continua a leggere il capitolo sulle donne italiane
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Romanzo In Italia, molte fra le donne che tra Ottocento e Novecento, cominciarono a scrivere furono autodidatte e si trovarono a lottare contro le convenzioni che le escludevano dagli studi superiori e dalle maggiori università, contro le ristrettezza culturali della famiglia e dell'ambiente, contro i fraintendimenti dei lettori e l'ostilità dei critici. Giovanni Boine affermava, ad esempio, che le donne scrivono " per esibirsi; come passeggiano per strada o come si scollano a teatro" e che i loro libri prolungano "le occhiate, il profumo, il dondolamento dell'anche", mirando sempre "com'è naturale ed è giusto, all'eccitamento del maschio". Così che, "chiuso uno di questi volumi ..., ognuno che veda chiaro dovrebbe concluderà fra sé così: - Va bene. Vuol ora, signorina, passarmi il suo indirizzo? - " E' ancora più aggressivo, quando rimproverava ad Amalia Guglielminetti di aver voluto descrivere, in L'insonne , "con aria tragica una sua notturna porcheria fatta in carrozza" In realtà, per lui, come per quasi tutti i letterati (compreso lo stesso Croce) lo stile di una donna è apprezzabile quando è "maschio" e la definizione di "arte donnesca" equivale a un giudizio negativo, a una squalifica, se non, come abbiamo appena visto, a una ingiuria. Più acuto e sensibile si mostra Luigi Capuana, quando a proposito della Neera scrive: "Anni fa mi si era fatto credere che il poetico nome di Neera nascondesse la persona di un uomo. [...] Ma un bel giorno fui molto sorpreso di incontrarmi nella Neera in carne ed ossa, una giovane signora vestita con elegante semplicità [...] Uno pseudonimo, rassomiglia a una clausura. [...]. Il pseudonimo di una signora, soprattutto, significa: -Badate! Io voglio essere due persone: una, la donna -fanciulla, madre di famiglia, zitellona, - che vive pei parenti e pegli amici, che non isdegna nessuno dei suoi doveri domestici, previdente, massaia, infermiera [...] l'altra, la scrittrice che mette fuori ogni anno dei volumi composti non si sa quando, nei momenti rubati al sonno e alle preoccupazioni della vita giornaliera. E' di questa e soltanto di questa, cioè dei suoi libri che il pubblico e la critica debbono interessarsi". Invece "il pubblico è indiscreto" e anche "i critici che fanno mestiere di scandalizzarsi di tutto, quando si incontrarono in alcune pagine di Addio e di Vecchie Catene ove la passione parla il suo caldo ed irragionevole linguaggio ne dedussero che l'autrice di quelle pagine doveva aver sentito qualcosa di quei colpevoli ardori" Anche Capuana però pur di gran lunga più sottile e aperto di altri critici, mostra la difficoltà di saldare le funzioni convenzionalmente scisse nella figura femminile, la funzione "donnesca" (affetti, doveri domestici, cura parentale) e quella intellettuale (scrivere). Egli non riesce cioè ad intendere a pieno che, in Neera, la scrittrice non intende rinunciare al suo essere donna e che il suo era uno dei primi tentativi di trasformare l'universo femminile da esperienza di vita a esperienza letteraria. Tale era la cultura italiana . Eppure, anche nelle prime e spesso incerte prove delle donne, persino in quelle più legate - dal punto di vista linguistico e tematico - a stereotipi convenzionali, aleggia un'ansia, una scontentezza, un represso senso di ribellione, che premono per essere detti. Se queste autrici non costituiscono ancora modelli di letteratura al femminile, rappresentano gli incunaboli della ricerca successiva: trovare una cifra individuale e personale che consentisse loro di esprimere le incertezze e le contraddizioni del proprio destino. Di condizione elevata e colte erano le donne che, in modi diversi, si inserirono nel processo di rinnovamento della letteratura italiana tra Settecento e Ottocento e quelle che sostennero le lotte politiche e indipendentistiche dei primi decenni del secolo XIX. Eleonora de Fonseca Pimentel, letterata, seguace delle idee giacobine francesi, fu tra i maggiori sostenitori della rivoluzione napoletana del 1799, fondando e dirigendo "Il monitore repubblicano", il giornale su cui scrisse articoli politici, tra i quali il manifesto: "La proclamazione della repubblica napoletana". Al ritorno dei Borboni fu imprigionata e impiccata. Definita da Cesarotti "donna ugualmente favorita dalle Muse che dalle grazie", la veneta Isabella Teodochi Albrizi (1760-1836), fu grande protettrice del Foscolo e autrice di ritratti, penetranti e raffinati, di alcuni personaggi celebri del suo tempo (Pindemonte, Canova, Foscolo, Cesarotti, Alfieri, Byron). Maggior interesse riveste l'opera della milanese Cristina di Belgiojoso (1808-1871). Cosmopolita, amica di intellettuali, artisti, scrittori , celebre il suo salotto che a Milano fu luogo d'incontro di patrioti e intellettuali, e che mantenne vivo lo spirito di libertà durante le alterne vicende del Risorgimento. Importanti il suo saggio storico Il 1848 a Milano e a Venezia (1848) e le varie memorie di viaggio, tra cui, nel 1855, il reportage "femminista" di Vita intima e nomade in Oriente, in cui tratteggia e denuncia la condizione di schiavitù in cui sono tenute le donne arabe. Della partecipazione femminile all'ondata di sdegno e ribellione contro il potere tirannico e violento delle dinastie dominanti in Italia, è testimonianza, tra le più vive e fiere, il memoriale della nobile napoletana Enrichetta Caracciolo Forino (18211901) Misteri del chiostro napoletano. Nel 1864, a pochi anni dall' unità d'Italia, l'autrice rievoca in queste pagine la propria vita di ragazza, costretta dalla famiglia e dalle regole ferree della società, a prendere il velo. L'ideale nazionale, formatosi sui libri durante i lunghissimi anni della reclusione, e che solo dopo la sua liberazione divenne partecipazione attiva, é per la Caracciolo una sorta di usbergo salvifico contro l'oppressione di cui era vittima. La famiglia come rigore, la madre come despota, il convento come prigione, la condizione di donna come espropriazione, ("la condizione della donna forse peggiore di quello che non é in Turchia") sono le coordinate dello straordinario e spietato ritratto che i Misteri tracciano della vita pubblica e privata durante il regime borbonico. Il clima di repressione e di violenza che si espande in ogni angolo del regno fino a penetrare nei "chiostri", rivive in una narrazione agile, in immagini efficaci, in una scrittura serrata, molto spesso di notevole forza espressiva, attraverso cui i particolari, i dettagli del racconto si trasformano in segni rivelatori di una mentalità, di un mondo. Le cifre che il testo fornisce sugli stabilimenti ecclesiali napoletani, le descrizioni del rito della monacazione, dei costumi delle suore, gli episodi di brutalità fisica e psichica, la depravazione quotidiana, la follia delle recluse, nella loro perspicuità rappresentativa, assumono il valore di testimonianza emblematica della situazione culturale e storica del mezzogiorno. L’anno del noviziato fu per me un anno di calma, se non voglio dire di mortale depressione. Morto il passato, estinto l’avvenire per me; le memorie un vano sogno:le speranze un delitto. Strappata agli amici per sempre, disgiunta dai parenti, che m’era lecito rivedere una volta sola al mese, straniera per più ragioni alle stesse compagne del mio carcere, io nondimeno mi trovava, se non contenta, almeno tranquilla. Raccolto, concentrato esclusivamente in se stesso, lo spirito mio si creò poco a poco un secondo monastero dentro il monastero medesimo, dove mi trovava confinata; e nel recinto di quel recondito mio edifizio, ove traeva solitaria vita, ne sarei stata più tranquilla ancora, ancor più felice coi pochi libri, colle mie meditazioni, se le visite dei parenti non m’avessero ogni volta ricordata la perduta libertà, e se le monache col loro triviale cicaleccio, colle loro volgari gelosie non m’avessero resa la reclusione fastidiosa. […] Uscita la gente, i ferrei cancelli del monastero tornavano a stridere su’ loro cardini. D’allora in poi, mi separava dal mondo un baratro, secondo ogni apparenza, insuperabile. Non doveva avere più madre né madre, né sorelle, né parenti, né amici, né sostanza alcuna; aveva abdicata perfino la mia personalità. Eppure nel fondo dell’animo mio sentiva vivo e palpitante ancora il sentimento che mi moveva a convivere, idealmente almeno, co’ miei simili. Aveva fatto alla comunità il sacrificio della mia persona, ma non già quello della mia ragione, che è un diritto inalienabile. Più alta di san Benedetto imperava nella mia coscienza la voce di Gesù Cristo, il cittadino dell’universo, il distruttore delle sètte, delle caste, degli associamenti parziali, il rinnovatore della famiglia, della nazione, dell’umanità, riunite in una sola legge d’amore e di conservazione. […] Potrei aggiungere una quantità d’altri simili misfatti e abusi commessi duranti il ventenne mio monacato in differenti cenobi e rimasti ognora impuniti, sì per amor proprio di casta, sì per mancanza di polizia giudiziaria. Il priorato, la guardaroba, l’impresa dei commestibili, la ricevitoria, gli altri rami d’amministrazione quante e quante magagne non celano! Ma devo io tediare più a lungo il cortese lettore al racconto di fatti tanto stomachevoli? A dare una vaga, ma giusta idea degli abusi d’ogni natura, che infestano conventi d’ambo i sessi, basta rammentare, che sotto il passato governo il furto e la camorra trasudavano, per così dire, copiosamente da tutti i pori della napoletana società: partivano dall’alto del trono, traversavano il santuario, e si scaricavano nelle arterie tutte della sottostante popolazione. A chi non è nota la risposta di re Ferdinando a quel ministro di Stato, che ardiva denunziarvi le malversazioni d’un eminente funzionario? «E’ vero: egli è un mariuolo, un ladro, un giuntatore, ma però è un buon cristiano». Questa biancheria di famiglia è troppo sudicia: voltiamo pagina!1 1 E. Caracciolo, I misteri del chiostro napoletano in I memorialisti del XIX secolo, Istituto poligrafico e zecca dello stato, Roma 1995, pp. 811-812; p.818; p. 822. Nella narrativa della seconda metà dell'Ottocento, che vede la crisi del romanzo storico e l'apertura alla vita contemporanea, assume rilievo l'attenzione alle classi povere: i contadini e gli emarginati nelle città. Nella "letteratura campagnola", che ebbe grande diffusione soprattutto in area veneta, mostrando un forte impegno di denuncia sociale, trovano posto Luigia Codemo (Treviso 1828 - Venezia 1898) - autrice di Le memorie di un contadino (1856), Miserie e splendori della povera gente (1875), La rivoluzione in casa (1869) , il suo romanzo migliore - e la friulana Caterina Percoto (San Lorenzo di Soverciano, Udine, (1812 - ivi 1887), che, oltre ai Racconti (1858), pubblicò alcune novelle in dialetto (pubblicate in buona parte postume). Nei loro scritti le due autrici denunciano le miserie del mondo contadino visto nella sua sanità, autenticità in contrasto con l'ipocrisia della vita cittadina. Frutto, certo, di una idealizzazione, per tanti aspetti schematica, l'opera della Percoto ha contribuito insieme a quella degli altri scrittori "campagnoli" (Correnti, Nievo, Dall'Ongaro) - a configurare una nuova immagine, dolorosamente umana della vita delle campagne, superando la tradizionale "satira del villano". Di diverso spessore e qualità è la narrativa di Matilde Serao (Patrasso 1856-Napoli 1927), che, anche per l'influenza dei grandi veristi siciliani, rivela il suo impegno sociale e culturale dell'autrice. Da giornalista, la Serao percorse una notevole carriera grazie all'ingegno vivace e al dinamismo che ne fecero il tipo affascinante della "donna fatta da sé": di qui il suo antifemminismo programmatico, il quale tuttavia non le impedì, in alcuni interventi, di denunciare la dura condizione della donna lavoratrice, come nell'inchiesta Le lavoratrici dell'ago. Con il marito Edoardo Scarfoglio fondò il "Corriere di Roma" e successivamente, a Napoli, il "Corriere di Napoli", che nel 1892 si trasformò nel giornale "Il Mattino". Abilissima redattrice di cronache, alcune delle sue inchieste giornalistiche le fornirono materiale per le successive rielaborazioni artistiche. Attenta alle condizioni di vita delle classi povere e alle questioni letterarie, le une e le altre costituirono per lei un intenso campo di interesse. La sua produzione è vastissima (ha lasciato oltre quaranta volumi tra romanzi e racconti), e pertanto non è facile orientarsi. Ad affascinare in lei, soprattutto nella produzione della maturità, è la capacità di descrivere una vita di povere cose, di lavoro paziente e oscuro, di dolori solitari. Ed è questa capacità che la Serao mette a frutto, con esiti efficaci, nella rappresentazione corale e polifonica di una Napoli dura, povera, labirintica e misteriosa, fitta di personaggi in lotta quotidiana per l'esistenza, di interni oscuri e affollati, di riti e superstizioni religiose, di ignoranza, di protervia e vitalità. Le pagine de Il ventre di Napoli (come più Il paese di Cuccagna (1890-91)) trasmettono il respiro ansante di una grande città che vive fra tradizioni arcaiche e modernità, che coniuga in ogni momento la voce di un'allegra e irrazionale incuranza con quella più profonda di una antichissima, introiettata assuefazione alla sofferenza: Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto. Non sono fatte pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto; tutta questa retorichetta a base di golfo e colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata con racconti di miserie. Ma il governo doveva sapere l’altra parte; il governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore; quanti mendichi non possano entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nulla tenenti e quanti commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto s'impegni al Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest’altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere? […] Vi avranno fatto vedere una, due, tre strade dei quartieri bassi e ne avrete avuto orrore. Ma non avete visto tutto; i napoletani istessi che vi conducevano, non conoscono tutti i quartieri bassi. La via dei Mercanti, l'avete percorsa tutta? Sarà larga quattro metri, tanto che le carrozze non vi possono passare, ed è sinuosa, si torce come un budello: le case altissime la immergono, durante le più belle giornate, in una luce scialba e morta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato, è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, v'è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell'olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio. Da questa via partono tante altre viottole, che portano i nomi delle arti: la Zabatteria, i Coltellai, gli Spadari, i Taffettanari, i Materassari, e via di seguito. Sono, queste viottole - questa è la sola differenza molto più strette dei Mercanti, ma egualmente sporche e oscure; e ognuna puzza in un modo diverso: di cuoio vecchio, di piombo fuso, di acido nitrico, di acido solforico. Varie strade conducono dall’alto al quartiere di Porto: sono ripidissime, strette, mal selciate. La via di Mezzocannone è popolata tutta di tintori: in fondo a ogni bottega bruna, arde un fuoco vivo sotto una grossa caldaia nera, dove degli uomini seminudi agitano una miscela fumante; sulla porta si asciugano dei cenci rossi e violetti; sulle selci disgiunte, cola sempre una feccia di tintura multicolore. Un'altra strada, le così dette Gradelle di S. Barbara, ha anche la sua originalità: da una parte e dall'altra abitano femmine disgraziate, che ne hanno fatto un loro dominio, e, per ozio di infelici disoccupate, nel giorno, e per cupo odio contro l’uomo, buttano dalla finestra, su chi passa, buccie di fichi, di cocomero, spazzatura, torsoli di spighe: e tutto resta, su questi gradini, così che la gente pulita non osa passarvi più. Vi è un’altra strada, che dietro l’educandato di San Marcellino conduce a Portanova, dove i Mercanti finiscono e cominciano i Lanzieri: veramente non è una strada, è un angiporto, una specie di canale nero, che passa sotto due archi e dove pare raccolta tutta la immondizia di un villaggio africano. Ivi, a un certo punto, non si può procedere oltre: il terreno è lubrico e lo stomaco spasima. […] L’impressione che si aveva, entrando in Napoli, dalla stazione ferroviaria, venti anni or sono, era di giungere in una città angusta, male odorante, sporca, affogata di case di tutte le altezze, di tutti i colori, portanti, tutte, il marchio del decadimento e del sudiciume. Se, poi, trascorso il vecchio corso Garibaldi, la carrozzella del forastiero rallentava un poco il passo, in via Marina, in quella strada eternamente disselciata, dalle buche profonde, ove si tra balzava così maledettamente, se il forastiero lasciava il suo portamantelli sul soffietto, o collocava il nécéssaire da viaggio sulla panchina, dirimpetto, quotidianamente vi era la rapina, quando non ne accadevano due o tre, con l’agile ladruncolo che fuggiva nelle viuzze e nelle viottole, alle spalle della Marina. E alla impressione estetica assai deludente pel forastiero che ancora non era giunto nel rione della Beltà, cioè verso la Riviera, si univa un ribrezzo morale, di cui non solo le oneste e sincere guide Baedeker erano l’eco, ma di cui tutti i viaggiatori formavano una larga e invincibile propaganda. I tradizionali bozzetti da cartolina nella Serao si trasformano in lampi, in squarci, in prese in diretta di una condizione umana emarginata e drammaticamente amara, che ancora oggi colpisce e impressiona il lettore: […] Voi cercate le più belle traverse, quelle che dovevan tagliare a diritta, dal Rettifilo al mare, risanando i quartieri successivamente di Porto, Mercato e Vicaria. Su venti, ve n'è una sola, completa. Alcune altre, quattro o cinque sono, come quelle a sinistra, appena cominciate, abbandonate da anni, ottuse, traverse cieche, ove, in fondo, ma non molto in fondo, sorge lo stesso spettacolo, sempre, di case antichissime, mezze dirute, mezze cadenti, nerastre, verdastre, grigiastre. Dopo, non vi è più nulla. Cioè, vi sono dei vicoletti che precipitano per mezzo di dislivelli paurosi, di scalette ripide, difese da rozze ringhiere, in tutto ciò che sta dietro il Rettifilo, vicoletti sinuosi, vicoletti neri, angoli ove due o tre vicoli s'intersecano, dirupandosi, tutto un disegno bislacco e grottesco, accanto, sì, accanto, alle altitudini superbe dei nuovi palazzi. E voi, verso la fine del Rettifilo, vedendo fuggire gli ultimi lembi mirabili della vostra illusione, voi vi domandate se non siate vittima di un'allucinazione, se una parte di quel che vedete non sia falso, poiché troppo forte è il contrasto, poiché non può esser tutto vero, a pochi metri di distanza, il decente e l'indecente, il pulito e lo sporco, la pompa e la inguaribil miseria, il lusso e la povertà più abbietta. Che cosa è falso, che cosa è vero? Sono, forse, il portato di un incubo tutte quelle masse di abitazioni luride, fetide, cascanti, ove pare che si moltiplichino la tristizie e la tristezza, il morbo e il disonore, il delitto e la morte?2 Il chiaroscuro, l’alternanza di luci e di ombre, di opulenza e di miseria, di, illusione e di cinismo di decente e di indecente che attanagliano la città partenopea sono la struttura portante di una lucida e impietosa denuncia del male del Sud che fa della 2 M. Serao, Il ventre di Napoli, Avagliano Editore, Napoli 2004, pp. 41-43; p. 101; pp.106-107. Serao un’autrice di straordinario rilievo e straordinaria attualità per una conoscenza del Mezzogiorno. Dall'area letteraria settentrionale, educata all'indagine psicologica delle letterature europee, in particolare di quella francese (Flaubert, Bourget) viene la prima rappresentazione efficace di drammi femminili. E' la milanese Anna Zuccari (18451918) - sotto lo pseudonimo di Neera- a offrire nei suoi libri una galleria di protagoniste - i suoi personaggi sono infatti quasi esclusivamente donne - costrette a rinunciare a se stesse, a chiudersi nella solitudine, a sottomettersi alla realtà che frantuma i loro sogni (matrimoni senza amore, vite squallide, rapporti frustranti), come in Il castigo (1881), Teresa (1886), La vecchia casa (1900). Anche se incline ad effusioni sentimentali, nello scrivere la Neera dimette ogni tonalità retorica e fa uso di una lingua piana, naturale, che piacque a Luigi Capuana, fu esaltata da Benedetto Croce e permise a lei, nel panorama letterario contemporaneo, di delineare profili di donna più concreti e non di rado acuti e sensibili, i quali rivelano una capacità notevole di analisi e di partecipazione umana. Sotto questo aspetto ha rilievo il romanzo autobiografico, del 1919, Una giovinezza del secolo XIX, in cui l'autrice, narrando la propria giovinezza, mette a fuoco i privilegi di educazione, di libertà, di indipendenza di cui godevano gli uomini della famiglia in contrasto con le rinunce, a studiare, a parlare, a muoversi, a cui lei, come figlia femmina, era obbligata dall'educazione. Neera è anche autrice di liriche (Il canzoniere della nonna, 1908; Poesie, 1919), di una commedia (Maura, 1908), libri di memorie (Profili, impressioni e ricordi, 1920). All'esperienza della propria vita, si ispira anche l'opera di Ada Negri (Lodi 1870Milano 1945), insegnante elementare, che riuscì ad acquistare notorietà nell'ambiente letterario e successo presso il pubblico grazie allo spirito cristiano e umanitario delle sue opere, soprattutto quelle in versi ( Fatalità, 1892, Tempeste,1894, Esilio, 1914 ). Più tardi si cimentò, con modesti esiti, in composizioni liriche di gusto dannunziano e di tono diaristico (Il libro di Mara,1919,; I canti dell'isola,1924). Sfocate e declamatorie le opere in prosa ove la Negri rievoca una fanciullezza dolorosa , ambienti umili e tristi solitudini ( Le solitarie, 1917, Stella Matutina, 1921, Sorelle, 1929). Collaborò a giornali e riviste e nel 194O fu accolta nell'Accademia d'Italia. Sul versante opposto a quello della presa di coscienza da parte della donna della propria condizione e dei suoi sforzi per tradurla in immagini e in linguaggio letterario, si pone, nello stesso periodo, la narrativa di consumo: una produzione per il pubblico popolare e piccolo borghese in Italia tradizionalmente escluso dalla letteratura alta, e in cui il personaggio femminile privo di identità, rimane imprigionato negli schemi maschili più tradizionali: o è angelo o è demonio. Autori esemplari, sotto questo profilo, sono Guido da Verona e Pitigrilli. I caratteri della produzione di consumo sono omologhi al progetto di una classe dominante, angusta e retriva, di offrire, ai ceti meno colti, opere in cui i valori religiosi ormai inerti fossero sostituiti dai tabù sociali del potere (nazionalismo, razzismo, antisocialismo, antifemminismo), e che, mediante i meccanismi di invenzione romanzesca, istillassero nelle coscienze dei lettori un sacro ossequio verso l'ordinamento esistente, rigido e antidemocratico. Regina del genere fu la scrittrice piemontese Carolina Invernizio (Voghera 1858 Cuneo 1916), la quale, sulla scia del romanzo d'appendice francese nei suoi cinquanta e più volumi mescola artificiosamente il sentimentalismo tardoromantico ai toni orrorosi del verismo popolare, riducendo i modelli della letteratura alta a pure tracce tematiche da utilizzare in funzione evasiva e consolatoria. La sua opera, primo esempio in Italia di paraletteratura, rappresenta un modello narrativo particolarmente efficace per l'abilità di sfruttare scaltramente la naturale vocazione dell'uomo al fantastico, (adattata scaltramente) allo scopo scaltro di confermare e rafforzare le deboli aspettative immaginarie di lettori ingenui, esclusi dal benessere sociale e dalla circolazione del pensiero e pronti a recepire messaggi che sublimassero le loro aspirazioni, sogni e inconsci desideri frustrati. Di qui l'enorme interesse suscitato nel pubblico dagli intrighi lacrimosi di amore e di morte (Rina o l'angelo delle Alpi, L'orfano del ghetto, la sepolta viva, La vendetta di una pazza), dalle tenebrose storie di perversità e della loro esemplare punizione ( Satanella ovvero la mano della morte; Il bacio di una morta; L'atroce visione; L'albergo del delitto; Il treno della morte) Sia per la funzione pedagogica di compressione di istanze liberatorie e trasgressive ben vista dalle classi dominanti -, sia per il successo di mercato, i libri della Invernizio, godettero delle simpatie di giornali e periodici - nelle cui appendici molti di essi uscirono a puntate - e dell'appoggio degli editori (l'editore Salani di Firenze li raccolse in volume). Sulla linea di lettura da intrattenimento, anche se più sentimentale, si collocherà più tardi la produzione di Liala (pseudonimo di Liana Negretti, Como 19O2...). I suoi romanzi, fitti di passioni, intrighi, svelamenti, e resi in un linguaggio da comunicazione di massa, sono costruiti su uno schema che - come l'opera della contemporanea francese Delly ( pseudonimo di Jeanne Marie de la Rosier e di suo fratello Frederic) paiono l'antecedente narrativo melò dell'attuale modulo televisivo "soap -opera,". Significativi i titoli: Signorsì, 1931, Trasparenze di pizzi antichi, 1943, Ombre di fiori sul mio cammino, 1981, Frammenti di arcobaleno,1985. Essi ottennero tanto successo popolare da divenire sinonimo, nel linguaggio odierno, di gusto elementare e melo. Di origine naturalistica, aperta successivamente alle suggestioni della letteratura europea di fine secolo, è la narrativa della prima importante scrittrice italiana tra Ottocento e Novecento, Grazia Deledda. Nata a Nuoro nel 1871, trasferitasi a Roma dopo il matrimonio, la Deledda è autrice di circa cinquanta volumi tra romanzi e novelle. Le opere di maggior rilievo sono quelle ispirate al mondo rurale e pastorale della sua isola, che un immaginario vivo e robusto trasfigura in vicende e personaggi dotati di valenza arcaica e primitiva, e dove i caratteri concreti dell'esistenza sarda assumono movenze e significato simbolici. Nessuna intenzione di oggettività, nessuna disposizione all'analisi scientifica, nessuna attenzione ai meccanismi e ai conflitti sociali ed economici ispira i suoi racconti. Nessun cedimento all'esaltazione populistica del candore e dell'idillio contadino di tanto bozzettismo folcloristico contemporaneo, ma, anche per la forte suggestione dei grandi scrittori russi da lei letti e amati, una sorta di afflato "simpatetico" con una terra violenta, aspra, rivissuta fuori del tempo cronologico e dello spazio reale, in una dimensione di tragicità intensa e irredimibile che pervade situazioni, paesaggi e figure: I cavalli furono portati al pascolo; s’accesero i focolari; e la magnifica prioressa e le donne della tribù cominciarono a cuocere certe spaventose caldaie di minestra condita col cacio fresco. Che vita gaia cominciò allora per quella specie di clan pacifico e patriarcale! Si sgozzavano pecore e agnelli, si cuocevano molti maccheroni, si beveva molto caffè, molto vino, molta acquavite. Il cappellano diceva messa e novena, e fischiava e canterellava. Il divertimento maggiore era però nella grande cumbissia, di notte, attorno agli alti e crepitanti fuochi di lentischio. Fuori la notte era fresca, talvolta quasi fredda: la luna calava sul vasto occidente, dando alla brughiera un incanto selvaggio. O pallide notti delle solitudini sarde! Il richiamo vibrato dell’assiuolo, la selvatica fragranza del timo, l’aspro odore del lentischio, il lontano mormorio dei boschi solitari, si fondono in un'armonia monotona e melanconica, che dà all'anima un senso di tristezza solenne, una nostalgia di cose antiche e pure. Raccolti attorno al fuoco, i paesani della cumbissia maggiore narravano storie argute, bevevano e cantavano. L’eco delle loro voci sonore si perdeva al di fuori, in quella grande solitudine in quel silenzio lunare, fra le macchie sotto cui dormivano i cavalli.3 Le regole rigide e i divieti, gli obblighi e le rinunce, i sacrifici, le frustrazioni di sentimenti e aspirazioni, che connotavano la realtà della Sardegna, nelle pagine della Deledda vengono spostati su uno scenario inconsueto nella letteratura italiana se non per gli assoluti capolavori verghiani Rosso Malpelo e Jeli il pastore : uno scenario di riti e tabù ancestrali, di atmosfere e sensi arcaici, le cui radici nei territori dell'inconscio e del mito rendono legittimo a loro proposito, parlare di una, sia pure inconsapevole e ingenua, intuizione archetipica - antropologica. Come le figure di madri, topiche nella scrittrice, i cui caratteri individuali e personali trapassano continuamente nell' ambigua "imago" della Magna Madre, asilo e prigione, protezione e castrazione, vita e morte. Come la condizione di "figlio", tema di tanti romanzi, che é dipendenza, soggezione, bisogno primario di difesa e coazione all' autoannullamento. Come il clan familiare che é luogo psichico di conferma e disconferma del personaggio, perché in esso egli si riconosce ma con esso è destinato a fondersi simbioticamente: Dalle cumbissias venivan fuori, vibranti nel silenzio della notte tiepida e pura, confusi rumori di voci e di canti, di grida e di risate. Elias distingueva la voce di suo padre, il fischiettare di prete Porcheddu, il riso di Maddalena, e fra tanta festa si sentiva triste, disperato, come un bimbo lasciato solo nella selvaggia solitudine notturna della brughieria.4 Come il paesaggio, il celebrato paesaggio deleddiano - con le sue tancas, i suoi profumi, la sua fascinazione ora benigna ora ostile - che, perduta gradualmente ogni funzione descrittiva o impressionistica, diviene spazio euforico e insieme disforico 3 G. Delledda, Elias Portolu, in Romanzi e novelle, Mondadori, Milano 1971, pp. 34-35. 4Ivi, p. 43. dell'immaginario, sublimazione del legame con una Sardegna Isola, Terra, Madre, universo della vita e suo confine, grembo da cui non é lecito uscire e che distrugge: Un passo in lontananza gli fece sollevar gli occhi. Gli sembrò di riconoscerlo; era un passo rapido e lieve di fanciullo, passo d’angelo che corre ad annunziare le cose liete e le tristi. Sia fatto il volere di Dio: è lui che manda le buone e le cattive notizie; ma il cuore cominciò a tremargli, ed anche le dita nere screpolate tremarono coi giunchi argentei lucenti alla luna come fili d’acqua. Il passo non s’udiva più: Efix tuttavia rimase ancora là, immobile, ad aspettare. La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l’uomo che la sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlio dei grilli precoci, qualche gemito d’uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era sopratutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa: sì, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantasia dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. I fantasmi degli antichi Baroni scendevano dalle rovine del castello sopra il paese di Galte, su, all’orizzonte a sinistra di Efix, e percorrevano le sponde del fiume alla caccia dei cinghiali e delle volpi: le loro armi scintillavano in mezzo ai bassi ontani della riva, e l’abbaiar fioco dei cani in lontananza indicava il loro passaggio. Efix sentiva il rumore che le panas facevano nel lavar i loro panni giù al fiume, battendoli con uno stinco di morto, e credeva di intraveder l’ammattadore, folletto con sette berretti entro i quali conserva un tesoro, balzar di qua e di là sotto il bosco di mandorli, inseguito dai vampiri con la coda di acciaio. Era il suo passaggio che destava lo scintillio dei rami e delle pietre sotto la luna: e agli spiriti maligni si univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la luna: e i nani e le janas, piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d’oro in telai d’oro, ballavano all’ombra delle grandi macchie di fillirèa, mentre i giganti s’affacciavano fra le rocce dei monti battuti dalla luna, tenendo per la briglia gli enormi cavalli verdi che essi soltanto sanno montare, spiando se laggiù fra le distese d’euforbia malefica si nascondeva qualche drago o se il leggendario serpente cananèa, vivente fin dai tempi di Cristo, strisciava sulle sabbie intorno alla palude.5 La derealizzazione del quotidiano e la sua traduzione in trame di eventi psichici e archetipici, in cui si fondono tormenti morali, inquietudini del pensiero, sentimento del mistero e senso della fatalità, giustifica la diversa posizione dei lettori contemporanei: quelli che rifiutarono la sua opera o perché trasgressiva rispetto all'ortodossia formale e tematica del verismo o perché eccedente la norma del sentire e del gusto dominanti; quelli - tra cui Capuana, Verga, De Roberto - affascinati dalla capacità della scrittrice di trovare le origini profonde dei drammi dell' esistenza e dei conflitti della coscienza. Nel giudizio del Capuana si scorge quel fiuto sottile che gli fece fin da subito individuare nella Deledda una grande scrittrice, come i fatti successivi confermeranno: nel 1926 la scrittrice fu insignita del premio Nobel, e nel corso dei decenni la sua narrativa riscosse sempre maggiori consensi. E’ già molto il veder persistere nella novella e nel romanzo regionale lei giovane e donna, e per ciò più facile ad esser suggestionata da certe correnti mistiche, simbolistiche, idealistiche che si vogliano dire, dalle quali si lasciano affascinare ingegni virili. Questa persistenza indica un senso artistico molto sviluppato ed equilibrato, un concetto giusto dell'arte narrativa che, innanzi tutto, è forma, cioè creazione di persone vive, studio di caratteri e di sentimenti non foggiati a capriccio o campati in aria, ma resultato di osservazione; quanto 5 Idem, Canne al vento, ivi, pp. 172-173. dire studio e creazione di personaggi, nei quali il carattere e la passione prendono determinazioni particolari non adattabili a tutti i tempi e a tutti i luoghi. La signorina Deledda fa benissimo di non uscire dalla sua Sardegna e di continuare a lavorare in questa preziosa miniera, dove ha già trovato un forte elemento di originalità. I suoi personaggi non possono esser confusi con personaggi di altre regioni; i suoi paesaggi non sono vuote generalità decorative. Il lettore, chiuso il libro, conserva vivo il ricordo di quelle figure caratteristiche, di quei paesaggi grandiosi; e le impressioni sono così forti, che sembrano quasi immediate, e non di seconda mano, a traverso un’opera d’arte […]. Ha tentato di metter fuori delle creature vive, e c’è riuscita. Non si è smarrita dietro un lavoro di analisi psicologica, artificiale; ma ha fatto sentire, pensare, agire, tutte quelle creature nel loro ambiente, proprio come fa la natura con le sue. Sotto quelle carni, sotto quei nervi ci sono anime che amano, soffrono, errano, scontano le loro colpe, fin le loro debolezze; c’è l’umanità, non astratta, ma reale, sostanziale; e dove c’è l’umanità c’è il pensiero, c’è il concetto: spetta al lettore cavarlo fuori. L’arte pensa a modo suo, creando forme; chi cerca di farla pensare altrimenti la snatura, non lo ripeteremo abbastanza.6 La Deledda era autodidattta e senza dubbio la formazione, fatta attraverso letture ricche ma disordinate, affastellava modelli disorganici e sovrapposti come l'esigenza di "verismo" e le nostalgie romantiche, i procedimenti dei realisti francesi e i percorsi interiori dei narratori russi, l'esperienza simbolista, la prosa e la poesia dannunziane e lo sperimentalismo dei veristi meridionali. Strenuo fu tuttavia lo sforzo di crearsi uno stile personale di scrittura che, con il passare degli anni, depurò la congerie iniziale di temi e motivi e la condusse a fondere vissuto personale e mondo fantastico in strutture romanzesche più sobrie ed essenziali. 6 R. Capuana, Gli “ismi” contemporanei, Fabbri Editori, Milano 1973, p. 97; p. 101. Il primo racconto, Sangue sardo, apparve sulla rivista femminile "Ultima moda" nel 1888. Sulla fantasia della giovane scrittrice pesava quel romanticismo cupo e oscuro dominante anche in molte altre opere dei primi anni: Amore regale (1891), Racconti sardi (1894), La via del male (1896), La giustizia (1899). Nel 1903, con Elias Portolu, pubblicato a puntate su "Nuova Antologia", inizia la narrativa maggiore, in cui la Deledda mostra per la prima volta la capacità di liberarsi dalla pesante concretezza del dato reale e di farlo assurgere a significazione mitica e simbolica, liberandolo da ogni residuo contingente o folcloristico. Acutamente D.H.Lawrence metteva in risalto la capacità della scrittrice, nelle opere della maturità, di evocare senza analizzare, e di avvolgere il lettore "in una sorta di nebbia o fosforescenza delle sensazioni ... sempre più importante di ciò che riescono a esprimere le parole". Probabilmente avrà agito in lei anche l'allontanamento dalla Sardegna, che la aiutò a interporre tra sé e i suoi ricordi la distanza psicologica necessaria a tradurli in immagini memoriali. A Elias Portolu, seguirono Cenere, nel 1904 (famosa è la trasposizione cinematografica con Eleonora Duse protagonista), L'edera (1906, tradotta in dramma nel 1912), Canne al vento (1913), Marianna Sirca (1915), La madre (1920), Annalena Bilzini (1934). Postumo, nei numeri di settembre-ottobre 1936 di "Nuova Antologia", uscì il romanzo Cosima, quasi Grazia, pubblicato in volume l'anno successivo. Con un romanzo femminista, Una donna, esordì nel 1906 la piemontese Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio 1876-1960). Quest'opera, per il suo impegno programmatico, segna in Italia una tappa avanzata di autocoscienza della donna, pur se, anche nei turbamenti e fermenti del primo decennio del Novecento italiano, non ebbe immediate continuatrici. Al primo romanzo seguirono Il passaggio (1919), Amo dunque sono (1927), Il frustino (1932), le prose di Gioie d'occasione (1930), Orsa minore (1938), Dal mio diario. 1940-44 (1945), le raccolte di poesie Selva d'amore (1947), Aiutatemi a dire (1951), Luci della mia sera (1956). Inquieta e tormentata figura , amica e confidente di poeti, pittori e scrittori, la sua vita fu contrassegnata dalla tempestosa relazione con Dino Campana ( di grande interesse è il loro epistolario) e dai difficili rapporti con i protagonisti della cultura dell’epoca - Vincenzo Cardarelli, Giovanni Papini, Giovanni Cena e altri -. I riflessi della vicenda privata si proiettano sull’opera dell’ Aleramo senza una sufficiente mediazione, di riflessione e di scrittura. Di qui, la forte tenzione e la prorompente carica autobiografica che connota le sue prose, e l’accentuato lirismo dei suoi versi, improntati a una sofferta analisi di sentimenti e di stati d’animo immediatamente riversati sulla pagina. Lo sdegno per lo stato di soggezione della donna, l'esperienza delle difficoltà oggettive e soggettive al libero e sereno esercizio delle sue facoltà e inclinazioni femminili, la urgenza di emancipazione e libertà per sé e per il suo sesso conferiscono ai suoi scritti accenti da documento di vita che l'alternanza dei toni ora effusivo, ora difensivo, ora autoaccusatorio - rendono intenso , e a tratti, drammatico. "Quasi inavvertitamente - scriveva – il mio pensiero s'era giorno per giorno indugiato un istante di più su questa parola: emancipazione, che ricordavo d'aver sentito pronunciare nell'infanzia, una o due volte, da mio padre seriamente, e poi sempre con derisione da ogni classe d'uomini e di donne. Indi avevo paragonato a quelle ribelli la gran massa delle inconsapevoli, delle inerti, delle rassegnate, il tipo di donna plasmato nei secoli per la soggezione, e di cui io, le mie sorelle, mia madre, tutte le creature femminili da me conosciute, eravamo degli esemplari. E come un religioso sgomento m' aveva invasa. Io avevo sentito di toccare la soglia della mia verità, sentito ch'ero per svelare a me stessa il segreto del mio lungo, tragico e sterile affanno". A documentare il “lungo, tragico e sterile affanno” di donna non emancipata e totalmente sottomessa all’autorità maschile del marito è la prima parte della opera maggiore Una donna ove l’ autrice rievoca la sua drammtica esperienza matrimoniale: Non ricordo altro. Rivedo me stessa gettata a terra, allontanata dal piede come un oggetto immondo, e risento un flutto di parole infami, liquido e bollente come piombo fuso. Colla faccia sul pavimento, un’idea mi balenò. Mi avrebbe uccisa? Con una strana calma mi chiesi se l’anima mia sarebbe mai stata raggiunta in qualche parte dalle anime di mia madre e di mio figlio. Ed ho il confuso senso della disperata ira che mi assalse quando, dopo una notte inenarrabile in cui il mio viso ricevette a volta a volta sputi e baci, e il mio corpo divenne null’altro che un povero involucro inanimato […]. Ira silenziosa e vana, disperazione spasmodica, agonia atroce, ombre di follia… Giorni, settimane. Tutto è avvolto di grigio; non distinguo più la successione delle sofferenze, dei deliri, delle soste di stupefazione. Mio padre, informato, era riuscito col dottore a persuadere l’uomo pazzo ed insieme vile a perdonarmi, a credere che tutto non era se non aberrazione momentanea. Mia cognata, mia suocera, avevano toccato il tasto dello scandalo: ogni cosa, piuttosto che la pubblicità di quell’onta! E, insieme, tutta questa gente mi circondava come in un sogno mostruoso: tutti mi credevano una bestia immonda, e tutti mi risparmiavano per viltà. Ogni notte di me si faceva strazio; ogni giorno eran scene di rimpianto, eran promesse di calma, di oblio. Mettevo paura? E intanto la vita esterna doveva apparire immutata. Dovevo uscire a fianco di mio marito e talvolta fra noi era il bimbo; il dolce fiore sorrideva fra due che s’odiavano. […] Finalmente una sera egli accondiscese a che io andassi a Milano, per qualche tempo, ma senza mio figlio. […] Io non dormii. Seduta accanto al letto del bimbo, non pensavo, non sentivo più nulla: attendevo, che cosa non so: la luce, il tepore, qualcosa che mi facesse sentirmi viva. Avevo tanto bisogno di forza! Oh quel respiro tranquillo che le notti seguenti non avrei più ascoltato! Suonavano delle ore lontane: trasalivo. Ma com’erano lente quelle ore!... Forse mio padre m’avrebbe aiutata, anche colla violenza, a :riavere il povero bimbo... L’avvenire mi si raffigurava pieno di enigmi, di agitazioni, di lotte. Nella mischia il viso di mio figlio mi riappariva. Nella strada, ad uno svolto ov’egli passava, io mi sarei affacciata d'improvviso, di tratto in tratto, ed egli sarebbe sempre stato in attesa della mia apparizione... Intanto gli uomini mutano, mutano le leggi. Una persona che sia un’idea vivente, un’ossessione, può persuadere i più restii... E poi, la morte! La morte! Un brivido, come in una notte lontana. Ma io avevo superato il desiderio della morte, anche di quella del mio nemico. Non l'odiavo. Egli non era più che una larva confusa e cupa, che s’ergeva insieme allo spettacolo della legge nella notte indecifrabile del destino. Accesi la lampada, la coprii. Un fruscio. «Mamma?» Mi slanciai sul lettuccio: pose la mano nella mia e si riaddormì. Rimasi senza muovermi, quasi senza respiro. Mezzanotte. Mancavano tre ore. Le ginocchia mi si piegarono. Seduta sulla poltrona sentivo il freddo invadermi, e raccoglievo tutto il mio calore, gli occhi chiusi, ritirando la mia mano per non agghiacciare la manina. E d’un tratto sentii tutte le mie forze fondersi: mi assopivo? Ero tanto stanca: non avrei potuto partire... Scoccarono le tre. Balzai in piedi. Mi misi il mantello e m’appressai all’uscio. Poi tornai al letticciuolo, svegliai il bimbo: «Vado» gli dissi piano «è già l’ora; sii buono, sii buono, voglimi bene, io sarò sempre la tua mamma...» e lo baciai senza poter versare una lagrima, vacillando; e ascoltai la vocina sonnolenta che diceva: «Si, sempre belle... Mando il nonno a prendermi, mamma... Star con te...». Si voltò verso il muro tranquillo. Allora, allora sentii che non sarei tornata, sentii che una forza fuori di me mi reggeva, e che andavo incontro al destino nuovo, e che tutto il dolore che mi attendeva non avrebbe superato quel dolore.7 Tra tante polemiche e un notevole successo internazionale, il libro, Una donna tradotto in sette lingue (anche il severo Stefan Zweig ne fu lettore entusiasta) fece della Aleramo il vessillo del femminismo. Paolina Schiff, attiva esponente del movimento delle donne, la incaricò di fondare una lega femminile nelle Marche; le venne chiesto di dirigere il periodico "L'Italia femminile. Corriere delle donne italiane"; le arrivarono offerte di collaborazione a vari giornali periodici. Negli anni Trenta molte scrittrici riuscirono a superare gli schemi e i motivi letterari dominanti a cui, per fare un esempio, si era attenuta Amalia Guglielminetti (Torino 1881-1941), amica e corrispondente del poeta crepuscolare Guido Gozzano, che disegnò profili di donne seducenti, anticonformiste e disincantate ricalcando i toni e la voluttuosità della prosa dannunziana ( Vergini Folli, 19O7; Seduzioni, 19O9). Educate al gusto e all'esperienza degli intellettuali raccolti attorno alla rivista fiorentina "Solaria" - dove insieme ad autori italiani contemporanei, come Svevo e Tozzi, venivano proposti i grandi modelli della narrativa europea ( V. Woolf, Proust, Joyce, Kafka, Mann) - alcune di loro trovano una propria, originale cifra di scrittura nell'attraversare gli spazi della memoria, nel rintracciare segni ed eventi del tempo perduto, nel cogliere atmosfere, epifanie dei luoghi e dei momenti interiori, coniugando una sorta di realismo magico alla Bontempelli con l'adesione al proprio vissuto. Come i romanzi di Fausta Cialente (Cagliari 1898) che, in uno stile morbido e musicale, trascrivono la lunga esperienza dell'autrice ad Alessandria d'Egitto, 7 S. Aleramo, Una donna, La «Universale Economica», Milano 1950, pp. 74-75; p. 169-171. ricostruendo l'atmosfera e la decadenza del suo ambiente cosmopolita (Cortile a Cleopatra,1936; Ballata levantina, 1961. Nel 1976 pubblica Le quattro ragazze Wieselberger, che é una rivisitazione della Mitteleuropa in cui ha radici la famiglia materna "Cambiare in oro i metalli vili è nulla" aveva scritto Gianna Manzini in Un'altra cosa, (1961) "sorprendere il vero segreto d'ognuno... questa la vera alchimia. Io miro al cuore". E questo è in effetti il percorso tutto in profondità della scrittrice : un itinerario di scavo, alla ricerca delle radici dei sentimenti e della memoria. In quanto al cuore, il cammino verso il cuore, delle cose e quello del lettore, dobbiamo riconoscere che non è né diretto né immediato, sia sotto il profilo tematico che stilistico. "Una scrittrice complicata e un po' abbagliante", l'aveva definita Emilio Cecchi, alludendo al preziosismo linguistico della scrittura, all'oscillazione della pagina tra rarefazione e sovrabbondanza, alla ricchezza di metafore, alla distillazione introspettiva. Allieva di De Robertis, collaboratrice di "Solaria", moglie del critico Enrico Falqui, frequentatrice della società letteraria fiorentina, lettrice dei romanzi europei volti all'analisi del tempo e agli scavi interiori (in particolare V. Woolf e Proust), direttrice dei quaderni di " Prosa", la Manzini esordì nel 1928 con il romanzo Tempo innamorato (una tragica vicenda amorosa tutta giocata tra atmosfere sottili, sfumature psicologiche, incroci di tempi) che fu accolto con favore da lettori e critici. Un insistito lavoro sulla memoria e la ricerca di una prosa preziosa, intonata al mondo rarefatto delle proprie suggestioni connotano il percorso della scrittrice, dai racconti di Incontro col falco (1929) e di Boscovivo (1932) a Rive remote(194O). Con Lettera a un editore (1945), definito da lei stessa un "romanzo da fare", per il continuo modificarsi della struttura narrativa, comincia per Gianna Manzini un periodo di maggiore essenzialità contenutistica e linguistica. Forse anche per il trasferimento a Roma e l'abbandono della Toscana, la sorgente del suo "recondito linguaggio". L'apertura alla realtà, dovuta in parte allo sconvolgimento della guerra, impronta i racconti di Forte come il leone (1945), Ho visto il tuo cuore (195O), Il Valtzer del Diavolo (1953), caratterizzati da una maggiore adesione ai sentimenti e alle cose. I risultati più convincenti vengono raggiunti con il romanzo La sparviera (1956), trasfigurazione della malattia e della morte in presenze ossessive: In un altro bambino avrebbe potuto nascere l’idea dell’ingiustizia; uno ti picchia, ti picchia nascosto dentro di te, al sicuro, magari mentre disponi a disegno palline colorate in un traforo di buchette uguali, o canti una bella canzone, o fai una freccia di carta; ti picchia e nessuno può aiutarti, né la mamma, né la maestra, né l’amico coraggioso più grande di te; nessuno può nemmeno punire chi ti offende e ti pesta, perché, per rimpiattarsi, non gli san bastati i tuoi vestiti; t’è entrato sotto la pelle, sotto le costole. E’ un’ingiustizia. Invece Giovanni, per via di tutta la costernazione che lo circondava, scambiò l’ingiustizia col privilegio; e accolse fieramente la tosse. Infatti il giorno avanti era stato proprio per la sua disposizione a tale errore, per questa stramba dignità, destinata a moltiplicare in lui energie, che la tosse l’aveva adocchiato. Soltanto quando lo mandarono via dall’asilo infantile, e poi dai vari alberghi, al mare e in montagna, dove altri bambini lo sfuggivano, si immalinconì. Durante l’eternità d’un trimestre, solo, parlava alla “Sparviera” che ormai lo abitava: “dorme” diceva con l’indice sulla punta del naso, impedendosi la risatina che avrebbe potuto svegliarla; e talvolta, in attesa, stralunato: “eccola”. Infatti, quella, giù a dibatterglisi dentro con urla selvagge; e mai che si potesse sottrarlo a quel tempestare. Pur dimagrito e indebolito, la sua buffa aria spavalda aumentava, anche a causa d’un allarme visibile nelle spalle sollevate, e negli occhi esageratamente lucidi; ma ridere, rideva ormai di rado; troppo gli costava, ogni volta, l’ambizione di quel gran clamore che lasciava esterrefatti gli altri. Ormai la sua fierezza era disfatta da un tremito costante, visibile nel labbro inferiore, contratto, come in chi sta per piangere. […] Aveva forse quattro anni quando lui dette un nome alla nemica che lo assaliva a colpi di tosse. Poi, aiutato da Stella, era riuscito a precisarla, la Sparviera, e a regalarle, insieme con una figura, una sua vita. Quella vita s’era legata alla sua e lo vincolava e lo soggiogava. Ma che cosa era avvenuto da allora fino ad oggi? Anni lentissimi, uniformi, come una ragionevole crescita: libri, giochi, viaggi, sport, sicuro, anche sport; e il viso d’una ragazza che si chiama Marisa.8 Nello stesso anno ottenne il Premio Viareggio. Altre sue opere Ritratto in piedi (1971) commosso confronto con la figura del padre (Premio Campiello), e il volume di novelle Sulla soglia (1973), il cui centro inventivo é l'assorto colloquio con la madre nel racconto che dà titolo al volume. Nella rivista "Solaria" ha le proprie radici anche Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti, Firenze 1895- Ronchi di Massa 1985). Moglie del critico d'arte Roberto Longhi, colta e raffinata, trasferisce il suo scavo nel tempo e nella memoria all'interno della condizione e della sensibilità femminile, che fissa in figure e moduli stilistici oggettivi e distaccati. Dopo Il coraggio delle donne (194O) - storie di personaggi sconfitti ma non prostrati e vinti - felicissimo per equilibrio narrativo e resa formale si presenta il romanzo Artemisia (1947), memoria- riflessione -racconto sulla pittrice seicentesca Artemisia Gentileschi (1597- 1651 circa) e sulla sua lotta per affermare la propria personalità femminile e il proprio talento artistico in una società che la rifiuta e l'oltraggia. Configurata come ricerca di un manoscritto dell'autrice perduto durante i bombardamenti, la vicenda si espande in circoli multipli e concentrici: la ricerca della prima stesura si trasforma in ricerca 8 G. Manzini, La Sparviera, Mondadori, Milano 1968, pp. 20-21; p. 93. dell'identità storica del personaggio e questa a sua volta in ricerca della forma del racconto da fare. Un complesso scavo psicologico sorregge anche le successive ricostruzioni storiche di figure femminili (Le donne muoiono,1951, Noi credevamo, 1967) e i racconti di Je vous écris d' pays lointain (1971). La Banti, grande cultrice d'arte, ha anche scritto monografie su Lotto, Angelico, Velàzquez, Monet In tempi più recenti il modello del racconto storico é stato seguito, ma con minore intensità e capacità evocativa da Maria Bellonci (19O2-19747) fondatrice del Premio Strega. . Durante e dopo la seconda guerra mondiale, in conseguenza dell' atroce esperienza che lacera il tessuto della vita di paesi e individui, anche la letteratura prende itinerari diversi, più concreti ed essenziali. Nel diverso approccio ai problemi sociali, civili e personali degli individui, per perspicuità e profondità , si distinguono le opere di alcune scrittrici. Anche se, in Italia, poche e di scarso rilievo seguono il modello neorealistico, si produsse in molte l' esigenza di addentrarsi nei meccanismi del reale, privato o collettivo, oggettivo o psicologico. Aderente alla trama dell'esistenza, alle sue pieghe sottili e molteplici si presenta, ad esempio, l'opera della piemontese Lalla Romano (al secolo Graziella Monti, Cuneo, 19O9....) .Lontana dai circuiti della cultura ufficiale, vissuta in una civile e decorosa condizione borghese, il rapporto con la scrittura si configura in lei come ricerca del linguaggio delle cose intime e quotidiane, come rivisitazione del proprio passato, come scoperta della propria "identità nel tempo". L’antica felicità, che alla mamma era parsa tutt’uno con Ponte, quando ero bambina l’avevo avvertita soltanto per lampi, per accensioni improvvise. Era, credo, una corrente profonda che alimentava le mie radici; ma intanto io ero sbattuta da conflitti, incertezze, paure. In esse tentavo di isolare dei filoni, dei temi. La singolarità di questo sforzo è che risale proprio a quel tempo. Incominciò allora. Appena fui capace di riflettere presi a distinguere un presente e un passato; nel passato stesso distinguevo due tempi: uno comprendeva la mia prima infanzia e la vita dei genitori, di cui per accenni intravedevo qualcosa; dietro si stendeva un altro tempo più vago, che conteneva gli antefatti: qualche episodio dell'infanzia dei genitori e della loro giovinezza. (Le storie e le fiabe avvenivano in qualcosa che non era il tempo, perché non era legato alla mia . esistenza né a quella dei miei). Questa cronologia era ampia e complessa e insieme schematica, del tipo: alto, medio e basso Impero. Il sentimento dominante era quello di essere arrivata tardi: quando il più importante era avvenuto. Il tempo meraviglioso era « quello di prima ». Appartenevano al tempo di prima certe feste che io cercavo di immaginare. L'incanto era suggerito dal modo con cui la mamma nominava i luoghi, le persone. I nomi erano pronunziati da lei con espressione estatica, più che nostalgica: eppure fuggevolmente, come usava lei, casi che apparivano e sparivano e sembravano più misteriosi. 9 La Romano abbonda le suggestioni rarefatte, l' autoascultazione compiaciuta, il culto della parola poetica di molta letteratura precedente, e si immerge nei meandri della vita, nei complessi rapporti tra le persone, nei difficili legami familiari, nei movimenti del destino, che continuamente si fa e si disfa. Un mondo autentico quello della Romano, nato dalla sua esperienza e dalla sua sensibilità e che, per 9 L. Romano, La penombra che abbiamo attraversato, Einaudi, Torino 1964, p. 8. attrarre, non ha bisogno di orpelli formalistici, di preziosità, di espressioni libresche o al contrario, del diffuso patetismo, del verboso narcisismo, dei paradossi stravaganti e noiosi di tanta produzione più recente. Lo stile della piemontese, che elabora in moduli letterari il modello linguistico della borghesia settentrionale, é infatti nitido e preciso, come nitida e precisa è la formula narrativa dei suoi testi, anche di quelli ove il rapporto con la realtà si fa più inquieto e ambiguo. Laureata in Lettere a Torino, segue la scuola pittorica di Felice Castrati. Pittrice essa stessa, esordisce in letteratura. con una raccolta di versi Fiore (1941) cui seguono L'autunno (1954) e Giovane é il tempo. La sua vena più autentica é una prosa narrativa fondata su motivi autobiografici. Dopo alcune prove vicine al neorealismo (Maria, 1953; Tetto murato, 1957) , il primo libro di rilievo é La penombra che abbiamo attraversato (1964). Il romanzo è una rievocazione dei luoghi della memoria che la sensibilità dell’autrice trasforma in sensazioni, paure, spettri, i quali alimentano il suo immaginario adolescenziale: Il mio più lontano ricordo è quello di una paura. E della paura più spaventosa: del nulla. Mi rivedo o meglio so. che mi trovo sulle ginocchia di qualcuno: una domestica, ma non Ciota. Essa deve voltare le spalle alla luce, perché sulla parete davanti a me si muove l’ombra appuntita dei suoi piedi incrociati: forse mi fa dondolare sulle ginocchia. E’ proprio quell’ombra a riempirmi improvvisamente di terrore. Potevo capire soltanto che era «nulla», «nessuno », che «faceva ombra». Molto più tardi ho ricostruito che doveva essere l'ombra di due piedi. Un’altra volta ho provato in sogno lo stesso terrore. Mi trovavo in una stanza vuota, dai muri a calce un po’ scrostati. Anche lì c’erano delle ombre, ma leggere, come di rami, tremolanti sul muro. Improvvisamente odo uno scroscio di applausi: ho il gelo nelle ossa, perché «so che non c'è nessuno»! Una paura molto antica fu quella delle maschere. Mi dibatto fra le braccia di qualcuno (siamo in città, dai nonni), una persona familiare diventata estranea per la presenza delle maschere. Le maschere sono facce rigide, inanimate, che improvvisamente parlano, «guardano », conservando la loro fissità spaventosa. Sono anch' esse « nessuno» e nello stesso tempo «ci sono ». Anche i fuochi d'artificio mi atterrivano. Il mondo si scardinava ed ero la sola ad accorgermene. Urlavo perché anche gli altri capissero, e il fatto che mi consolavano e tra loro ridevano raddoppiava la mia paura.10 Nel 1969 Le parole tra noi leggere , romanzo di grande successo che ottenne il premio Strega, indagano il complesso rapporto tra madre e figlio, colto negli snodi essenziali della crescita e del distacco, dell'affetto e dell'estraneità. Dopo L'ospite (1973) e La villeggiante (1975), nel 1975 esce Lettura di immagini, libro originale e interessante, dove la narratrice attraverso fotografie dei primi del secolo, tenta di afferrare le sfumate realtà delle figure e delle situazioni fissate nelle immagini. Una giovinezza inventata (1979), rappresenta la rivisitazione , dalla prospettiva della vecchiaia e in chiave autobiografica, della giovinezza di una donna nella trama di sentimenti, studi, malinconie, amori e il disagio e le difficoltà della condizione femminile Il motivo polemico trova, qui un singolare equilibrio stilistico, che permette alla Romano di modellare il linguaggio così da conferire valore emblematico alla lotta, intellettuale e insieme interiore, della protagonista per la propria identità e autonomia. Ed é la conquista di uno stile fatto di razionale misura, di perizia, di femminile e sensibile compassione, a fare affrontare all'autrice, nel recente romanzo Nei mari estremi (1987), il tema della malattia e della morte del marito, che essa sviluppa attraverso uno scavo interiore incombente della morte e della separazione conferiscono a toni cui la presenza e dimensioni laceranti. Più serena meno problematica, nonostante le dure esperienze politiche giovanili, la prosa di Natalia Levi Ginzburg, nata a Palermo nel 1916 da una famiglia di ebrei 10 Ivi, p. 49. piemontesi e morta a Roma nel 1991. Dopo la morte del marito - l'intellettuale antifascista, Leone Ginzburg, ucciso in carcere dai fascisti nel '44- la scrittrice continua a firmare con quel cognome, anche se, in seconde nozze aveva sposato il critico Gabriele Baldini. Nei racconti di esordio, composti durante il confino e firmati con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte (La strada che va in città del 1942), come nei libri dell'immediato dopoguerra (E' stato così, 1947; Tutti i nostri ieri, 1952), é evidente l'adesione della scrittrice al neorealismo trasferito però nell'attenzione alla vita intima e ai rapporti familiari. Temi che, apprnelle opere successive, mescolandosi alla rievocazione delle atmosfere della infanzia e della adolescenza e alla rappresentazione colorita di ambienti e atmosfere. Le voci della sera (1961), Piccole virtù (1962), Lessico famigliare (1963), Mai devi domandarmi (1970), Caro Michele (1973) sono vivaci cronache di vita, espresse con una pacata e dimessa saggezza femminile sempre in bilico tra buon senso e ironia. I toni sommessi, l' allegra malinconia, la scoperta del senso di piccoli dettagli quotidiani, l'attaccamento alla tradizione illuministica borghese, costituiscono lo sfondo e insieme la sostanza di una narrativa in cui la solidarietà familiare e civile diviene il nucleo centrale di una concezione e di una misura di vita da salvare contro le insorgenti forze centrifughe. Al mondo femminile, la Ginzburg si avvicina più volte, in particolare nella ricostruzione storica di La famiglia Manzoni (1985), vista dall'ottica dei personaggi femminili . Il tono e l'impianto del libro, come di altri scritti attinenti al tema, sono tuttavia lontani dagli accenti polemici delle rivendicazioni femministe degli anni '60 e '70 e dai loro programmi, concentrandosi piuttosto sui valori di educazione, di rispetto, di civiltà reciproci, di cui la donna è portatrice e garante. Più radicalmente ed empaticamente dalla parte delle donne sono i numerosi libri di narrativa di Alba de Céspedes (Roma 1911- 1997), che presentano un'ampia galleria di ritratti femminili, descrivendo la ricerca, da parte delle protagoniste, di una propria identità contro il conformismo imperante: Concerto (racconti, 1937), Nessuno torna indietro (1938), Dalla parte di lei (1949), Quaderno proibito (1952), Il rimorso (1964), La bambolona (1967), Nel buio della notte (1976). Particolare rilievo assume, anche per gli anni cui fu composto, il primo romanzo, Nessuno torna indietro, dove la de Céspedes, trasfondendo motivi tratti dalla propria esperienza personale, narra i dubbi, le incertezze, gli esiti di vita di alcune ragazze - allieve di un collegio romano gestito da suore- che diventano emblema dello stato d'animo di una generazione alle soglie del conflitto mondiale. La ricerca espressiva, la riflessione sul tema riescono, in queste pagine, a tradurre lo stato di sospensione proprio dell'adolescenza nel transito metaforico -"la poetica del ponte" é stato definito- da un momento storico ad un 'altro , dalla condizione di passività della donna alla stagione della sua autonomia. La de Céspedes è anche autrice di versi (Le ragazze di maggio, 1970) e di testi teatrali ( Quaderno proibito ,1962) Una cifra del tutto originale possiede la narrativa di Anna Maria Ortese (nata a Roma nel 1914), una scrittrice colta e solitaria, che ha saputo tradurre i luoghi e i tempi della realtà in suggestivi scenari mentali. Gli spettacoli transeunti della vita - "il meccanismo delle cose che sorgono nel tempo e dal tempo sono distrutte" come dice lei stessa - assumono, nelle sue pagine, valenze immaginarie e fantastiche che, superando i confini del razionale e del noto, si inoltrano in spazi metafisici. Le storie umane, molto umane, che la Ortese racconta, si sviluppano e si ampliano in una rete di riferimenti e di allusioni che le libera dalla pesantezza documentaristica di tanta produzione neorealista trionfante le trasforma in emblemi della cecità e della inesorabilità del destino. Di qui, il travisamento polemico del significato di molte sue opere. Se, al loro apparire, nel 1953, i racconti di Il mare non bagna Napoli (pubblicato dalla Einaudi nella prestigiosa collana dei "Gettoni" diretta da Elio Vittorini), vennero giudicati (e da molti rifiutati) sulla base di una valutazione contenutista e ideologica fu perché non si volle o non si seppe valutarne la loro vera sostanza, lontanissima dai modelli di mimesi e di analisi sociale. Il libro diceva "altro". La città ferita e lacera, come acutamente è stato detto, diventa infatti "lo schermo" sul quale l'autrice proietta ciò che lei stessa ha definito la propria "nevrosi": lo stupore per il "cupo incanto" della città, il dolore per il suo oscuro destino, l'amore per la vita e l'orrore per l'irrazionalità del vivere, la memoria del passato e l'angosciata attenzione ai mutamenti del tempo che ogni cosa corrompe e trasforma. La struttura del testo, la sua scrittura "febbrile e allucinata" traducono la condizione di profondo e sofferto spaesamento dell'Ortese, in cui l'amore per Napoli (questo libro fu un addio alla città in cui non sarebbe più tornata) si identifica con lo sguardo sconvolto sulla sua devastazione: come lo sguardo di Eugenia - la bambina dei "bassi", protagonista del primo, straordinario racconto, Un paio d'occhiali - il giorno in cui, quasi cieca, si mette gli occhiali e vede per la prima volta la miseria che la circonda: Eugenia, sempre tenendosi gli occhiali con le mani, andò fino al portone, per guardare fuori, nel vicolo della Cupa. Le gambe le tremavano, le girava la testa, e non provava più nessuna gioia. Con le labbra bianche voleva sorridere, ma quel sorriso si mutava in una smorfia ebete. Improvvisamente i balconi cominciarono a diventare tanti, duemila, centomila; i carretti con la verdura le precipitavano addosso; le voci che riempivano l’aria, i richiami, le frustate, le colpivano la testa come se fosse malata; si volse barcollando verso il cortile, e quella terribile impressione aumentò. Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio intorno all'Addolorata; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cencio si e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti stregati degli occhiali. Fu Mariuccia per prima ad accorgersi che la bambina stava male, e a strapparle in fretta gli occhiali, perché Eugenia si era piegata in due e, lamentandosi, vomitava.11 La desolazione di quanto Eugenia vede richiama per certi aspetti i terribili quadri della miseria partenopea offerti dalle prose della Serao. In I giorni del cielo e in Silenzio a Milano (1958), si accentuano i caratteri del suo universo inventivo. A metà tra il saggio e il racconto, questi libri trasferiscono squarci documentari di estrema esattezza e lucidità in una dimensione miticofantastica che ne innerva e ne amplia il significato: la sostanza misteriosa del mondo, propria delle favole romantiche alla Novalis e alla Hoffmann, si espande nei fili di passioni oscure, di visioni e magie, di metamorfosi di oggetti e situazioni, nella mescolanza dei tempi. Come nell'Iguana (1965), con il personaggio fantastico e inquietante di una piccola donna - serva, miscela alchemica di animale, elfo ed essere non umano. Come in Il porto di Toledo (1975), dove passato e presente si avvolgono e si fondono così che ciascuno diviene l'immagine riflessa dell'altro. Un tema cardine del romanzo è la riflessione dell’autrice sull’ “Espressività” come tentativo “continuo e affannato di esprimere l’immagine che l’uomo si è fatto del mondo”. Immagine che contrappone alla realtà apparente quanto di invisibile e di segreto si deposita nel suo significato: Secondo tale avvertimento, che contrastava con tutto ciò che io avevo pensato finora della Espressività, essa, sebbene ci apparisse solo (chi guardi la Litteratura caso per caso) un tentativo continuo e affannato di esprimere l'immagine che l'uomo si è fatta del mondo, e perciò potesse apparire al profano, o superficiale, un semplice riflesso di tale mondo, era, in realtà, un secondo mondo o seconda realtà, una immensa appropriazione dell’inespresso, del vivente in eterno, da parte di morituri; 11 A. M. Ortese, Il mare non bagna Napoli, Adelphi Edizioni, Milano 1994, p. 33. e ciò, non già al solo fine di esprimerlo (questo, un effetto secondario), bensì di costituirsi, tale inespresso finalmente rivelato, come una seconda irreale realtà; non tanto irreale, poi, se vedevamo la realtà vera disfarsi continuamente, al pari di un vapore acqueo, e la realtà irreale dominare l’eterno. Con ciò, secondo D’Orgaz, ogni volta che mente umana entrava nel mondo della Espressività, lavorava a nient’altro che la costruzione di un nuovo continente, o terra, dove, finché sul mondo vi fosse stata la caducità, i naufraghi avrebbero trovato salvezza, sebbene temporanea. L'umanità, in tale continente, avrebbe trova pace […]. […] L’Espressività non era riflesso del mondo umano, soltanto; era, dietro la sua apparenza di riflesso, quale a noi si mostrava, un secondo mondo, una seconda terra: il vero reale; e, davanti a tale mondo reale, il mondo di ogni giorno, giacente nell'inespresso, non era più che un sogno, una veloce ombra.12 Come Il cardillo addolorato , (1993) incontro tra spirito del Nord e demone mediterraneo, discesa nei sotterranei della storia, saga di folletti, streghe e fantasmi, caleidoscopio di epifanie, di incantesimi, di figure, che moltiplicandosi, cambiano continuamente di segno e di senso, e il cui filo connettivo è il canto magico del cardillo :il canto dell'usignolo che non si cancella mai dalla mente di chi lo ha udito. Emetteva un fioco, dolce, monotono: Aà! Aà! Aà! ma simile più a un lamento di creatura «naturale» che a un vero canto (non aveva, infatti, voce). 12 Il porto di Toledo, Adelphi Edizioni, Milano 1998, pp. 112-113. «Ma Sasà, che fai! » le gridò ridendo Nodier. «Ah, la Paummella canta pure! Canta e vola, quando resta sola!»13 Il punto più alto nella narrativa femminile italiana è raggiunto da Elsa Morante, la cui voce è una delle straordinarie rivelazioni del Novecento. L' opera della scrittrice condensa la sua esperienza del mondo in una messa in scena di affetti, sentimenti, emozioni assolutamente femminili. Dotata di eccezionali qualità di narratrice, nei suoi libri - dai primi racconti di Il gioco segreto (1941), Lo scialle andaluso (1947), ai romanzi, Menzogna e sortilegio (1948), e L'isola di Arturo (1957), -la Morante proietta, insieme alla fedeltà alla letteratura, un bisogno di rapporti intensi drammatici, una fantasia calda e opulenta, uno spirito romantico e una predisposizione all'incantesimo, che investono la struttura narrativa tradizionale, svuotandola della funzione di rappresentazione del mondo oggettivo e piegandola ad esprimere una realtà "altra". Una realtà fiabesca e remota, fuori del tempo e dello spazio contingente della storia, intrisa di magia e di superstizione, partorita dai sogni di grandezza di personaggi soli, delusi e frustrati e nella cui immaginazione esaltata si riflettono, alterati e deformati, i caratteri della sensibilità moderna: la insoddisfazione esistenziale, il caos interiore, il bisogno di fuggire nelle zone libere dell'immaginario. Il valore dei romanzi della Morante - oggi universalmente riconosciuto - sta nella loro capacità di ritrascrivere il presente in movenze di scrittura folgorante, e di configurarlo entro una trama di motivi e suggestioni letterarie: la mitologia classica, l'epica cavalleresca, le fiabe nordiche, il teatro, il melodramma, la grande narrativa ottocentesca, francese e russa, la poesia novecentesca (Saba e Penna soprattutto). La letteratura diviene pertanto, nella scrittrice, l'unico ed estremo 13 Il cardillo addolorato, Adelphi Edizioni, Milano 1993, p. 222 spazio per dar senso al transitorio e al mistero della vita: é la parola infatti a permettere alle miserie e ai drammi dell’esistente di depurarsi, condensandole in rappresentazione di figure e eventi, che assumono la forma di rivelazioni assolute, di fantasmi allucinati, opulenti, salvifici. Il mito, la favola e le invenzioni degli artisti assurgono a valore di segni pilivalenti del mondo che a tratti, confida agli uomini qualche suo segreto, altrimenti inaccessibile. La "menzogna" della letteratura diviene così per lei lo strumento - non logico, non razionale, ma omologo alla "follia "dell'esistente -, il quale, reinventando il reale in costruzioni immaginarie ne scopre dimensioni sconosciute . Nata nel 1912 a Roma - dove trascorre l'infanzia e la giovinezza, scrivendo precocemente fiabe, brevi poesie - a diciotto anni, per esigenze economiche, inizia a collaborare a giornali e riviste. Formatasi tra l'avventura "magica" di Bontempelli, la pittura metafisica di De Chirico e l'esperienza di “ Solaria ”, e nutrita dalle letture di Joyce e Proust, di Melville, di Saba e di Montale, la Morante rivela presto le proprie capacità. Sposata con Alberto Moravia, la cui ampia produzione e notorietà metteranno in ombra , per un lungo periodo, lo splendido ingegno di lei, nel 1935 scrive il racconto Il ladro di lumi (pubblicato poi nel volume Scialle andaluso). Nello stesso anno pubblica Il gioco segreto , raccolta di novelle, tra cui, quella che dà il titolo al volume é un vero gioiello. Si trasferisce ad Anacapri, e poi, durante l'occupazione tedesca, nella zona di Cassino, dove viene a contatto con il mondo meridionale, che animerà la parte più rilevante della sua opera. Lavora, nel frattempo, al romanzo Menzogna e sortilegio, che pubblica nel 1948, vincendo, assieme a Palazzeschi, il Premio Viareggio. Nel 1952 comincia a scrivere L'isola di Arturo, che, edito nel 1957, ottiene il Premio Strega. Dopo la separazione da Moravia, viaggia molto, visitando i paesi europei, la Persia, l'India, la Russia, la Cina, l'America. . Il romanzo La Storia, del 1974, ha un grande successo di pubblico ma suscita non poche riserve da parte della critica. L'ultimo libro è Aracaeli, del 1982. Il diario postumo, Lettere ad Antonio, offre un contributo prezioso per conoscere la personalità della Morante. Il primo romanzo, Menzogna e sortilegio, contiene in sé il nucleo della poetica morantiana quale viene descritta dalla narratrice Elisa, proiezione fantastica, dell’autrice stessa: Come vi dissi, in questa casa v’è un territorio nel quale mi fu sempre concesso di regnare indisturbata; vale a dire, la mia camera. A toglierne le immagini sacre, i ritratti e i libri, questa camera non è molto mutata dal giorno che vi entrai la prima volta. Chi la veda, può supporre ancora oggi ch’essa appartenga a una bambina ordinata, molto studiosa e amante della lettura. Soprattutto di quelle letture in cui l’esistenza terrestre non è descritta quale si mostra ogni giorno ai mortali assennati; bensì piena di prodigi, di stravaganze e di follia. Quasi che il petulante autore, simile più ad un burattinaio ubriaco che ad un veggente, giudicasse insipido il Creato, e intendesse opporre il proprio dissonante scompiglio all’ordine musicale della natura.14 “Menzogna e sortilegio” - frutto solitario, estraneo alla cultura e alle tendenze di quegli anni - si presenta come utilizzazione estrema dei modelli narrativi ottocenteschi che, con gesto di sfida del tutto consapevole, l'autrice consuma nella collisione con il flusso molteplice e multivalente della realtà novecentesca. Dice lei stessa di aver voluto fare, con questo libro, "quello che per i poemi cavallereschi ha fatto l'Ariosto: "scrivere l'ultimo e uccidere il genere. Io volevo scrivere l'ultimo romanzo possibile, l'ultimo romanzo della terra, e, naturalmente, anche il mio ultimo romanzo": La mia preferenza per libri cosiffatti appare evidente a chi esamini la mia biblioteca. Quasi tutte le opere che la compongono, benché nate in diversi climi, appartengono al genere fantastico: le pazze leggende dei Tedeschi vi 14 E. Morante, Menzogna e sortilegio in E. Morante, Opere, Mondadori, Milano 1988, pp. 23-24. prevalgono, insieme alla fiabesca malinconia scandinava e alle felici epopee degli antichi, e agli amori orientali. … Di simile nutrimento io ho vissuto dalla mia fanciullezza fino ad oggi; ma, per saziarmi, non mi bastava la semplice lettura delle mie fole, la quale anzi mi lasciava tutta amara e insoddisfatta. Mi sentivo come un cantante fallito che in silenzio, nella sua camera solitaria, vada leggendo partiture d’opera; e fu di nuovo il genio della menzogna che venne in mio soccorso. Dapprima (ero appena una ragazzetta ancora), il mio non parve che un gioco, o un dilettoso esercizio. Richiusi i miei libri, io mi compiacevo di architettare, nella fantasia, vicende e storie di mia propria fattura, modellate, s'intende, sulle mie favole predilette. Or sebbene le trame da me immaginate variassero secondo i miei umori quotidiani, i protagonisti di esse, invece, eran sempre simili l’uno all'altro (se non proprio uguali), e quasi congiunti da una stretta parentela. Naturalmente, si trattava sempre di re, condottieri, profeti, e gente, insomma, d'altissimo rango. Quando non vestivano un' armatura o un saio, i miei personaggi indossavano costumi d'insuperabile fasto, e quando non eran cinti d’aureola, per lo più eran teste coronate. Ma sotto qualsiasi armatura, o divisa, o gala, si potevan riconoscere in loro sempre le medesime fattezze; che erano, precisamente, le fattezze a me familiari dei miei propri parenti, vivi o morti, e di coloro che, pur non essendo uniti a me da legami di sangue, avevan lasciato nel mio passato un segno profondo, or d'amore or d'odio. Questo sapermi discendente o affine dei miei eroi mi faceva partecipe della loro gloria, sebbene io mi tenessi del tutto in ombra, e cioè la mia propria effige non apparisse mai, sotto nessuna veste, nelle mie immaginazioni.15 15 Ivi pp. 24-25. La vicenda è il racconto in prima persona di Elisa che, da adulta, chiusa in casa, isolata dal mondo, ripercorre con la memoria la storia della propria famiglia, autoannientatasi nel vagheggiamento di impossibili reami di grandezza, di illusori e mistificati amori e nel culto cupo di idolatrie mortuarie. Sono questi i riti sacrali e sacrificatori con i quali i protagonisti, come in precedenza i ragazzi di Il gioco segreto , che costituisce il primo nucleo del romanzo, rimuovono la profonda paura della realtà, nascondendosela e nascondendosi ad essa, dietro una continua esibizione di pose teatrali, di finzioni, di inganni mediante cui si elevano all'altezza dei loro sogni: "come se fossero re principi di un dramma balocco " ha scritto il critico Cases. Essi vivono la vita come un gioco magico e stregato, come un impasto di recitazione e cerimoniale, di menzogna e sortilegio. Io ero, difatti, venuta in possesso dell’ultima e più importante eredità lasciatami dai miei genitori: la menzogna, ch’essi m’avevano trasmessa come un morbo. […] Ma farsi adoratori e monaci della menzogna! fare di questa la propria meditazione, la propria sapienza! rifiutare ogni prova, e non solo quelle dolorose, ma fin le occasioni di felicità, non riconoscendo nessuna felicità possibile fuori del non-vero! Ecco che cosa è stata l'esistenza per me! ed ecco perché mi vedete consunta e magra al pari dei ragazzetti mangiati dalle streghe di villaggio. Essi dalle streghe, e io dalle favole, pazze e ribalde fattucchiere. E sebbene voi dobbiate aspettarvi, o lettori, di conoscere attraverso questo libro più d’un personaggio contagiato dal nostro morbo fantastico, sappiate che il malato più grave di tutti lo avete già conosciuto. Esso non è altri se non colei che qui scrive: son io, Elisa.16 La “menzogna” che la narratrice protagonista trasforma da mistificazione o autoesaltazione in metamorfosi del reale, sciatto e piatto, in grandiose visioni 16 Ivi, pp.22-23. immaginarie dove i protagonisti si trasformano in eroi, in fantasmi, in maschere di suggestiva fascinazione che configurano il “sortilegio” della sua scrittura. E' la scrittura infatti a far divenire il dramma dei suoi genitori - vittime di fantasie da feuilleton , nei motivi e nei personaggi regali e magnifici di una leggenda in cui il velo della menzogna (la menzogna loro, la menzogna che é il racconto trafigurante di Elisa,) diviene il sortilegio capace di scavare nei meandri della realtà e di tradurre in fantasmi potenti i suoi insensati percorsi. Scrittura dunque come esorcismo, come lavacro purificatorio dai miraggi ingannatori della vita. Nella narrazione, il piano reale e quello mentale e psichico slittano continuamente l'uno su l'altro così da dar vita a un gioco, raffinato e sottilissimo, di partecipazione e di demistificazione, identificazioni e repulsioni, amore e odio, sofferenza ed ironia che coinvolge tanto chi scrive quanto coloro di cui essa scrive: Al declinare della notte, io cado spesso in un sonno leggero; […] Dal sonno mi riscuotono voci familiari che, accosto ai miei orecchi, col tono incalzante di quando, ai tempi della scuola, mi si svegliava alla mattina presto, chiamano: Elisa! Elisa! Ma al mio primo aprir gli occhi, mi par di udire un debole strido di spavento e di intravvedere, nelle prime luci del giorno, una frotta di esseri effimeri che fuggono confusamente dalla stanza, come uno sciame di tignole all' aprirsi d’un armadio polveroso. Io mi sento punger da un’angoscia sottile e perfida; e non di rado, piango sulla mia strana solitudine, e invoco i nomi delle persone che amavo. … Forse, ricostruendo così tutta la nostra vicenda vera, io potrò, finalmente, gettar da un canto l’enigma dei miei anni puerili, e ogni altra familiare leggenda. Forse, costoro son tornati a me per liberarmi dalle mie streghe, le favole; attribuendo a se medesimi, e a nessun altro, la colpa d'aver fatto ammalare di menzogna la savia Elisa, voglion guarirla. Ecco perché ubbidisco alle lor voci, e scrivo: chi sa che col loro aiuto io non possa, finalmente, uscire da questa camera.17 Di qui i binari incrociati e a chiave del romanzo: quando la sua lettera sembra impegnata a restituire gli accadimenti oggettivi, il senso si trasferisce oltre la vicenda concreta, oltre i fatti e il destino dei personaggi, oltre il tempo e gli spazi oggettivi, nel mondo illimitato e senza tempo dell'inconscio, della memoria, dell' immaginario. Quando il tema pare essere il mito (inteso come incontro tra valenze interiori del personaggio e forme, arcaiche e primitive di configurazione del mondo), questo si rivela metafora della realtà: l'aspra realtà della società meridionale- e non solo di quella- la quale spinge a fuggire, a cercare scampo in un "altrove" che per la scrittrice non è che il regno trasfigurante della finzione poetica. … Forse, ricostruendo così tutta la nostra vicenda vera, io potrò, finalmente, gettar da un canto l’enigma dei miei anni puerili, e ogni altra familiare leggenda. Forse, costoro son tornati a me per liberarmi dalle mie streghe, le favole; attribuendo a se medesimi, e a nessun altro, la colpa d'aver fatto ammalare di menzogna la savia Elisa, voglion guarirla. Ecco perché ubbidisco alle lor voci, e scrivo: chi sa che col loro aiuto io non possa, finalmente, uscire da questa camera Io mi sento punger da un’angoscia sottile e perfida; e non di rado, piango sulla mia strana solitudine, e invoco i nomi delle persone che amavo. … Forse, ricostruendo così tutta la nostra vicenda vera, io potrò, finalmente, gettar da un canto l’enigma dei miei anni puerili, e ogni altra familiare leggenda. Forse, costoro son tornati a me per liberarmi dalle mie streghe, le favole; attribuendo a se medesimi, e a nessun altro, la colpa d'aver fatto ammalare di menzogna la savia Elisa, voglion guarirla. 17 Ivi, pp. 33-34. Ecco perché ubbidisco alle lor voci, e scrivo: chi sa che col loro aiuto io non possa, finalmente, uscire da questa camera.18 Sullo stesso intreccio di passato di favola e di presentimenti di morte, di illusione e di svelamento si sviluppa il secondo romanzo morantiano L'isola di Arturo (1957). L' infanzia di Arturo in un' isola favolosa ( Procida), con l’avventurosa scoperta del territorio, la luminosità magica e quasi sacrale della natura mediterranea, la fascinazione del mare, animano l’atmosfera incantata in cui Arturo cresce. Allora, i miei occhi e i miei pensieri lasciavano il cielo con dispetto, riandando a posarsi sul mare, il quale, appena io lo riguardavo, palpitava verso di me, come un innamorato. Là disteso, nero e pieno di lusinghe, esso mi ripeteva che anche lui, non meno dello stellato, era grande e fantastico, e possedeva territori che non si potevano contare, diversi uno dall’altro, come centomila pianeti! Presto, ormai, per me, incomincerebbe finalmente l’età desiderata in cui non sarei più un ragazzino, ma un uomo; e lui, il mare, simile a un compagno che finora aveva sempre giocato assieme a me e s’era fatto grande assieme a me, mi porterebbe via con lui a conoscere gli oceani, e tutte le altre terre, e tutta la vita!19 L’idolatria per il padre, il culto della madre morta sono le altre componenti del mito archetipico dell'infanzia, e della sua caduta, sulle quali si struttura il libro. La mia infanzia è come un paese felice, del quale lui è l’assoluto regnante! Egli era sempre di passaggio, sempre in partenza; ma nei brevi intervalli che trascorreva a Procida, io lo seguivo come un cane. Dovevamo essere una buffa coppia, per chi ci incontrava! Lui che avanzava risoluto, come una vela nel vento, con la sua bionda testa forestiera, le labbra gonfie e gli occhi duri, senza 18 Ivi, pp. 33-34. 19 E. Morante, L’isola di Arturo in Ivi, p. 1147. guardare nessuno in faccia. E io che gli tenevo dietro, girando fieramente a destra e a sinistra i miei occhi mori, come a dire: “Procidani, passa mio padre!” 20 La trasfigurazione mitica del mondo si contrappone alla rugosità del vivere e rappresenta insieme la beatitudine fanciullesca del contatto libero e spontaneo con la natura e lo stadio fantastico e prelogico della coscienza: Io, nella mia felicità naturale, scansavo tutti i miei pensieri dalla morte, come da una impossibile figura di vizi orrendi: ibrida, astrusa, piena di male e di vergogna. Ma nello stesso tempo, quanto più odiavo la morte, tanto più mi divertivo e mi esaltavo a far prove di audacia: anzi, nessun gioco mi piaceva abbastanza, se non c’era il fascino del rischio. […] Tutta la realtà mi appariva limpida e certa […]. 21 La maturità - arrivata di lì a poco con l'amore, con il sesso, con la scoperta della squallida identità della figura paterna, con la conoscenza della vita vera, delle sue lotte e disastri ( la seconda guerra mondiale) – dissolverà il sogno, depositandolo nella memoria e nella nostalgia, dove esso vivrà come momento utopico ed anarchico non solo dell'infanzia di Arturo ma dell'infanzia dell'uomo. Di qui il carattere simbolico del romanzo. Gli elementi realistici del racconto - la vita dell'isola e il mondo popolare napoletano - si miscelano con l'atmosfera fiabesca che avvolge l'esistenza del ragazzo, le sue scorribande, i personaggi che gli stanno intorno e soprattutto il paesaggio. Orfano, solo, libero come un Adamo bambino e il personaggio "Venerdì" di Robinson Crusoé o un cavaliere leggendario, Arturo- che porta il nome di una stella della costellazione del Boote e del re del ciclo brettone, ed é forse l'ultimo testimone di un mondo solare e senza ombre - diviene spettatore e creatore insieme di una 20 21 Ivi, p. 973. Ivi, pp. 980. scenario incantato di immagini, nel cui linguaggio egli dà nome a tutto ciò che vede: Eravamo d’inverno, e quel giovedì un piovasco freddo annebbiava Procida e il golfo. In giornate simili, così rare da noi, l’isola pare una flotta che ha ripiegato le sue mille vele dipinte e viaggia su correnti senza rumore, verso gli Iperborei. I fumi dei piroscafi di linea che fanno il solito giro quotidiano, e i loro lunghi fischi attraverso l’aria, sembrano segnali di rotte misteriose, fuori dalla tua sorte: passaggi di contrabbandieri, di cacciatori di balene, di pescatori eschimesi: tesori e migrazioni! Questi segnali ti portano un’allegrezza d’avventuriero, e a volte, invece, uno sgomento, come fossero luttuosi addii.22 Arturo che narra sembra quasi raccontare a se stesso una favola di cui egli è, nello stesso tempo, eroe mitico, destinatario e voce: essa é il grembo di sua madre, il suo paradiso, e la sua illusione. Illusione fascinosa, tra simbologia primordiale, leggenda medievale e racconto corsaro, che immette il protagonista- affabulatore in una dimensione senza tempo e senza storia in cui è totalmente identificato. Divenuto adulto, Arturo dovrà abbandonare i suoi sogni e lasciare l’isola: l’ eldorado in cui egli aveva regnato come un principe o come un re. Le pagine che descrivono la partenza di Arturo da Procida, e che richiamano alla memoria del lettore l’addio di ‘Ntoni ad Aci-Trezza, esprimono con estrema perizia psicologica e letteraria l’inesorabile metamorfisi del protagonista da ragazzo a uomo e l’amaro rimpianto del passato: Qua e là, per il cielo stracciato, erano visibili le piccole stelle dicembrine, e un’ultima falce di luna spargeva un pallidissimo barlume di crepuscolo. Il mare, steso dalla pioggia senza vento, oscillava appena assonnato e monotono. E io, avanzando lungo il mare in quel gran de mantello, mi sentivo già una specie di masnadiero, senza casa, né patria, con un teschio ricamato sulla divisa! 22 Ivi. 1025. […] Se, almeno, fosse durato sempre il presente inverno, malaticcio e smorto, sull’isola! Ma no, anche l’estate, invece, sarebbe tornata immancabilmente, uguale al solito. Non la si può uccidere, essa è un drago invulnerabile che sempre rinasce, con la sua fanciullezza meravigliosa. Ed era un’orrida gelosia che mi amareggiava, questa: di pensare all’isola di nuovo infuocata dall’estate, senza di me! La rena sarà di nuovo calda, i colori si riaccenderanno nelle grotte, i migratori, di ritorno dall’Africa, ripasseranno il cielo... E in simile festa adorata, nessuno: neppure un qualsiasi passero, o una minima formica, o un infimo pesciolino del mare, si lagnerà di questa ingiustizia: che l’estate sia tornata sull’isola, senza Arturo! In tutta l’immensa natura, qua intorno, non resterà neppure un pensiero per A. G. Come se, per di qua, un Arturo Gerace non ci fosse passato mai! […] Il fuoco di quella infinita stagione puerile mi montò al sangue, con una passione terribile che quasi mi faceva mancare. E l’unico amore mio di quegli anni tornò a salutarmi. Gli dissi ad alta voce, come se davvero lui fosse li accosto: - Addio, pà. […] Il piroscafo era già là, in attesa. E al guardarlo, io sentii tutta la stranezza della mia tramontata infanzia. Aver veduto tante volte quel battello attraccare e salpare, e mai essermi imbarcato per il viaggio! Come se quella, per me, non fosse stata una povera navicella di linea, una specie di tranvai; ma una larva scostante e inaccessibile, destinata a chi sa quali ghiacciai deserti! […] E rimasi col viso sul braccio, quasi in un malore senza nessun pensiero, finché Silvestro mi scosse con delicatezza, e mi disse: - Arturo, su, puoi svegliarti. Intorno alla nostra nave, la marina era tutta uniforme, sconfinata come un oceano. L’isola non si vedeva più.23 23 Ivi, pp. 1364-13675; pp.1368-1369. L’isola e l’innocenza lentamente scompaiono all’orizzonte fino a essere inghiottite dal mare. Non ci sono più. Non ci sono più nella realtà ma esse continuano a vivere nell’immagionario di Arturo e riprenderanno a essere presenti e vere quando, elaborato il lutto della perdita, a lui verrà concesso di trasformare le figure della memoria nelle figure autonome della scrittura dove il sublime miraggio dell’infanzia si metaforizza in una straordinaria invenzione letteraria. Se Lo scialle andaluso (1917) - il racconto anteriore a questo romanzo e uno dei più belli della narrativa della Morante - nel rapporto tra madre e figlio anticipa la situazione di Arturo, il motivo utopico e anarchico ritorna potenziato in quella singolare raccolta di poesie, di canzoni (più un atto unico), pubblicata nel 1968 con il titolo Il mondo salvato dai ragazzini. Il rifiuto morantiano della società, come luogo di alienazione istituzionalizzata, e della storia come spettacolo grottesco e incomprensibile, trova qui il suo risarcimento nella ribellione dei diseredati, dei ribelli, degli ingenui, dei "ragazzini" E’ un momento di chiarificazione ideologica che aiuta a comprendere La storia (1974). Questo libro ha suscitato polemiche spesso aspre tra chi lo ha apprezzato per i suoi caratteri di popolarità e di mimesi del reale e chi lo ha denigrato per la sua struttura tradizionale. Certamente la narrazione delle vicende drammatiche di una famiglia romana, durante e dopo il secondo conflitto mondiale, manifesta nella scrittrice la volontà di riagganciarsi al filone di popolarità e di coralità della letteratura realistica degli anni '45-'50 e spiega l'interesse dei lettori verso un'opera che riproponeva alla loro attenzione una esperienza nella quale essi potevano riconoscersi e di cui potevano sentirsi parte. La sostanza del romanzo - come ancor di più la triste storia di Armando, il protagonista dell'opera successiva e ultima del 1982, Aracoeli - non permette di scorgere in esso alcuna traccia di un percorso diverso, al di là degli apparenti riferimenti della trama. . Sia pure lontani dalle magiche invenzioni precedenti e costruiti su temi più concreti e più immediatamente riconoscibili, questi romanzi manifestano sempre - e forse ancor di più - la estraneità profonda della scrittrice alla dimensione della storia. Essi rivelano la radicale sfiducia della Morante nella razionalità e conoscibilità degli eventi, la sua radicata convinzione che un muro divide le ragioni e le giustificazioni che molti attribuiscono loro dall'inesorabile quanto impenetrabile necessità della storia, dal suo rovinare sui derelitti, sui poveri, sui semplici, dal suo perenne presentarsi con il volto enigmatico di una sfinge. Il disagio psicologico ed emotivo dinanzi a quel crogiolo indifferenziato che è la moderna società di massa ha sviluppato in molte autrici l’esigenza di rintracciare le proprie radici, di ritrovare la propria identità nelle tradizioni, storiche e culturali, dimenticate, della terra di origine. Ed è nell’esercizio della memoria che si distinguono le voci più valide e persuasive del romanzo femminile successivo alla Morante: da Strade di polvere (1987) di Rosetta Loy ad Althénopis (1981) di Fabrizia Ramondino, da Tra le mura stellate (1991) di Gina Lagorio a Passaggio in ombra (1995) di Teresa di Lascia. Nel libro della Loy rivive l’atmosfera chiusa e cupa delle valli piemontesi dove si affollano figure ambigue e intriganti. Le Strade di Polvere sono le strade del destino, misterioso e oscuro, percorse dai componenti di una famiglia monferrina , la cui saga è il tema del romanzo. La vicenda abbraccia il periodo che va dalla caduta di Napoleone alle guerre di indipendenza ed è la rievocazione memoriale e fantastica della vita di un paese povero, funestato da carestie, morti, epidemie e calamità naturali. In questa cornice si intersecano e si intrecciano esperienze individuali dei protagonisti e quelle collettive intorno a cui la scrittura sfumata e seducente dell’autrice crea un’atmosfera di favola e magia. Una delle pagine più drammatiche – dove l’influenza dantesca si fonde con l’atmosfera infernale di certi dipinti di H. Bosch – è quella in cui si descrive un’inondazione che nella sua furia distruttiva travolge e sconvolge la comunità: “Ma il vero protagonista di quella notte fu Gavriel. Organizzò i soccorsi, fece accendere i fuochi, radunò le bestie che vagavano nella campagna e tirò fuori quelle imprigionate dal fango piantandosi largo sulle gambe, le mani sanguinanti per le corde. Camminò con l’acqua alla vita per portare in salvo vecchi e bambini, donne che piangevano alle finestre.. Si fece legare con una fune e annaspando e battendo le gambe portò in salvo la Rosetta del Fracin che non voleva staccarsi dal comignolo di casa mentre l’acqua già bagnava le prime tegole. La prese sulla schiena e lei gli si avvinghiò come lui gli aveva ordinato e insieme passarono attraverso la corrente che trascinava tronchi d’albero, travi e sterpi, animali morti che alla luce dei lampi assumevano le forme più obbrobriose. Intorno tutti gridavano e sembrava a ogni momento che Gavriel dovesse sparire in quelle onde di fango, invece sempre riappariva con la Rosetta afferrata ai capelli, il corpo di lei che si abbandonava sopra il suo. Quella notte Gavriel lo videro dappertutto. Era dalla parte dello stradone che tirava fuori le bestie e giù alla chiusa a prendere la barca per andare a Braida dove l’acqua arrivava al primo piano … e quando Gavriel ripese i remi vide passare fuori il cortile una barca lunga e stretta. In quella barca sedevano una donna e un bambino mentre l’uomo era in piedi e avanzava lento e solenne con una lunga pertica. Era il Gran Masten (nonno del personaggio, ndr) vestito ancora come nel ’93 con il codino e il tricorno, ma Gavriel non lo riconobbe e quando fu fuori dal cortile la barca non si vedeva più mentre l’acqua vorticava spaventosa. Fu allora che udì vicinissima la voce, Angirmà, diceva, Angirmà, che vuol dire ragazzo che si incanta con le parole fatate. … Fu quella parola, ripetuta vicinissima al suo orecchia, a salvarlo. … e a Gavriel la lacrime avevano chiuso la gola … E improvvisamente aveva capito che il traghettatore ormai lontano era il Gran Masten … venuto perché lui, Gavriel, non doveva morire.”24 Nel percorso della memoria si distingue anche Althénopis 25 (1981) di Fabrizia Ramondino. La sua scrittura è tra le più ricche e vivaci per l’evocazione di suoni e voci e per l’intensità e varietà dei colori che incantano la protagonista: “I colori a me familiari erano il rosa, il verde, il bruno, il giallo, anche l’azzurro, mai il nero o il bianco. Talora il rosso, ma mai quel rosso col nero. E mai l’oro! L’oro mi pareva il sommo del segreto, e del male, anche perché non sapevo leggere e compitavo a stento le lettere in oro del messale.”26 In questo romanzo l’autrice rievoca la sua libera e fantasiosa adolescenza nel paesino partenopeo di Santa Maria del Mare , dove la famiglia era sfollata, durante la guerra e dove a emergere sono quasi esclusivamente figure di donne: donne apparentemente sonnolente o stravaganti, ma forti, fertili, dotate di una generosa volontà di vivere e di prodigarsi per gli altri. Particolarmente efficace è il ritratto della nonna che, per alcuni aspetti, rievoca la carducciana nonna Lucia. Anche in questo brano è l’esplosione dei colori a creare come un alone magico di luce e di fascino intorno alla figura della donna: “Era sempre vestita di nero, ma quando passava per la piazza di Santa Maria del Mare, come fiamme d’inferno i colori le guizzavano intorno, dei gialli, dei viola, perfino talora dei rossi e dei verdi; non portava bracciali, eppure bagliori dorati 24 Rosetta Loy, Le strade di polvere, Torino 1995, pp. 88-90. Althénopis è il nome che i tedeschi avevano dato a Napoli durante l’occupazione. Delusi nel vederla, la chiamarono althénopis, cioè “occhio di vecchia”. 26 F. Ramondino, Althénopis, Torino 1981, p. 6 25 sembravano splenderle intorno ai polsi. Camminava eretta, rapida, con i grandi capelli rialzati oscillanti: impeto e altezza; sotto la gonna nera si profilava elegante la gamba fino alla coscia; la veste era scollata sul petto magro, arrossato, un largo nastro di velluto nero le fermava le arterie agitate del collo. E il barbaglio di altri colori sontuosi a lei dintorno nella stanza buia … splendevano le pezze di damasco…damaschi gialli, rosa, rosso cardinale, perfino aranciati, guarniti di passamani ricchissimi… Bagliori d’inferno, di lusso e lussuria attorno alla povera donna.”27 La tragica situazione dello sfascio bellico e postbellico di Napoli è quella in cui si forma il carattere del personaggio e quella in cui prendono corpo i suoi complessi rapporti con il variegato e molteplice ambiente che la circonda. Particolarmente ambiguo è il legame che la unisce alla madre. La madre, vissuta come una figura esteriore negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, a cui la figlia aveva sempre rivolto uno sguardo distratto e non curante, gradualmente si trasforma in un’immagine profonda di cui la protagonista sente il bisogno di ricercare i segreti e il destino. E il tema di un’infanzia, intensa e fragile, vissuta sullo sfondo della emarginazione e dell'esilio, tornerà successivamente, nell'atmosfera sottile e incantata dei dieci racconti di Storie di patio del 1983 e di Un giorno e mezzo del 1988, ambientati sempre a Napoli: la Napoli dell’adolescenza, il mito della gloria trascorsa di capitale di un regno che fu, il fascino di una nobiltà decaduta e folle, il rimpianto di una cultura sparita, si traducono nella segreta ossessione che permea i ricordi e la fantasia della narratrice. Nel Passaggio in ombra opera postuma di Mariateresa Di Lascia (Premio Strega nel 1995)27 Ivi, p. 5. l’autrice rievoca il proprio passato e le vicende della sua famiglia meridionale. Vicende dominate dall’ipocrisia, dai pregiudizi, dall’ostilità degli uni verso gli altri sullo sfondo di un Sud deserto e ossessivo Sola come un esule, senza certezze, priva di legami, estranea alla realtà che la circonda, dopo la morte della prozia che si era presa cura di lei bambina, Chiara, per non arrendersi alla solitudine e alla disperazione, che la stanno trascinando nella follia, trova rifugio nell’esercizio della memoria. E con la memoria ricompone la sua vita di adolescente e poi di donna, che si intreccia con il destino dei suoi parenti e dei suoi amici, tanto da delineare, attraverso un linguaggio denso e allo stesso tempo limpido e sicuro, una sorta di saga familiare. La forza di una scrittura che non lascia detriti e depositi, e la sapiente costruzione narrativa fanno di questo romanzo un tassello rilevante nella letteratura italiana del Novecento. Passaggio in ombra, per alcuni tratti, non può non rievocare Menzogna e sortilegio: ad esempio per la funzione salvifica della scrittura come bisogno assoluto di ricostruzione e preservazione dell’io narrante dai mostri atroci che ne assediano la fantasia. Quasi motivo musicale, il montaggio esperto e abile dei ricordi funge da raccordo profondo della molteplicità dei casi, degli eventi, dei pensieri e dei dolori dei personaggi, in primis delle due straordinarie figure femminili, - lì Elisa, qui Chiara - .dalla cui tormentata esperienza si sdipana il filo della narrazione che in molti momenti arriva ad assumere un valore simbolico. Nella casa dove sono rimasta, dopo che tutti se ne sono andati e finalmente si è fatto silenzio, mi trascino pigra e impolverata con i miei vecchi vestiti addosso, e le scatole arrampicate sui muri scoppiano di pezze prese nei mercatini sudati del venerdì. (…) Hanno cercato di convincermi in molti a lasciare questa casa, perché è piccola e affogata e, quando mi viene l’asma, rischio sempre di morire davanti alla finestra aperta, ma io non do ascolto a nessuno, e penso che è inutile preoccuparsi di ogni cosa: la morte verrà quando verrà e nessuno ci potrà fare niente. Mi porteranno via , per queste strette scale dei palazzi moderni, e avranno un gran da fare per svuotare tutto il ciarpame che è stato la mia vita. (…) Ho vissuto in ogni città di questo paese e non ho potuto fermarmi mai inseguita com’ero dai mille mostri atroci della mia fantasia. Sono andata pellegrina di strada in strada, di casa in casa, cambiando pure i bar dove mi piaceva prendere il caffè della mattina, perché non trovassero le mie tracce. Le tracce dei miei racconti di principessa esule su questa terra senza anima (…) La sera mi siedo sul balconcino della camera da letto, (…) e guardo sulla strada stretta e solitaria dove anche gli alberi non vogliono crescere. Cerco di respirare e di non farmi sorprendere dalle voci e di respingere le presenze che, prontamente, mi si animano attorno, attratte da un richiamo che origina in me, e, tuttavia mi è sconosciuto. Infine, quando non c’è più un punto della stanza e dell’orizzonte dove possa volgere lo sguardo senza che si facciano incontro con il carico delle loro storie, piango senza passione e senza furore, arresa ai miei ricordi come una cittadella dai propri assalitori. Ci sono tutti: in questa casa senza aria e senza luce, io li riconosco uno a uno, anche quelli che non vidi mai neppure una foto; e gli amici degli amici che si sono dati la voce, e popolano la carta da parati a fiori beige che ricoprono i muri, e proiettano la loro ombra come in un grande cinema. (…) Il bisbiglio cresce come un concerto di cicale d’agosto, in un attimo occupa tutta la stanza ed io divento un fiore, un albero, un filo d’erba; o forse sono solo la nuda terra che hanno calpestato o l’acqua sorgiva che hanno bevuto. Ora, finalmente torna il tempo delle fantasie e del mio canto di sirena senza coda (…).28 28 M. Di Lascia, Passaggio in ombra, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 7-9. Fitto di nomi di donne è il panorama letterario degli ultimi decenni: esse hanno urgenza di scrivere i propri libri, le proprie storie come vogliono che siano raccontate, dal loro punto di vista e con una scrittura che si fa sempre più autonoma dai modelli maschili assumendo andamento e sostanza propri. A leggerli all'inizio sono soprattutto donne ma presto anche gli uomini hanno dovuto fare i conti con una narrativa che stava modificando i connotati della cultura. Questa produzione è troppo recente e parla troppo di noi, per poter essere giudicata con criteri oggettivi. Quello che si può fare in questa sede, è presentare le varie personalità e le loro opere . Al di là di un ordine esteriore di tempi e di scuole, emerge quasi sempre, nella produzione femminile contemporanea l'esigenza di aderire più intimamente ai problemi, alle paure, al disinganno di un'epoca presentandoli dalla prospettiva e con voce femminili. La stessa disponibilità della donna ad accettare la frattura tra passato e presente, il suo coraggio di vivere senza simulazioni e senza mistificazioni la crisi dei modelli storici e culturali tradizionali, cogliendone i passaggi, più complessi ed esemplari, nelle dinamiche interiori e affettive, si ritrova in Madre e figlia (198O) di Francesca Sanvitale e più tardi, anche se con minore efficacia, in La cattiva figIia (1990) di Carla Cerati. Entrambi i libri offrono una testimonianza personale, intima e sofferta della frattura, psicologica e intellettuale, tra il mondo delle figlie e quello delle madri. Il romanzo L' amore molesto (1992) di Elena Ferrante riprende il medesimo tema svolgendolo nella chiave di una nevrosi ossessiva in cui la figura della madre si identifica con la malattia della protagonista e con la angosciante immagine di Napoli. Alle vicende complesse e poliedriche, che hanno accompagnato la dittatura, la devastazione della guerra e il difficilissimo riassesto, si ispira Luisa Adorno nella bella rimemorazione della giovinezza pisana di Stanze dorate (1985), frutto di una felice sintesi di dimensione privata e orizzonte pubblico. In un'altra tonalità ma con un significato non meno rilevante, la liberazione dall'insidia di un contenutismo psicologico e personale si era rivelato, già , in questa narratrice in L'ultima provincia (1983) Grazie al distacco consapevole di chi sa che sta raccontando una storia, la rappresentazione di una vicenda familiare meridionale acquista in questo libro, toni leggeri e sfumati. Il morbido disincanto di queste pagine si converte nella tenera amarezza con cui la vicenda del primo romanzo prosegue in quel piccolo gioiello che è Arco di Luminara (1990). La disposizione affettiva, la sfumata ironia dell’autrice – protagonista verso la famiglia (sua e dei suoi suoceri) – di cui il ruolo tradizionale l’ha costretta a farsi carico, nel sacrificio di aspirazioni diverse – offre un modello dell’inclinazione femminile a vivere l’esistenza, e a pagarne il prezzo, fuori dalle categorie sistematici e giudicatrici con cui l’uomo si allontana e si difende dalla vita. In tal senso, una discreta prova ha offerto nel 1991 Susanna Tamaro con Per voce sola, in cui riusciva a prestare la propria voce agli altrui, muti dolori. Attraverso figure stravaganti e insolite, ambienti e spazi indefiniti che potrebbero essere Trieste o un qualsiasi posto della Venezia Giulia o dell’Austria – l’opera di Giuliana Morandini (I cristalli di Vienna 1978; Ricercare Carlotta 1980; Caffè Specchi 1983) rivisita con una fantasia attraversata dall’esperienza psicoanalitica, e da una prospettiva ormai estranea e disincantata, il mondo mitteleuropeo, con la sua mescolanza di razze, di lingue, di costumi, con le sue memorie storiche, con la sua tradizione di vita e di cultura. In questi romanzi la storia travagliata e difforme del nostro paese, dal livello esterno, oggettivo, si trasforma in rimemorazioni, ombre e fantasmi che rivelano aspetti oscuri e momenti ignoti alle grandi sintesi ideologiche e teoriche. E’ il tessuto sinuoso e sottile di alcune narrazioni ad amplificare il senso degli eventi e attivare una dimensione profonda dei trapassi e delle modificazioni del mondo. Il filtro della memoria ha funzionato spesso come necessario distacco da un’empatia emotiva con la materia narrata, e ha condotto a una resa stilistica più limpida e ferma. E’ stato il raffinamento dei procedimenti espressivi a permettere che,in alcuni casi, lo scenario femminile arrivasse a configurarsi come un “altrove”, in cui l’ordine apparente e quotidiano delle cose si squaderna, e irrompono forme inconsuete e latenze perturbanti. In Verso Paola (1991), di Francesca Sanvitale, ad esempio, la focalizzazione diretta sul personaggio, durante un viaggio da Bolzano in Calabria, fa assumere a ciò che egli guarda il medesimo ritmo, inquieto e spezzato, delle sue sensazioni, dei suoi ricordi. Il sistema garantito delle conoscenze e delle certezze , in molti di questi libri, si dissolve proiettando sul volto dell’esistente ombre che ne moltiplicano i sensi ene rendono ambigue le epifanie. E’ come se qui lo spazio tra il pensiero e la pagina si accorciasse, e questa venisse investita dal respiro più ampio prodotto dall’innata disposizione delle donne verso le regioni del fantastico e del misterioso. E questo, a mio avviso, è stato l’esito più rilevante della letteratura femminile italiana degli ultimi decenni. Carica, infatti, di una forte tensione trasgressiva e innovatrice, attenta ai livelli della realtà più sottili e inesplorati, aperta alle suggestioni che provengono dall’intimo rapporto e dalla lunga consuetudine con la dimensione interiore, essa ha prodotto luoghi e figure deroganti dal regime mentale maschile, e ha offerto delle più stimolanti sollecitazioni a svecchiare uno schema troppo rigidamente razionale di lettura e di definizione del mondo. Di questo itinerario, una prova persuasiva è offerta da Paola Capriolo nell’affascinante racconto Il Gigante (nella raccolta La grande Eulalia del 1998) e, con maggiore sicurezza, nel romanzo successivo, Il doppio regno (1991). Pur con obblighi evidentissimi verso la grande letteratura novecentesca (in particolare Kafka e Borges) – ma c’è da augurarsi che in avvenire ancora tanti di questi obblighi vengano contratti – non c’è dubbio che nei testi della Capriolo è la forza trasformatrice della scrittura a far assumere alla nostra condizione esistenziale di solitudine, di paura e di insicurezza le forme allegoriche, gli spazi simbolici di una raffinata invenzione mentale – tra visionario, onirico e psichico – di forte suggestione. Se Clara Sereni con Casalinghitudine (1987) e Manicomio primavera ( 1989) e Carla Cerati con Un amore fraterno(1973) e Un matrimonio perfetto (1975) si mostrano più attente agli aspetti e ai problemi dell'esistenza femminile, l'unica opera di Maria Teresa Di Lascia, (Passaggio in Ombra , Premio Strega 1995) si presenta come la ricostruzione fantastico- memoriale di una saga familiare. Lo stile limpido, la finezza introspettiva, la capacità di intrecciare il destino di una donna alla vita di una comunità paesana e meridionale, lo sforzo della protagonista di sottrarsi al dolore e all'incombente follia attraverso la scrittura - evidente é il riecheggiamento di temi e motivi di Menzogna e Sortilegio della Morante - hanno fatto del romanzo "un caso letterario" molto interessante , che la morte prematura della autrice ha lasciato per ora irrisolto. La produzione degli ultimi anni testimonia a sufficienza come la pratica della scrittura abbia condotto le donne a dominare l'ansia di dire e di dirsi, presente nei primi romanzi, a lasciarsi alle spalle un meccanismo di racconto troppo legato all'esperienza immediata e troppo mimetico e a trovare un linguaggio proprio. Un linguaggio la cui origine risiede prima di tutto nella fedeltà della donna a se stessa e nel coraggio di questa fedeltà, e che dimostra, attraverso la prova inconfutabile di tanti testi, come non sia una gerarchia di valori intellettuali a distinguere lo scrivere maschile da quello femminile ma una diversa modalità sensitiva ed espressiva. Superato l'apprendistato del mestiere, la maggiore consapevolezza della necessaria mediazione formale ha permesso a molte autrici di trasformare il vissuto in figure e in immagini letterarie, dove esso assume valenze più ampie e più ricche. Una testimonianza in questo senso é offerta ad esempio dal romanzo di Dacia Maraini La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990). Il personaggio femminile riesce a trasformare l'io empirico dell'autrice in voce di una scrittura che fa divenire struttura del racconto l'implicito del tema: il mutismo di Marianna diviene la metafora della emarginazione e della solitudine della donna nella cultura meridionale. Dopo l'esordio nel 1963, con il romanzo L'età del malessere - che vinse il premio Formentor -, la Maraini ha pubblicato novelle, testi teatrali, sceneggiature, poesie (La vacanza, 1962, A memoria,1967, Memorie di una ladra, 1972, Isolina,1985, i racconti di Mio marito ,1968., i versi di Crudeltà all'aria aperta, 1966). Compagna di Alberto Moravia, ha frequentato gli ambienti letterari della capitale e si è impegnata in battaglie politiche e sociali, in particolare nella lotta femminista. Alle difficoltà e alle contraddizione della vita della donna, la Maraini ha dedicato molte opere (ad esempio Donne in guerra del 1975). Collabora a giornali e riviste ed è molto nota all'estero. POESIA Se il romanzo rappresenta il genere letterario più frequentato dalle donne, scrittrici e lettrici, anche nella produzione poetica non mancano, specialmente nel Novecento, presenze femminili di rilievo a cominciare da Amelia Rosselli. Nata a Parigi nel 1930 da Carlo (l'esule antifascista assassinato, nel 1937, assieme al fratello Nello) e da madre inglese, morta suicida a Roma nel 1996. Autrice di testi in prosa e in versi in lingua inglese e francese, alla poesia italiana è giunta tardi. La sua produzione è raccolta in tre volumi: Variazioni belliche, 1964 ( componimenti del '59- '61, seguiti dall'importante autoanalisi tecnica Spazi metrici); Serie ospedaliera, 1969; Documento 1966-1973 (1976). Vicina al modello metafisico inglese e al surrealismo francese, la poesia della Rosselli é un'esperienza isolata nel panorama italiano anche rispetto alle sperimentazioni dell'avanguardia. La formazione plurilingue di questa "apolide" ( come la definì Pasolini), la ricerca di un linguaggio universale, la cifra deviante dei suoi versi- lapsus, barbarismi e innovazioni audaci, lontani dal tutte le norme dell'italiano, e, insieme, i francesismi, gli anglismi, gli aulicismi - l'irregolarità della grafia e della punteggiatura , la riduzione della poesia a lingua del privato sono le modalità espressive di un canto che è abbandono al flusso della vita psichica e immaginaria, fusione di interno ed esterno, privato e publico, rappresentazione simultanea e atemporale delle cose. L'abolizione di ogni confine tra i grandi eventi storici e gli spettacoli più consueti del quotidiano, la relazione tra le ferite sella storia e le ferite dell"io", l'originalissima capacità associativa, la volontà di assoluto e il richiamo alla materialità della vita, l'ansia di un dire che è ricerca, denuncia, domanda offrono al lettore la percezione angosciante che l'orrore è il quotidiano e che il quotidiano è dominio del male. Tu non vivi fra queste piante che s’attorcigliano attorno a questo mio piede senza vasi, e non hai nella tua linea alcuna canzone per questi miei versi sterili ora che tu non avvicini le tue labbra strette a questo mio corpo ombrato. Tu non appari a chiarire il mistero della tua non-presenza, tu non stimoli i fiori in corona attorno al mio polso, rotto perché non posso tenerti vicino. La luna ha anch’essa un pendio misericordioso ma tu non agganci stretti fili alla mia mano che tanto lontana non può sollevare i pesi della tua testa rotta dai singulti. Temo i fare con la mia presenza scempio delle occasioni, ora che tu non rinverdisci l’orizzonte. Temo di apparire strana, confusa a belare quest’incomprensione. Temo di stendere vigne vuote sul tuo piede scarlatto. Non ho altro sorso dalle tue arse labbra che questo mio empio mistero, noia del giorno spaccato in mille schegge.29 Un altro esempio della poesia e della poetica della Rosselli è contenuto nella raccolta Documento: Mio angelo, io non seppi mai quale angelo fosti, o per quali vie storte ti amai o venerai, tu che scendendo ogni gradino sembravi salirli, frustarmi, mostrarmi una via tutta perduta alla ragione, quando facesti al caso quel che esso riprometteva, cioè mi lasciasti. Non seppi nemmeno perché tra tanti chiarori 29 A. Rosselli, Serie ospedaliera in Poeti italiani del secondo Novecento, Milano 1996, p. 476. eccitati dell’intelletto in pena, vi furono così sotterranee evoluzioni d’un accordarsi al mio, al vostro e tuo bisogno d’una sterilità completa. Eppure eccomi qua, a scrivere versi, come se fosse non del tutto astratto alla mia ricerca d’un enciclopedico capire quasi tutto a me offerto senza lo spazio di una volontà di ferro a controllare quel poco del tutto così mal offerto.30 Toni e accenti diversi offre la poesia di Maria Luisa Spaziani (Torino, 1924) , che traduce il modello montaliano in versi di compostezza classica. Lontana dalle inquietudini e sperimentazioni dei poeti contemporanei, attraverso l'uso di una parola esatta, incisiva e di una forma precisa che evidenzia i contorni e le linee, la Spaziani raggiunge la misura di una limpida e serena concretezza d'immagini .Dal Le acque del sabato, 1954, a Il gong (1962) da L'occhio del ciclone (1970) a Transito con catene (1977) a Geometria del disordine(1981) a La stella del libero arbitrio (1986) sempre più l'autrice riesce a trasfondere nei versi un timbro metrico musicale che conferisce una leggerezza sfumata, quasi aeree alle occasioni della poesia: situazioni, oggetti, ricordi, sentimenti, presagi. Luna d'inverno che dal melograno per i vetri di casa filtri lenta sui miei sonni veloci, di ladro sempre inseguito e sempre per partire. 30 ID., Documento, in Poeti italiani del secondo Novecento, op. cit., pp. 469-470. Come un velo di lacrime t'appanna E presto l'ora suonerà… Lontano, oltre le nostre sponde, oltre le magre stagioni che con moto di marea mortalmente stancandoci ci esaltano e ci umiliano poi, splenderai lieta tu, insegna d'oro all'ultima locanda lampada sopra il desco incorruttibile al cui chiarore ad uno ad uno i visi in cerchio rivedrò che un turbine vuoto e crudele mi cancella.31 Dicono i marinai, quelli ormai vecchi lupi di mare che sugli usci fumano pipe portoricane, che fra tutti i ricordi tremendi dei tifoni e l'ululo di morte dei naufragi, nulla atterrisce più della calma che per ore si crea al centro stesso della tragedia: l'occhio del ciclone. Il mare è un olio, brillano sinistre luci che paion di bonaccia, e affiora tranquillo il tonno a respirare. Eppure 31 M. L. Spaziani, Luna d’inverno da Le acque del sabato in Poeti italiani del secondo Novecento italiano, op. cit., p.254. quella è una gabbia, quello è un trabocchetto, lì la morte è in agguato: che più lungi, a cento metri o forse meno infuria l'uragano più nero. Così avviene, vero? Troppo sovente per noi tutti, ragni fra i mozzi delle ruote. E avvenne anche a Fabrizio quando conversando con la graziosa vivandiera, seppe - più tardi e con che tragico suo scorno – che Waterloo, la massima avventura, si era svolta in intorno.32 Le prime raccolte della poetessa Alda Merini (La presenza di Orfeo, 1953; Paura di Dio, 1955, Nozze romane, 1955, Tu sei Pietro, 1961) offrono, come ha scritto la critica Maria Corti "una fusione ossimorica di impulsi religiosi ed erotici, cristiani e pagani". Sulla linea, poco praticata in Italia ma viva ancor oggi in Germania attraverso l'opera di Rilke che ne é il modello, la Merini fonde le proprie emozioni e le proprie fantasie mentali e psichiche in un canto vibrante e verticale che solo recententemente si é disteso in accenti più lievi, liberi dall' enfasi mistica e dalla pesantezze di dettato precedenti. Dopo un silenzio di vent'anni segnato drammaticamente dalla malattia mentale, con la raccolta La Terra Santa del 1984, l'autrice raggiunge il vertice della parabola creativa .Lo scambio continuo e suggestivo dei linguaggi e dei livelli- dalla carne all'anima, dallo spirito alla natura alimentato dalla durissima esperienza biografica, dai bruschi e lancinanti transiti dalla lucidità alla follia, costituisce il fascino tragico e intenso della sua poesia. 32 ID., Il mare da L’occhio del ciclone in Poeti italiani del secondo Novecento, op. cit., pp. 264264. Manicomio è parola assai più grande delle oscure voragini del sogno, eppur veniva qualche volta al tempo filamento di azzurro o una canzone lontana di usignolo o si schiudeva la tua bocca mordendo nell’azzurro la menzogna feroce della vita. O una mano impietosa di malato saliva piano sulla tua finestra sillabando il tuo nome e finalmente sciolto il numero immondo ritrovavi tutta la serietà della tua vita.33 Le più belle poesie si scrivono sopra le pietre coi ginocchi piagati e le menti aguzzate dal mistero. Le più belle poesie si scrivono davanti a un altare vuoto, accerchiati da argenti della divina follia. Così, pazzo criminale qual sei tu detti versi all’umanità, i versi della riscossa e le bibliche profezie 33 A. Merini, La terra santa in Poeti italiani del secondo Novecento, op. cit., p. 288. e sei fratello a Giona. Ma nella Terra Promessa dove germinano i pomi d’oro e l’albero della conoscenza Dio non è mai disceso né ti ha mai maledetto. Ma tu sì, maledici ora per ora il tuo canto perché sei sceso nel limbo, dove aspiri l’assenzio di una sopravvivenza negata.34 Tra le ultime opere della Merini ricordiamo Rime petrose (1983) e Vuoto d'amore (1991). A una concezione religiosa della scrittura e della letteratura si ispira l'opera poetica di Cristina Campo (pseudonimo di Vittoria Guerrini, Bologna 1923 Roma 1977).Traduttrice di talento ( K Mansfield, Holderlin e altri) - curatrice di molti libritra cui il mai pubblicato Libro delle ottanta poetesse, che includeva anche poesie di Christina Rossetti e della Dickinson . Intellettuale colta e raffinata , esordisce in poesia nel 1956 con Passo d'addio , cui seguiranno altre composizioni, tutte sparse su riviste compreso il poemetto Diario bizantino, apparso qualche giorno dopo la sua morte. I suoi versi e le sue traduzioni, nel 1991, sono state raccolte nel volume La tigre di carta. Nell' opera della Campo il rigore dello stile si lega con un'intensa aspirazione a cogliere i segni di un "altro" mondo: "celato al mondo,/ compenetrato nel mondo/ inarrabilmente ignoto al mondo" come recitano alcuni suoi versi. Un 34 Ivi, p. 290. mondo metafisico, lontano ma presente dentro la sua anima e che lei ricrea in forme che evocano la lingua del gesto, del rito dei mistici del Seicento. Si ripiegano i bianchi abiti estivi e tu discendi sulla meridiana, dolce Ottobre, e sui nidi. Trema l'ultimo canto nelle altane dove il sole era l'ombra ed ombra il sole, tra gli affanni sopiti. E mentre indugia tiepida la rosa l'amara bocca già stilla il sapore dei sorridenti addii.35 Moriremo lontani Moriremo lontani. Sarà molto se poserò la guancia nel tuo palmo a Capodanno; se nel mio la traccia contemplerai di un'altra migrazione. Dell'anima ben poco sappiamo. Berrà forse dai bacini delle concave notti senza passi, poserà sotto aeree piantagioni germinate dai sassi... 35 C. Campo, Passo d’addio in O signore e fratello! ma di noi sopra una sola teca di cristallo popoli studiosi scriveranno forse, tra mille inverni: «nessun vincolo univa questi morti nella necropoli deserta». Le sue liriche che, come é stato scritto, rappresentano un "miracoloso matrimonio spirituale tra la mistica e la letteratura", non sono avvicinabili a nessuna delle esperienze italiane e rimandano piuttosto a Simone Weil e a John Donne, a Hofmansthal e a Juan de la Cruz, autori amati e tradotti dalla Campo. Le Tra la generazione di poeti attivi tra gli anni Settanta e Novanta, tre sono le voci femminili più intense: Patrizia Cavalli (Todi 1949) che fin dall'esordio (Le mie poesie non cambieranno il mondo, 1974) pare rivisitare l'immaginario crepuscolare per l'attenzione alle manifestazioni del quotidiano e per un andamento di discorso colloquiale; Vivian Lamarque (Trento 1946) che, in L'amore mio è buonissimo (1978) e in Teresino (1981) si dimostra estranea a ogni sperimentalismo avanguardistico seguendo un modello di canto naturale, dai tocchi delicati, in cui traspare un'esperienza di amore e solitudine, di dolore e di gioia fugaci; Biancamaria Frabotta (Roma 1946): Affeminata (1977), Il rumore bianco (1982), Controcanto al chiuso (1991), La viandanza (1995). Interessante, nell'opera di quest'ultima, é l'originale e ardito accostamento di una rivendicazione del femminile come particolare sperimentazione del mondo e una carica espressiva fortemente analogica, erede del linguaggio alto della nostra tradizione poetica. La mescolanza di andamento metaforico e di registri del parlato a qualcuno è sembrato produrre l'attrito sul quale si fonda il plurilinguismo e la discontinuità di toni della sua poesia. In tal senso la Frabotta si inserisce nella ricerca della poesia più recente, impegnata a sperimentare una forma di canto il cui linguaggio rifranga la reazione al presente e alla storia. Per quanto riguarda le scrittrici statunitensi, russe e spagnole, dato il loro rilievo e l’importanza nella letteratura mondiale, in quest’analisi offriremo le linee generali della loro produzione. L’approfondimento delle loro opere e la scelta antologica, per ragioni editoriali, le rinviamo ad un successivo lavoro. 2 - Le statunitensi ll romanzo Dopo la guerra civile, mentre la maggior parte degli scrittori americani si dedicava alla rappresentazione della vita quotidiana, alcuni - tra cui Henry James, Edith Warthon, Gertrude Stein, Ezra Pound - si trasferirono in Europa: in parte perché in patria si sentivano spaesati, in parte per conoscere la cultura del vecchio continente e cercare qui forme nuove di linguaggio e di ispirazione. Nel gruppo, che fu definito degli "espatriati", un posto si rilievo assunse Gertrude Steiner. Nata nel 1874 ad Allegheny City in Pennsylvania, da ricca famiglia ebraica di origine tedesca, G. S. approdò alla letteratura e all'arte attraverso la scuola dello psicologo sperimentale William James, che la iniziò allo studio scientifico del linguaggio. Quando nel 1903 lasciò gli Stati Uniti non si poteva definire ancora una scrittrice. A Parigi, dove si trasferì e dove visse con il fratello Leo e poi con Alice B. Toklas, fino alla morte (1946), fece del suo salotto in Rue de Fleurus un luogo d'incontro dei maggiori rappresentanti dell'avanguardia europea - Picasso, Matisse, Cézanne, Braque - le cui sperimentazioni stavano operando una trasformazione di prospettive e di linguaggi che avrebbe condotto alla nascita dell'arte del Novecento. Successivamente, entrò in contatto con altri "espatriati" americani: Copland, Anderson, Hemingway, O' Neill, Fitzgerald, Pound: "la generazione perduta", come essa la definì La corrosione dei canoni rappresentativi dell'Ottocento, la decostruzione di oggetti e forme in linee di fuga e in figure geometriche, la sostituzione della realtà con un ordine mentale che desse l'idea dello spazio e del movimento, o meglio dell'estensione dello spazio nel movimento, quali il cubismo applicava all'espressione pittorica, costituirono, insieme alla teoria percettiva di W. James e alla concezione del tempo di Bergson, la base dell'innovazione scrittoria della Stein: "Ero là- essa afferma - per uccidere ciò che ancora non era morto". Partecipe dell'avventura avanguardistica, a lei non interessa più come la cosa è, ma come cambia e come "si fa" nella lenta progressione del moto. Utilizzare la lingua non per descrivere realtà statiche, ma per cogliere entità in impercettibile trasformazione, sempre uguali eppur sempre diverse - come la storia dell'America, sempre simile e sempre in marcia verso l'Ovest - è ciò che la scrittrice si propone. Di qui lo sconvolgimento espressivo della sua prosa, sperimentale, antirealistica e antimimetica, - una geografia di vocaboli in "the road" si potrebbe definire - che influenzò molto scrittori, come S. Anderson ed E. Hemingway. I principi di questa rivoluzione espressiva sono teorizzati nei saggi critici Geografia e opere ( Geography and plays, (1922), Composizione come spiegazione (Composition and explanation) (1926), Come scrivere (Howe to write ) (1931). • Già nel libro Tre esistenze (19O8) - nato dalla lettura dei Trois Contes di Flaubert - la rappresentazione della vita delle protagoniste lascia il posto all'analisi della loro lingua, parlata e mentale. Ma è con Teneri bottoni (1914) che inizia la scomposizione della struttura sintattica e grammaticale tradizionale a favore della libertà della parola, proseguita nelle opere successive: C'era una volta gli americani (1926) - un ambizioso volume di mille pagine che incontrò resistenze e ostilità, nonostante la Steiner affermasse con sicurezza che quel libro rappresentava "l'inizio...della letteratura moderna" -; Lucy Church Amiably (1930); L'Autobiografia di Alice B.Toklas (1933 ) - autobiografia della autrice stessa vista attraverso gli occhi della fedele amica e segretaria Alice- che è forse la sua opera migliore. E’ un nuovo modello di scrittura: la funzione dei nomi e degli aggettivi si indebolisce a vantaggio del verbo, sul quale, come espressione dell'azione, finisce per poggiare tutto il periodo (dice Gertrude stessa: "l'esistenza non è ripetizione ma azione"); la gerarchia tra i piani è annullata; i dettagli scardinano l'insieme; la punteggiatura è quasi abolita; le frasi, brevi, si allineano una all'altra paratatticamente, travolgendo l'ordine causale del discorso e sostituendo alla categoria del tempo, intrinseca alla cultura europea, la dimensione dello spazio, introiettata nell'animo di chi, come la Stein, era nato nei territori sconfinati d'Oltreoceano; la ripetizione, quasi una forma di tautologica insistenza sulla denominazione delle cose, diviene incessante, destabilizzando il senso semantico dell'espressione (famosa è la sequenza "una rosa è una rosa è una rosa è una rosa"); i sostantivi si tramutano in una sorta di ideogrammi, di simboli geometrici che la scrittrice combina in costruzioni denotative ed estraneanti da cui il lettore è costretto a una percezione nuova, primaria degli strumenti espressivi e di ciò che essi nominano. Il nome-oggetto della Steiner sembra anticipare la tecnica della pubblicità e della pop-art, nonché il nome -suono di J. Cage. Se il tempo presente e l'imperfetto - i tempi verbali della durata - sono privilegiati rispetto ai tempi conclusi del passato è perché la narratrice non vuole sviluppare una storia, ma, come nei fotogrammi di un film o nella pittura contemporanea, intende mostrare quello che una situazione è nella simultaneità dei suoi nessi e delle sue relazioni: un insieme compatto e fuso nell'unità di un presente continuo. I suoi racconti pertanto non sono più racconti ma composizione di parole, come i quadri di Cézanne sono composizioni di linee. Il contributo della Steiner alla fondazione della lingua narrativa del Novecento é la costruzione di un congegno verbale in grado di dar forma letteraria all'immagine demitizzata dell'uomo contemporaneo quale appare all'occhio di chi, come lei, fonde, in una visione esplosiva, l'esperienza pionieristica americana e la raffinatezza intellettuale europea: un uomo spaesato, orfano del passato, senza patria, senza memoria, privo di punti di riferimento, che, come i personaggi di La febbre dell'oro di Chaplin (1925) e di Ombre rosse di Ford (1939), si trova a cercare un rapporto del tutto nuovo con ciò che esiste, in uno scenario dove egli non è che un campo elettromagnetico di energie. 2 - Un' altra espatriata fu Edith Wharton (New York 1862 - Sanità- Brice sous Foret, Val d'Oise, 1937). Nata in una famiglia aristocratica, intima amica di H. James, come lui, si trovò a disagio nel proprio paese e nel 1902 si trasferì in Francia. Intelligente, colta, raffinata, la Wharton trovava intollerabile il mondo bene newyorchese - da lei lungamente frequentato- con i suoi ricevimenti, i suoi pettegolezzi, le sue cerimonie, le sue "stagioni" a Newport. Della meschinità, miopia, ristrettezza d'idee, cinismo di questo ambiente, i suoi romanzi -La casa della gioia ,1905; Il frutto dell'albero , 1907; L'usanza del paese 1913; L'età dell'innocenza (1920) e altri minori - dipingono un affresco tanto reale e graffiante da far definire l'autrice "la storica della società americana del suo tempo":Il tema centrale e originale dei suoi libri è il contrasto fra i riti della vita salottiera, falsamente dorata e socievole, falsamente moderna, e la condizione di solitudine spirituale, di separatezza dei personaggi ai quali - soprattutto alle donne - le regole sociali, segrete, mai pronunciate ma ferree, impediscono di essere liberi e di scegliere, non secondo le convenzioni, ma secondo i sentimenti. Il medesimo conflitto tra individuo e collettività anima il racconto lungo Ethan Frome (1911). Ambientata in un villaggio del Massachusetts, immerso nel gelo invernale, la tragica vicenda dei protagonisti - Ethan, e la donna da lui amata - anche per la inusuale forza e stringatezza espressiva, diviene metafora dell'isolamento dell'uomo americano. Newyorchese e feroce critica della società americana del suo tempo è anche Dorothy Parker (West End, New Jersey, 1893 - New York, 1967). Nei racconti (Il mio mondo e qui, 1939; Racconti, 1942), nei versi (Poesie, 1944), nelle commedie e in particolare nelle recensioni giornalistiche, essa ritrasse, con acre ironia, i pregiudizi e i conformismi dell'ambiente alto-borghese in cui visse. Collaboratrice di "Vogue", "Vanity Fair", "Newyorker", "Esquire", esercitò su queste pagine un umorismo tagliente che la rese famosa. Come famose sono le sue fulminee e ciniche battute alla Woody Allen Seguace di Hemingway, la Parker fu in realtà lontana dalla visione estetizzante del suo modello per la lucida e dissacratoria coscienza della realtà e per l'analisi spietata di una società decisa a mostrarsi appagata ma logorata nell' intimo da un crescente sentimento di solitudine e di disperazione. La stessa solitudine e disperazione che spinsero l'autrice a un continuo, irrequieto, bruciante scontro-confronto col mondo. Simbolo, negli anni Venti, dell'ideale della donna nuova - indipendenza economica, gin e sigarette, amori, tentati suicidi, feste vissuti con spiritosa leggerezza - la cinica ironia non impedì alla scrittrice l'impegno politico. Partecipò, nel '21, alla battaglia per Sacco e Vanzetti, simpatizzò con i movimenti integralisti neri e con i movimenti femministi. Durante la guerra civile, fu inviata speciale in Spagna. Il Maccartismo la inserì nella lista dei trecento "sospetti" comunisti. Stroncata dalla persecuzione politica e dall'alcool, morì quasi cieca, nominando erede universale Martin Luther King. Aggraziata, sofisticata, piena di vibrazioni e di energie è la scrittrice statunitense Anais Nin, nata a Parigi nel 1903 e morta a Los Angeles 1977. Figlia di un musicista spagnolo, che lasciò la famiglia nel 1914, seguì la madre e i fratelli a New York. Il duplice trauma dell'abbandono e dello sradicamento è all'origine della sua scrittura, intessuta di sogni e di simboli e sorretta dall'influenza del surrealismo, che essa conobbe a Parigi, e dall'esperienza psicanalitica che compì sotto la guida O. Rank a New York. Donna affascinante e cosmopolita, nei ferventi anni Trenta visse tra Parigi e New York, assumendo il ruolo di musa e animatrice culturale: la sua casa francese di Louveciennes fu un centro di vita intellettuale, frequentata da dadaisti, surrealisti, psicanalisti e scrittori irriverenti come H. Miller; a New York attirò nella sua orbita seduttiva artisti e personalità di grande rilievo (L. Rainer, S. Dalì, E. Varèse, M. Ernst, J. Cage). Autrice di racconti e romanzi brevi: La casa dell'incesto, 1936; Inverno artificiale, 1939; Sotto la campana di vetro, 1944; Figli dell'albatro 1947; Una spia nella casa dell'amore, 1954; Collage, 1964. Quasi sempre autobiografici ma resi con un' elegante artificiosità, che non fu apprezzato dal pubblico american oro. La sua voce autentica è affidata ai sei volumi del monumentale Diario, a cui la Nin, fin da giovanissima, confidò i pensieri, le illuminazioni, i soprassalti del suo essere segreto, mettendo a fuoco l'ambiguità tra l'interiore sentimento d'angoscia e la sicurezza esteriore del personaggio vincente. Scritto giorno dopo giorno, scritto dovunque, fu per l'autrice l'amuleto salvifico da cui non si distaccò mai. Arditamente sperimentale nella scrittura, questo diario delinea una discesa nei labirinti e negli abissi sepolti dell'io che si fa immagine riflessa di un'epoca intera. Di qui il successo mondiale del libro. La scrittrice statunitense Toni Morrison (pseudonimo di Chloe Anthony Wofford) nasce a Lorain (Ohio) nel 1931. Studiosa di letteratura europea, si laurea con una tesi su Virginia Woolf e William Faulkner alla Howard University. Divenuta più tardi insegnante di "scrittura creativa" nella stessa università, avrà tra i suoi studenti leaders del movimento nero. Editor della Random House, ha scoperto e fatto pubblicare gli autori di maggior successo della letteratura afroamericana contemporanea (Gayl Jones, Toni Cade Bambara, Angela Davis, Muhammad Ali). Anche i suoi romanzi sono incentrati sui problemi della popolazione nera, in particolare sulla sua perdita di identità e sulla costante minaccia al suo patrimonio culturale. Rigorosamente "al femminile" sono i libri d'esordio: L'occhio più azzurro (1970), storia di una bambina nera che desidera disperatamente avere un paio di occhi blu alla Shirley Temple; Sula (1973), ritratto di due donne, una ribelle e una conformista e della loro formazione opposta e parallela. Successivamente la Morrison esplora anche l'universo maschile: Canto di Salomone (1977), ambientato negli anni Sessanta, è il viaggio, tra reale e fantastico, di un ragazzo nero dalla Detroit dei diritti civili al mitico sud dove ritrova il proprio passato familiare e razziale. L'isola delle illusioni (1981) mette in evidenza l'alienazione cui è sottoposta la comunità nera negli anni Ottanta. Straordinario romanzo corale è Amatissima (1987), raffigurazione del coraggio e della passione di uomini e donne dotati di grandi sentimenti di amore e di solidarietà. Definito un capolavoro dalla stampa americana e vincitore del Premio Pulitzer (1988), é questo libro a consacrare la scrittrice come una delle maggiori esponenti della narrativa americana contemporanea. Enorme successo ebbe anche Jazz (1992) - ambientato nella Harlem del 1926, centro del movimento letterario New Nigro Movement - in cui, a livello strutturale e stilistico, la musica funziona come motivo unificante del tema, che é un affresco dell'America di colore tra il 1880 e la "grande depressione" degli anni Trenta. Il rapporto tra musica, parole e ritmo costituisce, fin dall'esordio, la costante dell'opera della Morrison. Ed é attraverso questo rapporto che la scrittura reinventa l'oralità della tradizione nera, amalgamando i toni e la flessibilità della voce con il tessuto descrittivo e lo sviluppo della vicenda. Il materiale narrativo dei libri è organizzato infatti con inserti di canti, canzoni, filastrocche che, come nel linguaggio cinematografico del grande musical statunitense, accelerano e fondono tempi e luoghi del racconto in immagini multiformi e simultanee, le quali alla tradizionale rappresentazione lineare sostituiscono la visionarità onirico-barocca della letteratura occidentale. Chiamata ad insegnare a Berkley, a Princeton e successivamente ad Harvard, nel 1993 la Morrison é stata insignita del Premio Nobel.