Giovanni Paolo n portò a termine dopo sei anni di travaglio l'enciclica Veritatis splendor sui
fondamenti della morale. In questo testo, secondo le aspettative dei settori più conservatori, si arrivava a
condannare le nuove correnti della teologia morale. Il papa si fece portavoce dell'esigenza di oggettività della
norma morale, ma anche del suo carattere storico ed evolutivo e riconobbe alla coscienza umana una
sovranità quale nessun papa, prima di lui, aveva osato affermare. Nello stesso tempo egli lasciò
semplicemente cadere dalla bozza preparatoria l'intero capitolo che la scuola teologica più conservatrice
considerava vitale, nel quale si sarebbe allargata la infallibilità anche al magistero ordinario del papa e dei
vescovi in campo morale. Così facendo egli dimostrò di tener conto dei «disagi circa l'infallibilità» espressi
da teologi cattolici, come da settori ecumenici.
Tuttavia egli manteneva anche in questa enciclica il tono massimalista ed eroico di fondo, la sua inclinazione
per una Chiesa carismatica, più vicina al Cristo glorioso della Resurrezione che a quello, piagato, della
Passione.
Superando radicalmente una morale legalista, fatta di precetti più che di convinzioni, egli proponeva ai
cattolici una morale della sequela, capace di rispondere «sì» all'appello esigente e totale del Cristo: la sua
enciclica si apriva infatti con una appassionata esegesi dell'episodio del giovane ricco del Vangelo e si
concludeva con un'apologià del martirio come condizione esemplare del cristianesimo della nostra epoca.
Nell'enciclica Evangelium Vitae, del 1995, veniva pure evitata la clausola dell'infallibilità, ma si
comminavano solenni condanne contro l'aborto, l'eutanasia, il traffico di materiale genetico e, sia pure con
qualche sfumatura, contro la contraccezione artificiale e la sterilizzazione. In tale enciclica si superava
peraltro il divieto del Sant'Uffizio contro la partecipazione dei parlamentari cattolici alla discussione di leggi
circa l'aborto, allo scopo di consentire loro un contributo migliorativo e correttivo coerente con i princìpi
etici della difesa legale della vita nascente. Era così stabilito, in questo insieme di testi magisteriali, il
paradigma del disegno wojtyliano di costituire la verità della Chiesa come principio e fondamento della
salvezza antropologica dell'umanità e in modo universale.
// dialogo con le religioni.
II campo in cui il pontificato registrò dei reali passi in avanti nel senso del Concilio fu quello dei rapporti con
le religioni non cristiane. Il 27 ottobre 1986 si svolse ad Assisi una giornata di preghiera per la pa
ce alla quale intervennero, invitati da Giovanni Paolo n, i rappresentanti delle grandi religioni mondiali:
senza cedere in nulla sulla identità cristiana, né abbandonarsi a desideri di assimilazione, il Papa ritenne
maturo il tempo di un allargamento ai confini del mondo, interpretando nella sua capacità smisurata il senso
del katàolòn (pressotutti) del cattolicesimo.
Tale fu il simbolo dell'esaurimento ideologico dell'epoca delle guerre di religione da sconcertare alcuni
settori della Curia romana che già meditavano di ottenere alcune rettifiche in senso tradizionale della
dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa.
Il papa fu criticato allora apertamente dal leader dei circoli tradizionalisti, il vescovo Marcel Lefebvre
(sospeso a divinìs da Paolo vi nel 1976), ma anche dallo stesso capo dell'ex Sant'Offizio, Ratzinger.
Il cardinale tentò anche di ridurre il significato della visita compiuta da Giovanni Paolo n alla Sinagoga di
Roma il 13 aprile 1986 recuperando la teoria dell'incorporazione della stirpe di Abramo nel cristianesimo.
Tuttavia il papa non si lasciò distrarre da queste difficoltà e mostrò una speciale premura, dopo alcune
oscillazioni teologiche e una volta risolta la crisi del Carmelo di Auschwitz, per sviluppare le relazioni con
gli Ebrei. Il 21 settembre 1993 egli volle accogliere a Castelgandolfo — purché non fosse presente
all'udienza l'ambasciatore dello Stato di Israele — la principale autorità religiosa di Israele, il Gran Rabbino
Ashkènaze Yisraél Lau, e approvò l'esame delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e lo Stato di Israele.
Giovanni Paolo n ha dimostrato, nel campo del dialogo interreligioso, di saper adottare un'interpretazione
dinamica della continuità e di far evolvere la stessa dottrina del Concilio Vaticano n in questo campo, quale è
sintetizzata nella dichiarazione «Nostra Aetate». Nel documento intitolato «Dialogo e annuncio» (1991) egli
fece appello al «mistero dell'unità di tutta l'umanità» per riconoscere che le altre tradizioni religiose
«contengono degli elementi di grazia» e che «si può anche trovare la realtà incoativa del Regno di Dio al di
là delle frontiere della Chiesa, per esempio nel cuore dei fedeli di altre tradizioni religiose». Nello stesso
testo, si legge: «È attraverso la pratica di ciò che è buono nelle loro proprie tradizioni religiose e seguendo i
precetti della loro coscienza che i membri delle altre religioni rispondono positivamente all'invito di Dio e
ricevono la salvezza in Gesù Cristo, anche se non lo riconoscono come Salvatore [...]. In un dialogo che
attraversa il tempo, Dio ha offerto e continua ad offrire la salvezza dell'umanità. Per essere fedele
all'iniziativa divina, la Chiesa deve dunque entrare in dialogo di salvezza con tutti». Il papa tornò sullo stesso
tema nell'opera in forma di intervista intitolata Varcate la soglia della speranza, nella quale affermò che
«tutte le religioni hanno una comune radice soteriologica».
Infine, non potremmo trascurare le dichiarazioni rilasciate in un viaggio lampo a Tunisi il 14 aprile 1996
circa il dialogo con l'Isiam. Rivolgendosi ai vescovi del Maghreb, egli disse: «Nessuno può ucci
dere in nome di Dio, nessuno può accettare di dare la morte a suo fratello . Con gli uomini e le donne di
buona volontà, costruite vincoli di fratellanza che annuncino il Regno di Dio che viene. Rendete visibile la
vostra convinzione che Dio è il Dio della vita, che ricerca la vita dell'uomo e non la morte. Malgrado le
difficoltà e le incomprensioni, andate incontro ai vostri fratelli e alle vostre sorelle, senza distinzione di
origine e di religione».
Nella terra di Sant'Agostino d'Ippona, primo teorico della «guerra giusta», il papa di Roma chiudeva il ciclo
di questa giustificazione religiosa della violenza, invitando i cattolici ad apprezzare la cultura e i testi sacri
dell'Isiam. Egli riconosceva che il pluralismo religioso ha un fondamento teologico: «l'apertura all'altro è in
qualche modo una risposta a Dio che ammette le nostre differenze e che vuole che ci conosciamo più
profondamente». Anzi, il radicamento nelle rispettive religioni «consentirà», disse il papa, «l'accettazione
delle differenze (oltre che di) trarre profitto dello sguardo critico dell'altro sul modo di formulare e di vivere
la propria fede».
La politica di apertura seguita da Giovanni Paolo 11 in campo ecumenico interreligioso fu più fortunata nelle
sue iniziative ecumeniche in campo cristiano. Egli si era dato l'obiettivo, come papa slavo, di realizzare
intorno al Duemila l'unione fra la Chiesa romana e la Chiesa di Costantinopoli, divise da mille anni. Tuttavia
egli dovette affrontare una delle peggiori crisi nelle relazioni tra il Vaticano e gli ortodossi agli inizi degli
anni Novanta — come abbiamo visto —, a causa dell'attività proselitistica irresponsabile di alcuni
movimenti di fondamentalisti cattolici nell'Est europeo e in Russia dopo il crollo del regime sovietico.
Analogamente, egli seppe offrire un gesto unico quando si inginocchiò nel 1982 davanti all'altare della
cattedrale di Canterbury accanto all'arcivescovo primate della comunione anglicana, Dr. Robert Runcie.
Tuttavia questo non servì a evitare che, sotto il suo pontificato, gli accordi raggiunti fra cattolici e anglicani
— in particolare con la Dichiarazione di Venezia del 1976 — fossero accantonati dal Sant'Offizio, sotto la
prevalente premura per la tradizionale posizione cattolica sull'autorità pontificia.
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Il Lefebvrismo senza Lefebvre.
Queste contraddizioni contribuirono a portare alla luce i conflitti interni al sistema romano e soprattutto il
carattere strumentale della rivolta lefebvriana, che era da tempo attizzata da circoli della Curia romana allo
scopo di ottenere uno svuotamento dell'autorità del Concilio col ricatto dello scisma.
L'operazione ebbe un parziale successo in alcuni campi, come
quello liturgico. Il papa sembrava considerare il Concilio come una sintesi definitiva del cattolicesimo
contemporaneo piuttosto che come una spinta al rinnovamento perpetuo della Chiesa, un magazzino da
conservare piuttosto che una miniera da scavare continuamente. In questa ottica la ricezione del Concilio
parve gestita prevalentemente in quanto sentita come riconducibile al cattolicesimo della Controriforma:
quanto usciva da tale quadro era piuttosto esaminato con prudenza.
Perciò il pontificato si trovò in ciò che Ratzinger definì come «programma di restaurazione», inteso a
contenere in un alveo di continuità tradizionale le spinte propulsive del rinnovamento cattolico. E benché gli
spazi per Lefebvre si aprissero larghi a causa di queste premesse, pure il Papa dovette reagire con atto di
imperio personale dichiarando lo scisma quando il vescovo francese consacrò quattro vescovi senza accordo
canonico, così vanificando i patti intercorsi con Roma.
Il sistema romano si adoperò da allora per metabolizzare il lefebvrismo anche senza Lefebvre, sfruttando al
massimo la piattaforma dell'accordo mancato. Essa aveva rivelato che in realtà Roma era disposta a fare
delle concessioni anche su alcuni terreni segnati dall'autorità del Concilio (per esempio la riforma liturgica o
il modello dei seminari), pur di recuperare l'eversore. Restava però confermata l'impressione di una non
completa omogeneità di vedute e di pratiche tra il Papa e il sistema romano, anche se l'intenzione attribuitagli
di voler «superare il centralismo romano» (Alberigo) sembrava più a livello delle speranze che a quello dei
dati. Questa differenza tra le vedute del papa e gli interessi strategici del sistema romano emerse anche in
altre occasioni: per esempio, quando Wojtyla volle rettificare con un nuovo, personale documento la
condanna della teologia della liberazione erogata dal Sant'Offizio.
Al contrario il tentativo di riunificare le differenze cattoliche sotto l'egida della gerarchla fu condotto con
sufficiente decisione da far calare una cappa di uniformità nelle facoltà teologiche e da realizzare un
ricentraggio in molti campi, da quello catechistico a quello pastorale, dai mass media all'editoria cattolica
alle missioni. Teologi come Hans Kùng, Edward Schillebeeckx, Leonardo Boff, John Curran furono
inquisiti, altri emarginati.
Si ebbe l'impressione che la strategia della restaurazione riguardasse con particolare insistenza gli ordini
religiosi, specialmente quello dei Francescani, dei Gesuiti e dei Domenicani, oggetto di specifici interventi
romani nel senso della prudenza e della tradizione.
In realtà questa politica assunse apertamente una dimensione generale, particolarmente con la pubblicazione
nel 1992 della Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come
comunione e del Catechismo della Chiesa cattolica.
Firmata da Ratzinger, la Lettera restaurava l'ecclesiologia verticista che il Concilio aveva provveduto a
correggere, ripristinava il pri
mato della Chiesa universale sulle Chiese particolari, negando a queste ultime una reale e immediata natura
di Chiesa, e ricostituiva una lettura assolutista del potere pontificio, criticando le proposte di Rahner e di altri
teologi cattolici a favore di una concezione e di un esercizio autolimitativo del potere del papa. Si affermava,
anzi, l'ingerenza di questo potere in ogni Chiesa particolare, adducendo che esso «è intcriore ad ogni Chiesa
particolare» e, anzi, «appartiene all'essenza di ogni Chiesa particolare dal di dentro». Il documento
concludeva invitando le Chiese cristiane separate a riconoscere il primato di Pietro nei suoi successori, i
vescovi di Roma: un invito particolarmente irritante per i protestanti e gli ortodossi, i quali avevano motivo
di temere che a Roma fosse tornata in auge la concezione dell'unità come ritorno all'ovile.
Quanto al Catechismo, pure opera di una Commissione presieduta da Ratzinger, esso si proponeva di
favorire «l'acquisizione di una chiara identità cristiana e di un linguaggio comune della fede». Anche questa
impresa portava il carico di una figura universalistica e confessionale del cattolicesimo, intercettando il
processo dell'ecclesiologia di comunione che dal Concilio in avanti, aveva riconosciuto uno spazio legittimo
alla soggettività delle Chiese particolari e ai loro specifici sforzi catechistici di inculturare l'annuncio della
fede cristiana secondo le rispettive culture. Lo sviluppo dei Catechismi nazionali (in Italia, Francia, Stati
Uniti, Germania, etc.) aveva infatti suscitato le inquietudini di quei dirigenti della Chiesa portati a considerare qualsiasi concessione all'esegesi critica e al pluralismo come minaccia all'oggettività e all'unità della
rivelazione cristiana, piuttosto che una testimonianza necessaria della complessità culturale del cristianesimo.
Era evidente che preoccupazioni del genere avevano trovato punti di minore resistenza sotto il pontificato di
Giovanni Paolo II, utilizzando a loro beneficio il sincero tormento di Wojtyla per il destino delle verità della
fede cristiana nelle derive della modernità e del secolarismo. All'alba della modernità il Catechismo del
Concilio di Trento aveva rappresentato il tentativo del papato di costituirsi in norma unitaria per l'Europa
scossa dalla Riforma. Nella svolta antropologica postmoderna la Chiesa romana giocava una carta analoga
per costituirsi in fonte etica della norma sociale, nella persuasione che la fede cristiana potesse presentarsi
come salvezza non solo per le anime ma anche per la storia umana.
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La Chiesa verso le terre incognite.
In sostanza, un pontificato che aveva ereditato una Chiesa ricca di fermenti evangelistici, di diaspore, di
ricerche, di pluralismo e di passioni liberatrici, parve piuttosto interessato a incarnare questo dinamismo
nella istituzione papale, e nel suo soggetto, piuttosto che ad incoraggiarne lo sviluppo nel «popolo di Dio».
Un papa straordina
riamente dotato di carismi spirituali, di intensa pietà personale e di intelligenza dei «segni dei tempi» parve
piuttosto cauto neh"adattare la spinta riformatrice sorta dal Concilio Vaticano n al di là dei limiti culturali e
propositivi del Concilio stesso.
Egli preferì dedicarsi a difendere l'identità del cattolicesimo dai compromessi coU'ideologia dominante del
secolarismo e a concentrare la Chiesa su di sé nell'ora in cui essa veniva proiettata verso compiti pianetari
inauditi. Alcuni gli hanno riconosciuto il merito di aver avviato una teologia delle religioni che include in se
stessa l'idea d'una Chiesa più umile, nella consapevolezza che Dio ha le sue vie, e sono molte, per la
salvezza. D'altra parte è comprensibile che egli abbia preferito lasciare irrisolta la contraddizione tra queste
«terre incognite» del prossimo futuro e una politica ecclesiocentrica, basata su un'espansione inattesa della
figura papale e sulla pretesa della Chiesa di rappresentare l'unica e necessaria salvezza, etica e religiosa, della
umanità intera, però senza nuovamente appoggiarsi al sostegno dello Stato.
Si poteva notare infatti che né le riforme conciliari né i personali successi di Giovanni Paolo n sembravano
tradursi in successi dell'istituzione ecclesiastica come tale. Tutte le inchieste indicavano un deperimento
progressivo delle strutture ecclesiastiche in quanto sistemi chiusi di socializzazione della fede, ancorati ad un
fondamentale paradigma sacrale. La stessa Chiesa romana era considerata in perdita di velocità, e non già per
un'invadenza della cultura laica, anch'essa in crisi, o per una supremazia della società secolare, nella quale
invece, nonostante tutto, i valori etici e spirituali apparivano in nuova e più accentuata rielaborazione: la
causa della perdita di ruolo dell'istituzione ecclesiastica era attribuita dagli analisti ai suoi interni processi di
ridefinizione della sua identità religiosa e della sua funzione nella società moderna.
In questa prospettiva, il pontificato di Giovanni Paolo II ha congelato tutta una serie di contraddizioni
immanenti, sotto la maschera del suo attivismo politicoreligioso planetario, ma ha anche anticipato processi
inevitabili nel prossimo futuro. Lo sviluppo di un ecumenismo allargato alle grandi forze religiose mondiali,
in particolare a quelle orientali e all'Isiam, potrebbe produrre ricadute teologiche e effetti culturali
prorompenti nei prossimi anni, se il dialogo avviato dal Concilio e rilanciato da Wojtyla non resterà
all'esterno dei blocchi religiosi ma sarà valorizzato anche per la ridefinizione dell'identità dei partner:
l'incontro interreligioso di Assisi potrebbe apparire allora come un impulso profetico in questa direzione.
In uno scenario così complesso, le posizioni adottate da Giovanni Paolo II nell'ultima parte del pontificato
hanno indicato una percezione non priva di lucidità e di drammaticità dello scarto esistente tra le logiche
ecclesiocentriche e le aspettative universali. Questa differenza ha assunto la formula dell'attesa del Giubileo
dell'anno Duemila per svilupparsi in termini pedagogici e magisteriali. Nella lettera Tertio Millennio
adveniente, pubblicata nel 1994, il papa rielaborava la proposta d'un cristianesimo capace di pace, e non più
di violenza, e proponeva un grande incontro sul Sinai fra le grandi religioni mondiali, in particolare tra le
Chiese cristiane, gli Ebrei e i Musulmani. La preoccupazione del rinnovamento si esprimeva nel riconoscimento degli inadempimenti della riforma conciliare in molti campi, tra i quali la liturgia, l'assimilazione della
cultura biblica e la realizzazione di una Chiesa «popolo di Dio». Il testo ammetteva anche i torti della
cristianità «per il consenso dato, soprattutto in certi secoli, a metodi di intolleranza e anche di violenza nel
servizio della verità» e la responsabilità di molti cristiani «nelPintrattenere strutture sociali ingiuste». Una
linea penitenziale che venne criticata da alcuni cardinali timorosi dell'indebolimento dell'autorità pontificia e
della credibilità del suo magistero.
Un altro aspetto problematico delle proiezioni futuriste di questo papa potrebbe riguardare la rottura o,
comunque, una nuova tensione fra il cristianesimo e il sistema sociopolitico organizzato dal capitalismo
occidentale, quello che definisce il modello totemico per l'unificazione materiale del pianeta, al di là della
alleanza sempre, in certa misura, parziale e inquieta finora mantenuta. Il bilancio «ecclesiale» si conclude
sulla stessa previsione alla quale è approdato il bilancio politico di questo pontificato. Insistendo nella parte
finale dell'enciclica Veritatis splendor, sul martirio come condizione normale del cristianesimo prossimo
venturo, Karol Wojtyla non ha esitato a prevedere uno scenario nel quale le forze cristiane saranno presto o
tardi obbligate ad una scelta radicale e costosa, tra la funzionalità delle Chiese al sistema dominante, e il loro
servizio alla libertà e alla liberazione dei soggetti, dei popoli, dell'umanità, in un mondo che resisterebbe ad
una mera omologazione tecnologica per salvaguardare le proprie plurali identità.
In questa direzione, i motivi critici introdotti da Giovanni Paolo u nella valutazione degli aspetti «selvaggi»
del sistema capitalistico hanno riattualizzato le antiche preoccupazioni del papato romano per la libertà della
Chiesa rispetto alle pretese totalizzanti degli Imperi e degli Stati. Egli ha prefigurato e incoraggiato il
compito critico dei cristiani di fronte agli abusi e alle manipolazioni di una libertà «liberista» da parte dei
poteri politici ed economici dominanti. «Da duemila anni», ha detto Wojtyla, «Cristo è presente ed opera
nella storia dell'umanità attraverso la Chiesa, attraverso i suoi apostoli, discepoli, missionari e così via.
Certamente alla fine di questo secondo millennio si deve fare un esame di coscienza: dove stiamo, dove
Cristo ci ha portati, dove noi abbiamo deviato dal Vangelo [...]. Il Vangelo non cessa di essere un "segno di
contraddizione".»
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CAPITOLO XVIII.
La gloria dell'olivo.
Una dichiarazione del cardinale Achille Silvestrini era interpretata, nel giugno 1993, come il primo segnale
pubblico che nella Curia romana esisteva un certo dibattito sul conclave futuro, mentre circolavano a Roma
notizie di incontri riservati di cardinali centroeuropei a Parigi per discutere dello stesso argomento.
Evidentemente il cardinale non aveva altra intenzione che quella di far comprendere ai suoi interlocutori
quanto fossero divenuti importanti i carismi personali nella scelta del papa rispetto ai tradizionali fattori
politici.
Silvestrini ricopriva il posto di prefetto della Congregazione per le Chiese orientali. Emiliano di origine, di
solida formazione teologica, egli aveva vissuto la sua carriera interamente ai vertici della Congregazione per
gli Affari Straordinari prima con Domenico Tardini, poi con Antonio Samoré, infine con Agostino Casaroli.
Egli si era conquistato una notorietà internazionale come capo della delegazione della Santa Sede al tavolo
della Conferenza per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa, dove era riuscito con millenaria abilità e
cortesia a far firmare a tutti i membri, inclusi i sovietici, gli impegni sulla libertà religiosa che premevano
alla Santa Sede. Ciò non gli era stato sufficiente, tuttavia, per evitare di essere relegato per alcuni anni nell'ufficio di capo del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, quando tutto lo faceva considerare il
successore naturale di Casaroli alla testa del «ministero degli Esteri» del Vaticano. Ma Wojtyla non aveva
tardato a rimediare a quella distrazione e a portare Silvestrini in un posto dove la sua duttilità e la sua
proverbiale intelligenza potevano essere più vantaggiose per il pontificato. In effetti non se ne era dovuto
pentire, perché Silvestrini lo aveva aiutato a tirarsi fuori senza troppi danni dall'imbroglio della crisi con gli
ortodossi russi nel 1990'92 e a ricostruire uno spazio meno precario per le Chiese cristiane nel Vicino e
Medio Oriente.
L'opinione di Silvestrini a proposito dell'elezione papale era che il conclave di Wojtyla aveva segnato una
rottura rispetto alle elezioni precedenti. «Con Wojtyla cambia tutto», affermava il cardinale. «Si oltrepassano
le Alpi. D'ora in poi, superato questo ambito, tutto è possibile. Credo che conterà sempre più la persona.
Papa Wojtyla è stato scelto soprattutto per la persona. Chi lo aveva visto agire e sentito parlare, riconosceva
in lui il fervore e la dottrina di un Padre della Chiesa, con una personalità singolare per i suoi carismi. In
futuro,
chissà, potrà benissimo emergere un latinoamericano, un africano... Ecco un grosso salto di qualità
geopolitico.»
Bastavano annotazioni così generali, per quanto significative, per suscitare una certa bagarre in Vaticano,
dove ogni vociferazione sul conclave viene naturalmente protetta dal più severo riserbo e dove si riflette
come si trattasse di un dogma all'aforisma: «Chi entra papa, esce cardinale». Lo scopo di questa riservatezza
è quello di evitare di dare adito a indiscrezioni o, peggio, a speculazioni intempestive, che possano essere
interpretate come una prematura e irriverente apertura delle operazioni elettorali, vivente il papa.
Tuttavia era lo stesso Giovanni Paolo il a squarciare con la sua abituale franchezza il velo del riserbo e a
parlare sinceramente delle sue debolezze fisiche, delle sue stanchezze durante le conversazioni coi giornalisti
in occasione dei suoi viaggi internazionali in Colorado e nei Paesi Baltici. Alcuni ricevevano l'impressione
che il papa fosse vivamente interessato a offrire di sé un'immagine più reale di quella costruita dal mito che
tende a sovrapporre sulla realtà d'una decadenza inevitabile lo stereotipo del superman dotato di poteri
speciali. Alcuni in Vaticano non dimenticavano l'incidente capitato a L'Osservatore Romano che aveva
pubblicato, il 19 agosto 1914, una secca smentita della notizia del raffreddore che aveva colpito Pio x,
ventiquattro ore prima della sua morte.
«Giovanni Paolo n è stanco, anziano», non esitava a dichiarare l'accademico di Francia Jean Guitton, arrivato
lucidamente a 92 anni. «Si prepara la successione. Credo che LI papa del Vaticano m sarà Giovanni Paolo in,
se così si chiamerà.» Il filosofo cattolico azzardava anche una previsione. «Sarà un papa nero e potrebbe
essere il cardinale Gantin, a lungo in Costa d'Avorio e adesso a Roma, dove lo chiamò Paolo vi: molto pio. O
l'arcivescovo di Dakar cardinale Thiandoum: grande cervello. Ma a loro potrebbe venir preferito il cardinale
Carlo Maria Martini di Milano.»
In una certa maniera si potevano già scorgere qua e là i segnali che il gioco dei pronostici, tanto fantasioso
quanto ozioso, era già un passatempo ricorrente fra i cattolici. Ma probabihnente rivestiva un maggiore
interesse l'inizio della discussione pubblica collegata al prossimo cambiamento della direzione ecclesiastica,
qualcosa di simile ad un dibattito internazionale sullo stato della Chiesa romana e sulle aspettative dei
cattolici per il programma pontificio dell'avvenire.
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Un dibattito aperto.
In questo dibattito emergevano alcuni problemi che erano considerati degni di attenzione da una parte non
trascurabile dell'opinione pubblica. Tornava ad essere sollevato, anzitutto, il problema della
riforma dello statuto monocratico del papato romano e dell'evoluzione giuridica del Sinodo dei vescovi. L'ex
priore generale della Congregazione Benedettina dei monaci eremiti camaldolesi, padre Benedetto Calati,
che l'aveva suscitato pubblicamente nel 1985, non si stancava di sottolineare che «la prima riforma da accelerare nella Chiesa è il passaggio da una forma gerarchicaclericale ad una forma di Chiesa "popolo di Dio",
con una sola centralità: quella della parola di Dio». Con audacia egli invitava a considerare che «finché la
Chiesa resta una Chiesa clericale, dunque papale, è difficile pensare che si sviluppi un reale processo di
deger archizzazione».
Secondo Calati, «il peccato originale di cui soffriamo è che abbiamo canonizzato uno solo dei vari carismi
necessari alla Chiesa, il carisma del sacerdozio. Esso è diventato così totale, così esclusivo da determinare
un'intera spiritualità, quasi l'intera morale e la struttura ecclesiale. Di qui anche il carattere assoluto attribuito
al ministero pontificio. Esso invece dovrebbe essere considerato come servizio all'interno della comunione
ecclesiale». Padre Calati sottolineava che «Gregorio Magno aveva tacciato di Anti Cristo il vescovo
Giovanni di Costantinopoli, il quale si comportava da vescovo universale»: «anche adesso», aggiungeva,
«sembriamo più seguaci di Gregorio VII che di Gregorio Magno, il papa che si diceva "servo dei Servi di
Dio"».
Erano numerosi i teologi e gli storici che condividevano, con alcuni gruppi cristiani, il disagio per una
situazione istituzionale che restava arretrata rispetto alle esigenze minime della partecipazione delle quali il
papato non cessava di invocare l'applicazione nei documenti della sua dottrina sociale sui diritti umani.
D'altra parte la Curia romana aveva profittato degli interessi universalistici di Giovanni Paolo ii per
rafforzare le preclusioni canoniche e istituzionali del conciliarismo e ostruire con una quantità di ostacoli
l'evoluzione del Sinodo episcopale verso una forma di partecipazione collegiale al governo della Chiesa
universale. Se il Sinodo permanente era la via maestra indicata dalla maggior parte dei progressisti per
mediare tra il Primato papale e il Concilio Ecumenico, non si vedeva come uno sviluppo del genere potesse
attirare il consenso dei gruppi più preoccupati in Vaticano di rafforzare, invece che indebolire, il potere del
papa, di fronte ai pericoli sempre più virulenti di disgregazione e le pressioni scismatiche serpeggianti.
Senza assegnare troppa importanza ai motivi di queste resistenze istituzionali, i novatori insistevano nel
prefigurare non solo un Sinodo permanente, con poteri deliberativi — e non solo consultivi —,
ma anche un Sinodo nel quale proponevano la presenza di rappresentanti di laici, uomini e donne, oltre che
del ceto gerarchico, per essere veramente il Sinodo di una Chiesa «non clericale».
In occasione della riunione annuale della Direzione della rivista Concilium, nel giugno 1993 alcuni teologi
dichiaravano che il modello egemonicogerarchico vigente nella Chiesa romana doveva essere rettificato da
forme di democrazia partecipativa, pur riconoscendo che la Chiesa non poteva, per sua stessa natura, essere
considerata una democrazia. Tuttavia essi ricordavano che lo stesso Paolo vi aveva riconosciuto la
compatibilita del potere primaziale del papa con un Sinodo dei vescovi munito di poteri deliberativi e
auspicavano che questo Sinodo potesse diventare «il vero governo centrale e collegiale della Chiesa».
Secondo Leonardo Boff, «questo collegio, integrato da rappresentanti di tutti i continenti, potrebbe avere un
presidente che funzionerebbe come Papa, che avrebbe un mandato determinato, per esempio di sei anni. Il
Nuovo Testamento», precisava il teologo brasiliano della Liberazione, «espone un modello. Gesù si circonda
di dodici apostoli. Dei dodici ne sceglie tre, quelli che gli sono più vicini, e dei tre sceglie Pietro, che è il suo
collaboratore immediato. Una cosa del genere si potrebbe fare nella Chiesa affinchè sia meno monarchica,
più collegiale e democratica».
L'idea di un papa eletto ad tempus non suscitava che la minima parte dello stupore che avrebbe sollevato
soltanto venti anni addietro. Non si trattava ormai che di un corollario ad un percorso che si poteva supporre
già abbastanza assimilato dalla psicologia collettiva cattolica: i vescovi abbandonano il governo delle diocesi
al compimento dei settantacinque anni, i cardinali non entrano in conclave se ne hanno compiuti ottanta
(anche se Luciani era favorevole a modificare questa norma) e da più parti si alzavano voci che facevano
notare come non tornava molto comprensibile che lo Spirito Santo concedesse al vescovo di Roma
un'assistenza anagraficamente più estesa di quella assicurata agli altri vescovi. Possibile — si chiedevano
alcuni — che solo i papi siano protetti dagli inconvenienti della vecchiaia, che conservino sempre un pronto
acume nel rapido fluire delle cose del mondo?
Ma altre proposte intervenivano ad arricchire le aspettative. In una immaginaria Lettera pastorale di
Giovanni xxiv all'inizio del Terzo Millennio, il teologo tedesco Bernard Hàring proponeva che fosse proibito
energicamente che si chiami il papa con titoli come «Sua Santità» e che si riciclino il trono e la tiara, da lui
definiti «sintomi di patologie profonde e causa di irritazione fra le Chiese sorelle». Egli invocava anche
l'abolizione delle porpore dei cardinali e dell'uso di titoli come «eminenze» ed «eccellenze». Venendo alla
questione del
la riforma istituzionale della Chiesa romana, il decano dei teologi morali cattolici insisteva sulla necessità di
recuperare le strutture sinodali del primo millennio: «in vista del ruolo ecumenico del vescovo di Roma»,
affermava Hàring, «tutte le Conferenze episcopali e tutti i Patriarcati parteciperanno alla sua elezione. Le
modalità esatte saranno determinate dal prossimo Sinodo dei vescovi».
Secondo Hàring, «una ponderata interpretazione teologica del primato del papa, fatta alla luce della Parola di
Dio e dei documenti dei Concilii, ha dimostrato che il magistero e il governo del papa sono pienamente
integrati nell'insieme della Chiesa. Per cui il papa non è un maestro della fede dal di fuori o dal di sopra.
Egli appartiene ai discepoli radunati intorno a Cristo, unico maestro, ed è parte della Ecclesia docens (Chiesa
docente) tanto quanto della Ecclesia discens (Chiesa discente). Nell'esercizio della sua autorità pastorale per
la Chiesa universale, egli è legato all'esempio dell'umile servo di Dio, Gesù Cristo. Perciò egli osserverà
scrupolosamente il principio della sussidiarietà».
A sua volta il teologo tedesco Norbert Greinacher, dell'Università di Tubinga e di tendenze conservatrici,
poneva pubblicamente la questione della differenza «tra conservatorismo dei valori e conservatorismo delle
strutture» nella Chiesa cattolica: «nei primi secoli di storia della Chiesa», egli ricordava, «papa, vescovi e
preti venivano eletti. La perversione è che la Chiesa è diventata una monarchia assoluta mentre le monarchie
assolute sparivano dalla scena europea». Egli sollevava «una somma di problemi interni che possono trasformarsi in una chance per la necessaria riforma della Chiesa».
Tra i problemi aperti, venivano citati il celibato ecclesiastico, il sacerdozio delle donne, la riunificazione
ecumenica delle Chiese in una ristrutturazione pluralistica delle grandi tradizioni cristiane d'Oriente e
d'Occidente («perché si dovrebbe accettare che dei fedeli restino privi dell'eucarestia nei paesi del Nord
come nel Sud del mondo, per colpa del dogmatismo della Curia, che rifiuta che dei bravi preti possano avere
moglie e che delle donne possano celebrare la messa?») «Un giorno arriveremo a un nuovo Giovanni xxm»,
concludeva Greinacher. «È chiaro, serve un nuovo papa. Ma quando dico che ci vuole un nuovo papa, perché
non pensare in futuro a una papessa?»
Altre iniziative affioravano qua e là nella Chiesa di Roma, benché governata con mano ferma dal vicario
cardinale Camillo Ruini. Nei circoli ecumenici si ricordava una parola di Martin Luterò, pronunciata a
Leipzig nel 1519, nel corso di una polemica con il teologo Giovanni Eck. Luterò aveva chiesto a Eck di
pregare con lui «perché il Cristo accordi al Pastore Supremo (il papa) e a tutti i vescovi la grazia
di essere dei buoni pastori del loro gregge». Anche i cristiani delle Chiese separate da quella romana si
univano nell'attesa di un uomo che potesse e desiderasse agire in accordo con i termini di quella preghiera.
Inoltre si notava un certo interesse a studiare progetti di interventi privati e pubblici, per esempio una lettera
di cristiani al collegio cardinalizio oppure contributi di varia provenienza per favorire l'esame dello stato
della Chiesa cattolica, in modo che il processo elettorale non fosse una questione dell'ultimo momento ed
esclusivamente riservata ad un gruppo di persone, detentrici del diritto elettorale, bensì il risultato di una
ampia partecipazione del «popolo di Dio».
Si ricordava allora la lettera indirizzata da Dante Alighieri ai cardinali prima dell'elezione di papa Clemente
v, accanto a quella, di rara intensità, inviata da un prete italiano, don Brizio Casciola, ai cardinali per il
conclave del 1914, dal quale sarebbe stato eletto Benedetto xv.
Don Casciola disegnava un ritratto del pontefice atteso, un identikit considerato nuovamente attuale:
II mondo cattolico chiede oggi a Voi, o Padri, un Pontefice non solo pio, ma intelligente, fermo e prudente, che si circondi di uomini
illuminati e disinteressati, uguale con tutti i suoi figli, libero per sé e per la Chiesa da ogni mira terrena; unito a Vescovi, non solo
docili, ma esperti e operosi, cari al gregge, e sicuri nell'esercizio del ministero; unito, dico, più che per via di giuramenti, da fiducia e
carità reciproche [...]; un Pontefice che non legiferi nelle materie libere e discutibili, rispettando il nativo diritto degli uomini a
cercare le verità umane e perseguire gli interessi di questa terra coi metodi loro, pur mostrando le vie del Cielo e asserendo con
fermezza gli eterni princìpi; che rispetti l'azione misteriosa della Grazia entro le anime, le coadiuvi, le guidi; che guardi ai dissidenti
con la simpatia che guadagna i cuori, che sia persuaso dell'opera incessante e progressiva di Dio nella storia; che anteponga la
persuasione alla coercizione; che moderi lo zelo amaro di una ortodossia verbale, presuntuosa, aggressiva e persecutrice; che non
lasci condannare nessuno che non fosse ascoltato; che preferisca la giustizia e la carità alle virtù passive, le grandi devozioni antiche
alle nuove pratiche minute, e restituisca i chiostri ai pensieri solenni; che soffochi la delazione, peste del Clero; che ami il popolo e si
volga a lui non per organizzarlo in partito, ma per comunicargli la luce, la gioia, la libertà di Dio; che dica ai Potenti parole
inflessibili di giustizia.
Ebbene un tal Pontefice, in un'ora tragica e grande come la nostra che ha messo a nudo l'orribile vuoto di una società pagana in
maschera cristiana e reclama un'autorità morale indiscussa per la salvezza del genere umano; un tal Pontefice deliberato a
maneggiare unicamente le pure e lucide armi dello spirito, noi tutti sentiamo che conquisterebbe in breve la venerazione e la fiducia
universale, che potrebbe conferire alla Chiesa un prestigio che non seppero l'abilità, la saggezza e la forza terrena adoperate per
secoli.
Non si poteva negare che, per quanta evoluzione spirituale avesse compiuto il papato grazie alle personalità
gigantesche che lo avevano interpretato in questo secolo, il ritratto del papa proposto agli inizi del secolo dal
profetico prete di Spoleto (18711957) conservasse una sua validità anche all'alba del secolo nuovo.
Anzi, sembrava tanto più opportuno e legittimo dopo che la trasformazione — avviata da Wojtyla — del
papato in istituzione civile, per la rifondazione etica della società mondiale, aveva autorizzato un
allargamento dell'interesse collettivo alle vicende dei papi, al di là della tradizionale riserva ecclesiastica.
Tutto questo contribuiva a far riemergere una delle costanti riconoscibili nella storia dei conclavi, e cioè il
loro legame con la riforma della Chiesa. Ancora una volta, al di là delle operazioni politiche e delle manovre
dei gruppi interessati, si verificava che la fase di flessibilità e di cambiamento caratteristica della vacanza
della Sede papale portava allo scoperto delle esigenze di riforma che la Chiesa aveva nel suo complesso
accumulato e meditato nell'esperienza del pontificato trascorso.
In questa fase affioravano soprattutto le esigenze di quella mutazione profonda che il Concilio Vaticano 11
aveva promosso ma che sembravano solo parzialmente realizzate nella Chiesa successiva. Il confronto
costruttivo con la secolarità sembrava lontano dall'aver sviluppato nella Chiesa romana i suoi benefici, come
superamento della sua confusione con la metafisica greca e con il linguaggio sacrale, mentre il compromesso
secolare dell'istituzione ecclesiastica con l'ideologia del Sacro rendeva ancora penoso lo sforzo di quei
cristiani per i quali il cristianesimo non era altro che «la religione dell'uscita dalla religione».
Forse le modalità anticonvenzionali con cui Giovanni Paolo n aveva interpretato il suo ruolo, fino a
«dissacrare» le forme del papato regalista d'un tempo, avrebbero contribuito a farlo evolvere verso un
modello meno sacrale e più evangelico, più semplice, come servizio fraterno in una Chiesa di liberi e di
eguali. In ogni caso era di questo che si parlava nel dibattito apertosi intorno ai problemi critici del governo
centrale della Chiesa romana.
Uno dei primi posti dell'ordine del giorno, come abbiamo visto, era occupato dalle preoccupazioni per le
carenze verificatesi nell'applicazione di una effettiva collegialità, ma anche per l'impatto a lungo termine che
avrebbero avuto quei gruppi che avevano ricevuto uno spazio sproporzionato nella Chiesa per le loro pretese
neocentriste e fondamentaliste. Benché Giovanni Paolo n avesse saputo limitare, in quanto possibile, le
pressioni di quelle forze curiali che puntavano ad un'interpretazione estensiva e massimalistica del dogma
dell'infallibilità, pure restava ancora molto sensibile nella discussione la questione del riequilibrio del potere
pontificio con le esigenze della collegialità episcopale. Molte discussioni vertevano sulla configurazione
giuridica e costituzionale che avrebbe potuto ricevere un Sinodo dei vescovi con poteri reali intorno al papa,
per alleviarlo di un cumulo di responsabilità insopportabili per un uomo solo, e tanto più allorché venisse
indebolito dall'età avanzata e dalle malattie.
Si faceva uscire dall'archivio una proposta, rimasta inevasa, fatta nel 1969 da Joseph Ratzinger, secondo il
quale «bisognava considerare compito per il futuro quello di distinguere di nuovo chiaramente l'ufficio
proprio del successore di Pietro e quello patriarcale». Infatti, secondo il teologo tedesco, l'immagine di uno
Stato centralizzato offerto dalla Chiesa cattolica non deriva di per sé dall'ufficio petrino, ma dal suo stretto
nesso con il compito patriarcale, rafforzatosi sempre più nel corso della storia, attribuito al vescovo di Roma
per l'intera cristianità latina. Il diritto canonico unitario, la liturgia unitaria, la designazione di quasi tutti i
vescovi dalla centrale romana: sono tutte cose «non necessariamente collegate con il primato in quanto tale,
ma che nascono soltanto con questa stretta unione dei due uffici». Per il futuro si sarebbe dunque dovuto
semplicemente creare nuovi patriarcati e smembrarli dalla Chiesa latina. La Chiesa — sostenevano i teologi
del Manifesto di Colonia nel 1989 — avrebbe dovuto applicare con più coerenza e in modo sistematico nella
sua vita interna il principio di sussidiarietà e accettare che anche per se stessa si imponeva il principio di una
migliore realizzazione della comunione e dell'ascolto dei carismi. Abbandonando risolutamente una
concezione della sovranità largamente influenzata dalle dottrine politiche assolutiste, si suggeriva al papato
che avrebbe fatto meglio a discernere la sfida della complessità e della relatività lanciata dalla cultura
contemporanea per «rimettersi in relazione» come autorità fraterna al servizio della libertà delle coscienze e
della dignità delle culture. «Guardando a Gesù che non si è presentato come padre, ma fratello dell'uomo»,
diceva il teologo Hermann J. Pottmeyer, «la maggior parte dei cattolici spera oggi che il ministero petrino nel
in millennio acquisti nuova autorità come servizio fraterno in una chiesa di fratelli e sorelle». Ma la
discussione sul conclave non si riduceva a una critica convenzionale a proposito dei ritardi nei processi di
decentralizzazione del cattolicesimo. Assai più impegnativo era il confronto con l'apporto fornito dal papato,
da papa Giovanni in avanti, al dialogo con le grandi tradizioni spirituali dell'umanità, e ad una visione
effettivamente multiversale del valore dell'ispirazione cristiana nella storia
umana.
Questa prospettiva sembrava rendere ineludibile la funzione universalistica del papato romano, — non più in
senso politico, bensì in senso eticoprofetico — anche se i teorici della restaurazione della sua precipua
funzione episcopale romana continuavano a far sentire le loro ragioni antiquariali. Giovanni Paolo n aveva
plasmato un modello papale difficilmente eludibile ed era unanime la convinzione che il suo successore non
avrebbe potuto minimizzare alcune innova
zioni, per esempio la prassi delle visite alle Chiese particolari, anche se gestite con meno retorica.
Forse una fase di maggiore discrezione nel magistero, di maggiore silenzio, di una minore sovrabbondanza
ed esorbitanza di interventi in tutti i campi era ciò che si auguravano gli autori di un racconto di fantapolitica
vaticana i quali avevano immaginato l'avvento di un papa «discente», intorno al quale i microfoni della
Radio Vaticana si arrugginivano e tutti i vescovi, lui compreso, entravano in un «anno sabbatico».
Questo immaginario postulava all'orizzonte un soggetto papale disposto a rivendicare la totale alterità del
Kerygma di fronte ai valori mondani e umanistici e recuperare perciò un profetismo libero e ampio, capace di
andar oltre alla sagacia dei saggi e agli stessi interessi immediati della vita organizzata della Chiesa nei suoi
confini visibili.
Tuttavia non si poteva vivere di sogni ed era innegabile che il papato difficilmente avrebbe potuto venir
meno alla responsabilità di contribuire, in dialogo con le culture, all'illuminazione del cammino accidentato
dell'umanità in una fase talmente fortunosa della sua storia. La convinzione critica che il Magistero non
dovrebbe sentirsi incaricato di dire l'ultima parola anche in questioni «naturali» pronunciandosi al posto di
tutti e al di sopra di tutti, non poteva autorizzare — precisavano altri — un atteggiamento rinunciatario del
Magistero dal suo dovere di essere una guida profetica capace di contribuire alla riflessione comune.
Si faceva valere inoltre l'argomento che per la prima volta nei secoli moderni il papato si misurava con la
realtà di un mondo unipolare, la quale, come nelle epoche «imperiali», poneva alla Chiesa romana
necessariamente problemi di libertà religiosa e di tensioni critiche nel «secolare».
Anche per questo l'elezione del papa era un problema che interessava non solo i 930 milioni di cattolici ma
anche le grandi religioni mondiali, le Organizzazioni Internazionali e i governi degli Stati in tutto il mondo.
Dopo che Giovanni Paolo n aveva dato al compito spirituale del suo ufficio una espansione mondiale senza
paragoni possibili, difficilmente si sarebbe potuto minimizzare, in vista del nuovo conclave, l'importanza
anche politica dell'avvenimento sul quale infatti gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede azzardavano previsioni e analisi nei loro rapporti segreti.
In effetti, solo a prima vista poteva apparire paradossale che, a mano a mano che il papato era stato spogliato
del suo potere politico territoriale e delle sue pretese teocratiche, per rendersi meno dissimile dall'immagine
fraterna e martiriale della sua fondazione petrina, esso aveva guadagnato in capacità simbolica e in influenza
morale, con un rafforzamento senza precedenti, nei fatti e teologicamente, del ruolo storico dell'autorità
papale.
Tale poteva essere alla fine del xx secolo la lezione da considerare
attentamente nell'analisi delle grandi fasi di debolezza e di umiliazione subite dalla Chiesa cattolica in epoca
moderna, dalla Rivoluzione Francese al crollo dello Stato pontificio per arrivare alla crisi del suo potere
decisionale sulle scelte politiche e sessuali dei suoi fedeli e persino nella relativa obbedienza del «popolo di
Dio» ai precetti del culto. «Una forza debole» era la definizione proposta da Andrea Riccardi per sintetizzare
questa vicissitudine. «Una forza spirituale che scaturisce dalla sua debilitazione materiale e politica, e che in
ragione di questa debolezza ha la possibilità di proporre le sue ragioni, che non sono sue, ma del Vangelo, al
mondo futuro.» Aspettative del genere sembravano lavorare per una figura papale «profetica» anche nella
azione politica, capace di discernere i «segni del tempo» alla luce della Parola di Dio, ma con discrezione, e
senso kerygmatico, fuori della fatua pretesa di dettare al mondo le regole universali e di attualizzare la
volontà direttiva del mondo da parte del Sacro, anche in ciò che sacrale non è; un papa consapevole che il
kerygma impone alla Chiesa il compito esclusivo della predicazione salvifica liberandola dai compiti, tutt'al
più surrogatorii, connessi alla logica del progresso e della civiltà.
Jacques Neirynck ha dato dignità letteraria a queste attese universali. Nel romanzo Le manuscript du
SaintSepulcre [Cerf 1994] egli ha prefigurato l'avvento d'un Giovanni xxiv che, in un discorso al Sinodo dei
Vescovi riunito nella cripta della Basilica Vaticana, presso la tomba di Pietro, sottopone ad un riesame senza
compiacenze gli errori compiuti dalla Chiesa romana, in particolare i compromessi col potere politico e col
potere del denaro e l'aver lasciato senza reali risposte i nove decimi del gregge allontanatisi dalla Chiesa per
custodire «le pecore timorate, i superstiziosi, gli scrupolosi e i pusillanimi».
Questo papa immaginario invoca una riforma dell'istituzione e dei metodi di governo della Chiesa in senso
democratico e ammette che «la separazione dai nostri fratelli ortodossi e riformati è risultata automaticamente da una centralizzazione eccessiva del potere». «Abdicare questo potere assoluto», aggiunge,
«è la premessa per restaurare l'autorità delle Chiese locali [...]. Non è più possibile, secondo visioni umane,
lasciare una posizione dominante al patriarca della Chiesa latina, che conceda a denti stretti una eguaglianza
formale ai suoi omologhi orientali uniti a Roma.»
Di qui la decisione di Giovanni xxiv di convocare un concilio veramente ecumenico, aperto ai patriarchi di
tutte le Chiese e alle conferenze episcopali, e di abdicare a tutti ì titoli e le funzioni accumulate sulle spalle
del vescovo di Roma: vicario di Gesù Cristo, successore del Principe degli Apostoli, Sommo Pontefice della
Chiesa universale, patriarca d'Occidente, primate d'Italia, arcivescovo e metropolita della provincia romana,
sovrano dello Stato del Vaticano. Fra tut
ti i titoli e le funzioni che gli spettano, Giovanni xxiv decide di mantenere solo quello di vescovo di Roma.
«Da questo momento», precisa, «lo Stato sovrano del Vaticano chiede la sua reintegrazione nello Stato
italiano. Per conseguenza, le nunziature e le delegazioni apostoliche cessano di esercitare le loro funzioni di
rappresentanze diplomatiche. La totalità dei funzionari ecclesiastici e laici del Vaticano tornano alle loro
diocesi d'origine. La basilica vaticana, tranne la cripta in cui ci troviamo, cesserà di essere un luogo di culto
perché essa commemora meno la sepoltura di Pietro che il trionfalismo della Controriforma. La vendita delle
indulgenze ha finanziato la sua costruzione ed essa ha comportato lo scisma dei cristiani riformati. Non è
possibile essere il simbolo dell'unità risiedendo in una chiesa che è l'emblema della divisione. Così, io mi
dirigo subito verso la cattedrale del vescovo di Roma, la basilica di San Giovanni in Laterano. Io non
ritornerò in questo luogo che per raccogliermi sulle tombe di Pietro e di Giacomo suo fratello in compagnia
dei miei fratelli pastori. Parto alla ricerca delle pecore perdute.»
La riforma elettorale di Giovanni Paolo n
II 22 febbraio 1996, in un periodo in cui si aggravavano le preoccupazioni per le sue condizioni di salute e di
validità, Giovanni Paolo n emanava la Costituzione apostolica Universi Dominici Grecis, sulla Sede vacante
(il cui testo riportiamo in appendice). Questo documento confermava sostanzialmente la struttura elettorale
stabilita da Paolo vi, riportandone alla lettera la maggior parte delle disposizioni. Il relativo decentramento
interno dal luogo elettorale, dislocato come in passato nella Cappella Sistina, non era accompagnato da un
alleggerimento delle misure di tutela della sicurezza. Al contrario, l'isolamento dei grandi elettori apparve
rafforzato, quasi fossero blindati e messi sotto scorta durante l'intero periodo elettorale, in un Vaticano in cui
la vita ordinaria ne risulterebbe condizionata: i locali della Domus Sanctae Marthae — nuova e più
confortevole residenza degli elettori — come pure e in modo speciale la Cappella Sistina e gli ambienti
destinati alle celebrazioni liturgiche, dovranno essere chiusi alle persone non autorizzate.
Di più, la Costituzione di Wojtyla decreta che «l'intero territorio della Città del Vaticano e anche l'attività
ordinaria degli Uffici aventi sede entro il suo ambito dovranno essere regolati, per detto periodo, in modo da
assicurare la riservatezza e il libero svolgimento di tutte le operazioni connesse con l'elezione del Sommo
Pontefice.
In particolare si dovrà provvedere che i Cardinali elettori non siano avvicinati da nessuno mentre saranno
trasportati dalla Domus Sanctae Marthae al Palazzo Apostolico Vaticano» (art. 43). Che se qualcuno dovesse
casualmente imbattersi in un cardinale elettore in tem
pò di elezione, gli è fatto «assoluto divieto di intrattenere colloquio, sotto qualsiasi forma, con qualunque
mezzo e per qualsiasi motivo, con i medesimi Padri Cardinali» (art. 45). La preoccupazione del segreto è
accompagnata dal timore per l'ingerenza tecnologica dei media moderni — considerati «insidie tese alla
indipendenza di giudizio e alla libertà di decisione degli elettori, al punto che anche questa Costituzione
dispone «accurati e severi controlli, anche con l'ausilio di persone di sicura fede e provata capacità tecnica,
perché nella Cappella Sistina e nei locali contigui non siano subdolamente installati mezzi audiovisivi di
riproduzione e trasmissione all'esterno» (art.
51).
Dal punto di vista del diritto elettorale, l'innovazione più rilevante introdotta da Giovanni Paolo n è la revoca
delle antiche forme dell'elezione per compromissum e per ispirazione o per acclamazione. Questa riduzione e
semplificazione della normativa elettorale è stata motivata col ricorso alle «attuali esigenze ecclesiali» e agli
«orientamenti della cultura moderna». Wojtyla ha ritenuto «inadatta ad interpretare il pensiero moderno»
l'elezione quasi exinspiratione, data la diversità e ampiezza del collegio elettivo. Ha anche scartato l'elezione
per compromissum «non solo perché di difficile attuazione [...] ma anche perché di natura tale da comportare
una certa deresponsabilizzazione degli elettori i quali, in ipotesi, non sarebbero chiamati ad esprimere
personalmente il proprio voto». Non è rimasta dunque che l'elezione a scrutinio segreto, fatta a maggioranza
di due terzi. La Costituzione di Giovanni Paolo n restaura il quorum dei due terzi netti dei voti per l'elezione,
come aveva stabilito Giovanni xxm, abbandonando la richiesta dei terzi più uno fissata da Paolo vi. Solo se il
numero degli elettori (confermato in un massimo di 120) non possa essere diviso in tre parti uguali, si potrà
aggiungere un voto. In questo modo Giovanni Paolo II ha favorito il successo di una maggioranza che
trovasse difficoltà a portare un candidato al di là della soglia fatidica.
Non meno rilevante la conferma dell'evoluzione giuridica tendente a rendere più flessibile e meno
incondizionato il regime dei due terzi dei voti. La Costituzione wojtyliana infatti non si limita a confermare
lo spiraglio, introdotto da quella di Paolo vi, di un abbassamento del quorum alla maggioranza assoluta (61
voti su 120) nel caso che tre cicli completi di scrutini fossero inutili. Egli offre agli stessi cardinali elettori, in
caso di stallo del processo elettorale, di decidere a maggioranza assoluta la fase successiva della ricerca di
una via d'uscita «o con la maggioranza assoluta dei suffragi o con il votare soltanto sui due nomi i quali nello
scrutinio immediatamente precedente hanno ottenuto la maggior parte dei voti, esigendo anche in questa
seconda ipotesi la sola maggioranza assoluta» (art. 75). Questa misura porta le stigmate del dramma del
conclave in cui Wojtyla era stato
eletto nel 1978, con l'infinito braccio di ferro tra i cardinali Siri e Benelli.
La terza innovazione introdotta da Wojtyla nel diritto elettorale pontificio è l'ammissione esplicita della
rinuncia del papa al proprio ufficio come causa dell'apertura della Sede Vacante. NelPaffermare che il
collegio cardinalizio non può in alcun modo disporre circa i diritti della Sede Apostolica e della Chiesa
romana, la Costituzione fa riferimento esplicitamente alla «valida rinuncia del Pontefice» e non solo alla sua
morte, per indicare l'inizio della vacanza della Sede Apostolica. Durante questo periodo «il Collegio dei
Cardinali non ha nessuna potestà o giurisdizione sulle questioni spettanti al Sommo Pontefice mentre era in
vita o nell'esercizio delle sue funzioni del suo ufficio» (art. 1). È stata così reintrodotta l'ipotesi di un papato
«a tempo», non foss'altro che per dotare il sistema romano d'uno strumento giuridico adeguato nel caso
deprecabile di un'invalidità tale del Sommo Pontefice da rendergli impossibile l'esercizio delle potestà, le
quali hanno carattere personale e indelegabile. Malgrado le pressioni, esercitate fino all'ultimo, anche per
mezzo di anticipazioni ben orchestrate su un giornale romano, Giovanni Paolo II ha saputo difendere la
norma di Paolo vi circa l'esclusione dei cardinali ottantenni dal diritto elettorale attivo. Egli li ha anzi invitati
a presiedere riunioni di preghiera nelle Basiliche e nelle comunità cristiane romane durante lo svolgimento
del Conclave, ed ha ammonito i cardinali elettori a mantenere il segreto anche con i loro colleghi non
elettori.
Tuttavia la Costituzione di Giovanni Paolo II ha confermato il carattere oligarchista del Conclave
cardinalizio, relegando ad una mera affermazione di principio, priva di attuali conseguenze reali, la
partecipazione del Popolo di Dio all'elezione del pontefice. Inoltre, Giovanni Paolo n ha ordinato che durante
la vacanza della Sede Apostolica non solo il Sostituto della Segreteria di Stato resti in carica, ma anche il
Segretario per i Rapporti con gli Stati e i segretari dei dicasteri della Curia romana: tutti costoro
«mantengono la direzione del rispettivo Ufficio e ne rispondono al Collegio dei Cardinali» (art. 20). La
decisione di mantenere in funzione il «nocciolo duro» della burocrazia centrale, anche dopo la morte del
papa, è una misura nuova, destinata a testimoniare la continuità della Curia romana, la sua quasi
«immortalità» nella transizione da un papa all'altro, e a vincolare di fatto il Successore, senza quella
soluzione di continuità che l'automatica decadenza degli uffici offriva in passato come possibilità, almeno
virtuale, di passaggio ad una équipe di collaboratori su misura dell'eletto. Tali disposizioni, lette
sinotticamente con quelle che autorizzano anche il Vicario del papa per la diocesi di Roma e l'arciprete della
Basilica Vaticana e Vicario generale per la Città del Vaticano a rimanere in carica, sembrano costituire
l'interfaccia di quelle che ingiungono l'immediata sospensione di un Con
cilio ecumenico o di un Sinodo dei Vescovi, appena si abbia notizia della vacanza della Sede Apostolica (art.
34).
Un'altra innovazione introdotta dalla Costituzione wojtyliana consiste nella istituzione della figura dei
predicatori conclavisti: due ecclesiastici «di specchiata dottrina, saggezza ed autorevolezza morale», ai quali
è affidato dai cardinali, in una delle prime Congregazioni generali, il compito di dettare ai cardinali stessi
«due ponderate meditazioni circa i problemi della Chiesa in tale momento e la scelta illuminata del nuovo
Pontefice» (art. 13, d).
Non trascurabile infine il riguardo nuovo usato da Giovanni Paolo ii per i membri del suo entourage
personale. Nel regime precedente, essi dovevano abbandonare l'appartamento privato del papa non appena il
Camerlengo prendeva il controllo e apponeva i sigilli, subito dopo la morte del pontefice. Ora «i polacchi»
possono respirare: i sigilli possono essere apposti solo dopo la sua sepoltura, nove o anche dieci giorni dopo.
Essi hanno ottenuto dunque tutto il tempo necessario per il trasloco mentre i segretari dei pontefici Giovanni
xxm e Paolo vi avevano dovuto subire alla morte dei superiori una interpretazione quasi vendicativa
dell'assioma Morto un papa se ne fa un altro e fare le valige entro ventiquattro ore.
// collegio elettorale wojtyliano.
II 30 ottobre 1994, quando il Vaticano fece conoscere i nomi dei trenta nuovi cardinali creati da Giovanni
Paolo n, alcuni giornali in Italia lanciarono dei titoli come: «II papa disegna il conclave», «Wojtyla prepara
la successione». Benché queste formule fossero premature, esse non erano troppo lontane dalla verità. Infatti
quel Concistoro permetteva di discernere in modo sufficientemente probabile alcune evoluzioni delle
strutture cardinalizie quali erano venute emergendo attraverso le sei creazioni cardinalizie fatte fino a quel
momento dal papa polacco, con la creazione complessivamente di 136 cardinali, di cui cento elettori, cioè il
60,6% del corpo elettorale.
Ormai il collegio cardinalizio si poteva considerare in modo preponderante una creazione di Giovanni Paolo
n. Gli elettori nominati da Paolo vi non erano più di venti e il loro numero era destinato a ridursi
inesorabilmente a causa del meccanismo dell'età, che espelleva gli ottantenni dall'area elettorale attiva. Non
restava più alcun cardinale dell'epoca di Giovanni xxm che potesse votare nel nuovo conclave.
La creazione cardinalizia del 1994 si distingueva dalle precedenti principalmente per il fatto che il papa, con
la nomina dei trenta nuovi cardinali, di cui alcuni anziani non più in grado di votare, colmava i vuoti del
collegio elettorale, portando il numero dei membri di questo collegio al massimo di 120 previsto dagli statuti,
un limite che lo stesso papa aveva già nel 1991 dichiarato di voler mantenere. Global
mente, sommando elettori e non elettori, si arrivava ormai a 165 cardinali, la cifra più elevata mai vista nella
storia. Tuttavia i cardinali con meno di 80 anni e che conservavano perciò il diritto di eleggere il vescovo di
Roma erano ormai esattamente 120, cioè il tetto fissato dalla costituzione elettorale di Paolo vi, che sarebbe
stato confermato anche da quella di Giovanni Paolo n nel 1996. L'ingranaggio implacabile del tempo, e
alcuni decessi, aprivano successivamente nuovi vuoti nel collegio cardinalizio. Si poteva dunque facilmente
prevedere che il gruppo dei cardinali non elettori (composto di 42 cardinali, dopo la morte del cardinale
belga Suenens il 6 maggio 1996, dei quali 29 europei) tendesse a diventare sempre più importante tanto per
la sua consistenza numerica che per le personalità che lo componevano. Fra i cardinali esclusi, i più
penalizzati dal dispositivo della legge sugli ottantenni, mantenuta da Wojtyla, erano gli italiani, che
contavano già 17 esclusi dal conclave, per la maggior parte ex funzionari di Curia e della diplomazia
vaticana.
La lista dei ritiri, aggiornata al maggio 1996, prevede che 4 cardinali siano congedati entro la fine del 1996,
tre entro il 1997, 5 ancora entro il 1988, sette entro il 1999 e 8 entro il fatidico anno Duemila, cioè in totale
27 esclusioni dal 1996 alla fine del secolo. Sommando questi 27 con i 42 non elettori già acquisiti, si avrebbe
un corpo cardinalizio privo del potere elettorale con ben 69 membri, astrazion fatta degli inevitabili decessi.
Si tratta di un numero più elevato di quello dei cardinali che avevano partecipato alle elezioni di Pio x, di
Benedetto xv, ma anche rispetto ai 51 elettori di papa Giovanni nel 1958. A parte ogni considerazione sulla
congruenza di questa esclusione in una comunità che vorrebbe essere radicalmente diversa da una
multinazionale e non farsi regolare dalla sola considerazione dell'efficienza, restava da considerare una serie
di ricadute di questo crescente corpo di cardinali esclusi sul processo elettorale complessivo. Infatti, era già
evidente che gli elettori non potevano costituire la maggioranza dei due terzi del collegio cardinalizio nel suo
complesso, quel collegio che Giovanni Paolo n aveva invece, in più di una occasione, cercato di attivare e di
valorizzare con i concistori straordinari delplenum dei cardinali, per consultazioni collegiali sui problemi più
urgenti del governo centrale della Chiesa. Le condizioni strutturali facevano prevedere con un'elevata percentuale di probabilità l'emergere di una tensione tra il collegio cardinalizio nella sua completezza e il più
ridotto e meno anziano collegio cardinalizio al quale l'età assicurava — per il mero dato anagrafico — la
conservazione del diritto per sé originario e assolutamente qualificante del cardinalato, di provvedere
all'elezione del vescovo di Roma.
D'altra parte la legislazione elettorale promulgata sotto Paolo vi — e mantenuta da Giovanni Paolo il —
aveva disposto che tutti i cardinali, anche quelli privati dell'esercizio del diritto elettorale, parteci
pino alle Congregazioni generali convocate subito dopo la morte del pontefice per trattare delle questioni
principali del governo della Chiesa durante la Sede Vacante. Queste assemblee si svolgono durante F attesa
di quindici giorni prescritta per dar modo ai cardinali di raggiungere il luogo dell'elezione prima di dar corso
agli scrutimi.'
Si può tuttavia notare che la rapidità delle comunicazioni globali consente ai cardinali di raggiungersi e di
dar luogo alle Congregazioni preconclavarie nel giro di poche ore. Era facile prevedere che queste assemblee
generali, assimilabili per analogia a quelle plenarie concistoriali, avrebbero assunto un ruolo consultivo tanto
più significativo in quanto esse avrebbero integrato anche quel terzo del collegio escluso per ragioni
d'anagrafe, non certo per cessazione del diritto. E ciò tanto più se si considerava che precisamente fra gli
esclusi dal conclave, ma presenti al preconclave, si potevano riconoscere personalità di primo piano, dotate
di larga esperienza di governo al centro della Chiesa e nelle diocesi, sotto i pontificati precedenti, con un
patrimonio conoscitivo e virtù di prudenza difficilmente eguagliabili.
Era perciò naturale considerare precisamente questa fase preconclavaria forse quella determinante, in ragione
del mutamento sociologico nella composizione del collegio elettorale e delle sue ripercussioni nel processo
elettorale, esaminato nella sua complessità. Si poteva presumere che, nello scambio fra tutti i cardinali
presenti alle Congregazioni, elettori e non elettori, sarebbero stati facilmente favoriti quei confronti più ampi
dai quali sarebbero emersi con alta probabilità elementi conoscitivi e valutativi interessanti in ordine alla fase
successiva, quella dell'elezione vera e propria, se non prodursi le maggioranze programmatiche da verificare
nel conclave ristretto al momento del voto.
L'analisi di queste tendenze istituzionali del collegio cardinalizio spingeva alcuni studiosi ad ascrivere un
rilievo più significativo che in passato alla fase consultiva precedente il conclave vero e proprio. Alcuni si
sentivano anzi autorizzati ad esagerare questo ruolo, fino a ridurre ad una mera «funzione notarile» le sedute
del conclave vero e proprio e a parlare addirittura di «fine del conclave».
Secondo un documento riservato preparato da un gruppo di lavoro della scuola di Bologna, «è evidente che
nei 1314 giorni in cui gli elettori vivono insieme a Roma, pesa un generico obbligo al segreto, ma non la
clausura e si possono formare le maggioranze, rispetto alle quali (si pensi alla fulminea elezione di papa
Luciani) la seduta del conclave vera e propria ha una mera funzione notarile. Le Congregazioni sono
documentatamente correlate ad incontri, visite, scambi, nei quali gruppi di pressione, ambienti diplomatici,
osservatori ed esperti hanno accesso agli elettori. E comunque, anche ipotizzando un volontario ritardo
nell'arrivo dei "grandi" cardinali, la rapidità di comunicazioni li coinvolge di fatto nelle trattative».
Secondo questo filo di ragionamento, «l'idea di escludere i cardinali ultraottantenni dal conclave risulterebbe
perciò svuotata rispetto alle considerazioni appena svolte, giacché tutti i membri del collegio cardinalizio
partecipano alle congregazioni generali, le quali possono, fin dalle primissime sedute, essere frequentate da
tutti i porporati, tanto romani che non [...]. Le Congregazioni potrebbero diventare», concludeva il
documento, «la sede per quel dibattito sullo status Ecclesiae che è, al fondo, il vero passaggio e la vera scelta
che compete al collegio cardinalizio».
Ipotesi del genere contribuivano a valorizzare l'importanza di una fase del processo elettorale che,
precedendone il momento conclusivo e formale, ne favoriva il ritorno ad una struttura partecipativa più
ampia, fino a ricondurlo ad una maggiore coerenza con la natura della Chiesa «popolo di Dio». Infatti
l'allargamento del processo elettorale ai cardinali esclusi dall'esercizio del diritto non poteva non costituire la
premessa di fatto per integrare in tale processo altri soggetti ecclesiali per sé privi, come i cardinali
ultraottantenni, del diritto di partecipare all'elezione papale, con ciò sollecitando la ricomposizione della
frattura storica che aveva escluso prima di loro dall'elezione papale le rappresentanze del clero e del popolo
di Roma.
La fase delle Congregazioni generali poteva perciò essere disponibile come sede congrua per integrare nella
ricerca del nuovo vescovo di Roma quelle altre componenti della Chiesa romana che in antico partecipavano
anch'esse a pieno titolo alla sua scelta. Del resto, è in questa fase, pur decisiva per gli orientamenti del
collegio elettorale, che vengono meno le caratteristiche qualificanti del moderno conclave, la segretezza e la
clausura. Tutti i cardinali infatti rientrano nelle loro residenze dopo le Congregazioni e, pur tenuti al segreto
sugli argomenti in queste trattati, non possono rifiutarsi al libero confronto con gli operatori dell'opinione
pubblica e con i soggetti ecclesiali interessati.
Anzi, i gruppi cristiani attivi nella Chiesa di Roma per la trasformazione del processo elettorale pontificio in
autentico processo ecclesiale hanno proposto che i cardinali