continua a leggere il capitolo sulle donne italiane

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continua a leggere il capitolo sulle donne italiane
Romanzo
In Italia, molte fra le donne che tra Ottocento e Novecento, cominciarono a scrivere
furono autodidatte e si trovarono a lottare contro le convenzioni che le escludevano
dagli studi superiori e dalle maggiori università, contro le ristrettezza culturali della
famiglia e dell'ambiente, contro i fraintendimenti dei lettori e l'ostilità dei critici.
Giovanni Boine affermava, ad esempio, che le donne scrivono " per esibirsi; come
passeggiano per strada o come si scollano a teatro" e che i loro libri prolungano "le
occhiate, il profumo, il dondolamento dell'anche", mirando sempre "com'è naturale
ed è giusto, all'eccitamento del maschio". Così che, "chiuso uno di questi volumi ...,
ognuno che veda chiaro dovrebbe concluderà fra sé così: - Va bene. Vuol ora,
signorina, passarmi
il suo indirizzo? - "
E' ancora più aggressivo, quando
rimproverava ad Amalia Guglielminetti di aver voluto descrivere, in L'insonne ,
"con aria tragica una sua notturna porcheria fatta in carrozza"
In realtà, per lui, come per quasi tutti i letterati (compreso lo stesso Croce) lo stile di
una donna è apprezzabile quando è "maschio" e la definizione di "arte donnesca"
equivale a un giudizio negativo, a una squalifica, se non, come abbiamo appena
visto, a una ingiuria.
Più acuto e sensibile si mostra Luigi Capuana, quando a proposito della Neera scrive:
"Anni fa mi si era fatto credere che il poetico nome di Neera nascondesse la persona
di un uomo. [...] Ma un bel giorno fui molto sorpreso di incontrarmi nella Neera in
carne ed ossa, una giovane signora vestita con elegante semplicità [...] Uno
pseudonimo, rassomiglia a una clausura. [...]. Il pseudonimo di una signora,
soprattutto, significa: -Badate! Io voglio essere due persone: una, la donna -fanciulla,
madre di famiglia, zitellona, - che vive pei parenti e pegli amici, che non isdegna
nessuno dei suoi doveri domestici, previdente, massaia, infermiera [...] l'altra, la
scrittrice che mette fuori ogni anno dei volumi composti non si sa quando, nei
momenti rubati al sonno e alle preoccupazioni della vita giornaliera. E' di questa e
soltanto di questa, cioè dei suoi libri che il pubblico e la critica debbono
interessarsi".
Invece "il pubblico è indiscreto" e anche "i critici che fanno mestiere di
scandalizzarsi di tutto, quando si incontrarono in alcune pagine di Addio e di
Vecchie Catene ove la passione parla il suo caldo ed irragionevole linguaggio ne
dedussero che l'autrice di quelle pagine doveva aver sentito qualcosa di quei
colpevoli ardori"
Anche Capuana però pur di gran lunga più sottile e aperto di altri critici, mostra la
difficoltà di saldare le funzioni convenzionalmente scisse nella figura femminile, la
funzione "donnesca" (affetti, doveri domestici, cura parentale) e quella intellettuale
(scrivere). Egli non riesce cioè ad intendere a pieno che, in Neera, la scrittrice
non intende rinunciare al suo essere donna e che il suo era uno dei primi tentativi
di trasformare l'universo femminile da esperienza di vita a esperienza letteraria.
Tale era la cultura italiana .
Eppure, anche nelle prime e spesso incerte prove delle donne, persino in quelle più
legate - dal punto di vista linguistico e tematico - a stereotipi convenzionali, aleggia
un'ansia, una scontentezza, un represso senso di ribellione, che premono per essere
detti. Se queste autrici non costituiscono ancora modelli di letteratura al femminile,
rappresentano gli incunaboli della ricerca successiva: trovare una cifra individuale e
personale che consentisse loro di esprimere le incertezze e le contraddizioni del
proprio destino.
Di condizione elevata e colte erano le donne che, in modi diversi, si inserirono nel
processo di rinnovamento della letteratura italiana tra Settecento e Ottocento e
quelle che sostennero le lotte politiche e indipendentistiche dei primi decenni del
secolo XIX. Eleonora de Fonseca Pimentel, letterata, seguace delle idee giacobine
francesi, fu tra i maggiori sostenitori della rivoluzione napoletana del 1799, fondando
e dirigendo "Il monitore repubblicano", il giornale su cui scrisse articoli politici, tra i
quali il manifesto: "La proclamazione della repubblica napoletana". Al ritorno dei
Borboni fu imprigionata e impiccata.
Definita da Cesarotti "donna ugualmente favorita dalle Muse che dalle grazie", la
veneta Isabella Teodochi Albrizi (1760-1836), fu grande protettrice del Foscolo e
autrice di ritratti, penetranti e raffinati, di alcuni personaggi celebri del suo tempo
(Pindemonte, Canova, Foscolo, Cesarotti, Alfieri, Byron).
Maggior interesse riveste l'opera della milanese Cristina di Belgiojoso (1808-1871).
Cosmopolita, amica di intellettuali, artisti, scrittori , celebre il suo salotto che a
Milano fu luogo d'incontro di patrioti e intellettuali, e che mantenne vivo lo spirito
di libertà durante le alterne vicende del Risorgimento. Importanti il suo saggio
storico Il 1848 a Milano e a Venezia (1848) e le varie memorie di viaggio, tra cui, nel
1855, il reportage "femminista" di Vita intima e nomade in Oriente, in cui tratteggia
e denuncia la condizione di schiavitù in cui sono tenute le donne arabe.
Della partecipazione femminile all'ondata di sdegno e ribellione contro il potere
tirannico e violento delle dinastie dominanti in Italia, è testimonianza, tra le più
vive e fiere, il memoriale della nobile napoletana Enrichetta Caracciolo Forino (18211901) Misteri del chiostro napoletano. Nel 1864, a pochi anni dall' unità d'Italia,
l'autrice rievoca in queste pagine la propria vita di ragazza, costretta dalla famiglia e
dalle regole ferree della società, a prendere il velo. L'ideale nazionale, formatosi sui
libri durante i lunghissimi anni della reclusione, e che solo dopo la sua liberazione
divenne partecipazione attiva, é per la Caracciolo una sorta di usbergo salvifico
contro l'oppressione di cui era vittima. La famiglia come rigore, la madre come
despota, il convento come prigione, la condizione di donna come espropriazione, ("la
condizione della donna forse peggiore di quello che non é in Turchia") sono le
coordinate dello straordinario e spietato ritratto che i Misteri tracciano della vita
pubblica e privata durante il regime borbonico. Il clima di repressione e di violenza
che si espande in ogni angolo del regno fino a penetrare nei "chiostri", rivive in una
narrazione agile, in immagini efficaci, in una scrittura serrata, molto spesso di
notevole forza espressiva, attraverso cui i particolari, i dettagli del racconto si
trasformano in segni rivelatori di una mentalità, di un mondo. Le cifre che il testo
fornisce sugli stabilimenti ecclesiali napoletani, le descrizioni del rito della
monacazione, dei costumi delle suore, gli episodi di brutalità fisica e psichica, la
depravazione
quotidiana,
la
follia
delle
recluse,
nella
loro
perspicuità
rappresentativa, assumono il valore di testimonianza emblematica della situazione
culturale e storica del mezzogiorno.
L’anno del noviziato fu per me un anno di calma, se non voglio dire di
mortale depressione. Morto il passato, estinto l’avvenire per me; le memorie un
vano sogno:le speranze un delitto.
Strappata agli amici per sempre, disgiunta dai parenti, che m’era lecito
rivedere una volta sola al mese, straniera per più ragioni alle stesse compagne
del mio carcere, io nondimeno mi trovava, se non contenta, almeno tranquilla.
Raccolto, concentrato esclusivamente in se stesso, lo spirito mio si creò poco a
poco un secondo monastero dentro il monastero medesimo, dove mi trovava
confinata; e nel recinto di quel recondito mio edifizio, ove traeva solitaria vita,
ne sarei stata più tranquilla ancora, ancor più felice coi pochi libri, colle mie
meditazioni, se le visite dei parenti non m’avessero ogni volta ricordata la
perduta libertà, e se le monache col loro triviale cicaleccio, colle loro volgari
gelosie non m’avessero resa la reclusione fastidiosa.
[…] Uscita la gente, i ferrei cancelli del monastero tornavano a stridere su’
loro cardini. D’allora in poi, mi separava dal mondo un baratro, secondo ogni
apparenza, insuperabile.
Non doveva avere più madre né madre, né sorelle, né parenti, né amici, né
sostanza alcuna; aveva abdicata perfino la mia personalità.
Eppure nel fondo dell’animo mio sentiva vivo e palpitante ancora il
sentimento che mi moveva a convivere, idealmente almeno, co’ miei simili.
Aveva fatto alla comunità il sacrificio della mia persona, ma non già quello
della mia ragione, che è un diritto inalienabile. Più alta di san Benedetto
imperava nella mia coscienza la voce di Gesù Cristo, il cittadino dell’universo, il
distruttore delle sètte, delle caste, degli associamenti parziali, il rinnovatore
della famiglia, della nazione, dell’umanità, riunite in una sola legge d’amore e di
conservazione.
[…] Potrei aggiungere una quantità d’altri simili misfatti e abusi commessi
duranti il ventenne mio monacato in differenti cenobi e rimasti ognora
impuniti, sì per amor proprio di casta, sì per mancanza di polizia giudiziaria. Il
priorato, la guardaroba, l’impresa dei commestibili, la ricevitoria, gli altri rami
d’amministrazione quante e quante magagne non celano! Ma devo io tediare più
a lungo il cortese lettore al racconto di fatti tanto stomachevoli? A dare una
vaga, ma giusta idea degli abusi d’ogni natura, che infestano conventi d’ambo i
sessi, basta rammentare, che sotto il passato governo il furto e la camorra
trasudavano, per così dire, copiosamente da tutti i pori della napoletana società:
partivano dall’alto del trono, traversavano il santuario, e si scaricavano nelle
arterie tutte della sottostante popolazione. A chi non è nota la risposta di re
Ferdinando a quel ministro di Stato, che ardiva denunziarvi le malversazioni
d’un eminente funzionario?
«E’ vero: egli è un mariuolo, un ladro, un giuntatore, ma però è un buon
cristiano».
Questa biancheria di famiglia è troppo sudicia: voltiamo pagina!1
1 E. Caracciolo, I misteri del chiostro napoletano in I memorialisti del XIX secolo, Istituto poligrafico e zecca dello stato, Roma 1995, pp. 811-812; p.818; p. 822.
Nella narrativa della seconda metà dell'Ottocento, che vede la crisi del romanzo
storico e l'apertura alla vita contemporanea, assume rilievo l'attenzione alle classi
povere: i contadini e gli emarginati nelle città. Nella "letteratura campagnola", che
ebbe grande diffusione soprattutto in area veneta, mostrando un forte impegno di
denuncia sociale, trovano posto Luigia Codemo (Treviso 1828 - Venezia 1898) - autrice
di Le memorie di un contadino (1856), Miserie e splendori della povera gente (1875),
La rivoluzione in casa (1869) , il suo romanzo migliore - e la friulana Caterina Percoto
(San Lorenzo di Soverciano, Udine, (1812 - ivi 1887), che, oltre ai Racconti (1858),
pubblicò alcune novelle in dialetto (pubblicate in buona parte postume). Nei loro
scritti le due autrici denunciano le miserie del mondo contadino visto nella sua
sanità, autenticità in contrasto con l'ipocrisia della vita cittadina. Frutto, certo, di
una idealizzazione, per tanti aspetti schematica, l'opera della Percoto ha contribuito insieme a quella degli altri scrittori "campagnoli" (Correnti, Nievo, Dall'Ongaro) - a
configurare una nuova immagine, dolorosamente umana della vita delle campagne,
superando la tradizionale "satira del villano".
Di diverso spessore e qualità è la narrativa di Matilde Serao (Patrasso 1856-Napoli
1927), che, anche per l'influenza dei grandi veristi siciliani, rivela il suo impegno
sociale e culturale dell'autrice. Da giornalista, la Serao percorse una notevole
carriera grazie all'ingegno vivace e al dinamismo che ne fecero il tipo affascinante
della "donna fatta da sé": di qui il suo antifemminismo programmatico, il quale
tuttavia non le impedì, in alcuni interventi, di denunciare la dura condizione della
donna lavoratrice, come nell'inchiesta Le lavoratrici dell'ago.
Con il marito Edoardo Scarfoglio fondò il "Corriere di Roma" e successivamente, a
Napoli, il "Corriere di Napoli", che nel 1892 si trasformò nel giornale "Il Mattino".
Abilissima redattrice di cronache, alcune delle sue inchieste giornalistiche le
fornirono materiale per le successive rielaborazioni artistiche.
Attenta alle condizioni di vita delle classi povere e alle questioni letterarie, le une e
le altre costituirono per lei un intenso campo di interesse. La sua produzione è
vastissima (ha lasciato oltre quaranta volumi tra romanzi e racconti), e pertanto non
è facile orientarsi. Ad affascinare in lei, soprattutto nella produzione della maturità,
è la capacità di descrivere una vita di povere cose, di lavoro paziente e oscuro, di
dolori solitari. Ed è questa capacità che la Serao mette a frutto, con esiti efficaci,
nella rappresentazione corale e polifonica di una Napoli dura, povera, labirintica e
misteriosa, fitta di personaggi in lotta quotidiana per l'esistenza, di interni oscuri e
affollati, di riti e superstizioni religiose, di ignoranza, di protervia e vitalità. Le
pagine de Il ventre di Napoli (come più Il paese di Cuccagna (1890-91)) trasmettono
il respiro ansante di una grande città che vive fra tradizioni arcaiche e modernità,
che coniuga in ogni momento la voce di un'allegra e irrazionale incuranza con
quella più profonda di una antichissima, introiettata assuefazione alla sofferenza:
Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate
torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto. Non sono fatte
pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni
letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto,
delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto; tutta questa
retorichetta a base di golfo e colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi
continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla
patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve
per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata con racconti di
miserie. Ma il governo doveva sapere l’altra parte; il governo a cui arriva la
statistica della mortalità e quella dei delitti; il governo a cui arrivano i rapporti
dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il governo a cui
arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta
carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese;
quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e quanti ammoniti siano i
loro amanti di cuore; quanti mendichi non possano entrare nelle opere pie e
quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nulla tenenti e quanti
commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per
quanto s'impegni al Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest’altra parte,
questo ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere?
[…] Vi avranno fatto vedere una, due, tre strade dei quartieri bassi e ne
avrete avuto orrore. Ma non avete visto tutto; i napoletani istessi che vi
conducevano, non conoscono tutti i quartieri bassi. La via dei Mercanti, l'avete
percorsa tutta?
Sarà larga quattro metri, tanto che le carrozze non vi possono passare, ed è
sinuosa, si torce come un budello: le case altissime la immergono, durante le più
belle giornate, in una luce scialba e morta: nel mezzo della via il ruscello è nero,
fetido, non si muove, impantanato, è fatto di liscivia e di saponata lurida, di
acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che
imputridisce. In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del
quartiere Porto, v'è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a
vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino
nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il
fetore dell'olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo
di formaggio che fermenta e di lardo fradicio.
Da questa via partono tante altre viottole, che portano i nomi delle arti: la
Zabatteria, i Coltellai, gli Spadari, i Taffettanari, i Materassari, e via di seguito.
Sono, queste viottole - questa è la sola differenza molto più strette dei
Mercanti, ma egualmente sporche e oscure; e ognuna puzza in un modo diverso:
di cuoio vecchio, di piombo fuso, di acido nitrico, di acido solforico.
Varie strade conducono dall’alto al quartiere di Porto: sono ripidissime,
strette, mal selciate. La via di Mezzocannone è popolata tutta di tintori: in fondo
a ogni bottega bruna, arde un fuoco vivo sotto una grossa caldaia nera, dove
degli uomini seminudi agitano una miscela fumante; sulla porta si asciugano dei
cenci rossi e violetti; sulle selci disgiunte, cola sempre una feccia di tintura
multicolore. Un'altra strada, le così dette Gradelle di S. Barbara, ha anche la sua
originalità: da una parte e dall'altra abitano femmine disgraziate, che ne hanno
fatto un loro dominio, e, per ozio di infelici disoccupate, nel giorno, e per cupo
odio contro l’uomo, buttano dalla finestra, su chi passa, buccie di fichi, di
cocomero, spazzatura, torsoli di spighe: e tutto resta, su questi gradini, così che
la gente pulita non osa passarvi più. Vi è un’altra strada, che dietro l’educandato
di San Marcellino conduce a Portanova, dove i Mercanti finiscono e cominciano
i Lanzieri: veramente non è una strada, è un angiporto, una specie di canale
nero, che passa sotto due archi e dove pare raccolta tutta la immondizia di un
villaggio africano. Ivi, a un certo punto, non si può procedere oltre: il terreno è
lubrico e lo stomaco spasima.
[…] L’impressione che si aveva, entrando in Napoli, dalla stazione
ferroviaria, venti anni or sono, era di giungere in una città angusta, male
odorante, sporca, affogata di case di tutte le altezze, di tutti i colori, portanti,
tutte, il marchio del decadimento e del sudiciume.
Se, poi, trascorso il vecchio corso Garibaldi, la carrozzella del forastiero rallentava un
poco il passo, in via Marina, in quella strada eternamente disselciata, dalle buche
profonde, ove si tra balzava così maledettamente, se il forastiero lasciava il suo
portamantelli sul soffietto, o collocava il nécéssaire da viaggio sulla panchina,
dirimpetto, quotidianamente vi era la rapina, quando non ne accadevano due o tre,
con l’agile ladruncolo che fuggiva nelle viuzze e nelle viottole, alle spalle della
Marina. E alla impressione estetica assai deludente pel forastiero che ancora non era
giunto nel rione della Beltà, cioè verso la Riviera, si univa un ribrezzo morale, di cui
non solo le oneste e sincere guide Baedeker erano l’eco, ma di cui tutti i viaggiatori
formavano una larga e invincibile propaganda.
I tradizionali bozzetti da cartolina nella Serao si trasformano in lampi, in squarci, in
prese in diretta di una condizione umana emarginata e drammaticamente amara, che
ancora oggi colpisce e impressiona il lettore:
[…] Voi cercate le più belle traverse, quelle che dovevan tagliare a diritta,
dal Rettifilo al mare, risanando i quartieri successivamente di Porto, Mercato e
Vicaria. Su venti, ve n'è una sola, completa. Alcune altre, quattro o cinque sono,
come quelle a sinistra, appena cominciate, abbandonate da anni, ottuse, traverse
cieche, ove, in fondo, ma non molto in fondo, sorge lo stesso spettacolo, sempre,
di case antichissime, mezze dirute, mezze cadenti, nerastre, verdastre,
grigiastre. Dopo, non vi è più nulla. Cioè, vi sono dei vicoletti che precipitano
per mezzo di dislivelli paurosi, di scalette ripide, difese da rozze ringhiere, in
tutto ciò che sta dietro il Rettifilo, vicoletti sinuosi, vicoletti neri, angoli ove
due o tre vicoli s'intersecano, dirupandosi, tutto un disegno bislacco e
grottesco, accanto, sì, accanto, alle altitudini superbe dei nuovi palazzi. E voi,
verso la fine del Rettifilo, vedendo fuggire gli ultimi lembi mirabili della
vostra illusione, voi vi domandate se non siate vittima di un'allucinazione, se
una parte di quel che vedete non sia falso, poiché troppo forte è il contrasto,
poiché non può esser tutto vero, a pochi metri di distanza, il decente e
l'indecente, il pulito e lo sporco, la pompa e la inguaribil miseria, il lusso e la
povertà più abbietta. Che cosa è falso, che cosa è vero? Sono, forse, il portato di
un incubo tutte quelle masse di abitazioni luride, fetide, cascanti, ove pare che
si moltiplichino la tristizie e la tristezza, il morbo e il disonore, il delitto e la
morte?2
Il chiaroscuro, l’alternanza di luci e di ombre, di opulenza e di miseria, di, illusione e
di cinismo di decente e di indecente che attanagliano la città partenopea sono la
struttura portante di una lucida e impietosa denuncia del male del Sud che fa della
2
M. Serao, Il ventre di Napoli, Avagliano Editore, Napoli 2004, pp. 41-43; p. 101; pp.106-107.
Serao un’autrice di straordinario rilievo e straordinaria attualità per una conoscenza
del Mezzogiorno.
Dall'area letteraria settentrionale, educata all'indagine psicologica delle letterature
europee, in particolare di quella francese (Flaubert, Bourget)
viene la prima
rappresentazione efficace di drammi femminili. E' la milanese Anna Zuccari (18451918) - sotto lo pseudonimo di Neera-
a offrire nei suoi libri una galleria di
protagoniste - i suoi personaggi sono infatti quasi esclusivamente donne - costrette
a rinunciare a se stesse, a chiudersi nella solitudine, a sottomettersi alla realtà che
frantuma i loro sogni (matrimoni senza amore, vite squallide, rapporti frustranti),
come in Il castigo (1881), Teresa (1886), La vecchia casa (1900). Anche se incline ad
effusioni sentimentali, nello scrivere la Neera dimette ogni tonalità retorica e fa uso
di una lingua piana, naturale, che piacque a Luigi Capuana, fu esaltata da Benedetto
Croce e permise a lei, nel panorama letterario contemporaneo, di delineare profili di
donna più concreti e non di rado acuti e sensibili, i quali rivelano una capacità
notevole di analisi e di partecipazione umana. Sotto questo aspetto ha rilievo il
romanzo autobiografico, del 1919, Una giovinezza del secolo XIX, in cui l'autrice,
narrando la propria giovinezza, mette a fuoco i privilegi di educazione, di libertà, di
indipendenza di cui godevano gli uomini della famiglia in contrasto con le rinunce,
a studiare, a parlare, a muoversi, a cui lei, come figlia femmina, era obbligata
dall'educazione.
Neera è anche autrice di liriche (Il canzoniere della nonna, 1908; Poesie, 1919), di una
commedia (Maura, 1908), libri di memorie (Profili, impressioni e ricordi, 1920).
All'esperienza della propria vita, si ispira anche l'opera di Ada Negri (Lodi 1870Milano
1945), insegnante
elementare, che
riuscì
ad
acquistare
notorietà
nell'ambiente letterario e successo presso il pubblico grazie allo spirito cristiano e
umanitario delle sue opere, soprattutto quelle in versi ( Fatalità, 1892, Tempeste,1894,
Esilio, 1914 ). Più tardi si cimentò, con modesti esiti, in composizioni liriche di gusto
dannunziano e di tono diaristico (Il libro di Mara,1919,; I canti dell'isola,1924). Sfocate e
declamatorie le opere in prosa ove la Negri rievoca una fanciullezza dolorosa ,
ambienti umili e tristi solitudini ( Le solitarie, 1917, Stella Matutina, 1921, Sorelle, 1929).
Collaborò a giornali e riviste e nel 194O fu accolta nell'Accademia d'Italia.
Sul versante opposto a quello della presa di coscienza da parte della donna della
propria condizione e dei suoi sforzi per tradurla in immagini e in linguaggio
letterario, si pone, nello stesso periodo, la narrativa di consumo: una produzione per
il pubblico popolare e piccolo borghese in Italia tradizionalmente escluso dalla
letteratura alta, e in cui il personaggio femminile privo di identità, rimane
imprigionato negli schemi maschili più tradizionali: o è angelo o è demonio. Autori
esemplari, sotto questo profilo, sono Guido da Verona e Pitigrilli. I caratteri della
produzione di consumo sono omologhi al progetto di una classe dominante, angusta
e retriva, di offrire, ai ceti meno colti, opere in cui i valori religiosi ormai inerti
fossero sostituiti dai tabù sociali del potere (nazionalismo, razzismo, antisocialismo,
antifemminismo), e che, mediante i meccanismi di invenzione romanzesca,
istillassero nelle coscienze dei lettori un sacro ossequio verso l'ordinamento
esistente, rigido e antidemocratico.
Regina del genere fu la scrittrice piemontese Carolina Invernizio (Voghera 1858 Cuneo 1916), la quale, sulla scia del romanzo d'appendice francese nei suoi cinquanta
e più volumi mescola artificiosamente il sentimentalismo tardoromantico ai toni
orrorosi del verismo popolare, riducendo i modelli della letteratura alta a pure
tracce tematiche da utilizzare in funzione evasiva e consolatoria. La sua opera, primo
esempio
in
Italia
di
paraletteratura,
rappresenta
un
modello
narrativo
particolarmente efficace per l'abilità di sfruttare scaltramente la naturale vocazione
dell'uomo al fantastico, (adattata scaltramente) allo scopo scaltro di confermare e
rafforzare
le
deboli aspettative immaginarie di lettori ingenui, esclusi dal
benessere sociale e dalla circolazione del pensiero e pronti a recepire messaggi che
sublimassero le loro aspirazioni, sogni e inconsci desideri frustrati. Di qui l'enorme
interesse suscitato nel pubblico dagli intrighi lacrimosi di amore e di morte (Rina o
l'angelo delle Alpi, L'orfano del ghetto, la sepolta viva, La vendetta di una pazza),
dalle tenebrose storie di perversità e della loro esemplare punizione ( Satanella
ovvero la mano della morte; Il bacio di una morta; L'atroce visione; L'albergo del
delitto; Il treno della morte)
Sia per la funzione pedagogica di compressione di istanze liberatorie e trasgressive ben vista dalle classi dominanti -, sia per il successo di mercato, i libri della
Invernizio, godettero delle simpatie di giornali e periodici - nelle cui appendici
molti di essi uscirono a puntate - e dell'appoggio degli editori (l'editore Salani di
Firenze li raccolse in volume).
Sulla linea di lettura da intrattenimento, anche se più sentimentale, si collocherà più
tardi la produzione di Liala (pseudonimo di Liana Negretti, Como 19O2...). I suoi
romanzi, fitti di passioni, intrighi, svelamenti, e
resi in un linguaggio
da
comunicazione di massa, sono costruiti su uno schema che - come l'opera della
contemporanea francese Delly ( pseudonimo di Jeanne Marie de la Rosier e di suo
fratello Frederic) paiono l'antecedente narrativo melò dell'attuale modulo televisivo
"soap -opera,". Significativi i titoli: Signorsì, 1931, Trasparenze di pizzi antichi, 1943,
Ombre di fiori sul mio cammino, 1981, Frammenti di arcobaleno,1985. Essi ottennero
tanto successo popolare da divenire sinonimo, nel linguaggio odierno, di gusto
elementare e melo.
Di origine naturalistica, aperta successivamente alle suggestioni della letteratura
europea di fine secolo, è la narrativa della prima importante scrittrice italiana tra
Ottocento e Novecento, Grazia Deledda. Nata a Nuoro nel 1871, trasferitasi a Roma
dopo il matrimonio, la Deledda è autrice di circa cinquanta volumi tra romanzi e
novelle. Le opere di maggior rilievo sono quelle ispirate al mondo rurale e pastorale
della sua isola, che un
immaginario vivo e robusto trasfigura in vicende e
personaggi dotati di valenza arcaica e primitiva, e dove i caratteri concreti
dell'esistenza sarda assumono movenze e significato simbolici.
Nessuna intenzione di oggettività, nessuna disposizione all'analisi scientifica,
nessuna attenzione ai meccanismi e ai conflitti sociali ed economici ispira i suoi
racconti. Nessun cedimento all'esaltazione populistica del candore e dell'idillio
contadino di tanto bozzettismo folcloristico contemporaneo, ma, anche per la forte
suggestione dei grandi scrittori russi da lei letti e amati, una sorta di afflato
"simpatetico" con una terra violenta, aspra, rivissuta fuori del tempo cronologico e
dello spazio reale, in una dimensione di tragicità intensa e irredimibile che pervade
situazioni, paesaggi e figure:
I cavalli furono portati al pascolo; s’accesero i focolari; e la magnifica
prioressa e le donne della tribù cominciarono a cuocere certe spaventose
caldaie di minestra condita col cacio fresco. Che vita gaia cominciò allora per
quella specie di clan pacifico e patriarcale! Si sgozzavano pecore e agnelli, si
cuocevano molti maccheroni, si beveva molto caffè, molto vino, molta
acquavite. Il cappellano diceva messa e novena, e fischiava e canterellava.
Il divertimento maggiore era però nella grande cumbissia, di notte,
attorno agli alti e crepitanti fuochi di lentischio. Fuori la notte era fresca,
talvolta quasi fredda: la luna calava sul vasto occidente, dando alla brughiera un
incanto selvaggio. O pallide notti delle solitudini sarde! Il richiamo vibrato
dell’assiuolo, la selvatica fragranza del timo, l’aspro odore del lentischio, il
lontano mormorio dei boschi solitari, si fondono in un'armonia monotona e
melanconica, che dà all'anima un senso di tristezza solenne, una nostalgia di
cose antiche e pure.
Raccolti attorno al fuoco, i paesani della cumbissia maggiore narravano
storie argute, bevevano e cantavano. L’eco delle loro voci sonore si perdeva al
di fuori, in quella grande solitudine in quel silenzio lunare, fra le macchie sotto
cui dormivano i cavalli.3
Le regole rigide e i divieti, gli obblighi e le rinunce, i sacrifici, le frustrazioni di
sentimenti e aspirazioni, che connotavano la realtà della Sardegna, nelle pagine della
Deledda vengono spostati su uno scenario inconsueto nella letteratura italiana se
non per gli assoluti capolavori verghiani Rosso Malpelo e Jeli il pastore : uno
scenario di riti e tabù ancestrali, di atmosfere e sensi arcaici, le cui radici nei
territori dell'inconscio e del mito rendono legittimo a loro proposito, parlare di
una, sia pure inconsapevole e ingenua, intuizione archetipica - antropologica. Come
le figure di madri, topiche nella scrittrice, i cui caratteri individuali e personali
trapassano continuamente nell' ambigua "imago" della Magna Madre, asilo e
prigione, protezione e castrazione, vita e morte. Come la condizione di "figlio",
tema di tanti romanzi, che é dipendenza, soggezione, bisogno primario di difesa e
coazione all' autoannullamento. Come il clan familiare che é luogo psichico di
conferma e disconferma del personaggio, perché in esso egli si riconosce ma con
esso è destinato a fondersi simbioticamente:
Dalle cumbissias venivan fuori, vibranti nel silenzio della notte tiepida e pura,
confusi rumori di voci e di canti, di grida e di risate. Elias distingueva la voce di suo
padre, il fischiettare di prete Porcheddu, il riso di Maddalena, e fra tanta festa si
sentiva triste, disperato, come un bimbo lasciato solo nella selvaggia solitudine
notturna della brughieria.4
Come il paesaggio, il celebrato paesaggio deleddiano - con le sue tancas, i suoi
profumi, la sua fascinazione ora benigna ora ostile - che, perduta gradualmente ogni
funzione descrittiva o impressionistica, diviene spazio euforico e insieme disforico
3
G. Delledda, Elias Portolu, in Romanzi e novelle, Mondadori, Milano 1971, pp. 34-35.
4Ivi, p. 43.
dell'immaginario, sublimazione del legame con una Sardegna Isola, Terra, Madre,
universo della vita e suo confine, grembo da cui non é lecito uscire e che distrugge:
Un passo in lontananza gli fece sollevar gli occhi. Gli sembrò di
riconoscerlo; era un passo rapido e lieve di fanciullo, passo d’angelo che corre
ad annunziare le cose liete e le tristi. Sia fatto il volere di Dio: è lui che manda le
buone e le cattive notizie; ma il cuore cominciò a tremargli, ed anche le dita
nere screpolate tremarono coi giunchi argentei lucenti alla luna come fili
d’acqua.
Il passo non s’udiva più: Efix tuttavia rimase ancora là, immobile, ad
aspettare.
La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l’uomo che la
sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlio dei grilli
precoci, qualche gemito d’uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre
più chiara del fiume: ma era sopratutto un soffio, un ansito misterioso che
pareva uscire dalla terra stessa: sì, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma
cominciava la vita fantasia dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. I fantasmi
degli antichi Baroni scendevano dalle rovine del castello sopra il paese di Galte,
su, all’orizzonte a sinistra di Efix, e percorrevano le sponde del fiume alla caccia
dei cinghiali e delle volpi: le loro armi scintillavano in mezzo ai bassi ontani
della riva, e l’abbaiar fioco dei cani in lontananza indicava il loro passaggio.
Efix sentiva il rumore che le panas facevano nel lavar i loro panni giù al
fiume, battendoli con uno stinco di morto, e credeva di intraveder
l’ammattadore, folletto con sette berretti entro i quali conserva un tesoro,
balzar di qua e di là sotto il bosco di mandorli, inseguito dai vampiri con la coda
di acciaio.
Era il suo passaggio che destava lo scintillio dei rami e delle pietre sotto la luna: e
agli spiriti maligni si univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che
volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la luna: e i nani e le
janas, piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser
stoffe d’oro in telai d’oro, ballavano all’ombra delle grandi macchie di fillirèa,
mentre i giganti s’affacciavano fra le rocce dei monti battuti dalla luna, tenendo per
la briglia gli enormi cavalli verdi che essi soltanto sanno montare, spiando se laggiù
fra le distese d’euforbia malefica si nascondeva qualche drago o se il leggendario
serpente cananèa, vivente fin dai tempi di Cristo, strisciava sulle sabbie intorno alla
palude.5
La derealizzazione del quotidiano e la sua traduzione in trame di eventi psichici e
archetipici, in cui si fondono tormenti morali, inquietudini del pensiero, sentimento
del mistero e senso della fatalità, giustifica la diversa posizione dei lettori
contemporanei: quelli che rifiutarono la sua opera o perché trasgressiva rispetto
all'ortodossia formale e tematica del verismo o perché eccedente la norma del
sentire e del gusto dominanti;
quelli - tra cui Capuana, Verga, De Roberto -
affascinati dalla capacità della scrittrice di trovare le origini profonde dei drammi
dell' esistenza e dei conflitti della coscienza. Nel giudizio del Capuana si scorge quel
fiuto sottile che gli fece fin da subito individuare nella Deledda una grande
scrittrice, come i fatti successivi confermeranno: nel 1926 la scrittrice fu insignita del
premio Nobel, e nel corso dei decenni la sua narrativa riscosse sempre maggiori
consensi.
E’ già molto il veder persistere nella novella e nel romanzo regionale lei
giovane e donna, e per ciò più facile ad esser suggestionata da certe correnti
mistiche, simbolistiche, idealistiche che si vogliano dire, dalle quali si lasciano
affascinare ingegni virili. Questa persistenza indica un senso artistico molto
sviluppato ed equilibrato, un concetto giusto dell'arte narrativa che, innanzi
tutto, è forma, cioè creazione di persone vive, studio di caratteri e di sentimenti
non foggiati a capriccio o campati in aria, ma resultato di osservazione; quanto
5 Idem, Canne al vento, ivi, pp. 172-173.
dire studio e creazione di personaggi, nei quali il carattere e la passione
prendono determinazioni particolari non adattabili a tutti i tempi e a tutti i
luoghi.
La signorina Deledda fa benissimo di non uscire dalla sua Sardegna e di
continuare a lavorare in questa preziosa miniera, dove ha già trovato un forte
elemento di originalità. I suoi personaggi non possono esser confusi con
personaggi di altre regioni; i suoi paesaggi non sono vuote generalità
decorative. Il lettore, chiuso il libro, conserva vivo il ricordo di quelle figure
caratteristiche, di quei paesaggi grandiosi; e le impressioni sono così forti, che
sembrano quasi immediate, e non di seconda mano, a traverso un’opera d’arte
[…]. Ha tentato di metter fuori delle creature vive, e c’è riuscita. Non si è
smarrita dietro un lavoro di analisi psicologica, artificiale; ma ha fatto sentire,
pensare, agire, tutte quelle creature nel loro ambiente, proprio come fa la
natura con le sue. Sotto quelle carni, sotto quei nervi ci sono anime che amano,
soffrono, errano, scontano le loro colpe, fin le loro debolezze; c’è l’umanità, non
astratta, ma reale, sostanziale; e dove c’è l’umanità c’è il pensiero, c’è il concetto:
spetta al lettore cavarlo fuori. L’arte pensa a modo suo, creando forme; chi cerca
di farla pensare altrimenti la snatura, non lo ripeteremo abbastanza.6
La Deledda era autodidattta e senza dubbio la formazione, fatta attraverso letture
ricche ma disordinate, affastellava modelli disorganici e sovrapposti come l'esigenza
di "verismo" e le nostalgie romantiche, i procedimenti dei realisti francesi e i
percorsi interiori dei narratori russi, l'esperienza simbolista, la prosa e la poesia
dannunziane e lo sperimentalismo dei veristi meridionali. Strenuo fu tuttavia lo
sforzo di crearsi uno stile personale di scrittura che, con il passare degli anni,
depurò la congerie iniziale di temi e motivi e la condusse a fondere vissuto
personale e mondo fantastico in strutture romanzesche più sobrie ed essenziali.
6
R. Capuana, Gli “ismi” contemporanei, Fabbri Editori, Milano 1973, p. 97; p. 101.
Il primo racconto, Sangue sardo, apparve sulla rivista femminile "Ultima moda" nel
1888. Sulla fantasia della giovane scrittrice pesava quel romanticismo cupo e oscuro
dominante anche in molte altre opere dei primi anni: Amore regale (1891), Racconti
sardi (1894), La via del male (1896), La giustizia (1899).
Nel 1903, con Elias Portolu, pubblicato a puntate su "Nuova Antologia", inizia la
narrativa maggiore, in cui la Deledda mostra per la prima volta la capacità di
liberarsi dalla pesante concretezza del dato reale e di farlo assurgere a significazione
mitica e simbolica, liberandolo da ogni residuo contingente o folcloristico.
Acutamente D.H.Lawrence metteva in risalto la capacità della scrittrice, nelle opere
della maturità, di evocare senza analizzare, e di avvolgere il lettore "in una sorta di
nebbia o fosforescenza delle sensazioni ... sempre più importante di ciò che riescono
a esprimere le parole".
Probabilmente avrà agito in lei anche l'allontanamento dalla Sardegna, che la aiutò a
interporre tra sé e i suoi ricordi la distanza psicologica necessaria a tradurli in
immagini memoriali. A Elias Portolu, seguirono Cenere, nel 1904 (famosa è la
trasposizione cinematografica con Eleonora Duse protagonista), L'edera (1906,
tradotta in dramma nel 1912), Canne al vento (1913), Marianna Sirca (1915), La madre
(1920), Annalena Bilzini (1934). Postumo, nei numeri di settembre-ottobre 1936 di
"Nuova Antologia", uscì il romanzo Cosima, quasi Grazia, pubblicato in volume l'anno
successivo.
Con un romanzo femminista, Una donna, esordì nel 1906 la piemontese Sibilla
Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio 1876-1960). Quest'opera, per il suo impegno
programmatico, segna in Italia una tappa avanzata di autocoscienza della donna, pur
se, anche nei turbamenti e fermenti del primo decennio del Novecento italiano, non
ebbe immediate continuatrici. Al primo romanzo seguirono Il passaggio (1919), Amo
dunque sono (1927), Il frustino (1932), le prose di Gioie d'occasione (1930), Orsa minore
(1938), Dal mio diario. 1940-44 (1945), le raccolte di poesie Selva d'amore (1947),
Aiutatemi a dire (1951), Luci della mia sera (1956).
Inquieta e tormentata figura , amica e confidente di poeti, pittori e scrittori, la sua
vita fu contrassegnata dalla tempestosa relazione con Dino Campana ( di grande
interesse è il loro epistolario) e dai difficili rapporti con i protagonisti della cultura
dell’epoca - Vincenzo Cardarelli, Giovanni Papini, Giovanni Cena e altri -.
I riflessi della vicenda privata si proiettano sull’opera dell’ Aleramo senza una
sufficiente mediazione, di riflessione e di scrittura. Di qui, la forte tenzione e la
prorompente carica autobiografica che connota le sue prose, e l’accentuato lirismo
dei suoi versi, improntati a una sofferta analisi di sentimenti e di stati d’animo
immediatamente riversati sulla pagina.
Lo sdegno per lo stato di soggezione della donna, l'esperienza delle difficoltà
oggettive e soggettive al libero e sereno esercizio delle sue facoltà e inclinazioni
femminili, la urgenza di emancipazione e libertà per sé e per il suo sesso
conferiscono ai suoi scritti accenti da documento di vita che l'alternanza dei toni ora effusivo, ora difensivo, ora autoaccusatorio - rendono intenso , e a tratti,
drammatico. "Quasi inavvertitamente - scriveva –
il mio pensiero s'era giorno per giorno indugiato un istante di più su questa parola:
emancipazione, che ricordavo d'aver sentito pronunciare nell'infanzia, una o due
volte, da mio padre seriamente, e poi sempre con derisione da ogni classe d'uomini e
di donne. Indi avevo paragonato a quelle ribelli la gran massa delle inconsapevoli,
delle inerti, delle rassegnate, il tipo di donna plasmato nei secoli per la soggezione, e
di cui io, le mie sorelle, mia madre, tutte le creature femminili da me conosciute,
eravamo degli esemplari. E come un religioso sgomento m' aveva invasa. Io avevo
sentito di toccare la soglia della mia verità, sentito ch'ero per svelare a me stessa il
segreto del mio lungo, tragico e sterile affanno".
A documentare il “lungo, tragico e sterile affanno” di donna non emancipata e
totalmente sottomessa all’autorità maschile del marito è la prima parte della opera
maggiore Una donna ove l’ autrice rievoca la sua drammtica esperienza
matrimoniale:
Non ricordo altro. Rivedo me stessa gettata a terra, allontanata dal piede come un
oggetto immondo, e risento un flutto di parole infami, liquido e bollente come
piombo fuso. Colla faccia sul pavimento, un’idea mi balenò. Mi avrebbe uccisa? Con
una strana calma mi chiesi se l’anima mia sarebbe mai stata raggiunta in qualche
parte dalle anime di mia madre e di mio figlio.
Ed ho il confuso senso della disperata ira che mi assalse quando, dopo una
notte inenarrabile in cui il mio viso ricevette a volta a volta sputi e baci, e il mio
corpo divenne null’altro che un povero involucro inanimato […].
Ira silenziosa e vana, disperazione spasmodica, agonia atroce, ombre di
follia… Giorni, settimane. Tutto è avvolto di grigio; non distinguo più la
successione delle sofferenze, dei deliri, delle soste di stupefazione. Mio padre,
informato, era riuscito col dottore a persuadere l’uomo pazzo ed insieme vile a
perdonarmi, a credere che tutto non era se non aberrazione momentanea. Mia
cognata, mia suocera, avevano toccato il tasto dello scandalo: ogni cosa,
piuttosto che la pubblicità di quell’onta! E, insieme, tutta questa gente mi
circondava come in un sogno mostruoso: tutti mi credevano una bestia
immonda, e tutti mi risparmiavano per viltà.
Ogni notte di me si faceva strazio; ogni giorno eran scene di rimpianto,
eran promesse di calma, di oblio. Mettevo paura?
E intanto la vita esterna doveva apparire immutata. Dovevo uscire a fianco
di mio marito e talvolta fra noi era il bimbo; il dolce fiore sorrideva fra due che
s’odiavano. […]
Finalmente una sera egli accondiscese a che io andassi a Milano, per
qualche tempo, ma senza mio figlio. […]
Io non dormii. Seduta accanto al letto del bimbo, non pensavo, non sentivo
più nulla: attendevo, che cosa non so: la luce, il tepore, qualcosa che mi facesse
sentirmi viva. Avevo tanto bisogno di forza!
Oh quel respiro tranquillo che le notti seguenti non avrei più ascoltato!
Suonavano delle ore lontane: trasalivo. Ma com’erano lente quelle ore!... Forse
mio padre m’avrebbe aiutata, anche colla violenza, a :riavere il povero bimbo...
L’avvenire mi si raffigurava pieno di enigmi, di agitazioni, di lotte. Nella
mischia il viso di mio figlio mi riappariva.
Nella strada, ad uno svolto ov’egli passava, io mi sarei affacciata
d'improvviso, di tratto in tratto, ed egli sarebbe sempre stato in attesa della mia
apparizione... Intanto gli uomini mutano, mutano le leggi. Una persona che sia
un’idea vivente, un’ossessione, può persuadere i più restii... E poi, la morte!
La morte! Un brivido, come in una notte lontana. Ma io avevo superato il
desiderio della morte, anche di quella del mio nemico. Non l'odiavo. Egli non
era più che una larva confusa e cupa, che s’ergeva insieme allo spettacolo della
legge nella notte indecifrabile del destino.
Accesi la lampada, la coprii. Un fruscio. «Mamma?» Mi slanciai sul lettuccio:
pose la mano nella mia e si riaddormì. Rimasi senza muovermi, quasi senza
respiro.
Mezzanotte. Mancavano tre ore. Le ginocchia mi si piegarono. Seduta sulla
poltrona sentivo il freddo invadermi, e raccoglievo tutto il mio calore, gli occhi
chiusi, ritirando la mia mano per non agghiacciare la manina. E d’un tratto
sentii tutte le mie forze fondersi: mi assopivo? Ero tanto stanca: non avrei
potuto partire...
Scoccarono le tre. Balzai in piedi. Mi misi il mantello e m’appressai all’uscio.
Poi tornai al letticciuolo, svegliai il bimbo: «Vado» gli dissi piano «è già l’ora; sii
buono, sii buono, voglimi bene, io sarò sempre la tua mamma...» e lo baciai senza
poter versare una lagrima, vacillando; e ascoltai la vocina sonnolenta che diceva:
«Si, sempre belle... Mando il nonno a prendermi, mamma... Star con te...». Si
voltò verso il muro tranquillo. Allora, allora sentii che non sarei tornata, sentii
che una forza fuori di me mi reggeva, e che andavo incontro al destino nuovo, e
che tutto il dolore che mi attendeva non avrebbe superato quel dolore.7
Tra tante polemiche e un notevole successo internazionale, il libro, Una donna tradotto in sette lingue (anche il severo Stefan Zweig ne fu lettore entusiasta) fece
della Aleramo il vessillo del femminismo. Paolina Schiff, attiva esponente del
movimento delle donne, la incaricò di fondare una lega femminile nelle Marche; le
venne chiesto di dirigere il periodico "L'Italia femminile. Corriere delle donne
italiane"; le arrivarono offerte di collaborazione a vari giornali periodici.
Negli anni Trenta molte scrittrici riuscirono a superare gli schemi e i motivi
letterari dominanti a cui, per fare un esempio, si era attenuta Amalia Guglielminetti
(Torino 1881-1941), amica e corrispondente del poeta crepuscolare Guido Gozzano, che
disegnò profili di donne seducenti, anticonformiste e disincantate ricalcando i toni e
la voluttuosità della prosa dannunziana ( Vergini Folli, 19O7; Seduzioni, 19O9).
Educate
al gusto e all'esperienza degli intellettuali raccolti attorno alla rivista
fiorentina "Solaria" - dove insieme ad autori italiani contemporanei, come Svevo e
Tozzi, venivano proposti i grandi modelli della narrativa europea ( V. Woolf, Proust,
Joyce, Kafka, Mann) - alcune di loro trovano una propria, originale cifra di scrittura
nell'attraversare gli spazi della memoria, nel rintracciare segni ed eventi del tempo
perduto, nel cogliere atmosfere, epifanie dei luoghi e dei momenti interiori,
coniugando una sorta di realismo magico alla Bontempelli con l'adesione al proprio
vissuto. Come i romanzi di Fausta Cialente (Cagliari 1898) che, in uno stile morbido e
musicale, trascrivono la lunga esperienza dell'autrice ad Alessandria d'Egitto,
7 S. Aleramo, Una donna, La «Universale Economica», Milano 1950, pp. 74-75; p. 169-171.
ricostruendo l'atmosfera e la decadenza del suo ambiente cosmopolita (Cortile a
Cleopatra,1936;
Ballata levantina, 1961. Nel 1976 pubblica Le quattro ragazze
Wieselberger, che é una rivisitazione della Mitteleuropa in cui ha radici la famiglia
materna
"Cambiare in oro i metalli vili è nulla" aveva scritto Gianna Manzini in Un'altra cosa,
(1961) "sorprendere il vero segreto d'ognuno... questa la vera alchimia. Io miro al
cuore". E questo è in effetti il percorso tutto in profondità della scrittrice : un
itinerario di scavo, alla ricerca delle radici dei sentimenti e della memoria. In quanto
al cuore, il cammino verso il cuore, delle cose e quello del lettore, dobbiamo
riconoscere che non è né diretto né immediato, sia sotto il profilo tematico che
stilistico. "Una scrittrice complicata e un po' abbagliante", l'aveva definita Emilio
Cecchi, alludendo al preziosismo linguistico della scrittura, all'oscillazione della pagina tra rarefazione e sovrabbondanza, alla ricchezza di metafore, alla distillazione
introspettiva.
Allieva di De Robertis, collaboratrice di "Solaria", moglie del critico Enrico Falqui,
frequentatrice della società letteraria fiorentina, lettrice dei romanzi europei volti
all'analisi del tempo e agli scavi interiori (in particolare V. Woolf e Proust), direttrice
dei quaderni di " Prosa", la Manzini esordì nel 1928 con il romanzo Tempo innamorato
(una tragica vicenda amorosa tutta giocata tra atmosfere sottili, sfumature
psicologiche, incroci di tempi) che fu accolto con favore da lettori e critici.
Un insistito lavoro sulla memoria e la ricerca di una prosa preziosa, intonata al
mondo rarefatto delle proprie suggestioni connotano il percorso della scrittrice,
dai racconti di Incontro col falco (1929) e di Boscovivo (1932) a Rive remote(194O).
Con Lettera a un editore (1945), definito da lei stessa un "romanzo da fare", per il
continuo modificarsi della struttura narrativa, comincia per Gianna Manzini un
periodo di maggiore essenzialità contenutistica e linguistica. Forse anche per il
trasferimento a Roma e l'abbandono della Toscana, la sorgente del suo "recondito
linguaggio". L'apertura alla realtà, dovuta in parte allo sconvolgimento della guerra,
impronta i racconti di Forte come il leone (1945), Ho visto il tuo cuore (195O), Il
Valtzer del Diavolo (1953), caratterizzati da una maggiore adesione ai sentimenti e
alle cose. I risultati più convincenti vengono raggiunti con il romanzo La sparviera
(1956), trasfigurazione della malattia e della morte in presenze ossessive:
In un altro bambino avrebbe potuto nascere l’idea dell’ingiustizia; uno ti
picchia, ti picchia nascosto dentro di te, al sicuro, magari mentre disponi a
disegno palline colorate in un traforo di buchette uguali, o canti una bella
canzone, o fai una freccia di carta; ti picchia e nessuno può aiutarti, né la
mamma, né la maestra, né l’amico coraggioso più grande di te; nessuno può
nemmeno punire chi ti offende e ti pesta, perché, per rimpiattarsi, non gli san
bastati i tuoi vestiti; t’è entrato sotto la pelle, sotto le costole. E’ un’ingiustizia.
Invece Giovanni, per via di tutta la costernazione che lo circondava, scambiò
l’ingiustizia col privilegio; e accolse fieramente la tosse. Infatti il giorno avanti
era stato proprio per la sua disposizione a tale errore, per questa stramba
dignità, destinata a moltiplicare in lui energie, che la tosse l’aveva adocchiato.
Soltanto quando lo mandarono via dall’asilo infantile, e poi dai vari alberghi, al
mare e in montagna, dove altri bambini lo sfuggivano, si immalinconì. Durante
l’eternità d’un trimestre, solo, parlava alla “Sparviera” che ormai lo abitava:
“dorme” diceva con l’indice sulla punta del naso, impedendosi la risatina che
avrebbe potuto svegliarla; e talvolta, in attesa, stralunato: “eccola”. Infatti,
quella, giù a dibatterglisi dentro con urla selvagge; e mai che si potesse
sottrarlo a quel tempestare. Pur dimagrito e indebolito, la sua buffa aria
spavalda aumentava, anche a causa d’un allarme visibile nelle spalle sollevate, e
negli occhi esageratamente lucidi; ma ridere, rideva ormai di rado; troppo gli
costava, ogni volta, l’ambizione di quel gran clamore che lasciava esterrefatti
gli altri.
Ormai la sua fierezza era disfatta da un tremito costante, visibile nel labbro
inferiore, contratto, come in chi sta per piangere.
[…] Aveva forse quattro anni quando lui dette un nome alla nemica che lo
assaliva a colpi di tosse. Poi, aiutato da Stella, era riuscito a precisarla, la
Sparviera, e a regalarle, insieme con una figura, una sua vita. Quella vita s’era
legata alla sua e lo vincolava e lo soggiogava. Ma che cosa era avvenuto da
allora fino ad oggi? Anni lentissimi, uniformi, come una ragionevole crescita:
libri, giochi, viaggi, sport, sicuro, anche sport; e il viso d’una ragazza che si
chiama Marisa.8
Nello stesso anno ottenne il Premio Viareggio. Altre sue opere Ritratto in piedi
(1971) commosso confronto con la figura del padre (Premio Campiello), e il volume di
novelle Sulla soglia (1973), il cui centro inventivo é l'assorto colloquio con la madre
nel racconto che dà titolo al volume.
Nella rivista "Solaria" ha le proprie radici anche Anna Banti (pseudonimo di Lucia
Lopresti, Firenze 1895- Ronchi di Massa 1985). Moglie del critico d'arte Roberto
Longhi, colta e raffinata, trasferisce
il suo scavo nel tempo e nella memoria
all'interno della condizione e della sensibilità femminile, che fissa in figure e moduli
stilistici oggettivi e distaccati. Dopo Il coraggio delle donne (194O) - storie di
personaggi sconfitti ma non prostrati e vinti - felicissimo per equilibrio narrativo e
resa formale si presenta il romanzo Artemisia (1947), memoria- riflessione -racconto
sulla pittrice seicentesca Artemisia Gentileschi (1597- 1651 circa) e sulla sua lotta per
affermare la propria personalità femminile e il proprio talento artistico in una
società che la rifiuta e l'oltraggia. Configurata come ricerca di un manoscritto
dell'autrice perduto durante i bombardamenti, la vicenda si espande in circoli
multipli e concentrici:
la ricerca della prima stesura si trasforma in ricerca
8 G. Manzini, La Sparviera, Mondadori, Milano 1968, pp. 20-21; p. 93.
dell'identità storica del personaggio e questa a sua volta in ricerca della forma del
racconto da fare.
Un
complesso scavo psicologico sorregge anche
le successive ricostruzioni
storiche di figure femminili (Le donne muoiono,1951, Noi credevamo, 1967) e i
racconti di Je vous écris d' pays lointain (1971).
La Banti, grande cultrice d'arte, ha anche scritto monografie su Lotto, Angelico,
Velàzquez, Monet
In tempi più recenti il modello del racconto storico é stato seguito, ma con minore
intensità e capacità evocativa da Maria Bellonci (19O2-19747) fondatrice del Premio
Strega.
.
Durante e dopo la seconda guerra mondiale, in conseguenza dell' atroce esperienza
che lacera il tessuto della vita di paesi e individui, anche la letteratura prende
itinerari diversi, più concreti ed essenziali. Nel diverso approccio ai problemi sociali,
civili e personali degli individui, per perspicuità e profondità , si distinguono le
opere di alcune scrittrici. Anche se, in Italia, poche e di scarso rilievo seguono il
modello neorealistico, si produsse in molte l' esigenza di addentrarsi nei meccanismi
del reale, privato o collettivo, oggettivo o psicologico.
Aderente alla trama dell'esistenza, alle sue pieghe sottili e molteplici si presenta, ad
esempio, l'opera della piemontese Lalla Romano (al secolo Graziella Monti, Cuneo,
19O9....) .Lontana dai circuiti della cultura ufficiale, vissuta in una civile e decorosa
condizione borghese, il rapporto con la scrittura si configura in lei come ricerca del
linguaggio delle cose intime e quotidiane, come rivisitazione del proprio passato,
come scoperta della propria "identità nel tempo".
L’antica felicità, che alla mamma era parsa tutt’uno con Ponte, quando ero
bambina l’avevo avvertita soltanto per lampi, per accensioni improvvise. Era,
credo, una corrente profonda che alimentava le mie radici; ma intanto io ero
sbattuta da conflitti, incertezze, paure. In esse tentavo di isolare dei filoni, dei
temi.
La singolarità di questo sforzo è che risale proprio a quel tempo.
Incominciò allora.
Appena fui capace di riflettere presi a distinguere un presente e un
passato; nel passato stesso distinguevo due tempi: uno comprendeva la mia
prima infanzia e la vita dei genitori, di cui per accenni intravedevo qualcosa;
dietro si stendeva un altro tempo più vago, che conteneva gli antefatti: qualche
episodio dell'infanzia dei genitori e della loro giovinezza. (Le storie e le fiabe
avvenivano in qualcosa che non era il tempo, perché non era legato alla mia .
esistenza né a quella dei miei).
Questa cronologia era ampia e complessa e insieme schematica, del tipo:
alto, medio e basso Impero.
Il sentimento dominante era quello di essere arrivata tardi: quando il più
importante era avvenuto. Il tempo meraviglioso era « quello di prima ».
Appartenevano al tempo di prima certe feste che io cercavo di
immaginare.
L'incanto era suggerito dal modo con cui la mamma nominava i luoghi, le
persone. I nomi erano pronunziati da lei con espressione estatica, più che
nostalgica: eppure fuggevolmente, come usava lei, casi che apparivano e
sparivano e sembravano più misteriosi. 9
La Romano abbonda le suggestioni rarefatte, l' autoascultazione compiaciuta, il
culto della parola poetica di molta letteratura precedente, e si immerge nei meandri
della vita, nei complessi rapporti tra le persone, nei difficili legami familiari, nei
movimenti del destino, che continuamente si fa e si disfa. Un mondo autentico
quello della Romano, nato dalla sua esperienza e dalla sua sensibilità e che, per
9 L. Romano, La penombra che abbiamo attraversato, Einaudi, Torino 1964, p. 8.
attrarre, non ha bisogno di orpelli formalistici, di preziosità, di espressioni libresche
o al contrario, del diffuso patetismo, del verboso narcisismo, dei paradossi
stravaganti e noiosi di tanta produzione più recente. Lo stile della piemontese, che
elabora in moduli letterari il modello linguistico della borghesia settentrionale, é
infatti nitido e preciso, come nitida e precisa è la formula narrativa dei suoi testi,
anche di quelli ove il rapporto con la realtà si fa più inquieto e ambiguo.
Laureata in Lettere a Torino, segue la scuola pittorica di Felice Castrati. Pittrice essa
stessa, esordisce in letteratura. con una raccolta di versi Fiore (1941) cui seguono
L'autunno (1954) e Giovane é il tempo. La sua vena più autentica é una prosa
narrativa fondata su motivi autobiografici. Dopo alcune prove vicine al neorealismo
(Maria, 1953; Tetto murato, 1957) , il primo libro di rilievo é La penombra che abbiamo
attraversato (1964). Il romanzo è una rievocazione dei luoghi della memoria che la
sensibilità dell’autrice trasforma in sensazioni, paure, spettri, i quali alimentano il
suo immaginario adolescenziale:
Il mio più lontano ricordo è quello di una paura. E della paura più
spaventosa: del nulla. Mi rivedo o meglio so. che mi trovo sulle ginocchia di
qualcuno: una domestica, ma non Ciota. Essa deve voltare le spalle alla luce,
perché sulla parete davanti a me si muove l’ombra appuntita dei suoi piedi
incrociati: forse mi fa dondolare sulle ginocchia. E’ proprio quell’ombra a
riempirmi improvvisamente di terrore. Potevo capire soltanto che era «nulla»,
«nessuno », che «faceva ombra». Molto più tardi ho ricostruito che doveva
essere l'ombra di due piedi.
Un’altra volta ho provato in sogno lo stesso terrore. Mi trovavo in una
stanza vuota, dai muri a calce un po’ scrostati. Anche lì c’erano delle ombre, ma
leggere, come di rami, tremolanti sul muro. Improvvisamente odo uno scroscio
di applausi: ho il gelo nelle ossa, perché «so che non c'è nessuno»!
Una paura molto antica fu quella delle maschere. Mi dibatto fra le braccia
di qualcuno (siamo in città, dai nonni), una persona familiare diventata estranea
per la presenza delle maschere. Le maschere sono facce rigide, inanimate, che
improvvisamente parlano, «guardano », conservando la loro fissità spaventosa.
Sono anch' esse « nessuno» e nello stesso tempo «ci sono ».
Anche i fuochi d'artificio mi atterrivano. Il mondo si scardinava ed ero la
sola ad accorgermene. Urlavo perché anche gli altri capissero, e il fatto che mi
consolavano e tra loro ridevano raddoppiava la mia paura.10
Nel 1969 Le parole tra noi leggere , romanzo di grande successo che ottenne il
premio Strega, indagano il complesso rapporto tra madre e figlio, colto negli snodi
essenziali della crescita e del distacco, dell'affetto e dell'estraneità. Dopo L'ospite
(1973) e La villeggiante (1975), nel 1975 esce Lettura di immagini, libro originale e
interessante, dove la narratrice attraverso fotografie dei primi del secolo, tenta di
afferrare le sfumate realtà delle figure e delle situazioni fissate nelle immagini. Una
giovinezza inventata (1979), rappresenta la rivisitazione , dalla prospettiva della
vecchiaia e in chiave autobiografica, della giovinezza di una donna nella trama di
sentimenti, studi, malinconie, amori e il disagio e le difficoltà della condizione
femminile Il motivo polemico trova, qui un singolare equilibrio stilistico, che
permette alla Romano di modellare il linguaggio così da conferire valore
emblematico alla lotta, intellettuale e insieme interiore, della protagonista per la
propria identità e autonomia. Ed é la conquista di uno stile fatto di razionale misura,
di perizia, di femminile e sensibile compassione, a fare affrontare all'autrice, nel
recente romanzo Nei mari estremi (1987), il tema della malattia e della morte del
marito,
che essa sviluppa
attraverso uno scavo interiore
incombente della morte e della separazione conferiscono
a
toni
cui la presenza
e dimensioni
laceranti.
Più serena meno problematica, nonostante le dure esperienze politiche giovanili, la
prosa di Natalia Levi Ginzburg, nata a Palermo nel 1916 da una famiglia di ebrei
10
Ivi, p. 49.
piemontesi e morta a Roma nel 1991. Dopo la morte del marito - l'intellettuale
antifascista, Leone Ginzburg, ucciso in carcere dai fascisti nel '44- la scrittrice
continua a firmare con quel cognome, anche se, in seconde nozze aveva sposato il
critico Gabriele Baldini. Nei racconti di esordio, composti durante il confino e
firmati con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte (La strada che va in città del
1942), come nei libri dell'immediato dopoguerra (E' stato così, 1947; Tutti i nostri ieri,
1952), é evidente l'adesione
della scrittrice al neorealismo trasferito però
nell'attenzione alla vita intima e ai rapporti familiari. Temi che, apprnelle opere
successive, mescolandosi alla rievocazione delle atmosfere della infanzia e della adolescenza e alla rappresentazione colorita di ambienti e atmosfere. Le voci della sera
(1961), Piccole virtù (1962), Lessico famigliare (1963), Mai devi domandarmi (1970), Caro
Michele (1973) sono vivaci cronache di vita, espresse con una pacata e dimessa
saggezza femminile sempre in bilico tra buon senso e ironia. I toni sommessi, l'
allegra malinconia, la scoperta del senso di piccoli dettagli quotidiani,
l'attaccamento alla tradizione illuministica borghese, costituiscono lo sfondo e
insieme la sostanza di una narrativa in cui la solidarietà familiare e civile diviene il
nucleo centrale di una concezione e di una misura di vita da salvare contro le
insorgenti forze centrifughe.
Al mondo femminile, la Ginzburg
si avvicina più volte,
in particolare nella
ricostruzione storica di La famiglia Manzoni (1985), vista dall'ottica dei personaggi
femminili . Il tono e l'impianto del libro, come di altri scritti attinenti al tema,
sono tuttavia lontani dagli accenti polemici delle rivendicazioni femministe degli
anni '60 e '70 e dai loro programmi, concentrandosi piuttosto sui valori di
educazione, di rispetto, di civiltà reciproci, di cui la donna è portatrice e garante.
Più radicalmente ed empaticamente dalla parte delle donne sono i numerosi libri di
narrativa di Alba de Céspedes (Roma 1911- 1997), che presentano un'ampia galleria di
ritratti femminili, descrivendo la ricerca, da parte delle protagoniste, di una propria
identità contro il conformismo imperante: Concerto (racconti, 1937), Nessuno torna
indietro (1938), Dalla parte di lei (1949), Quaderno proibito (1952), Il rimorso (1964), La
bambolona (1967), Nel buio della notte (1976). Particolare rilievo assume, anche per
gli anni cui fu composto, il primo romanzo, Nessuno torna indietro, dove la de
Céspedes, trasfondendo motivi tratti dalla propria esperienza personale, narra i
dubbi, le incertezze, gli esiti di vita di alcune ragazze - allieve di un collegio romano
gestito da suore- che diventano emblema dello stato d'animo di una generazione
alle soglie del conflitto mondiale. La ricerca espressiva, la riflessione sul tema
riescono, in queste pagine, a tradurre
lo stato di sospensione proprio
dell'adolescenza nel transito metaforico -"la poetica del ponte" é stato definito- da
un momento storico ad un 'altro , dalla condizione di passività della donna alla
stagione della sua autonomia.
La de Céspedes è anche autrice di versi (Le ragazze di maggio, 1970) e di testi teatrali
( Quaderno proibito ,1962)
Una cifra del tutto originale possiede la narrativa di Anna Maria Ortese (nata a Roma
nel 1914), una scrittrice colta e solitaria, che ha saputo tradurre i luoghi e i tempi
della realtà in suggestivi scenari mentali. Gli spettacoli transeunti della vita - "il
meccanismo delle cose che sorgono nel tempo e dal tempo sono distrutte" come
dice lei stessa - assumono, nelle sue pagine, valenze immaginarie e fantastiche che,
superando i confini del razionale e del noto, si inoltrano in spazi metafisici. Le storie
umane, molto umane, che la Ortese racconta, si sviluppano e si ampliano in una rete
di riferimenti e di allusioni che le libera dalla pesantezza documentaristica di tanta
produzione neorealista trionfante le trasforma in emblemi della cecità e della
inesorabilità del destino. Di qui, il travisamento polemico del significato di molte
sue opere.
Se, al loro apparire, nel 1953, i racconti di Il mare non bagna Napoli (pubblicato dalla
Einaudi nella prestigiosa collana dei "Gettoni" diretta da Elio Vittorini), vennero
giudicati (e da molti rifiutati) sulla base di una valutazione contenutista e ideologica
fu perché non si volle o non si seppe valutarne la loro vera sostanza, lontanissima
dai modelli di mimesi e di analisi sociale. Il libro diceva "altro". La città ferita e
lacera, come acutamente
è stato detto, diventa infatti "lo schermo" sul quale
l'autrice proietta ciò che lei stessa ha definito la propria "nevrosi": lo stupore per il
"cupo incanto" della città, il dolore per il suo oscuro destino, l'amore per la vita e
l'orrore per l'irrazionalità del vivere, la memoria del passato e l'angosciata
attenzione ai mutamenti del tempo che ogni cosa
corrompe e trasforma. La
struttura del testo, la sua scrittura "febbrile e allucinata" traducono la condizione di
profondo e sofferto spaesamento dell'Ortese, in cui l'amore per Napoli (questo libro
fu un addio alla città in cui non sarebbe più tornata) si identifica con lo sguardo
sconvolto sulla sua devastazione: come lo sguardo di Eugenia - la bambina dei
"bassi", protagonista del primo, straordinario racconto, Un paio d'occhiali - il giorno
in cui, quasi cieca, si mette gli occhiali e vede per la prima volta la miseria che la
circonda:
Eugenia, sempre tenendosi gli occhiali con le mani, andò fino al portone,
per guardare fuori, nel vicolo della Cupa. Le gambe le tremavano, le girava la
testa, e non provava più nessuna gioia. Con le labbra bianche voleva sorridere,
ma quel sorriso si mutava in una smorfia ebete. Improvvisamente i balconi
cominciarono a diventare tanti, duemila, centomila; i carretti con la verdura le
precipitavano addosso; le voci che riempivano l’aria, i richiami, le frustate, le
colpivano la testa come se fosse malata; si volse barcollando verso il cortile, e
quella terribile impressione aumentò. Come un imbuto viscido il cortile, con la
punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei
terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio intorno all'Addolorata; il selciato
bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo
al cortile, quel gruppo di cristiani cencio si e deformi, coi visi butterati dalla
miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a
torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei
due cerchietti stregati degli occhiali. Fu Mariuccia per prima ad accorgersi che
la bambina stava male, e a strapparle in fretta gli occhiali, perché Eugenia si era
piegata in due e, lamentandosi, vomitava.11
La desolazione di quanto Eugenia vede richiama per certi aspetti i terribili quadri
della miseria partenopea offerti dalle prose della Serao.
In I giorni del cielo e in Silenzio a Milano (1958), si accentuano i caratteri del suo
universo inventivo. A metà tra il saggio e il racconto, questi libri trasferiscono
squarci documentari di estrema esattezza e lucidità in una dimensione miticofantastica che ne innerva e ne amplia il significato: la sostanza misteriosa del mondo,
propria delle favole romantiche alla Novalis e alla Hoffmann, si espande nei fili di
passioni oscure, di visioni e magie, di metamorfosi di oggetti e situazioni, nella
mescolanza dei tempi. Come nell'Iguana (1965), con il personaggio fantastico e
inquietante di una piccola donna - serva, miscela alchemica di animale, elfo ed essere
non umano. Come in Il porto di Toledo (1975), dove passato e presente si avvolgono e
si fondono così che ciascuno diviene l'immagine riflessa dell'altro. Un tema cardine
del romanzo è la riflessione dell’autrice sull’ “Espressività” come tentativo “continuo
e affannato di esprimere l’immagine che l’uomo si è fatto del mondo”. Immagine che
contrappone alla realtà apparente quanto di invisibile e di segreto si deposita nel
suo significato:
Secondo tale avvertimento, che contrastava con tutto ciò che io avevo pensato
finora della Espressività, essa, sebbene ci apparisse solo (chi guardi la Litteratura
caso per caso) un tentativo continuo e affannato di esprimere l'immagine che l'uomo
si è fatta del mondo, e perciò potesse apparire al profano, o superficiale, un semplice
riflesso di tale mondo, era, in realtà, un secondo mondo o seconda realtà, una
immensa appropriazione dell’inespresso, del vivente in eterno, da parte di morituri;
11 A. M. Ortese, Il mare non bagna Napoli, Adelphi Edizioni, Milano 1994, p. 33.
e ciò, non già al solo fine di esprimerlo (questo, un effetto secondario), bensì di
costituirsi, tale inespresso finalmente rivelato, come una seconda irreale realtà; non
tanto irreale, poi, se vedevamo la realtà vera disfarsi continuamente, al pari di un
vapore acqueo, e la realtà irreale dominare l’eterno.
Con ciò, secondo D’Orgaz, ogni volta che mente umana entrava nel mondo
della Espressività, lavorava a nient’altro che la costruzione di un nuovo
continente, o terra, dove, finché sul mondo vi fosse stata la caducità, i naufraghi
avrebbero trovato salvezza, sebbene temporanea. L'umanità, in tale continente,
avrebbe trova pace […].
[…]
L’Espressività non era riflesso del mondo umano, soltanto; era, dietro la sua
apparenza di riflesso, quale a noi si mostrava, un secondo mondo, una seconda
terra: il vero reale; e, davanti a tale mondo reale, il mondo di ogni giorno,
giacente nell'inespresso, non era più che un sogno, una veloce ombra.12
Come Il cardillo addolorato , (1993) incontro tra spirito del Nord e demone
mediterraneo, discesa nei sotterranei della storia, saga di folletti, streghe e
fantasmi, caleidoscopio di epifanie, di incantesimi, di figure, che moltiplicandosi,
cambiano continuamente di segno e di senso, e il cui filo connettivo è il canto
magico del cardillo :il canto dell'usignolo che non si cancella mai dalla mente di chi
lo ha udito.
Emetteva un fioco, dolce, monotono:
Aà! Aà! Aà!
ma simile più a un lamento di creatura «naturale» che a un vero canto (non
aveva, infatti, voce).
12
Il porto di Toledo, Adelphi Edizioni, Milano 1998, pp. 112-113.
«Ma Sasà, che fai! » le gridò ridendo Nodier. «Ah, la Paummella canta pure!
Canta e vola, quando resta sola!»13
Il punto più alto nella narrativa femminile italiana è raggiunto da Elsa Morante, la
cui voce è una delle straordinarie rivelazioni
del Novecento.
L' opera della
scrittrice condensa la sua esperienza del mondo in una messa in scena di affetti,
sentimenti, emozioni assolutamente femminili.
Dotata di eccezionali qualità di narratrice, nei suoi libri - dai primi racconti di Il
gioco segreto (1941), Lo scialle andaluso (1947), ai romanzi, Menzogna e sortilegio
(1948), e L'isola di Arturo (1957), -la Morante proietta, insieme alla fedeltà
alla
letteratura, un bisogno di rapporti intensi drammatici, una fantasia calda e
opulenta, uno spirito romantico e una predisposizione all'incantesimo, che investono
la struttura narrativa tradizionale, svuotandola della funzione di rappresentazione
del mondo oggettivo e piegandola ad esprimere una realtà "altra". Una realtà
fiabesca e remota, fuori del tempo e dello spazio contingente della storia, intrisa di
magia e di superstizione, partorita dai sogni di grandezza di personaggi soli, delusi
e frustrati e nella cui immaginazione esaltata si riflettono, alterati e deformati, i
caratteri della sensibilità moderna: la insoddisfazione esistenziale, il caos interiore, il
bisogno di fuggire nelle zone libere dell'immaginario.
Il valore dei romanzi della Morante - oggi universalmente riconosciuto - sta nella
loro capacità di ritrascrivere il presente in movenze di scrittura folgorante, e di
configurarlo entro una
trama di motivi e suggestioni letterarie: la mitologia
classica, l'epica cavalleresca, le fiabe nordiche, il teatro, il melodramma, la grande
narrativa ottocentesca, francese e russa, la poesia novecentesca (Saba e Penna
soprattutto). La letteratura diviene pertanto, nella scrittrice, l'unico ed estremo
13
Il cardillo addolorato, Adelphi Edizioni, Milano 1993, p. 222
spazio per dar senso al transitorio e al mistero della vita: é la parola infatti a
permettere alle miserie e ai drammi dell’esistente di depurarsi, condensandole in
rappresentazione di figure e eventi, che assumono la forma di rivelazioni assolute,
di fantasmi allucinati, opulenti, salvifici. Il mito, la favola e le invenzioni degli
artisti assurgono a valore di segni pilivalenti del mondo che a tratti, confida agli
uomini qualche suo segreto, altrimenti inaccessibile.
La "menzogna" della letteratura diviene così per lei lo strumento - non logico, non
razionale, ma omologo alla "follia "dell'esistente -, il quale, reinventando il reale in
costruzioni immaginarie ne scopre dimensioni sconosciute .
Nata nel 1912 a Roma - dove trascorre l'infanzia e la giovinezza, scrivendo
precocemente fiabe, brevi poesie - a diciotto anni, per esigenze economiche, inizia a
collaborare a giornali e riviste. Formatasi tra l'avventura "magica" di Bontempelli, la
pittura metafisica di De Chirico e l'esperienza di “ Solaria ”, e nutrita dalle letture di
Joyce e Proust, di Melville, di Saba e di Montale, la Morante rivela presto le proprie
capacità. Sposata
con Alberto Moravia, la cui ampia produzione e notorietà
metteranno in ombra , per un lungo periodo, lo splendido ingegno di lei, nel 1935
scrive il racconto Il ladro di lumi (pubblicato poi nel volume Scialle andaluso). Nello
stesso anno pubblica Il gioco segreto , raccolta di novelle, tra cui, quella che dà il
titolo al volume é un vero gioiello. Si trasferisce ad Anacapri, e poi, durante
l'occupazione tedesca, nella zona di Cassino, dove viene a contatto con il mondo
meridionale, che animerà la parte più rilevante della sua opera. Lavora, nel
frattempo, al romanzo Menzogna e sortilegio, che pubblica nel 1948, vincendo,
assieme a Palazzeschi, il Premio Viareggio. Nel 1952 comincia a scrivere L'isola di
Arturo, che, edito nel 1957, ottiene il Premio Strega. Dopo la separazione da Moravia,
viaggia molto, visitando i paesi europei, la Persia, l'India, la Russia, la Cina,
l'America. . Il romanzo La Storia, del 1974, ha un grande successo di pubblico ma
suscita non poche riserve da parte della critica. L'ultimo libro è Aracaeli, del 1982. Il
diario postumo, Lettere ad Antonio, offre un contributo prezioso per conoscere la
personalità della Morante.
Il primo romanzo, Menzogna e sortilegio, contiene in sé il nucleo della poetica
morantiana quale viene descritta dalla narratrice Elisa, proiezione fantastica,
dell’autrice stessa:
Come vi dissi, in questa casa v’è un territorio nel quale mi fu sempre
concesso di regnare indisturbata; vale a dire, la mia camera. A toglierne le
immagini sacre, i ritratti e i libri, questa camera non è molto mutata dal giorno
che vi entrai la prima volta. Chi la veda, può supporre ancora oggi ch’essa
appartenga a una bambina ordinata, molto studiosa e amante della lettura.
Soprattutto di quelle letture in cui l’esistenza terrestre non è descritta quale si
mostra ogni giorno ai mortali assennati; bensì piena di prodigi, di stravaganze e
di follia. Quasi che il petulante autore, simile più ad un burattinaio ubriaco che
ad un veggente, giudicasse insipido il Creato, e intendesse opporre il proprio
dissonante scompiglio all’ordine musicale della natura.14
“Menzogna e sortilegio” - frutto solitario, estraneo alla cultura e alle tendenze di
quegli anni - si presenta come utilizzazione estrema dei modelli narrativi
ottocenteschi che, con gesto di sfida del tutto consapevole, l'autrice consuma nella
collisione con il flusso molteplice e multivalente della realtà novecentesca. Dice lei
stessa di aver voluto fare, con questo libro, "quello che per i poemi cavallereschi ha
fatto l'Ariosto: "scrivere l'ultimo e uccidere il genere. Io volevo scrivere l'ultimo
romanzo possibile, l'ultimo romanzo della terra, e, naturalmente, anche il mio ultimo
romanzo":
La mia preferenza per libri cosiffatti appare evidente a chi esamini la mia
biblioteca. Quasi tutte le opere che la compongono, benché nate in diversi
climi, appartengono al genere fantastico: le pazze leggende dei Tedeschi vi
14
E. Morante, Menzogna e sortilegio in E. Morante, Opere, Mondadori, Milano 1988, pp. 23-24.
prevalgono, insieme alla fiabesca malinconia scandinava e alle felici epopee
degli antichi, e agli amori orientali.
… Di simile nutrimento io ho vissuto dalla mia fanciullezza fino ad oggi;
ma, per saziarmi, non mi bastava la semplice lettura delle mie fole, la quale anzi
mi lasciava tutta amara e insoddisfatta. Mi sentivo come un cantante fallito che
in silenzio, nella sua camera solitaria, vada leggendo partiture d’opera; e fu di
nuovo il genio della menzogna che venne in mio soccorso.
Dapprima (ero appena una ragazzetta ancora), il mio non parve che un
gioco, o un dilettoso esercizio. Richiusi i miei libri, io mi compiacevo di
architettare, nella fantasia, vicende e storie di mia propria fattura, modellate,
s'intende, sulle mie favole predilette. Or sebbene le trame da me immaginate
variassero secondo i miei umori quotidiani, i protagonisti di esse, invece, eran
sempre simili l’uno all'altro (se non proprio uguali), e quasi congiunti da una
stretta parentela. Naturalmente, si trattava sempre di re, condottieri, profeti, e
gente, insomma, d'altissimo rango. Quando non vestivano un' armatura o un
saio, i miei personaggi indossavano costumi d'insuperabile fasto, e quando non
eran cinti d’aureola, per lo più eran teste coronate.
Ma sotto qualsiasi armatura, o divisa, o gala, si potevan riconoscere in loro
sempre le medesime fattezze; che erano, precisamente, le fattezze a me familiari
dei miei propri parenti, vivi o morti, e di coloro che, pur non essendo uniti a me
da legami di sangue, avevan lasciato nel mio passato un segno profondo, or
d'amore or d'odio. Questo sapermi discendente o affine dei miei eroi mi faceva
partecipe della loro gloria, sebbene io mi tenessi del tutto in ombra, e cioè la
mia propria effige non apparisse mai, sotto nessuna veste, nelle mie
immaginazioni.15
15
Ivi pp. 24-25.
La vicenda è il racconto in prima persona di Elisa che, da adulta, chiusa in casa,
isolata dal mondo, ripercorre con la memoria la storia della propria famiglia,
autoannientatasi nel vagheggiamento di impossibili reami di grandezza, di illusori e
mistificati amori e nel culto cupo di idolatrie mortuarie. Sono questi i riti sacrali e
sacrificatori con i quali i protagonisti, come in precedenza i ragazzi di Il gioco
segreto , che costituisce il primo nucleo del romanzo, rimuovono la profonda paura
della realtà, nascondendosela e nascondendosi
ad essa, dietro una continua
esibizione di pose teatrali, di finzioni, di inganni mediante cui si elevano all'altezza
dei loro sogni: "come se fossero re principi di un dramma balocco " ha scritto il
critico Cases. Essi vivono la vita come un gioco magico e stregato, come un impasto
di recitazione e cerimoniale, di menzogna e sortilegio.
Io ero, difatti, venuta in possesso dell’ultima e più importante eredità lasciatami dai
miei genitori: la menzogna, ch’essi m’avevano trasmessa come un morbo. […]
Ma farsi adoratori e monaci della menzogna! fare di questa la propria
meditazione, la propria sapienza! rifiutare ogni prova, e non solo quelle
dolorose, ma fin le occasioni di felicità, non riconoscendo nessuna felicità
possibile fuori del non-vero! Ecco che cosa è stata l'esistenza per me! ed ecco
perché mi vedete consunta e magra al pari dei ragazzetti mangiati dalle
streghe di villaggio. Essi dalle streghe, e io dalle favole, pazze e ribalde
fattucchiere.
E sebbene voi dobbiate aspettarvi, o lettori, di conoscere attraverso questo
libro più d’un personaggio contagiato dal nostro morbo fantastico, sappiate che
il malato più grave di tutti lo avete già conosciuto. Esso non è altri se non colei
che qui scrive: son io, Elisa.16
La “menzogna” che la narratrice protagonista trasforma da mistificazione o
autoesaltazione in metamorfosi del reale, sciatto e piatto, in grandiose visioni
16
Ivi, pp.22-23.
immaginarie dove i protagonisti si trasformano in eroi, in fantasmi, in maschere di
suggestiva fascinazione che configurano il “sortilegio” della sua scrittura.
E' la scrittura infatti a far divenire il dramma dei suoi genitori - vittime di fantasie
da feuilleton , nei motivi e nei personaggi regali e magnifici di una leggenda in cui
il velo della menzogna (la menzogna loro, la menzogna che é il racconto
trafigurante di Elisa,) diviene il sortilegio capace di scavare nei meandri della realtà
e di tradurre in fantasmi potenti i suoi insensati percorsi. Scrittura dunque come
esorcismo, come lavacro purificatorio dai miraggi ingannatori della vita.
Nella narrazione, il piano reale e quello mentale e psichico slittano continuamente
l'uno su l'altro così da dar vita a un gioco, raffinato e sottilissimo, di partecipazione
e di demistificazione, identificazioni e repulsioni, amore e odio, sofferenza ed
ironia che coinvolge tanto chi scrive quanto coloro di cui essa scrive:
Al declinare della notte, io cado spesso in un sonno leggero; […] Dal sonno
mi riscuotono voci familiari che, accosto ai miei orecchi, col tono incalzante di
quando, ai tempi della scuola, mi si svegliava alla mattina presto, chiamano:
Elisa! Elisa! Ma al mio primo aprir gli occhi, mi par di udire un debole strido di
spavento e di intravvedere, nelle prime luci del giorno, una frotta di esseri
effimeri che fuggono confusamente dalla stanza, come uno sciame di tignole all'
aprirsi d’un armadio polveroso.
Io mi sento punger da un’angoscia sottile e perfida; e non di rado, piango
sulla mia strana solitudine, e invoco i nomi delle persone che amavo.
… Forse, ricostruendo così tutta la nostra vicenda vera, io potrò,
finalmente, gettar da un canto l’enigma dei miei anni puerili, e ogni altra
familiare leggenda. Forse, costoro son tornati a me per liberarmi dalle mie
streghe, le favole; attribuendo a se medesimi, e a nessun altro, la colpa d'aver
fatto ammalare di menzogna la savia Elisa, voglion guarirla.
Ecco perché ubbidisco alle lor voci, e scrivo: chi sa che col loro aiuto io non
possa, finalmente, uscire da questa camera.17
Di qui i binari incrociati e a chiave del romanzo: quando la sua lettera
sembra impegnata a restituire gli accadimenti oggettivi, il senso si trasferisce
oltre la vicenda concreta, oltre i fatti e il destino dei personaggi, oltre il tempo
e gli spazi oggettivi, nel mondo illimitato e senza tempo dell'inconscio, della
memoria, dell' immaginario. Quando il tema pare essere il mito (inteso come
incontro tra valenze interiori del personaggio e forme, arcaiche e primitive di
configurazione del mondo), questo si rivela metafora della realtà: l'aspra realtà
della società meridionale- e non solo di quella- la quale spinge a fuggire, a
cercare scampo in un "altrove" che per la scrittrice non è che il regno
trasfigurante della finzione poetica. … Forse, ricostruendo così tutta la nostra
vicenda vera, io potrò, finalmente, gettar da un canto l’enigma dei miei anni
puerili, e ogni altra familiare leggenda. Forse, costoro son tornati a me per
liberarmi dalle mie streghe, le favole; attribuendo a se medesimi, e a nessun
altro, la colpa d'aver fatto ammalare di menzogna la savia Elisa, voglion
guarirla.
Ecco perché ubbidisco alle lor voci, e scrivo: chi sa che col loro aiuto io non
possa, finalmente, uscire da questa camera
Io mi sento punger da un’angoscia sottile e perfida; e non di rado, piango
sulla mia strana solitudine, e invoco i nomi delle persone che amavo.
… Forse, ricostruendo così tutta la nostra vicenda vera, io potrò,
finalmente, gettar da un canto l’enigma dei miei anni puerili, e ogni altra
familiare leggenda. Forse, costoro son tornati a me per liberarmi dalle mie
streghe, le favole; attribuendo a se medesimi, e a nessun altro, la colpa d'aver
fatto ammalare di menzogna la savia Elisa, voglion guarirla.
17
Ivi, pp. 33-34.
Ecco perché ubbidisco alle lor voci, e scrivo: chi sa che col loro aiuto io non
possa, finalmente, uscire da questa camera.18
Sullo stesso intreccio di passato di favola e di presentimenti di morte, di illusione e
di svelamento si sviluppa il secondo romanzo morantiano L'isola di Arturo (1957).
L' infanzia di Arturo in un' isola favolosa ( Procida), con l’avventurosa scoperta del
territorio, la luminosità magica e quasi sacrale della natura mediterranea, la
fascinazione del mare, animano l’atmosfera incantata in cui Arturo cresce.
Allora, i miei occhi e i miei pensieri lasciavano il cielo con dispetto,
riandando a posarsi sul mare, il quale, appena io lo riguardavo, palpitava verso
di me, come un innamorato. Là disteso, nero e pieno di lusinghe, esso mi
ripeteva che anche lui, non meno dello stellato, era grande e fantastico, e
possedeva territori che non si potevano contare, diversi uno dall’altro, come
centomila pianeti! Presto, ormai, per me, incomincerebbe finalmente l’età
desiderata in cui non sarei più un ragazzino, ma un uomo; e lui, il mare, simile a
un compagno che finora aveva sempre giocato assieme a me e s’era fatto
grande assieme a me, mi porterebbe via con lui a conoscere gli oceani, e tutte le
altre terre, e tutta la vita!19
L’idolatria per il padre, il culto della madre morta sono le altre componenti del mito
archetipico dell'infanzia, e della sua caduta, sulle quali si struttura il libro.
La mia infanzia è come un paese felice, del quale lui è l’assoluto regnante!
Egli era sempre di passaggio, sempre in partenza; ma nei brevi intervalli che
trascorreva a Procida, io lo seguivo come un cane. Dovevamo essere una buffa
coppia, per chi ci incontrava! Lui che avanzava risoluto, come una vela nel
vento, con la sua bionda testa forestiera, le labbra gonfie e gli occhi duri, senza
18
Ivi, pp. 33-34.
19 E. Morante, L’isola di Arturo in Ivi, p. 1147.
guardare nessuno in faccia. E io che gli tenevo dietro, girando fieramente a
destra e a sinistra i miei occhi mori, come a dire: “Procidani, passa mio padre!”
20
La trasfigurazione mitica del mondo si contrappone alla rugosità del vivere e
rappresenta insieme la beatitudine fanciullesca del contatto libero e spontaneo con
la natura e lo stadio fantastico e prelogico della coscienza:
Io, nella mia felicità naturale, scansavo tutti i miei pensieri dalla morte,
come da una impossibile figura di vizi orrendi: ibrida, astrusa, piena di male e di
vergogna. Ma nello stesso tempo, quanto più odiavo la morte, tanto più mi
divertivo e mi esaltavo a far prove di audacia: anzi, nessun gioco mi piaceva
abbastanza, se non c’era il fascino del rischio. […]
Tutta la realtà mi appariva limpida e certa […]. 21
La maturità - arrivata di lì a poco con l'amore, con il sesso, con la scoperta della
squallida identità della figura paterna, con la conoscenza della vita vera, delle sue
lotte e disastri ( la seconda guerra mondiale) – dissolverà il sogno, depositandolo
nella memoria e nella nostalgia, dove esso vivrà come momento utopico ed
anarchico non solo dell'infanzia di Arturo ma dell'infanzia dell'uomo. Di qui il
carattere simbolico del romanzo.
Gli elementi realistici del racconto - la vita dell'isola e il mondo popolare napoletano
- si miscelano con l'atmosfera fiabesca che avvolge l'esistenza del ragazzo, le sue
scorribande, i personaggi che gli stanno intorno e soprattutto il paesaggio. Orfano,
solo, libero come un Adamo bambino e il personaggio "Venerdì" di Robinson Crusoé
o
un cavaliere leggendario, Arturo- che porta il nome di una stella della
costellazione del Boote e del re del ciclo brettone, ed é forse l'ultimo testimone di
un mondo solare e senza ombre - diviene spettatore e creatore insieme di una
20
21
Ivi, p. 973.
Ivi, pp. 980.
scenario incantato di immagini, nel cui linguaggio egli dà nome a tutto ciò che
vede:
Eravamo d’inverno, e quel giovedì un piovasco freddo annebbiava Procida e il golfo.
In giornate simili, così rare da noi, l’isola pare una flotta che ha ripiegato le sue mille
vele dipinte e viaggia su correnti senza rumore, verso gli Iperborei. I fumi dei
piroscafi di linea che fanno il solito giro quotidiano, e i loro lunghi fischi attraverso
l’aria, sembrano segnali di rotte misteriose, fuori dalla tua sorte: passaggi di
contrabbandieri, di cacciatori di balene, di pescatori eschimesi: tesori e migrazioni!
Questi segnali ti portano un’allegrezza d’avventuriero, e a volte, invece, uno
sgomento, come fossero luttuosi addii.22
Arturo che narra sembra quasi raccontare a se stesso una favola di cui egli è, nello
stesso tempo, eroe mitico, destinatario e voce: essa é il grembo di sua madre, il suo
paradiso, e la sua illusione. Illusione fascinosa, tra simbologia primordiale, leggenda
medievale e racconto corsaro, che immette il protagonista- affabulatore in una
dimensione senza tempo e senza storia in cui è totalmente identificato.
Divenuto adulto, Arturo dovrà abbandonare i suoi sogni e lasciare l’isola: l’ eldorado
in cui egli aveva regnato come un principe o come un re.
Le pagine che descrivono la partenza di Arturo da Procida, e che richiamano alla
memoria del lettore l’addio di ‘Ntoni ad Aci-Trezza, esprimono con estrema perizia
psicologica e letteraria l’inesorabile metamorfisi del protagonista da ragazzo a uomo
e l’amaro rimpianto del passato:
Qua e là, per il cielo stracciato, erano visibili le piccole stelle dicembrine, e un’ultima
falce di luna spargeva un pallidissimo barlume di crepuscolo. Il mare, steso dalla
pioggia senza vento, oscillava appena assonnato e monotono. E io, avanzando lungo
il mare in quel gran de mantello, mi sentivo già una specie di masnadiero, senza
casa, né patria, con un teschio ricamato sulla divisa!
22
Ivi. 1025.
[…] Se, almeno, fosse durato sempre il presente inverno, malaticcio e
smorto,
sull’isola!
Ma
no,
anche
l’estate,
invece,
sarebbe
tornata
immancabilmente, uguale al solito. Non la si può uccidere, essa è un drago
invulnerabile che sempre rinasce, con la sua fanciullezza meravigliosa. Ed era
un’orrida gelosia che mi amareggiava, questa: di pensare all’isola di nuovo
infuocata dall’estate, senza di me! La rena sarà di nuovo calda, i colori si
riaccenderanno nelle grotte, i migratori, di ritorno dall’Africa, ripasseranno il
cielo... E in simile festa adorata, nessuno: neppure un qualsiasi passero, o una
minima formica, o un infimo pesciolino del mare, si lagnerà di questa
ingiustizia: che l’estate sia tornata sull’isola, senza Arturo! In tutta l’immensa
natura, qua intorno, non resterà neppure un pensiero per A. G. Come se, per di
qua, un Arturo Gerace non ci fosse passato mai!
[…] Il fuoco di quella infinita stagione puerile mi montò al sangue, con una
passione terribile che quasi mi faceva mancare. E l’unico amore mio di quegli
anni tornò a salutarmi. Gli dissi ad alta voce, come se davvero lui fosse li
accosto: - Addio, pà.
[…] Il piroscafo era già là, in attesa. E al guardarlo, io sentii tutta la
stranezza della mia tramontata infanzia. Aver veduto tante volte quel battello
attraccare e salpare, e mai essermi imbarcato per il viaggio! Come se quella, per
me, non fosse stata una povera navicella di linea, una specie di tranvai; ma una
larva scostante e inaccessibile, destinata a chi sa quali ghiacciai deserti!
[…] E rimasi col viso sul braccio, quasi in un malore senza nessun pensiero,
finché Silvestro mi scosse con delicatezza, e mi disse: - Arturo, su, puoi
svegliarti.
Intorno alla nostra nave, la marina era tutta uniforme, sconfinata come un
oceano. L’isola non si vedeva più.23
23
Ivi, pp. 1364-13675; pp.1368-1369.
L’isola e l’innocenza lentamente scompaiono all’orizzonte fino a essere
inghiottite dal mare. Non ci sono più. Non ci sono più nella realtà ma esse
continuano a vivere nell’immagionario di Arturo e riprenderanno a essere
presenti e vere quando, elaborato il lutto della perdita, a lui verrà concesso di
trasformare le figure della memoria nelle figure autonome della scrittura dove
il sublime miraggio dell’infanzia si metaforizza in una straordinaria invenzione
letteraria.
Se Lo scialle andaluso (1917) - il racconto anteriore a questo romanzo e uno dei più
belli della narrativa della Morante - nel rapporto tra madre e figlio anticipa la
situazione di Arturo, il motivo utopico e anarchico ritorna potenziato in quella
singolare raccolta di poesie, di canzoni (più un atto unico), pubblicata nel 1968 con il
titolo Il mondo salvato dai ragazzini. Il rifiuto morantiano della società, come luogo
di alienazione istituzionalizzata, e della storia come spettacolo grottesco e
incomprensibile, trova qui il suo risarcimento nella ribellione dei diseredati, dei
ribelli, degli ingenui, dei "ragazzini" E’ un momento di chiarificazione ideologica
che aiuta a comprendere La storia (1974). Questo libro ha suscitato polemiche spesso
aspre tra chi lo ha apprezzato per i suoi caratteri di popolarità e di mimesi del reale
e chi lo ha denigrato per la sua struttura tradizionale. Certamente la narrazione delle
vicende drammatiche di una famiglia romana, durante e dopo il secondo conflitto
mondiale, manifesta nella scrittrice la volontà di riagganciarsi al filone di popolarità
e di coralità della letteratura realistica degli anni '45-'50 e spiega l'interesse dei
lettori verso un'opera che riproponeva alla loro attenzione una esperienza nella
quale essi potevano riconoscersi e di cui potevano sentirsi parte. La sostanza del
romanzo - come ancor di più la triste storia di Armando, il protagonista dell'opera
successiva e ultima del 1982, Aracoeli - non permette di scorgere in esso alcuna
traccia di un percorso diverso, al di là degli apparenti riferimenti della trama. . Sia
pure lontani dalle magiche invenzioni precedenti e costruiti su temi più concreti e
più immediatamente riconoscibili, questi romanzi manifestano sempre - e forse
ancor di più - la estraneità profonda della scrittrice alla dimensione della storia. Essi
rivelano la radicale sfiducia della Morante nella razionalità e conoscibilità degli
eventi, la sua radicata convinzione che un muro divide le ragioni e le giustificazioni
che molti attribuiscono loro dall'inesorabile quanto impenetrabile necessità della
storia, dal suo rovinare sui derelitti, sui poveri, sui semplici, dal suo perenne
presentarsi con il volto enigmatico di una sfinge.
Il disagio psicologico ed emotivo dinanzi a quel crogiolo indifferenziato che è la
moderna società di massa ha sviluppato in molte autrici l’esigenza di rintracciare le
proprie radici, di ritrovare la propria identità nelle tradizioni, storiche e culturali,
dimenticate, della terra di origine. Ed è nell’esercizio della memoria che si
distinguono le voci più valide e persuasive del romanzo femminile successivo alla
Morante: da Strade di polvere (1987) di Rosetta Loy ad Althénopis (1981) di Fabrizia
Ramondino, da Tra le mura stellate (1991) di Gina Lagorio a Passaggio in ombra (1995)
di Teresa di Lascia.
Nel libro della Loy rivive l’atmosfera chiusa e cupa delle valli piemontesi dove si
affollano figure ambigue e intriganti. Le Strade di Polvere sono le strade del destino,
misterioso e oscuro, percorse dai componenti di una famiglia monferrina , la cui saga
è il tema del romanzo. La vicenda abbraccia il periodo che va dalla caduta di
Napoleone alle guerre di indipendenza ed è la rievocazione memoriale e fantastica
della vita di un paese povero, funestato da carestie, morti, epidemie e calamità
naturali. In questa cornice si intersecano e si intrecciano esperienze individuali dei
protagonisti e quelle collettive intorno a cui la scrittura sfumata e seducente
dell’autrice crea un’atmosfera di favola e magia.
Una delle pagine più drammatiche – dove l’influenza dantesca si fonde con
l’atmosfera infernale di certi dipinti di H. Bosch – è quella in cui si descrive
un’inondazione che nella sua furia distruttiva travolge e sconvolge la comunità:
“Ma il vero protagonista di quella notte fu Gavriel. Organizzò i soccorsi, fece
accendere i fuochi, radunò le bestie che vagavano nella campagna e tirò fuori quelle
imprigionate dal fango piantandosi largo sulle gambe, le mani sanguinanti per le
corde. Camminò con l’acqua alla vita per portare in salvo vecchi e bambini, donne
che piangevano alle finestre.. Si fece legare con una fune e annaspando e battendo le
gambe portò in salvo la Rosetta del Fracin che non voleva staccarsi dal comignolo di
casa mentre l’acqua già bagnava le prime tegole. La prese sulla schiena e lei gli si
avvinghiò come lui gli aveva ordinato e insieme passarono attraverso la corrente che
trascinava tronchi d’albero, travi e sterpi, animali morti che alla luce dei lampi
assumevano le forme più obbrobriose. Intorno tutti gridavano e sembrava a ogni
momento che Gavriel dovesse sparire in quelle onde di fango, invece sempre
riappariva con la Rosetta afferrata ai capelli, il corpo di lei che si abbandonava sopra
il suo.
Quella notte Gavriel lo videro dappertutto. Era dalla parte dello stradone che tirava
fuori le bestie e giù alla chiusa a prendere la barca per andare a Braida dove l’acqua
arrivava al primo piano … e quando Gavriel ripese i remi vide passare fuori il cortile
una barca lunga e stretta. In quella barca sedevano una donna e un bambino mentre
l’uomo era in piedi e avanzava lento e solenne con una lunga pertica. Era il Gran
Masten (nonno del personaggio, ndr) vestito ancora come nel ’93 con il codino e il
tricorno, ma Gavriel non lo riconobbe e quando fu fuori dal cortile la barca non si
vedeva più mentre l’acqua vorticava spaventosa.
Fu allora che udì vicinissima la voce, Angirmà, diceva, Angirmà, che vuol dire
ragazzo che si incanta con le parole fatate. …
Fu quella parola, ripetuta vicinissima al suo orecchia, a salvarlo. … e a Gavriel la
lacrime avevano chiuso la gola … E improvvisamente aveva capito che il
traghettatore ormai lontano era il Gran Masten … venuto perché lui, Gavriel, non
doveva morire.”24
Nel percorso della memoria si distingue anche Althénopis 25 (1981) di Fabrizia
Ramondino. La sua scrittura è tra le più ricche e vivaci per l’evocazione di suoni e
voci e per l’intensità e varietà dei colori che incantano la protagonista:
“I colori a me familiari erano il rosa, il verde, il bruno, il giallo, anche l’azzurro, mai il
nero o il bianco. Talora il rosso, ma mai quel rosso col nero. E mai l’oro! L’oro mi
pareva il sommo del segreto, e del male, anche perché non sapevo leggere e
compitavo a stento le lettere in oro del messale.”26
In questo romanzo l’autrice rievoca la sua libera e fantasiosa adolescenza nel paesino
partenopeo di Santa Maria del Mare , dove la famiglia era sfollata, durante la guerra
e dove a emergere sono quasi esclusivamente figure di donne: donne
apparentemente sonnolente o stravaganti, ma forti, fertili, dotate di una generosa
volontà di vivere e di prodigarsi per gli altri. Particolarmente efficace è il ritratto
della nonna che, per alcuni aspetti, rievoca la carducciana nonna Lucia. Anche in
questo brano è l’esplosione dei colori a creare come un alone magico di luce e di
fascino intorno alla figura della donna:
“Era sempre vestita di nero, ma quando passava per la piazza di Santa Maria del
Mare, come fiamme d’inferno i colori le guizzavano intorno, dei gialli, dei viola,
perfino talora dei rossi e dei verdi; non portava bracciali, eppure bagliori dorati
24
Rosetta Loy, Le strade di polvere, Torino 1995, pp. 88-90.
Althénopis è il nome che i tedeschi avevano dato a Napoli durante l’occupazione. Delusi nel
vederla, la chiamarono althénopis, cioè “occhio di vecchia”.
26 F. Ramondino, Althénopis, Torino 1981, p. 6
25
sembravano splenderle intorno ai polsi. Camminava eretta, rapida, con i grandi
capelli rialzati oscillanti: impeto e altezza; sotto la gonna nera si profilava elegante la
gamba fino alla coscia; la veste era scollata sul petto magro, arrossato, un largo
nastro di velluto nero le fermava le arterie agitate del collo.
E il barbaglio di altri colori sontuosi a lei dintorno nella stanza buia … splendevano
le pezze di damasco…damaschi gialli, rosa, rosso cardinale, perfino aranciati,
guarniti di passamani ricchissimi…
Bagliori d’inferno, di lusso e lussuria attorno alla povera donna.”27
La tragica situazione dello sfascio bellico e postbellico di Napoli è quella in cui si
forma il carattere del personaggio e quella in cui prendono corpo i suoi complessi
rapporti con il variegato e molteplice ambiente che la circonda. Particolarmente
ambiguo è il legame che la unisce alla madre.
La madre, vissuta come una figura esteriore negli anni dell’infanzia e
dell’adolescenza, a cui la figlia aveva sempre rivolto uno sguardo distratto e non
curante, gradualmente si trasforma in un’immagine profonda di cui la protagonista
sente il bisogno di ricercare i segreti e il destino.
E il tema di un’infanzia, intensa e fragile, vissuta sullo sfondo della emarginazione e
dell'esilio, tornerà successivamente, nell'atmosfera sottile e incantata dei dieci
racconti di Storie di patio del 1983 e di Un giorno e mezzo del 1988, ambientati
sempre a Napoli: la Napoli dell’adolescenza, il mito della gloria trascorsa di capitale
di un regno che fu, il fascino di una nobiltà decaduta e folle, il rimpianto di una
cultura sparita, si traducono nella segreta ossessione che permea i ricordi e la
fantasia della narratrice.
Nel Passaggio in ombra opera postuma di Mariateresa Di Lascia (Premio Strega nel
1995)27
Ivi, p. 5.
l’autrice rievoca il proprio passato e le vicende della sua famiglia meridionale.
Vicende dominate dall’ipocrisia, dai pregiudizi, dall’ostilità degli uni verso gli altri
sullo sfondo di un Sud deserto e ossessivo
Sola come un esule, senza certezze, priva di legami, estranea alla realtà che la
circonda, dopo la morte della prozia che si era presa cura di lei bambina, Chiara, per
non arrendersi alla solitudine e alla disperazione, che la stanno trascinando nella
follia, trova rifugio nell’esercizio della memoria. E con la memoria ricompone la sua
vita di adolescente e poi di donna, che si intreccia con il destino dei suoi parenti e
dei suoi amici, tanto da delineare, attraverso un linguaggio denso e allo stesso
tempo limpido e sicuro, una sorta di saga familiare. La forza di una scrittura che non
lascia detriti e depositi, e la sapiente costruzione narrativa fanno di questo romanzo
un tassello rilevante nella letteratura italiana del Novecento.
Passaggio in ombra, per alcuni tratti, non può non rievocare Menzogna e sortilegio:
ad esempio per la funzione salvifica della scrittura come bisogno assoluto di
ricostruzione e preservazione dell’io narrante dai mostri atroci che ne assediano la
fantasia. Quasi motivo musicale, il montaggio esperto e abile dei ricordi funge da
raccordo profondo della molteplicità dei casi, degli eventi, dei pensieri e dei dolori
dei personaggi, in primis delle due straordinarie figure femminili, - lì Elisa, qui
Chiara - .dalla cui tormentata esperienza si sdipana il filo della narrazione che in
molti momenti arriva ad assumere un valore simbolico.
Nella casa dove sono rimasta, dopo che tutti se ne sono andati e finalmente si è fatto
silenzio, mi trascino pigra e impolverata con i miei vecchi vestiti addosso, e le scatole
arrampicate sui muri scoppiano di pezze prese nei mercatini sudati del venerdì. (…)
Hanno cercato di convincermi in molti a lasciare questa casa, perché è piccola e
affogata e, quando mi viene l’asma, rischio sempre di morire davanti alla finestra
aperta, ma io non do ascolto a nessuno, e penso che è inutile preoccuparsi di ogni
cosa: la morte verrà quando verrà e nessuno ci potrà fare niente. Mi porteranno via ,
per queste strette scale dei palazzi moderni, e avranno un gran da fare per svuotare
tutto il ciarpame che è stato la mia vita. (…)
Ho vissuto in ogni città di questo paese e non ho potuto fermarmi mai inseguita
com’ero dai mille mostri atroci della mia fantasia. Sono andata pellegrina di strada in
strada, di casa in casa, cambiando pure i bar dove mi piaceva prendere il caffè della
mattina, perché non trovassero le mie tracce. Le tracce dei miei racconti di
principessa esule su questa terra senza anima (…)
La sera mi siedo sul balconcino della camera da letto, (…) e guardo sulla strada
stretta e solitaria dove anche gli alberi non vogliono crescere. Cerco di respirare e di
non farmi sorprendere dalle voci e di respingere le presenze che, prontamente, mi si
animano attorno, attratte da un richiamo che origina in me, e, tuttavia mi è
sconosciuto.
Infine, quando non c’è più un punto della stanza e dell’orizzonte dove possa volgere
lo sguardo senza che si facciano incontro con il carico delle loro storie, piango senza
passione e senza furore, arresa ai miei ricordi come una cittadella dai propri
assalitori.
Ci sono tutti: in questa casa senza aria e senza luce, io li riconosco uno a uno, anche
quelli che non vidi mai neppure una foto; e gli amici degli amici che si sono dati la
voce, e popolano la carta da parati a fiori beige che ricoprono i muri, e proiettano la
loro ombra come in un grande cinema.
(…) Il bisbiglio cresce come un concerto di cicale d’agosto, in un attimo occupa tutta
la stanza ed io divento un fiore, un albero, un filo d’erba; o forse sono solo la nuda
terra che hanno calpestato o l’acqua sorgiva che hanno bevuto.
Ora, finalmente torna il tempo delle fantasie e del mio canto di sirena senza coda
(…).28
28
M. Di Lascia, Passaggio in ombra, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 7-9.
Fitto di nomi di donne è il panorama letterario degli ultimi decenni: esse hanno
urgenza di scrivere i propri libri, le proprie storie come vogliono che siano
raccontate, dal loro punto di vista e con una scrittura che si fa sempre più autonoma
dai modelli maschili assumendo andamento e sostanza propri. A leggerli all'inizio
sono soprattutto donne ma presto anche gli uomini hanno dovuto fare i conti con
una narrativa che stava modificando i connotati della cultura. Questa produzione è
troppo recente e parla troppo di noi, per poter essere giudicata con criteri
oggettivi. Quello che si può fare in questa sede, è presentare le varie personalità e le
loro opere .
Al di là di un ordine esteriore di tempi e di scuole, emerge quasi sempre, nella
produzione femminile contemporanea
l'esigenza di aderire più intimamente ai
problemi, alle paure, al disinganno di un'epoca presentandoli dalla prospettiva e con
voce femminili.
La stessa disponibilità della donna ad accettare la frattura tra passato e presente, il
suo coraggio di vivere senza simulazioni e senza mistificazioni la crisi dei modelli
storici e culturali tradizionali, cogliendone i passaggi, più complessi ed esemplari,
nelle dinamiche interiori e affettive, si ritrova in Madre e figlia (198O) di Francesca
Sanvitale e più tardi, anche se con minore efficacia, in La cattiva figIia (1990) di
Carla Cerati. Entrambi i libri offrono una testimonianza personale, intima e sofferta
della frattura, psicologica e intellettuale, tra il mondo delle figlie e quello delle
madri. Il romanzo L' amore molesto (1992) di Elena Ferrante riprende il medesimo
tema svolgendolo nella chiave di una nevrosi ossessiva in cui la figura della madre
si identifica con la malattia della protagonista e con la angosciante immagine di
Napoli.
Alle vicende complesse e poliedriche, che hanno accompagnato la dittatura, la
devastazione della guerra e il difficilissimo riassesto, si ispira Luisa Adorno nella
bella rimemorazione della giovinezza pisana di Stanze dorate (1985), frutto di una
felice sintesi di dimensione privata e orizzonte pubblico. In un'altra tonalità ma con
un significato non meno rilevante, la liberazione dall'insidia di un contenutismo
psicologico e personale si era rivelato, già , in questa narratrice in L'ultima provincia
(1983) Grazie al distacco consapevole di chi sa che sta raccontando una storia, la
rappresentazione di una vicenda familiare meridionale acquista in questo libro, toni
leggeri e sfumati. Il morbido disincanto di queste pagine si converte nella tenera
amarezza con cui la vicenda del primo romanzo prosegue in quel piccolo gioiello
che è Arco di Luminara (1990). La disposizione affettiva, la sfumata ironia dell’autrice
– protagonista verso la famiglia (sua e dei suoi suoceri) – di cui il ruolo tradizionale
l’ha costretta a farsi carico, nel sacrificio di aspirazioni diverse – offre un modello
dell’inclinazione femminile a vivere l’esistenza, e a pagarne il prezzo, fuori dalle
categorie sistematici e giudicatrici con cui l’uomo si allontana e si difende dalla vita.
In tal senso, una discreta prova ha offerto nel 1991 Susanna Tamaro con Per voce sola,
in cui riusciva a prestare la propria voce agli altrui, muti dolori.
Attraverso figure stravaganti e insolite, ambienti e spazi indefiniti che potrebbero
essere Trieste o un qualsiasi posto della Venezia Giulia o dell’Austria – l’opera di
Giuliana Morandini (I cristalli di Vienna 1978; Ricercare Carlotta 1980; Caffè Specchi
1983) rivisita con una fantasia attraversata dall’esperienza psicoanalitica, e da una
prospettiva ormai estranea e disincantata, il mondo mitteleuropeo, con la sua
mescolanza di razze, di lingue, di costumi, con le sue memorie storiche, con la sua
tradizione di vita e di cultura.
In questi romanzi la storia travagliata e difforme del nostro paese, dal livello esterno,
oggettivo, si trasforma in rimemorazioni, ombre e fantasmi che rivelano aspetti
oscuri e momenti ignoti alle grandi sintesi ideologiche e teoriche. E’ il tessuto
sinuoso e sottile di alcune narrazioni ad amplificare il senso degli eventi e attivare
una dimensione profonda dei trapassi e delle modificazioni del mondo.
Il filtro della memoria ha funzionato spesso come necessario distacco da un’empatia
emotiva con la materia narrata, e ha condotto a una resa stilistica più limpida e
ferma. E’ stato il raffinamento dei procedimenti espressivi a permettere che,in alcuni
casi, lo scenario femminile arrivasse a configurarsi come un “altrove”, in cui l’ordine
apparente e quotidiano delle cose si squaderna, e irrompono forme inconsuete e
latenze perturbanti. In Verso Paola (1991), di Francesca Sanvitale, ad esempio, la
focalizzazione diretta sul personaggio, durante un viaggio da Bolzano in Calabria, fa
assumere a ciò che egli guarda il medesimo ritmo, inquieto e spezzato, delle sue
sensazioni, dei suoi ricordi.
Il sistema garantito delle conoscenze e delle certezze , in molti di questi libri, si
dissolve proiettando sul volto dell’esistente ombre che ne moltiplicano i sensi ene
rendono ambigue le epifanie. E’ come se qui lo spazio tra il pensiero e la pagina si
accorciasse, e questa venisse investita dal respiro più ampio prodotto dall’innata
disposizione delle donne verso le regioni del fantastico e del misterioso. E questo, a
mio avviso, è stato l’esito più rilevante della letteratura femminile italiana degli
ultimi decenni. Carica, infatti, di una forte tensione trasgressiva e innovatrice,
attenta ai livelli della realtà più sottili e inesplorati, aperta alle suggestioni che
provengono dall’intimo rapporto e dalla lunga consuetudine con la dimensione
interiore, essa ha prodotto luoghi e figure deroganti dal regime mentale maschile, e
ha offerto delle più stimolanti sollecitazioni a svecchiare uno schema troppo
rigidamente razionale di lettura e di definizione del mondo.
Di questo itinerario, una prova persuasiva è offerta da Paola Capriolo
nell’affascinante racconto Il Gigante (nella raccolta La grande Eulalia del 1998) e, con
maggiore sicurezza, nel romanzo successivo, Il doppio regno (1991). Pur con obblighi
evidentissimi verso la grande letteratura novecentesca (in particolare Kafka e
Borges) – ma c’è da augurarsi che in avvenire ancora tanti di questi obblighi vengano
contratti – non c’è dubbio che nei testi della Capriolo è la forza trasformatrice della
scrittura a far assumere alla nostra condizione esistenziale di solitudine, di paura e di
insicurezza le forme allegoriche, gli spazi simbolici di una raffinata invenzione
mentale – tra visionario, onirico e psichico – di forte suggestione.
Se Clara Sereni con Casalinghitudine (1987) e Manicomio primavera ( 1989) e Carla
Cerati con Un amore fraterno(1973) e Un matrimonio perfetto (1975) si mostrano più
attente agli aspetti e ai problemi dell'esistenza femminile, l'unica opera di Maria
Teresa Di Lascia, (Passaggio in Ombra , Premio Strega 1995) si presenta come la
ricostruzione fantastico- memoriale di una saga familiare. Lo stile limpido, la finezza
introspettiva, la capacità di intrecciare il destino di una donna alla vita di una
comunità paesana e meridionale, lo sforzo della protagonista di sottrarsi al dolore e
all'incombente follia attraverso la scrittura - evidente é il riecheggiamento di temi
e motivi di Menzogna e Sortilegio della Morante - hanno fatto del romanzo "un caso
letterario" molto interessante , che la morte prematura della autrice ha lasciato per
ora irrisolto.
La produzione degli ultimi anni
testimonia a sufficienza come la pratica della
scrittura abbia condotto le donne a dominare l'ansia di dire e di dirsi, presente nei
primi romanzi, a lasciarsi alle spalle un meccanismo di racconto troppo legato
all'esperienza immediata e troppo mimetico e a trovare un linguaggio proprio. Un
linguaggio la cui origine risiede prima di tutto nella fedeltà della donna a se stessa
e nel coraggio di questa fedeltà, e che dimostra, attraverso la prova inconfutabile di
tanti testi, come non sia una gerarchia di valori intellettuali a distinguere lo scrivere
maschile da quello femminile ma una diversa modalità sensitiva ed espressiva.
Superato l'apprendistato del mestiere, la maggiore consapevolezza della necessaria
mediazione formale ha permesso a molte autrici di trasformare il vissuto in figure e
in immagini letterarie, dove esso assume valenze più ampie e più ricche. Una
testimonianza in questo senso é offerta ad esempio dal romanzo di Dacia Maraini La
lunga vita di Marianna Ucrìa (1990). Il personaggio femminile riesce a trasformare
l'io empirico dell'autrice in voce di una scrittura che fa divenire struttura del
racconto l'implicito del tema: il mutismo di Marianna diviene la metafora della
emarginazione e della solitudine della donna nella cultura meridionale. Dopo
l'esordio nel 1963, con il romanzo L'età del malessere -
che vinse il premio
Formentor -, la Maraini ha pubblicato novelle, testi teatrali, sceneggiature, poesie
(La vacanza, 1962, A memoria,1967, Memorie di una ladra, 1972, Isolina,1985, i racconti
di Mio marito ,1968., i versi di Crudeltà all'aria aperta, 1966). Compagna di Alberto
Moravia, ha frequentato gli ambienti letterari della capitale e si è impegnata in
battaglie politiche e sociali, in particolare nella lotta femminista. Alle difficoltà e
alle contraddizione della vita della donna, la Maraini ha dedicato molte opere (ad
esempio Donne in guerra del 1975). Collabora a giornali e riviste ed è molto nota
all'estero.
POESIA
Se il romanzo rappresenta il genere letterario più frequentato dalle donne, scrittrici
e lettrici, anche nella produzione poetica
non mancano, specialmente nel
Novecento, presenze femminili di rilievo a cominciare da Amelia Rosselli. Nata a
Parigi nel 1930 da Carlo (l'esule antifascista assassinato, nel 1937, assieme al fratello
Nello) e da madre inglese, morta suicida a Roma nel 1996. Autrice di testi in prosa e
in versi in lingua inglese e francese, alla poesia italiana è giunta tardi. La sua
produzione è raccolta in tre volumi: Variazioni belliche, 1964 ( componimenti del '59-
'61, seguiti dall'importante autoanalisi tecnica Spazi metrici); Serie ospedaliera, 1969;
Documento 1966-1973 (1976). Vicina al modello metafisico inglese e al surrealismo
francese, la poesia della Rosselli é un'esperienza isolata nel panorama italiano anche
rispetto alle sperimentazioni dell'avanguardia. La formazione plurilingue di questa
"apolide" ( come la definì Pasolini), la ricerca di un linguaggio universale, la cifra
deviante dei suoi versi- lapsus, barbarismi e innovazioni audaci, lontani dal tutte le
norme dell'italiano, e, insieme, i francesismi, gli anglismi, gli
aulicismi -
l'irregolarità della grafia e della punteggiatura , la riduzione della poesia a lingua
del privato sono le modalità espressive di un canto che è abbandono al flusso della
vita psichica e immaginaria, fusione di interno ed esterno, privato e publico,
rappresentazione simultanea e atemporale delle cose. L'abolizione di ogni confine
tra i grandi eventi storici e gli spettacoli più consueti del quotidiano, la relazione tra
le ferite sella storia e le ferite dell"io", l'originalissima capacità associativa, la volontà
di assoluto e il richiamo alla materialità della vita, l'ansia di un dire che è ricerca,
denuncia, domanda offrono al lettore la percezione angosciante che l'orrore è il
quotidiano e che il quotidiano è dominio del male.
Tu non vivi fra queste piante che s’attorcigliano
attorno a questo mio piede senza vasi, e
non hai nella tua linea alcuna canzone per
questi miei versi sterili ora che tu non
avvicini le tue labbra strette a questo mio
corpo ombrato.
Tu non appari a chiarire il mistero della
tua non-presenza, tu non stimoli i fiori
in corona attorno al mio polso, rotto perché
non posso tenerti vicino. La luna ha anch’essa
un pendio misericordioso ma tu non agganci
stretti fili alla mia mano che tanto lontana
non può sollevare i pesi della tua testa
rotta dai singulti.
Temo i fare con la mia presenza scempio
delle occasioni, ora che tu non rinverdisci
l’orizzonte. Temo di apparire strana, confusa
a belare quest’incomprensione. Temo di stendere
vigne vuote sul tuo piede scarlatto. Non
ho altro sorso dalle tue arse labbra che
questo mio empio mistero, noia del giorno
spaccato in mille schegge.29
Un altro esempio della poesia e della poetica della Rosselli è contenuto nella raccolta
Documento:
Mio angelo, io non seppi mai quale angelo
fosti, o per quali vie storte ti amai
o venerai, tu che scendendo ogni gradino
sembravi salirli, frustarmi, mostrarmi
una via tutta perduta alla ragione, quando
facesti al caso quel che esso riprometteva,
cioè mi lasciasti.
Non seppi nemmeno perché tra tanti chiarori
29
A. Rosselli, Serie ospedaliera in Poeti italiani del secondo Novecento, Milano 1996, p. 476.
eccitati dell’intelletto in pena, vi
furono così sotterranee evoluzioni d’un
accordarsi al mio, al vostro e tuo bisogno
d’una sterilità completa.
Eppure eccomi qua, a scrivere versi,
come se fosse non del tutto astratto
alla mia ricerca d’un enciclopedico
capire quasi tutto a me offerto senza
lo spazio di una volontà di ferro a controllare
quel poco del tutto così mal offerto.30
Toni e accenti diversi offre la poesia di Maria Luisa Spaziani (Torino, 1924) , che
traduce il modello montaliano in versi di compostezza classica. Lontana dalle
inquietudini e sperimentazioni dei poeti contemporanei, attraverso l'uso di una
parola esatta, incisiva e di una forma precisa che evidenzia i contorni e le linee, la
Spaziani raggiunge la misura di una limpida e serena concretezza d'immagini .Dal
Le acque del sabato, 1954, a Il gong (1962) da L'occhio del ciclone (1970) a Transito con
catene (1977) a Geometria del disordine(1981) a La stella del libero arbitrio (1986)
sempre più l'autrice riesce a trasfondere nei versi un timbro metrico musicale che
conferisce una leggerezza sfumata, quasi aeree alle occasioni della poesia: situazioni,
oggetti, ricordi, sentimenti, presagi.
Luna d'inverno che dal melograno
per i vetri di casa filtri lenta
sui miei sonni veloci, di ladro
sempre inseguito e sempre per partire.
30
ID., Documento, in Poeti italiani del secondo Novecento, op. cit., pp. 469-470.
Come un velo di lacrime t'appanna
E presto l'ora suonerà…
Lontano,
oltre le nostre sponde, oltre le magre
stagioni che con moto di marea
mortalmente stancandoci ci esaltano
e ci umiliano poi, splenderai lieta
tu, insegna d'oro all'ultima locanda
lampada sopra il desco incorruttibile
al cui chiarore ad uno ad uno
i visi in cerchio rivedrò che un turbine
vuoto e crudele mi cancella.31
Dicono i marinai, quelli ormai vecchi
lupi di mare che sugli usci fumano
pipe portoricane, che fra tutti
i ricordi tremendi dei tifoni
e l'ululo di morte dei naufragi,
nulla atterrisce più della calma
che per ore si crea al centro stesso
della tragedia: l'occhio del ciclone.
Il mare è un olio, brillano sinistre
luci che paion di bonaccia, e affiora
tranquillo il tonno a respirare. Eppure
31
M. L. Spaziani, Luna d’inverno da Le acque del sabato in Poeti italiani del secondo Novecento
italiano, op. cit., p.254.
quella è una gabbia, quello è un trabocchetto,
lì la morte è in agguato: che più lungi,
a cento metri o forse meno infuria
l'uragano più nero. Così avviene,
vero? Troppo sovente per noi tutti,
ragni fra i mozzi delle ruote. E avvenne
anche a Fabrizio quando conversando
con la graziosa vivandiera, seppe
- più tardi e con che tragico suo scorno –
che Waterloo, la massima avventura,
si era svolta in intorno.32
Le prime raccolte della poetessa Alda Merini (La presenza di Orfeo, 1953; Paura di
Dio, 1955, Nozze romane, 1955, Tu sei Pietro, 1961) offrono, come ha scritto la critica
Maria Corti "una fusione ossimorica di impulsi religiosi ed erotici, cristiani e pagani".
Sulla linea, poco praticata in Italia ma viva ancor oggi in Germania attraverso l'opera
di Rilke che ne é il modello, la Merini fonde le proprie emozioni e le proprie
fantasie mentali e psichiche in un canto vibrante e verticale che solo
recententemente si é disteso in accenti più lievi, liberi dall' enfasi mistica e dalla
pesantezze di dettato precedenti.
Dopo un silenzio di vent'anni segnato
drammaticamente dalla malattia mentale, con la raccolta La Terra Santa del 1984,
l'autrice raggiunge il vertice della parabola creativa .Lo scambio continuo e
suggestivo dei linguaggi e dei livelli- dalla carne all'anima, dallo spirito alla natura alimentato dalla durissima esperienza biografica, dai bruschi e lancinanti transiti
dalla lucidità alla follia, costituisce il fascino tragico e intenso della sua poesia.
32
ID., Il mare da L’occhio del ciclone in Poeti italiani del secondo Novecento, op. cit., pp. 264264.
Manicomio è parola assai più grande
delle oscure voragini del sogno,
eppur veniva qualche volta al tempo
filamento di azzurro o una canzone
lontana di usignolo o si schiudeva
la tua bocca mordendo nell’azzurro
la menzogna feroce della vita.
O una mano impietosa di malato
saliva piano sulla tua finestra
sillabando il tuo nome e finalmente
sciolto il numero immondo ritrovavi
tutta la serietà della tua vita.33
Le più belle poesie
si scrivono sopra le pietre
coi ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero.
Le più belle poesie si scrivono
davanti a un altare vuoto,
accerchiati da argenti
della divina follia.
Così, pazzo criminale qual sei
tu detti versi all’umanità,
i versi della riscossa
e le bibliche profezie
33
A. Merini, La terra santa in Poeti italiani del secondo Novecento, op. cit., p. 288.
e sei fratello a Giona.
Ma nella Terra Promessa
dove germinano i pomi d’oro
e l’albero della conoscenza
Dio non è mai disceso né ti ha mai maledetto.
Ma tu sì, maledici
ora per ora il tuo canto
perché sei sceso nel limbo,
dove aspiri l’assenzio
di una sopravvivenza negata.34
Tra le ultime opere della Merini ricordiamo Rime petrose (1983) e Vuoto d'amore
(1991).
A una concezione religiosa della scrittura e della letteratura si ispira l'opera poetica
di Cristina Campo (pseudonimo di Vittoria Guerrini, Bologna 1923 Roma
1977).Traduttrice di talento ( K Mansfield, Holderlin e altri) - curatrice di molti libritra cui il mai pubblicato Libro delle ottanta poetesse, che includeva anche poesie di
Christina Rossetti e della Dickinson . Intellettuale colta e raffinata , esordisce in
poesia nel 1956 con Passo d'addio , cui seguiranno altre composizioni, tutte sparse su
riviste compreso il poemetto Diario bizantino, apparso qualche giorno dopo la sua
morte. I suoi versi e le sue traduzioni, nel 1991, sono state raccolte nel volume La
tigre di carta. Nell' opera della Campo il rigore dello stile si lega con un'intensa
aspirazione a cogliere i segni di un "altro" mondo: "celato al mondo,/ compenetrato
nel mondo/ inarrabilmente ignoto al mondo" come recitano alcuni suoi versi. Un
34
Ivi, p. 290.
mondo metafisico, lontano ma presente dentro la sua anima e che lei ricrea in forme
che evocano la lingua del gesto, del rito dei mistici del Seicento.
Si ripiegano i bianchi abiti estivi
e tu discendi sulla meridiana,
dolce Ottobre, e sui nidi.
Trema l'ultimo canto nelle altane
dove il sole era l'ombra ed ombra il sole,
tra gli affanni sopiti.
E mentre indugia tiepida la rosa
l'amara bocca già stilla il sapore
dei sorridenti addii.35
Moriremo lontani
Moriremo lontani. Sarà molto
se poserò la guancia nel tuo palmo
a Capodanno; se nel mio la traccia
contemplerai di un'altra migrazione.
Dell'anima ben poco
sappiamo. Berrà forse dai bacini
delle concave notti senza passi,
poserà sotto aeree piantagioni
germinate dai sassi...
35
C. Campo, Passo d’addio in
O signore e fratello! ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni:
«nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta».
Le sue liriche che, come é stato scritto, rappresentano un "miracoloso matrimonio
spirituale tra la mistica e la letteratura", non sono avvicinabili a nessuna delle
esperienze italiane e rimandano piuttosto a Simone Weil e a John Donne, a
Hofmansthal e a Juan de la Cruz, autori amati e tradotti dalla Campo.
Le
Tra la generazione di poeti attivi tra gli anni Settanta e Novanta, tre sono le voci
femminili più intense: Patrizia Cavalli (Todi 1949) che fin dall'esordio (Le mie poesie
non cambieranno il mondo, 1974) pare rivisitare l'immaginario crepuscolare per
l'attenzione alle manifestazioni del quotidiano e per un andamento di discorso
colloquiale; Vivian Lamarque (Trento 1946) che, in L'amore mio è buonissimo (1978) e
in Teresino (1981) si dimostra estranea a ogni sperimentalismo avanguardistico
seguendo un modello di canto naturale, dai tocchi delicati, in cui traspare
un'esperienza di amore e solitudine, di dolore e di gioia fugaci; Biancamaria Frabotta
(Roma 1946): Affeminata (1977), Il rumore bianco (1982), Controcanto al chiuso (1991),
La viandanza (1995). Interessante, nell'opera di quest'ultima, é l'originale e ardito
accostamento
di
una
rivendicazione
del
femminile
come
particolare
sperimentazione del mondo e una carica espressiva fortemente analogica, erede del
linguaggio alto della nostra tradizione poetica. La mescolanza di andamento
metaforico e di registri del parlato a qualcuno è sembrato produrre l'attrito sul
quale si fonda il plurilinguismo e la discontinuità di toni della sua poesia. In tal senso
la Frabotta si inserisce nella ricerca della poesia più recente, impegnata a
sperimentare una forma di canto il cui linguaggio rifranga la reazione al presente e
alla storia.
Per quanto riguarda le scrittrici statunitensi, russe e spagnole, dato il loro rilievo e
l’importanza nella letteratura mondiale, in quest’analisi offriremo le linee generali
della loro produzione. L’approfondimento delle loro opere e la scelta antologica, per
ragioni editoriali, le rinviamo ad un successivo lavoro.
2 - Le statunitensi
ll romanzo
Dopo la guerra civile, mentre la maggior parte degli scrittori americani si dedicava
alla rappresentazione della vita quotidiana, alcuni - tra cui Henry James, Edith
Warthon, Gertrude Stein, Ezra Pound - si trasferirono in Europa: in parte perché in
patria si sentivano spaesati, in parte per conoscere la cultura del vecchio continente
e cercare qui forme nuove di linguaggio e di ispirazione.
Nel gruppo, che fu definito degli "espatriati", un posto si rilievo assunse Gertrude
Steiner.
Nata nel 1874 ad Allegheny City in Pennsylvania, da ricca famiglia ebraica di origine
tedesca, G. S. approdò alla letteratura e all'arte attraverso la scuola dello psicologo
sperimentale William James, che la iniziò allo studio scientifico del linguaggio.
Quando nel 1903 lasciò gli Stati Uniti non si poteva definire ancora una scrittrice. A
Parigi, dove si trasferì e dove visse con il fratello Leo e poi con Alice B. Toklas, fino
alla morte (1946), fece del suo salotto in Rue de Fleurus un luogo d'incontro dei
maggiori rappresentanti dell'avanguardia europea - Picasso, Matisse, Cézanne,
Braque - le cui sperimentazioni stavano operando una trasformazione di prospettive
e di linguaggi che avrebbe condotto alla nascita dell'arte del Novecento.
Successivamente, entrò in contatto con altri "espatriati" americani: Copland,
Anderson, Hemingway, O' Neill, Fitzgerald, Pound: "la generazione perduta", come
essa la definì
La corrosione dei canoni rappresentativi dell'Ottocento, la decostruzione di oggetti
e forme in linee di fuga e in figure geometriche, la sostituzione della realtà con un
ordine mentale che desse l'idea dello spazio e del movimento, o meglio
dell'estensione dello spazio nel movimento, quali il cubismo applicava all'espressione
pittorica, costituirono, insieme alla teoria percettiva di W. James e alla concezione
del tempo di Bergson, la base dell'innovazione scrittoria della Stein: "Ero là- essa
afferma - per uccidere ciò che ancora non era morto". Partecipe dell'avventura
avanguardistica, a lei non interessa più come la cosa è, ma come cambia e come "si
fa" nella lenta progressione del moto. Utilizzare la lingua non per descrivere realtà
statiche, ma per cogliere entità in impercettibile trasformazione, sempre uguali
eppur sempre diverse - come la storia dell'America, sempre simile e sempre in
marcia verso l'Ovest - è ciò che la scrittrice si propone. Di qui lo sconvolgimento
espressivo della sua prosa, sperimentale, antirealistica e antimimetica, - una
geografia di vocaboli in "the road" si potrebbe definire - che influenzò molto
scrittori, come S. Anderson ed E. Hemingway. I principi di questa rivoluzione
espressiva sono teorizzati nei saggi critici Geografia e opere ( Geography and plays,
(1922), Composizione come spiegazione (Composition and explanation) (1926), Come
scrivere (Howe to write ) (1931).
•
Già nel libro Tre esistenze (19O8) - nato dalla lettura dei Trois Contes di
Flaubert - la rappresentazione della vita delle protagoniste lascia il posto all'analisi
della loro lingua, parlata e mentale. Ma è con Teneri bottoni (1914) che inizia la
scomposizione della struttura sintattica e grammaticale tradizionale a favore della
libertà della parola, proseguita nelle opere successive: C'era una volta gli americani
(1926) - un ambizioso volume di mille pagine che incontrò resistenze e ostilità,
nonostante
la Steiner
affermasse con sicurezza che quel libro rappresentava
"l'inizio...della letteratura moderna" -; Lucy Church Amiably (1930); L'Autobiografia
di Alice B.Toklas (1933 ) - autobiografia della autrice stessa vista attraverso gli occhi
della fedele amica e segretaria Alice- che è forse la sua opera migliore. E’ un nuovo
modello di scrittura: la funzione dei nomi e degli aggettivi si indebolisce a
vantaggio del verbo, sul quale, come espressione dell'azione, finisce per poggiare
tutto il periodo (dice Gertrude stessa: "l'esistenza non è ripetizione ma azione"); la
gerarchia tra i piani è annullata; i dettagli scardinano l'insieme; la punteggiatura è
quasi abolita; le frasi, brevi, si allineano una all'altra paratatticamente, travolgendo
l'ordine causale del discorso e sostituendo alla categoria del tempo, intrinseca alla
cultura europea, la dimensione dello spazio, introiettata nell'animo di chi, come la
Stein, era nato nei territori sconfinati d'Oltreoceano; la ripetizione, quasi una forma
di tautologica insistenza sulla denominazione delle cose, diviene incessante,
destabilizzando il senso semantico dell'espressione (famosa è la sequenza "una rosa è
una rosa è una rosa è una rosa"); i sostantivi si tramutano in una sorta di ideogrammi,
di simboli geometrici che la scrittrice combina in costruzioni denotative ed
estraneanti da cui il lettore è costretto a una percezione nuova, primaria degli
strumenti espressivi e di ciò che essi nominano.
Il nome-oggetto della Steiner sembra anticipare la tecnica della pubblicità e della
pop-art, nonché il nome -suono di J. Cage.
Se il tempo presente e l'imperfetto - i tempi verbali della durata - sono privilegiati
rispetto ai tempi conclusi del passato è perché la narratrice non vuole sviluppare
una storia, ma, come nei fotogrammi di un film o nella pittura contemporanea,
intende mostrare quello che una situazione è nella simultaneità dei suoi nessi e
delle sue relazioni: un insieme compatto e fuso nell'unità di un presente continuo. I
suoi racconti pertanto non sono più racconti ma composizione di parole, come i
quadri di Cézanne sono composizioni di linee.
Il contributo della Steiner alla fondazione della lingua narrativa del Novecento é la
costruzione di un congegno verbale in grado di dar forma letteraria all'immagine
demitizzata dell'uomo contemporaneo quale appare all'occhio di chi, come lei, fonde,
in una visione esplosiva, l'esperienza pionieristica americana e la raffinatezza
intellettuale europea: un uomo spaesato, orfano del passato, senza patria, senza
memoria, privo di punti di riferimento, che, come i personaggi di La febbre dell'oro
di Chaplin (1925) e di Ombre rosse di Ford (1939), si trova a cercare un rapporto del
tutto nuovo con ciò che esiste, in uno scenario dove egli non è che un campo
elettromagnetico di energie.
2 - Un' altra espatriata fu Edith Wharton (New York 1862 - Sanità- Brice sous Foret,
Val d'Oise, 1937). Nata in una famiglia aristocratica, intima amica di H. James, come
lui, si trovò a disagio nel proprio paese e nel 1902 si trasferì in Francia. Intelligente,
colta, raffinata, la Wharton trovava intollerabile il mondo bene newyorchese - da lei
lungamente frequentato-
con i suoi ricevimenti, i suoi pettegolezzi, le sue
cerimonie, le sue "stagioni" a Newport. Della meschinità, miopia, ristrettezza
d'idee, cinismo di questo ambiente, i suoi romanzi -La casa della gioia ,1905; Il
frutto dell'albero , 1907; L'usanza del paese 1913; L'età dell'innocenza (1920) e altri
minori - dipingono un affresco tanto reale e graffiante da far definire l'autrice "la
storica della società americana del suo tempo":Il tema centrale e originale dei suoi libri è il contrasto fra i riti della vita salottiera,
falsamente dorata e socievole, falsamente moderna, e la condizione di solitudine
spirituale, di separatezza dei personaggi ai quali - soprattutto alle donne - le regole
sociali, segrete, mai pronunciate ma ferree, impediscono di essere liberi e di
scegliere, non secondo le convenzioni, ma secondo i sentimenti.
Il medesimo conflitto tra individuo e collettività anima il racconto lungo Ethan
Frome (1911). Ambientata in un villaggio del Massachusetts, immerso nel gelo
invernale, la tragica vicenda dei protagonisti - Ethan, e la donna da lui amata - anche
per la inusuale forza e stringatezza espressiva, diviene metafora dell'isolamento
dell'uomo americano.
Newyorchese e feroce critica della società americana del suo tempo è anche
Dorothy Parker (West End, New Jersey, 1893 - New York, 1967). Nei racconti (Il mio
mondo e qui, 1939; Racconti, 1942), nei versi (Poesie, 1944), nelle commedie e in
particolare nelle recensioni giornalistiche, essa ritrasse, con acre ironia, i pregiudizi
e i conformismi dell'ambiente alto-borghese in cui visse. Collaboratrice di "Vogue",
"Vanity Fair", "Newyorker", "Esquire", esercitò su queste pagine un umorismo
tagliente che la rese famosa. Come famose sono le sue fulminee e ciniche battute alla
Woody Allen
Seguace di Hemingway, la Parker fu in realtà lontana dalla visione estetizzante del
suo modello per la lucida e dissacratoria coscienza della realtà e per l'analisi spietata
di una società decisa a mostrarsi appagata ma logorata nell' intimo da un crescente
sentimento di solitudine e di disperazione. La stessa solitudine e disperazione che
spinsero l'autrice a un continuo, irrequieto, bruciante scontro-confronto col mondo.
Simbolo, negli anni Venti, dell'ideale della donna nuova - indipendenza economica,
gin e sigarette, amori, tentati suicidi, feste vissuti con spiritosa leggerezza - la cinica
ironia non impedì alla scrittrice l'impegno politico. Partecipò, nel '21, alla battaglia
per Sacco e Vanzetti, simpatizzò con i movimenti integralisti neri e con i movimenti
femministi. Durante la guerra civile, fu inviata speciale in Spagna. Il Maccartismo la
inserì nella lista dei trecento "sospetti" comunisti. Stroncata dalla persecuzione
politica e dall'alcool, morì quasi cieca, nominando erede universale Martin Luther
King.
Aggraziata, sofisticata, piena di vibrazioni e di energie è la scrittrice statunitense
Anais Nin, nata a Parigi nel 1903 e morta a Los Angeles 1977. Figlia di un musicista
spagnolo, che lasciò la famiglia nel 1914, seguì la madre e i fratelli a New York. Il
duplice trauma dell'abbandono e dello sradicamento è all'origine della sua scrittura,
intessuta di sogni e di simboli e sorretta dall'influenza del surrealismo, che essa
conobbe a Parigi, e dall'esperienza psicanalitica che compì sotto la guida O. Rank a
New York. Donna affascinante e cosmopolita, nei ferventi anni Trenta visse tra
Parigi e New York, assumendo il ruolo di musa e animatrice culturale: la sua casa
francese di Louveciennes fu un centro di vita intellettuale, frequentata da dadaisti,
surrealisti, psicanalisti e scrittori irriverenti come H. Miller; a New York attirò nella
sua orbita seduttiva artisti e personalità di grande rilievo (L. Rainer, S. Dalì, E.
Varèse, M. Ernst, J. Cage).
Autrice di racconti e romanzi brevi: La casa dell'incesto, 1936; Inverno artificiale,
1939; Sotto la campana di vetro, 1944; Figli dell'albatro 1947; Una spia nella casa
dell'amore, 1954; Collage, 1964. Quasi sempre autobiografici ma resi con un' elegante
artificiosità, che non fu apprezzato dal pubblico american oro.
La sua voce autentica è affidata ai sei volumi del monumentale Diario, a cui la Nin,
fin da giovanissima, confidò i pensieri, le illuminazioni, i soprassalti del suo essere
segreto, mettendo a fuoco l'ambiguità tra l'interiore sentimento d'angoscia e la
sicurezza esteriore del personaggio vincente. Scritto giorno dopo giorno, scritto
dovunque, fu per l'autrice l'amuleto salvifico da cui non si distaccò mai.
Arditamente sperimentale nella scrittura, questo diario delinea una discesa nei
labirinti e negli abissi sepolti dell'io che si fa immagine riflessa di un'epoca intera.
Di qui il successo mondiale del libro.
La scrittrice statunitense Toni Morrison (pseudonimo di Chloe Anthony Wofford)
nasce a Lorain (Ohio) nel 1931. Studiosa di letteratura europea, si laurea con una tesi
su Virginia Woolf e William Faulkner alla Howard University. Divenuta più tardi
insegnante di "scrittura creativa" nella stessa università, avrà tra i suoi studenti
leaders del movimento nero. Editor della Random House, ha scoperto e fatto
pubblicare
gli autori di maggior successo della letteratura afroamericana
contemporanea (Gayl Jones, Toni Cade Bambara, Angela Davis, Muhammad Ali).
Anche i suoi romanzi sono incentrati sui problemi della
popolazione nera, in
particolare sulla sua perdita di identità e sulla costante minaccia al suo patrimonio
culturale.
Rigorosamente "al femminile" sono i libri d'esordio: L'occhio più azzurro (1970),
storia di una bambina nera che desidera disperatamente avere un paio di occhi blu
alla Shirley Temple; Sula (1973), ritratto di due donne, una ribelle e una conformista
e della loro formazione opposta e parallela. Successivamente la Morrison esplora
anche l'universo maschile: Canto di Salomone (1977), ambientato negli anni Sessanta,
è il viaggio, tra reale e fantastico, di un ragazzo nero dalla Detroit dei diritti civili al
mitico sud dove ritrova il proprio passato familiare e razziale. L'isola delle illusioni
(1981) mette in evidenza l'alienazione cui è sottoposta la comunità nera negli anni
Ottanta. Straordinario romanzo corale è Amatissima (1987), raffigurazione del
coraggio e della passione di uomini e donne dotati di grandi sentimenti di amore e
di solidarietà. Definito un capolavoro dalla stampa americana e vincitore del Premio
Pulitzer (1988), é questo libro a consacrare la scrittrice come una delle maggiori
esponenti della narrativa americana contemporanea. Enorme successo ebbe anche
Jazz (1992) - ambientato nella Harlem del 1926, centro del movimento letterario New
Nigro Movement - in cui, a livello strutturale e stilistico, la musica funziona come
motivo unificante del tema, che é un affresco dell'America di colore tra il 1880 e la
"grande depressione" degli anni Trenta.
Il rapporto tra musica, parole e ritmo costituisce, fin dall'esordio, la costante
dell'opera della Morrison. Ed é attraverso questo rapporto che la scrittura reinventa
l'oralità della tradizione nera, amalgamando i toni e la flessibilità della voce con il
tessuto descrittivo e lo sviluppo della vicenda. Il materiale narrativo dei libri è
organizzato infatti con inserti di canti, canzoni, filastrocche che, come nel
linguaggio cinematografico del grande musical statunitense, accelerano e fondono
tempi e luoghi del racconto in immagini multiformi e simultanee, le quali alla
tradizionale rappresentazione lineare sostituiscono la visionarità onirico-barocca
della letteratura occidentale.
Chiamata ad insegnare a Berkley, a Princeton e successivamente ad Harvard, nel 1993
la Morrison é stata insignita del Premio Nobel.