Suona il piffero | spettacolo di teatro nomade (Scena III)
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Suona il piffero | spettacolo di teatro nomade (Scena III)
La formula magica | Meggiolaro – racconto Mauro Chi l’avrebbe detto che sarebbe andata a finire così? pensava forse tra sé e sé, per quanto potesse veramente pensare in quello stato. Meda e Viganò, Paroliti e Rinaldini e quasi tutti gli altri in qualche modo si erano riciclati. C’è chi con la liquidazione aveva aperto un centro fitness, chi si era messo a fare l’insegnante a contratto in qualche università privata per somari ricchi. In tanti avevano anticipato di un paio di anni la pensione e si erano ritirati su una delle cinquantamila colline dell’Appennino o in riva al lago o al mare. Ma lui aveva 36 anni e non sapeva da che parte ricominciare. Nel dubbio spendeva tutto in tramezzini e caffè corretti, cordiali e aperitivi, prosecchini e digestivi, genzianelle e rosoli, amari, acquaviti e camparini e in questo, il Bar Lenotti era un porto sicuro, nascosto alla vista del mondo giudicante, piantato ormai “dal 1890” all’angolo tra via del Martirio e vicolo Santa Valeria, nel centro pulsante della metropoli della finanza, dove l’Italia era Italietta, la Borsa era una borsetta e i bancari, banchieri, analisti, correntisti, trader, broker, consulenti, revisori, sindaci, notai, avvocati e commercialisti si conoscevano tutti, uno per uno e di tutti sapevano vita, morte, miracoli ma soprattutto piccolezze, sconcezze, rigurgiti, corna e cambiali e tutto il peggio che la natura umana nella sua debolezza intrinseca sa dare al mondo. Un tempo ai tavoli del Lenotti sedevano poeti del calibro di Borlotti e Bavaglini, premi Nobel per la Fisica, artisti ed equilibristi, giornalisti come il pluripremiato Mondelli, il temuto Del Brusco “dalla penna tagliente” e si dice che ci fossero passati anche Ernest Hemingway ed Allen Ginsberg e ci avesse dormito – non si sa dove di preciso né quando – nientemeno che Giuseppe Garibaldi. Ma erano altri tempi. Nel 2005 l’allora settantottenne Evaristo Lenotti, ultimo rappresentante della terza generazione di una stirpe di osti e locandieri, aveva alzato le braccia e venduto licenza e avviamento ai cinesi per “250.000 euro in contanti”, si mormorava nell’ambiente. In pochi mesi la sala biliardo fu evacuata e diventò una specie di magazzino conto terzi dove iniziò a passare di tutto e la storica “saletta dei poeti” fu subito riempita di macchinette di videopoker a cui, giorno dopo giorno, si aggrapparono file di disperati di tutte le razze, i sessi, le età e i colori. In quel covo di diseredati Frigerio si trovava perlomeno a suo agio. Nessuno gli chiedeva chi fosse o cosa fosse stato né cosa se ne facesse ora del suo prestigioso CFA, quel titolo da analista finanziario che gli era costato almeno 50 finesettimana a casa a studiare e la bellezza di due fidanzate che, nel frattempo, l’avevano mandato a quel paese. «Costi più che ripagati», rispondeva ai bei tempi a chi glielo chiedesse. «Un aumento secco del 25% della retribuzione lorda da su-bito!», diceva alzando il tono della voce e scandendo le sillabe davanti ai vecchi amici dell’oratorio quando si ritrovavano per le “cene del campetto”. Ora non rispondeva neanche più agli inviti. Chi glielo spiegava a quelli che era finita, che ora era lui il principe degli sfigati? Da quando la Nadir Società per Azioni di Gestione del Risparmio era stata comprata dagli americani il mondo gli era crollato addosso. E pensare che l’acquirente, Two Beta Investments Llc., fino a due anni prima non la conosceva nessuno, se non un gruppetto di nerd scacciafighe con le lenti spesse e il pizzetto a capretta che potrebbero scassarti la minchia per ore parlando di codici di programmazione. Appena perfezionato il contratto di acquisizione, Frigerio, Meda, Viganò e tutti gli altri analisti e analiste del terzo piano della palazzina Adriatica, piccolo monumento al neorazionalismo degli anni ’50, erano stati invitati a mettere i loro effetti personali in un piccolo scatolone, gentilmente offerto dai nuovi proprietari, e a togliere il disturbo. Erano rimasti solo i due commerciali, amiconi dalle narici d’oro e i denti affilati. Del resto qualcuno i fondi e le gestioni patrimoniali doveva pure continuare a venderli. Ma gli ordini di acquisto e vendita dei titoli, l’analisi dei dati di bilancio, il price to book value, l’impairment, la p/e ratio, la divinazione delle curve flattening e steepening, dei cigni neri e delle tempeste perfette, delle posizioni long e short in tutte le loro possibili combinazioni erano funzioni che poteva agevolmente svolgere una singola macchina, istruita a dovere. Un supercomputer, capace non solo di interpretare i dati, confrontandoli con una serie sterminata di casi simili ma anche di anticipare gli eventi con un margine di errore trascurabile. «L’idea al centro di tutto è che si possa rappresentare la realtà usando una funzione matematica che l’algoritmo ancora non conosce ma può intuire dopo aver processato un certo numero di dati» scriveva la Two Beta sul proprio sito internet, che Frigerio non smetteva di perlustrare in lungo e in largo in cerca di risposte. Machine learning: macchine che imparano a fare cose che prima facevano gli umani e grazie alla capacità di digerire miliardi di dati alla fine le riescono a fare anche meglio. Gregor Szymborski e Robert Stielike, i due fondatori e direttori esecutivi della Two Beta erano diventati miliardari così, grazie a una funzione matematica prodigiosa, ormai conosciuta nel mondo finanziario internazionale come “la formula magica”: una serie di sgorbietti neri su un foglio di calcolo che i due, ora trentenni, avevano iniziato a mettere insieme quando ancora non gli cresceva barba a sufficienza per coprire le gote devastate dall’acne. Negli ultimi anni avevano rilevato decine di società di gestione in tutto il mondo a prezzi stracciati, mandato a casa centinaia di analisti e broker e sgomberato uffici su uffici che erano stati prontamente affittati o venduti ad altre ditte. I computer liberati erano stati regalati alle scuole con un atto di magnanimità debitamente pubblicizzato all’interno del bilancio di sostenibilità della Beta con la formula finance for education. Alla fine serviva una sola macchina che usava un’estensione di memoria virtuale pressoché inesauribile nella grande nuvola informatica che avvolge l’universo. Luca Frigerio detestava la Two Beta e odiava Szymborski e Stielike di un odio mortale. Si sentiva solo, abbandonato da tutti. Aveva anche cercato di mettere in mezzo gli odiati sindacati. Ma che ne sapevano loro di intelligenza artificiale? Ormai erano buoni solo a ingrassare le pensioni di chi ce l’aveva già fatta. O a nascondersi, come Frigerio, dal pensiero e dalla vita, in un posto ancora al riparo dal mondo, dai broker e dalle holding, dai supercomputer e dalla formula magica, ma certo non dai cinesi che lo avevano rilevato: il glorioso Bar Lenotti. Fotografie scelte digitando ‘Merkel Robot’ su Google immagini. Calabria e Piccadilly | un racconto di Franco Buffoni Se Dario Fo, con il suo grammelot, porta alle estreme conseguenze la riflessione sulla traduzione come sintesi fonemica, il caso di Imma produce un risultato simile come sintesi ontologica. Imma nasce a Roma all’inizio degli anni settanta, figlia di una coppia di immigrati calabresi, portinai (o come si dice a Roma: portieri) in un grande stabile (a Roma si dice palazzo) d’una zona alto borghese. Sprovvisti d’istruzione ma molto volonterosi, i genitori di Imma sanno conquistarsi la stima anche degli inquilini inglesi del terzo piano, una coppia senza figli, lui direttore e lei insegnante nella scuola inglese distante poche centinaia di metri. Imma a tre anni si trova così iscritta a quella scuola, dapprima imparando alla materna canzoncine e buone maniere, poi come allieva della primaria, quindi delle medie e del liceo fino alla maturità, che supera brillantemente. E sempre frequentando anche la casa dei genitori inglesi “adottivi”. Mentre ogni estate trascorre tre mesi in Calabria a Cirò da nonna Immacolata e va al mare con gli zii. Conobbi Imma quando si iscrisse al primo anno di università. Mi si rivolse subito nel suo inglese perfetto, dall’intonazione leggermente ironica (che mesi dopo ebbi modo di riconoscere – identica – nella madre “adottiva”). Imma – due grandi occhi neri ardenti, capelli fluenti corvini e intercalari lievemente cockney nei momenti di pausa – era talmente più “avanti” rispetto ai compagni di corso che subito le affidai delle mansioni organizzative relative ai seminari. Per qualche settimana non me ne resi conto: tutto cambiò la mattina in cui entrai in aula prima del previsto. Imma era seduta sulla cattedra a gambe divaricate e stava impartendo ordini sguaiati in… italiano? No, non era italiano quel miscuglio di calabro-romanesco che usciva dalla bocca di quel tomboy… persino le sue labbra assumevano un disegno che non le conoscevo. Come si accorse di me, si ricompose, le labbra ridivennero quiete, l’inglese riprese il sopravvento e l’intonazione tornò ad essere quella consueta, leggermente ironica… Io restai impietrito. Dai colleghi poi seppi delle difficoltà di Imma in storia e letteratura italiana, e degli sforzi tremendi che doveva compiere per pronunciare la seconda lingua straniera, il tedesco. Passarono i semestri: Imma si era molto affezionata a me, e io cercavo ogni occasione per farla parlare… in italiano. Correggendole pronuncia e intonazione e dandole da leggere romanzi italiani ben scritti, e poi chiedendole di riassumerli, sia per iscritto sia oralmente. All’inizio fu un vero disastro, ma Imma era (ed è) molto tenace e piano piano imparò a cavarsela. Si laureò e poi si legò sentimentalmente e andò a vivere con un’insegnante inglese della mitica scuola in cui si era formata, e dove anche lei era stata assunta. Una sera le due giovani signore mi invitarono a cena. Menù vegano molto british, intonazione sobriamente ironica e controllatissima in entrambe. “E in Calabria ci andate?”. “E i tuoi genitori come hanno preso la vostra unione?”. Risposte evasive, molto eleganti, leggermente prive di contenuto… Il giorno dopo Imma mi telefona, ha bisogno di parlarmi. Viene a casa mia. E finalmente si sfoga. Da donna intelligente quale è, Imma si rende perfettamente conto dello stato di scissione in cui vive. “Sugli stessi argomenti”, mi confessa, “io PENSO in modo diverso a seconda che ne parli in italiano o in inglese”. “Non è una questione di traduzione o di lingua. Ma della mentalità al cui interno mi sono formata”. “Se avessi frequentato il liceo italiano, probabilmente sarei riuscita ad amalgamare i due…”, si blocca, mi guarda con le lacrime agli occhi, “i due cast of mind, quello dei miei genitori e di nonna Immacolata da una parte (per me l’italiano è quello) e quello inglese dall’altro. Così vivo con Jane e con lei mi nutro vegana, insegno a scuola e andiamo in Inghilterra dai suoi… Ma quando torno a Roma o addirittura in Calabria, dopo due giorni a morseddhu e sagne chine, non riuscirei mai a dire in italiano we’re a lesbian couple, e Jane torna ad essere soltanto la mia amica”. Da Il racconto dello sguardo acceso, Marcos Y Marcos, 2016. Suona il piffero | spettacolo di teatro nomade (Scena III) – di Gunter Spiegelmann e Federico Burattini La carovana risale fra i vicoli, procede con l’andamento di una comitiva confusa, divisa in gruppetti scomposti. La Pifferaia è in testa al corteo. Al suo fianco c’è il custode. Dietro, Alberto Andreina e Lori, che di tanto in tanto gesticolano per indicare la strada verso l’appuntamento. I musicisti continuano ininterrottamente a suonare. Procedendo così, arrivano alla Scalinata del mattino, che si apre dinnanzi a loro, un gradino e poi un l’altro e sulla cima della salita, case bianche e rosate. È Andreina ad avvicinarsi alla Pifferaia e a prenderla per un braccio. I musicisti smettono di suonare e la musica si interrompe. ANDREINA Ecco, siamo arrivati. C’è un uomo che vive qua, che abita proprio in questo tratto di scalinata. Cammina su e giù, percorre i gradini avanti e indietro, non si ferma mai, non si allontana mai da qua, o almeno non l’hanno mai visto in altri luoghi. Sale, scende, si siede sui gradini e guarda i passanti abbacchiato. Oppure lo puoi trovare in piedi, che attacca bottone con tutti. Di giorno è malinconico. Le parole gli vengono lente alla bocca. Siede ai margini degli scalini. Certe volte sta acquattato dietro ai cespugli… ALBERTO (il pugile) Eh già, di giorno lui è piantato a terra e guarda tutti imbambolato. Lo conosco anche io, ma chi non lo conosce? È di sera, quando le ombre si allungano, e poi ancor più di notte, che lui diventa tutto arzillo, scattante. Di notte sta sempre in piedi, gli viene una di quelle parlantine… LORI (La chiromante) Sì, sì, di notte torna in pace col mondo, è aperto, spensierato, quasi ruggente. Pare che c’ha un fuocherello che gli brucia dentro: te lo raccomando… Sembra mezzo imbriaco, ha quell’estro lì, di chi è impregnato di vino… ALBERTO Però quando ti ci fermi a parlare, lui lo senti che è sobrio, altroché. Anzi… è lucidissimo. Non è scomposto, non sbaglia una virgola a dirla tutta. Anzi, quando parla fa di ogni frase un piccolo mondo a sé, tira fuori immagini una dietro l’altra, è un fiotto continuo, sembra che nella sua mente ci sia una grande opera che si va costruendo, un pezzo dopo l’altro. (La voce esce dalla bocca di Alberto in un sibilo. Le sue parole sembrano impastate, i fonemi gli fischiano fra i denti sbeccati, o tra i fori di quelli mancanti. Alberto ha il labbro inferiore e anche quello superiore conciati per le feste da brutte cicatrici, storte, zigzaganti. Tutta la sua bocca di pugile è sformata come una zampogna). Di notte lui non si ferma proprio un attimo, balla quasi e sembra un diavolo. Uno di quegli sprevengoli, che passano la loro vita a fare scherzi nei boschi. C’hai presente? PIFFERAIA E chi sarebbero, ora, questi sprevengoli? (Ride, sghignazza in modo tale che anche lei sembra un folletto) LORI Gli sprevengoli sono creature che vivono nel bosco, gnomi, mostricciattoli, o come vuoi chiamarli. Passano la vita dietro i tronchi degli alberi, a fare scherzi ai passanti. NACONIANI: – Ah cojo’. C’ave fato camina’ fino a qui pe’ senti’ le sciapate degli sprevengoli?! E nananana – Ma ve ande’ a fadantelculo voi, e quest’altro imbriagò che vive qua, ’nte la grepia, fra j scalini, che quandu te discore, nun ce se capisce ’na mazza… – E andé a fadiga’, tutti quanti… IL CUSTODE (Senza scomporsi, rivolto alla Pifferaia con tono affabile, paterno) Gli sprevengoli, ammesso che esistano, ma c’è chi dice di averli visti davvero nel fitto del fogliame, vivono lontano da qua, e forse anche lontano dal tempo. Dal tempo come la maggior parte della gente lo intente… (E rivolto al trio) Raccontate, senza divagare, di questo uomo che va su e giù per le scale, notte e giorno. Io lo conosco bene, ché di notte mi ci fermo a parlare. Ma di giorno non lo disturbo, perché mi sembra immerso nelle sue fantasticherie, e non è di quelli che vogliono essere disturbati… ALBERTO: E di giorno è pallido, sembra sepolto sotto le sue occhiaie, sembra. Sembra schiacciato da un’incudine infinita, che gli è caduta in testa dal cielo. LORI: E di notte, invece, ha una luce addosso. Come se avesse bevuto argento vivo. Lo vedi da lontano, la sua pelle irraggia chiarore, sembra un satellite, sembra il neon lampeggiante di qualche locale! (Scoppia a ridere da sola) PIFFERAIA Ma ha un nome questo uomo di cui mi parlate? Chi è? State andando avanti ormai da un pezzo, e io non ho capito di chi parlate. BEBO Si chiama l’Operaio!!! Al suono del suo nome, tutti i Naconiani scoppiano a ridere. Ecco che fra lo scroscio delle risate, l’Operaio entra in scena. Si manifesta sbucando da dietro un cespuglio e scende, ciondolando, le scale. Si notano subito i suoi gesti attoniti, di chi pensa perennemente ad altro eppure deve essere presente ai suoi prossimi. Si capisce che il mondo attorno gli pesa come un’incombenza, come una pratica da smaltire di malavoglia. Ma il suo vestiario è del tutto incongruente ai suoi modi trasognati e tristi. Calza, fin sopra le sopracciglia, un berretto di lana attillato. Il busto, goffo e curvo, è fasciato da un piumino bianco fiammante. Pantaloni extra slim gli stringono le gambette, ha il cavallo calato e dal suo posteriore occhieggiano abbondantemente dei box neri. Il suo abbigliamento aderisce a un codice modaiolo di massa. Al suo apparire, i Naconiani si coagulano compatti in un angolo della piazza, ammutoliti. Proprio quelli che hanno bocca e mento imbrattati di nero di seppia sembrano i più intimoriti dalla diurna apparizione del loro concittadino. OPERAIO (il suo eloquio è ben modulato, scandisce ogni parola e ogni frase con la sicurezza di chi è allenato a parlare a braccio, davanti a ogni tipo di platea, anche mezzora, senza deferenza o fretta di concludere i propri concetti. Eppure le immagini che evoca sono invero sconclusionate, vagamente oniriche. Sembrerebbero, alle orecchie degli assennati, prive di un reale messaggio). Potessi tornare indietro, non farei tutti quegli errori. Non giocherei col tempo, non aspetterei che le cose si compiano da sole, confidando nelle mie idee e nella realtà esterna. Ora che ho cambiato così tanti calendari, e che da allora è successo ben poco, mi trovo rinchiuso in un piccolo spazio, che è diventato la mia patria. In questo limbo dove l’entrata e l’uscita si sono fatte lontane e nascoste, io ho perso anche il ricordo della loro esistenza. PIFFERAIA Dunque, sei tu l’Operaio? Mi hanno detto che volevi conoscermi… ALBERTO Sì, è lui, è lui che, mentre tutti e tre bighellonavamo qui sotto, è spuntato da dietro un cespuglio e con un gesto ci ha chiamati a sé e ci ha chiesto di portarti da lui… PIFFERAIA E perché? (rivolta all’Operaio) OPERAIO Perché qua nella città vecchia le voci corrono. Tutti già dicono che sei strana. Che racconti di naufragi in mezzo al mare, di isole e di sirene, e di accoppiamenti fra le onde del mare. Ti confidi anche con gli sconosciuti, con chi hai incontrato per la prima volta. Questo lo fanno solo i disperati, i più incendiati di tutti. Io li conosco, ai Naconiani: non sono persone a cui viene facile confidare i loro segreti. Ti guardano e ti compatiscono e poi quando ti volti, scoppiano a ridere e lo fanno con un tempismo perfetto, affinché si riesca a carpire con le proprie orecchie l’ultimo eco delle loro risate, proprio mentre stai per girare l’angolo e, un altro passo ancora, non li sentiresti più… PIFFERAIA Oh, per me è naturale parlare con tutti. La mia casa e le mie stanze sono popolate di strane creature mascherate, a volte di fantasmi… che volete farci? Ma non è questo il punto: io sono arrivata qua per adempiere a una specie di missione, per liberare la città da un’antica pestilenza… OPERAIO Ecco, i fantasmi, anche le stanze del mio palazzo ne sono popolate, sai? Mi tornano a trovare ad ogni passo che faccio; nella luce del giorno, che non tollero più, mi guardano affacciati dalle loro finestre. PIFFERAIA Per questo sei così pallido? Mi hanno detto che tu di notte parli con tutti, che anzi riesci a richiamare a te le persone, ad intrattenerle coi tuoi discorsi, persino ad incantarle. Insomma accendi negli altri la curiosità. OPERAIO Sì, di notte si spegne tutto, allora io torno a sognare. Ma il mio lavoro si svolge di giorno. Di notte domando, racconto, ascolto gli altri, mi mescolo ai ricordi, agli scherzi di chi si affaccia su questi scalini, e le ore scorrono veloci prima che torni la luce. Poi nella luce io vivo e lavoro: è lì, sotto al sole, che io sono intrappolato nel mettere le cose in fila, una dietro l’altra, identiche. NACONIANO (Si alza la voce di un Naconiano, mescolato alla folta nutria) Oohhhhh, oh imbriagò….. ma che cazzo stai a di’, ma se nun hai mai fadigato in vita tua, ma vattafadantelculo, va!!! (E giù risate) CUSTODE (Si gira, adirato, verso i Naconiani) Voi vi ricordate solo ciò che è brutto e sgradevole, tutto il resto preferite dimenticarlo, lo buttate via dopo averlo consumato. Avete la memoria corta, pronta a svaporare nel rancore che vi affumica il cuore e la testa. Non ricordate nulla di quest’uomo, eppure egli è attaccato alla vostra pelle, come lo sono i peli della barba alla mia faccia. (Il custode si passa la mano sulle guance, grattandosi con le dita uncinate). NACONIANI (Restano a guardare il custode imbambolati, stupiti, esterrefatti. Qualcuno si stringe nelle spalle, altri fanno piccoli bronci sarcastici. Un paio di loro, imbrattati di nero di seppia, esplodono in risate pastose di raucedine e poi urlano) Ahahah, è deje ’na sigaretta a ’sto scemo! Sci, oh, è arivato el profeta de sto pezzo de budello. Ohhhhh, oh scemo. Il Custode non batte ciglio, poi si gira e in un inchino teatrale mostra ai Naconiani le natiche. I Naconiani si tacciono, coi loro volti sospesi fra il sarcasmo e la confusione. CUSTODE Il passato mi sta attaccato al corpo, è un arto mummificato che mi penzola dietro come una coda. Lo guardo e ha tutte le fattezze dell’incubo. Già, perché gli incubi, i sogni, se ne stanno confinati dietro gli occhi mentre dormiamo. Non valicano quella frontiera. E quando solleviamo le palpebre, nel dormiveglia, escono, se ne vanno via, poi come vapore si attaccano alle cose, agli oggetti che piano piano riconosciamo intorno a noi, sgusciando dal sonno. Ma il mio incubo non svapora, quando sollevo le palpebre non si appiccica al presente della vita. Il mio incubo continua a vivere di vita propria anche nel giorno. PIFFERAIA I tuoi fantasmi sono i fantasmi di tutti, che credi? Anche io ho paura dei miei, mi vengono a trovare spesso di notte, quando resto sola nella mia casa di Atene, e penso a quello che è stato e che non tornerà, e vorrei girare le lancette del tempo all’indietro. Certe volte però, mentre ballo, mi pare possibile farlo, mi pare possibile correre a ritroso nel tempo, tornare, anche solo per un attimo, dove sono già stata… OPERAIO Io sono condannato a stare fermo tutto il giorno, vedo apparire davanti a me cose che non riesco a toccare. Seduto su questi scalini, non posso che rincorrere il mondo con le dita. Tutto mi passa davanti, mi arriva in forma già elaborata e io devo solo riversarlo altrove. Quando nessuno mi vede, con le dita tambureggio sulle mie ginocchia come pigiassi i bottoni di una tastiera. Davanti a me vedo uno schermo immenso, grande come il cielo, e io batto sulle mie ginocchia, con le dita, aspettando che appaia quello che ho perso. PIFFERAIA Cosa hai perso? Vuoi parlare con me, anche se ancora non è notte? OPERAIO Parlo del lavoro, è quello ciò che ho perso, che non riesco più a tenere stretto fra le mie mani. Mi sfugge via, è lontano, è oltre una lastra di vetro… è sotto una superficie trasparente, che non è nemmeno più acqua… non lo afferro e se non lo afferro, non tengo in mano più nulla. Negli anni ho finito pure per smarrire il mio corpo, ho perso la possibilità di amare gli umani… PIFFERAIA Cioè? Spiegati meglio NACONIANI (La massa dei Naconiani è annoiata. Siedono per terra, sbuffano. Se ne stanno chiusi in piccoli cerchi e non comunicano fra loro. Nessuno presta più attenzione alle parole dell’operaio. Solo in pochi fra loro, oltre Bebo e Gaia, sono rimasti in piedi e ascoltano quel che l’Operaio ha da dire. Qualcuno grida) E tira via, oh sarnagioto, che ce semi rotti i cojoini… parli parli parli ma nun sei bono a fate capi’… Dici solo un sacco de cazate, anche se te piace de parla guzo… guarda che nialtri nun ce cojoni, sa’… OPERAIO (si aggiusta la sua berretta in testa, e inizia a raccontare, prima prima piano, mangiandosi le parole. Poi via via che si addentra nei suoi ricordi, la voce gli si fa meno singhiozzante, più sicura) Tutto era diverso. Allora eravamo un popolo e io ne facevo parte. Passavamo le giornate stretti alle banchine del porto; iniziavamo all’alba, incurvavamo lamine di ferro, le plasmavano tra fontane di scintille che colavano attorno a noi. I padroni stavano a guardarci, coi vestiti inamidati, i volti annoiati e i capelli impomatati. Le loro navi nel porto crescevano a dismisura, salivano un pezzo dopo l’altro, le loro spigolature si curvavano in sogni che attendevano di solcare la liquidità dei mari. Loro, i padroni, ci guardavano con occhi severi e pretendevano una velocità crescente nelle nostre azioni lavorative. Noi strisciavamo come topi nel ventre delle grandi imbarcazioni, d’estate l’acciaio si faceva arroventato, d’inverno ci inghiottiva nel buio e nell’umido salato fra giunture, saldature, passaggi che plasmavamo coi nostri attrezzi. Era proprio lì dentro, nel buio, che ognuno di noi sognava in cuor suo. Sognava di conquistare tesori lontani, toccarli, mangiarli. Credevamo che quel mondo fosse semplicemente oltre l’orizzonte, oltre il mare che non se la smetteva mai di sbattere con le sue onde sulla pietra delle banchine. Io venivo da un quartiere sulla collina sopra il porto che oggi non esiste più, lo hanno ridotto in polvere le bombe. Ma allora era un intestino di vicoli, di stradine che si attorcigliavano. C’era mia moglie, sempre in piedi sull’uscio della porta, col suo corpo tozzo occupava già tutto il vicolo, aveva gambe gonfie di elefante sotto la gonna ruvida. E quando arrivava la sera e poi la notte il buio era totale e dentro si sentivano solo i vagiti dei bambini, o il rantolare di qualche ubriaco, o scoppi di risate rauche. Io nella mia stanza dormivo in un materasso buttato per terra e fuori dalla finestra si allungavano vicoli e vicoli. Tetti e porte e pareti e passi della gente e donne con la pelle scurita dal lavoro e dal carbone per scaldare le case mi sfilavano davanti nei sogni e me li ritrovavo innanzi anche la mattina, mentre scendevo a valle verso il porto, una scalinata dopo l’altra, uno spigolo dopo l’altro, mentre andavo a costruire le navi. E così ogni giorno, identico all’altro. Poi una mattina ci dissero, i padroni, che dovevamo fare la nave più grande di tutti. Era arrivata una commessa, da non si sa dove, forse dall’America. E allora iniziammo a costruirla, con la solita foga, anzi forse ancora di più, perché mentre la vedevamo formarsi sotto le nostre mani, ci appariva più grande di tutte, sembrava una creatura pronta ad accogliere ognuno di noi, che nasceva dalla forza sapiente delle nostre braccia. Volevamo che avesse un ventre bombato e accogliente, e allora stavamo curvi per ore a levigarne l’acciaio, senza badare alle scintille che ci bruciavano la barba e le ciglia. Fu così che, mentre sotto le mani la nave si faceva sempre più presente e potente, iniziammo a pensare che quella era la nave che ci avrebbe portato verso il tesoro, oltre la linea del mare. CUSTODE (scoppia a ridere, battendosi le mani sulle ginocchia. Scuote la testa e ride, d’una risata sguaiata) Ahahahahah quante volte l’ho sentita questa: la nave con cui andare via, qua sognano tutti di andare via, lo ripetono tutti, dalla mattina alla sera. È come se a dirlo e a ripeterlo, a cantarselo e a salmodiarselo, ognuno raccogliesse le forze per restare ben piantato al suo posto, in questa città. I Naconiani intanto si sono fatti attenti alle parole dell’Operaio, stanno tutti ritti in piedi e lo guardano con un interesse vivo e nuovo. Anzi, alle parole del Custode, esplodono in una serie d’improperi. NACONIANI E sta un po’ zito, rompi cojoni, che questa de la nave io ce la so. – Scì sci, l’ho sentita anche io questa de la nave bela e grosa che nun finiva mai, ’n do ce lavoravane tutti. Sci sci, me la ricorderò! – Mi padre quand’erimi fioli, me portava a vedela. – Ma che cazo stai a di’? Non senti che questo sta a parla’ de ’na roba sucesa n’bel po’ de ani fa. – Boh, a me me pare ieri, de sta nave… – Faceva sta be’ ’n’ bel po’. Era bela, ce consumavi j ochi a rimiralla. – Se incastunava ’n’ tei colori la natura, che pareva ’na meravijia. – C’ha lavorato pure qualcuno de la famija mia, cel ricordami tuti quanti.. CUSTODE (rivolto alla Pifferaia) Li senti, vero? Quando ricordano, si sentono di nuovo partecipi. Superano le divisioni, quel loro incallito frazionarsi per piccoli gruppi e gruppetti. Il ricordo, quello condiviso, quello collettivo, è la formula magica che li tiene insieme. Deragliano all’indietro, verso mondi privi di logica. Si emozionano e si compattano e tornano ad essere tutt’uno col mondo. LA PIFFERAIA non dice nulla, ma ascolta e guarda i Naconiani, che ora stanno tutti ad osservare l’Operaio con occhi grandi come la luna. L’OPERAIO (riprende il suo racconto) Sì, insomma, voi, noi, coi vostri padri, coi vostri zii, con quelli che c’erano e che ancora ricordo per nome, noi tutti decidemmo di prenderci quella grande nave, per arrivare dall’altra parte del mare, verso l’Oriente. Perché eravamo in tanti a dire ormai che dall’altra parte del mare qualcosa era cambiato, che i tesori che cercavamo lì avevano preso forma. E così in una mattina di lavoro, sulle banchine, dinnanzi al mare, decidemmo che quella stessa nave su cui eravamo curvi a lavorare doveva essere la nostra. Era carne della nostra carne, ci era sempre appartenuta, tutta intera, nella materia che la formava, nel suo profilo slanciato e gigantesco. Non so chi fu il primo a dirlo, a pronunciare queste parole, ma tutti decidemmo che prenderla e lanciarla verso le onde era un’azione iscritta nel vero ordine delle cose, in quello stesso ordine che di là dal mare gli uomini dagli occhi affusolati stavano portando alla luce per i loro fratelli. Perché nel funzionamento degli ingranaggi della nostra mente, nell’implacabile azionarsi di leve incardinate nella nostra materia, la nave sarebbe venuta semplicemente a noi, doveva penetrare in noi come noi entravamo nelle sue viscere per darle forma. Fu così che una notte di festa, dopo che avevamo cantato e dato fondo a qualche botte di vino, scendemmo dai nostri vicoli attorcigliati e impregnati di odori, entrammo nel porto, trascinammo con noi la guardia che voleva fermarci, che non voleva partecipare alla nostra rinascita, e la buttammo fra le onde nere e gelide. Poi entrammo tutti nella nave. Volevamo partire, subito, verso l’Oriente, appena il sole fosse sorto all’alba, anche se sapevamo che la nave non era ancora finita. Era incompleta, mancavano pezzi, catramature, bulloni, rifiniture. Sapevamo che aveva buchi e in qualche zona assomigliava ancora a un corpo che va formandosi nel ventre materno, e ha arti ancora germinali, incompleti. Ma non volevamo ascoltare, non c’era più tempo di attendere, di tempo ce ne eravamo già dati un’eternità, ed era così bella e forte la creatura su cui camminavamo, dentro cui facevamo festa, che amplificava fra le sue volute le nostre urla di gioia. Ci dicevamo che ormai tutto era fatto, tutto era pronto, con un piccolo sforzo il giorno dopo, terminata la festa, l’avremmo finita, avremmo completato le ultime saldature, finito di armarla e di stringerne gli ultimi bulloni. E poi l’avremmo fatta partire, sospinta nelle acque spumose. Nel mattino, con la luce che fora l’orizzonte, saremmo riusciti a prendere il largo. Così ci ripetevamo mentre ci addormentammo, stanchi, sfiniti, con in bocca il sapore dell’amore, della pelle, delle gole dissetate dal vino. Non aveva ancora un nome la nostra nave, ma la chiamammo Notte, perché nella notte era diventata veramente nostra. Il nostro sonno sembrò durare pochi istanti, il tempo di battere le palpebre e la notte svanì. La luce si espanse nel cielo riportando in superficie la visione degli oggetti e dei colori del mare, e della città coi suoi tetti attorno a noi. Al risveglio Notte era ancora lì, imponente nel suo sogno metallico. Qualcuno si affacciò dal ponte. Fu un attimo, e iniziarono le urla, le imprecazioni e le bestemmie nell’alba, che svegliarono gli ultimi di noi immersi nel dolce sonno. C’era l’esercito schierato attorno allo scafo di Notte, con tutte le divise e i fucili spianati, e i militari ci guardavano increduli eppure severi ed erano pronti a sparare, ad ucciderci. Allora io stesso mi alzai in piedi, la testa mi pesava, non riuscivo a guardarmi le punte delle scarpe che mi veniva da sprofondare per terra, ma urlai con tutta la disperazione che avevo in gola. Dissi che era ora di partire, ordinai di sciogliere gli ormeggi e di mettere Notte in mare, di varala. L’esercito si stringeva a noi, le truppe si serravano attorno allo scafo, i militari ci guardavano con occhi di chi ormai sta prendendo le misure per ucciderti. Iniziammo a far scivolare Notte sulle assi sopra cui era posata in secca. Lo facemmo segando ogni laccio che la teneva inchiodata a terra, e la nave iniziò a scivolare verso l’acqua, sfondò il cordone schierato dei militari, Notte entrò dentro le onde con un grande fragore di acque che esplodono sotto il suo peso. La città era alle nostre spalle oramai, coi suoi tetti affastellati, i suoi comignoli che si scioglievano nella luce dell’alba, la sagoma rugosa del suo volto dove avevamo lasciato le nostre esistenze. Mentre Notte beccheggiava e rollava per bilanciare la sua stazza nella massa dell’acqua, e mentre i militari e i comandanti, che urlavano come belve, erano sempre più piccoli alle nostre spalle, sulle banchine, per un attimo ci tendemmo tutti verso l’Oriente, verso quel mondo dove gli slavi dalle fronti larghe e gli occhi affusolati di gatto stavano costruendo nuovi orizzonti. Sentimmo il vento oltre le nuvole baciarci il volto, fu un soffio, un piccolo istante, poi ci sentimmo risucchiati sul fondo. Fra le giunture di metallo non ancora saldate penetrava l’acqua col suo sibilo isterico. Stavamo partendo senza che il nostro scafo fosse pronto ad affrontare la liquidità dei mari, e così Notte inizio ad affondare, una spanna dopo l’altra, ad una velocità inesorabile, senza che avessimo tempo di scuoterci, anche se poi noi non volevamo davvero scuoterci dai nostri desideri, dai nostri sogni. L’orizzonte si chiudeva in un cerchio sempre più stretto che ci si strinse attorno alla gola fino a penetrarci nei polmoni. Fu così che morimmo tutti, tutti quanti, proprio tutti, ingoiati dal mare. I Naconiani scoppiano a contorcono in singhiozzi. sofferenza. Le urla e le seppia lungo il mento e sul piangere. Ululano di dolore, si I loro visi si pietrificano dalla lacrime fanno colare il nero di collo. NACONIANI Ieso, ieso, cusa m’arcordo, è morti pure i parenti mia, là n’tel mare – E pure queli de la famija mia, semi andati giù tuti, erimi i parenti de mama mia… – Fatigami tutti là ’nte ’l porto. C’è cascata ’nte la testa ’na sasata, per quela cazata – ’Nte la famija mia c’è un bugo d’orfani. Chi duveva alungà da magna’ e da beve ai noni miei, quan’erane piculini, è andato giù in fondo e c’è rmasto a fase spapolà da le onde – Dopo qu’la facenda ce semi rtrovati de note, da soli, fracidi a guardà il mare, che s’era fato sempre più grigio e c’ha magnati a tuti quanti. – Semi rimasti tuti quanti spersi. OPERAIO Anche io quel giorno sono morto, sono scivolato in un liquame melmoso dove è marcita la mia vecchia forma di uomo venuto su fra i vicoli e le faville dell’acciaio. Sono stato mangiato dai pesci. Incapace di amare, livellato sul fondale. Ora esisto solo di giorno, inseguendo forme di lavoro che non riesco a comprendere più. Ogni notte torno a vivere nell’ombra di quell’ebrezza che provai proprio quella notte, prima di affondare. Ma la notte è solo un sogno. Il giorno mi scorre davanti e io non lo posso afferrare, io come tutti gli altri che vivono nel mio stesso baluginare, nello stesso sfarfallio di luci al neon che mi vibrano davanti agli occhi. Poi l’Operaio si alza e si va ad inabissare nel cespuglio ai margini della scalinata. Il corteo si rimette in movimento, mentre i pianti e gli ululati dei Naconiani non si placano. “Viandanza” di Luigi Nacci, educazione sentimentale per camminanti | Fabio Orecchini PROLOGO lì dove hanno origine le domande Ti ricordi quando ci siamo incontrati? Era pieno giorno, era uno sterrato poco fuori città, ci siamo incrociati senza dire nulla, senza salutarci, tu lasciavi la città, io vi tornavo. Avevi il passo incerto di chi si appresta a lasciare ogni cosa, il passo della paura. Non ti voltavi indietro perché, se lo avessi fatto, la terra si sarebbe aperta sotto i tuoi piedi, saresti caduto, la terra si sarebbe richiusa. Non ricordi? Era piena notte, era piena pioggia, e tu camminavi su e giù per quella strada poco illuminata, ti lasciavi bagnare, eri tutto raccolto in te, nelle tue spalle, le mani nelle tasche e il volto tirato, la pioggia ti batteva con insistenza e tu la lasciavi battere, camminavi come se non ci fosse alternativa al camminare, come se riuscissi a ricordare di nuovo, ma ricordare che cosa poi, con il sorriso di chi sta riportando a sé suoni lontani, vite che si pensavano perdute e che ad un tratto si salvano. Avevi il passo della nostalgia, vero? E mi ricordo anche di quella mattina, c’era ancora la nebbia che preserva i profili delle cose, non c’era nessuno in piazza a parte te, sulla panchina più defilata, in attesa di una partenza. Sei poi partito? Sei riuscito ad uscire incolume da quella sosta? Dalle soste non sempre si esce, a volte vi si rimane prigionieri, e dopo un certo tempo si sparisce. Ci sono molti modi di essere immobili, a seconda che il viaggio che si sta per intraprendere sia lungo o breve, che si sia diretti a est o ovest, o che sia un viaggio da cui si pensa di non fare ritorno. Tu eri immobile con la postura di chi non sa dove sia diretto e per quanto tempo, ma è consapevole di dover partire da solo. Quanta risolutezza c’era in te? Quanto terrore? Quanta speranza? Mi ricordo anche della sera in cui ti vidi chinato su una fontana, intento a bere come se non avessi bevuto per giorni, con il tuo zaino buttato a terra, segno che te l’eri tolto frettolosamente, che il desiderio di bere aveva trionfato. Quanto avevi camminato? E quanto era buona quell’acqua? Era appagamento, o era anche pienezza, qualcosa che si avvicina alla rotondità della gioia? Tu hai camminato. Hai accettato il rischio. Hai lasciato alle spalle quella che chiamavi casa, hai preso commiato dagli amici, o forse è stato solo un cenno di saluto, e repentinamente hai sentito di essere entrato nel viaggio. Entrandoci, il tuo corpo è mutato, o ha iniziato a mutare, che in fondo è la stessa cosa. Quando Darwin tornò da uno dei suoi viaggi, la prima cosa che notò suo padre è che la sua testa aveva un’altra forma. Probabilmente la testa aveva iniziato la mutazione dopo che egli si era separato da suo padre, o ancora prima, nel momento in cui aveva iniziato a preparare i bagagli. Ma accade solo alla testa? O è una metamorfosi che investe anche le braccia, il naso, le gambe, il modo in cui ridi, stringi la mano, in cui apri la mano, la agiti per dire arrivederci a quelli che sono venuti alla banchina del treno? Nel viaggio tutto cambia, e nel cammino, che è il viaggio all’ennesima potenza, tutto cambia all’ennesima potenza. Con te, cambiano all’ennesima potenza i tuoi sentimenti e le tue sensazioni. Si potenziano e si rimescolano, al punto che distinguere l’uno dall’altra risulta difficilissimo. Era disperazione, quella che provavi scendendo da quel monte, nella bufera, o era eccitazione? Non esiste, e lo sai, perché lo hai provato, il cammino della gioia o il cammino del dolore o il cammino della malinconia, dell’apoteosi o della disperazione, dell’agonia, della leggerezza. Nel cammino c’è tutto. Ma è pur vero che in ogni situazione della vita un sentimento prevale sugli altri. Ecco, questo libro tratterà di quei sentimenti, quelle immagini, quei rumori di fondo che si fanno prevalenti durante il cammino. Sullo sfondo troverai i paesaggi che incastonano le strade verso Santiago de Compostela e verso Roma. Se ne sarebbero potute scegliere altre, meno conosciute, più originali? Meno conosciute sì, più originali no. Larga parte delle strade che percorriamo oggi in Europa, infatti, o sono romane o appartenenti al sistema viario che, dal Medioevo, unisce Santiago a Gerusalemme passando per Roma. Basta la toponomastica a confermarcelo. Si può essere originali dimenticandosi delle proprie origini? Sono vie che, se sappiamo ascoltare, ci parlano, ci raccontano quello che siamo stati e come potremmo essere. Sono parte integrante del nostro immaginario occidentale. La famosa affermazione di Goethe, «la coscienza europea è nata pellegrinando», non è una boutade o una frase di poco conto. Quando l’Europa l’abbiamo solcata con i piedi, in un tempo in cui imperversavano le guerre e le frontiere erano invalicabili, siamo stati probabilmente più europei rispetto a questi anni in cui la visitiamo con le macchine, con gli aerei e con i treni ad alta velocità. Sono vie che ci interrogano e che si fanno interrogare. Perché mettersi in cammino? Che cosa cerco? Che cosa mi aspetto di trovare? Perché il cammino e non qualsiasi altra cosa? Questi e altri punti interrogativi ti resteranno tra le mani, e le mani ti scotteranno, li scaraventerai al suolo per non ustionarti, ma prima o poi attecchiranno come semi, e con la buona stagione piante rigogliose si svilupperanno verso il cielo, saranno alberi monumentali, con un’aspettativa di vita molto più lunga della tua. Ti capiterà, un giorno, andando per i campi, di incappare in un bosco di cui le mappe non danno conto. Ci saranno sequoie laddove non potrebbero esserci, o querce, o pini, alberi molto alti ai cui piedi, nelle ore centrali del giorno, ti siederai per godere dell’ombra. Allora le domande di cui credevi di esserti sbarazzato squarceranno la corteccia dall’interno, inizieranno a colarti addosso, come filamenti di resina. Prenderai la borraccia, ti butterai l’acqua in testa, farai di tutto per toglierti quella sostanza vischiosa di dosso. Ma la resina non se ne andrà. ——————Viandanza. Il cammino come educazione sentimentale, Luigi Nacci, Editore Laterza, 2016 – Il blog dell’autore (con il calendario delle presentazioni): – La pagina facebook del libro – Scheda editoriale L’amico di Mauro | Estratto dal romanzo in stesura di Giuseppe Merico UNA SPIEGAZIONE Il romanzo si compone di tre momenti diversi che si alternano tra loro, la storia si svolge in Puglia negli anni ottanta tra la provincia di Brindisi e quella di Lecce, un primo momento vede un ragazzo di tredici anni di nome Pietro Manni che una mattina assiste al tentato suicidio del suo miglior amico che si chiama Mauro Nitti, il quale decide di lanciarsi dalla finestra della scuola per poi finire in coma, a seguito dell’evento Pietro presenta disturbi psicologici, per questi è seguito da un terapeuta che lui chiama Cappotto, soffre anche di crisi epilettiche. Il secondo momento ci mostra l’amicizia tra il fratello più piccolo di Mauro Nitti, Darietto e un vecchio camionista che si chiama Bill Dal Monte, il vecchio è alle dipendenze di un malvivente del posto, l’Ingegnere, il quale gli chiede di aiutarlo a nascondere e sorvegliare in una masseria della zona un narcotrafficante che opera nel milanese che si fa chiamare Teschio. A seguito della richiesta, Bill Dal Monte chiede consiglio alla vecchia Lù, un’anziana donna che ha il dono di prevedere gli eventi. Nel terzo momento c’è il legame tra Pietro Manni e Mauro Nitti, i due trascorrono le giornate in una fabbrica di pomodori dismessa, ma si accorgono di non essere i soli a frequentare il posto, qualcuno sa di loro, qualcuno li spia. DUE PARTI Questo estratto è diviso in due parti, presentate qui come sono nel romanzo, una di seguito all’altra, nella prima gli eventi si svolgono al presente, Pietro Manni si trova in ospedale a seguito di una forte crisi epilettica, il suo amico Mauro Nitti è ricoverato nello stesso ospedale in stato comatoso. La seconda ci parla dal passato, Darietto, il fratello di Mauro si trova in casa di Bill Dal Monte assieme al nano per sottoporsi a un’indicazione che Bill Dal Monte ha ricevuto dalla vecchia Lù, un’anziana donna che ha il dono di prevedere gli eventi. Nel terzo momento c’è il legame tra Pietro Manni e Mauro Nitti, i due trascorrono le giornate in una fabbrica di pomodori dismessa, ma si accorgono di non essere i soli a frequentare il posto, qualcuno sa di loro, qualcuno li spia. Durante la visita del mattino il dottore, che fa Isceri di cognome, come la mamma, anche se non è un suo parente, un uomo basso e grasso dell’età di papà, con una grossa voglia più chiara della pelle della sua faccia che gli parte dal collo e gli finisce sotto l’orecchio destro mi ha detto, “stai quasi per essere liberato da Guantanamo,” si è guardato intorno per raccogliere il consenso dei suoi assistenti e ha continuato, “puoi andartene in giro liberamente e cercare qualche bella paziente della tua età.” I suoi assistenti hanno sorriso, anch’io ho sorriso. Ho pensato che sarei tornato a far visita a Mauro Nitti. Eppure quando me lo avevano chiesto loro, mia madre, mio padre e anche Clara mi era venuto più che naturale rispondere di no, che non sarei tornato lassù, all’ultimo piano dell’ospedale, nel reparto speciale dai vetri offuscati, dai muri verdi, dove Mauro dorme sul materasso ad aria, con le ossa rotte, con il tubo nel naso, con la pelle bianca come carta, attaccato alle macchine, dove è rimasto sospeso nel salto, nell’aria del mattino estivo e azzurro che si è lacerata, offesa, che è rimasta immedicata, senza che io lo guardassi, svegliandomi la notte durante un sonno agitato dalle grida delle mie compagne di classe nella testa, la finestra della classe rimasta aperta. Tutto andrà per il meglio, domani o dopodomani mi manderanno a casa, il mio compagno di stanza, Carmine Esposito è uscito questa mattina, mi ha regalato un libro sul Napoli Calcio, non so che farmene. Mi prenderanno con la macchina e ci trasferiremo nella casa del paese di mare, le lunghe passeggiate sulla riva al mattino presto quando sulla spiaggia ci sono solo i vecchi o le madri con i bambini piccoli faranno bene a mia madre, l’aiuteranno a stemperarsi, anche con Clara non va molto bene, non si parlano, per via di Lorenzo Centonze, mi ha detto mio padre che l’altra sera c’è stata l’ennesima discussione, alla fine mia sorella ha telefonato a Lorenzo e gli ha detto di venire a casa, quando è arrivato non è entrato, mia madre è rimasta dietro la finestra a guardarli che parlavano nel buio, quando lui l’ha chiamata e le ha detto di togliersi da lì che forse stava esagerando, lei non si è girata a guardarlo e nemmeno gli ha risposto. Due suore vestite di bianco camminano una di fianco all’altra, la luce forte che entra dai finestroni che stanno a lato del lungo corridoio le rende immateriali, le sospende a qualche centimetro dal pavimento, come se mi venissero incontro senza muovere i piedi, scivolando silenziose, in questo corridoio dell’ospedale un po’ in discesa non c’è nessun altro, quando i miei occhi incrociano i loro mi sento trafitto, faccio un colpo di tosse per buttare fuori qualsiasi cosa abbia percepito in quello sguardo, una volta che sono passate le sento ridere di me, di quello che sto per fare. Un portantino con uno stupido e piccolo berretto sottile e bianco calcato sulla testa spinge a fatica una carrozzina sulla quale è seduta una donna enorme con una faccia che trabocca, a traboccare non è solo la sua faccia ma anche i fianchi che sono incastrati ai lati della sedia e impediscono alle grosse ruote di muoversi liberamente, tra le labbra del portantino c’è una sigaretta spenta, mezza fumata, con la testa nera, gli occhi della donna somigliano a quelli di un pesce spiaggiato, nel suo naso sono infilati due tubicini di plastica trasparente che la collegano a una piccola bombola dell’ossigeno appesa a un bracciolo della sedia, una volta che sono passati sento che la donna enorme pronuncia il mio nome, Pietro, con una voce bassa e soffocata, mi volto, il portantino continua a spingere come se nulla fosse, li guardo allontanarsi, non è vero mi dico, mi sono sbagliato, mi volto, continuo a camminare, il corridoio è finito, oltre la porta a vetri c’è l’atrio del Pronto Soccorso, da lì viene un brusio di voci che si fanno sempre più insistenti man mano che mi avvicino, quando poggio la mano sulla grossa maniglia di ferro che ha la forma di una croce, e sto per aprirla, sento la voce del portantino che echeggia nel corridoio, i due ormai sono lontani, lu figghiu de lu dottore, il figlio del dottore, urla, ce l’ha con me, sono io, qualcosa mi abbandona, sudo freddo, la porta è aperta, le persone sedute sulle panche di legno dell’atrio hanno occhi che mi guardano dentro, è un attimo, inizio a correre, in pigiama, con le ciabatte ai piedi, fuori c’è un autoambulanza ferma, parcheggiata sulla salita del Pronto Soccorso, due infermieri sono seduti sul muretto, al sole, fumano, si sono tolti gli zoccoli, i loro piedi hanno alluci carnosi, calmati, mi ripeto, calmati. Una volta, in un pomeriggio d’estate come questo un amico che adesso non vive più al paese, Giambattista si chiamava, mi aveva chiuso per gioco in una cisterna vuota, all’inizio ci ero stato, gli dicevo che mi sembrava di essere in un sommergibile, la mia voce rimbombava contro le pareti metalliche, mi fidavo di lui e il buio in cui ero sprofondato non mi faceva paura, Giambattista rimaneva in contatto con me parlandomi dall’esterno del cassone, era un sommergibile che si immergeva negli abissi più neri, da fuori lui mi diceva a quale profondità ero arrivato, mi descriveva i mostri marini che incontravo. Era un gioco. Poi d’improvviso aveva smesso di parlarmi, lo chiamai più volte, non rispondeva, cominciai ad avere paura, la mia voce mi rimbalzava contro nel buio e quando cominciai a battere contro le pareti del cassone anche i colpi presero a rimbalzare da tutte le parti, arrampicato sugli scalini assestavo pugni contro lo sportello chiuso, Giambattista non rispondeva, avrei potuto starmene fermo e aspettare, era uno scherzo, in fondo lo sapevo, voleva vedere la mia reazione, ma invece di giocare ad aspettare in silenzio il momento in cui avrebbe aperto lo sportello la paura si era impossessata di me e i colpi e la mia voce avevano innescato un meccanismo che la alimentava. Alla fine quando sentii che faceva ruotare il maniglione avevo le lacrime agli occhi, mi tremavano le gambe e le mani. Io sono la cassa di risonanza della mia paura, cammino sotto l’ombra dei pini, in questa parte del giardino dell’ospedale i pazienti non ci sono, non ci sono i visitatori, ci sono le macchine parcheggiate e qualche addetto al trasporto dei rifiuti ospedalieri con la tuta la grigia che fa il suo lavoro. E’ un tentativo, non so se ci sarà qualcuno dentro, se lo posso fare oggi, non me ne accorgo ma quando mi fermo dietro la camera mortuaria scopro di aver camminato nel brecciolino, come un sonnambulo, le pantofole sono piene di polvere, ho il cazzo dritto. La giornata è calda, sono venuto qui, non ho paura di avere un’altra crisi epilettica, sto prendendo i farmaci, Mauro Nitti mi sta aspettando, inizierò appena posso, mio padre ha infilato le sue dita telescopiche nel corpo di qualcuno, ha uno sguardo così concentrato da sopra la mascherina che gli copre la bocca e il naso, ma forse mi sbaglio, forse ride di qualcosa che ha appena detto un suo collega, mentre operano, mia madre è tornata a casa serena, ha finito con l’ospedale, oggi andava all’incontro del circolo di lettura, Clara è al canile, i cani hanno bisogno di bere, i cani soffrono il caldo, c’è da pulire bene il pavimento, passare lo straccio, con il caldo gli odori si fanno intensi, prendersi cura dei cani malati, uno di loro sta morendo, non ho più visto il padre di Mauro Nitti, ho paura di incontrarlo. La superficie del muro della camera mortuaria è gialla, porosa e crepata, la navigo con le dita, calpestando le piante infestanti che le crescono addossate, hanno i gambi tozzi e l’aspetto di armature medioevali, c’è un odore acre, salato, con punte acidule, viene da un recinto di legno tirato su a qualche metro dalla camera mortuaria, tra i pini, dentro c’è lo scheletro di un letto, i pali delle flebo, dei materassi infilati in buste di plastica nere, ci sono dei sacchi voluminosi, neri anche loro, chiusi, ci sono due comodini rotti, smontati, delle lastre buttate lì, fascicoli contenenti carta che fuoriesce, su tutto un materiale denso e grigio come una colata di cemento. Guardo quello che posso, mando dentro ai polmoni, sono solo, domani vado a casa, questa è una pausa, mentre cammino mi tocco sotto, rimando il momento in cui vengo, ho voglia di sborrare sul muro della camera mortuaria, sulla porta di legno, sarei entrato dentro, ma la porta è chiusa, un vetro della porta è rotto, il sole picchia, le lucertole si rincorrono sui muri, non mi era mai successo, che mi sentissi chiamare, che sentissi delle voci, devo dirlo al Cappotto, è venuto a trovarmi, il secondo giorno che ero dentro, è stato papà a telefonargli, sarebbe potuto non venire, non era nei suoi compiti, lui è venuto, mi ha fatto piacere, mi ha portato il fumetto de L’eternauta, quando vengo mi ritrovo a sbattere con tutta la schiena contro la porta di legno della camera mortuaria, contro il vetro, oltre il muro dell’ospedale il sole è alto, mi accieca, in questo buio che ho cercato tutti i fantasmi vengono a raccolta. Il corpo di Darietto era coperto di cenere dalla testa ai piedi, anche i capelli, era stata la vecchia Lù a dirgli di farlo e Bill Dal Monte lo aveva fatto, con la cenere della stufa, con quella che era rimasta del fuoco del giorno prima, a Darietto non importava, si era tolto i vestiti e aveva lasciato che le mani di Bill e del nano lo tingessero di grigio, rideva, anche il nano rideva, il pisello del ragazzino era esposto all’aria, non se lo copriva nemmeno, ci giocava anzi facendo finta di pisciare addosso ai due. Il gatto dormiva standosene acciambellato sulla poltrona, il vetro della finestra della cucina di Bill teneva un dialogo serrato con il vento che fuori soffiava forte, a ogni spinta faceva seguito un tremito. Quando ebbero finito il nano non stava più nella pelle, aveva preso a muovere le mani a casaccio e a strabuzzare gli occhi, sembrava volesse dire qualcosa ma le parole non gli uscivano, Bill Dal Monte se ne era accorto, per questo si era allontanato da Darietto ed era andato ad aprire la porta di casa, tenendola ferma con un piede, una serie di folate fecero rabbrividire Darietto mentre il nano era già scomparso nella stanza da letto di Bill, sentirono i suoi versi simili a grugniti, ma non mancavano fischi e bestemmie, sentirono che armeggiava con il letto di Bill sollevandolo dal pavimento tre o quattro volte, con il comodino, apriva e chiudeva l’anta dell’armadio, tra un po’ non ce l’avrebbe fatta più, Bill lo sapeva e aspettava sulla porta tenendola aperta, Darietto chiese a Bill se poteva andare in bagno a lavarsi, lui gli rispose che ci sarebbe andato dopo che avevano finito con il nano, sulla poltrona il gatto non c’era più, era andato a nascondersi chissà dove. Il vetro della finestra della cucina sembrava sul punto di rompersi trovandosi in mezzo a due opposte correnti d’aria, quella che continuava a spingere da fuori e l’altra che era il risultato del giro che l’aria una volta entrata faceva nella cucina. Ci fu un momento di silenzio, i rumori nella stanza da letto di Bill erano cessati, Darietto e Bill si guardarono con gli occhi appuntiti, con le orecchie tese, pronte, Darietto si era stretto nelle braccia e stava in piedi un po’ ingobbito tutto coperto di cenere. D’improvviso sentirono un urlo, ma non era un urlo umano, era il gatto che emise un miagolio nervoso, lo sentirono soffiare come se stesse per attaccare o volesse difendersi, “sta arrivando,” disse Bill, poi ci fu un altro urlo, questa volta umano, era il nano, “mannaggia li muerti mei!” che malediva i suoi morti. Darietto se lo vide correre incontro, nudo, corto e tozzo, con la bocca storta, i capelli tutti all’aria e due occhi spiritati, fece per ripararsi con le mani, ma all’ultimo momento il nano sterzò e prese la via per la porta di casa, “fuci! Fuci!”, corri, corri! Gli gridò dietro Bill Dal Monte, ridendo e seguendolo con lo sguardo, prima di richiudere la porta. L’ultima cosa che vide furono le chiappe pelose del culo del nano che lo assecondavano nella corsa, sembrava uno scimpanzé. Darietto non riusciva a crederci, si era infilato sotto la doccia e aveva aperto l’acqua calda, la cenere veniva via facilmente, stava canticchiando la sigla di Capitan Harlock quando Bill Dal Monte gli comandò di fare presto perché lui doveva andare. Ancora una volta come sempre era accaduto negli ultimi dieci giorni. Darietto si fidava ciecamente del vecchio ma lo conosceva abbastanza bene da sapere che questa volta non gliela stava raccontando giusta, no proprio. Non riusciva a credere che non stesse succedendo niente. Come quella volta quando l’Ingegnere lo mise a fare il guardiano delle giostre di un paese vicino, Bill Dal Monte non aveva detto niente a nessuno, per paura che la bande dei ragazzi, sia quella dei più grandi che quella dei più piccoli gli mandassero all’aria il lavoro. Darietto e gli altri lo vennero a sapere soltanto l’ultimo giorno quando ormai le giostre le stavano smontando e il divertimento era finito. Darietto ancora glielo rinfacciava al vecchio Bill. Si tirò fuori dalla vasca e si asciugò velocemente con un asciugamano. Di là il nano era tornato a riprendersi i vestiti, adesso stava meglio, gli era passata, lo sentiva parlare con Bill con quel suo modo che gli ricordava qualcuno che non riuscisse a liberarsi di una tosse stizzosa, sempre in dialetto, e sempre alternando un tono molto alto a un altro con il quale dovevi avvicinarti per sentire quello che diceva, sembrava che prima gli uscissero dalla bocca delle pietre molto grosse e che poi queste lasciassero il posto a sassolini via via più piccoli fino a quando quello che sputava fuori era una specie di pietrisco sottile simile a sabbia. Doveva seguirlo, sapere dove andava, senza essere visto, senza che Bill se ne accorgesse. Quando uscì dal bagno il nano gli fece le feste saltandogli incontro, accarezzandolo con le mani grosse e chiamandolo piccinnu miu, piccolo mio. Il vento si era ritirato e la finestra della cucina aveva smesso di tremare, il gatto si era sistemato sotto la stufa accesa, teneva gli occhi chiusi ma le orecchie erano dritte e si muovevano da sole, segno che ancora si doveva riprendere dallo spavento. La radio era accesa e sintonizzata sul canale che il vecchio ascoltava sempre, una stazione di Brindisi che trasmetteva il liscio. Darietto si guardò in giro ma Bill Dal Monte non c’era e quando chiese al nano dove fosse andato lui gli rispose facendo un cenno con la testa come a voler dire no e muovendo le braccine su e giù con le grosse mani spalancate come se non potesse dirglielo, andò avanti così per un po’ mentre Darietto guardava fuori dalla finestra per vedere se la macchina di Bill fosse ancora parcheggiata sulla strada fuori dal cortile. La macchina c’era. Qualcosa nella testa del ragazzino si mosse, sentì come uno scatto che lo portò a prevedere la prossima mossa, la sua e quella del vecchio. S’infilò il giubbotto, salutò il nano e uscì da casa di Bill. Sarebbe potuta andare il male, il suo piano avrebbe potuto rivelarsi un buco nell’acqua, ma non gli costava niente, era domenica, non c’era scuola, suo padre e suo fratello Mauro sapevano che sarebbe rimasto a fare compagnia al vecchio per tutto il giorno. Di tempo ne aveva. La macchina di Bill, una vecchia Fiat 131 Supermirafiori stava parcheggiata appena fuori il cortile, il bagagliaio era rotto, il vecchio non lo aveva mai riparato, lo teneva chiuso con una corda elastica per evitare che si aprisse, doveva solo infilarcisi dentro e aspettare che lui tornasse. Aspettò lì per mezz’ora e proprio quando stava per capitolare e tornarsene a casa sentì lo sportello aprirsi e chiudersi e la macchina avviarsi. LISA WRIGHT