Unione Sovietica Corrado Bevilacqua
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Unione Sovietica Corrado Bevilacqua
Unione Sovietica A cura di Corrado Bevilacqua I libri di laprimaradice.myblog.it Prefazione C'era una volta l'Unione sovietica. Essa dominò la politica mondiale per 70 anni. Poi, sparì nel nulla. Nessuno parla più di essa, come se per 70 anni, fossimo vissuti in un sogno! Non fu così. L'Urss non fu un sogno. Fu una potenza economica e militare che dominò il mondo assieme agli Stati uniti d'America per i quali rappresentava l'Impero del male. Non è ancor chiaro come accadde ma accadde. L'Impero del male si sbriciolò e l'Unione sovietica sparì nel nulla. Questo fatto porta alla memorias la domanda ddel dissdente sovietico Andrei Amalrik:Arriverà l'Unione sovietica al 1984? Il riferimento di Amalrik era per il famoso romanzo di George Orwell 1984. Lìipotesi di un'esplosione dell'impero sovietico era stata avanzata da Hélène Carrére d'Encausse in Esplosione di un impero?, edizioni e/o Geografia Generalità URSS (Unione delle repubbliche socialiste sovietiche). Ex Stato dell'Europa orientale e dell'Asia centrale e settentrionale, costituito da 15 Repubbliche (Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Estonia, Georgia, Kazahstan, Kirgizistan, Lettonia, Lituania, Moldova, Russia, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina, Uzbekistan) che, proclamando la propria indipendenza tra l'11 marzo 1990 e il 16 dicembre 1991, determinarono il crollo della massima unità politica e geografica della Terra. Dodici delle 15 Repubbliche si sono riunite nella CSI (Comunità di Stati indipendenti), che non ha però strutture parlamentari ed esecutive proprie. Organi esecutivi sono il Consiglio dei capi di Stato e il Consiglio dei capi di governo, che si riuniscono almeno due volte l'anno e la cui presidenza è assunta, a turno, da uno degli Stati membri. Non ne sono entrate a far parte le tre repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania). Geografia umana Nonostante la fortissima prevalenza dell'elemento russo nella quantità totale di popolazione, l'immensa estensione del territorio e la varietà dei paesaggi fisici e antropici hanno fatto dell'Unione Sovietica un complicato mosaico etnico. I più antichi nuclei conosciuti erano situati al di fuori del centro storico dell'impero e dell'Unione, ed erano dunque estranei ai paesi russi in senso stretto: essi si collocavano nel Caucaso e nelle montagne dominanti la depressione compresa tra il lago d'Aral e il Mar Caspio. Ma fu l'invasione dei popoli delle steppe ad avere una parte decisiva nella formazione delle nazioni russe. Venuti dall'Alta Asia i popoli d'origine mongolica o tatara si imposero dapprima nella zona della depressione aralo-caspica, poi si diressero verso occidente, distruggendo il principato di Kiev, primo Stato russo centrato sul bacino del Dnepr, e assoggettando i russi. Solo nel sec. XV si invertirono i rapporti di forza: l'unificazione dei vari principati russi e la formazione della Moscovia segnarono l'inizio della riconquista dei territori russi e della ricostruzione, nel corso di tre secoli, di un immenso impero che dalla Vistola si sarebbe spinto fino all'oceano Pacifico. Riassumendo, alla fondazione dei principati medievali si può far risalire la distinzione esistente, nella comune matrice slava, tra Ucraini, Russi Bianchi (o Bielorussi) e Russi veri e propri (o Grandi Russi), i quali ultimi hanno avuto nel Paese sempre un ruolo predominante. Altri gruppi distinti erano quelli baltici, preslavi, dei lituani e dei lettoni, cui si aggiungevano gli estoni, parenti dei finnici; importanti i gruppi della regione caucasica, che comprendevano i georgiani, gli azerbaigiani (che sono però di origine turco-mongola), oltre agli armeni scampati al genocidio inferto dai turchi all'inizio del sec. XX; caratteristiche della regione caucasica sono l'estrema frammentazione etnica e la persistenza di popolazioni spesso antichissime che si sono conservate grazie alle chiusure vallive della regione. L'Asia centrale era rappresentata da varie popolazioni turche o turco-mongole in cui il gruppo più numeroso era quello degli uzbechi seguiti dai loro affini kazachi, dai kirghisi e dai turkmeni; di ceppo iranico sono invece i tagichi. Tutte queste nazionalità diedero vita a repubbliche distinte (e successivamente Stati indipendenti dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica) all'interno delle quali si trovano però ulteriori gruppi etnici, in genere minori, a volte tuttavia numericamente assai consistenti che spesso hanno dato luogo a veri e propri conflitti etnici. Demografia La situazione demografica dell'impero russo all'inizio del sec. XX era quella di tutti i Paesi dell'Europa moderna a economia rurale con forte incremento della natalità che creava problemi di difficile soluzione accelerando la colonizzazione agraria verso la parte meridionale della Siberia occidentale. La rivoluzione del 1917 e il successivo processo di industrializzazione, accompagnato da un notevole incremento della popolazione urbana, portarono a un profondo mutamento nelle condizioni sociali di vita e nel comportamento demografico. L'indice di natalità discese rapidamente, quello di mortalità, che si aggirava intorno al 2%, assai più lentamente, anche considerando che la prima grande guerra, la rivoluzione e la guerra civile avevano portato a un impoverimento delle classi giovani e a un invecchiamento generale della popolazione. Sui vuoti causati dagli eventi militari e politici non si possiedono cifre precise, ma le stime rivelano un deficit demografico tra i 10 e i 15 milioni, tenendo conto delle perdite di vite umane per fatti di guerra, carestie, epidemie e contrazione delle nascite nel periodo bellico. La parte più cospicua delle perdite riguardava ovviamente gli adulti giovani di sesso maschile e il Paese ne risentì proprio nel momento in cui aveva maggior bisogno di manodopera per la realizzazione del primo dei piani quinquennali; di qui un'intensa campagna di propaganda demografica che ottenne i primi risultati negli anni successivi al 1930; l'accrescimento naturale alla vigilia della seconda guerra mondiale si aggirava sui 2-2,5 milioni di unità all'anno. Un nuovo periodo di intensa propaganda demografica si ebbe dopo la seconda guerra mondiale, allorché la popolazione dell'Unione Sovietica fu di nuovo duramente provata: a quasi 20 milioni assommavano le vite perdute in combattimento o in seguito alle deportazioni, a 10 milioni le nascite mancate. Fu solo alla fine degli anni Cinquanta che l'indice di natalità riuscì a stabilirsi intorno al 2%. Demograficamente l'Unione Sovietica è stata caratterizzata, fino al 1990, da buoni incrementi naturali essendosi l'indice di natalità attestato intorno al 17,5‰ e quello di mortalità, fortemente ridottosi grazie alle migliorate condizioni di vita, intorno al 10‰; nel complesso nel periodo 1985-90 il coefficiente di accrescimento si aggirava intorno allo 0,9%. Il 34% ca. della popolazione dell'Unione Sovietica era considerata rurale. È una percentuale relativamente bassa se si pensa che alla fine del sec. XIX oltre l'80% della popolazione viveva ancora nei villaggi. Il processo di urbanizzazione è infatti avvenuto interamente nel corso del sec. XX, in rapporto al poderoso sviluppo dell'industrializzazione. La popolazione rurale dell'Unione Sovietica viveva per gran parte in centri di ca. 2000 abitanti o nei mir. In generale, comunque, non va dimenticato che fattori etnici, storici ed economici hanno influenzato anche la varietà degli insediamenti dell'Unione Sovietica, i quali, accanto al mir, comprendevano gli insediamenti con le case di fango dell'Asia centrale, o i villaggi di pietra arroccati (aul) sui versanti del Caucaso, o gli accampamenti nomadi degli allevatori di renne della tundra ecc. Per quanto riguarda l'organizzazione gerarchica dei centri, non si era formata nell'Unione Sovietica una gamma di insediamenti così ampia come in Europa, dove l'organizzazione del territorio ha selezionato (in funzione dei modi di produzione capitalistici) i vari centri in rapporto ai molteplici ruoli e collegamenti che essi hanno nei confronti della campagna. L'urbanesimo aveva assunto cioè un carattere meno “maturo” e spesso tra villaggio e città con ruolo amministrativo provinciale (oblast) sono mancati centri di dimensioni intermedie. Economia Se oltre che dei puri indici quantitativi si tiene conto della gamma e della qualità delle produzioni e dei servizi, nonché del generale livello di vita e del grado di “cultura” tecnologica che contraddistinguevano l'Unione Sovietica, risulta evidente che veniva senz'altro preceduta dagli Stati Uniti, pur detenendo moltissimi primati in campo sia agricolo sia minerario sia industriale. Tuttavia le complessità e le peculiarità delle strutture economiche sovietiche e ancor più lo strettissimo rapporto esistente tra il “momento” economico e quello sociale nella vita del Paese rendono meno perentorie certe affermazioni, più ardui i confronti. Si consideri solo il fatto che la principale ragione per cui l'Unione Sovietica è stata una grande potenza economica consiste senza dubbio nelle straordinarie risorse naturali del suo immenso territorio; ma proprio questa gigantesca estensione ha creato problemi di eccezionale gravità per l'organizzazione dello Stato, impegnato a qualificare economicamente e a strutturare in modo omogeneo un Paese caratterizzato da ogni diverso tipo di condizione climatica e ambientale esistente sulla Terra e dove convivevano una cinquantina di gruppi etnici, europei e asiatici. Non sono mancati ovviamente gravi squilibri regionali, la cui progressiva eliminazione era l'enorme sforzo che lo Stato, al momento della sua dissoluzione, si accingeva a compiere per un'integrazione economica globale di tutto il Paese. Tali considerazioni servono anche a comprendere meglio il centralismo economico, che s'impose all'indomani della Rivoluzione, ma che divenne rigidissimo con Stalin, un centralismo trasformatosi in un vero e proprio asservimento di tutta la popolazione alle direttive del governo, volte a creare pressoché dal nulla le strutture industriali di base. Furono decenni durissimi, durante i quali però l'Unione Sovietica riuscì a imporsi sulla scena mondiale come grande potenza. Il processo di sviluppo si articolò con modalità del tutto originali, diverse da quelle di qualsiasi altro Paese del mondo e, per il primo trentennio in cui l'Unione Sovietica fu l'unico Stato socialista esistente, con un minimo di relazioni e scambi con l'estero. Le basi di un'organizzazione socialista dell'economia venivano poste nel 1928 con l'applicazione del primo piano quinquennale di sviluppo; elemento essenziale era l'assunzione da parte della collettività di tutte le fonti e di tutti i mezzi di produzione. Anche il credito era nazionalizzato, così come il commercio e i servizi. L'impresa di produzione era sempre un'impresa pubblica, nell'agricoltura il kolchoz, cioè un'azienda cooperativa, o il sovchoz, un'azienda statale; nell'industria quasi sempre un'impresa di Stato, ma anche – in certi casi – un'impresa appartenente alle collettività regionali o locali. Lo Stato destinava gli investimenti, programmava le produzioni, assicurava la realizzazione dei piani che aveva elaborato, sovrintendeva alla distribuzione dei prodotti finiti e ne stabiliva i prezzi. Col tempo lo stesso crescente peso del Paese sulla scena politica ed economica mondiale e, quindi, l'inevitabile competizione con l'economia statunitense e con quella dei maggiori Paesi industrializzati dell'Occidente, determinarono mutamenti profondi e irreversibili nel sistema produttivo sovietico. L'economia aveva nuovi slanci, assumeva connotazioni sempre più complesse, mettendo in luce tutta l'inadeguatezza del rigido centralismo del passato e la necessità di attuare forme di organizzazione produttiva più articolate, di stampo quasi manageriale, per certi aspetti simili a quelle capitaliste, pur mantenendo intatti i principi basilari del socialismo. Economia: agricoltura Nella struttura economica sovietica il settore primario fu certamente poco dinamico, specie se lo si confronta con quello industriale, il cui intensissimo ritmo di crescita poté essere realizzato grazie anche a ingentissimi investimenti; certi ritardi dell'agricoltura sono tuttavia da imputarsi alle obiettive difficoltà di natura ambientale e socio-culturale proprie di un Paese non particolarmente favorito dalle condizioni climatiche e per di più caratterizzato per secoli da pratiche agricole di tipo latifondistico eminentemente parassitarie. L'immensità del territorio permetteva all'agricoltura di disporre di spazi vastissimi – oltre 230 milioni di ha – ma, in termini relativi, solo il 10% della superficie totale veniva coltivata (vale a dire la metà della percentuale agraria statunitense); inoltre la produttività media dei terreni era sensibilmente inferiore a quella degli Stati Uniti e dell'Europa occidentale. Il numero degli addetti fra la popolazione attiva si aggirava intorno al 14%. Dopo la Rivoluzione del 1917 il problema agricolo fu in effetti il più arduo da affrontare; a un mondo rurale caratterizzato da condizioni di inerzia e di grande arretratezza era chiesta una poderosa accumulazione del capitale, necessaria al decollo dell'industria. Lo strumento prescelto fu il kolchoz, istituito nel 1919 ma divenuto pienamente operante a partire dal 1928 con il primo piano quinquennale di sviluppo, ossia grandi aziende cooperative, derivate dall'unificazione delle proprietà dei singoli contadini, che erano state espropriate poco dopo la Rivoluzione. I membri della cooperativa si ripartivano gli utili derivanti dalla vendita allo Stato dei locali prodotti, inoltre a ogni famiglia era riconosciuta la proprietà della casa e di un piccolo appezzamento, i cui eventuali prodotti agricoli e zootecnici eccedenti il consumo familiare potevano essere venduti sul mercato libero, il cosiddetto “mercato kolchosiano”, presente in ogni grande città. Accanto ai kolchoz, che possedevano ca. la metà dei terreni agrari, operavano i sovchoz, aziende di Stato nate immediatamente dopo la Rivoluzione per lo più in corrispondenza dei grandi latifondi espropriati; concepiti come aziende modello, i sovchoz furono sin dall'inizio altamente meccanizzati e si avvalsero di personale specializzato e stipendiato. Col tempo il numero dei kolchoz diminuì progressivamente, scendendo nell'ultimo quarantennio da oltre 93.000 a meno di 26.000, mentre si accrebbe l'importanza dei sovchoz, passati nello stesso arco di tempo da meno di 5000 a 22.000. Per quanto concerne i quantitativi primeggiava nettamente il frumento, che occupando ca. 50 milioni di ha poneva l'Unione Sovietica al primo posto nel mondo; la sua produzione si aggirava sui 900 milioni di q all'anno, quasi un quarto di quella mondiale. Altri primati assoluti dell'Unione Sovietica erano dovuti alla produzione di orzo (540 milioni di q), avena (170 milioni di q), segale (188 milioni di q). Cifre relativamente più modeste registravano il mais (160 milioni di q), il riso e il miglio (complessivamente 65 milioni di q); imponente era il raccolto delle patate (700-800 milioni di q, produzione anch'essa pari a un terzo di quella mondiale). Fra le altre principali colture alimentari si annoveravano numerosi gli ortaggi, come cavoli (93 milioni di q), pomodori (72 milioni di q), piselli (52 milioni di q), cipolle (25 milioni di q), tutti ampiamente diffusi; nelle aree temperate si producevano soprattutto mele (60 milioni di q), pere (5,5 milioni di q), prugne, pesche, albicocche, agrumi (3,5 milioni di q di sole arance), questi ultimi provenienti dalla Transcaucasia. Particolare importanza aveva la viticoltura (praticata nella regione caucasica e del Mar Nero e in Asia centrale sovietica), che forniva annualmente 50 milioni di q d'uva e 19 milioni di hl di vino. Tra le colture industriali rilevantissime erano quelle della barbabietola da zucchero, diffusa soprattutto in Ucraina, del cotone, quasi interamente fornito dall'Uzbekistan e dal Kazahstan; l'Unione Sovietica primeggiava per la produzione dei semi di cotone (51 milioni di q), mentre per la fibra (40 milioni di q) il primato le era conteso, a seconda degli anni, dagli Stati Uniti o dalla Cina. Coltivato per i semi ma ancor più per la fibra era il lino (3 milioni di q di fibra, 2 milioni di q di semi); tra le fibre tessili la canapa (550.000 q) e il . Produzioni relativamente modeste presentavano invece la soia (9 milioni di q), il ricino, la colza e il sesamo. Completano il quadro delle colture industriali il tabacco (3 milioni di q), il tè (1,5 milioni di q) e il luppolo. L'Unione Sovietica possedeva il più vasto patrimonio forestale della Terra, pari a quasi un quinto del totale mondiale: ben 945 milioni di ha (oltre il 41% della superficie territoriale del Paese) e forniva una produzione annua di legname di 392 milioni di m3. Sul suo sfruttamento si basavano alcune delle più fiorenti industrie del Paese. Economia: allevamento L'ultimo dato riguardante il settore zootecnico dava a 119 milioni il numero dei bovini: di questi 43,5 milioni rappresentati da vacche da latte che consentivano di alimentare un'importante industria casearia, che forniva elevati quantitativi di formaggi (2 milioni di t) e di burro (ca. 1,7 milioni di t). L'Unione Sovietica era, nel 1989, il massimo produttore mondiale di ovini (140 milioni di capi), assai diffusi nell'Asia centrale sovietica, dove l'allevamento estensivo ha sempre avuto antiche tradizioni, come in tutto il mondo musulmano. Grande importanza aveva la produzione di pelli di astrakan e considerevoli erano i quantitativi di lana (2,7 milioni di q); pure in Asia centrale si allevavano la maggior parte dei caprini (6 milioni) e i cammelli. Elevato era inoltre il numero dei suini (78 milioni), dei cavalli (ca. 6 milioni) e soprattutto dei volatili da cortile, di vastissima diffusione (oltre 1 miliardo di capi) che fornivano ca. 4,5 milioni di t di uova. Nella regione siberiana si localizzava l'allevamento delle renne per le popolazioni locali e quello degli animali da pelliccia (volpi, visoni e soprattutto i pregiatissimi zibellini, di cui l'Unione Sovietica era l'unico produttore mondiale). Economia: pesca Enorme importanza economica rivestiva la pesca sia di mare sia d'acqua dolce. Per quantitativo di pescato il Paese si poneva al secondo posto nel mondo, dopo il Giappone, con oltre 11 milioni di t di pesce sbarcato. Tra i maggiori porti pescherecci – che sono in genere anche grandi centri dell'industria conserviera – si annoveravano Murmansk, Vladivostok, Astrahan ecc. Economia: risorse minerarie e industria, generalità Svariatissime e in genere gigantesche erano le risorse minerarie, a cominciare dai combustibili (carbone, petrolio) e dal ferro; si può dire che esse siano state alla base dell'intera organizzazione territoriale, che si è strutturata in funzione di alcune grandi aree industriali, per lo più legate alle rispettive possibilità minerarie. Si tratta di un processo già iniziato in epoca zarista, quando i primi sfruttamenti minerari avevano incentivato sviluppi produttivi e quindi determinato nuove tendenze distributive della popolazione. D'altronde la stessa vastità del territorio non avrebbe consentito di concentrare le industrie in una sola regione. Accanto alle preminenti motivazioni “minerarie” non vanno però trascurate quelle legate ai fattori umani: la prima area industriale sorse a Leningrado (San Pietroburgo), dove già Pietro il Grande aveva avviato nell'allora Pietroburgo, capitale dell'impero zarista e importante metropoli, varie attività commerciali e industriali (queste in funzione militare soprattutto) favorite dalla presenza del porto. L'altro grande polo di sviluppo sorto in funzione urbana è stato quello di Mosca che, assurta a sua volta al ruolo di capitale, divenne subito il punto di convergenza di tutto il territorio sovietico (è da Mosca che si diramano a ventaglio tutte le principali vie di comunicazione, stradali e ferroviarie), al tempo stesso favorita dalla vicinanza alle zone carbonifere del Don e raggiungibile per via fluviale dal Volga. La zona di Mosca, definita come “regione industriale centrale”, mantenne il primato fra tutte le aree industriali sovietiche con una gamma articolatissima di produzioni includenti in pratica qualsiasi settore sia di base sia manifatturiero (complessi meccanici ed elettromeccanici, chimici, tessili, alimentari ecc.). Essa non solo era la regione più popolosa, ma anche e soprattutto quella che promuoveva le attività più avanzate, potendo contare su maestranze e tecnici specializzati e sulla presenza dei più prestigiosi istituti scientifici e di ricerca del Paese, nonché sulle possibilità offerte da un vasto mercato di consumo. Infine la zona disponeva di un ricchissimo potenziale energetico. La terza grande area industriale, essa pure formatasi in epoca anteriore al periodo sovietico (cui peraltro si deve l'enorme sviluppo), è rappresentata dall'Ucraina; prevaleva qui nettamente l'industria siderurgica, per la presenza dei grandiosi giacimenti di carbone del bacino del Donec, il cosiddetto Donbass, e dei minerali ferrosi del non lontano bacino di Krivoj Rog. Infine sempre al periodo zarista risale la formazione di altre due aree industriali: quella di Baku, sorta in funzione dello sfruttamento dei ricchi giacimenti petroliferi ubicati nei dintorni delle città e al di sotto delle acque del Mar Caspio (pur avendo da tempo perduto il suo primato per quanto riguarda l'attività estrattiva vera e propria, questa regione è stata fondamentale per i suoi poderosi complessi petrolchimici), e quella degli Urali, la cui enorme importanza si basava prevalentemente sui giacimenti dei minerali metallici: ferro, rame, nichel, bauxite, cromite, platino ecc. Anche se già sfruttata all'epoca degli zar, che con capitali eminentemente esteri avevano installato nella regione uralica alcuni complessi siderurgici, utilizzando come combustibile il carbone di legna delle foreste locali, il gigantesco sviluppo di questa zona, una delle massime aree industriali del mondo, è stato indissolubilmente legato agli sforzi sovietici di creare una potentissima industria di base nell'interno del Paese, quindi ben protetta da eventuali aggressioni dall'Ovest. Mancando la zona di adeguati minerali energetici il governo decise di rifornirla di combustibile con il carbone proveniente dal bacino siberiano di Kuzneck, il Kuzbass, ricchissimo ma distante dagli Urali oltre 2000 km. Grazie a questo colossale abbinamento di risorse, il cosiddetto UKK (Ural Kuzbass Kombinat), si ottenne da un lato la grande industria siderurgica, metallurgica e meccanica degli Urali, dall'altro l'industrializzazione del Kuzbass stesso, che a partire dal dopoguerra raggiunse una completa autonomia produttiva “combinando” lo sfruttamento dei giacimenti locali con i minerali provenienti dagli Urali e dalla Siberia. Anche qui le principali lavorazioni riguardavano naturalmente la siderurgia, la metallurgia e la meccanica pesante; grande centro propulsore della vita economica e culturale del Kuzbass era Novosibirsk, tra le massime “città nuove” dell'URSS. Insieme al Kuzbass il governo sovietico creava, nel periodo anteriore alla seconda guerra mondiale, un'altra grande regione industriale: quella di Karaganda, nel Kazahstan, che poteva contare su giacimenti di minerali metallici (in particolare rame) e di carbone; nonostante le difficoltà climatiche, trattandosi di una zona estremamente arida, il bacino di Karaganda è divenuto una regione industriale ad attività multiple, sia pure limitatamente al primo trattamento dei metalli estratti dai minerali. Infine le possibilità di sfruttare grandi quantitativi d'energia elettrica a bassissimo costo e quindi di installare industrie che, come la metallurgia dell'alluminio, richiedono un forte apporto energetico, sono state alla base della nascita della più recente grande regione industriale sovietica: quella della Siberia orientale. L'energia prodotta dalle gigantesche centrali costruite sullo Jenisej e sull'Angara o da quelle termiche alimentate dai giacimenti locali di carbone (Minusinsk, Irkutsk ecc.) ha favorito il sorgere di colossali complessi: in particolare la zona attorno a Čita per quanto riguarda le attività elettrometallurgiche e nucleari. In aggiunta alle grandi regioni industriali la realizzazione di efficienti impianti praticamente in ogni città che disponeva di materie prime locali ha determinato la formazione di poli di sviluppo produttivi dislocati un po' in tutto l'immenso territorio sovietico; tra i più notevoli si può ricordare quello di Taškent, centro primario dell'Asia centrale sovietica, con una vasta gamma di industrie – dalla meccanica alla tessile e all'alimentare – favorite dalla presenza di giacimenti petroliferi e carboniferi, nonché da una fiorente agricoltura. Economia: minerali Per quanto riguarda le complessive produzioni minerarie l'Unione Sovietica poteva venir considerata per i suoi molti primati, a cominciare da quelli relativi al ferro e al petrolio, la massima potenza mineraria del mondo. Annualmente si estraevano 138 milioni di t di ferro contenuto, quasi un terzo del totale mondiale (Ucraina, Urali ecc.); le principali produzioni degli altri minerali metallici comprendevano il manganese (3 milioni di t di Mn contenuto; Nikopol in Ucraina, Čiatura in Georgia), il nichel (210.000 t di Ni contenuto), la cromite (930.000 t; Hromtau negli Urali Meridionali), l'oro (280.000 kg, di origine per lo più alluvionale; fiumi Lena, Jenisej ecc.), il tungsteno (9200 t; Tyrnyauz, ai piedi della catena del Caucaso), il rame (oltre 950.000 t di Cu contenuto; Urali, Kazahstan, Transcaucasia ecc.), il piombo (520.000 t di Pb contenuto), il mercurio (1500 t), lo zinco (960.000 t di Zn contenuto) e l'argento (oltre 1,5 milioni di kg). Ingentissima è stata la produzione di platino (Urali, Siberia); così come di bauxite (5,7 milioni di t; Tihvin e Boksitogorsk, Urali), di molibdeno e di antimonio. Anche per i minerali non metallici il Paese deteneva vari primati, come per i sali potassici (10,4 milioni di t di potassa contenuta, un terzo della produzione mondiale; Solikamsk e Berezniki, nell'alto corso del fiume Kama) e l'amianto (2,5 milioni di t, metà del totale mondiale; Asbestovski e altre località degli Urali); veniva invece preceduto dagli USA per i fosfati naturali (34 milioni di t). Rilevantissime erano anche le produzioni di pietre preziose, come smeraldi (Urali) e diamanti (12 milioni di carati; Siberia orientale). Un'enorme importanza aveva il settore energetico; per quanto riguarda il carbone, anche se negli ultimi anni l'estrazione era stata relativamente ridotta (la produzione complessiva di carbon fossile e di lignite è stata nel 1989 di 804 milioni di t), l'Unione Sovietica disponeva delle più ingenti riserve carbonifere del mondo. Anche per il petrolio, si collocava nettamente al primo posto, con oltre 600 milioni di t estratti annualmente; le aree più ricche erano quelle della cosiddetta “seconda Baku” (la fascia dal Volga agli Urali) e della “terza Baku” (bacino dell'Ob-Irtyš nella Siberia occidentale), cui vanno aggiunti, tra i molti, i giacimenti della “prima Baku”, quelli dell'Ucraina, di Majkop (bacino del Kuban), della Russia settentrionale (bacino della Pečora) nella parte europea; nella sezione asiatica si trovavano i giacimenti caspici del bacino dell'Emba, dell'Uzbekistan (Gazli), del Turkmenistan (Nebit-Dag), di Sahalin ecc. La rete di oleodotti era, nel 1988, di 86.144 km; tra questi il più imponente è il cosiddetto “Oleodotto dell'Amicizia”, di 4500 km, che porta il greggio dai pozzi del bacino del Volga a varie raffinerie dell'Europa orientale. Al petrolio è stato spesso associato il gas naturale (l'estrazione annua superava i 770.000 milioni di m3, cifra leggermente inferiore a quella statunitense); i gasdotti raggiungevano nel 1988 una lunghezza di 208.000 km, in buona parte in territorio siberiano; la più recente realizzazione è stato il gasdotto, lungo ben 4450 km, destinato a portare il gas naturale estratto dai pozzi siberiani di Urengoj a vari Paesi dell'Europa centrale e occidentale, tra cui la Francia, l'Austria, la Germania, la Svizzera, l'Italia. L'Unione Sovietica è stata altresì uno dei massimi produttori di uranio del mondo; anche il potenziale idroelettrico, assolutamente gigantesco, è stato sfruttato solo parzialmente. Poderosi gli impianti termoelettrici come la centrale di Stavropol (3,6 milioni di kW), quella di Rjazan (2,8 milioni di kW) e (entrambe con 2,4 milioni di kW di potenza) le centrali di Konakovo presso Mosca e di Novočerkassk. Un certo sviluppo, nonostante il gravissimo incidente alla centrale di Černobyl, continuava ad avere l'energia di origine nucleare. Industria L'industria, che partecipava per oltre il 50% alla formazione del prodotto nazionale, aveva una solidissima base produttiva, alimentata dalle risorse agricole e minerarie del Paese. L'Unione Sovietica deteneva il primato mondiale per ghisa e ferroleghe (114 milioni di t all'anno) e per l'acciaio (163 milioni di t), forniti essenzialmente dalle tre zone siderurgiche dell'Ucraina, di Mosca e degli Urali; del pari gigantesca era la produzione di cemento (135 milioni di t), l'industria metallurgica (rame, alluminio, zinco, piombo) e in particolare le industrie aerospaziale, aeronautica, navale, nucleare e delle telecomunicazioni. Mosca e San Pietroburgo (Leningrado) rappresentavano i massimi centri dell'industria metalmeccanica: apparecchi radio e televisivi (oltre 18 milioni in totale), elettrodomestici (10 milioni tra lavatrici e frigoriferi) e la meccanica di precisione (macchine fotografiche, binocoli, apparecchiature scientifiche ecc.). Tra le principali produzioni dell'industria chimica, si possono ricordare quelle dei fertilizzanti azotati (15 milioni di t) e dei prodotti in genere destinati all'agricoltura; quindi acido solforico, soda caustica, ingenti quantitativi di acido nitrico e cloridrico, ammoniaca, azoto, materie plastiche, caucciù sintetico (ca. 69 milioni di pneumatici), prodotti farmaceutici ecc. Il Paese disponeva di una colossale industria petrolchimica; le numerosissime raffinerie, costruite in tutto il territorio, avevano una capacità annua di raffinazione di quasi 620 milioni di t di petrolio, inferiori però ai quantitativi estratti. Quanto ai più importanti settori dell'industria leggera, quella tessile, molto efficiente, deteneva il primato mondiale sia per il cotonificio, con i suoi centri principali nella regione di Mosca e nell'Asia centrale sovietica (oltre 8600 milioni di m² di tessuti; 1,7 milioni di t di filati), sia per il lanificio (870 milioni di m² di tessuti; ca. 500.000 t di filati); rilevanti erano anche le produzioni di filati di lino, di canapa e di fibre artificiali (650.000 t tra fibre e fiocco; primato mondiale) e sintetiche (950.000 t tra fibre e fiocco). L'industria alimentare, naturalmente imponentissima in relazione alle colossali produzioni agricole, era diffusa in tutto il Paese; oltre ai già citati settori saccarifero, lattiero e caseario, possedeva grandiosi conservifici, impianti molitori, birrifici (56 milioni di hl di birra), oleifici ecc.; le manifatture di tabacchi producevano ca. 400.000 milioni di sigarette all'anno. Un certo rilievo occupavano infine varie lavorazioni di artigianato artistico, in gran parte destinate al turismo o all'esportazione: tappeti (Uzbekistan), monili di ambra, lacche, ricami, ceramiche d'arte ecc. Storia Dalla Rivoluzione d'Ottobre all'indipendenza degli stati baltici. La Rivoluzione d'Ottobre significò la nascita di un Paese nuovo. Dalle macerie del vecchio Stato sorse una nazione che per la prima volta nella storia dell'umanità si avviò ad applicare le teorie socialiste. Col novembre 1917 ebbe inizio, secondo il concetto di Lenin, la dittatura del proletariato, fase intermedia tra il regime capitalista e quello comunista, periodo di lotta e di vigilanza ininterrotta di fronte al nemico interno ed esterno. Contro l'uno e l'altro avversario si organizzò l'Armata Rossa (300.000 uomini nella primavera 1918), con i quadri tecnici tratti in parte dalle armate imperiali, affiancati da “commissari politici” destinati a garantire la fede comunista del nuovo esercito; e inoltre una polizia oculata e assolutamente devota al regime. Le misure economiche furono dettate in parte dalla volontà di costruire uno Stato senza sfruttatori né sfruttati e in parte dall'assoluta necessità di far fronte ai bisogni immediati di un Paese stremato da una guerra mal condotta e impopolare, senza riserve, con gli istituti e i servizi essenziali fatiscenti e sull'orlo del collasso. Si cercò di riorganizzare l'industria; si fece leva sullo spirito patriottico e rivoluzionario degli operai per indurli ad accrescere il loro rendimento; si lottò eroicamente contro la carestia inviando nelle campagne squadre d'azione operaie per costringere i contadini a consegnare l'intera produzione nelle mani delle autorità locali. Nei distretti rurali i bolscevichi dovettero lottare coi socialrivoluzionari che temevano di perdere la loro base contadina. Fu una lotta durissima condotta da entrambe le parti per sopravvivere. In questa atmosfera di rappresaglia trovò oscuramente la morte a Jekaterinburg lo zar con tutta la sua famiglia (16 luglio 1918). Nel luglio 1918 fu promulgata la nuova Costituzione, che sanciva una dittatura proletaria severa, privando dei diritti politici i borghesi ostili all'ordine nuovo. Frattanto il nuovo governo doveva fronteggiare la guerra civile (1917-21), originata da tre cause ben distinte: la spinta centrifuga (sulla quale facevano leva sia gli Imperi centrali sia l'Intesa) delle comunità nazionali non russe, prima fra tutte l'Ucraina; la resistenza dei fautori del vecchio regime, dei socialrivoluzionari e dei contadini; il timore del “pericolo rosso” esistente in tutti i grandi Stati borghesi, tale da indurli a intervenire anche militarmente contro i bolscevichi, quando ancora la guerra mondiale non era finita. Si ebbero così imponenti rivolte, con l'intervento di forze tedesche, inglesi, francesi, statunitensi, italiane, giapponesi, cecoslovacche e polacche, scese in campo per evitare il diffondersi del “contagio” comunista (più tardi, fallito l'intervento diretto, si istituzionalizzò il “cordone sanitario” contro l'URSS) e per difendere i capitalisti dei loro Paesi, che avevano investito, prima della guerra, somme ingenti in Russia. Nel 1918 i bolscevichi si trovarono in una situazione quasi disperata, quando gli Ucraini proclamarono l'indipendenza (22 gennaio) e istituirono un governo filotedesco; nello stesso tempo le repubbliche caucasiche (Georgia, Armenia, Azerbaigian) si liberavano dalla soggezione moscovita, il generale Denikin avanzava con un esercito in prevalenza cosacco dalla regione del Don verso nord, gli inglesi sbarcavano a Murmansk e ad Arcangelo e una legione di ex prigionieri cecoslovacchi si alleava coi socialrivoluzionari e con l'ammiraglio monarchico Kolčak per conquistare ampi territori siberiani e il sudest della Russia europea. Trotzkij, commissario del popolo per la guerra, fece dell'Armata Rossa un valido strumento per la difesa della Rivoluzione. Crollata poi la Germania nell'autunno di quell'anno, si aprì una schiarita: i tedeschi abbandonarono l'Ucraina e il suo atamano Skoropadskij, lasciando il posto alla dittatura nazionalista di Petljura (novembre 1918). Francia e Inghilterra s'impegnarono anch'esse nell'inverno 191819 a inviare truppe in Russia, ma l'opposizione americana fece fallire il progetto e le potenze occidentali si limitarono a provvedere d'armi e munizioni i cosiddetti “bianchi”. Costoro attaccarono le forze bolsceviche di Pietrogrado e Mosca da quattro parti: da N con Miller, da NW con Judenič, da E con Kolčak, da S con Denikin. Judenič giunse alle porte di Pietrogrado nell'ottobre 1919; contemporaneamente anche Denikin si avvicinò a Mosca attraverso l'Ucraina e tentò la congiunzione con Kolčak che già da qualche mese premeva da E sul Volga. Ma la resistenza di Caricyn (che già nell'autunno 1918 aveva respinto le forze bianche del generale Krasnov sotto l'energico impulso di J. V. Stalin, che doveva poi dare il suo nome alla città), rese vani ancora una volta i loro sforzi. Nell'inverno 1919-20 si ebbero continue vittorie bolsceviche: Denikin e Kolčak furono costretti a penose ritirate. Kolčak fu poi preso e fucilato a Irkutsk, mentre Denikin affidava i resti del suo esercito all'energico generale Vrangel. Il 1920 vide lo svilupparsi di un'offensiva polacca contro la Bielorussia e l'Ucraina, dove sin dal marzo dell'anno prima la dittatura di Petljura aveva ceduto il campo a una “repubblica sovietica ucraina”. Piłsudski, avanzando rapidamente, occupò addirittura Kiev (7 maggio 1920), ristabilendo il regime di Petljura. Con Piłsudski non giungeva in Russia la reazione filozarista di un Kolčak o di un Vrangel, bensì l'odioso nazionalismo polacco, che scatenò la reazione patriottica di tutti i Russi: l'Armata Rossa cacciò Piłsudski dall'Ucraina e lo inseguì verso la Vistola, giungendo sino alle porte di Varsavia, dove il tempestivo aiuto dell'Intesa (14 agosto 1920) sconfisse i Sovietici. Ma questi, liberi sulle frontiere occidentali, potevano rivolgere tutte le loro forze contro Vrangel, che infatti veniva battuto (novembre 1920). La Russia della Rivoluzione, che aveva dovuto nel frattempo riconoscere l'indipendenza della Finlandia, poi degli Stati baltici (Estonia, Lettonia, Lituania), guardava adesso all'avvenire senza più l'assillo dei nemici in casa. Storia: dalle rivolte antibolsceviche del '21 al primo piano quinquennale Il 1921 fu anch'esso un anno difficile per la distruzione dei raccolti, la chiusura di molte fabbriche, la penuria dei generi necessari, il malcontento popolare e la rivolta antibolscevica dei marinai di Kronštadt che, in nome di un socialismo libertario, resistettero per oltre due settimane alle forze governative. Lenin si vide costretto a reprimere la rivolta con la forza (marzo 1921). Furono allora istituite prima la CEKA (1917-22), poi la GPU (dal 1922), entrambe dirette da F. E. Dzeržinskij (m. 1926). Ma ciò evidentemente non bastava. In Russia si moriva di fame, di freddo, di stenti. Nessun aiuto proveniva dall'esterno, il commercio estero era inesistente. Impossibile, per il momento, organizzare un efficiente sistema agricolo. Si cercò allora una soluzione di compromesso fra la dottrina comunista e l'economia tradizionale, istituendo la Nuova Politica Economica (NEP), che consentì l'iniziativa privata nelle piccole e medie industrie e nel commercio interno e riammise il diritto alla proprietà privata. Intanto lo Stato si ricostituiva lentamente ma sicuramente. Nel 1920 l'Ucraina era passata definitivamente sotto l'ubbidienza sovietica e nello stesso anno si era formata la repubblica sovietica dell'Azerbaigian. L'Armenia, le cui regioni meridionali erano state annesse dalla Turchia, divenne repubblica sovietica tra il 1920 e il 1921. La Georgia, governata dapprima dai menscevichi come repubblica indipendente, dopo avere a lungo ondeggiato tra la Rivoluzione russa e le grandi democrazie occidentali, fu sovietizzata nel febbraio 1921. Una repubblica orientale, costituitasi (1920) in Transbajkalia, dopo aver assorbito la provincia di Vladivostok dove sopravvivevano, protette dai giapponesi, forze “bianche”, fu costituita nel novembre 1922. In conseguenza di queste riconquiste, il 27 dicembre 1922 fu decisa, al Congresso panrusso dei Soviet, la creazione dell'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Tali repubbliche erano allora sei e cioè la RSFSR (Repubblica socialista federativa sovietica russa, comprendente la Russia abitata dai Grandi Russi, la Siberia e l'Asia centrale), la Bielorussia, l'Ucraina, l'Azerbaigian, la Georgia e l'Armenia. Negli anni successivi si distaccarono dalla RSFSR le repubbliche turkmena, uzbeka, tagika, kazaka e kirghisa. Nel 1936 l'Unione Sovietica contava così 11 repubbliche ed era divenuta uno Stato plurinazionale: ai 75 milioni di Russi si contrapponevano infatti i 65 milioni di non Russi. Se l'inverno 1921-22 era stato molto duro (la carestia aveva fatto almeno 5 milioni di vittime), l'inizio del 1923 vide una certa ripresa economica; nel gennaio 1924 entrò in vigore la Costituzione dell'URSS. Si concedeva quanto allora si poteva concedere all'idea delle “nazionalità”, un concetto innovatore che farà poi molta strada. Ma il rafforzamento del partito e la sua struttura centralizzata assicuravano al giovane Stato una guida unica con un'unica ideologia. La nuova Costituzione rifletteva ancora l'atmosfera tempestosa dei primi anni e proponeva la dittatura del proletariato senza alcun addolcimento; i borghesi, gli ecclesiastici e quanti non svolgevano un “lavoro produttivo” erano esclusi dal voto. Apparivano evidenti certi aspetti estremisti della lotta antiborghese, come la svalutazione della famiglia, della scuola tradizionale, della religione. Il problema della scuola assunse ben presto un notevole spicco: non si poteva infatti concepire che, contestata la vecchia cultura, non ci si preoccupasse di cercarne una più aggiornata. La nuova scuola cessò di essere monopolio delle classi borghesi; fu fatto ogni sforzo per renderla accessibile alle masse lavoratrici. Le arti e le lettere ebbero momenti di splendore con i narratori Gorkij e Aleksej Tolstoj, con i poeti Esenin e Majakovskij e con il regista cinematografico Ejzenštejn. In politica estera, la Russia sovietica si adoperava intanto per uscire dall'isolamento. Già nel 1921 concluse due trattati con l'Afghanistan e la Persia mentre si tentava in ogni modo di avviare trattative economiche con le potenze occidentali. Mosca divenne nel frattempo la sede di quella Terza Internazionale o Internazionale Comunista (l'abbreviazione russa è Komintern) che fu progettata per la propaganda dell'ideologia marxista-leninista. Nonostante la contraddizione fra sistema comunista e sistema borghese, il ministro degli Esteri sovietico Čičerin riuscì a stringere con la Germania un patto di amicizia che sollevò le preoccupazioni di tutto l'Occidente (Rapallo, 16 aprile 1922). L'amicizia con la Germania non durò però oltre il 1930, quando il nuovo ministro degli Esteri Litvinov riuscì ad aprire un dialogo con la Francia e l'Inghilterra, fino allora irriducibili nemiche del regime sovietico. Intanto Lenin, già ammalato da tempo, moriva a Gorki presso Mosca (21 gennaio 1924). La sua morte scatenò una lotta accanita per la successione: lotta ideologica prima che di potere. Si trattava infatti di far compiere all'Unione Sovietica quel “salto di qualità” che Lenin non aveva potuto fare, di tradurre in scelte concrete le indicazioni del grande rivoluzionario scomparso. Fu uno scontro durissimo che si trascinò dal 1924 al 1927 dentro e fuori il partito, nelle piazze e sui giornali, tra le tesi di Stalin e quelle di Trotzkij. Stalin si sbarazzò di Trotzkij (che del resto fu sempre in minoranza), opponendo alla sua dottrina della “rivoluzione permanente” la teoria del “socialismo in un solo Paese”, il che significava prudenza in politica estera e, all'interno, pretendere il massimo sforzo per fare di un Paese sottosviluppato uno Stato industrializzato e potente. Era la politica della mano di ferro, per cui fu facile a Stalin liberarsi anche d'altri rivali, seguaci di una linea più morbida (come Bucharin); dopo di che, abrogata la NEP, si diede inizio (1929) alla collettivizzazione dell'agricoltura in tutto il Paese e alla liquidazione dei kulaki (contadini agiati). Tra il 1929 e il 1930 i kulaki vennero pressoché eliminati da una rivoluzione agraria sostenuta dalle autorità comuniste locali. Fu uno degli eventi tipici di quel primo piano quinquennale (1928-32) che ebbe il merito di far compiere un grande balzo in avanti all'industria russa, specie a quella metalmeccanica, dell'acciaio ed estrattiva. Fu uno sforzo grandioso ed esaltante compiuto tra incredibili difficoltà. Nonostante questi faticosi progressi e un'evidente intenzione di uscire da un pericoloso isolamento, l'Unione Sovietica tardava a trovare all'estero un adeguato riconoscimento. Il governo statunitense si manteneva freddo e distante, le democrazie occidentali procedevano con estrema cautela, mentre la Germania democratica era incerta anch'essa sulla linea politica e i Paesi confinanti (Finlandia, Polonia, Romania) continuavano a guardare a Mosca con diffidenza. Meno difficili furono i rapporti con l'Oriente, specie con la Cina, il cui governo nazionalista (Sun Yat-sen, Chiang Kai-shek) si appoggiò in molti casi a Mosca. Storia:Dagli anni Trenta alla nascita della CSI Già il 1º piano uinquennale aveva privilegiato la produzione industriale; il 2º (193337) e il 3º (1938-42) dovevano continuarne l'opera con la stessa determinazione. La crescita industriale era apparsa imponente. Benché viziata dal “gigantismo”, l'industria russa aveva veramente cambiato il volto del Paese; ma a questo sviluppo facevano da contrappeso le carestie (per esempio nel 1931 e nel 1933), la qualità scadente dei prodotti dell'industria, la povertà del contadino, la penuria dei beni di consumo. Il malcontento delle campagne e gli abusi dei funzionari, gli eccessi polizieschi sembravano persino mettere in forse la sopravvivenza del regime staliniano, ma dopo il 1933 il momento più triste parve superato: i pericoli corsi stimolavano le energie; gli sforzi dei lavoratori vennero esaltati (stachanovismo) e premiati (salari differenziati); si tornò a proteggere l'intellettuale purché fosse fedele all'idea; si riportò la disciplina nella scuola, ridando autorità all'insegnante; si esaltò di nuovo il concetto di patria, si reintrodusse il culto delle tradizioni, degli eroi, degli scrittori della vecchia Russia. Nel 1936 fu promulgata la nuova Costituzione, in pratica più elastica e meno radicale di quella del 1924. Il voto era concesso a tutti; a tutti si accordavano gli stessi diritti. Era garantita la libertà di coscienza, libertà di parola, di stampa, di riunione. Al Partito comunista veniva assicurata una preminenza assoluta su ogni altra istituzione statale. Non era prevista nessuna forma d'opposizione. Dopo il 1936, il regime attraversò un periodo drammatico: la dittatura staliniana, evidentemente minacciata da varie parti, veniva difesa con misure straordinarie. Si susseguivano (1936-38) i processi contro i nemici del regime: la vecchia guardia rivoluzionaria ne uscì quasi distrutta. Scomparvero Zinovev, Kamenev, Bucharin, Ordžonikidze, Jagoda, Tuchačevskij e molti altri grandi personaggi dell'epopea bolscevica. La politica estera si fece più attiva dopo il 1934, quando l'Unione Sovietica entrò nella Lega delle Nazioni. Si accentuò la collaborazione con le Potenze occidentali, preoccupate per le iniziative di Hitler. Stalin tuttavia non rinunciò ad approcci con la Germania e d'altra parte cercò d'impedire ogni possibilità d'accerchiamento, firmando patti di non aggressione con la Lettonia e l'Estonia (1932), con la Polonia (1932), con la Finlandia (1933) e ristabilendo normali relazioni con la Romania. Il suo programma, coerente coi vecchi principi di Lenin, consisteva nell'attendere il dissanguamento delle nazioni capitaliste in una guerra che si presumeva imminente. Di qui la tattica prudente che portò Stalin ad accordarsi (agosto 1939) con Hitler e a intervenire nella spartizione della Polonia. Anche la guerra contro la Finlandia (1939-40) mostra che l'Unione Sovietica non aveva intenzione di gettarsi anzitempo in un severo conflitto. L'attacco improvviso (22 giugno 1941) della Germania e dei suoi satelliti costrinse l'Unione Sovietica a impegnare nella guerra ogni sua risorsa. Per l'Unione Sovietica fu una prova durissima. Colte di sorpresa, le forze sovietiche ebbero qualche mese di sbandamento. Il primo inverno di guerra fu atroce: a Leningrado (oggi San Pietroburgo), accerchiata e affamata (ma mai conquistata), la cittadinanza subì perdite enormi; a Mosca non fu facile sedare il panico ma la rude energia di Stalin, le eccellenti doti tecniche dei comandanti e dei soldati, l'ottima qualità dei mezzi tecnici (carri armati, aerei, artiglieria) permisero di superare i momenti più terribili. Alla fine dell'inverno 1943-44 i Russi, conquistata l'Ucraina e la Crimea, varcavano il Dnestr e raggiungevano il Prut, rioccupando così quasi tutto il territorio dell'URSS. Nell'estate 1944 le truppe sovietiche occupavano Leopoli, giungevano alle porte di Varsavia, costringevano all'armistizio Finlandia, Romania e Bulgaria. Poi era la volta della stessa Germania e dell'Austria, dove le armate sovietiche giunsero a conquistare (aprile 1945) Berlino e Vienna. A Yalta Stalin, vincitore su tutta la linea, riusciva (4-11 febbraio 1945) a far prevalere di fronte agli altri due grandi il punto di vista del Cremlino; a Potsdam infine, crollata ormai la Germania nazista, otteneva (17 luglio-2 agosto 1945) lo spostamento verso ovest dei confini polacchi e la contemporanea occupazione di una parte notevole del territorio germanico. L'Unione Sovietica usciva dalla guerra non solo come vincitrice sui campi di battaglia, ma come la beneficiaria di una situazione politica radicalmente nuova. L'Unione Sovietica era ormai una potenza mondiale non tanto per le risorse economiche e militari, seconde solo a quelle degli USA, quanto per la vastità dei suoi interessi politici che coprivano tutta la Penisola Balcanica, raggiungevano il Vicino e il Medio Oriente, l'Africa settentrionale e tutto il Mediterraneo, l'Asia sino alla Corea e l'Europa sino a Berlino e a Vienna. Ma la bolscevizzazione dell'Europa orientale e centrale provocò un irrigidimento degli Stati occidentali. La “cortina di ferro” (l'espressione fu coniata da Churchill) venne a separare i due mondi che le vicende belliche avevano avvicinato. La Conferenza per il Piano Marshall (Parigi, 1947) diede origine alla “guerra fredda”. Da un lato gli Stati Uniti, forti della bomba atomica, rinunciavano alla politica di collaborazione con l'Unione Sovietica, chiamando i Paesi democratici a far blocco contro il comunismo, dall'altro si delineava chiaramente la costellazione dei “satelliti” dell'Unione Sovietica, ossia delle Repubbliche socialiste dell'Est europeo. Gli eventi del 1947 inasprirono anche la situazione interna della Russia, già resa tragica dai 20 milioni di morti, dai 25 milioni dei senzatetto, dalla miseria dei superstiti nelle terre devastate e nelle città distrutte. In questo clima di tensione, anche i Paesi satelliti furono assoggettati a una rigida disciplina ideologica; la Iugoslavia di Tito fu espulsa dal blocco sovietico e considerata “eretica” (1948). Dopo il 1949 l'Unione Sovietica si dovette preoccupare di un possibile attacco dall'ovest e dal sud d'Europa: il Patto Atlantico (agosto 1949), esteso poi (1952) alla Grecia e alla Turchia, parve minaccioso per una URSS che non aveva ancora sanato tutte le piaghe della guerra. Ma alla morte di Stalin (5 marzo 1953), un netto mutamento, già avvertibile negli ultimi mesi di vita del dittatore, si rese evidente nella politica interna ed estera del regime. La tesi della coesistenza pacifica con gli Stati non comunisti fu subito affermata; all'interno si ebbe il “disgelo”, ossia un'attenuazione della repressione ideologica e culturale. L'immediato successore di Stalin fu Malenkov, primo ministro dal 1953 al 1955; lo seguì Bulganin, dal 1955 al 1958; ma accanto a entrambi stava guadagnando terreno l'abile Nikita Chruščëv, segretario del PCUS dal 1953. Nel XX Congresso del partito (febbraio 1956) questi, leggendo un rapporto segreto, distrusse il mito di Stalin provocando ripercussioni in tutto il mondo e specialmente nei Paesi del blocco orientale (rivolte di Polonia e di Ungheria). Dal 1958 Chruščëv, divenuto primo ministro, guidò da solo la politica dell'Unione Sovietica: accolse la tesi della coesistenza pacifica, ma non esitò a rinnovare la “guerra fredda” quando gli parve necessario. Nel 1960 la Cina prendeva le distanze da Mosca e accusava il Cremlino di tradire la dottrina comunista negando la necessità della guerra anticapitalista: polemica che gli anni non sanarono. Con gli USA le relazioni migliorarono al tempo di Kennedy (1961-63), pur con qualche momento drammatico (questione cubana, 1962). Tra i successori di Chruščëv, Leonid Brežnev apparve la figura dominante: accanto a lui Aleksej Kosygin, primo ministro, e Nikolaj Podgornij, presidente del Soviet Supremo, completavano la triade detentrice del potere. Brežnev non si discostò troppo dall'indirizzo dei predecessori circa la coesistenza pacifica, studiandosi di non inasprire i conflitti latenti, ma rimase fermo nell'opposizione all'ideologia cinese, mirando piuttosto a stringere i legami tra i Paesi europei del blocco comunista, in vista di una comune politica economica. Dopo il 1968, però, gli atteggiamenti politici di Brežnev, rigidi in teoria, si mantennero in pratica piuttosto accomodanti. Soffocata l'eresia cecoslovacca, non si procedette con pari vigore contro altre eresie “striscianti” (Iugoslavia, Polonia e soprattutto Romania) e si cercò di responsabilizzare i governi degli Stati comunisti piuttosto che scomunicarli. Anche nei riguardi della Repubblica Federale di Germania, il governo sovietico non si rifiutò a gesti nettamente distensivi, come il trattato del 1970, firmato da Kosygin e W. Brandt. In Asia, perdurando la tensione con la Cina, dovuta non tanto a problemi di confini quanto a una questione d'egemonia ideologica, l'URSS accentuava più volte la tendenza a sostenere le ragioni dell'India; nel Medio Oriente si mostrava propensa ad appoggiare la causa araba, ma nell'uno e nell'altro caso si asteneva da ogni intervento decisivo. Gli anni Settanta furono caratterizzati dalla distensione con gli USA e dagli incontri al vertice col presidente americano R. Nixon e col suo segretario di Stato H. Kissinger. La distensione ebbe la sua consacrazione ufficiale col trattato di Helsinki (1975), dopo di che il clima tornò a volgere al peggio. Nel 1977 Brežnev riuscì a ottenere anche la carica di capo dello Stato (presidente del Presidium del Soviet Supremo) sottratta a N. Podgornij, che terminava così una lunga e prestigiosa carriera all'interno del PCUS. Nel 1980 fu Kosygin a uscire di scena, lasciando la carica di presidente del Consiglio dei Ministri a N. Tikhonov. Brežnev rimase così il solo vero detentore del potere, cumulando cariche e onori quali non si erano mai visti dai tempi di Stalin. Nel frattempo, in politica estera, l'intervento armato sovietico in Afghanistan (dicembre 1979) causava un netto deterioramento nei rapporti con gli Stati Uniti; con l'avvento, nel 1980, di R. Reagan alla Casa Bianca il dialogo Est-Ovest parve del tutto bloccato (il momento di maggior tensione si ebbe nel 1983, con l'installazione dei primi euromissili NATO). All'inizio del 1982 scompariva M. Suslov, l'ideologo del partito ed eminenza grigia del Politburo, e nel mese di novembre, dopo una lunga malattia, moriva anche Brežnev. Fu chiamato a succedergli, nella carica di segretario generale del PCUS, Jurij Vladimirovič Andropov, membro del Politburo, nonché ex capo del temutissimo KGB. Nel giugno 1983 Andropov venne eletto anche presidente del Presidium del Soviet Supremo, in pratica capo dello Stato, cumulando così le cariche del suo predecessore. L'“era Andropov” (che si era preannunciata innovativa e riformista) fu però di breve durata perché, colpito da grave malattia, il segretario del PCUS moriva nel febbraio 1984. All'insegna nuovamente della continuità, il segretariato passava nelle mani dell'anziano Černenko, che a sua volta moriva poco più di un anno dopo. A Černenko succedeva, nel marzo 1985, Michail Gorbačëv; nel luglio dello stesso anno A. Gromyko era proclamato presidente del Presidium e il Ministero degli Esteri passava a E. Ševardnadze. “Uomo nuovo”, Gorbačëv si faceva subito assertore dell'urgente necessità di profonde trasformazioni, non solo economiche e non solo all'interno dell'URSS, ma inglobanti una complessiva rilettura di tutta la politica estera, in chiave nettamente distensiva. Anche Reagan, rieletto presidente nel 1984, si dichiarava disposto a riprendere le trattative – da tempo interrotte – sulla limitazione delle armi spaziali e nucleari; nel 1985 i due leader si incontravano a Ginevra, summit cui faceva seguito, l'anno successivo, quello di Reykjavík, in Islanda. Nel giugno 1988 il PCUS decise di riformare la struttura dello Stato, secondo gli orientamenti della perestrojka, concedendo maggior autonomia agli Stati, ai centri produttivi e più libertà ai cittadini. In tale contesto di accresciuta liberalizzazione iniziarono a manifestarsi con crescente intensità sentimenti nazionalistici e tendenze secessionistiche a vari livelli della struttura politicoterritoriale. Si intensificò la rivendicazione d'indipendenza da parte delle Repubbliche baltiche (con l'Estonia che in novembre proclamava il diritto di veto del proprio Parlamento sulle decisioni del Soviet Supremo), cui si opponeva la crescita del nazionalismo panrusso rappresentato dall'associazione Pamjat, mentre in Transcaucasia la contesa apertasi fra Armeni e Azeri per la provincia del Nagorny-Karabach si trasformava in conflitto. Progressi ulteriori nel campo della distensione internazionale si avevano con l'avvio del ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan (che si completava all'inizio del 1989), con la riduzione unilaterale degli effettivi dell'Armata Rossa e con la ripresa di più stretti legami diplomatici con la Iugoslavia e la Cina (prima visita di un ministro degli Esteri cinese dopo trent'anni); il consolidamento del dialogo diretto con gli Stati Uniti proseguiva con visite reciproche dei due presidenti (maggio-giugno e dicembre). Le prime elezioni semilibere (marzo 1989) dell'URSS, che per tre quarti dei seggi prevedevano la scelta fra più candidati spesso estranei al partito, portavano, a Mosca, alla vittoria di Boris Nikolaevič Elcin (o Eltsin) contro il candidato ufficiale del PCUS e nelle Repubbliche baltiche alla larga affermazione dei nazionalisti. Eletto presidente dal nuovo Soviet Supremo, Gorbačëv poteva operare più agevolmente contro le forze conservatrici del Paese, rimpiazzandone alcuni leader in talune importanti cariche politiche; difficoltà comunque continuava a incontrare la perestrojka, soprattutto in campo economico, non apportando concreti benefici alla popolazione ma traducendosi anzi, attraverso la progressiva liberalizzazione dei prezzi (principalmente dalla primavera 1990) e la riduzione dell'occupazione, in un sensibile abbassamento del tenore di vita. Nello stesso anno l'azione volta alla distensione internazionale si concretizzava nella proposta della “Casa comune europea” e nella sconfessione del principio della “sovranità limitata” enunciato da Brežnev, nonché, soprattutto, nel conseguente avallo alla liberalizzazione dei regimi comunisti dell'Est europeo e nell'apertura alla prospettiva di riunificazione della Germania; si attenuavano inoltre i legami con Cuba e con i Paesi socialisti africani e asiatici, mentre con la visita di Gorbačëv a Pechino (maggio 1989) veniva sancita la piena riconciliazione con la Cina. Fra il 1989 e il 1990 si aggravava il conflitto fra Armenia e Azerbaigian; nuovi focolai di tensione interetnica si manifestavano in Kirgizistan, in Uzbekistan (contro i Mescheti), in Georgia (contro gli Osseti) e in Moldavia, inducendo ulteriori spinte centrifughe che si aggiungevano a quelle già presenti nell'area baltica. Alla proclamazione d'indipendenza della Lituania nel marzo 1990, all'indomani della vittoria elettorale del movimento Sajudis, sospesa in conseguenza delle sanzioni moscovite, seguivano quelle di Estonia e Lettonia, che con maggior cautela introducevano un periodo di “transizione” preventivo all'effettiva entrata in vigore della deliberazione; si trattava della prima e più radicale espressione di una tendenza generale che, agevolata dall'introduzione del multipartitismo (marzo 1990), vedeva entro la fine dell'anno ogni repubblica, a iniziare da quella russa (giugno), affermare il primato della propria sovranità su quella dell'URSS. Contestualmente all'abolizione del ruolo guida del PCUS e alla rilegittimazione della proprietà privata, lo Stato assumeva una struttura di repubblica presidenziale, alla cui guida era eletto dal Congresso dei Deputati del Popolo lo stesso Gorbačëv. Temendo la disgregazione completa del Paese questi cercava di salvaguardare una certa unitarietà, oltre che con l'ampliamento delle prerogative presidenziali, proponendo un'Unione rinnovata nella struttura e nei rapporti fra poteri centrali e nazionali, detta appunto Unione delle Repubbliche Sovrane, alla cui costituzione rifiutavano però di partecipare ben sei di esse (Armenia, Estonia, Georgia, Lettonia, Lituania e Moldavia), che boicottavano il referendum del marzo successivo. L'appoggio dei settori più conservatori impostosi a Gorbačëv per riequilibrare il calo di consenso già manifestatosi durante l'elezione presidenziale determinava un'involuzione nella politica interna (riattivazione della censura, rallentamento della liberalizzazione economica ecc.) che provocava le volontarie dimissioni di vari riformatori di primo piano (fra i quali E. A. Ševardnadze, protagonista del processo di distensione internazionale e preoccupato per il rischio di una svolta dittatoriale), nonché il rafforzamento della volontà d'indipendenza e autonomia espressa dai movimenti più radicali, in particolare dopo il cruento intervento di truppe moscovite in Lituania (gennaio 1991). In tale situazione cresceva la popolarità di Elcin, presidente della Russia dal maggio precedente, il quale con la firma dell'accordo per un nuovo Trattato dell'Unione e la propria rielezione (in contrapposizione al candidato del PCUS, in giugno) riusciva a esercitare una notevole pressione politica sul presidente sovietico fino a influenzarne la ripresa di una linea riformista. In luglio il PCUS abbandonava l'ideologia marxista-leninista, veniva riconosciuta l'indipendenza della Lituania (da essa ribadita in febbraio, dopo sospensione) e firmato il trattato START per il disarmo. Dissenziendo da tali sviluppi, un gruppo di conservatori, fra i quali alcuni ministri e, isolato Gorbačëv in Crimea, il 19 agosto tentava un colpo di Stato con la decretazione dello stato d'emergenza e l'autoattribuzione di poteri sovrani. Agevolata dalle incertezze dei golpisti che non riuscivano a farsi obbedire da buona parte dell'esercito, nonché sostenuta dall'opinione pubblica internazionale, la mobilitazione popolare promossa dalle forze democratiche strettesi attorno a Elcin riusciva in un paio di giorni a scongiurare il golpe. Dal fallimento di questo progetto di restaurazione, il crollo del sistema politico e istituzionale riceveva quindi un'accelerazione determinante: rientrato a Mosca politicamente indebolito, Gorbačëv, dopo aver sciolto il governo, era infatti costretto a cedere le leve del comando al presidente russo Elcin, mentre il neoistituito Consiglio di Stato riconosceva l'indipendenza delle Repubbliche baltiche e di alcune dell'area asiatica. Esigenze di carattere economico connesse alla stretta interdipendenza degli apparati produttivi hanno indotto comunque a ricercare subito nuove forme di cooperazione fra le varie unità statali in costituzione: sottoscritto da otto repubbliche un trattato d'unione economica (ottobre), l'Ucraina (che pure aveva proclamato la propria indipendenza), la Bielorussia e la Russia, affossando le proposte di Gorbačëv per una rinnovata Unione di Stati Sovrani, hanno sottoscritto (8 dicembre) l'atto di nascita di una Comunità di Stati Indipendenti (CSI), politicamente meno vincolante, cui presto si sono associati anche Armenia, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. I presidenti di questi 11 nuovi Stati, riuniti ad Alma-Ata il 21 dicembre 1991, hanno istituito formalmente la CSI, decretando di fatto la dissoluzione dell'URSS, sancita quindi il 25 dicembre dalle dimissioni di Gorbačëv da capo dello Stato. Quale erede dell'URSS si è subito configurata la Russia (principale componente della CSI), che si è assunta la responsabilità del controllo dell'ex Armata Rossa, della gestione del debito estero e sostituito l'ex URSS nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Letteratura La Rivoluzione ebbe un'eco contrastante nel mondo letterario. Molti scrittori, come Remizov (1877-1957), Balmont (1867-1942), Gippius (1869-1945), Vjačeslav Ivanov (1866-1949), Cvetaeva (1892-1941) lasciarono la patria. Altri invece si immedesimarono con convinzione nei grandi eventi vissuti dal Paese. Blok (18801921) e Brjusov (1873-1924) pubblicarono versi bellissimi, in cui riviveva con profonda commozione il dramma dal quale il Paese era appena uscito. Inquieta, incerta, titubante fu l'attività di altri, come l'Achmatova (1889-1966) che, dopo le liriche raccolte in Anno domini (1921), tacque per venti anni. Fu ancora una volta Lenin a capire che l'irrigidimento in arte avrebbe significato un livellamento sterile e nel 1920 difese, contro i seguaci dell'arte proletaria, l'importanza del retaggio culturale borghese. Sulla sua tesi si basò poi il Comitato Centrale del Partito nel 1925 quando avvalorò le posizioni degli scrittori non proletari e promosse una politica culturale più tollerante, stimolando lo sviluppo della letteratura, del teatro e della critica. Tale atteggiamento fu spesso interrotto da ripensamenti. Si vide, per esempio, con scarsa simpatia la formazione di gruppi letterari e il partito nel 1932 li sciolse e propugnò, anzi stabilì, la costituzione di un'unica organizzazione che preluse, nel 1934, in occasione del 1º Congresso dell'Unione degli scrittori, alla nascita del realismo socialista. Nonostante il condizionamento politico, la letteratura sovietica era andata manifestando la sua vitalità. La Rivoluzione e la guerra civile furono uno stimolo vivissimo per i futuristi e per gli scrittori proletari. L'avanguardia tutta, a cominciare da Majakovskij (1894-1930), ne trasse motivo di fervore e di rinnovamento. Si può dire che Majakovskij si gettò nella Rivoluzione per cantarla in ogni momento, nel suo grido di rivolta come nel suo impeto di rinnovamento, in un'esaltazione creativa che fece di lui il cantore più alto e più profondo. Le dedicò il poema 150.000.000 (1921), ampio, nervoso, pieno di acuti e di silenzi come una cantata moderna, e alla Rivoluzione dedicò altre opere come Per questo (1922), Vladimir Ilič Lenin (1925), Bene! (1927), Ottobre (1927), in uno slancio creativo che accanto alla pubblicazione di opere, anche di teatro, come (1918), (1929) e (1930) lo trasformò in un propagandista fervido di quell'avanguardia futurista che sembrava polarizzare ogni idea innovatrice, alla quale solo si opponeva la poesia di autori schietti, semplici come Kljuev (18841937), poeta contadino, i cui versi sono stati raccolti nel Libro dei Canti (1919), e come Esenin (1895-1925), influenzato da Belyj (1880-1934) e da Blok (1880-1921), passato attraverso il simbolismo e l'imaginismo, cantore accorato della Russia di sempre, della natura, della grande anima slava, della nostalgia per il villaggio russo perduto per sempre, con versi incantati, bellissimi. Il dopo Rivoluzione fu un momento tormentato e incerto, per molti, ma fecondo. I simbolisti Blok e Belyj ebbero un grande influsso sulle nuove generazioni, ma ebbero forse il torto di non reclamare una cultura nuova, come invece propugnarono i futuristi e gli scrittori proletari, i quali ultimi ebbero a loro volta il torto di voler dimenticare completamente il passato, credendo di poter dar vita a una cultura nuova, ignorando le fondamenta, e finirono per sfociare nella poesia del komsomol. Nuovi gruppi andavano formandosi e muovendosi esitanti, come i Fratelli di Serapione, sorti nel 1921, con Zamjatin (1884-1937), Vsevold Ivanov (1895-1963), Zoščenko (1895-1958), Tikonov (1896-1979), Šklovskij (1893-1984) e altri, che vollero restare apolitici per dedicarsi solo al rinnovamento della forma e che naturalmente portarono allo sviluppo del formalismo, così come i Compagni di strada, formatisi anch'essi negli anni Venti, con Pilnjak (1894-1937/41), A. N. Tolstoj (1882-1945), Pasternak (1890-1960), Babel (1894-1941) e altri, cercarono di aderire alla Rivoluzione, restando ancorati a un'attività di tipo, per così dire, borghese, che non ebbe certo il favore del partito, ma che operò attivamente accanto ad altri gruppi, come Il valico, i Costruttivisti e gli Imaginisti, e contribuirono con la loro opera alla fioritura prima del racconto, specie con Babel e i suoi incomparabili (1926) e (1931) e poi del romanzo, specie con Pasternak e il suo (1957). Si erano intanto affermati autori importanti. La letteratura sovietica offriva un panorama interessantissimo con autori, oltre ai già citati, come Serafimovič (1863-1949), Gladkov (1883-1958), Fadeev (1901-1956), Ilf (1897-1937) ed E. Petrov (1903-1942), Platonov (1899-1951), Bulgakov (1891-1940), autore del romanzo. Le critiche non rare alla società in trasformazione, gli scrittori incomodi (Zamjatin, Pilnjak, Babel, Pasternak, Oleša ecc.) e le correnti giudicate inopportune (formalismo, cosmopolitismo) furono prima attaccati dagli scrittori proletari e nel 1934 condannati. Il realismo socialista divenne il metodo da applicare. I temi preferiti furono: l'industrializzazione, i piani quinquennali e poi la guerra patria. L'appello del partito trovò eco in numerosi scrittori, primo fra tutti Gorkij (1868-1936) che aveva già dato opere vigorosamente proletarie come Le mie università (1922) e L'affare degli Artamonov (1925) e che concluse la sua partecipazione alla realizzazione socialista con La vita di Klim Samgin (1927-36). Dall'insegnamento di Gorkij nacquero opere piene di vigore come Čapaev (1923) e La rivolta (1925) di Furmanov (1891-1926) e i romanzi dei già ricordati Fadeev e Serafimovič, mentre più vicino alla tradizione classica rimase A. N. Tolstoj con i suoi romanzi storici. Nacquero autori nuovi o si affermarono scrittori già apparsi alla ribalta, come M. Prišvin (1873-1954), stilista splendido, e K. Paustovskij (1892-1968), che non aveva certo dimenticato i classici della sua terra e che aveva scritto opere di grande vigore e respiro come Cronaca di una vita (1946-62). Su tutti si eleva M. Šolochov (1905-1984), vero continuatore del romanzo russo, creatore di una vasta galleria di ritratti, fiume in piena di una vita sempre rigogliosa che affonda le sue radici nell'autentica ricchezza popolare. (4 vol., 1928-40) è l'epopea della vita cosacca dal 1912 al 1921 ed è forse il romanzo più forte e pieno della letteratura sovietica contemporanea, cui fanno degnamente corona, dello stesso autore, Terre dissodate (1932-60) e Hanno combattuto per la patria (1943-59), evocazione della seconda guerra mondiale. Un altro scrittore schiettamente legato ai canoni socialisti è N. A. Ostrovskij (1904-1936), autore del famoso romanzo autobiografico Come fu temprato l'acciaio (1932-34), sulla guerra civile. Accanto a lui va citato un altro autore, pedagogista di schietta ispirazione socialista, A. Makarenko (1888-1939), autore del bellissimo Poema pedagogico (1933), e il più inquieto I. Erenburg (1891-1967), cui si devono opere sempre al limite dell'ortodossia sovietica, ma sempre vivaci, piene di intelligenza e di intuizioni, come L'ultima ondata (1952) o Il disgelo (1954). Va detto a questo punto che se il partito durante la seconda guerra mondiale era apparso conciliante, nel settembre 1946, con A. Ždanov, condannò le tendenze democratiche e liberalizzanti nella letteratura, nel teatro, nel cinema e, nel 1948, anche nella musica. La morte di Stalin (1953) e il XX Congresso del Partito (1956) significarono il “disgelo” vero e proprio, già intuito da Erenburg, e la scelta dei temi da affrontare venne liberalizzata, anche se l'Unione scrittori non mancò di scagliare, quando le parve il caso, i suoi anatemi contro i dissidenti. La liberalizzazione fu avvertita innanzi tutto nella poesia, dove il pathos celebrativo cedette il posto a un'analisi polemica ma autentica. Vennero o tornarono alla ribalta N. A. Zabolockij (1903-1958), B. A. Sluckij (1919-1986), D. Samojlov (1920-1990), B. S. Okudžava (1924-1997), A. Tarkovskij (1932-1986), R. I. Roždestvenskij (1932-1994), A. Voznesenskij (n. 1933), B. Achmadulina (n. 1937) e soprattutto A. Tvardovskij (1910-1971), altissimo rappresentante della poesia di impegno civile, autore dei poemi Dietro la lontananza il lontano (1960) e Tërkin nell'altro mondo (1963). La prosa si rinnovò al pari della poesia, abbandonando gli schematismi monocordi del “realismo socialista”. Si affermarono così scrittori ben presto di valore e fama mondiale, come V. Kataev (1897-1986), autore di L'erba dell'oblio (1967) e Il cimitero di Skuljany (1975), Nekrasov (1911-1987), divenuto celebre con il romanzo Nella città natale (1954), K. Simonov (1915-1979), autore dei racconti di guerra I vivi e i morti (1959) e L'ultima estate (1971), A. I. Solženicyn (1918-2008), affermatosi con Una giornata di Ivan Denisovic (1962) e con Divisione Cancro (1968), G. J. Baklanov (n. 1923), V. Tendrjakov (1923-1984), autore de L'estraneo (1956) e Il trapasso (1968), V. Astaf'ev (1924-2001), V. Solouchin (1924-1997), divenuto celebre con I sentieri di Vladimir (1957) e Una goccia di rugiada (1960), J. V. Bondarev (n. 1924), J. Trifonov (1925-1981), autore di I riflessi del rogo (1965), Un'altra vita (1975) e La casa sul lungofiume (1976), J. P. Kazakov (1927-1982), V. Šukšin (1929-1974), che ha scritto Gente di campagna (1963) e Conversazioni al chiaro di luna (1974), il drammaturgo Rozov (1913-2004), V. Belov (n. 1932) ecc. Nonostante una certa distensione, molti scrittori, a cominciare da Solženicyn, furono costretti tuttavia alla via dell'esilio o a quella del samizdat, la diffusione clandestina attraverso una catena di dattiloscritti delle opere proibite dalla censura. Nell'atmosfera plumbea dell'era brezneviana, la vita letteraria continuava a scorrere semisegreta sotto la verniciatura di maniera della cultura ufficiale. Molti libri, dal valore letterario ineguale, penetrarono in quel periodo la cortina della censura, giungendo in Occidente ammantati di quella curiosità eccitata e affascinata che da sempre caratterizza la percezione europea del mondo slavo. È questo il caso del celebre Mosca sulla vodka (1977) di V. Erofeev (1938-1990), lacerato brandello di anima russa, divisa come sempre tra il sogno di un'impossibile purezza e la corruzione del quotidiano. La letteratura russa continua la sua vita difficile in patria, mentre quella dell'emigrazione, pur mantenendo un'identità forte, si contamina poco a poco con le culture ospiti. V. Nabokov (1899-1977) entra a far parte, a buon diritto, della cultura americana; lo stesso dicasi per I. Brodskij (19401996), la cui anima russa si esprime in una meravigliosa lingua poetica inglese. Nina Berberova (1901-1993) si afferma come la musa della cultura russa negli Stati Uniti, ricostruendo sul filo della memoria le vicende e l'atmosfera della Russia prerivoluzionaria. Gli scrittori del dissenso politico militante pubblicano all'estero i loro roventi atti d'accusa contro il regime che incarcera i suoi intellettuali più critici: nasce un vero e proprio filone, la memorialistica del Lager, che può annoverare alcuni lavori significativi come Grigio è il colore della speranza (1988) di Irina Ratusinskaja (n. 1954). In patria la letteratura, che di lì a poco non potrà più definirsi sovietica, ha aspetti diversi: c'è una letteratura ufficiale, grigia e verniciata di ottimismo artificiale, diretta continuatrice dei dettami del realismo socialista; c'è una letteratura cautamente riformista che, senza essere in aperta opposizione al regime e soprattutto senza tradirne il principio di base (realismo rigoroso senza alcuna concessione allo sperimentalismo), ne critica le storture più evidenti. C'è, infine, una letteratura apertamente e sfrontatamente dissidente che esprime, sia dal punto di vista stilistico che contenutistico, un totale rifiuto della cultura ufficiale (Kaledin, n. 1949; Petrusevskaija, n. 1938; P'ecuch, n. 1946; Popov, n. 1946; il già citato Erofeev). La vivacità del dibattito politico e il clima di rinnovamento sociale che si respirano nell'URSS di Gorbačëv offrono uno straordinario alimento alla letteratura, tanto da definire “disgelo gorbaceviano” l'insieme delle nuove tendenze che caratterizzano la seconda metà degli anni Ottanta. Da quando, nel 1991, l'Unione Sovietica ha cessato di esistere, è diventato molto difficile seguire le fila del dibattito letterario. La cultura soffre di una tragica crisi di identità, dovuta al rapido cambiamento del suo orizzonte politico-sociale: venuta meno la ragione di esistere della cultura di protesta, l'intellettuale russo ha dovuto reinventarsi un ruolo e ridefinire la propria identità. Fenomeni esterni, come la penuria di carta e la ristrutturazione delle case editrici, più orientate verso la letteratura straniera, rendono difficile interpretare le tendenze che caratterizzano il mondo letterario russo contemporaneo. Arte Nel periodo rivoluzionario, della guerra civile e del primo assestamento economico e politico della Repubblica popolare, cioè negli anni tra il 1918 e il 1925, vissero una breve ma intensa stagione i movimenti d'avanguardia (raggismo, suprematismo, costruttivismo) inserendosi attivamente nella cultura rivoluzionaria nel tentativo di adeguarsi ai precetti di Lenin, che postulava la necessità dell'adesione popolare all'opera d'arte, considerata come espressione di contenuti storici e sociali. Pochissime furono ovviamente le realizzazioni in campo architettonico di questo primo periodo; più numerosi i progetti tra cui quello per il Monumento alla III Internazionale (1919) di V. Tatlin, concepito come una gigantesca architettura astratta in metallo a forma di spirale, quasi un'antenna radio che diffondesse nel mondo i valori rivoluzionari; secondo l'impostazione ideologica di Malevič e Tatlin (affiancati da Rodčenko e Lissitsky), impostazione che tentava di conciliare la figurazione astratta con i compiti rappresentativi e sociali che il partito imponeva agli artisti sovietici, l'architettura e le altre arti dovevano così rappresentare simbolicamente le conquiste e le aspirazioni delle masse rivoluzionarie. Queste teorie, che ebbero largo seguito anche fuori della Russia, non giunsero tuttavia ad affermarsi compiutamente. Tra le realizzazioni nel campo dell'architettura si possono ricordare la Mostra Agricola Panrussa a Mosca (1923; di I. V. Zoltovskij, A. V. Ščusev e altri), il Mausoleo di Lenin a Mosca (A. V. Šcusev; 1926), la centrale idroelettrica di Volhov (1919-26) e i primi complessi di case operaie a Mosca, San Pietroburgo, Jekaterinburg, Novosibirsk, approntati tra il 1920 e il 1930. L'attività dei costruttivisti, legati nella società “Architettura Contemporanea” (1925-31) di cui fecero parte tra gli altri i fratelli Vesnin, autori del Palazzo di Cultura della Fabbrica di Automobili di Mosca, M. J. Ginzburg e P. A. Golosov, autore della sede della Pravda a Mosca, mantenne vive le tesi di un'architettura razionalista e funzionale, raccogliendo consensi anche all'estero. Mentre già intorno al 1920 i movimenti connessi con le avanguardie europee (cubismo, futurismo, astrattismo) apparivano esclusi dagli sviluppi immediati dell'arte russa, tentò una conciliazione tra avanguardia e nuovi contenuti l'Unione degli Artisti da Cavalletto (1925-32). Erano intanto venute delineandosi sempre più chiaramente, negli anni tra il 1920 e il 1930, correnti conservatrici che, facendo appello alle tradizioni classiciste nell'architettura (Società Architettonica di Mosca, 1869-1930) e al realismo nelle arti figurative (Associazione degli artisti della Russia Rivoluzionaria, 1922-32), avrebbero in seguito indirizzato in quel senso ogni ulteriore evoluzione dell'arte sovietica, mantenendone il distacco dalle contemporanee correnti europee fino a tempi recenti. L'avvenimento fondamentale del periodo in campo artistico, i concorsi per il Palazzo dei Soviet a Mosca (1931-33), cui parteciparono tra l'altro Le Corbusier e Gropius, segnò il definitivo trionfo del tradizionalismo accademico di I. A. Fomin e A. V. Ščusev nell'architettura e del realismo socialista nella pittura; successo confermato dalla fondazione nel 1932 delle Unioni degli Architetti Sovietici e degli Artisti Sovietici, organi ufficiali del nuovo gusto. Le realizzazioni grandiose dei periodi immediatamente precedente e successivo alla seconda guerra mondiale si ispirarono a esigenze di rappresentanza e sfarzoso monumentalismo con esiti discutibili per irrazionalità ed enfasi decorativa (Metropolitana di Mosca, 1932-35; Università di Mosca, 1948-53). Nelle arti figurative prevalse la rappresentazione realistica, spesso fredda e oleografica, degli avvenimenti storici e della realizzazione della società comunista (Ioganson, Gerasimov, Maximov, Pimenov ecc.). Intensa riprese nel periodo postbellico l'attività urbanistica con la ricostruzione dei centri danneggiati dalla guerra e con la costruzione di nuovi centri industriali e residenziali nelle regioni orientali e in Siberia, secondo criteri di architettura razionale con largo impiego della prefabbricazione; tra i numerosi centri sorti dal 1945 a oggi si distingue per imponenza Togliatti (1967 e seguenti); anche le ristrutturazioni urbane più recenti e i nuovi edifici si ricollegano al funzionalismo (Mosca, Palazzo dei Congressi, 1961; Kalinina Prospekt e Lenina Prospekt, 1967; San Pietroburgo, Hotel Russia, 1962), mentre parallelamente si sviluppano nelle arti figurative correnti che si riaccostano all'astrattismo e all'informale. Accanto all'arte cosiddetta “ufficiale”, negli anni Sessanta si sono affermati numerosi gruppi d'avanguardia, le cui esperienze erano in qualche modo rapportabili a quelle allora in voga in Occidente. Importante è il lavoro svolto dal collettivo Dviženie, che si rifaceva alle vecchie avanguardie astrattocostruttiviste di Malevič e Tatlin. Negli anni Settanta c'è stato anche nell'Unione Sovietica un certo sviluppo dell'arte concettuale, dell'arte comportamentale e della land-art. Questi lavori sono giunti in Occidente attraverso la Biennale veneziana del 1977. La Galleria Tretiakov di Mosca nel 1981 ha allestito una mostra dedicata ad alcuni pittori non conformisti come Ilya Pravdin, Aleksandr Simnikov, Tatiana Nazarenko, Viktor Kalinin, Tatiana Nassipova e gli “iperrealisti” Aleksandr Petrov e Andrej Volkov. Musica Dopo lo scoppio della Rivoluzione del 1917 oltre a Stravinskij altri musicisti abbandonarono il Paese trasferendosi in Occidente: S. Rachmaninov (1873-1943) nello stesso 1917, Nikolaj Nikolaevič Čerepnin (1873-1945), A. N. Čerepnin (18991977) e N. K. Metner nel 1921; A. T. Grečaninov (1864-1956) nel 1922, Glazunov (1865-1936) nel 1928. Prokofev (1891-1953), che era stato assente dall'Unione Sovietica dal 1918, pur condividendone le scelte politiche e ideali, vi fece ritorno nel 1933. La prima fase del regime comunista (sino al 1930 ca.) fu caratterizzata in campo musicale da un'aperta adesione alle avanguardie storiche occidentali, in particolare alle esperienze dell'espressionismo e della nuova scuola di Vienna (Schönberg, Berg e Webern), e dalla ricerca di un linguaggio che rispecchiasse sul piano dello stile il processo di rinnovamento rivoluzionario in atto nel Paese. La rivalutazione del patrimonio folcloristico, la stretta collaborazione con uomini di teatro e di cinema (celebre fra le altre la collaborazione di Prokofev con Ejzenštejn per Alessandro Nevskij), l'elaborazione di nuove forme e modi di comunicazione furono i punti nodali di questa ricerca. Accanto a Prokofev e a Šostakovič (19061975), personalità di rilievo della storia musicale del Novecento, si segnalarono N. J. Mjaskovskij (1881-1950), R. M. Glier (1875-1956), B. V. Asafev (1884-1949), M. O. Šteinberg (1883-1946), M. F. Gnesin (1883-1957), A. A. Krejn (1883-1951), J. A. Šaporin (1887-1966), S. N.Vasilenko (1872-1956) e altri. La politica culturale staliniana portò a un arresto di queste esperienze, ponendo l'accento sulla necessità di una musica facilmente comprensibile al popolo, ispirata a tematiche patriottiche e, soprattutto, nettamente legata al sistema tonale: in base a questi principi nel 1948 furono accusati di “formalismo borghese” autori quali Prokofev, Šostakovič, V. I. Muradeli (1908-1970), A. Chačaturjan (1903-1978) e altri. Occorre comunque tenere presente che queste direttive si accompagnarono a una capillare ristrutturazione della vita musicale, sia sul piano didattico sia su quello organizzativo, che fece dell'Unione Sovietica uno dei Paesi nei quali è stato raggiunto il più alto e generalizzato livello d'istruzione musicale, com'è confermato dalla vasta diffusione di complessi sinfonici e di solisti di fama mondiale: si pensi a pianisti come E. Gilels (1916-1985), S. Richter (1914-1997), Y. Flier, V. Aškenazij (n. 1937), L. Berman (n. 1930), ai violoncellisti G. Piatigorski (1903-1976) e M. Rostropovič (1927-2007) e a sua moglie il soprano G. Višnevskaja (n. 1926), ai violinisti Igor (n. 1931) e David Oistrach (1908-1974), L. Kogan (1924-1982) ecc. Anche sul piano delle esperienze compositive si è assistito a un ampio dibattito sfociato in un cauto confronto critico con le esperienze del linguaggio musicale occidentale, accompagnato a una sempre più approfondita indagine sulle caratteristiche etniche e culturali del patrimonio musicale di ogni singola pepubblica. Nel vasto panorama di indirizzi e di posizioni sono emersi D. B. Kabalevskij (1904-1979), J. A. Šaporin, V. J. Šebalin (1902-1963), T. N. Chrennikov (1913-2007), I. I. Dzeržinskij (1909-1978), A. V. Mosolov (1900-1973) e inoltre R. Ščedrin (n. 1932), G. G. Galynin (1922-1966), A. Volkonskij (n. 1933), E. Denisov (1929-1996), S. Slonimsky (n. 1894-1995), T. Mansurian (n. 1934), R. Grinblat (n. 1930) e soprattutto A. Schnittke (1934-1998), B. Tiščenko (n. 1939) e S. Gubaidulina (n. 1931). Danza All'indomani della Rivoluzione d'ottobre, dopo un periodo di incertezza, animato da aspre discussioni sul futuro della tradizione ballettistica e dal tentativo di affidare a I. Duncan (1921-22) la creazione di una nuova cultura coreografica di ispirazione rivoluzionaria, il governo sovietico, anche grazie alla determinante presa di posizione di A. Lunacarskij, primo commissario alla Cultura, si assunse il compito di preservare e tutelare adeguatamente l'arte del balletto. Fin dagli anni Venti, nei due maggiori teatri dell'ex impero zarista, il Bolšoj di Mosca e il Mariinskij (ribattezzato Teatro Accademico di Stato d'Opera e Balletto, poi dal 1935, Kirov, e dal 1992 di nuovo Mariinskij) di Leningrado (oggi San Pietroburgo) al repertorio tardoromantico imperniato sull'opera di M. Petipa, cominciarono ad affiancarsi nuove creazioni, largamente influenzate da varie correnti del modernismo nonché dalle teorie di K. Stanislavskij e, a partire dagli anni Trenta, dai principi del realismo socialista. A. Lopuchov e K. Golejzovskij, poi V. Vainonen, R. Zacharov e L. Lavrovskij furono i coreografi protagonisti della prima fioritura del balletto sovietico, mentre sul versante didattico l'opera di sistematizzazione e riorganizzazione dei corsi e dei metodi di studio intrapresa da A. Vaganova, fornì alla scuola sovietica un'impareggiabile base tecnica. Il primato dell'antico Mariinskij si mantenne pressoché inalterato fino ai primi anni Quaranta, quando il trasferimento a Mosca di G. Ul'anova, unanimemente considerata la “prima ballerina assoluta” del balletto sovietico, segnò il passaggio a una fase di predominio – quanto a risorse e prestigio, nazionale e internazionale – del Bolšoj di Mosca. La cura e la riorganizzazione dell'insegnamento, della diffusione e della riproduzione dell'arte coreografica (balletto e danze popolari) è stata successivamente affidata ad appositi organismi centralizzati: nuove accademie per la formazione professionale di ballerini, coreografi e maestri sono state create in ogni repubblica e nuove compagnie si sono formate in tutte le principali città dell'Unione Sovietica. Largo spazio ha avuto anche l'elaborazione di una moderna tradizione coreografica folclorica, che ha contribuito all'arricchimento del vocabolario ballettistico, grazie soprattutto all'opera pionieristica e riorganizzatrice di I. Moiseev. L'apparizione di nuove splendide generazioni di interpreti (M. Pliseskaja, E. Maximova, V. Vasilev, M. Liepa, Y. Solovä, A. Shelest, A. Sizova, R. Stručkova, I. Kolpakova, N. Bessmertnova) non ha impedito il lento, dapprima impercettibile, poi sempre più evidente declino, a partire dalla fine degli anni Sessanta, della scuola sovietica: grandi talenti di interpreti – R. Nureev, N. Makarova, M. Barijsnikov – si sono resi protagonisti di clamorose fughe in Occidente, alla ricerca di una maggiore libertà di espressione artistica e personale, mentre sul piano coreografico, nonostante l'apparizione di nuove personalità creative (J. Grigorovič, L. Jacobson, O. Vinogradov) il sempre più soffocante clima culturale sovietico impediva una vera fioritura di talenti. Salvo rare eccezioni, lo stile sovietico si esauriva, a Mosca, in un esasperato tecnicismo, gonfio di atletismo retorico e di virtuosismo fine a se stesso, mentre a Leningrado se si coltivava ancora, ma con sempre maggiore fatica, l'antica aristocratica purezza tecnicostilistica, sul piano creativo si soffriva delle medesime limitazioni. Il patrocinio dello Stato e la certezza delle risorse finanziarie hanno comunque garantito un fiorire di scuole e, in larga misura, la continuità di una ricca tradizione. Con la dissoluzione dell'Unione Sovietica anche il balletto è entrato in una profonda crisi. Teatro All'indomani della Rivoluzione d'Ottobre, un decreto del nuovo governo sottopone l'intera attività teatrale al Commissariato per l'Istruzione, alla cui testa è il drammaturgo A. V. Lunačarskij; due anni dopo tutti i teatri vengono nazionalizzati e sono soggetti a un Comitato teatrale centrale. Il primo quindicennio del teatro sovietico è caratterizzato da un fervore di attività che si manifestò non solo sulle scene professionali, rapidamente moltiplicatesi di numero, ma anche negli innumerevoli gruppi a carattere sperimentale che sorgono un po' ovunque. Si possono distinguere alcune tendenze fondamentali: il rifiuto radicale delle forme teatrali tradizionali e la loro sostituzione con grandi spettacoli di massa che si riallacciano alle feste della Rivoluzione francese; la sperimentazione teatrale, ritenendo sufficiente per l'epoca nuova il superamento delle forme nelle quali si è finora riconosciuta la classe dominante (è la tendenza che si riscontra, per esempio, negli ultimi spettacoli di Vachtangov, morto prematuramente nel 1922, e in quelli di A. Tairov, peraltro radicalmente diversi); un teatro nel quale le più ardite innovazioni formali (con occhio attento ai più avanzati movimenti letterari e artistici, dal costruttivismo al suprematismo) procedono di pari passo con un discorso volutamente e provocatoriamente politico: è la strada di Mejerchold e dei suoi spettacoli, ogni volta sassi lanciati nello stagno e ogni volta oggetto di furibonde polemiche; infine, la necessità di non rompere con il passato, la cui lezione deve anzi essere ripresa e portata avanti adeguandola ai contenuti nuovi. Sarà questa la linea prevalente, soprattutto a iniziare dagli anni Trenta, con l'ufficializzazione dell'estetica del realismo socialista, con la condanna di tutti i “formalismi” e con la stretta subordinazione del teatro, come di ogni altra attività, alle esigenze prioritarie del Paese, in particolare a quelle della propaganda. Mejerchold è arrestato nel 1939, altri registi d'avanguardia (come Ochlopkov, Akimov, Popov ecc.) s'adeguano al nuovo corso, la tradizione realistica del Malyj e del MCHAT (Teatro d'Arte di Mosca) diventa modello insostituibile, privata per di più delle sue componenti di inquietudine e di critica. Il livello tecnico del teatro (attori, registi ecc.) rimane assai alto, ma, fatte poche eccezioni, il tono generale delle rappresentazioni è quello di un corretto accademismo. È solo dopo il 1953 che, riabilitato Mejerchold, registi come Ljubimov, Efros, Tovstonogov, più alcuni superstiti della grande epoca, riportano la scena sovietica all'attenzione dei teatranti del mondo intero. Il risultato più importante del regime sovietico è d'ordine soprattutto organizzativo e quantitativo. Si va dalla moltiplicazione delle scene in tutte le Repubbliche che compongono l'Unione Sovietica alla loro organizzazione in strutture permanenti; dall'aiuto e dall'incoraggiamento forniti alle iniziative giudicate meritevoli al riconoscimento dell'autonomia di gestione dei singoli teatri, che non vengono aiutati con sovvenzioni ma forniti di un capitale di partenza da amministrare con piena responsabilità. L'Unione Sovietica è stata dunque uno dei Paesi dove la diffusione del teatro è avvenuta in modo più capillare e dove più alto è risultato il livello tecnico medio delle rappresentazioni. Ai dati largamente positivi della capillarità della diffusione, della grande affluenza del pubblico e dell'alta professionalità dei teatranti, si sono accompagnate tuttavia una forte burocratizzazione dell'offerta teatrale e una certa uniformità, attestata dalla prevalenza assoluta del modello stanislavskijano nella recitazione, dalla scelta di un repertorio il più possibile privo di inquietudini e di problematiche contemporanee, da una tecnica di messinscena subordinata alla preminenza del testo. Ci sono state, naturalmente, le eccezioni, soprattutto negli ultimi decenni, cioè da quando è stato di nuovo possibile rifarsi alla gloriosa lezione di Mejerchold. Registi come quelli sopra citati, e anche alcuni drammaturghi, attenti ai problemi della nuova società sovietica, hanno posto alternative ai modelli ufficiali. Dai loro spettacoli è affiorato spesso un discorso di attualità, magari dalla messinscena non convenzionale di un classico. Cinema Il cinema dell'Unione Sovietica ha le sue origini nel cinema russo prerivoluzionario anche se nacque in polemica e in aperta rottura con esso e, per mancanza di pellicola, talvolta sulla cancellazione degli antichi film (alcuni dei quali magari di grande interesse come Il ritratto di Dorian Gray, 1916, di Mejerchold). Preziose testimonianze delle cineattualità dell'epoca zarista sono i film d'archivio e di montaggio di E. Šub La caduta della dinastia dei Romanov (1927) e La Russia di Nicola II e Leone Tolstoj (1928). Giornalista a Nižnyi-Novgorod, Gorkij fu il primo cronista cinematografico; G. Vitrotti dell'Ambrosio di Torino l'operatore straniero di miglior fama; Drankov e Chanžonkov furono i primi produttori nazionali (Stenka Razin, 1908, il primo film) e tra i registi di “colossi” storici e letterari si segnalarono Gončarov e Čardynin, poi V. Gardin e I. Protazanov che girarono insieme Guerra e pace (1915). Tolstoj, Lenin e Gorkij si erano battuti per un cinema diverso, ma durante la prima guerra mondiale – con la produzione Ermolev, le dive Lysenko e Cholodnaja, l'attore I. Mozžuchin, i registi Protazanov e E. Bauer – trionfarono la tendenza salottiera e quella mistico-erotico-satanica, anche se gli stessi registi e attori si riscattavano a contatto con la letteratura dell'Ottocento o con temi politici contemporanei; finché Protazanov nel 1917, tra la rivoluzione di febbraio e quella d'ottobre, in Padre Sergio da Tolstoj, con Mozžuchin, diede forse il migliore dei quasi duemila film prerivoluzionari, uscito soltanto sugli schermi sovietici e rimastovi per un decennio. Emigrato (soprattutto a Parigi) lo stato maggiore del cinema zarista e kerenskiano, stabilita una certa continuità tecnico-artigianale dai cineasti rimasti in patria (come Gardin) o più tardi rientrativi (come Protazanov), il cinema sovietico, nazionalizzato il 29 agosto 1919, ebbe inizio dagli agitki, brevi film di propaganda della guerra civile e del comunismo detto appunto di guerra, e del quale D. Vertov si farà il primo banditore. Lenin fu il primo uomo di Stato a considerare il cinema “di tutte le arti, la più importante”, Lunačarskij un commissario alla cultura che partecipava anche di persona all'elaborazione dei primi soggetti e Majakovskij un poeta che si produceva anche come attore cinematografico ma riteneva il cinema non spettacolo, bensì “quasi una concezione del mondo”; mentre già nell'autunno 1919 si aprivano a Mosca e a Pietrogrado i primi due Istituti statali specializzati e nello stesso anno si ricorreva ancora a Tolstoj in Polikuška, rimanevano apertissimi i problemi della distribuzione (con un'accurata cernita dei film stranieri) e della produzione, che negli anni Venti si ristrutturò, anche col concorso delle ultime società private durante il periodo della NEP, o venne creata ex novo specie nelle Repubbliche periferiche. Proprio dalla Georgia arrivò nel 1923 I diavoletti rossi di I. Perestiani, mentre il 1924 fu un anno cruciale con il film fantascientifico di Protazanov Aelita, con Le straordinarie avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi di L. Kulešov, grande sperimentatore e maestro della nuova generazione di cineasti, con Le avventure di Ottobrina che a Leningrado segnò l'esordio della FEKS, con la prima serie Kino-Pravda di Vertov e con la prima opera di Ejzenštejn, Sciopero, vero principio del cinema rivoluzionario. In un crogiolo di battaglie ideali e linguistiche, di distacchi dal passato (come richiesto dai virulenti manifesti del Cine-Occhio di Vertov) e di insegnamenti teatrali (quali l'eccentrismo del Proletkult), il nuovo cinema sovietico fu elaborato con la partecipazione prevalente del rovesciamento ideologico dal cinema borghese in cinema classista (col proletariato operaio nuovo protagonista plastico). Seguirono: La corazzata Potëmkin (1925) di Ejzenštejn e La Madre (1926) di Pudovkin in Russia, Arsenale (1929) e La terra (1930) di Dovženko in Ucraina, capolavori che si imposero come classici non solo in Unione Sovietica, ma in tutto il mondo, mentre il cinema-verità documentario di Vertov si raccoglieva e si esaltava in sinfonie del lavoro e dell'edificazione socialista. Fu un decennio straordinario, certo la punta più alta mai raggiunta dal cinema internazionale, in cui apparvero le opere successive di Ejzenštejn e Pudovkin (Ottobre e La linea generale per il primo, La fine di San Pietroburgo e Tempeste sull'Asia per il secondo), il capolavoro figurativo La nuova Babilonia (1929) di Kozincev e Trauberg a Leningrado, si sviluppò il travaglio teorico dei “formalisti russi”, la commedia NEP toccò vertici originalissimi nei film di A. Room e B. Barnet, il Manifesto dell'asincronismo impostò i problemi del sonoro; in quegli anni vi fu la parentesi messicana di Ejzenštejn, G. V. Aleksandrov e Tissé, apparvero il cine-treno e le satire militanti di A. Medvedkin, i primi film parlati di Dovženko (Ivan, 1932), Pudovkin (Il disertore, 1933) e Barnet (Okraina, 1933), l'ultimo film muto (Boule-de-suif, 1934, da Maupassant) che segnò l'esordio di M. Romm. Va però notato che, parallelamente a questa esplosione multiforme, si rassodava e si sviluppava una linea più tradizionale che, facendosi forte della dichiarazione di Stalin al XIII Congresso del Partito Comunista nel 1924 (“Il cinema è il più grande mezzo di propaganda di massa. Dobbiamo prenderlo nelle nostre mani”), si opponeva sempre più agli innovatori, ostacolava gli sperimentatori, accusava di formalismo, di intellettualismo e di individualismo i maggiori registi, si rivolgeva indietro ai modelli artistici e letterari dell'Ottocento e, privilegiando la commedia di costume o musicale, il film storico e quello psicologico con eroe “positivo”, giungeva nel 193435, al Congresso degli scrittori e poi a quello dei cineasti, a decretare la soppressione burocratica delle varie tendenze, a definire sorpassato il realismo “critico” e a proclamare il realismo “socialista” unica tendenza del cinema sovietico. Di questo processo furono testimonianza, nel 1932, film come Il cammino verso la vita di N. Ekk e Contropiano di Ermler e Jutkevič, e nel 1934 Ciapaiev dei Vasilev, che Stalin assunse a modello del nuovo corso. Si trattava ancora di opere di grande qualità e ancora valide furono più tardi la “trilogia di Massimo” (1934-38) di Kozincev e Trauberg, la “trilogia di Gorkij” (1938-40) di M. Donskoj, Il deputato del Baltico (1936) e Membro del governo (1939) di Zarchi e Chejfic, L'ultima notte (1937) di J. Rajzman, Biancheggia una vela solitaria (1937) di V. Legošin, Aerograd (1935) e Ščors (1939) di Dovženko, Pietro il Grande (1937-39) in due parti di V. Petrov, Aleksandr Nevskij (1938) di Ejzenštejn (reduce tuttavia dal progetto incompiuto del Prato di Bežin, bloccatogli nel 1937 dal direttore della cinematografia Šumjackij), il dittico su Lenin (1937-39) di M. Romm, L'uomo col fucile (1938) di Jutkevič, Il maestro (1939) di S. Gerasimov ecc. A dispetto della qualità di tali film e di quelli prodotti nelle Repubbliche periferiche, come I ventisei commissari (1933) del georgiano Šengelaja, Pepó (1935) dell'armeno Bek-Nazarov, Noi di Kronstadt (1936) del bielorusso Dzigan, Bogdan Chmelnickij (1941) dell'ucraino Savčenko, i pericoli di schematismo, appiattimento e deformazione, sia della storia sia della contemporaneità (tuttavia sempre più raramente affrontata), si affacciavano però già in modo preoccupante, sostituendo all'analisi della realtà la sua idealizzazione, alla dialettica l'ottimismo, specie nelle commedie colchosiane di Pyrev che seguirono a quelle musicali di Aleksandrov. Durante la seconda guerra mondiale i generi più sviluppati furono il documentario e quello storico-biografico che, oltre a Georgij Saakadze (1942-43) di Čiaureli in Georgia e a David Bek (1943) di Bek-Nazarov in Armenia, diede l'Ivan Groznij (1943-45) in due parti (titolo italiano Ivan il Terribile e La congiura dei boiardi) di Ejzenštejn. La seconda parte di quest'ultimo, bocciata con altri film da una risoluzione del Comitato centrale nel settembre 1946, uscì in Unione Sovietica soltanto dopo la denuncia del “culto della personalità” (1956), che l'opera a suo modo anticipava. Nel dopoguerra, mentre la produzione declinava anche quantitativamente in quanto le sceneggiature erano sottoposte a ferrei controlli, il culto del vincitore e la verniciatura della realtà predominavano incontrastati, sia nel trittico staliniano di Čiaureli Giuramento (1945), La caduta di Berlino (1949-50) in due parti, L'indimenticabile 1919 (1952), sia nelle due parti della Battaglia di Stalingrado (1949) di Petrov, mentre una visione meno distorta della guerra è nella Grande svolta (1946) di Ermler. Anche le biografie storiche ebbero largo spicco: le migliori furono, nel 1949, L'accademico Ivan Pavlov di G. Rošal, in cui prevale la monografia scientifica, e Mičurin di Dovženko per i suoi aspetti lirici, sottolineati dal colore. Ma in quasi tutti i film del periodo, salvo forse quelli favolistici di Ptuško (da Il fiore di pietra, 1946, a Sadko, 1953) e, in maggior misura, i bellissimi documentari scientifici di Žguridi e Dolin, la teoria dell'“assenza di conflitti” e lo stravolgimento del concetto di “tipico” conducono all'iperbole e al manicheismo; tra i titoli maggiormente denunciati in seguito, I cosacchi del Kuban (1950) di Pyrev che, essendo tra i pochi sull'attualità, meglio disvela la falsità del contrasto tra il bene e il meglio. Si salvò invece l'ultima opera di Pudovkin, Il ritorno di Vasilij Bortnikov (1953), in cui il dolore riprendeva la sua funzione di alternativa alla gioia di vivere e che preannunciava il tempo del “disgelo”. Questo si qualificò anzitutto con un richiamo alla tradizione degli anni Venti e Trenta (Il quarantunesimo, 1957, di G. Čurchraj rifaceva un film di Protazanov del 1927; Quando volano le cicogne, 1958, di M. Kalatozov ricordava, almeno nei virtuosismi fotografici, il suo documentario del 1930 Il sale della Svanezia; la raffinatezza letteraria e figurativa di film come La cicala, 1955, di Samsonov, Don Chisciotte, 1957, di Kozincev, La signora dal cagnolino, 1960, di Chejfic, si ricollegava a modelli del passato). In due opere del 1959, Destino di un uomo di S. Bondarčuk, regista e attore, e Ballata di un soldato di Čuchraj, si riaffermava un sofferto umanesimo, mentre i veri protagonisti del disgelo cinematografico risultarono, nei primi anni Sessanta, l'anziano M. Romm, straordinario maestro di giovani, col suo Nove giorni di un anno (1961), e i suoi allievi Čuchraj (il cui Cieli puliti, 1961, fu però meno felice dei suoi precedenti, pur essendo il più coraggioso), A. Tarkovskij (che con l'opera prima L'infanzia di Ivan, 1962, vinse il Leone d'oro a Venezia e destò l'entusiasmo di Sartre), M. Chucjev (che con Ho vent'anni, 1962, uscito rimaneggiato nel 1964, suscitò le preoccupazioni di Chruščëv) e V. Šukšin (già attore di Chucjev, che esordì nel 1964 con Vive un ragazzo così, ottenendo a Venezia il Gran Premio nella Mostra del film per ragazzi). I registi anziani concludevano intanto la loro carriera: Kozincev con Shakespeare (Amleto, 1964; Re Lear, 1971), Jutkevič con due film su Lenin e due da Majakovskij, e Romm col film di montaggio Il fascismo quotidiano (1966); Bondarčuk monopolizzava la Mosfilm con le varie parti di Guerra e pace (1964-67) come più tardi J. Ozerov con le varie parti di Liberazione, film-epopea sulla seconda guerra mondiale ultimato nel 1971. Contemporaneamente i registi giovani che meglio si segnalavano erano M. Kalik (L'uomo segue il sole, 1961), J. Karasik (Dingo cane selvaggio, 1962), K. Voinov (Giovane verde, 1962), l'ucraina L. Šepitko col film kirghiso Calura (1963) e con Ali (1966), G. Danelija (A zonzo per Mosca, 1964; Trentatre, 1965), E. Klimov, V. Derbenjov, A. Saltykov, il lettone M. Bogin, il lituano V. Žalakjavičus e il russo A. Končalovskij, ex collaboratore di Tarkovskij, la cui attività personale si è sviluppata dal film kirghiso Il primo maestro (1966), attraverso le riduzioni letterarie Nido di nobili (1969) e Zio Vanja (1971), fino a Siberiade (1978-80) e a Maria's Lovers (1984), girato negli USA. La personalità preminente del periodo è comunque Tarkovskij con Andrej Rublëv (1966, presentato a Cannes nel 1969, proiettato in URSS nel 1972), Lo specchio (1975), Stalker (1979); infine con i film, fedelissimi al suo mondo, Nostàlghia (1983), girato in Italia, e Il sacrificio (1985) in Svezia. Di non minore rilievo sono però due altri cineasti: l'armeno-georgiano S. Paradžanov, autore di Le ombre degli avi dimenticati (1964), Sajat Nova ovvero Il colore della melagrana (1969) e, dopo alcuni anni di carcere, La leggenda della fortezza di Suram (1985). Il siberiano Šukšin, che con opere profondamente sue, splendidamente dialogate (da Vostro figlio e fratello, 1966, a Viburno rosso, 1974), si rivelò prima della morte immatura un singolare erede della tradizione contadina di Dovženko. L'interesse per la contemporaneità proseguì negli anni Settanta e Ottanta, sebbene non senza precauzioni, permanendo il “realismo socialista” la tendenza-guida. Tuttavia alcuni registi hanno manifestato un notevole anticonformismo: S. Mikaelian con Il premio (1975), I. Averbach con Lettere altrui (1975), G. Panfilov con Chiedo la parola (1976) e Vassa (1983), Karasik con Opinione personale (1977), S. Solovëv occupandosi del passaggio dall'adolescenza alla maturità nel trittico Cento giorni dopo l'infanzia (1975), Il salvatore (1980), L'ereditiera in linea diretta (1981). Altri hanno guardato in modo nuovo al passato, come Klimov nel sontuoso Agonia (1975, presentato a Venezia nel 1982) e L'addio (1983) o A. German in Venti giorni senza guerra (1976) e Il mio amico Ivan Lapšin (1985). Nel passato erano pure ambientati i primi film di N. Michalkov (da Schiava d'amore, 1975, a Cinque serate, 1978, a Oblomov, 1979): il cineasta si è però convertito all'attualità con La parentela (1982) e con Senza testimoni (1984), mentre il veterano Rajzman (Vita privata, 1982) le era fedele ormai da tempo. Il cinema russo, di cui sono espressione tutti i nomi ora segnalati, continuò a esercitare il predominio. Nella seconda metà degli anni Settanta, comunque, iniziò a emergere la produzione delle Repubbliche periferiche (europee, transcaucasiche e asiatiche), dalle quali sono venute opere non trascurabili. Proprio da queste regioni e dalle Repubbliche nate dalla dissoluzione dell'URSS si sono imposti all'attenzione cineasti che avranno un ruolo nei futuri sviluppi delle varie cinematografie nazionali. Già una lunga tradizione vantavano le Repubbliche meridionali, specie la Georgia, attiva tra gli anni Venti e Trenta con N. Šengelaja (I ventisei commissari, 1933), Kalatozov e Čiaureli; i figli del primo, Eldar e Georgij, hanno raccolto l'eredità paterna, e Pirosmani (1969, edizione 1971) di G. Šengelaja fece onore a tutto il cinema sovietico, così come Le montagne blu (1985) di E. Šengelaja, Tre giorni di un'estate afosa (1982) di M. Kokočašvili, come Non te la prendere (1968) di Danelija (il quale ha poi proseguito l'attività in Russia: Afonja, 1975; Mimino, 1977; Maratona d'autunno, 1979), come La supplica (1968) o L'albero dei desideri (1978) di T. Abuladze, o come i capolavori di O. Ioseliani: La caduta delle foglie (1966), C'era una volta un merlo canterino (1971), Pastorale (1976), I favoriti della luna (1984), girato a Parigi, Un incendio visto da lontano (1988), Caccia alle farfalle (1992). Dall'Armenia sono giunti un notevole film, Nahapet (1977) di H. Malian, e un grande cineasta-documentarista, A. Pelešian (Le stagioni, 1975), creatore del “montaggio a distanza”. Dall'Ucraina L'uccello bianco con la macchia nera (1971) di J. Ilenko, Gli orfani (1976) e La vita, le lacrime e l'amore (1985) di N. Gubenko, Romanzo al fronte (1983) di P. Todorovski. Uno sviluppo interessante si è registrato nelle Repubbliche asiatiche, dove i nomi più noti sono i kirghisi B. Šamšiev (Il battello bianco, 1976) e T. Okeev (Il feroce grigio, 1973; La mela rossa, 1975; Il discendente del leopardo delle nevi, presentato al Festival di Berlino nel 1985), che hanno attinto entrambi al narratore nazionale C. Ajtmatov; i turkmeni C. Narliev (La nuora, 1972; Buio bianco, 1978) e U. Saparov (Educazione virile, 1983); gli uzbechi E. Išmuchamedov (Tenerezza, 1966; Gli innamorati, 1969; Incontri e distacchi, 1973) e A. Chamraev (L'uomo insegue gli uccelli, 1975; Trittico, 1979). A metà degli anni Ottanta, con Gorbačëv e la perestrojka, anche il cinema sovietico cominciò a rinnovarsi radicalmente. La vera svolta si ebbe nel 1986, con l'elezione di Elem Klimov a segretario del congresso dell'Unione dei cineasti, al posto dell'accademico Kuligianov. Da allora, infatti, il “disgelo” della produzione sovietica prese a procedere a tappe sempre più veloci, anche se l'aggravarsi della crisi, con la dissoluzione del regime e la rinascita degli Stati indipendenti, ebbe serissime ripercussioni anche sul cinema nazionale. Vennero messe in circolazione opere bloccate dalla censura, riemersero cineasti sino a quel momento ostacolati, come Panfilov, A. Gherman, K. Muratova ed esordì tutta una generazione di autori dal linguaggio spesso rabbioso e anticonformista. Così, se l'attività di Tarkovskij (scomparso nel 1986), Končalovskij, Michalkov, Ioseliani è ormai cosmopolita, in patria si fanno notare S. Bodrov, V. Khotinenko, V. Pichul (Piccola Vera, 1988), P. Loungine (Taxi Blues, 1990; Luna Park, 1992), A. Sokurov (Elegia di Mosca, 1990). Nei primi anni Novanta la gravissima crisi economica ha spento la grande forza tradizionale della produzione di Stato. Tuttavia, i grandiosi studi cinematografici Mosfilm, a Mosca, e Lenfilm, a San Pietroburgo, lavorano a pieno ritmo per le produzioni straniere, vista la straordinaria qualità dei servizi forniti. Costituzione dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche Con le modificazioni e le aggiunte approvate dal Soviet Supremo dell'U.R.S.S. il 25 febbraio 1947 in base al rapporto della Commissione di Redazione Capitolo I: Struttura della Società Capitolo II: Struttura dello Stato Capitolo III: Organi Supremi del Potere di Stato Dell'unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche Capitolo IV: Organi Supremi del Potere di Stato delle Repubbliche Federate Capitolo V: Organi di Governo dello Stato Dell'unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche Capitolo VI: Organi di Governo dello Stato delle Repubbliche Federate Capitolo VII: Organi Supremi del Potere di Stato delle Repubbliche Socialiste Sovietiche Autonome Capitolo VIII: Organi Locali del Potere di Stato Capitolo IX: Tribunali e Procura Capitolo X: Diritti e Doveri fondamentali dei Cittadini Capitolo XI: Sistema Elettorale Capitolo XII: Stemma, Bandiera. Capitale Capitolo XIII: Procedura per la modifica della Costituzione Capitolo I - STRUTTURA DELLA SOCIETÀ ARTICOLO 1 L'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è uno Stato socialista degli operai e dei contadini. ARTICOLO 2 La base politica dell'U.R.S.S. è costituita dai Soviet dei deputati dei lavoratori, sviluppatisi e consolidatisi in seguito all'abbattimento del potere dei proprietari fondiari e dei capitalisti e alla conquista della dittatura del proletariato. ARTICOLO 3 Tutto il potere nell'U.R.S.S. appartiene ai lavoratori della città e della campagna, rappresentati dai Soviet dei deputati dei lavoratori. ARTICOLO 4 La base economica dell'U.R.S.S. è costituita dal sistema socialista dell'economia e dalla proprietà socialista degli strumenti e mezzi di produzione, affermatisi in seguito alla liquidazione del sistema capitalista dell'economia, all'abolizione della proprietà privata degli strumenti e mezzi di produzione e all'eliminazione dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. ARTICOLO 5 La proprietà socialista nell'U.R.S.S. ha la forma di proprietà statale (patrimonio di tutto il popolo), oppure la forma di proprietà cooperativa-colcosiana (proprietà dei singoli colcos, proprietà delle associazioni cooperative). ARTICOLO 6 La terra, il sottosuolo, le acque, i boschi. le officine, le fabbriche, le miniere, le cave, i trasporti ferroviari, acquei ed aerei, le banche, i mezzi di comunicazione, le grandi aziende agricole organizzate dallo Stato (sovcos, stazioni di macchine e trattrici, ecc.) e così pure le aziende comunali e la parte fondamentale del patrimonio edilizio nelle città e nei centri industriali, sono proprietà dello Stato, cioè patrimonio di tutto il popolo. ARTICOLO 7 Le aziende sociali dei colcos e delle organizzazioni cooperative, con le loro scorte vive e morte, la produzione fornita dai colcos e dalle organizzazioni cooperative, come pure i loro immobili sociali, sono proprietà sociale, socialista, dei colcos e delle organizzazioni cooperative. In conformità con lo statuto dell'artel agricolo, ogni famiglia appartenente a un colcos, oltre al provento fondamentale dell'economia collettiva del colcos, ha in godimento personale un piccolo appezzamento di terreno attinente alla casa, e ha in proprietà personale l'impresa ausiliaria impiantata su tale appezzamento, la casa d'abitazione, bestiame produttivo, animali da cortile e l'attrezzamento agricolo minuto. ARTICOLO 8 La terra occupata dai colcos viene loro attribuita in godimento gratuito e per una durata illimitata, cioè in perpetuo. ARTICOLO 9 Accanto al sistema socialista dell'economia, che è la forma economica dominante nell'U.R.S.S., è ammessa dalla legge la piccola azienda privata dei contadini non associati e degli artigiani, fondata sul lavoro personale, escludente lo sfruttamento del lavoro altrui. ARTICOLO 10 Il diritto di proprietà personale dei cittadini sui proventi del loro lavoro e sui loro risparmi, sulla casa di abitazione e sull'impresa domestica ausiliaria, sugli oggetti dell'economia domestica e di uso quotidiano, sugli oggetti di consumo e di comodo personale, come pure il diritto di eredità della proprietà personale dei cittadini sono tutelati dalla legge. ARTICOLO 11 La vita economica dell'U.R.S.S. viene de terminata e diretta da un piano statale dell'economia nazionale, allo scopo di aumentare la ricchezza sociale, di elevare costantemente il livello di vita materiale e culturale dei lavoratori, di consolidare l'indipendenza dell'U.R.S.S. e di rafforzare la sua capacità di difesa. ARTICOLO 12 II lavoro è nell'U.R.S.S. dovere e oggetto d'onore per ogni cittadino atto al lavoro, secondo il principio: .«Chi non lavora, non mangia». Nell'U.R.S.S. si attua il principio del socialismo: «Da ciascuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo il suo lavoro. Capitolo II - STRUTTURA DELLO STATO ARTICOLO 13 L'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è uno Stato federale costituito sulla base dell'unione volontaria, a parità di diritti, delle seguenti Repubbliche Socialiste Sovietiche: Repubblica Socialista Federativa Sovietica della Russia, Repubblica Socialista Sovietica dell'Ucraina, Repubblica Socialista Sovietica della Bielorussia, Repubblica Socialista Sovietica dell'Usbekistan, Repubblica Socialista Sovietica del Kasakhstan, Repubblica Socialista Sovietica della Georgia, Repubblica Socialista Sovietica dell'Aserbaigian, Repubblica Socialista Sovietica della Lituania, Repubblica Socialista Sovietica della Moldavia, Repubblica Socialista Sovietica della Lettonia, Repubblica Socialista Sovietica della Kirghisia, Repubblica Socialista Sovietica del Tagikistan, Repubblica Socialista Sovietica dell'Armenia, Repubblica Socialista Sovietica del Turkmenistan, Repubblica Socialista Sovietica dell'Estonia, Repubblica Socialista Sovietica Carelo-Finnica. ARTICOLO 14 Sono di competenza dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, rappresentata dai suoi organi supremi del potere statale e dagli organi di governo dello Stato: a) la rappresentanza dell'Unione nelle relazioni internazionali, la conclusione, la ratifica e la denunzia dei trattati dell'U.R.S.S. con altri Stati, la fissazione di regole generali per le relazioni delle Repubbliche federate con Stati esteri; b) le questioni della guerra e della pace; c) l'ammissione nell'U.R.S.S. di nuove repubbliche; d) il controllo dell'osservanza della Costituzione dell'U.R.S.S. e della conformità delle Costituzioni delle Repubbliche federate con la Costituzione dell'U.R.S.S.; e) la ratifica delle modificazioni di confine tra le Repubbliche federate; f) la ratifica della formazione di nuovi territori e regioni, come pure di nuove Repubbliche autonome e regioni autonome nel seno delle Repubbliche federate; g) l'organizzazione della difesa dell'U.R.S.S., la direzione di tutte le Forze Armate dell'U.R.S.S., la fissazione dei principi dirigenti d'organizzazione delle formazioni militari delle Repubbliche federate; h) il commercio estero sulla base del monopolio di Stato; i) la salvaguardia della sicurezza dello Stato; k) la determinazione dei piani dell'economia nazionale dell'U.R.S.S.; l) l'approvazione del bilancio statale unico dell'U.R.S.S. e del resoconto sulla sua realizzazione, l'istituzione delle imposte e delle entrate che concorrono alla formazione dei bilanci dell'Unione, delle repubbliche e locali; m) la gestione delle banche, delle istituzioni e delle aziende industriali e agricole, come pure delle aziende commerciali che interessano tutta l'Unione; n) la gestione dei trasporti e delle comunicazioni; o) la direzione del sistema monetario e creditizio; p) l'organizzazione dell'assicurazione di Stato; q) l'emissione e la concessione di prestiti; r) la determinazione dei principi fondamentali del godimento della terra, come pure del godimento del sottosuolo, dei boschi e delle acque; s) la determinazione dei principi fondamentali dell'istruzione e della sanità pubblica; t) l'organizzazione di un sistema unico di statistica dell'economia nazionale; u) la determinazione dei principi della legislazione del lavoro; v) la legislazione relativa all'ordinamento giudiziario e alla procedura della giustizia; i codici penale e civile; x) la legislazione sulla cittadinanza dell'Unione; la legislazione sui diritti degli stranieri; y) l'istituzione dei principi della legislazione sul matrimonio e la famiglia; z) la promulgazione degli atti di amnistia per tutta l'Unione. ARTICOLO 15 La sovranità delle Repubbliche federate non ha altri limiti salvo quelli indicati dall'articolo 14 della Costituzione dell'U.R.S.S. Oltre questi limiti, ogni Repubblica federata esercita il potere statale in modo indipendente. L'U.R.S.S. tutela i diritti sovrani delle Repubbliche federate. ARTICOLO 16 Ogni Repubblica federata ha la propria Costituzione, che tiene conto delle particolarità della Repubblica e che si trova in piena conformità con la Costituzione dell'U.R.S.S. ARTICOLO 17 Ogni Repubblica federata conserva il diritto di uscire liberamente dall'U.R.S.S. ARTICOLO 18 II territorio delle Repubbliche federate non può essere modificato senza il loro consenso. ARTICOLO 18.a Ogni Repubblica federata ha il diritto di stabilire relazioni dirette con Stati esteri, di concludere con essi degli accordi e di scambiarsi rappresentanti diplomatici e consolari. ARTICOLO 18.b Ogni Repubblica federata ha le proprie formazioni militari repubblicane. ARTICOLO 19 Le leggi dell'U.R.S.S. hanno eguale vigore nei territori di tutte le Repubbliche federate. ARTICOLO 20 In caso di divergenza tra la legge di una Repubblica federata e la legge federale, ha vigore la legge federale. ARTICOLO 21 Per i cittadini dell'U.R.S.S. è istituita una cittadinanza unica per tutta l'Unione. Ogni cittadino di una Repubblica federata è cittadino dell'U.R.S.S. ARTICOLO 22 La Repubblica Socialista Federativa Sovietica della Russia è costituita dai territori seguenti: Altai, Krasnodar, Krasnoiarsk, Primorie, Stavropol, Khabarovsk; dalle seguenti regioni: Arcangelo, Astrakhan, Briansk, Vielikie Luki, Vladimir, Vologda, Voronez, Gorki, Grozni, lvanovo, lrkutsk, Kaliningrado, Kalinin, Kaluga, Kemerovo, Kirov, Kostroma, Crimea, Kuibiscev, Kurgan, Kursk, Leningrado, Molotov, Mosca, Murmansk, Novgorod, Novossibirsk, Omsk, Oriol, Pensa, Pskov, Rostov, Riasan, Saratov, Sakhalin, Sverdlovsk, Smolensk, Stalingrado, Tambov, Tomsk, Tula, Tiumen, Ulianovsk, Celiabinsk, Cita, Ckalov, Iaroslavl; dalle seguenti Repubbliche Socialiste Sovietiche Autonome: Tartaria, Basckiria, Daghestan, Buriato-Mongolia, Kabardina, dei Komi, dei Marii, Mordovia, Ossetia settentrionale, degli Udmurti, dei Ciuvasci, Iakutia; dalle seguenti regioni autonome: degli Adighei, degli Ebrei, degli Oiroti, Tuva, dei Khacassi, dei Circassi. ARTICOLO 23 La Repubblica Socialista Sovietica dell'Ucraina è costituita dalle regioni seguenti Vinniza, Volinia, Voroscilovgrado, Dniepropetrovsk, Drogobic, Gitomir, Transcarpatica, Zaporoge, Ismail, Kamenez-Podolsk, Kiev, Kirovogrado, Lvov, Nikolaev, Odessa, Poltava, Rovno, Stalino, Stanislav, Sumi, Ternopol, Kharkov, Kherson, Cernigov e Cernovzi. ARTICOLO 24 Della Repubblica Socialista Sovietica del- l'Aserbaigian fanno parte la Repubblica Socialista Sovietica Autonoma del Nakhicevan e la regione autonoma del Nagorni Karabakh. ARTICOLO 25 Della Repubblica Socialista Sovietica della Georgia fanno parte la Repubblica Socialista Sovietica Autonoma dell'Abkhasia, la Repubblica Socialista Sovietica Autonoma dell'Aggiaria e la regione autonoma dell'Ossetia Meridionale. ARTICOLO 26 La Repubblica Socialista Sovietica dell'Usbekistan è costituita dalle regioni seguenti: Andigian, Bukhara, Kascka-Daria, Namangan, Samarcanda, SurkhanDaria, Taskent, Fergana, Khorezm, e dalla Repubblica Socialista Sovietica Autonoma dei Kara-Kalpacchi. ARTICOLO 27 La Repubblica Socialista Sovietica del Tagikistan è costituita dalle regioni seguenti: Garm, Kuliab, Leninabad, Stalinabad, e dal- la regione autonoma Gorni Badakhscian. ARTICOLO 28 La Repubblica Socialista Sovietica del Kasakhstan è costituita dalle regioni seguenti: Akmolinsk, Aktiubinsk, Alma-Ata, Kasakhstan Orientale, Guriev, Giambul, Kasakhstan Occidentale, Karaganda, Kzyl-Orda, Kokcetav, Kustanai, Pavlodar, Kasakhstan SettentrionaIe, Semipalatinsk, Taldi-Kurgan, Kasakhstan Meridionale. ARTICOLO 29 La Repubblica Socialista Sovietica della Bielorussia è costituita dalle regioni seguenti: Baranovici, Bobruisk, Brest, Vitiebsk, Gomel, Grodno, Minsk, Moghilev, Molodecno, Pinsk, Polessie, Polozk. ARTICOLO 29-a La Repubblica Socialista Sovietica del Turkmenistan è costituita dalle regioni seguenti: Askabad, Maryi, Tasciaus, Ciargiou. ARTICOLO 29-b La Repubblica Socialista Sovietica della Kirghisia è costituita dalle regioni seguenti: Gialal-Abad, Issyk-Kul, Osc, Talas, Tian- Scian, Frunze. Capitolo III - ORGANI SUPREMI DEL POTERE DI STATO DELL'UNIONE DELLE REPUBBLICHE SOCIALISTE SOVIETICHE ARTICOLO 30 Organo supremo del potere di Stato dell'U.R.S.S. è il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. ARTICOLO 31 Il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. esercita tutti i diritti spettanti all'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, in conformità con l'articolo 14 della Costituzione, nella misura in cui essi, in forza della Costituzione, non sono di competenza degli organi dell'U.R.S.S. che devono rispondere al Soviet Supremo dell'U.R.S.S.: il Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S., il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. e i Ministeri dell'U.R.S.S. ARTICOLO 32 Il potere legislativo dell'U.R.S.S. è esercitato esclusivamente dal Soviet Supremo . dell'U.R.S.S. ARTICOLO 33 Il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. si compone di due Camere: il Soviet dell'Unione e il Soviet delleNazionalità. ARTICOLO 34 Il Soviet dell'Unione è eletto dai cittadini dell'U.R.S.S. per circoscrizioni elettorali in ragione di un deputato per ogni 300.000 abitanti. ARTICOLO 35 Il Soviet delle Nazionalità è eletto dai cittadini dell'U.R.S.S. nelle Repubbliche fede rate e autonome, nelle regioni autonome e nelle circoscrizioni nazionali in ragione di 25 deputati per ogni Repubblica federata, di 11 deputati per ogni Repubblica autonoma, di 5 deputati per ogni regione autonoma, e di un deputato per ogni circoscrizione nazionale. ARTICOLO 36 Il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. viene eletto per la durata di quattro anni. ARTICOLO 37 Le due Camere del Soviet Supremo dell'U.R.S.S.: il Soviet dell'Unione e il Soviet delle Nazionalità, hanno eguali diritti. ARTICOLO 38 L'iniziativa legislativa appartiene in eguale misura al Soviet dell'Unione e al Soviet delle Nazionalità. ARTICOLO 39 Una legge è considerata valida se è approvata dalle due Camere del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. a semplice maggioranza di voti di ciascuna delle Camere. ARTICOLO 40 Le leggi approvate dal Soviet Supremo dell'U.R.S.S. vengono promulgate nelle lingue delle Repubbliche federate con la firma del Presidente e del Segretario del Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. ARTICOLO 41 Le sessioni del Soviet dell'Unione e del Soviet delle Nazionalità cominciano e finiscono nello stesso tempo. ARTICOLO 42 Il Soviet dell'Unione elegge il Presidente del Soviet dell'Unione e due Vicepresidenti. ARTICOLO 43 Il Soviet delle Nazionalità elegge il Presidente del Soviet delle Nazionalità e due Vice-presidenti. ARTICOLO 44 I Presidenti del Soviet dell'Unione e del Soviet delle Nazionalità dirigono le sedute delle Camere rispettive e provvedono al loro regolamento interno. ARTICOLO 45 Le sedute comuni delle due Camere del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. sono dirette a turno dal Presidente del Soviet dell'Unione e dal Presidente del Soviet delle Nazionalità. ARTICOLO 46 Le sessioni del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. sono convocate dal Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. due volte all'anno. Le sessioni straordinarie sono convocate dal Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. quando esso lo ritiene opportuno o a richiesta di una delle Repubbliche federale. ARTICOLO 47 In caso di disaccordo tra il Soviet dell'Unione e il Soviet delle Nazionalità la questione viene sottoposta a una commissione di conciliazione formata dalle Camere su basi paritetiche. Se la commissione di conciliazione non arriva a una decisione concorde o se la sua decisione non soddisfa una delle due Camere, la questione viene esaminata dalle Camere una seconda volta. A difetto di una decisione concorde di ambedue le Camere, il Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. discioglie il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. e indice nuove elezioni. ARTICOLO 48 Il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. elegge in una seduta comune delle due Camere il Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S., costituito: dal Presidente del Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S., da sedici Vicepresidenti, dal Segretario del Presidium e da 15 membri del Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. Il Presidium del Soviet Supremo del- l'U.R.S.S. risponde davanti al Soviet Supremo dell'U.R.S.S. di tutta la sua attività. ARTICOLO 49 Il Presidium del Soviet Supremo del- l'U.R.S.S.: a) convoca le sessioni del Soviet Supremo dell'U.R.S.S.; b) emana dei decreti; c) dà l'interpretazione delle leggi in vigore nell'U.R.S.S.; d) discioglie il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. in virtù dell'articolo 47 della Costituzione dell'U.R.S.S. e indice nuove elezioni; e) indice le consultazioni popolari generali (referendum) di propria iniziativa o a richiesta di una delle Repubbliche federate; f) abroga i decreti e le ordinanze del Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. e dei Consigli dei Ministri delle Repubbliche federate nel caso che non siano conformi alla legge; g) nell'intervallo tra le sessioni del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. esonera dalle loro funzioni e nomina i singoli ministri dell'U.R.S.S., sottoponendo in seguito le sue decisioni alla ratifica del Soviet Supremo dell'U.R.S.S.; h) istituisce le insegne degli ordini e le medaglie dell'U.R.S.S. e stabilisce i titoli onorifici dell'U.R.S.S.; i) conferisce le insegne degli ordini e le medaglie dell'U.R.S.S. e attribuisce i titoli onorifici dell'U.R.S.S.; k) esercita il diritto di grazia; l) istituisce i gradi militari, i ranghi diplomatici e altri titoli speciali; m) nomina e revoca il comando supremo delle Forze Armate dell'U.R.S.S.; n) nell'intervallo tra le sessioni del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. proclama lo stato di guerra in caso di aggressione militare contro l'U.R.S.S. o nel caso in cui ciò sia necessario per adempiere gli impegni internazionali risultanti dai patti di reciproca difesa da un'aggressione; o) ordina la mobilitazione generale o parziale; p) ratifica e denunzia i trattati internazionali dell'U.R.S.S.; q) nomina e richiama i rappresentanti plenipotenziari dell'U.R.S.S. presso gli Stati esteri; r) riceve le credenziali e le lettere di richiamo dei rappresentanti diplomatici degli Stati esteri accreditati presso di lui; s) proclama lo stato di guerra in singole località o in tutta l'U.R.S.S. nell'interesse della difesa dell'U.R.S.S. o per assicurare l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato. ARTICOLO 50 Il Soviet dell'Unione e il Soviet delle Nazionalità eleggono le Commissioni dei mano dati che verificano i poteri dei deputati di ognuna delle Camere. Su proposta delle Commissioni dei mandati le Camere decidono o di riconoscere i poteri o di annullare le elezioni di singoli deputati. ARTICOLO 51 Il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. nomina, quando lo ritiene necessario, delle commissioni d'inchiesta e di revisione per qualsiasi questione. Tutte le istituzioni e persone aventi pubbliche funzioni sono tenute ad accedere alle richieste di queste commissioni e a presentare loro i materiali e documenti necessari. ARTICOLO 52 Nessun deputato al Soviet Supremo dell'U.R.S.S. può essere tradotto in giudizio né arrestato senza il consenso del Soviet Supremo dell'U.R.S.S., e negli intervalli tra le sessioni del Soviet Supremo dell'U.R.S.S., senza il consenso del Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. ARTICOLO 53 Alla scadenza dei poteri o dopo lo scioglimento anticipato del Soviet Supremo dell'U.R.S.S., il Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. conserva i suoi poteri sino alla costituzione di un nuovo Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. da parte del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. nuovamente eletto. ARTICOLO 54 Alla scadenza dei poteri o in caso di scioglimento anticipato del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. il Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. indice nuove elezioni entro il termine di non più di due mesi dal giorno della scadenza dei poteri o dello scioglimento del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. ARTICOLO 55 IlSoviet Supremo dell'U.R.S.S. nuovamente eletto è convocato dal Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. di precedente elezione non più tardi di tre mesi dopo le elezioni. ARTICOLO 56 Il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. procede, in una seduta comune delle due Camere, alla costituzione del governo dell'U.R.S.S. -il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. Capitolo IV - ORGANI SUPREMI DEL POTERE DI STATO DELLE REPUBBLICHE FEDERATE ARTICOLO 57 Organo supremo del potere di Stato della Repubblica federata è il Soviet Supremo della Repubblica federata. ARTICOLO 58 Il Soviet Supremo della Repubblica federata è eletto dai cittadini della Repubblica per la durata di quattro anni. La quota di rappresentanza è fissata dalle Costituzioni delle Repubbliche federate. ARTICOLO 59 Il Soviet Supremo della Repubblica federata è l'unico organo legislativo della Repubblica. ARTICOLO 60 Il Soviet Supremo della Repubblica federata: a) approva la Costituzione della Repubblica e vi apporta delle modificazioni in conformità con l'articolo 16 della Costituzione dell'U.R.S.S.; b) ratifica le Costituzioni delle Repubbliche autonome che ne fanno parte e determina i confini del loro territorio; c) ratifica il piano dell'economia nazionale e il bilancio della Repubblica; d) esercita il diritto di amnistia e di grazia verso i cittadini condannati dagli organi giudiziari della Repubblica federata; e) stabilisce la rappresentanza della Repubblica federata nelle relazioni internazionali; f) stabilisce il sistema di creazione delle formazioni militari repubblicane. ARTICOLO 61 Il Soviet Supremo della Repubblica federata elegge il Presidium del Soviet Supremo della Repubblica federata, composto: dal Presidente del Presidium del Soviet Supremo della Repubblica federata, dai Vice-presidenti, dal Segretario del Presidium e dai membri del Presidium del Soviet Supremo della Repubblica federata. I poteri del Presidium del Soviet Supremo della Repubblica federata sono determinati dalla Costituzione della Repubblica federata. ARTICOLO 62 Per dirigere le sedute, il Soviet Supremo della Repubblica federata elegge il Presidente del Soviet Supremo della Repubblica federata e i Vice-presidenti. ARTICOLO 63 Il Soviet Supremo della Repubblica federata forma il governo della Repubblica federata - il Consiglio dei Ministri della Repubblica federata. Capitolo V ORGANI DI GOVERNO DELLO STATO DELL'UNIONE DELLE REPUBBLICHE SOCIALISTE SOVIETICHE ARTICOLO 64 Organo supremo esecutivo e amministrativo del potere di Stato dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. ARTICOLO 65 Il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. è responsabile davanti al Soviet Supremo dell'U.R.S.S., cui risponde della sua attività, e, nell'intervallo tra due sessioni del Soviet Supremo, davanti al Presidium del Soviet Supremo dell' U.R.S.S., a cui risponde. ARTICOLO 66 Il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. emette decisioni e ordinanze sulla base e in esecuzione delle leggi vigenti, e ne controlla l'esecuzione. ARTICOLO 67 Le decisioni e ordinanze del Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. devono essere obbligatoriamente eseguite su tutto il territorio dell'U.R.S.S. ARTICOLO 68 Il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S.: a) unifica e dirige il lavoro dei Ministeri federali e federali-repubblicani dell'U.R.S.S. e delle altre istituzioni che gli sono subordinate; b) prende delle misure per la realizzazione del piano dell'economia nazionale, del bilancio dello Stato e per il consolidamento del sistema monetario e creditizio; c) prende delle misure per assicurare l'ordine pubblico, per difendere gli interessi dello Stato e salvaguardare i diritti dei cittadini; d) ha la direzione generale delle relazioni con gli Stati esteri; e) determina i contingenti annuali dei cittadini chiamati alla leva per il servizio militare attivo, dirige la organizzazione generale delle Forze Armate del paese; f) forma, in caso di necessità, dei comitati speciali e delle Direzioni generali presso il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. per questioni relative all'edificazione economica e culturale e alla difesa. ARTICOLO 69 Il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. ha il diritto, nelle branche dell'amministrazione e dell'economia che sono di competenza dell'U.R.S.S. di sospendere le decisioni e ordinanze dei Consigli dei Ministri delle Repubbliche federate e di annullare gli ordini e le istruzioni dei Ministri dell'U.R.S.S. ARTICOLO 70 Il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. viene formato dal Soviet Supremo dell'U.R.S.S. e ha la composizione seguente: il Presidente del Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S.; i Vice-presidenti del Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S.; il Presidente delle Commissione del piano di Stato dell'U.R.S.S.; i Ministri dell'U.R.S.S.; il Presidente del Comitato per le Belle Arti. ARTICOLO 71 Il Governo dell'U.R.S.S. o un Ministro dell'U.R.S.S., interpellati da un deputato del Soviet Supremo dell'U.R.S.S., sono tenuti a dare risposta orale o scritta alla Camera corrispondente entro il termine di non più di tre giorni. ARTICOLO 72 I Ministri dell'U.R.S.S. dirigono le branche dell'amministrazione statale che sono di competenza dell'U.R.S.S. ARTICOLO 73 I Ministri dell'U.R.S.S. emettono, entro i limiti della competenza dei rispettivi Ministeri, ordini e istruzioni sulla base e in esecuzione delle leggi vigenti nonché delle decisioni e ordinanze del Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S., e ne controllano l'esecuzione. ARTICOLO 74 I Ministeri dell'U.R.S.S. sono federali o federali-repubblicani. ARTICOLO 75 I Ministeri federali dirigono la branca dell'amministrazione statale che è loro affidata su tutto il territorio dell'U.R.S.S. sia direttamente, sia attraverso gli organi da essi nominati. ARTICOLO 76 I Ministeri federali-repubblicani dirigono la branca dell'amministrazione statale che è loro affidata, di regola attraverso i corrispettivi Ministeri delle Repubbliche federate, e ha!.1no sotto la loro direzione immediata sol. tanto un numero limitato di aziende comprese in un elenco approvato dal Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. ARTICOLO 77 I Ministeri federali sono i seguenti: dell'Industria aeronautica; dell'Industria automobilistica; del Commercio estero; dell'Armamento; della Geologia; degli Ammassi; delle Riserve materiali; delle Costruzioni meccaniche e degli strumenti; dell'Industria medica; della Flotta marittima; dell'Industria della nafta delle regioni orientali; dell'Industria della nafta delle regioni meridionali e occidentali; delle Riserve alimentari; dell'Industria dei mezzi per le comunicazioni; delle Ferrovie; dell'Industria della gomma; della Flotta fluviale; delle Poste, Telegrafi e Telefoni; delle Costruzioni meccaniche agricole; delle Costruzioni di macchine utensili; delle Costruzioni meccaniche edili e stradali; delle Costruzioni di aziende militari e marittime militari; della Costruzione di aziende dell'industria pesante; della Costruzione di aziende per combustibile; dell'Industria delle costruzioni navali; delle Costruzioni meccaniche per i trasporti; della Preparazione di mano d'opera; delle Costruzioni meccaniche pesanti; dell'Industria del carbone delle regioni orientali; dell'Industria del carbone delle regioni occidentali; dell'Industria chimica; della Metallurgia non ferrosa; dell'Industria della cellulosa e della carta; della Siderurgia; dell'Industria elettromeccanica; delle Centrali elettriche. ARTICOLO 78 I Ministeri federali repubblicani sono i seguenti: dell'Industria gustativa; degli Affari interni; delle Forze Armate; dell'Istruzione superiore; del Controllo di Stato; della Sicurezza dello Stato; della Sanità pubblica; degli Affari esteri; della Cinematografia; dell'Industria leggera; dell'Industria forestale; dell'Industria della carne e del latte; dell'Industria alimentare; dell'Industria dei materiali da costruzione; dell'Industria della pesca delle regioni orientali; dell'Industria della pesca delle regioni occidentali; dell'Agricoltura; dei Sovcos; dell'Industria tessile; del Commercio; delle Finanze; della Giustizia. Capitolo VI - ORGANI DI GOVERNO DELLO STATO DELLE REPUBBLICHE FEDERATE ARTICOLO 79 Il supremo organo esecutivo e amministrativo del potere di Stato di una Repubblica federata è il Consiglio dei Ministri della Repubblica federata. ARTICOLO 80 Il Consiglio dei Ministri della Repubblica federata è responsabile davanti al Soviet Supremo della Repubblica federata, cui risponde della sua attività e, nell'intervallo tra due sessioni del Soviet Supremo della Repubblica federata, davanti al Presidium del Soviet Supremo della Repubblica federata, a cui risponde. ARTICOLO 81 I1 Consiglio dei Ministri della Repubblica federata emette decisioni e ordinanze sulla base e in esecuzione delle leggi vigenti nell'U.R.S.S. e nella Repubblica federata, delle decisioni e ordinanze del Consiglio dei Ministri del- l'U.R.S.S. e ne controlla l'esecuzione. ARTICOLO 82 Il Consiglio dei Ministri della Repubblica federata ha diritto di sospendere le decisioni e ordinanze dei Consigli dei Ministri delle Repubbliche autonome e di annullare le decisioni e ordinanze dei Comitati Esecutivi dei Soviet dei deputati dei lavoratori dei territori, delle regioni e delle regioni autonome. ARTICOLO 83 Il Consiglio dei Ministri della Repubblica federata viene formato dal Soviet Supremo della Repubblica federata e ha la composizione seguente: il Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica federata; i Vice-presidenti del Consiglio dei Ministri; il Presidente della Commissione del piano di Stato; i Ministri; il capo della Direzione delle Belle Arti; il Presidente del Comitato per le istituzioni culturali ed educative. ARTICOLO 84 I Ministri della Repubblica federata dirigono le branche dell'amministrazione statale che sono di competenza della Repubblica federata. ARTICOLO 85 I Ministri della Repubblica federata emettono, entro i limiti della competenza dei rispettivi Ministeri, ordini e istruzioni sulla base e in esecuzione delle leggi dell'U.R.S.S. e della Repubblica federata, delle decisioni e ordinanze del Consiglio dei Ministri del- l'U.R.S.S. e della Repubblica federata, degli ordini e delle istruzioni dei Ministeri federali-repubblicani dell'U.R.S.S. ARTICOLO 86 I Ministeri della Repubblica federata sono federali-repubblicani o repubblicani. ARTICOLO 87 I Ministeri federali-repubblicani dirigono la branca dell'amministrazione statale che è loro affidata, subordinandosi tanto al Consiglio dei Ministri della Repubblica federata quanto al corrispondente Ministero federale-repubblicano dell'U.R.S.S. ARTICOLO 88 I Ministeri repubblicani dirigono la branca dell'amministrazione statale che è a loro affidata, subordinandosi direttamente al Consiglio dei Ministri della Repubblica federata. Capitolo VII - ORGANI SUPREMI DEL POTERE DI STATO DELLE REPUBBLICHE SOCIALISTE SOVIETICHE AUTONOME ARTICOLO 89 Organo supremo del potere di Stato della Repubblica autonoma è il Soviet Supremo della Repubblica Socialista Sovietica Autonoma. ARTICOLO 90 Il Soviet Supremo della Repubblica auto. noma è eletto dai cittadini della Repubblica per la durata di quattro anni, secondo la quota di rappresentanza fissata dalla Costituzione della Repubblica autonoma. ARTICOLO 91 Il Soviet Supremo della Repubblica autonoma è l'unico organo legislativo della Repubblica Socialista Sovietica Autonoma. ARTICOLO 92 Ogni Repubblica autonoma ha la propria Costituzione, che tiene conto delle particolarità della Repubblica autonoma e che si trova in piena conformità con la Costituzione della Repubblica federata. ARTICOLO 93 Il Soviet Supremo della Repubblica autonoma elegge il Presidium del Soviet Supremo della Repubblica autonoma e procede alla formazione del Consiglio dei Ministri della Repubblica autonoma in conformità con la sua Costituzione. Capitolo VIII ORGANI LOCALI DEL POTERE DI STATO ARTICOLO 94 Organi del potere di Stato nei territori, nelle regioni, nelle regioni autonome, nei circondari, nei rnandamenti, nelle città, nei villaggi (stanitsa, borgata, khutor, kislak, aul) sono i Soviet dei deputati dei lavoratori. ARTICOLO 95 I Soviet dei deputati dei lavoratori di territorio, di regione, di regione autonoma, di circondario, di mandamento, di città e di villaggio (stanitsa, borgata, khutor, kislak, aul) sono eletti rispettivamente dai lavoratori del territorio, della regione, della regione autonoma, del circondario, del mandamento, della città e del villaggio, per la durata di due anni. ARTICOLO 96 Le quote di rappresentanza nei Soviet dei deputati dei lavoratori sono fissate dalla Costituzione delle Repubbliche federate. ARTICOLO 97 I Soviet dei deputati dei lavoratori dirigono l'attività degli organi amministrativi che sono loro subordinati, assicurano la difesa dell'ordine statale, l'osservanza delle leggi e la tutela dei diritti dei cittadini, dirigono l'edificazione economica e culturale locale, stabiliscono il bilancio locale. ARTICOLO 98 I Soviet dei deputati dei lavoratori prendono delle decisioni e danno delle disposizioni entro i limiti dei diritti loro attribuiti dalle leggi dell'U.R.S.S. e della Repubblica federata. ARTICOLO 99 Organi esecutivi e amministrativi dei Soviet dei deputati dei lavoratori di territorio, di regione, di regione autonoma, di circondario, di mandamento, di città, e di villaggio sono i Comitati Esecutivi eletti dai Soviet e composti del Presidente,. dei Vice-presidenti, di un segretario e dei membri. ARTICOLO 100 Organi esecutivi e amministrativi dei Soviet dei deputati dei lavoratori nei piccoli centri sono, in conformità con le Costituzioni delle Repubbliche federate, il Presidente, il Vice-presidente e il segretario eletti dai Soviet dei deputati dei lavoratori. ARTICOLO 101 Gli organi esecutivi dei Soviet dei deputati dei lavoratori rispondono direttamente tanto al Soviet dei deputati dei lavoratori che li ha eletti, quanto all'organo esecutivo del soprastante Soviet dei deputati dei lavoratori. Capitolo IX - TRIBUNALI E PROCURA ARTICOLO 102 La giustizia è amministrata nell'U.R.S.S. dalla Corte Suprema dell'U.R.S.S., dalle Corti Supreme delle Repubbliche federate, dai tribunali di territorio e di regione, dai tribunali delle Repubbliche autonome e delle regioni autonome, dai tribunali di circondario, dai tribunali speciali dell'U.R.S.S. istituiti per decisione del Soviet Supremo dell'U.R.S.S., dai tribunali popolari. ARTICOLO 103 L'esame delle cause in tutte le Corti e in tutti i tribunali si svolge con la partecipazione dei giurati popolari, salvo i casi specialmente previsti dalla legge. ARTICOLO 104 La Corte Suprema dell'U.R.S.S. è il supremo organo giudiziario. Alla Corte Suprema dell'U.R.S.S. è affidata la sorveglianza sull'attività giudiziaria di tutti gli organi giudiziari dell'U.R.S.S. e delle Repubbliche federate. ARTICOLO 105 La Corte Suprema dell'U.R.S.S. e i tribunali speciali dell'U.R.S.S. sono eletti dal Soviet Supremo dell'U.R.S.S. per la durata di cinque anni. ARTICOLO 106 Le Corti Supreme delle Repubbliche federali sono elette dai Soviet Supremi delle Repubbliche federate per la durata di cinque anni. ARTICOLO 107 Le Corti Supreme delle Repubbliche autonome sono elette dai Soviet Supremi delle i Repubbliche autonome per la durata di cinque anni. ARTICOLO 108 I tribunali di territorio e di regione, i tribunali delle regioni autonome, i tribunali di circondario sono eletti dai Soviet dei deputati dei lavoratori del territorio, della regione, o del circondario o dai Soviet dei deputati dei lavoratori delle regioni autonome per la durata di cinque anni. ARTICOLO 109 I tribunali popolari sono eletti dai cittadini del mandamento a suffragio universale, diretto, eguale, a scrutinio segreto, per la durata di tre anni. ARTICOLO 110 La procedura giudizi aria si svolge nella lingua della Repubblica federata o autonoma, o della regione autonoma - ed è assicurata alle persone che non conoscono questa lingua la possibilità di prendere conoscenza completa dei documenti della causa per mezzo di un interprete, e così pure il diritto di parlare all'udienza nella lingua materna. ARTICOLO 111 L'esame delle cause in tutti i tribunali dell'U.R.S.S. è pubblico, salvo le eccezioni previste dalla legge; all'imputato è assicurato il diritto di difesa. ARTICOLO 112 I giudici sono indipendenti e soggetti soltanto alla legge. ARTICOLO 113 L'alta sorveglianza sulla esatta esecuzione delle leggi da parte di tutti i Ministeri e delle istituzioni loro sottoposte, come da parte dei singoli funzionari pubblici nonché da parte dei cittadini dell'U.R.S.S. è affidata al Procuratore generale dell'U.R.S.S. ARTICOLO 114 Il Procuratore generale dell'U.R.S.S. è nominato dal Soviet Supremo dell'U.R.S.S. per la durata di sette anni. ARTICOLO 115 I procuratori delle Repubbliche, dei territori, delle regioni, come pure i procuratori delle Repubbliche autonome e delle regioni autonome sono nominati dal Procuratore generale dell'U.R.S.S. per la durata di cinque anni. ARTICOLO 116 I procuratori di circondario, di mandamento e di città sono nominati dai procuratori delle Repubbliche federate e confermati dal Procuratore generale dell'U.R.S.S. per la durata di cinque anni. ARTICOLO 117 Gli organi della procura esercitano le loro funzioni indipendentemente da qualsiasi organo locale e sono subordinati soltanto al Procuratore generale dell'U.R.S.S. Capitolo X - DIRITTI E DOVERI FONDAMENTALI DEI CITTADINI ARTICOLO 118 I cittadini dell'U.R.S.S. hanno diritto al lavoro, cioè hanno diritto a ottenere un lavoro garantito, con remunerazione del loro lavoro secondo la quantità e la qualità. Il diritto al lavoro è assicurato dall'organizzazione socialista dell'economia nazionale, dello sviluppo ininterrotto delle forze produttive della società sovietica, dall'eliminazione della possibilità di crisi economiche e dalla liquidazione della disoccupazione. ARTICOLO 119 I cittadini dell'U.R.S.S. hanno il diritto al riposo. Il diritto al riposo è assicurato dall'istituzione per gli operai e gli impiegati della giornata lavorativa di otto ore e dalla riduzione della giornata lavorativa a sette e sei ore per una serie di professioni con condizioni di lavoro difficili e fino a quattro ore nei reparti con condizioni di lavoro particolarmente difficili, dalla istituzione di congedi annuali agli operai e agli impiegati con il mantenimento del salario, dalla vasta rete di sanatori, case di riposo e club che è messa a disposizione dei lavoratori. ARTICOLO 120 I cittadini dell'U.R.S.S. hanno diritto di avere assicurati i mezzi materiali di esistenza per la vecchiaia nonché in caso di malattia e di perdita della capacità lavorativa. Questo diritto è assicurato dall'ampio sviluppo delle Assicurazioni Sociali degli operai e degli impiegati a spese dello Stato, dall'assistenza medica gratuita ai lavoratori e dalla vasta rete di stazioni di cura che è messa a disposizione dei lavoratori. ARTICOLO 121 I cittadini dell'U.R.S.S. hanno diritto all'istruzione. Questo diritto è assicurato dall'istruzione elementare generale obbligatoria, dall'istruzione gratuita settennale, dal sistema delle borse di studio per i più meritevoli studenti delle scuole superiori, dall'insegnamento scolastico nella lingua materna, dall'organizzazione dell'insegnamento professionale, tecnico ed agronomico gratuito per i lavoratori nelle officine, nei sovcos, nelle stazioni di macchine e trattrici e nei colcos. ARTICOLO 122 Alle donne sono accordati nell'U.R.S.S. diritti uguali a quelli degli uomini, in tutti i campi della vita economica, statale, culturale, politica e sociale. La possibilità di esercitare questi diritti è assicurata alle donne accordando loro lo stesso diritto degli uomini al lavoro, al pagamento del lavoro, al riposo, all'assicurazione sociale e all'istruzione, provvedendo alla tutela, da parte dello Stato, degli interessi della madre e del bambino, all'aiuto da parte dello Stato alle madri con numerosa prole o alle madri non maritate accordando alle donne un congedo di maternità con mantenimento del salario e grazie a una vasta rete di case di maternità, di nidi e giardini d'infanzia. ARTICOLO 123 L'uguaglianza dei diritti dei cittadini dell'U.R.S.S., indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti i campi della vita economica, statale, culturale, politica e sociale, è legge irrevocabile. Qualsiasi limitazione diretta o indiretta dei diritti o, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi diretti o indiretti ai cittadini in dipendenza della razza o nazionalità alla quale appartengono, così come qualsiasi propaganda di esclusivismo o di odio e disprezzo di razza o di nazione, è punita dalla legge. ARTICOLO 124 Allo scopo di assicurare ai cittadini la libertà di coscienza, la Chiesa nell'U.R.S.S. è separata dallo Stato e la scuola dalla Chiesa. La libertà di praticare i culti religiosi e la libertà di propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini. ARTICOLO 125 In conformità con gli interessi dei lavoratori e allo scopo di consolidare il regime socialista, ai cittadini dell'U.R.S.S. è garantita per legge: a) libertà di parola, b) libertà di stampa, c) libertà di riunione e di comizi, d) libertà di cortei e dimostrazioni di strada. Questi diritti dei cittadini vengono assicurati mettendo a disposizione dei lavoratori e delle loro organizzazioni le tipografie, i depositi di carta, gli edifici pubblici, le strade, le poste, i telegrafi, i telefoni e le altre condizioni materiali necessarie per il loro esercizio. ARTICOLO 126 In conformità con gli interessi dei lavoratori e allo scopo di sviluppare l'iniziativa delle masse popolari nel campo dell'organizzazione e la loro attività politica, è assicurato ai cittadini dell'U.R.S.S. il diritto di unirsi in organizzazioni sociali: sindacati, cooperative, organizzazioni della gioventù, organizzazioni sportive e di difesa, società culturali, tecniche e scientifiche, - mentre i cittadini più attivi e più coscienti appartenenti alla classe operaia e agli altri strati di lavoratori si uniscono nel Partito Comunista (bolscevico) dell'U.R.S.S., che è l'avanguardia dei lavoratori nella loro lotta per il consolidamento e lo sviluppo del regime socialista e rappresenta il nucleo dirigente di tutte le organizzazioni dei lavoratori, tanto sociali che di Stato. ARTICOLO 127 Ai cittadini dell'U.R.S.S. è assicurata l'inviolabilità della persona. Nessuno può essere arrestato se non per decisione di un tribunale o con la sanzione del procuratore. ARTICOLO 128 L'inviolabilità del domicilio dei cittadini e il segreto epistolare sono tutelati dalla legge. ARTICOLO 129 L'U.R.S.S. accorda il diritto di asilo ai cittadini stranieri perseguitati per aver difeso gli interessi dei lavoratori, o per la loro attività scientifica, o per avere partecipato a lotte di liberazione nazionale. ARTICOLO 130 Ogni cittadino dell'U.R.S.S. è tenuto a osservare la Costituzione dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, a rispettare le leggi, a osservare la disciplina del lavoro, ad adempiere onestamente i doveri sociali, a rispettare le norme della convivenza Socialista. ARTICOLO 131 Ogni cittadino dell'U.R.S.S. è tenuto a salvaguardare e a consolidare la proprietà sociale, socialista, base sacra e inviolabile del regime sovietico, fonte della ricchezza e della potenza della patria, fonte dell'agiatezza e della vita civile di tutti i lavoratori. Coloro che attentano alla proprietà sociale, socialista, sono nemici del popolo. ARTICOLO 132 II servizio militare generale è obbligatorio per legge. Il servizio militare nelle file delle Forze Armate dell'U.R.S.S. è dovere d'onore dei cittadini dell'U.R.S.S. ARTICOLO 133 La difesa della patria è sacro dovere di ogni cittadino dell'U.R.S.S. Il tradimento della patria: la violazione del giuramento, il passaggio al nemico, il pregiudizio portato alla potenza militare dello Stato, lo spionaggio - sono puniti con tutti i rigori della legge come il più grave dei misfatti. Capitolo XI - SISTEMA ELETTORALE ARTICOLO 134 Le elezioni dei deputati a tutti i Soviet ai deputati dei lavoratori: al Soviet Supremo de l'U.R.S.S., ai Soviet Supremi delle Repubbliche federate, ai Soviet dei deputati dei lavoratori di territorio e di regione, ai Soviet Supremi delle Repubbliche autonome, ai Soviet dei deputati dei lavoratori delle regioni autonome, ai Soviet dei deputati dei lavoratori di circondario, di mandamento, di città e di villaggio (stanitsa, borgata, khutor, kislak, aul) si fanno dagli elettori a suffragio universale, uguale, diretto e a scrutinio segreto. ARTICOLO 135 Le elezioni dei deputati si fanno a suffragio universale: tutti i cittadini dell'U.R.S.S. che hanno compiuto i 18 anni, indipendentemente dalla razza e dalla nazionalità a cui appartengono, dal sesso, dalla confessione, dal grado di istruzione, dalla residenza, dall'origine sociale, dalla condizione economica, dalla loro passata attività, hanno diritto di partecipare alle elezioni dei deputati ad eccezione dei minorati e delle persone condannate dal tribunale con privazione dei diritti elettorali. Ogni cittadino dell'U.R.S.S., che abbia compiuto i 23 anni, può essere eletto deputato al Soviet Supremo dell'U.R.S.S., indipendentemente dalla razza e dalla nazionalità a cui appartiene, dal sesso, dalla confessione, dal grado d'istruzione, dalla residenza, dall'origine sociale, dalla condizione economica e dalla sua passata attività. ARTICOLO 136 Le elezioni dei deputati si fanno a suffragio eguale: ogni cittadino dispone di un voto; tutti i cittadini partecipano alle elezioni a eguali condizioni. ARTICOLO 137 Le donne godono del diritto di eleggere e di essere elette a parità degli uomini. ARTICOLO 138 I cittadini che si trovano nelle file delle Forze Armate dell'U.R.S.S. godono del diritto di eleggere e di essere eletti a parità di tutti i cittadini. ARTICOLO 139 Le elezioni dei deputati si fanno a suffragio diretto: le elezioni a tutti i Soviet dei deputati dei lavoratori, a partire dal Soviet dei lavoratori di villaggio e di città sino al Soviet Supremo dell'U.R.S.S., si fanno dai cittadini direttamente, per via di elezione diretta. ARTICOLO 140 L'elezione dei deputati si fa a scrutinio segreto. ARTICOLO 141 I candidati alle elezioni vengono presentati per circoscrizioni elettorali. Il diritto di presentare dei candidati è assicurato alle organizzazioni sociali e alle associazioni dei lavoratori: alle organizzazioni del Partito Comunista, ai sindacati, alle cooperative, alle organizzazioni della gioventù, alle società culturali. ARTICOLO 142 Ogni deputato è tenuto a render conto davanti agli elettori del proprio lavoro e del lavoro del Soviet dei deputati dei lavoratori e può essere richiamato in qualunque momento, per decisione della maggioranza degli elettori, secondo la procedura stabilita dalla legge. Capitolo XII - STEMMA, BANDIERA. CAPITALE ARTICOLO 143 Lo stemma di Stato dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche si compone della falce e del martello sul globo terrestre disegnato nel sole raggiante e circondato da spighe di grano, con la scritta nelle lingue delle Repubbliche federate: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!». La parte superiore dello stemma reca la stella a cinque punte. ARTICOLO 144 La bandiera di Stato dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è un drappo rosso, nell'angolo superiore del quale, presso l'asta, sono disegnati una falce e un martello d'oro sormontati da una stella rossa a cinque punte, orlata d'oro. Il rapporto tra la larghezza e la lunghezza è di uno a due. ARTICOLO 145 La capitale dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è la città di Mosca. Capitolo XIII - PROCEDURA PER LA MODIFICA DELLA COSTITUZIONE ARTICOLO 146 La Costituzione dell'U.R.S.S. può essere modificata soltanto per decisione del Soviet Supremo dell'U.R.S.S., approvata dalla maggioranza di almeno due terzi dei voti in ognuna delle due Camere. Pianificazione di Maurice Dobb 1. Introduzione L'idea generale della pianificazione economica è solitamente attribuita, e associata, ai pionieri del pensiero socialista del XIX secolo. Era abbastanza naturale supporre che qualcosa di simile avrebbe dovuto prendere il posto del meccanismo di mercato, meccanismo che gli economisti classici avevano dimostrato essere il regolatore automatico di una società atomi stica basata sulla produzione e l'iniziativa individuali (la famosa "mano invisibile" di Adam Smith, cioè le leggi economiche che operano attraverso la libera concorrenza, piegando e assoggettando gli interessi individuali a fini sociali). In realtà, i pionieri del pensiero socialista hanno detto ben poco sull'argomento. Saint-Simon si è limitato ad affermare che la società futura sarebbe stata ‟organizzata seguendo un disegno generale preordinato". Landauer (v., 1959) nella sua ricerca sul socialismo europeo ha scritto: ‟La progettazione è l'essenza della pianificazione. Nell'ultimo periodo del XIX secolo e nella prima parte del XX, l'idea della pianificazione fu completamente messa in ombra dall'esigenza di ottenere una più equa distribuzione. Tuttavia, i fondamenti delle moderne concezioni in fatto di pianificazione risalgono agli insegnamenti dei sansimoniani". Con Marx ed Engels i riferimenti alla pianificazione si fanno più espliciti, anche se resta intenzionalmente omessa al riguardo ogni indicazione di dettaglio, desiderando entrambi abbandonare l'approccio di quelli che essi definivano ‟socialisti utopisti", e convinti che fosse ozioso tentare di tracciare qualcosa di più che le linee generali del futuro assetto della società, almeno fino a quando non si fosse giunti a un punto tale da disporre di un quadro concreto di quelli che sarebbero stati i problemi reali (e non più supposti) e le relative istituzioni. Tolte poche affermazioni generali sulla distribuzione pianificata del lavoro produttivo - distribuzione che avrebbe dovuto sostituire l'operare spontaneo delle forze di mercato - Marx ed Engles non hanno fornito alcuna indicazione specifica sul modo in cui tale pianificazione avrebbe dovuto agire e sulle istituzioni nelle quali avrebbe dovuto concretarsi il possibile grado della sua centralizzazione e del suo decentramento. Engels, in Il socialismo dall'utopia alla scienza, parla di ‟produzione socializzata secondo un piano preordinato", e nell'Anti-Dühring della ‟anarchia della produzione sociale" che sarebbe stata sostituita dalla ‟organizzazione cosciente della società sulla base di un piano". Quanto a Marx, nel III Libro del Capitale fa riferimento, piuttosto di sfuggita, ai produttori che ‟regolano la loro produzione secondo un piano preordinato", alla ‟società organizzata come un'associazione consapevole e organica", che fissa ‟una relazione diretta tra le quantità di tempo di lavoro sociale impiegate nella produzione dei singoli prodotti e l'entità del bisogno sociale di ciascuno di essi". E questo è tutto. 2. Il dibattito teorico Quando, agli inizi di questo secolo, alcuni critici del socialismo - economisti come G. Halm, N. G. Pierson e L. von Mises - cominciarono a sviluppare sul piano teorico la critica di questo meccanismo economico, assunsero come verità incontrovertibile che una società a proprietà pubblica dei mezzi di produzione sarebbe stata inevitabilmente caratterizzata da una pianificazione economica altamente centralizzata. Assunsero come assiomatico che una simile pianificazione avrebbe sostituito integralmente il meccanismo del mercato (con la sola eccezione, eventualmente, dei beni venduti al dettaglio a consumatori individuali) e che, se lo Stato era proprietario dell'industria, avrebbe certamente stabilito ciò che l'industria avrebbe dovuto realizzare, emettendo ordini dettagliati, in una forma o in un'altra, ai suoi dipendenti ai vari livelli (come per ogni organo o ufficio statale). L'attacco degli economisti alla pianificazione, e specialmente quello di von Mises, contestò che, in assenza del mercato, un sistema di questo tipo potesse disporre di un qualche criterio di razionalità, e sostenne che, di conseguenza, non vi sarebbe stato modo in esso di distinguere metodi economici di produzione o di allocazione delle risorse da altri che non lo fossero. Nel suo famoso articolo Die Wirtschaftsrechnung in Sozialisticher Gemeinwesen (in ‟Archiv für Sozialwissenschaften", 1920, XLVII), von Mises scrisse: ‟L'importanza del denaro, in una società a controllo statale dei mezzi di produzione, sarà diversa da quella che ad esso si annette in una società in cui i mezzi di produzione sono proprietà privata. In effetti essa sarà incomparabilmente minore [...] in quanto sarà circoscritta ai beni di consumo. Di più: proprio perché nessun bene di produzione potrà mai essere oggetto di scambio, sarà impossibile determinarne il valore monetario. In uno Stato socialista il denaro non potrà mai svolgere il ruolo che svolge in una società concorrenziale nel determinare il valore dei beni di produzione. Qui il calcolo in termini monetari sarà impossibile. [...] E proprio nelle transazioni di mercato che si formano per tutti i generi di beni e di lavoro impiegati, quei prezzi di mercato che debbono essere presi come basi del calcolo. Dove non vi è libero mercato, non può esistere alcun meccanismo per la determinazione dei prezzi; ma, senza un simile meccanismo, non vi è calcolo economico". In precedenza, in un famoso articolo (Il ministro della produzione nello Stato collettivista) apparso nel ‟Giornale degli economisti" del 1908, E. Barone, seguendo il suo maestro Vilfredo Pareto, aveva esaminato le condizioni che un ministero della produzione di uno Stato collettivista avrebbe dovuto rispettare ‟per trarre il massimo vantaggio dalla sua azione", e concludeva che ‟il sistema di equazioni di un equilibrio collettivista è identico a quello di un equilibrio di libera concorrenza". Barone sosteneva ‟l'impossibilità di risolvere queste equazioni a priori" e asseriva, in sintesi, che ‟le dottrine che immaginano che in uno Stato collettivista la produzione sarà organizzata in un modo radicalmente diverso da quello della produzione ‛anarchica', sono delle vere bizzarrie". Nel corso degli anni trenta la sfida fu raccolta da diversi economisti socialisti, in particolare da H. D. Dickinson, in Inghilterra, e dal polacco O. Lange, che in quel periodo risiedeva negli Stati Uniti. La risposta del primo è stata definita ‛soluzione concorrenziale', in quanto si sforzava di dimostrare che la proprietà pubblica del capitale e della terra non era da nessun punto di vista incompatibile con il mantenimento di un mercato per i cosiddetti ‛fattori di produzione' (o ‛beni impiegati nella produzione') e con la concorrenza tra imprese di Stato nelle vendite e negli acquisti. La soluzione di Lange non fa appello a mercati ‛reali', ma si fonda invece (e tuttavia con un meccanismo in qualche modo analogo) su un sistema di ‛prezzi contabili', in base a cui potrebbero essere prese le decisioni produttive. Questi prezzi contabili sono modificati in rapporto alle relazioni di domanda e offerta prevalenti per i beni o i ‛fattori' produttivi in questione. Così, ad esempio, l'autorità centrale, nell'offrire ai Consigli di amministrazione delle industrie o alle imprese i servizi di fondi-prestiti o fondi di investimento, fisserà un costo del prestito, o saggio di interesse, per il loro uso: esso sarà aumentato, se le richieste superano il fondo di investimento complessivo disponibile, e abbassato nel caso opposto. Lange allude a ‟un procedimento per ‛tentativi ed errori' nell'economia socialista". Egli riassume in questi termini la sua risposta a Mises: ‟L'asserzione del prof. Mises che un'economia socialista non può risolvere il problema dell'allocazione razionale delle sue risorse è fondata su una confusione circa la natura dei prezzi [...]. Il termine ‛prezzo' ha due significati. Può significare il prezzo nell'accezione comune del termine, cioè la ragione di scambio di due merci su un mercato, o può avere il significato più generale di ‛rapporti in base ai quali si pongono le scelte alternative' [...]. Per risolvere il problema della distribuzione delle risorse sono indispensabili solo i prezzi in questa accezione più generale [...]. Il prof. Mises, invece, sembra aver confuso i prezzi nell'accezione più ristretta, cioè le ragioni di scambio delle merci su un mercato, con i prezzi nel senso più generale di ‛rapporti in base ai quali vengono offerte scelte alternative". (v. Lange, 1938, pp. 59-61). Coloro che avevano in precedenza sostenuto che il problema era teoricamente insolubile in un'economia socialista, passarono a questo punto a sostenere che una sua soluzione positiva, benché teoricamente possibile e da non escludere a priori, fosse in pratica altamente improbabile. (Lange ha chiamato questa argomentazione la ‟seconda linea di difesa" delle posizioni alla Mises). Si parlò delle migliaia, o meglio dei milioni di equazioni che un organo di pianificazione avrebbe dovuto risolvere. Fu questa la posizione assunta da F. A. von Hayek e da L. Robbins; quest'ultimo disse che mentre ‟sulla carta possiamo immaginare di risolvere il problema con una serie di calcoli matematici [...] in pratica una soluzione del genere è quasi irrealizzabile" (v. Robbins, 1934, p. 151). Si può dire che da allora la forza di questa argomentazione sia stata grandemente indebolita dall'invenzione dei calcolatori elettronici e dallo sviluppo delle tecniche di programmazione lineare per la soluzione dei problemi di ottimizzazione e di allocazione delle risorse. Nonostante ciò, qualcuno potrebbe ancora sostenere che le difficoltà pratiche per un calcolo che dia esito positivo rendono assai improbabile la realizzazione, nel processo decisionale della società pianificata, di un grado di ‛ottimizzazione' non troppo basso o addirittura di un alto grado di coerenza interna nei piani. Questo problema della realizzabilità è, evidentemente, rilevante anche per determinare il grado di dettaglio che dev'essere ed è incluso nelle decisioni centralizzate (problema dipendente esso stesso non solo dall'efficienza de! calcolo, ma anche dalla disponibilità in forma appropriata di informazioni attendibili). Su ciò ritorneremo. In rapporto a ciò va osservato che, sia la ‛soluzione concorrenziale' di Dickinson, che il metodo dei ‛prezzi contabili', proposto da Lange, fornivano una risposta al problema proponendo un meccanismo per la determinazione delle decisioni fortemente decentrato e riducendo al minimo le decisioni da prendere in modo centralizzato ai vertici. Di conseguenza, essi sostenevano che un simile meccanismo non è incompatibile con la proprietà sociale o pubblica dei mezzi di produzione ed è in grado di operare praticamente. In sostanza, essi proponevano la combinazione della proprietà sociale con una qualche forma di meccanismo di mercato, o comunque di quasi-mercato: ma non asserivano, contro Mises, che esistesse una soluzione compatibile con la pianificazione centralizzata ‛di per sé'. Persino nel dibattito degli anni trenta vi fu però chi sostenne quest'ultima tesi. Per esempio, R. Hall (v., 1937) affermava che, poiché ‟la domanda dei fattori di produzione è una domanda derivata [...] non esistono difficoltà sul piano teorico per il calcolo dei costi [...] fintanto che sussista un mercato per i beni di consumo". Ma poiché l'allocazione del capitale nei diversi impieghi deve in pratica comprendere l'allocazione di ogni tipo di bene capitale sui generis (tipò di metallo o di combustibile, tipo di macchina utensile), il problema è notevolmente più intricato di quanto potrebbe apparire a prima vista: e ovviamente diventa cruciale in questo caso il metodo di determinazione dei prezzi e dei costi per ciascuno di questi beni. 3. La ‛pianificazione indicativa' del capitalismo In tempi più recenti il concetto di pianificazione ha cessato di essere associato unicamente alla proprietà sociale dei mezzi di produzione. Dopo la seconda guerra mondiale si cominciò a parlarne, e persino in qualche misura ad applicarla, anche nei paesi capitalisti. In larga misura ciò fu una conseguenza dell'esperienza, fatta in tempo di guerra, dei controlli statali e del ‛dirigismo economico' (e anche del razionamento delle risorse sia tra le imprese che tra i consumatori), e costituì un deliberato tentativo di estendere questi metodi al tempo di pace per far fronte ai problemi del dopoguerra. Il dibattito sulla pianificazione è stato stimolato anche dall'interesse per i problemi dei paesi sottosviluppati, in rapporto con i progetti internazionali di aiuto economico, patrocinati dalle Nazioni Unite, dalla Banca Mondiale, ecc. In Francia fu varato, nel 1947, il cosiddetto ‛piano Monnet'. Negli anni seguenti piani per periodi di quattro o cinque anni furono redatti in Olanda, Belgio e Scandinavia. In Italia vi fu il piano Vanoni; anche in Gran Bretagna vi fu qualche anno più tardi un cosiddetto ‛piano nazionale', che rimase semplicemente un progetto sulla carta ed ebbe scarsa o nulla efficacia operativa. Per motivi di chiarezza, alcuni preferiscono indicare questi fenomeni con il termine ‛programmazione', anziché con quello di ‛pianificazione'. In conclusione, per indicare questa specie di pianificazione capitalistica, piuttosto empirica, si finì per adottare il termine ‛pianificazione indicativa' o quello di ‛dirigismo'. Evidentemente, soprattutto se si tratta della realizzazione del piano, fa un'enorme differenza che esso sia applicato a imprese di proprietà sociale e del settore pubblico o invece a società private e autonome. Queste ultime possono essere ‛dirette' o costrette solo in situazioni eccezionali (per es. in tempo di guerra), ovvero con metodi eccezionali (ma allora probabilmente questi metodi incontreranno resistenze o saranno elusi). Ma l'argomentazione teorica usata per illustrare l'efficacia specifica di questa pianificazione indicativa è stata che i piani, malgrado non abbiano carattere coercitivo, serviranno come linee direttrici dello sviluppo futuro e che, nei limiti in cui si ‛prevede' saranno seguiti, anche approssimativamente, introdurranno un certo coordinamento tra i settori produttivi e le imprese, agevolando decisioni di investimento a lungo termine, che in loro assenza non sarebbero forse state prese. Il successo di un simile ‛dirigismo' dipendeva soprattutto dalla misura in cui ciascuna singola impresa prevedeva che le altre imprese sarebbero state influenzate nelle loro decisioni dagli obiettivi indicati oppure al contrario, li avrebbero ignorati. Alcuni, tuttavia, sono andati oltre l'idea del piano come semplice indicazione direttiva che le imprese private potevano seguire o abbandonare a loro discrezione, e hanno interpretato la ‛pianificazione indicativa' come il tentativo di stabilire un collegamento tra le grandi imprese e i grandi gruppi, incoraggiandoli a concludere una serie di accordi circa il loro comportamento futuro, accordi destinati ad avere l'effetto di avviare gli avvenimenti economici nella direzione desiderata. (v. programmazione). 4. Il dibattito recente Negli anni successivi del periodo postbellico, il dibattito sulla pianificazione si è incentrato su due aspetti, ambedue importanti: si è prestata maggiore attenzione alla distribuzione del reddito come elemento qualificante per determinare le condizioni di una ‛efficiente' allocazione delle risorse economiche; si è spostato l'interesse dalle condizioni dell'equilibrio statico a quelle dello sviluppo economico. Vediamo, in primo luogo, la distribuzione: il maggior rilievo dedicato a questo aspetto del problema, nelle fasi più recenti della discussione, ha ridimensionato in modo drastico i tentativi della teoria economica di difendere il sistema di mercato (data la concorrenza) sul terreno della sua capacità di soddisfare in modo ‛automatico' le ‛condizioni di efficienza', capacità che si pretendeva non avesse l'economia pianificata. Già un'opera come The economie of welfare (1920) di A. C. Pigou sottolineava che la distribuzione del reddito era una delle due condizioni principali della massimizzazione del benessere economico (e l'assunto implicava che tale benessere potesse essere massimizzato solo se la distribuzione del reddito fosse stata modificata in direzione dell'uguaglianza). Nondimeno, Pigou cercava di proporre delle condizioni di efficienza per la massimizzazione del reddito nazionale (o prodotto netto totale), nonostante il fatto che dal punto di vista del benessere (o utilità) tale massimizzazione dipendesse completamente dalla distribuzione (l'incremento di ‛utilità' apportato da un'unità addizionale di prodotto dipende, infatti, interamente da chi la consuma, se una persona a reddito alto o una a reddito basso). E vero che, a partire dalla fine degli anni trenta, autori come L. Robbins in Inghilterra e numerosi economisti americani (tra di essi questa posizione è ancora più largamente diffusa), hanno cercato di eliminare i problemi della distribuzione, tornando alla ‟negazione della possibilità dei confronti interpersonali di utilità", asserita da Pareto, e affermando, con forti accenti positivistici, che l'economia come scienza positiva e wertfrei deve limitarsi a formulare teoremi sulla ‛efficienza', intesa come massimizzazione della produzione. Ma le considerazioni sulla distribuzione del reddito non possono essere eliminate con tanta disinvoltura. Divenne ben presto chiaro che, se la negazione dei confronti interpersonali fosse stata tenuta ferma in modo rigoroso, non si sarebbe potuto asserire alcunché sulla massimizzazione del prodotto ‛globale' (dal momento che la somma dei prodotti eterogenei in un prodotto globale era effettuata implicitamente in termini di utilità, di cui i prezzi sarebbero stati il riflesso e la misura; ogni somma di questo genere era, di conseguenza, dipendente dalla distribuzione). Per superare questa difficoltà e far sì che si potessero formulare condizioni di ‛efficienza nonostante l'impossibilità dei confronti interpersonali, fu escogitato il cosiddetto ‛principio di compensazione'. Ma un intricato e prolungato dibattito, che si svolse negli anni cinquanta, finì col dimostrare che questo principio non poteva essere enunciato senza cadere in contraddizioni contraddizioni dovute, ancora una volta, all'intrusione di quegli influssi della distribuzione del reddito, che per ipotesi erano stati esclusi. In conseguenza di ciò, se l'‛efficienza' giudicata secondo il criterio del benessere sociale era necessariamente dipendente dalla distribuzione del reddito, e non vi era alcun motivo per supporre che la distribuzione del reddito creata dal mercato avesse alcun rapporto con quella ideale, ne discendeva che l'efficienza di un libero mercato poteva essere considerata, nel migliore dei casi, come nient'altro che un'approssimazione rispetto al punto ottimale. Viste le forti disuguaglianze di reddito e le imperfezioni della concorrenza, qualcuno potrebbe sostenere che questo tipo di efficienza sarebbe notevolmente scarsa. Persino se un'economia pianificata dovesse rimanere molto lontana dalle ‛condizioni ottimali di efficienza' sulle quali cercavano di porre l'accento gli economisti, ciò non significherebbe affatto, di necessità, che la pianificazione è inferiore al sistema di mercato. Consideriamo ora lo spostamento del centro del dibattito economico dall'equilibrio statico alla dinamica - spostamento che ha luogo dopo la seconda guerra mondiale e vediamone il rapporto con il dibattito sulla pianificazione. Questo nuovo interesse per lo sviluppo economico come problema centrale derivò in parte dagli studi sui cicli economici, fino al 1930 relativamente trascurati, e in parte dall'interesse conseguente per i tassi di sviluppo e per l'andamento (trend) di lungo periodo. Da questa discussione emerse tra l'altro il fatto che lo sviluppo economico è fortemente instabile, non solo per la sua tendenza alle fluttuazioni, ma anche per la possibilità che si verifichino movimenti divergenti, anziché convergenti, rispetto a ogni tendenza all'equilibrio. Il punto cruciale per la crescita e lo sviluppo è, naturalmente, l'accumulazione e l'investimento di capitale e, di conseguenza, l'attività del settore che produce beni capitali. Nell'economia atomizzata del libero mercato l'investimento è soggetto a un duplice motivo di incertezza: un'incertezza, che è nella natura delle cose, sui fattori che determinano l'andamento di lungo periodo (per es., il progresso tecnico, il modificarsi dei gusti, le variazioni demografiche, ecc.); un'incertezza, ancora, sulle intenzioni e i comportamenti delle altre imprese nella stessa o in altre branche dell'economia, comportamenti che contribuiscono essi stessi a determinare l'andamento dei prezzi e dei profitti nel periodo immediatamente successivo. Che l'espansione del settore dei beni capitali sia profittevole o no, dipenderà, ad esempio, dall'andamento futuro degli investimenti per il complesso dell'economia, dalla probabilità che essi diminuiscano o aumentino o rimangano pressoché costanti. Tuttavia proprio questa è una delle incognite nell'economia non pianificata di libera concorrenza, che Mises e la sua scuola hanno esaltato per il suo ‛automatismo'. Il risultato di questa attenzione per i problemi dello sviluppo fu, così, di sottolineare i vantaggi potenziali della pianificazione nel limitare o magari addirittura eliminare le accentuate fiuttuazioni cui fino allora la crescita economica era stata soggetta, introducendo, di conseguenza, la stabilità nello sviluppo e aumentando inoltre il tasso di crescita, mediante la diminuzione dell'incertezza sulla natura dell'andamento di lungo periodo. 5. La pianificazione sovietica È stato, tuttavia, in Unione Sovietica che la pianificazione economica ha raggiunto il suo massimo sviluppo ed è all'Unione Sovietica che il termine ‛pianificazione' è stato originariamente associato. È all'Unione Sovietica (e oggi anche agli altri paesi socialisti dell'Europa orientale) che si guarda di solito quando si vogliono analizzare le lezioni offerte dall'esperienza, un'esperienza durata ormai quattro decenni e svoltasi nelle situazioni più diverse. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, anche altri paesi dell'Europa orientale e sudorientale hanno adottato la pianificazione centralizzata, rigidamente modellata, almeno nei primi anni, sulla struttura di quella sovietica, in una forma persino meccanica. Unica eccezione è stata la Iugoslavia che, a parte alcuni anni iniziali, nell'immediato dopoguerra, di pianificazione centralizzata secondo il modello sovietico, realizzò negli anni 19511952 (dopo la rottura politica con l'Unione Sovietica) un decentramento completo e adottò un sistema simile al modello di economia socialista decentralizzata, proposto nel dibattito economico degli anni trenta del quale abbiamo parlato. Benché la nascita della Commissione per la pianificazione risalga, nel caso dell'Unione Sovietica, alla fine della guerra civile, nel 1921 (si tratta del famoso Gosplan nato da quella che negli anni precedenti era stata la Commissione statale per l'elettrificazione), in realtà una pianificazione effettiva iniziò solo alla fine degli anni venti, con il lancio del primo piano quinquennale. Nei suoi primi anni di vita, il Gosplan si occupò soltanto di piani parziali per particolari settori ‛chiave' dell'economia, fortemente danneggiati nel corso della guerra civile, che era urgente ricostruire per il più generale risanamento della produzione: ad esempio, un piano dei trasporti, un piano dei combustibili, e così via. Nel frattempo, il controllo e il coordinamento dell'industria erano affidati a Commissariati (o dipartimenti ministeriali), coordinati dal Consiglio supremo dell'economia nazionale (Vesencha). Il settore agricolo era formato in quel periodo da circa venticinque milioni di piccole aziende contadine, affiancate da un numero al confronto esiguo di grandi fattorie statali. L'agricoltura veniva stimolata a tornare ai livelli normali dalle misure della Nuova Politica Economica (NEP), la cui chiave di volta era costituita dal riconoscimento del diritto dei contadini di commerciare liberamente i prodotti agricoli, una volta pagata allo Stato una tassa agricola. Benché il commercio privato fosse in quel periodo del tutto legale, il grosso del commercio dei prodotti agricoli tra la campagna e la città era nelle mani delle cooperative e delle organizzazioni commerciali dello Stato. Nell'ambito dell'industria la pianificazione si orientò in quel periodo verso il decentramento e la produzione per il mercato. Terminata la distribuzione centralizzata dei rifornimenti alle imprese e la raccolta diretta delle loro quote di produzione, che erano operate dagli organismi statali durante il ‛regime' bellico, le imprese (chiamate per la maggior parte di quel periodo trusts industriali, in quanto concentrazioni di diversi impianti produttivi o fabbriche) potevano e, in realtà, erano costrette a procurarsi i rifornimenti necessari (di materie prime, combustibile ed energia, pezzi di ricambio ecc.) instaurando rapporti contrattuali diretti con i fornitori. Allo stesso modo dovevano operare per vendere la propria produzione agli eventuali clienti o intermediari. Il principio del chozrasčët) cioè della contabilità economica fondata su un bilancio autonomo, fu sanzionato come il principio fondamentale dell'attività economica. Insieme a esso, fu elevato a principio fondamentale quello della responsabilità individuale del direttore di fabbrica o di impresa (non eletto, ma nominato). Fu sottolineata, inoltre, la distinzione tra il controllo e la direzione generale, di competenza degli organi superiori, e la realizzazione e l'esecuzione concreta degli obiettivi politici generali. Il primo, e ancora sperimentale, tentativo di pianificazione industriale integrale del Gosplan furono le famose ‛cifre di controllo' per il 1925-1926, raccolte in un volume che non superava le 100 pagine. Furono il primo tentativo di tracciare un piano di produzione annuale. Dovevano essere usate dai vari Commissariati come linee direttive (orientovka) da prendere in considerazione per la redazione dei piani di settore, ma non avevano il carattere di direttive obbligatorie. Nel presentarle al governo, il Gosplan le definì, in effetti, ‟direttive di massima per il lavoro di redazione dei piani operativi effettivi". Ma in pratica, a quanto risulta, esse furono largamente ignorate dai vari organi responsabili dei programmi effettivi. Negli anni successivi fu comunque fatto uno sforzo per migliorare la qualità dei dati statistici, in base a cui erano formulate le previsioni, istituendo contemporaneamente ai livelli inferiori della gestione dell'economia organi di pianificazione subordinati. Nel frattempo le cifre di controllo annuali ampliarono il loro campo di riferimento e, quindi, anche il loro ruolo effettivo. Nell'agosto del 1927 una risoluzione del Comitato centrale del partito chiese che fossero trasformate da linee direttive generali in direttive concrete per la redazione di tutti i piani operativi. Con il varo del primo piano quinquennale, della cui stesura erano state incaricate speciali sezioni del Gosplan per la pianificazione a lungo termine, le ‛cifre di controllo' cominciarono ad assolvere un ruolo regolare nella redazione del piano operativo annuale dettagliato. Quest'ultimo, a sua volta, venne rapportato al ‛piano di prospettiva', di più lungo periodo, destinato a coprire cinque anni, e in teoria venne costruito all'interno di esso. Il decennio che doveva seguire il varo del primo piano quinquennale nel 1928-1929 fu contraddistinto da condizioni particolari, destinate a conferire alla pianificazione, e ai problemi che essa doveva affrontare, alcune caratteristiche peculiari, che in circostanze diverse forse non si sarebbero prodotte. In particolare, con l'inoltrarsi nel decennio, si accentuò la centralizzazione sia della pianificazione che dell'amministrazione economica. Centralizzazione nel senso che i piani operativi divennero sempre più dettagliati, e così anche le direttive supplementari emanate dai ministeri (come tornarono a chiamarsi i vecchi Commissariati); mentre erano drasticamente ridotti, in misura equivalente, la libertà di scelta e l'ambito di iniziative concesse ai livelli inferiori, e in particolare alla direzione delle imprese industriali. Questa situazione era in stridente contrasto con quella degli anni precedenti il 1928. Il lancio del primo piano quinquennale era stato dominato da determinati obiettivi politici (oggetto di aspre controversie negli anni precedenti); in particolare, dall'obiettivo di portare a termine l'industrializzazione del paese in un breve lasso di tempo. La realizzazione di ciò dipendeva dalla trasformazione su larga scala dell'agricoltura sulla base di una struttura collettivizzata (cioè la sostituzione della conduzione contadina tradizionale, individuale e su piccola scala, con quella collettiva e cooperativa). Guardando retrospettivamente, si potrebbe definirlo un ‛grande balzo'. Esso fu in larga misura concepito, e senza dubbio realizzato, nella forma di ‛campagne' e ‛mobilitazioni', concentrando tutte le forze disponibili su questo o quel ‛fronte economico' a seconda di quelle che, nella situazione del momento, si presentavano come le principali strozzature dell'economia. Il primo piano quinquennale era stato preparato originariamente in due versioni, una minima e una massima; quest'ultima era fondata sulle previsioni più ottimistiche di fattori quali l'andamento della bilancia del commercio con l'estero, il raccolto e la consegna dei prodotti agricoli, ecc. Come piano definitivo il governo adottò alla fine la versione massima e, nel corso della sua realizzazione, gli obiettivi dei piani annuali, specialmente quelli relativi all'industria pesante, furono aumentati in modo drastico in base allo slogan ‟realizziamo il piano quinquennale in quattro anni". Si raggiunse così un tasso di sviluppo eccezionalmente alto, che dette luogo a vasti mutamenti strutturali nell'economia, accompagnati da trasferimenti su larga scala di lavoro (e di conseguenza di popolazione) dall'agricoltura all'industria. Nel corso del decennio, il crescente pericolo di guerra, derivante dall'ascesa del fascismo hitleriano, e ancora, in Estremo Oriente, dall'incursione giapponese sul continente con ‛'invasione della Manciuria, provocò uno spostamento di risorse, destinate al riarmo e alla costruzione dell'industria bellica. Il secondo piano quinquennale, ad esempio, prevedeva, nella versione iniziale, un certo rallentamento del ritmo di espansione e dedicava maggiore attenzione alla produzione di beni di consumo; ma nel corso del quinquennio esso fu rielaborato in vista di maggiori incrementi, a causa della crescente tensione della situazione internazionale. Se pensiamo al pessimo andamento delle ragioni di scambio del commercio estero nel 1930, dovuto alla crisi economica mondiale e al crollo dei prezzi dei prodotti agricoli sui mercati mondiali, e al susseguirsi di cattivi raccolti che si verificò nei primi anni del decennio, associato alla drastica diminuzione del bestiame determinata dalle campagne di collettivizzazione, non ci si deve stupire che si siano verificate acute carenze di certi prodotti, come quelli alimentari per l'accresciuta popolazione urbana o i materiali per le costruzioni edilizie e gli impianti industriali, ecc. Negli anni 1931-1934 si rese necessario introdurre il razionamento dei prodotti alimentari che scarseggiavano; allo stesso modo divenne prassi corrente, in occasione di ogni acuta carenza di prodotti industriali, il razionamento ditali prodotti tra i diversi settori industriali e tra le imprese di ciascun settore, razionamento operato mediante un sistema di distribuzione centralizzato, come era avvenuto negli anni precedenti la NEP. Quando si verificavano ritardi nella realizzazione dei piani, ad esempio quando in un ‛assortimento' di prodotti, alcuni di essi venivano trascurati a vantaggio di altri, oppure quando gli obiettivi di produzione erano raggiunti trascurando la riduzione dei costi o persino accrescendoli con un incremento spropositato dell'occupazione, la tendenza era quella di fronteggiare simili fenomeni aggiungendo ai piani, negli anni successivi, norme esplicite circa l'‛assortimento' della produzione, la riduzione dei costi e l'impiego di lavoro. Come ulteriore strumento di controllo, in particolare sulle spese per salari e sul livello degli stocks detenuti dalle imprese industriali, si elaborò un piano del credito sempre più dettagliato, con la specificazione dell'ammontare di credito che le banche potevano concedere all'industria per i diversi obiettivi definiti. L'ammontare del credito era strettamente correlato al piano di produzione dell'impresa in questione e includeva l'assegnazione di crediti supplementari o ‛fuori piano' di entità strettamente limitata, per far fronte a situazioni di emergenza o a necessità straordinarie. Il metodo principale di pianificazione sviluppato in questo periodo fu il cosiddetto ‛metodo dei bilanci materiali'. Un ‛bilancio' era formato ponendo in equazione la quantità disponibile e il fabbisogno di un determinato prodotto; esso costituiva lo strumento indispensabile non solo per stabilire il fabbisogno di stanziamenti concessi dal sistema centralizzato di allocazione, ma anche per coordinare le componenti del piano di produzione complessivo. Per costruire questi bilanci erano essenziali i cosiddetti ‛coefficienti tecnici', espressione delle relazioni input-output dei diversi prodotti. Questi coefficienti, tuttavia, sarebbero stati diversi, nei diversi impianti impegnati nella produzione dello stesso prodotto, a seconda dell'attrezzatura tecnica e dell'efficienza complessiva di ciascuno di essi. Inoltre, molto spesso la politica ufficiale fu quella di aumentare o diminuire i coefficienti al di là di quanto le stesse industrie ritenevano ‛obiettivamente possibile' o al di là dei rapporti che l'esperienza passata aveva mostrato essere prevalenti. Le informazioni che affluivano al centro dai livelli inferiori, relative al fabbisogno di rifornimenti necessari alla realizzazione di un certo programma di produzione, non sempre erano prive di tendenziosità (visto che la possibilità di disporre di qualche riserva facilitava la vita ai dirigenti industriali e ai loro dipendenti e li metteva in grado di raggiungere più facilmente gli obiettivi previsti dal piano e di fronteggiare situazioni impreviste). Ma se i pianificatori sospettavano questa tendenziosità, tendevano a controbilanciarla diminuendo in misura corrispondente i coefficienti. Il coefficiente appropriato di ogni particolare settore industriale era il risultato di una media ponderata dipendente dalla composizione del suo piano di produzione; di conseguenza, si modificava se quest'ultimo era modificato negli ultimi stadi della rielaborazione del piano o nel corso della sua realizzazione. I coefficienti, inoltre, contenevano inevitabilmente un elemento politico o ‛soggettivo'. Un problema ulteriore era quello di coordinare i singoli bilanci per tener conto delle interdipendenze reciproche, ossia dei cosiddetti ‛rapporti di feedback', un problema familiare agli studiosi dell'analisi delle interdipendenze strutturali (input-output analysis) nella forma dell'‛inversione di una matrice'. I pianificatori sovietici, in questo periodo, non si preoccuparono quasi affatto di elaborare una ‛metodologia dei bilanci più raffinata, quale quella che doveva essere sviluppata in Occidente nella forma della input-output analysis di W. Leontjef. Può darsi che se anche l'avessero posseduta, in pratica non vi sarebbe stata una grande differenza (almeno senza la possibilità di usare largamente i calcolatori elettronici): infatti i vincoli temporali del processo di pianificazione limitano in modo serio il numero di stadi o di ‛effetti di interdipendenza' che può essere calcolato quando un dato indice di produzione è modificato. La prassi usuale è stata, in realtà, quella di non sviluppare il calcolo oltre le cosiddette ‛interdipendenze di secondo ordine' o di ‛terzo ordine'. Per tutti questi motivi si riuscì a garantire, anche per i piani operativi meglio elaborati, solo una coerenza interna, o una ‛compatibilità', approssimativa. Il sistema di distribuzione dei rifornimenti era quasi di necessità destinato a provocare carenze di prodotti in alcuni settori e in alcune imprese industriali, anche se i coefficienti decisivi input-output fossero stati fissati in modo realistico. Si può affermare, tuttavia, che questi squilibri non tendevano a tradursi in fiuttuazioni cumulative, com'è caratteristico di un sistema di mercato (vedi le fiuttuazioni del tipo cob web descritte dagli economisti). Si può affermare altresì che il coordinamento così realizzato, benché imperfetto, era verosimilmente maggiore di quello possibile quando le decisioni sulla produzione e gli investimenti erano prese dai diversi responsabili in modo atomistico e in condizioni di incertezza circa l'andamento e la configurazione futuri della situazione complessiva. Posto che l'obiettivo principe della politica economica di quel periodo era uno sviluppo rapido, caratterizzato da vasti mutamenti strutturali, è comprensibile che la pianificazione avesse il carattere di ‛pianificazione per priorità', ossia fosse condizionata e operasse in base a una scala di obiettivi prioritari. Tale scala poteva mutare a seconda delle modificazioni della natura delle strozzature che di volta in volta intralciavano la crescita. Ma in tutto il periodo anteguerra la priorità dominante fu sempre la cosiddetta ‛industria pesante', ossia l'espansione del settore industriale produttore di beni capitali: i combustibili fondamentali, l'energia, i metalli e la costruzione di macchinari. A ciò si aggiunse, come abbiamo visto, la priorità dell' ‛industria della difesa' e delle branche a essa complementari, un obiettivo che crebbe costantemente di importanza nel passaggio dal primo al secondo e poi al terzo piano quinquennale; quest'ultimo (non portato a termine) era dominato da tre obiettivi prioritari: industria bellica, metalli non ferrosi e potenziamento dei trasporti. In realtà, verso la fine del decennio l'economia del paese si era praticamente trasformata in un'economia di guerra, strutturata secondo i metodi e il grado di centralizzazione caratteristici di questa. Per un verso, questa scala di priorità nella politica di pianificazione semplificò di molto i problemi di un sistema di pianificazione e di amministrazione economica altamente centralizzato; per un altro verso comportò un inevitabile costo sociale. Gli obiettivi e gli indici dei settori prioritari potevano essere raggiunti più facilmente perché, in caso di difficoltà, si potevano trasferire risorse in questi settori sottraendole ai settori non prioritari. Questi ultimi svolgevano così il ruolo di ammortizzatori o fondi di riserva per fronteggiare le carenze dei primi nella realizzazione del piano. Questi settori non prioritari, che in quel periodo erano di solito quelli produttori di beni di consumo, sopportarono così il peso della situazione, poiché non riuscivano a raggiungere gli obiettivi previsti dal piano; ma le priorità fondamentali furono salvaguardate e poterono essere realizzate (almeno per grandi tratti). Ma la situazione cambiò nella misura in cui lo sviluppo puramente quantitativo e l'industria pesante persero la loro schiacciante priorità e quest'ultima slittò verso le branche produttrici di beni di consumo (il che cominciò a verificarsi negli anni cinquanta). Si trattava o di considerare gli obiettivi prioritari come più numerosi, o di sostituire la prassi di redigere una semplice lista di priorità con l'esigenza di ‛bilanciare' una molteplicità di bisogni alternativi. In ambedue i casi cambiava la situazione, e così pure i problemi che essa poneva; la comoda riserva costituita precedentemente dai settori che non erano considerati prioritari cessava pertanto di esistere. Fu questo un aspetto del mutamento della situazione dal decennio anteguerra agli anni cinquanta, dopo la fine della ricostruzione postbellica. Vi furono altri mutamenti ancora. Uno di questi riguardò la situazione del mercato del lavoro, e investì l'intera offerta di lavoro. I primi dieci o dodici anni di pianificazione erano stati un periodo di sviluppo ‛estensivo', nel senso che l'ampliamento della capacità e dell'articolazione dell'industria esistente e la creazione di nuovi settori - motori, metalli non ferrosi, aeronautica - erano stati realizzati attingendo alle riserve di lavoro del paese. Così il mancato raggiungimento degli indici di incremento della produttività del lavoro, fissati dal primo piano quinquennale, poté essere compensato dall'espansione dell'occupazione oltre gli indici del piano, sebbene tale espansione comportasse effetti inflazionistici, poiché aumentò il fondo salari complessivo e quindi la domanda. È certamente vero che anche in questo periodo vi fu carenza di manodopera qualificata; a ciò si fece fronte con piani di addestramento su larga scala. Ma in generale non vi fu carenza di manodopera non qualificata, poiché, come nella maggior parte delle zone sottosviluppate del mondo, l'agricoltura in Russia era stata caratterizzata dal sovrappopolamento rurale (con l'eccezione delle zone di popolamento più recente, come la Siberia e l'estrema zona orientale). Verso il 1950, a seguito delle enormi perdite del periodo bellico, la situazione dell'offerta di manodopera era in via di mutamento. Lo sviluppo ‛estensivo' cominciava a incontrare dei limiti in una, non più particolare, ma generale carenza di manodopera. Si cominciò a sottolineare con maggiore vigore la necessità di una più elevata produttività del lavoro, da ottenere introducendo le più moderne innovazioni tecniche. Ancora una volta, i risultati non furono pari alle intenzioni; molti dei problemi connessi alla diminuzione del tasso di sviluppo nella prima metà degli anni sessanta vanno senza dubbio attribuiti a un ‛ritardo' nella realizzazione di quello sviluppo ‛intensivo' che la nuova e mutata situazione richiedeva. Oltre al mutamento della natura degli obiettivi politici, che la pianificazione doveva soddisfare, e al mutamento nella situazione del lavoro, fu il grande sviluppo dell'industria nel periodo anteguerra a complicare non poco i compiti della pianificazione centralizzata e, di conseguenza, ad accentuare in misura considerevole le difficoltà del metodo dei bilanci, già menzionate, come anche gli effetti negativi degli errori e delle incoerenze che ne derivavano nella redazione dei piani (soprattutto in rapporto al sistema di allocazione centralizzata delle scorte). Mentre all'inizio degli anni trenta il numero di bilanci particolari stesi dal Gosplan era di alcune centinaia o poco più, negli anni cinquanta il loro numero era salito a circa 2.000 (questa cifra comprende i bilanci redatti dal Gosplan dell'Unione e dai Gosplan delle singole repubbliche). Il sistema di allocazione centralizzata interessava qualcosa come 10.000 prodotti e forse più; oltre 5.000 prodotti, e tutti gli indici e gli obiettivi ad essi pertinenti, erano inclusi nel piano annuale, e il piano di una singola impresa poteva comprendere fino a 500 indici diversi. Negli anni sessanta il numero delle singole imprese industriali che erano soggette alla pianificazione raggiunse la cifra di 40.000. 6. Analisi critica delle tendenze al decentramento È su questo sfondo che alla fine degli anni cinquanta e negli anni sessanta si avviò il dibattito sulla necessità di introdurre misure di decentramento. Nella mutata situazione degli anni cinquanta, i metodi di gestione economica fortemente centralizzata, per quanto opportuni potessero essere stati nella situazione e con gli obiettivi politici e i compiti specifici del decennio prebellico, e anche per l'economia di guerra' degli anni quaranta, divenivano in modo evidente sempre più inadeguati. Essi producevano addirittura risultati negativi, sui quali si cominciavano a concentrare i commenti critici. Il dibattito non fu limitato all'Unione Sovietica, ma si estese agli altri paesi del ‛blocco' socialista dell'Europa orientale; esso raggiunse la massima intensità in Cecoslovacchia e in Ungheria, dove le misure di decentramento richieste furono assai più radicali, mentre si svolse relativamente in sordina nella Repubblica Democratica Tedesca e in Romania e mantenne un livello intermedio in Polonia e in Bulgaria. In questa atmosfera furono preparate e applicate le riforme economiche della metà degli anni sessanta (definite in qualche caso - per es. in Ungheria - come ‛nuovo modello economico'). Era generalmente riconosciuta l'esigenza di semplificare i compiti della pianificazione centrale, sia diminuendo il numero di obiettivi e di indici fissati dagli organismi superiori e inclusi nel piano centrale, sia accrescendo, contemporaneamente, l'autonomia e la capacità decisionale della singola impresa, al fine di stimolare una maggiore iniziativa da parte dei dirigenti delle imprese o degli stabilimenti (per es., per quanto riguardava le innovazioni nei metodi di produzione e nella natura dei prodotti, nuovi prodotti e nuovi modelli, ecc.). Su due questioni, tuttavia, esistevano differenze di tono e diverse erano le misure di decentramento proposte: 1) se i principali beneficiari dell'accresciuta libertà e autonomia dovessero essere le imprese esistenti o piuttosto le nuove concentrazioni industriali di livello intermedio (operanti sulla base del chozrasčët); 2) in che misura si dovesse permettere una maggiore flessibilità nei prezzi e nell'approvvigionamento delle scorte industriali sulla base di rapporti contrattuali diretti, in altre parole in che misura si dovessero reintrodurre negli scambi interindustriali meccanismi di mercato che richiamavano alla mente il periodo della NEP sovietica degli anni venti. In Ungheria, per esempio, il sistema di allocazione delle scorte fu abolito e i prezzi di un numero considerevole di merci furono lasciati liberi di fluttuare tra un massimo e un minimo, sulla base di accordi contrattuali diretti; inoltre, un ristretto numero di prezzi (essenzialmente quelli dei beni di lusso) furono lasciati liberi di fluttuare senza limiti di sorta in rapporto alla situazione del mercato. Si lasciò alle imprese persino la possibilità di effettuare alcune spese per investimenti, ricorrendo a prestiti bancari, purché esse non superassero un determinato ammontare. Nei termini del dibattito economico degli anni tra le due guerre, queste misure possono apparire una svolta verso quel tipo di sistema decentralizzato o ‛socialismo di mercato', come è stato talvolta chiamato, allora tracciato da Lange e Dickinson. Ciò, tuttavia, è vero solo in parte. Nelle proposte di Lange e di Dickinson alla pianificazione era lasciato uno spazio assai esiguo. Quasi tutte le decisioni economiche erano prese sulla base delle condizioni del mercato ed erano indirizzate da queste. Nel caso di Lange l'unica eccezione era il tasso generale di investimento o l'ammontare totale di fondi per l'investimento da mettere a disposizione degli organi economici, mentre l'allocazione di queste risorse era decisa in base al rapporto tra la domanda e le scorte disponibili. Ma nel meccanismo decentralizzato, introdotto con le riforme economiche degli anni sessanta, l'ambito di intervento lasciato alla pianificazione centralizzata era molto superiore a questo. In generale, la massa degli investimenti rimaneva, anche in Ungheria, sotto il controllo delle autorità centrali; i piani di produzione annuali, benché liberamente redatti dalle imprese, dovevano essere tali da corrispondere abbastanza da vicino, nel loro complesso, al piano a più lungo termine redatto dagli organi di pianificazione centrali: mentre i prezzi di tutti i prodotti ‛chiave', e di tutte le merci delle quali vi era scarsità, restavano ancora di competenza delle autorità centrali. Non avvenne nulla di simile allo smantellamento del sistema di pianificazione quale si verificò in Iugoslavia negli anni cinquanta. Particolare il caso della riforma sovietica del 1965. Mentre fu sostanzialmente ridotto il numero degli indici compresi nel piano annuale, a livello di impresa quest'ultimo continuò a prevedere alcuni indici fondamentali: in particolare, il totale della produzione ‛venduta' espresso in termini di valore (in sostituzione del valore della produzione lorda prodotta, precedentemente assegnato) e un ‛massimo' per il fondo salari complessivo. Il profitto del bilancio di esercizio fu riconosciuto quale principale criterio della riuscita di un'azienda e a esso fu associato un nuovo tipo di fondo di incentivazione per la distribuzione di premi; ma il sistema di allocazione delle scorte fu mantenuto in piedi. La prima critica rivolta al sistema ipercentralizzato esistente riguardava il modo in cui gli obiettivi del piano dovevano di necessità essere espressi nelle direttive di pianificazione; la critica si concentrava soprattutto sugli obiettivi, espressi in termini di qualche misura fisica. Ovviamente, se la produzione a livello di impresa è determinata dettagliatamente dal piano, la sua entità deve essere espressa in una qualche misura, e l'esperienza ha mostrato che la particolare misura adottata può indurre distorsioni nel modo in cui gli obiettivi di produzione sono realizzati. In alcuni casi, la misura più appropriata della produzione è una misura di peso, in altri una misura di lunghezza o di superficie o semplicemente un numero di unità. Sono ormai numerosi e ben noti gli esempi di situazioni, in cui la misurazione in termini di peso ha prodotto la tendenza a fabbricare oggetti pesanti, anziché leggeri (vedi i telai dei letti, i candelieri o i chiodi), la misurazione in termini di lunghezza (come nel caso dei tessuti), la tendenza a fabbricare stoffe strette e di tessitura la più semplice possibile, e così via. Quando la produzione, anziché uniforme e standardizzata, è eterogenea, come nel caso di numerosi prodotti dell'industria meccanica, la misura più facile è espressa in termini di valore lordo, che ha il vantaggio della semplicità, perché le singole unità prodotte possono essere sommate in base ai prezzi correnti di vendita. Ma l'esperienza ha mostrato, di nuovo, che nel caso del valore lordo la tendenza alla distorsione si manifesta come incremento della quantità dei fattori di produzione acquistati all'esterno dalle imprese, che vengono incorporati nel prodotto: l'uso, ad esempio, di materie prime e pezzi ad alto anziché a basso costo, la produzione, cioè, di articoli cosiddetti ‛materialintensivi'. Un altro esempio è il seguente: è più facile raggiungere l'obiettivo del piano montando un gran numero di pezzi in un veicolo finito, piuttosto che produrre singoli pezzi di ricambio, anche se vi è una grande richiesta di essi. Inoltre può essere scoraggiata la concentrazione verticale in una stessa impresa di processi di produzione consecutivi, anche se tale concentrazione dovesse avere come risultato una maggiore efficienza e un coordinamento più equilibrato dei flussi di produzione. Questa tendenza, tuttavia, è forse controbilanciata dalla tendenza alla concentrazione verticale, che nasce dalla difficoltà di ottenere i rifornimenti e dai ritardi nella loro consegna. Per tutte queste ragioni, tra la fine degli anni cinquanta e l'inizio degli anni sessanta, in molti settori dell'industria, a cominciare dall'industria tessile, il valore lordo fu sostituito con il valore netto. Quale che sia la forma particolare della misura adottata, è inevitabile che obiettivi di questo tipo tendano a privilegiare la realizzazione puramente quantitativa, a scapito della qualità, delle esigenze di un assortimento ben equilibrato e soprattutto a scapito dello sforzo di realizzare nuovi prodotti e nuovi e migliori modelli. Similmente, la realizzazione puramente quantitativa tende a essere privilegiata anche a costo di inefficienze: ad esempio con la prassi diffusa dell'eccessiva accelerazione del ritmo produttivo e degli straordinari verso il periodo finale di un piano. Fu proprio per contrastare simili effetti che vennero aggiunti alle direttive di piano gli indici detti ‛qualitativi', che fissavano il tasso di riduzione dei costi da realizzare o l'incremento della produttività del lavoro. In questo modo furono però aumentati spropositatamente il numero e la varietà degli ‛indici' inclusi nei piani, cosicché i dirigenti di impresa finirono con l'attribuire diverso peso ai vari indici, e poiché alcuni di questi erano tra loro contraddittori, parte di essi tendeva a essere ignorata completamente. Gli svantaggi e le distorsioni derivanti dai vari tipi di ‛indicatori di successo' adottati in precedenza erano generalmente considerati un corollario pratico inevitabile dell'eccessivo dettaglio degli indici inclusi nel piano centrale; pertanto si ricercò attentamente un qualche ‛indicatore sintetico' dei risultati dell'impresa, tale da ridurre al minimo, in ogni caso, le deviazioni unilaterali prodotte dagli indici esistenti. (In quel periodo fu in voga lo slogan: ‟meno fiducia negli ordini amministrativi e più fiducia nei metodi economici", quali l'incentivazione tramite i prezzi, le facilitazioni creditizie, la tassazione e simili). A tal fine, in concomitanza con la diminuita fiducia nel metodo delle direttive dettagliate, le riforme economiche della metà degli anni sessanta puntarono, abbastanza naturalmente, ad accentuare il ruolo dei risultati complessivi di bilancio come strumento di valutazione, come avveniva nei primi anni di applicazione del chozrasčët. Ma, com'è ovvio, anche i ‛criteri di bilancio' possono avere come effetto distorsioni nella produzione, se i prezzi non sono ‛giusti' in qualche senso appropriato: è questa una delle ragioni per cui le misure di decentramento sono state accompagnate da misure di riforma dei prezzi (misure che, nel caso dell'Ungheria, hanno preceduto l'introduzione del ‛nuovo meccanismo economico). Un altro tipo di critica rivolta al vecchio sistema centralizzato fu che esso tendeva a dar vita a forme di conflitto nocive tra i livelli superiori e i livelli inferiori dell'apparato di gestione, poiché limitava l'ambito di competenza di questi ultimi su materie che essi conoscevano spesso assai meglio dei primi. Si poteva naturalmente considerare questo fenomeno in qualche modo come un conflitto tra punti di vista o interessi settoriali e interesse generale. Ma non sempre era così. Si trattava quasi altrettanto spesso di un conflitto tra le decisioni di dettaglio prese da persone staccate dalla situazione reale (sulla base di informazioni imprecise e molto approssimative) e la conoscenza approfondita di quella situazione da parte di persone a essa legate e fornite non solo di informazioni tecniche, ma anche della ‛percezione' di ciò che era opportuno fare. Facciamo due esempi tra i più significativi. In primo luogo, sottoposti alla costante pressione della necessità di realizzare obiettivi di piano probabilmente eccessivi (pressione accompagnata da incentivi finanziari), ossessionati dal timore costante di carenze nei rifornimenti e di ritardi nelle consegne, ambedue fattori di pesante disorganizzazione della produzione, i dirigenti industriali tendevano, nel fornire le informazioni ai livelli superiori della gestione, a sottovalutare e nascondere le loro possibilità e a esagerare le loro necessità (in termini di rifornimenti, macchinari, manodopera). Abbiamo già ricordato che gli organi di pianificazione o i ministeri, se sospettavano una simile tendenza, reagivano aumentando ancora gli obiettivi di produzione e riducendo le allocazioni, intensificando così doppiamente la tensione tra i ‛livelli'. (In quel periodo si diceva comunemente che un direttore assennato avrebbe potuto superare i propri obiettivi di piano, poniamo, del 50%, ma mai del 25%, poiché, se lo avesse fatto, il risultato sarebbe stato inevitabilmente il drastico aumento dell'obiettivo per l'anno successivo). In secondo luogo, venivano fortemente incoraggiate non solo le richieste eccessive di rifornimenti, per garantirsi dei margini di manovra (e cioè per ristabilire una certa flessibilità a livello dell'impresa) e per premunirsi di fronte a eventualità impreviste, ma anche l'accumulazione - se possibile - di riserve in eccesso, sia di macchinario che di materie prime e di lavoro. Questa era l'unica via che restava ai dirigenti di impresa per recuperare una propria iniziativa autonoma. Ma l'incetta tende ad aggravare le carenze di rifornimento, e probabilmente con effetti concatenati. Tutto ciò può aver accentuato e tenuto in vita nel periodo postbellico la situazione cronica di un mercato dominato dai venditori, situazione sfruttata a sua volta dai conservatori favorevoli al mantenimento del meccanismo centralizzato per motivare la prosecuzione del razionamento tramite il sistema dell'allocazione delle scorte. Oltre a ciò, i marxisti, in particolare, possono ritenere che, con un sistema di potere eccessivamente verticistico e con i subordinati assuefatti all'accettazione passiva di ordini e direttive, l'alienazione dei produttori dal processo sociale viene forse perpetuata, anziché superata. Finora il movimento in direzione di riforme economiche di decentramento è stato prudente e abbastanza limitato (tranne che in Ungheria e in Iugoslavia), e più limitato ancora nella realizzazione che nella progettazione, non fosse che a causa delle esitazioni e della resistenza degli interessi burocratici legati al vecchio sistema. Tuttavia, in futuro, le cose sembrano destinate a muoversi in questa direzione. L'esperienza ormai dimostra le difficoltà e gli effetti negativi di una centralizzazione eccessiva del potere decisionale. Resta da verificare sperimentalmente in quali dosi la combinazione di pianificazione e mercato possa produrre, in circostanze normali, il massimo risultato: ossia, quali tipi di decisioni debbano rimanere centralizzate ed essere incluse in un piano obbligatorio, e quali sia più opportuno, invece, lasciar prendere ai livelli inferiori di gestione, sulla base di indici di mercato (prezzi reali o contabili), come proposto da Dickinson e Lange nel dibattito economico anteguerra. Nel secondo caso, la pianificazione si limiterebbe a influenzare (per es. con la tassazione, le agevolazioni creditizie, le variazioni dei prezzi) e a orientare su scala generale. Sembra abbastanza chiaro che le decisioni sui nuovi investimenti più rilevanti debbano essere incluse nel primo gruppo (decisioni centralizzate), in quanto decisive per la direzione dello sviluppo a lungo termine dell'economia, per i mutamenti strutturali, per il livello di occupazione e per la crescita; in favore di questa scelta sembrano sussistere fondamenti teorici piuttosto solidi. 7. Il problema dei prezzi Una volta, tuttavia, che siano stati reintrodotti nel quadro gli influssi del mercato sulle decisioni economiche da prendere, diviene ovviamente rilevante - come abbiamo visto - il problema di quali siano i prezzi ‛corretti' o ‛economici'. Dobbiamo così tornare al dibattito dei teorici dell'economia, in particolare alle discussioni più recenti sulla politica dei prezzi e la cosiddetta ‛ottimizzazione'. Persino nella pianificazione centralizzata alcuni calcoli implicano l'uso dei prezzi, anche se non necessariamente prezzi reali nel senso dei rapporti di scambio fra i prodotti: può trattarsi semplicemente di prezzi contabili nel senso dei ‛rapporti di equivalenza' di Lange (per es. rapporti come il ‛periodo di ricostituzione' o ‛l'efficacia dell'investimento'). In rapporto con le soluzioni di programmazione lineare, è oggi abbastanza familiare il concetto di ‛prezzo-ombra', come ‛duale' di una soluzione data. Il dibattito su questi problemi ha attirato l'attenzione della scienza economica in Unione Sovietica e altrove sin dalla metà degli anni cinquanta. In quel periodo iniziò una discussione piuttosto astratta e dottrinaria sul cosiddetto ‛funzionamento della legge del valore'. Molto presto essa si trasformò in una disputa tra sostenitori del ‛principio del valore' e sostenitori dei ‛prezzi di produzione', con un riferimento concreto alla riforma della politica dei prezzi. Nel corso del dibattito assunse un ruolo via via più importante la difesa da parte degli economisti matematici del cosiddetto ocenka di L. V. Kantorovič. La riforma dei prezzi del 1968 rappresentò per molti versi un compromesso tra i due punti di vista contrapposti, un compromesso peraltro transitorio; essa, tuttavia, portava chiaramente l'impronta del dibattito precedente e, almeno in linea di principio, pagava il suo tributo a concetti quali l'uguaglianza dei tassi di profitto e l'imposizione del pagamento di una rendita per l'utilizzazione delle risorse naturali o di situazioni particolarmente vantaggiose. In Occidente il dibattito economico su questi problemi (in larga misura prosecuzione del dibattito sul calcolo socialista degli anni trenta) si concentrò essenzialmente su due ordini di questioni: l'analisi dei casi di divergenza del costo marginale dal costo medio (quando, cioè, vi sono sostanziali indivisibilità) e l'analisi delle ‛punte massime' e delle ‛punte minime', di quei casi cioè in cui - come nell'elettricità e nei trasporti - l'utilizzazione degli impianti al di sopra e al di sotto della capacità produttiva si alterna nei diversi periodi della giornata o della settimana o nelle diverse stagioni. Inizialmente, i sostenitori della determinazione dei prezzi sulla base del costo marginale utilizzarono tale determinazione come strumento critico per attaccare la teoria corrente, nel senso che le industrie nazionalizzate avrebbero dovuto risultare ‛redditizie', in grado, cioè, di coprire il costo medio totale incluso un margine prefissato di profitto. Di qui l'insistenza sui casi in cui i costi medi sono decrescenti con l'espandersi della produzione o del servizio offerto e, di conseguenza, il costo marginale è inferiore al costo medio. Si tratta essenzialmente di casi nei quali esiste capacità in eccesso entro un'unità produttiva indivisibile: l'argomentazione di senso comune consisteva nell'asserire che vi era un vantaggio sociale a utilizzare la capacità produttiva in eccesso fino a quando fosse coperto il costo primo o diretto connesso a tale utilizzazione addizionale, mentre sarebbe stato uno spreco di risorse sociali bloccare l'utilizzazione addizionale della capacità disponibile tentando di imporre un prezzo pari al costo totale (medio), come avrebbe fatto naturalmente un'impresa privata capitalistica. Un altro aspetto della stessa argomentazione consisteva nell'assunto che nel caso in discussione il criterio di investimento più opportuno fosse quello del ‛beneficio sociale complessivo' e non quello di coprire il costo totale a un prezzo uniforme, qual è illustrato dal caso classico del ponte di Dupuit. I casi di costi marginali inferiori ai costi medi esistono e sono senza dubbio importanti - qualcuno potrebbe sostenere che tra i casi di divergenza essi sono predominanti - tuttavia non sono i soli. Vi sono casi di costi crescenti in cui il costo marginale è superiore e non inferiore a quello medio; in pratica, poi, questi ultimi tendono a implicare maggiori difficoltà. Quando non si tratti semplicemente di costi sociali esterni all'unità di decisione in esame, come nel caso della congestione del traffico, si tratta di casi esemplari di utilizzazione alterna degli impianti fissi al di sopra o al di sotto delle capacità, come si verifica nella produzione di energia elettrica, nella rete telefonica, o nel sistema dei trasporti ferroviari. In queste situazioni l'imposizione di pagamenti differenti nei periodi di utilizzazione massima e minima, connessi alla differenza del costo marginale dell'offerta del servizio a seconda dell'utilizzazione delle capacità in quel periodo, si fondava essenzialmente sull'esigenza di evitare sprechi negli investimenti espandendo le capacità per far fronte alla domanda massima, che avrebbe comportato un eccesso di capacità inutilizzate in altri periodi. Quando affrontiamo la questione di una teoria generale della determinazione dei prezzi in un'economia socialista, ci troviamo di fronte un apparente conflitto di obiettivi. Esso può essere indicato come ‛conflitto tra breve periodo e lungo periodo, oppure, in altri termini, tra i cosiddetti ‛prezzi di mercato' e i cosiddetti ‛prezzi normali'. In un qualsiasi momento considerato esisterà un sistema dato di scarsità, che contiene elementi che potremmo definire ‛accidentali', dovuti a variazioni impreviste della domanda o a variazioni delle scorte o a ritardi del meccanismo con cui l'offerta si adegua alla domanda. In quel dato momento l'equilibrio completo implicherebbe l'imposizione di un certo sistema di prezzi di breve periodo, adeguato a quel sistema dato di scarsità, prezzi che per la loro stessa natura non potrebbero che essere temporanei e potrebbero rivelarsi inadatti in penodi successivi, una volta trascorso il tempo per adeguare l'offerta alla domanda. Questa comunque sarebbe la situazione qualora le scorte non fossero tali da reggere l'urto degli squilibri di breve periodo, cosa che potrebbe verificarsi più di quanto talvolta non si ammettà, almeno in periodi molto brevi e per variazioni della domanda non troppo accentuate. Il movimento dei prezzi nel primo caso, il movimento delle scorte nel secondo, possono servire ai produttori come ‛indicatori' del necessario adeguamento dell'offerta. Come abbiamo visto, tuttavia, un'eccessiva fiducia in questi riaggiustamenti di breve periodo, o un eccessivo spazio lasciato a essi, possono offrire un campo d'azione a fluttuazioni cumulative, del tipo del teorema cobweb, che hanno indesiderabili effetti di disorganizzazione. Ma quando si prendono in considerazione le decisioni che possiamo chiamare ‛di lungo periodo', come gli investimenti in impianti durevoli (per es. un nuovo stabilimento, una ferrovia, un bacino portuale o una centrale elettrica), diviene rilevante un altro tipo di prezzi. Potremmo chiamarli ‛prezzi normali di lungo periodo', nel senso che rappresentano una situazione di equilibrio relativa a un numero di anni abbastanza elevato, affinché si realizzi compiutamente l'adeguamento dell'offerta al livello probabile della domanda negli anni a venire. Si tratta di un certo tipo di prezzo di costo che, in base a un teorema ora ben noto agli economisti, se vi è sviluppo include un tasso di profitto approssimativamente uguale al tasso di sviluppo. Se tutti i prezzi fossero ‛prezzi contabili' del tipo definito da Lange, o anche ‛prezzi di calcolo', prezzi ombra, usati dall'organo centrale di pianificazione per effettuare le valutazioni che costituiscono la base delle decisioni, il conflitto sarebbe allora più apparente che reale. In ogni calcolo potrebbe essere usata la categoria di prezzi (di breve o di lungo periodo) più appropriata alla particolare decisione cui il calcolo si riferisce, e ciò non impedirebbe di usare un tipo di categoria diverso e antitetico per decisioni di genere differente. Ma se i prezzi sono prezzi reali, esprimono cioè rapporti di scambio reali, in base ai quali enti finanziariamente autonomi (secondo il principio del chozrasčët) alienano beni e redigono contratti, il conflitto è un conflitto reale, poiché in realtà i prezzi in questione debbono essere o di un tipo o dell'altro e sembra difficile che possano esistere simultaneamente due diversi insiemi di prezzi, benché sia probabilmente possibile che vengano usati prezzi ‛immediati' e prezzi ‛futuri' per scambi operati a date diverse. La categoria dei prezzi di breve periodo è evidentemente appropriata per il mercato al dettaglio, se si intendono evitare il razionamento, la penuria di prodotti e le code nei negozi, nel caso in cui esistano quantitativi limitati di certe merci. Tale categoria è forse appropriata anche per i prezzi all'ingrosso dei beni di consumo, benché questi possano essere stabiliti in base ad altre regole e la differenza tra essi e i prezzi al dettaglio possa essere colmata con una qualche forma di tassa sulle vendite, secondo una prassi usuale nell'Unione Sovietica. Come conviene operare per i prezzi dei cosiddetti ‛mezzi di produzione', cioè per quei beni che entrano nel processo di produzione e, in particolare, per i materiali da costruzione e le macchine utensili? Poiché si tratta di elementi che sono oggetto di decisioni di investimento, e di decisioni che implicano la scelta tra tecniche diverse o tra diverse combinazioni dei fattori di produzione, per essi sembra più appropriato usare l'altra categoria di prezzi. Alcuni di questi beni possono certo presentare problemi di temporanea scarsità e rendere necessario che di ciò si prenda atto imponendo temporaneamente un sovrapprezzo al prezzo ‛normale', sia come strumento per imporne un uso in economia, sia come strumento per limitarne l'uso ai bisogni più urgenti, finché duri la scarsità. Ma in questo caso le divergenze dal costo normale' potrebbero probabilmente essere trattate come misure eccezionali, anziché come regola generale, come accade invece sul mercato al dettaglio. 8. Conclusione In sintesi, si può affermare che i risultati più rilevanti ottenuti dalla pianificazione sono connessi alla crescita economica e alle modificazioni strutturali su vasta scala del sistema economico, che implicano la modifica dei rapporti tra i settori e tra le branche dell'economia come anche, eventualmente, la modifica a ciò funzionale della dislocazione delle imprese e della struttura della rete dei trasporti. A maggior ragione a essa sono connessi obiettivi e rapporti sociali (fattori ambientali, livelli di occupazione, creazione di bisogni e di abitudini, modi di vita e standards sociali) che non possono essere commisurati unicamente in termini di mercato e di bilancio. Nonostante i successi che nel passato, in condizioni di laissez faire, l'impresa capitalistica ha ottenuto nell'industrializzazione, è molto probabile che, in mancanza di una pianificazione, alcune forme di sviluppo non possano aver luogo affatto, a causa delle interdipendenze strutturali esistenti: così lo sviluppo in un certo settore può non essere vantaggioso se non è sicuro che le necessarie forme di sviluppo complementari avranno luogo in un certo numero di altri settori. Inoltre, di fronte a certi tipi di ostacoli, il ritmo dello sviluppo, una volta avviato, è difficile da mantenere e di conseguenza la crescita si esaurisce. Per questi motivi negli ultimi decenni la pianificazione è divenuta, in una forma o nell'altra, parte integrante del patrimonio di convinzioni di un numero sempre più ampio di paesi sottosviluppati. Quando la maggioranza delle economie è in espansione, seppure in grado diverso, in pratica non è possibile scindere i problemi dello sviluppo da quelli dell'adeguamento equilibrato a un dato livello della domanda di consumo (si tratta, insomma, di tutti quei problemi che gli economisti hanno chiamato problemi di ‛ottimizzazione'). Ma, nella misura in cui questi ultimi hanno la precedenza sui primi, diviene utile, come si è visto, un grado notevole di decentramento, almeno al livello delle decisioni di dettaglio; di conseguenza, diviene utile inserire il meccanismo e l'influenza del mercato nella più ampia cornice delle decisioni macroeconomiche pianificate o dirette dal centro. In queste condizioni e in rapporto a questo tipo di obiettivo, l'eccesso di centralizzazione, riducendo la flessibilità delle decisioni e congestionando l'apparato incaricato di determinarle, può effettivamente ostacolare l'adeguamento e impedire ‛l'ottimizzazione', sia per quanto riguarda l'adeguamento della produzione alle richieste dei consumatori, sia per quanto riguarda la scelta più efficace dei metodi di produzione e di allocazione delle risorse. Di conseguenza il centro originario del dibattito teorico sulla pianificazione si è notevolmente spostato ed è divenuto meno semplice. Nessuno o quasi degli economisti che discutono oggi di questi problemi sarebbe disposto ad accettare il puro e semplice ‟non possumus" di von Mises, se non altro perché nessuno o quasi di loro, sia nel mondo socialista che nel mondo capitalista, accetterebbe di porre in antitesi, come escludentisi a vicenda, pianificazione e mercato. Il dibattito si è spostato piuttosto sul problema di quale sia la combinazione più funzionale e meglio realizzabile di questi due termini, problema che può ricevere anch'esso una varietà di risposte diverse in condizioni storiche caratterizzate da un proprio livello di sviluppo. Non si può negare che il problema ricordato più sopra dei ‛milioni di equazioni' da risolvere, per prendere le decisioni e coordinarle consapevolmente, anche se non è stato risolto completamente, è stato però seriamente ridimensionato dall'invenzione dei calcolatori elettronici. Ma qui l'ultima parola va lasciata, forse, a Lange. In quello che è stato probabilmente il suo ultimo intervento in materia, egli parla in questi termini del rapporto tra pianificazione e calcolatori (modificando almeno in parte le conclusioni delle sue precedenti proposte di decentramento): ‟I dirigenti di economie socialista hanno oggi due strumenti di contabilità economica. Il primo è il calcolatore elettronico [...], il secondo è il mercato [...]. L'esperienza mostra che per un grandissimo numero di problemi è sufficiente un'approssimazione lineare; di qui l'ampio uso delle tecniche di programmazione lineare [...]. Il calcolatore ha il vantaggio indubbio di una velocità molto maggiore. Il mercato è un servomeccanismo ingombrante e lento. Il suo processo di iterazione ha luogo con considerevoli ritardi temporali e oscillazioni e può non convergere affatto". Dopo aver affermato, d'altra parte, che ‟persino il calcolatore elettronico più potente ha una capacità limitata", Lange conclude che per la pianificazione dello sviluppo economico di lungo periodo il meccanismo di mercato è nettamente inferiore: ‟qui non bastano più i prezzi di equilibrio di mercato, è necessaria la conoscenza dei prezzi-ombra programmati per il futuro". ‟La programmazione matematica egli dichiara inoltre si rivela uno strumento essenziale per la pianificazione ‛ottimale' di lungo periodo [...]. La programmazione matematica accompagnata dall'uso dei calcolatori elettronici è diventata lo strumento fondamentale della pianificazione economica di lungo periodo, come del resto per la risoluzione di problemi di dinamica economica di estensione più limitata. In questo caso, il calcolatore elettronico non sostituisce il mercato: assolve una funzione che il mercato non è mai stato in grado di assolvere (O. 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Breve excursus storico L'evoluzione della pianificazione può essere descritta solo in rapporto all'andamento dell'intero sistema economico socialista: subisce infatti il condizionamento di tutti i processi economici e, dal canto suo, li influenza in modo determinante. Le condizioni necessarie per realizzare una pianificazione come quella che Stalin sviluppò in Unione Sovietica sono molto diverse da quelle esistenti nei paesi più piccoli, che sono caratterizzati da un mercato necessariamente ristretto e da una forte dipendenza dal commercio con l'estero. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, il sistema economico socialista fu introdotto in parecchi paesi retti da governi comunisti. In fondo tutti questi paesi, soggetti all'influenza politica dell'URSS, ricalcarono, ai loro inizi, il modello del sistema economico sovietico e, così facendo, ne ripresero in primo luogo, in maniera acritica, il ‛dirigismo' nella pianificazione, con tutti i suoi errori e le sue insufficienze. Tuttavia, in tutti i paesi socialisti vi sono state fasi iniziali durante le quali i difetti e gli inconvenienti del sistema sovietico di pianificazione non apparivano in modo così accentuato ed evidente come si rivelarono invece durante le fasi successive. Questa fase iniziale si può definire anche come la fase dello sviluppo ‛estensivo', per differenziarla da quella successiva, in cui si rese invece necessario uno sviluppo economico ‛intensivo' (v. Šik, 19683; tr. it., pp. 73 ss.). Nell'ambito dell'economia socialista si definisce fase dello sviluppo estensivo quella fase in cui la crescita della produzione industriale si raggiunge prevalentemente con un rapido aumento dei fattori produttivi. Attraverso prelievi sui guadagni, e anche su gran parte degli accantonamenti di capitale attuati in tutte le imprese, e la concentrazione di queste risorse nelle mani dello Stato, si ottengono mezzi che possono essere utilizzati a vantaggio dello sviluppo pianificato degli investimenti nell'industria, particolarmente nell'industria pesante. In questo modo i mezzi di produzione (le capacità produttive) dell'industria, soprattutto dell'industria pesante, aumentano in modo straordinariamente rapido a spese, principalmente, dell'agricoltura e dei servizi. Anche la manodopera viene redistribuita, attraverso misure pianificate e dirigiste, a vantaggio della produzione industriale. La manodopera necessaria per l'industria viene prelevata anzitutto dall'agricoltura e tra le donne non occupate. Per un certo periodo questo accrescimento pianificato ed estensivo dei fattori produttivi nell'industria rende possibile un incremento estremamente rapido della produzione industriale. In questa fase di crescita estensiva la propaganda ufficiale esalta solo i vantaggi del sistema sovietico di pianificazione, di cui vengono ignorati intenzionalmente i difetti, che sono invece presenti fin dagli inizi. I vantaggi consistono appunto nel fatto che, attraverso una redistribuzione pianificata delle risorse da parte dello Stato, si può raggiungere un certo livello di sviluppo più rapidamente di quanto si riesca a fare in un'economia senza pianificazione centrale. Una crescita estensiva di questo tipo è possibile tuttavia soltanto fino a quando nell'industria possono aumentare rapidamente la manodopera e i mezzi d'investimento. Da un certo momento in poi non è più possibile continuare a sottrarre manodopera all'agricoltura (se non la si vuole completamente distruggere) e anche le riserve di manodopera d'altro tipo tendono a esaurirsi. Inoltre i mezzi d'investimento non possono più essere utilizzati solo a vantaggio dell'industria e quindi anche la sua crescita estensiva deve essere limitata. Da quel momento, per poter sostenere una crescita ulteriore della produzione nel suo complesso, diventano sempre più importanti i fattori di crescita intensiva. Fattori di crescita intensiva sono anzitutto il progresso tecnico, che è alla base di un rapido incremento della produzione, nonché tutti quei metodi che conducono a uno sfruttamento più efficace dei fattori produttivi esistenti e alla riduzione delle perdite economiche non giustificate. Dal momento in cui diventa sempre più difficile la crescita estensiva e i fattori di crescita intensiva assumono importanza decisiva e questo avviene in momenti diversi nei singoli paesi - cominciano a manifestarsi con grande evidenza i difetti del dirigismo della pianificazione sovietica: anzitutto il fatto che con questo sistema di pianificazione non si riesce ad assicurare una crescita intensiva e il progresso tecnico e l'efficienza economica rimangono assai indietro rispetto ai ritmi di sviluppo dei paesi industriali a economia di mercato. La breve esposizione critica che segue dei difetti del sistema sovietico di pianificazione, così come la descrizione della maggior parte dei tentativi di riforma che son stati fatti, servirà a dimostrare analiticamente come la pianificazione dirigista non sia in grado di sostituire con successo il meccanismo del mercato. 2. Difetti del dirigismo del sistema sovietico di pianificazione L'elencazione dei difetti del sistema deve aprirsi con la descrizione delle carenze nelle informazioni che affluiscono presso l'ufficio centrale della pianificazione, che occupa una posizione decisiva nella pianificazione sovietica. Questo ufficio è costretto a lavorare sulla base di informazioni insufficienti e di conoscenze difettose, in quanto può ricevere i dati relativi alle prospettive di sviluppo solo dagli organi delle imprese e dei settori industriali; quindi in una forma molto sintetica, senza possibilità di verifiche puntuali e, salvo poche eccezioni, riuscendo a elaborare solo obiettivi di elevata aggregazione. Più oltre si vedrà perché, sull'altro versante, le imprese e i settori non hanno alcun interesse a fornire agli organi centrali informazioni realistiche sulle loro possibilità di produzione ottimale. A causa delle informazioni incerte o deformate provenienti dalle imprese, l'ufficio centrale della pianificazione è costretto quindi a lavorare all'elaborazione del piano con forti condizionamenti. 1. Non può individuare quali potenziali cambiamenti qualitativi nella tecnica e nelle tecnologie produttive delle singole imprese e dei settori industriali sarebbero vantaggiosi e porterebbero a un miglioramento dell'efficienza produttiva (rapporto tra volume della produzione e costi degli investimenti, dei materiali e del lavoro). 2. Non può calcolare e confrontare la redditività di diverse alternative d'investimento, in quanto i piani relativi sono definiti senza calcolarne la redditività, solo in base alla copertura dei fabbisogni. In mancanza di un calcolo della redditività degli investimenti, può accadere che per ottenere un dato incremento dei guadagni si investa molto più del necessario, a scapito di un incremento dei consumi. 3. Essendovi migliaia di beni, non può programmare per ciascun bene il livello di produzione necessario per soddisfare i fabbisogni reali. Eccezion fatta per un numero limitato di beni più importanti, nei piani si stabilisce solo l'incremento relativo a vasti aggregati di beni, il che non garantisce l'effettiva copertura dei fabbisogni. 4. Non può stabilire il livello ottimale dei fattori di produzione (mezzi di produzione e lavoro) necessario per produrre singoli beni o gruppi di beni, e quindi nemmeno i costi di produzione ottimali. L'impiego di materiali, energia e lavoro utilizzati per raggiungere un dato volume di consumi risulta perciò inutilmente elevato. Riassumendo si può dire che un organo centrale della pianificazione non è in grado di assicurare lo sviluppo ottimale della produzione dei singoli beni, attraverso cui soddisfare i bisogni dei consumatori (individui, imprese, enti), garantendo nello stesso tempo l'utilizzazione più efficiente dei fattori di produzione e il loro sviluppo qualitativo (v. Šik, 1973, pp. 130 ss.). Da parte loro le imprese, nelle quali i livelli di produzione devono essere stabiliti in termini concreti, non sono interessate a uno sviluppo della produzione efficace, innovativo e orientato secondo i bisogni, e nemmeno possono esservi costrette, appunto perché l'ufficio della pianificazione non dispone di dati concreti. Per questo si tenta di stimolare le imprese a uno sviluppo ottimale della produzione, non solo con incitamenti politici e morali, ma anche con incentivi materiali. Non conoscendo però le possibilità di sviluppo ottimale della produzione nelle singole imprese, l'organo centrale della pianificazione può ricompensarle solo per il raggiungimento degli obiettivi produttivi inseriti nel piano in base alle informazioni ricevute dalle imprese stesse. L'ufficio della pianificazione, che non si fida delle informazioni trasmesse, aumenta e intensifica questi obiettivi, senza però poterli commisurare alle possibilità reali. Le imprese non sono interessate a uno sviluppo ottimale, come si è detto, perché sono state eliminate le motivazioni connesse al meccanismo di mercato, motivazioni che gli incentivi programmati non possono sostituire (ibid., pp, 69 ss.). La soppressione dei meccanismi di mercato è stata effettuata per motivi ideologici ed è caratterizzata da tre aspetti salienti. 1. Al posto dei prezzi di mercato sono stati introdotti i prezzi amministrati, cioè stabiliti dallo Stato. Questi prezzi, fissati da un'autorità centrale di controllo, non possono riflettere il rapporto continuamente mutevole tra offerta e domanda, non sono il risultato di un confronto tra l'interesse dei produttori e quello dei consumatori, e non inducono i primi né a una ricerca del profitto nè a una copertura elastica della domanda. 2. La crescita dei redditi è stata separata dai risultati di mercato. I redditi delle imprese (salari e profitti) non dipendono dai risultati di mercato, ma dall'adempimento formale dei piani. Le imprese possono quindi raggiungere gli obiettivi globali del piano anche nel caso in cui la produzione non corrisponda alla domanda. Essendovi una forte eccedenza di potere d'acquisto non soddisfatto, esse possono senza difficoltà smerciare tutti i prodotti, anche quelli che non appaiono necessari e non sono qualitativamente soddisfacenti. 3. Non c'è alcuna concorrenza tra le imprese di uno stesso settore e la produzione si svolge quindi in condizioni di assoluto monopolio, in quanto le imprese sono sempre subordinate a un organo settoriale che divide tra loro i compiti produttivi. In tali condizioni le imprese non sono costrette né ad aumentare la loro efficienza né a progredire sul piano qualitativo e tecnologico. Esse tentano, al contrario, di massimizzare le entrate con un minimo di cambiamenti e di sforzi innovativi, ricorrendo anche alla mera produzione di scorte. Il risultato complessivo di questo sistema di pianificazione è uno sviluppo della produzione che non è in grado di soddisfare la domanda e di eliminare le carenze dell'offerta. Questa realtà emerge chiaramente dalle file davanti ai negozi, dalle grandi perdite di consumi, dallo sviluppo del mercato nero, dalla corruzione e dai furti di massa nelle imprese. La scarsa efficienza economica ha per conseguenza che il consumo pro capite, sia privato che pubblico, nei paesi socialisti è continuamente inferiore rispetto a quello dei paesi che prima della rivoluzione socialista erano alloro stesso livello (v. Šik, Vergleiche..., 1985). Nonostante le scarse possibilità d'informazione, la coscienza di questi risultati negativi penetra tra la popolazione dei singoli paesi, provocando scontento e creando le premesse dei diversi tentativi di riforma. 3. La riforma del sistema iugoslavo La Iugoslavia è stata il primo paese socialista in cui si è realizzata una fondamentale riforma del sistema economico, un sistema inizialmente ricalcato su quello sovietico, dal quale aveva ripreso, quindi, anche il modello di pianificazione che ne era parte integrante. Questa riforma non fu il risultato di una lunga preparazione teorica, ma dell'improvvisa rottura, nel 1948, tra il PC dell'URSS, seguito dalla maggior parte degli altri partiti comunisti, e il Partito Comunista Iugoslavo. Dopo la sospensione di tutte le forniture economiche (merci, crediti, tecnici, ecc.) alla Iugoslavia da parte dei paesi socialisti, la dirigenza politica iugoslava si vide costretta ad attuare, tra l'altro, una riforma del sistema economico capace di realizzare la mobilitazione di tutte le forze interne e lo spiegamento di una vasta iniziativa da parte delle imprese e dei lavoratori (v. Drulović, 1973, pp. 36 ss.). Sulla base di una critica sistematica del socialismo staliniano, di carattere prevalentemente politico, si fece strada, a poco a poco, la concezione originale di un sistema socialista basato sull'autogestione e sui rapporti di mercato, un sistema in forte contrasto con il criticato sistema ‛statalista'. Gli iugoslavi trovarono nei lavori di Marx sulla Comune di Parigi delle conferme per le loro tesi su associazioni di lavoratori decentrate e autogestite. Queste ultime furono concepite in contrapposizione alle imprese amministrate dall'alto dalla burocrazia statale e all'assetto economico molto centralizzato e gerarchico che già Lenin aveva attuato (e che si fondava prevalentemente sulle idee di Engels in materia di statalizzazione). Questo sistema basato sul lavoro associato, spesso designato brevemente come economia di mercato socialista, esercitò ai suoi inizi una forte attrazione su tutte le forze riformiste dei paesi socialisti, nonostante i duri attacchi delle forze staliniane di quegli stessi paesi. Nel sistema iugoslavo fu abolita la pianificazione centralizzata e dirigista perché si giunse alla conclusione che essa non permetteva uno sviluppo produttivo efficace e capace di soddisfare la domanda, e paralizzava altresì l'iniziativa dei collettivi di lavoro. Si tentò quindi di ristabilire il meccanismo del mercato, introducendo i prezzi di mercato e riconducendo lo sviluppo dei redditi all'andamento del mercato stesso, ma si conservò la proprietà socialista dei mezzi di produzione (non però nella sua forma statalista). In tutte le imprese (eccezion fatta per le piccole imprese private con meno di cinque dipendenti; v. Dobias, 1969, p. 76) i mezzi di produzione sono, secondo la Costituzione, proprietà di tutta la collettività e vengono dati in uso ai collettivi delle imprese autogestite (v. Horvat e altri, 1975, pp. 258 ss.). Le imprese non hanno solo il dovere di realizzare la più efficace utilizzazione dei mezzi produttivi, ma hanno anche un proprio interesse a farlo, perché possono appropriarsi e disporre dei profitti ricavati producendo per il mercato. Al posto della pianificazione dirigista è stata introdotta una sorta di pianificazione ‛indicativa', con l'aiuto della quale si sperava di poter meglio coordinare lo sviluppo della produzione e la crescita dei fabbisogni, prevenendo così la formazione di rilevanti squilibri e di perturbazioni economiche. I piani economici sono elaborati contemporaneamente dalle imprese, oppure dagli organismi autogestiti, e dagli organi dello Stato (comuni, repubbliche, federazione), cioè dai cosiddetti ‛portatori primari' delle finalità del piano, con l'aiuto dei ‛portatori secondari' (camere di commercio o di altri settori produttivi, organizzazioni politiche e sindacali, ecc.; v. Kleinewefers, 1985, pp. 236 ss.). Questi piani assolvono una funzione sia di previsione che di coordinamento, attraverso i contratti e gli accordi stipulati tra i partecipanti al piano; allo stesso tempo costituiscono la base vincolante della politica economica dei governi sia della federazione che delle singole repubbliche. I governi non possono imporre alle imprese né vincoli di produzione o di investimento, né forme prestabilite di ripartizione o di utilizzazione dei redditi. Come le altre organizzazioni politiche, essi possono certo raccomandare il perseguimento di determinati indirizzi, ma le organizzazioni autogestite sono le uniche responsabili delle decisioni in materia di produzione e distribuzione delle risorse. Questo vuol dire che, in ultima analisi, le organizzazioni autogestite stabiliscono anche quale parte delle loro entrate nette (detratte le tasse e gli altri contributi) debba essere impiegata per scopi collettivi (investimenti, fondi di riserva, consumi sociali) e quale invece debba essere destinata ai salari. L'introduzione del sistema di mercato nell'economia iugoslava ha determinato nelle imprese una maggiore iniziativa e un accentuato interesse per il mercato stesso, che si sono manifestati in una diversificazione della produzione assai maggiore di quella che si è registrata nei paesi in cui si applica la pianificazione dirigista. Allo stesso tempo, però, i difetti di fondo del nuovo modello di pianificazione e della politica economica, e soprattutto le incoerenze nella realizzazione del meccanismo di mercato, hanno creato al paese gravi problemi economici. Un grave limite della pianificazione e della politica economica iugoslava deriva anzitutto dal fatto che la ripartizione tra i redditi destinati al consumo e quelli destinati agli investimenti, così come lo sviluppo creditizio, non sono determinati in misura sufficiente dalla pianificazione centrale e dalla politica economica dello Stato (v. Šik, Vergleiche..., 1985, pp. 51 ss.). L'eccessiva decentralizzazione di questi processi ha avuto come conseguenza un abnorme aumento dell'inflazione (v. Dietz e altri, 1984, pp. 262 ss.). Una spinta al consumo eccezionalmente forte, e che non può essere frenata da nessun interesse opposto, induce le imprese ad aumenti esagerati di redditi e di prezzi. La mancanza di una distinzione tra salari dei lavoratori e loro partecipazione agli utili è frutto di un condizionamento ideologico e deve essere considerata come un errore di fondo del sistema iugoslavo. Senza salari chiaramente definiti non può essere realizzato, nell'ambito dell'intera economia nazionale, l'importante principio ‛uguale salario per uguale lavoro', il che non può che essere considerato dai lavoratori come ingiusto. L'interesse, altrettanto necessario, per lo sviluppo dell'efficienza produttiva dell'impresa nel suo complesso dovrebbe essere garantito attraverso forme di partecipazione agli utili nettamente distinte dal salario. Attraverso una crescita pianificata dei salari e dei coefficienti di partecipazione agli utili si sarebbe potuto affrontare più efficacemente l'aumento dell'inflazione. L'inflazione è aumentata ancora più rapidamente a causa della concorrenza insufficiente e dello sviluppo di tendenze monopolistiche. Attraverso un'espansione del credito non sufficientemente regolata dallo Stato (con accensione di crediti sia nazionali che esteri) si è continuato a incrementare esageratamente la massa creditizia e quella monetaria e si è pervenuti a un incremento dei redditi nominali notevolmente più rapido rispetto alla crescita della produzione reale, creando così le premesse per un'inflazione galoppante. Per frenare l'inflazione si sono cominciati a praticare il congelamento e la regolamentazione dei prezzi (v. Dobias, 1969, pp. 86 ss.), condizionando così pesantemente il funzionamento dei meccanismi del mercato. In modo particolare, su questo meccanismo incide una protezione non ufficiale dei mercati delle singole repubbliche, dovuta al fatto che le imprese e gli altri enti acquistano merci prevalentemente nell'ambito della produzione delle rispettive repubbliche. La concorrenza così si riduce e si stimolano ulteriormente atteggiamenti monopolistici e tendenze inflazionistiche. Conseguenze ancor più durature sui meccanismi del mercato ha avuto la politica di sovvenzioni largamente praticata dai governi delle repubbliche che, per paura della crescente disoccupazione, hanno aiutato e aiutano tutte le imprese afflitte da difficoltà economiche. Le imprese iugoslave continuano a impiegare un gran numero di lavoratori superflui, mentre sono del tutto insufficienti gli investimenti idonei a determinare un progresso tecnologico che consenta un risparmio di forza lavoro. Allo stesso tempo, le cause principali della disoccupazione iugoslava sono: scarsa quantità d'investimenti destinati all'ampliamento della produzione, con i quali si potrebbero creare nuovi posti di lavoro, e insufficiente progresso tecnico, che permetterebbe invece alla produzione iugoslava di diventare più competitiva e di rendere di più, determinando anche in questo modo un aumento del reddito pro capite dei capitali da investire. Le cause dell'insufficiente sviluppo degli investimenti, sia sul piano quantitativo che qualitativo, vanno ricercate nei due difetti del sistema, apparentemente opposti e già menzionati: a) troppo poca pianificazione e troppo poco controllo nella ripartizione funzionale dei redditi (divisione tra salari, utili e forme di redistribuzione, dai quali traggono origine i redditi finali di consumo e di investimento); b) troppo poca pressione sulle imprese da parte del mercato e della concorrenza. In Iugoslavia, quindi, si consuma troppo in rapporto alle reali capacità produttive, così che le risorse effettive non bastano per realizzare maggiori investimenti. Questi vengono incrementati nominalmente, in modo artificiale, attingendo a un eccessivo volume di crediti (che porta solo ad accelerare l'inflazione), mentre in realtà sono inadeguati per creare quei nuovi posti di lavoro che sarebbero effettivamente necessari (v. Dietz e altri, 1984, p. 263). Per un altro verso gli organi burocratici dello Stato portano avanti grandi progetti d'investimento, dispendiosi ma poco efficienti, spesso eccessivi e non abbastanza ponderati, che non fruttano profitti adeguati e che, di conseguenza, alimentano anch'essi l'inflazione (v. Dobias, 1969, p. 100). L'attività imprenditoriale privata, che avrebbe certamente portato a uno sviluppo più efficace degli investimenti e della produzione, è invece frenata o resa impraticabile per motivi ideologici. Pertanto le difficoltà si presentano sotto due aspetti. Da un lato si ha uno sviluppo troppo limitato o inefficace degli investimenti, che è da attribuire al fatto che la ripartizione autonoma dei redditi nell'ambito delle imprese permette partecipazioni individuali agli utili relativamente troppo elevate (anche perchè è possibile procurarsi i mezzi per gli investimenti in modo troppo facile, ricorrendo all'espansione inflazionistica dei crediti). Dove manca l'interesse capitalistico al profitto come contropartita agli interessi unilaterali per i salari e dove, di conseguenza, lo sviluppo degli investimenti diventa troppo lento rispetto allo sviluppo dei consumi, là dovrebbe intervenire una regolazione pianificata della crescita dei salari (politica dei redditi) per assicurare per via indiretta i capitali necessari per lo sviluppo degli investimenti. Nello stesso tempo per questa via si potrebbe, per mezzo della politica dei redditi, della politica creditizia e della politica monetaria, limitare l'eccedenza della domanda, cioè del cosiddetto ‛mercato dei venditori', e aumentare la spinta all'efficienza delle imprese. Dall'altro lato un'introduzione non coerente del meccanismo del mercato determina uno scarso interesse delle imprese per l'efficienza produttiva. Per questo si sarebbe dovuto favorire una maggiore pressione della concorrenza sulle imprese, capace di determinare sviluppi tecnici più efficaci. Questo però richiede l'abbandono della politica di sovvenzioni generalizzate, per cui tutte le imprese deboli e arretrate vengono continuamente risanate. In questa prospettiva dovrebbe essere abbandonata anche la protezione dei mercati delle singole repubbliche e si dovrebbero introdurre misure più decise contro le forme di monopolio della produzione e della vendita. Allo stesso tempo, al posto di molte decisioni statali d'investimento, poco sicure in termini d'efficienza, dovrebbe essere incentivata l'attività imprenditoriale privata (come accade per es. in Ungheria). Infine - di pari passo con l'incoraggiamento della concorrenza e anche con la contrazione del mercato dei venditori - si dovrebbe nuovamente incrementare la libera formazione dei prezzi di mercato. In conclusione, si può dire che la sottovalutazione della pianificazione funzionale della distribuzione, un'eccessiva decentralizzazione delle decisioni economiche, come anche alcune fondamentali incoerenze e mezze misure nell'introduzione del meccanismo di mercato hanno vanificato i potenziali vantaggi del sistema iugoslavo. Malgrado questi difetti di fondo, la riforma iugoslava ha indicato per la prima volta nuove possibilità di sviluppo del sistema economico socialista. Gli errori hanno certo impedito al sistema iugoslavo di diventare un esempio di modello socialista alternativo, ma la reintroduzione del meccanismo di mercato, l'autogestione e l'eliminazione della pianificazione dirigista hanno rappresentato punti di riferimento illuminanti per i tentativi di riforma di molti altri paesi socialisti. 4. Le idee di riforma in Cecoslovacchia Lo sviluppo delle idee di riforma in Cecoslovacchia è caratterizzato anzitutto da una fase di preparazione teorica molto lunga, anche se la teoria non ha avuto poi modo di verificarsi nella prassi. La preparazione teorica di un nuovo modello economico socialista prese l'avvio, in sostanza, già nel 1958 e fu portata avanti, dal 1963 fino al 1968, attraverso il lavoro di un'apposita commissione di riforma. Anche dopo l'invasione militare della Cecoslovacchia e la conseguente repressione politica delle prime iniziative di riforma, con il ripristino del vecchio sistema di pianificazione dirigista, la teoria riformatrice fu ulteriormente sviluppata dagli economisti cechi emigrati all'estero. Le idee di riforma cecoslovacche si muovono in parallelo con la riforma iugoslava, nel senso che anch'esse mirano a stabilire un collegamento tra pianificazione e mercato, conservando forme di proprietà prevalentemente socialiste. I riformatori cecoslovacchi hanno tentato però fin dagli inizi di imparare dalle carenze dello sviluppo iugoslavo e di evitare il prodursi di distorsioni connesse al sistema. Bisogna anche aggiungere che l'odierna critica dei difetti del sistema iugoslavo va molto più in profondità di quanto non si potesse andare nel 1968 e che, nel caso di un'attuazione pratica della riforma in Cecoslovacchia nel 1968, con ogni probabilità non si sarebbe riusciti a evitare una parte degli errori della riforma iugoslava. È stato comunque importante lo sforzo reale messo in atto per istituire un sistema aperto e introdurre una democrazia politica pluralista, condizioni che avrebbero facilitato la critica e il superamento degli errori individuati nell'ambito del sistema economico. Le idee più importanti dei riformatori cecoslovacchi erano e sono tuttora quelle sotto elencate (v. anche Šik, Vergleiche..., 1985). 1. Eliminata la pianificazione dirigista, si deve passare a una pianificazione orientativa, designata anche come ‟pianificazione macroeconomica della distribuzione", che porti a scegliere democraticamente tra alcune opzioni alternative. 2. L'introduzione dei prezzi di mercato non può avvenire dall'oggi al domani, ma deve procedere gradualmente attraverso il ricorso a vari meccanismi di formazione dei prezzi (prezzi imposti dal centro, prezzi controllati, prezzi liberi). 3. Si deve introdurre una forma di concorrenza legata al mercato, adottando coerenti misure antimonopolistiche e approfondendo la trasparenza del mercato stesso. 4. Il commercio estero deve essere gradualmente liberalizzato, con l'obiettivo d'introdurre una valuta convertibile e il libero commercio delle divise. 5. La distribuzione dei redditi e lo sviluppo dei crediti e della massa monetaria devono essere regolati dal centro per evitare inflazione e crisi economiche. 6. Vanno sviluppati organi di autogestione all'interno delle imprese, scelti attraverso un confronto pluralistico e gestiti democraticamente attraverso gruppi di lavoro autonomi. 7. I fondi di partecipazione agli utili per i lavoratori devono essere disciplinati da norme di carattere generale e nelle imprese devono essere istituiti dei centri di gestione degli utili facilmente controllabili. 8. L'attività imprenditoriale privata va stimolata senza restrizioni per quanto riguarda il numero dei lavoratori impiegati, ma con un prelievo degli utili dalle imprese regolato indirettamente e attuato dagli imprenditori stessi. La novità più importante nella strategia delle riforme è certamente costituita dalla pianificazione della macrodistribuzione, con una distribuzione regolata dei redditi e dello sviluppo creditizio, il cui scopo è anzitutto quello di impedire squilibri macroeconomici e oscillazioni cicliche congiunturali che provocano crisi economiche e disoccupazione di massa (v. Šik, Zur Problematik ..., 1985). Allo stesso tempo, però, si dovrebbe anche dare alla popolazione la possibilità di scegliere democraticamente, tra due o tre piani alternativi, un piano di sviluppo socioeconomico a medio termine. Per far ciò si dovrebbero elaborare diverse ipotesi evolutive dello sviluppo, con combinazioni differenti di obiettivi socioeconomici, quali, per esempio, un accrescimento dei consumi privati, un incremento nel soddisfacimento del fabbisogno pubblico, una certa crescita degli investimenti e della produzione, una riduzione dell'orario di lavoro e una nuova organizzazione del tempo libero, preservazione e miglioramento dell'ambiente, ecc. In quanto promossi e appoggiati da partiti politici diversi, questi progetti dovrebbero essere sottoposti al vaglio popolare in occasione delle elezioni politiche. La pianificazione della macrodistribuzione avrebbe per le imprese solo un carattere indicativo e potrebbe essere realizzata mediante una politica economica chiara e coordinata: una politica fiscale, dei redditi, creditizia, monetaria e del commercio estero. Il meccanismo del mercato non verrebbe limitato da una politica economica di questo tipo; l'autonomia delle imprese nelle decisioni di investimento e di produzione sarebbe pienamente preservata e un rigoroso sostegno della concorrenza, attraverso opportuni interventi antimonopolistici, renderebbe tale meccanismo ancora più funzionale. Soltanto lo sviluppo dei salari medi, delle partecipazioni dei lavoratori agli utili e delle remunerazioni degli imprenditori (prelievi dagli utili), come pure la ripartizione dei crediti tra investimenti e consumi, sarebbero soggetti a una regolazione pianificata (politica dei redditi e politica creditizia), sempre in conformità del piano di macrodistribuzione democraticamente scelto. Questo modello di un'economia di mercato democratica, umana e socialista può essere considerato come il risultato teorico dello sviluppo della riforma cecoslovacca: una possibile evoluzione in questa direzione è stata designata anche come ‟terza via". Nel corso di questi ultimi anni sono state portate avanti delle riforme che s'avvicinano agli obiettivi di questo modello o che ne sono in parte influenzate: si tratta in particolare delle iniziative riformatrici avviate in Ungheria e in Cina. 5. Lo sviluppo della riforma in Ungheria La riforma ungherese tende a realizzare un modello economico simile a quello che perseguivano i riformatori cecoslovacchi fino alla repressione della ‛primavera di Praga'. La differenza più importante sta però nel fatto che in Ungheria, non da ultimo a causa delle esperienze fatte in Cecoslovacchia, non si punta ad attuare cambiamenti essenziali del sistema politico nè a introdurre forme di autogestione. Nel quadro del tradizionale sistema comunista a partito unico vengono realizzati mutamenti abbastanza sostanziali del sistema economico che però, appunto a causa degli ostacoli politici, in molti campi portano a compromessi incoerenti con il precedente sistema a pianificazione dirigista. Proprio alla luce dell'andamento politico si deve valutare la differenza tra gli obiettivi di riforma perseguiti o ufficialmente decisi e la prassi reale, sottoposta costantemente anche all'influsso delle forze burocratiche (v. Friedländer, 1984, pp. 74 ss.). La pianificazione dirigista della produzione è stata ufficialmente abolita e le imprese devono programmare autonomamente i propri livelli di produzione e di investimento secondo le esigenze del mercato. Lo sviluppo autonomo degli investimenti sulla base dei redditi delle imprese è tuttavia ancora frenato dai prelievi relativamente troppo elevati effettuati dallo Stato; le decisioni statali d'investimento non riguardano solo i servizi sociali, ma anche la produzione per il mercato. Questo è considerato dai riformatori economici come un fenomeno di transizione dovuto al fatto che il sistema dei prezzi riflette in modo ancora insufficiente la realtà del mercato. In questo modo, però, si limita fortemente la responsabilità delle imprese rispetto a uno sviluppo autonomo della produzione orientato secondo le effettive richieste del mercato. Una notevole indipendenza hanno raggiunto invece le cooperative agricole, che in molti campi sono completamente libere dai vincoli del piano e soprattutto non sono più soggette a rispettare determinati livelli di produzione e di vendita in natura. La produzione agricola e il livello di vita della popolazione delle campagne sono cresciuti in maniera notevole. Si cerca di attuare un passaggio graduale ai prezzi di mercato utilizzando meccanismi differenziali di formazione dei prezzi (prezzi fissati dallo Stato, prezzi controllati, prezzi liberi): il criterio decisivo per la determinazione dei prezzi da parte dello Stato, che interessa la maggior parte dei casi, è dato dal rapporto con i prezzi praticati sul mercati occidentali. Nel nuovo sistema ‛competitivo' i prezzi sono assai più elastici di quanto non fossero con il vecchio sistema, ma la loro determinazione da parte dello Stato non riesce a riprodurre sufficientemente il reale rapporto tra l'evoluzione della domanda e dell'offerta sul mercato interno; inoltre, a causa della vecchia organizzazione statale monopolistica, solo in parte soppressa, anche la concorrenza sul mercato interno risulta troppo debole (v. Czege, 1984, p. 15; v. Friedländer, 1984, pp. 40 ss.). Le carenze nel campo degli investimenti, della formazione dei prezzi e della concorrenza hanno come conseguenza che i cambiamenti strutturali legati all'evoluzione della domanda, l'attività innovatrice e lo sforzo di efficienza produttiva non si sono ancora sviluppati in modo soddisfacente. I problemi che esistono negli approvvigionamenti, le perdite di efficienza e soprattutto le difficoltà di esportazione e l'indebitamento estero determinano continue ricadute nei vecchi metodi burocratici di conduzione e di tutela statale e amministrativa delle imprese; tali metodi sono anche espressione degli interessi di potere della burocrazia, che non sono del tutto superati né all'interno dell'apparato statale né all'interno dell'apparato del partito. Nonostante queste difficoltà, le forze riformatrici cercano comunque nuove vie per stimolare la concorrenza, nell'intento soprattutto di aumentare la pressione del mercato per una maggiore efficienza produttiva delle imprese. Nel campo della politica creditizia e dell'allocazione delle risorse sono state già realizzate, o sono in via di preparazione, importanti novità. Per accrescere la mobilità dei capitali, il sistema bancario è stato modernizzato con la costituzione di banche commerciali indipendenti interessate all'efficienza; sono state costituite società di leasing e anche determinate forme di società per azioni, come ad esempio società per azioni a responsabilità limitata, attraverso le quali si convogliano i risparmi verso lo sviluppo della produzione; il sistema del cambio è stato reso più flessibile. Queste e altre misure contribuiscono al migliore funzionamento del meccanismo di mercato. Il sostegno all'attività imprenditoriale privata e alle imprese cooperative o a economia mista contribuisce a sviluppare la concorrenza, mentre la cooperazione delle imprese nazionali con quelle straniere si estende con successo; nella misura in cui crescerà la pressione del mercato dovrebbero diminuire parallelamente gli interventi statali. Particolarmente importante sarebbe la diminuzione delle sovvenzioni statali alle imprese in difficoltà, un fenomeno che in Ungheria riveste ancora dimensioni rilevanti. La convinzione fin qui radicata nelle imprese, che in caso di non redditività non saranno abbandonate dallo Stato, ha minato fortemente il loro sforzo di efficienza. Attualmente è però in corso di preparazione una legge che dovrebbe disciplinare i fallimenti e facilitare la chiusura delle imprese non redditizie. Attraverso programmi a lungo termine e piani a medio termine la pianificazione ungherese tende a determinare alcune grandezze macroeconomiche (incremento del reddito nazionale, del consumo privato e pubblico, degli investimenti, del commercio con l'estero, ecc.) da raggiungere con l'aiuto degli strumenti della politica economica (senza contare le residue misure amministrative). A differenza di quanto avviene in Iugoslavia, in Ungheria si cerca di raggiungere determinati livelli nei consumi e negli investimenti utilizzando regole pianificate dal centro per la ripartizione dei redditi nelle imprese: attraverso un determinato meccanismo di calcolo, la crescita dei salari è legata al rendimento produttivo delle imprese; detratte le imposte, i contributi e le maggiorazioni salariali, i profitti netti possono essere utilizzati dalle imprese stesse per riserve e per investimenti (v. Friedländer, 1984, pp. 24 ss.). Questo controllo indiretto dello sviluppo degli investimenti attraverso la regolazione della crescita salariale (e con questo, indirettamente, anche dei consumi privati) è uno dei presupposti fondamentali per una conduzione pianificata dell'economia e per la prevenzione delle crisi economiche. In Ungheria rimane problematica tuttavia la mancata distinzione tra salari e partecipazioni agli utili, giacché le quote di utili conteggiate sono direttamente aggiunte ai salari (secondo la formula salariale) e il livello dei salari nelle varie imprese deve, di anno in anno, andare sempre più alla deriva; non si distingue inoltre tra le necessarie differenze salariali tra le diverse professioni o attività e i risultati ottenuti dalle imprese sul mercato. In questo modo viene negato il giusto principio ‛lo stesso salario per lo stesso lavoro', il che può implicare per il futuro grandi difficoltà economiche. Una partecipazione dei lavoratori agli utili chiaramente distinta dal salario base e calcolata anno per anno in rapporto ai guadagni realizzati garantirebbe meglio il necessario interesse dei lavoratori alla maggiore efficienza delle imprese, senza ledere il principio della retribuzione secondo il lavoro. Tra gli obiettivi dei riformatori ungheresi c'è anche quello di una democratizzazione delle imprese con una partecipazione dei lavoratori alla scelta dei dirigenti e una codeterminazione degli indirizzi aziendali a lungo e medio termine. Infatti, quando i lavoratori sono chiamati a sperimentare direttamente e concretamente, attraverso la partecipazione agli utili, le conseguenze delle scelte fondamentali o delle capacità di gestione dei managers, devono avere anche la possibilità di dire la loro sulla scelta o sull'allontanamento di questi ultimi e sulle decisioni fondamentali in merito allo sviluppo dell'impresa. I riformatori ungheresi sono consapevoli di questa realtà e i primi passi in questa direzione sono già stati fatti con la creazione di consigli d'azienda elettivi e con i diritti di cogestione o, nel caso di imprese fino a 500 lavoratori, di direzioni d'azienda elettive. Tuttavia l'opposizione della vecchia burocrazia ministeriale contro questa evoluzione è particolarmente forte. Nonostante i persistenti vincoli burocratici, le incoerenze politiche e i molteplici residui dell'antica pianificazione dirigista, il modello di pianificazione socialista ungherese si deve considerare come quello che ha ottenuto il miglior successo. Le difficoltà che deve superare l'economia ungherese nel presente sono notevolmente minori di quelle iugoslave: esse sono causate non tanto dai difetti del sistema scelto, quanto dalle incoerenze già indicate, dalla concorrenza ancora troppo limitata e dalle attuali difficili condizioni sui mercati esteri. I riformatori ungheresi dell'economia, nella teoria e nella prassi, procedono con decisione sulla via intrapresa (v. Direttive..., 1985) e c'è da aspettarsi che saranno in grado se non interverranno contraccolpi politici - di superare molte delle difficoltà sopra menzionate. 6. Altri sviluppi del sistema socialista di pianificazione Occorre distinguere tra due forme di sviluppo qualitativamente diverse del sistema socialista di pianificazione. Una prima forma in cui si cerca di eliminare l'errore fondamentale della pianificazione dirigista sovietica, cioè la sua incapacità di sostituirsi effettivamente al meccanismo del mercato, attraverso riforme miranti a reintrodurlo. Una seconda forma in cui si tenta, per motivi ideologici e di potere, di conservare la pianificazione dirigista senza il meccanismo del mercato, migliorandola però con piccole correzioni soprattutto di metodo o di carattere organizzativo. Al primo gruppo appartengono le riforme già descritte, attuate in Iugoslavia e in Ungheria. A queste riforme s'avvicina anche, per quanto concerne alcuni dei suoi obiettivi, lo sviluppo della riforma cinese, che conserva peraltro a questo riguardo parecchi punti poco chiari. Questa riforma non sarà qui esaminata approfonditamente, sebbene rivesta un'immensa importanza politica non solo per la Cina, ma anche per il mondo intero, socialista e non. Essa, tuttavia, ha finora prodotto alcune forme di collegamento tra piano e mercato tali da suscitare il timore che gli eccessivi controlli esercitati sulle imprese per altre vie rendano impossibile un'effettiva affermazione della loro autonomia, guidata soltanto dal mercato. In Cina si dovrà eliminare gradualmente dalle imprese il carattere dirigista del piano espresso in termini di economia naturale, mentre andrà stimolata la produzione delle merci ai prezzi di mercato (v. Risoluzione del Comitato centrale..., 1984); nello stesso tempo dovrà essere perfezionato il sistema di distribuzione e di controllo dei settori monetario e creditizio, in quanto l'economia finanziaria delle imprese risulta ancora oggi fortemente limitata. Oltre quanto viene prelevato attraverso le imposte, occorre raccogliere dalle imprese anche le quote di accantonamento e il denaro liquido per convogliarli in un nuovo sistema di banche - regionali, locali e d'impresa - e distribuirli sotto forma di crediti in base ai piani centrali e periferici. I piani elaborati non avranno più un carattere vincolante espresso in termini di economia naturale, ma saranno formulati secondo grandezze di valore. In questo modo i criteri d'efficienza, i tempi di recupero dei crediti, l'onere per gli interessi, ecc. potranno influire sull'assegnazione dei crediti stessi (v. Pillath, 1985, pp. 27 ss.). Analogamente a quanto avviene in Iugoslavia, i piani devono essere rafforzati attraverso un sistema di accordi tra produttori e organi economici in merito alla gestione dell'economia, al commercio, alle banche e all'assetto finanziario; in questo sistema di accordi, tuttavia, gli interessi dei differenti poteri politici regionali, locali e istituzionali - possono risultare più forti dei criteri di efficienza indicati dal mercato (ibid., pp. 40 ss.). Quando le banche non sono interessate, oltre che alla distribuzione degli utili ai propri collaboratori, anche all'assegnazione dei crediti secondo criteri di efficienza e non operano esse stesse in un regime di concorrenza, c'è il pericolo che la distribuzione dei crediti, e di conseguenza lo sviluppo della produzione, possano di nuovo per vie traverse e attraverso decisioni burocratiche prendere una direzione non conforme alle esigenze del mercato. A prescindere da questi incerti meccanismi di pianificazione finanziaria, lo sviluppo dei rapporti di mercato in Cina si scontra ancora con forti ostacoli obiettivi (v. Scharping, 1984). In mancanza di una sufficiente ‛tradizione di mercato' le grandi imprese industriali, che si sono formate durante il periodo del socialismo reale, avranno bisogno di molto tempo prima di essere in grado di sviluppare una produzione effettivamente elastica secondo gli orientamenti del mercato. Anche il dispiegamento di una reale concorrenza richiederà tempi assai lunghi dato che le possibilità di trasporto e di comunicazione sono molto limitate e che il peso del commercio estero sul mercato interno è, per il momento, assai ridotto. Per tutte queste ragioni ancora per lungo tempo una quota relativamente importante della produzione dovrà essere assicurata facendo ricorso a rigide scelte di piano e a prezzi fissati dallo Stato. Molto positiva e capace di stimolare il mercato è l'attività imprenditoriale privata che si sviluppa nell'ambito della produzione minore, dei servizi e del commercio, attività che in Cina sono fortemente sostenute. Questa situazione non contribuisce solo a un migliore approvvigionamento del mercato, ma anche a creare nuovi posti di lavoro. Particolare successo ha avuto poi la soppressione delle comuni agricole e la distribuzione dei terreni tra le singole famiglie contadine perché fossero utilizzati e coltivati secondo le loro autonome decisioni. I contadini devono fornire a prezzo fisso determinate quote di prodotto alle organizzazioni statali di commercio, ma possono utilizzare la produzione eccedente non solo per il consumo personale, bensì anche per venderla a prezzo libero sul mercato agricolo oppure alle organizzazioni commerciali. Ampio spazio è quindi concesso all'iniziativa imprenditoriale dei contadini e allo sviluppo di attività secondarie, il che porta a un rapido aumento dei redditi delle famiglie contadine. Vale anche per la Cina - e in misura maggiore di quanto non avvenga per i paesi dell'Europa orientale - la constatazione che l'ulteriore sviluppo della riforma non dipenderà solo dai livelli di conoscenza, dal contesto tecnico-economico e dai quadri, ma anzitutto dalla futura evoluzione politica. L'opposizione delle vecchie forze burocratiche non è interamente vinta ed è assai probabile che esse riescano a sfruttare politicamente le inevitabili difficoltà che comporta il passaggio alla produzione per il mercato. Saranno quindi estremamente importanti gli interventi per prevenire le spinte inflazionistiche e l'aumento della disoccupazione senza ricadere però nelle vecchie pastoie burocratiche. Questo è quanto si può dire a tutt'oggi a proposito delle riforme cinesi. Il loro inserimento tra le riforme del primo gruppo, quelle orientate verso il mercato, rimane ancora piuttosto incerto; perché il loro senso si chiarisca, bisognerà vedere se, in futuro, le imprese potranno prendere decisioni prevalentemente e autonomamente ispirate dalle leggi del mercato e se il mercato, sotto la pressione della concorrenza, diventerà un vero ‛mercato dei compratori'. 7. Tentativi di migliorare il sistema di pianificazione del socialismo reale Non è possibile al momento dire molto a proposito del secondo gruppo di riforme, con le quali si tenta di migliorare la pianificazione dirigista pur conservandone la sostanza, in quanto i miglioramenti sono ancora molto modesti e non possono eliminare il difetto fondamentale di questo tipo di pianificazione mentre, al contrario, aumentano spesso ulteriormente le contraddizioni del sistema. Questi tentativi di riforma, pur con notevoli differenze, sono applicati in tutti gli altri paesi socialisti non ancora esaminati (URSS, RDT, Polonia, Romania, Bulgaria, ecc.). La causa principale di tutti questi sforzi per tenere in piedi una scelta di pianificazione che escluda il meccanismo di mercato non è di natura scientifica, poiché in quasi tutti i paesi socialisti è nota e riconosciuta l'insostituibilità di tale meccanismo. Le posizioni di questo tipo, tuttavia, sono continuamente represse in quanto per la burocrazia di partito è in gioco un diretto interesse di potere a conservare il vecchio sistema di pianificazione nella sua sostanza organizzativa e istituzionale. Le carenze del sistema economico, tuttavia, sono talmente gravi che il dominio politico di questa burocrazia risulta sempre più insicuro e si è quindi costretti a realizzare continuamente piccoli cambiamenti nelle metodologie di pianificazione, nei modi d'incentivazione, nell'organizzazione delle imprese, ecc. In Cecoslovacchia, per esempio, nel 1980 sono stati approvati una serie d'interventi per il miglioramento della pianificazione economica; tuttavia, poiché questi interventi non portarono all'eliminazione dei tradizionali difetti nella pianificazione e nell'attuazione del piano, il partito e il governo, nel 1984, hanno predisposto un altro documento sull'ulteriore sviluppo di quel complesso di interventi (v. Direttive..., 1984). Anche questa riforma però e destinata a non portare alcun cambiamento sostanziale, in quanto anch'essa poggia soltanto su un'enorme quantità di piccole modifiche degli indici del piano e degli incentivi, che non sciolgono i nodi fondamentali del sistema di pianificazione socialista, cioè la carenza di informazioni in cui si trova a operare il centro di pianificazione e l'orientamento non economico che continua a guidare gli interessi delle imprese. Un primo esempio dell'inefficacia di queste modifiche si ebbe fin dal 1980 quando, con l'introduzione appunto degli interventi per il miglioramento della pianificazione economica, si assunse, al posto del ‛prodotto lordo', come indice principale della crescita della produzione e della produttività, il ‛prodotto netto', indicato come ‛rendimento proprio'. Dato che il prodotto lordo comprende anche il costo dei materiali e gli accantonamenti, le imprese, in passato, per realizzare gli obiettivi sempre più elevati del piano in ordine all'incremento del prodotto lordo (oppure della produttività del lavoro, calcolata sempre in riferimento a esso) preferivano prodotti ad alto costo di materiali, con sprechi sia di materiali che di investimenti. Con il nuovo indice, in cui dal prodotto lordo si detraggono i costi dei materiali e gli accantonamenti, non si favorisce più direttamente lo spreco di materiali, ma non si crea tuttavia nelle imprese alcun interesse diretto per una struttura produttiva adeguata ai bisogni. Le imprese produrranno quindi principalmente quei prodotti nei cui prezzi sono compresi margini di utile più elevati, dal momento che salari e profitti sono parti costitutive del prodotto netto (del nuovo valore creato). Poiché però i prezzi non sono prezzi di mercato e i margini di utile sono differenziati arbitrariamente e non riflettono l'evoluzione della domanda, i produttori continueranno a preferire prodotti che includono nel prezzo margini di utile più elevati e con i quali, quindi, potranno più facilmente corrispondere alle finalità del piano, indipendentemente dal fatto che tali prodotti siano o no utilizzati. Dato che esiste un ‛mercato dei venditori', essi non incontreranno comunque alcuna difficoltà per la vendita dei loro prodotti. Tutto il problema, oggi come in passato, consiste appunto nel fatto che l'interesse dei consumatori a fronte dell'interesse dei produttori può affermarsi solo nel caso di veri prezzi di mercato. Già nel caso di forti monopoli e oligopoli, nell'economia di mercato occidentale, la capacità di affermazione degli interessi dei produttori nei confronti degli interessi dei consumatori aumenta fortemente. Quando poi esistono le condizioni di assoluto monopolio proprie del socialismo reale, non esistono prezzi di mercato e crescono gli obiettivi del piano, le imprese e le associazioni di imprese monopolistiche continueranno a produrre secondo il loro interesse unilaterale, senza che nei loro confronti si riescano a far valere gli interessi della società. In questo appunto consiste il vero dilemma, che nessuna riforma fino a oggi ha potuto risolvere dato che si è sempre continuato a reprimere il meccanismo del mercato. Una molteplicità di piccole revisioni dei metodi di pianificazione ha realizzato effettivamente modesti e sporadici miglioramenti, ma questi non potevano impedire i ritardi dell'economia socialista nei confronti dell'economia di mercato sul piano dell'efficienza e del soddisfacimento della domanda. Solo quando attraverso determinate misure parziali è nato un interesse per il mercato e si è fatta sentire la sua pressione, le imprese hanno cominciato a comportarsi in maniera più razionale. Così, ad esempio, nella RDT, la conversione dei redditi in divise per le esportazioni verso l'Occidente e l'attribuzione di quote di divise alle imprese esportatrici, in caso di aumento delle esportazioni (v. Thalheim e altri, 1984, pp. 72 ss.), stanno determinando un certo interesse per il mercato e una produzione a esso rivolta un po' più efficiente; un'altra conseguenza, però, è che si trascura la produzione per il mercato interno in cui il meccanismo di mercato continua a non funzionare mentre sussistono le vecchie carenze in tema di approvvigionamento e di qualità. Anche quest'ultimo esempio conferma che quando le imprese sono effettivamente condizionate dal mercato il loro interesse coincide con l'interesse della società. Soltanto un meccanismo di mercato molto perfezionato può portare quindi la produzione socialista ad aumentare la propria efficienza e ad adeguarsi ai bisogni; allo stesso tempo, però, una pianificazione-cornice, o pianificazione della distribuzione, con la relativa politica economica, dovrebbe contribuire a evitare le cicliche crisi economiche, la disoccupazione di massa e gli sviluppi inflazionistici che tormentano l'economia capitalistica di mercato. Solo in questo modo anche la pianificazione socialista potrebbe ottenere una giustificazione economica e sociale, e portare a una forma di collegamento moderno tra piano e mercato. bibliografia Czege, A.W. von, Ungarn auf dem Wege zur sozialistischen Marktwirtschaft?, in ‟Berichte des Bundesinstitutes für ostwissenschaftliche und internationale studien", 1984, n. 36. Dietz, R. e altri, Die Wirtschaft der RGW-Länder und Jugoslawiens an der Jahreswende 1983-1984 in ‟Wiener Institut für internationale Wirtschaftsvergleiche", 1984, n. 72. Direttive per lo sviluppo delle misure per il miglioramento della pianificazione economica, supplemento di ‟Hospodarské noviny", 1984, nn. 42-43. Direttive per lo sviluppo del sistema di gestione dell'economia ungherese, Ufficio nazionale della pianificazione della Repubblica popolare di Ungheria, 1985. Dobias, P., Das jugoslawische Wirtschaftssystem: Entwicklung und Wirkungsweise, Tübingen 1969. 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