Unione Sovietica Corrado Bevilacqua

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Unione Sovietica Corrado Bevilacqua
Unione Sovietica
A cura di
Corrado Bevilacqua
I libri di
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Prefazione
C'era una volta l'Unione sovietica. Essa dominò la politica mondiale per 70 anni.
Poi, sparì nel nulla. Nessuno parla più di essa, come se per 70 anni, fossimo vissuti
in un sogno! Non fu così. L'Urss non fu un sogno. Fu una potenza economica e
militare che dominò il mondo assieme agli Stati uniti d'America per i quali
rappresentava l'Impero del male. Non è ancor chiaro come accadde ma accadde.
L'Impero del male si sbriciolò e l'Unione sovietica sparì nel nulla. Questo fatto
porta alla memorias la domanda ddel dissdente sovietico Andrei Amalrik:Arriverà
l'Unione sovietica al 1984? Il riferimento di Amalrik era per il famoso romanzo di
George Orwell 1984. Lìipotesi di un'esplosione dell'impero sovietico era stata
avanzata da Hélène Carrére d'Encausse in Esplosione di un impero?, edizioni e/o
Geografia
Generalità
URSS (Unione delle repubbliche socialiste sovietiche). Ex Stato dell'Europa
orientale e dell'Asia centrale e settentrionale, costituito da 15 Repubbliche
(Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Estonia, Georgia, Kazahstan, Kirgizistan,
Lettonia, Lituania, Moldova, Russia, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina,
Uzbekistan) che, proclamando la propria indipendenza tra l'11 marzo 1990 e il 16
dicembre 1991, determinarono il crollo della massima unità politica e geografica
della Terra. Dodici delle 15 Repubbliche si sono riunite nella CSI (Comunità di
Stati indipendenti), che non ha però strutture parlamentari ed esecutive proprie.
Organi esecutivi sono il Consiglio dei capi di Stato e il Consiglio dei capi di
governo, che si riuniscono almeno due volte l'anno e la cui presidenza è assunta, a
turno, da uno degli Stati membri. Non ne sono entrate a far parte le tre repubbliche
baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania).
Geografia umana
Nonostante la fortissima prevalenza dell'elemento russo nella quantità totale di
popolazione, l'immensa estensione del territorio e la varietà dei paesaggi fisici e
antropici hanno fatto dell'Unione Sovietica un complicato mosaico etnico. I più
antichi nuclei conosciuti erano situati al di fuori del centro storico dell'impero e
dell'Unione, ed erano dunque estranei ai paesi russi in senso stretto: essi si
collocavano nel Caucaso e nelle montagne dominanti la depressione compresa tra il
lago d'Aral e il Mar Caspio. Ma fu l'invasione dei popoli delle steppe ad avere una
parte decisiva nella formazione delle nazioni russe. Venuti dall'Alta Asia i popoli
d'origine mongolica o tatara si imposero dapprima nella zona della depressione
aralo-caspica, poi si diressero verso occidente, distruggendo il principato di Kiev,
primo Stato russo centrato sul bacino del Dnepr, e assoggettando i russi. Solo nel
sec. XV si invertirono i rapporti di forza: l'unificazione dei vari principati russi e la
formazione della Moscovia segnarono l'inizio della riconquista dei territori russi e
della ricostruzione, nel corso di tre secoli, di un immenso impero che dalla Vistola si
sarebbe spinto fino all'oceano Pacifico. Riassumendo, alla fondazione dei principati
medievali si può far risalire la distinzione esistente, nella comune matrice slava, tra
Ucraini, Russi Bianchi (o Bielorussi) e Russi veri e propri (o Grandi Russi), i quali
ultimi hanno avuto nel Paese sempre un ruolo predominante. Altri gruppi distinti
erano quelli baltici, preslavi, dei lituani e dei lettoni, cui si aggiungevano gli estoni,
parenti dei finnici; importanti i gruppi della regione caucasica, che comprendevano
i georgiani, gli azerbaigiani (che sono però di origine turco-mongola), oltre agli
armeni scampati al genocidio inferto dai turchi all'inizio del sec. XX;
caratteristiche della regione caucasica sono l'estrema frammentazione etnica e la
persistenza di popolazioni spesso antichissime che si sono conservate grazie alle
chiusure vallive della regione. L'Asia centrale era rappresentata da varie
popolazioni turche o turco-mongole in cui il gruppo più numeroso era quello degli
uzbechi seguiti dai loro affini kazachi, dai kirghisi e dai turkmeni; di ceppo iranico
sono invece i tagichi. Tutte queste nazionalità diedero vita a repubbliche distinte (e
successivamente Stati indipendenti dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica)
all'interno delle quali si trovano però ulteriori gruppi etnici, in genere minori, a
volte tuttavia numericamente assai consistenti che spesso hanno dato luogo a veri e
propri conflitti etnici.
Demografia
La situazione demografica dell'impero russo all'inizio del sec. XX era quella di tutti
i Paesi dell'Europa moderna a economia rurale con forte incremento della natalità
che creava problemi di difficile soluzione accelerando la colonizzazione agraria
verso la parte meridionale della Siberia occidentale. La rivoluzione del 1917 e il
successivo processo di industrializzazione, accompagnato da un notevole
incremento della popolazione urbana, portarono a un profondo mutamento nelle
condizioni sociali di vita e nel comportamento demografico. L'indice di natalità
discese rapidamente, quello di mortalità, che si aggirava intorno al 2%, assai più
lentamente, anche considerando che la prima grande guerra, la rivoluzione e la
guerra civile avevano portato a un impoverimento delle classi giovani e a un
invecchiamento generale della popolazione. Sui vuoti causati dagli eventi militari e
politici non si possiedono cifre precise, ma le stime rivelano un deficit demografico
tra i 10 e i 15 milioni, tenendo conto delle perdite di vite umane per fatti di guerra,
carestie, epidemie e contrazione delle nascite nel periodo bellico. La parte più
cospicua delle perdite riguardava ovviamente gli adulti giovani di sesso maschile e
il Paese ne risentì proprio nel momento in cui aveva maggior bisogno di
manodopera per la realizzazione del primo dei piani quinquennali; di qui
un'intensa campagna di propaganda demografica che ottenne i primi risultati negli
anni successivi al 1930; l'accrescimento naturale alla vigilia della seconda guerra
mondiale si aggirava sui 2-2,5 milioni di unità all'anno. Un nuovo periodo di
intensa propaganda demografica si ebbe dopo la seconda guerra mondiale, allorché
la popolazione dell'Unione Sovietica fu di nuovo duramente provata: a quasi 20
milioni assommavano le vite perdute in combattimento o in seguito alle
deportazioni, a 10 milioni le nascite mancate. Fu solo alla fine degli anni Cinquanta
che l'indice di natalità riuscì a stabilirsi intorno al 2%. Demograficamente l'Unione
Sovietica è stata caratterizzata, fino al 1990, da buoni incrementi naturali essendosi
l'indice di natalità attestato intorno al 17,5‰ e quello di mortalità, fortemente
ridottosi grazie alle migliorate condizioni di vita, intorno al 10‰; nel complesso nel
periodo 1985-90 il coefficiente di accrescimento si aggirava intorno allo 0,9%. Il
34% ca. della popolazione dell'Unione Sovietica era considerata rurale. È una
percentuale relativamente bassa se si pensa che alla fine del sec. XIX oltre l'80%
della popolazione viveva ancora nei villaggi. Il processo di urbanizzazione è infatti
avvenuto interamente nel corso del sec. XX, in rapporto al poderoso sviluppo
dell'industrializzazione. La popolazione rurale dell'Unione Sovietica viveva per
gran parte in centri di ca. 2000 abitanti o nei mir. In generale, comunque, non va
dimenticato che fattori etnici, storici ed economici hanno influenzato anche la
varietà degli insediamenti dell'Unione Sovietica, i quali, accanto al mir,
comprendevano gli insediamenti con le case di fango dell'Asia centrale, o i villaggi
di pietra arroccati (aul) sui versanti del Caucaso, o gli accampamenti nomadi degli
allevatori di renne della tundra ecc. Per quanto riguarda l'organizzazione
gerarchica dei centri, non si era formata nell'Unione Sovietica una gamma di
insediamenti così ampia come in Europa, dove l'organizzazione del territorio ha
selezionato (in funzione dei modi di produzione capitalistici) i vari centri in
rapporto ai molteplici ruoli e collegamenti che essi hanno nei confronti della
campagna. L'urbanesimo aveva assunto cioè un carattere meno “maturo” e spesso
tra villaggio e città con ruolo amministrativo provinciale (oblast) sono mancati
centri di dimensioni intermedie.
Economia
Se oltre che dei puri indici quantitativi si tiene conto della gamma e della qualità
delle produzioni e dei servizi, nonché del generale livello di vita e del grado di
“cultura” tecnologica che contraddistinguevano l'Unione Sovietica, risulta evidente
che veniva senz'altro preceduta dagli Stati Uniti, pur detenendo moltissimi primati
in campo sia agricolo sia minerario sia industriale. Tuttavia le complessità e le
peculiarità delle strutture economiche sovietiche e ancor più lo strettissimo
rapporto esistente tra il “momento” economico e quello sociale nella vita del Paese
rendono meno perentorie certe affermazioni, più ardui i confronti. Si consideri solo
il fatto che la principale ragione per cui l'Unione Sovietica è stata una grande
potenza economica consiste senza dubbio nelle straordinarie risorse naturali del
suo immenso territorio; ma proprio questa gigantesca estensione ha creato
problemi di eccezionale gravità per l'organizzazione dello Stato, impegnato a
qualificare economicamente e a strutturare in modo omogeneo un Paese
caratterizzato da ogni diverso tipo di condizione climatica e ambientale esistente
sulla Terra e dove convivevano una cinquantina di gruppi etnici, europei e asiatici.
Non sono mancati ovviamente gravi squilibri regionali, la cui progressiva
eliminazione era l'enorme sforzo che lo Stato, al momento della sua dissoluzione, si
accingeva a compiere per un'integrazione economica globale di tutto il Paese. Tali
considerazioni servono anche a comprendere meglio il centralismo economico, che
s'impose all'indomani della Rivoluzione, ma che divenne rigidissimo con Stalin, un
centralismo trasformatosi in un vero e proprio asservimento di tutta la popolazione
alle direttive del governo, volte a creare pressoché dal nulla le strutture industriali
di base. Furono decenni durissimi, durante i quali però l'Unione Sovietica riuscì a
imporsi sulla scena mondiale come grande potenza. Il processo di sviluppo si
articolò con modalità del tutto originali, diverse da quelle di qualsiasi altro Paese
del mondo e, per il primo trentennio in cui l'Unione Sovietica fu l'unico Stato
socialista esistente, con un minimo di relazioni e scambi con l'estero. Le basi di
un'organizzazione socialista dell'economia venivano poste nel 1928 con
l'applicazione del primo piano quinquennale di sviluppo; elemento essenziale era
l'assunzione da parte della collettività di tutte le fonti e di tutti i mezzi di
produzione. Anche il credito era nazionalizzato, così come il commercio e i servizi.
L'impresa di produzione era sempre un'impresa pubblica, nell'agricoltura il
kolchoz, cioè un'azienda cooperativa, o il sovchoz, un'azienda statale; nell'industria
quasi sempre un'impresa di Stato, ma anche – in certi casi – un'impresa
appartenente alle collettività regionali o locali. Lo Stato destinava gli investimenti,
programmava le produzioni, assicurava la realizzazione dei piani che aveva
elaborato, sovrintendeva alla distribuzione dei prodotti finiti e ne stabiliva i prezzi.
Col tempo lo stesso crescente peso del Paese sulla scena politica ed economica
mondiale e, quindi, l'inevitabile competizione con l'economia statunitense e con
quella dei maggiori Paesi industrializzati dell'Occidente, determinarono mutamenti
profondi e irreversibili nel sistema produttivo sovietico. L'economia aveva nuovi
slanci, assumeva connotazioni sempre più complesse, mettendo in luce tutta
l'inadeguatezza del rigido centralismo del passato e la necessità di attuare forme di
organizzazione produttiva più articolate, di stampo quasi manageriale, per certi
aspetti simili a quelle capitaliste, pur mantenendo intatti i principi basilari del
socialismo.
Economia: agricoltura
Nella struttura economica sovietica il settore primario fu certamente poco
dinamico, specie se lo si confronta con quello industriale, il cui intensissimo ritmo
di crescita poté essere realizzato grazie anche a ingentissimi investimenti; certi
ritardi dell'agricoltura sono tuttavia da imputarsi alle obiettive difficoltà di natura
ambientale e socio-culturale proprie di un Paese non particolarmente favorito dalle
condizioni climatiche e per di più caratterizzato per secoli da pratiche agricole di
tipo latifondistico eminentemente parassitarie. L'immensità del territorio
permetteva all'agricoltura di disporre di spazi vastissimi – oltre 230 milioni di ha –
ma, in termini relativi, solo il 10% della superficie totale veniva coltivata (vale a
dire la metà della percentuale agraria statunitense); inoltre la produttività media
dei terreni era sensibilmente inferiore a quella degli Stati Uniti e dell'Europa
occidentale. Il numero degli addetti fra la popolazione attiva si aggirava intorno al
14%. Dopo la Rivoluzione del 1917 il problema agricolo fu in effetti il più arduo da
affrontare; a un mondo rurale caratterizzato da condizioni di inerzia e di grande
arretratezza era chiesta una poderosa accumulazione del capitale, necessaria al
decollo dell'industria. Lo strumento prescelto fu il kolchoz, istituito nel 1919 ma
divenuto pienamente operante a partire dal 1928 con il primo piano quinquennale
di sviluppo, ossia grandi aziende cooperative, derivate dall'unificazione delle
proprietà dei singoli contadini, che erano state espropriate poco dopo la
Rivoluzione. I membri della cooperativa si ripartivano gli utili derivanti dalla
vendita allo Stato dei locali prodotti, inoltre a ogni famiglia era riconosciuta la
proprietà della casa e di un piccolo appezzamento, i cui eventuali prodotti agricoli e
zootecnici eccedenti il consumo familiare potevano essere venduti sul mercato
libero, il cosiddetto “mercato kolchosiano”, presente in ogni grande città. Accanto
ai kolchoz, che possedevano ca. la metà dei terreni agrari, operavano i sovchoz,
aziende di Stato nate immediatamente dopo la Rivoluzione per lo più in
corrispondenza dei grandi latifondi espropriati; concepiti come aziende modello, i
sovchoz furono sin dall'inizio altamente meccanizzati e si avvalsero di personale
specializzato e stipendiato. Col tempo il numero dei kolchoz diminuì
progressivamente, scendendo nell'ultimo quarantennio da oltre 93.000 a meno di
26.000, mentre si accrebbe l'importanza dei sovchoz, passati nello stesso arco di
tempo da meno di 5000 a 22.000. Per quanto concerne i quantitativi primeggiava
nettamente il frumento, che occupando ca. 50 milioni di ha poneva l'Unione
Sovietica al primo posto nel mondo; la sua produzione si aggirava sui 900 milioni di
q all'anno, quasi un quarto di quella mondiale. Altri primati assoluti dell'Unione
Sovietica erano dovuti alla produzione di orzo (540 milioni di q), avena (170 milioni
di q), segale (188 milioni di q). Cifre relativamente più modeste registravano il mais
(160 milioni di q), il riso e il miglio (complessivamente 65 milioni di q); imponente
era il raccolto delle patate (700-800 milioni di q, produzione anch'essa pari a un
terzo di quella mondiale). Fra le altre principali colture alimentari si annoveravano
numerosi gli ortaggi, come cavoli (93 milioni di q), pomodori (72 milioni di q),
piselli (52 milioni di q), cipolle (25 milioni di q), tutti ampiamente diffusi; nelle aree
temperate si producevano soprattutto mele (60 milioni di q), pere (5,5 milioni di q),
prugne, pesche, albicocche, agrumi (3,5 milioni di q di sole arance), questi ultimi
provenienti dalla Transcaucasia. Particolare importanza aveva la viticoltura
(praticata nella regione caucasica e del Mar Nero e in Asia centrale sovietica), che
forniva annualmente 50 milioni di q d'uva e 19 milioni di hl di vino. Tra le colture
industriali rilevantissime erano quelle della barbabietola da zucchero, diffusa
soprattutto in Ucraina, del cotone, quasi interamente fornito dall'Uzbekistan e dal
Kazahstan; l'Unione Sovietica primeggiava per la produzione dei semi di cotone (51
milioni di q), mentre per la fibra (40 milioni di q) il primato le era conteso, a
seconda degli anni, dagli Stati Uniti o dalla Cina. Coltivato per i semi ma ancor più
per la fibra era il lino (3 milioni di q di fibra, 2 milioni di q di semi); tra le fibre
tessili la canapa (550.000 q) e il . Produzioni relativamente modeste presentavano
invece la soia (9 milioni di q), il ricino, la colza e il sesamo. Completano il quadro
delle colture industriali il tabacco (3 milioni di q), il tè (1,5 milioni di q) e il luppolo.
L'Unione Sovietica possedeva il più vasto patrimonio forestale della Terra, pari a
quasi un quinto del totale mondiale: ben 945 milioni di ha (oltre il 41% della
superficie territoriale del Paese) e forniva una produzione annua di legname di 392
milioni di m3. Sul suo sfruttamento si basavano alcune delle più fiorenti industrie
del Paese.
Economia: allevamento
L'ultimo dato riguardante il settore zootecnico dava a 119 milioni il numero dei
bovini: di questi 43,5 milioni rappresentati da vacche da latte che consentivano di
alimentare un'importante industria casearia, che forniva elevati quantitativi di
formaggi (2 milioni di t) e di burro (ca. 1,7 milioni di t). L'Unione Sovietica era, nel
1989, il massimo produttore mondiale di ovini (140 milioni di capi), assai diffusi
nell'Asia centrale sovietica, dove l'allevamento estensivo ha sempre avuto antiche
tradizioni, come in tutto il mondo musulmano. Grande importanza aveva la
produzione di pelli di astrakan e considerevoli erano i quantitativi di lana (2,7
milioni di q); pure in Asia centrale si allevavano la maggior parte dei caprini (6
milioni) e i cammelli. Elevato era inoltre il numero dei suini (78 milioni), dei cavalli
(ca. 6 milioni) e soprattutto dei volatili da cortile, di vastissima diffusione (oltre 1
miliardo di capi) che fornivano ca. 4,5 milioni di t di uova. Nella regione siberiana
si localizzava l'allevamento delle renne per le popolazioni locali e quello degli
animali da pelliccia (volpi, visoni e soprattutto i pregiatissimi zibellini, di cui
l'Unione Sovietica era l'unico produttore mondiale).
Economia: pesca
Enorme importanza economica rivestiva la pesca sia di mare sia d'acqua dolce. Per
quantitativo di pescato il Paese si poneva al secondo posto nel mondo, dopo il
Giappone, con oltre 11 milioni di t di pesce sbarcato. Tra i maggiori porti
pescherecci – che sono in genere anche grandi centri dell'industria conserviera – si
annoveravano Murmansk, Vladivostok, Astrahan ecc.
Economia: risorse minerarie e industria, generalità
Svariatissime e in genere gigantesche erano le risorse minerarie, a cominciare dai
combustibili (carbone, petrolio) e dal ferro; si può dire che esse siano state alla base
dell'intera organizzazione territoriale, che si è strutturata in funzione di alcune
grandi aree industriali, per lo più legate alle rispettive possibilità minerarie. Si
tratta di un processo già iniziato in epoca zarista, quando i primi sfruttamenti
minerari avevano incentivato sviluppi produttivi e quindi determinato nuove
tendenze distributive della popolazione. D'altronde la stessa vastità del territorio
non avrebbe consentito di concentrare le industrie in una sola regione. Accanto alle
preminenti motivazioni “minerarie” non vanno però trascurate quelle legate ai
fattori umani: la prima area industriale sorse a Leningrado (San Pietroburgo),
dove già Pietro il Grande aveva avviato nell'allora Pietroburgo, capitale
dell'impero zarista e importante metropoli, varie attività commerciali e industriali
(queste in funzione militare soprattutto) favorite dalla presenza del porto. L'altro
grande polo di sviluppo sorto in funzione urbana è stato quello di Mosca che,
assurta a sua volta al ruolo di capitale, divenne subito il punto di convergenza di
tutto il territorio sovietico (è da Mosca che si diramano a ventaglio tutte le
principali vie di comunicazione, stradali e ferroviarie), al tempo stesso favorita
dalla vicinanza alle zone carbonifere del Don e raggiungibile per via fluviale dal
Volga. La zona di Mosca, definita come “regione industriale centrale”, mantenne il
primato fra tutte le aree industriali sovietiche con una gamma articolatissima di
produzioni includenti in pratica qualsiasi settore sia di base sia manifatturiero
(complessi meccanici ed elettromeccanici, chimici, tessili, alimentari ecc.). Essa non
solo era la regione più popolosa, ma anche e soprattutto quella che promuoveva le
attività più avanzate, potendo contare su maestranze e tecnici specializzati e sulla
presenza dei più prestigiosi istituti scientifici e di ricerca del Paese, nonché sulle
possibilità offerte da un vasto mercato di consumo. Infine la zona disponeva di un
ricchissimo potenziale energetico. La terza grande area industriale, essa pure
formatasi in epoca anteriore al periodo sovietico (cui peraltro si deve l'enorme
sviluppo), è rappresentata dall'Ucraina; prevaleva qui nettamente l'industria
siderurgica, per la presenza dei grandiosi giacimenti di carbone del bacino del
Donec, il cosiddetto Donbass, e dei minerali ferrosi del non lontano bacino di
Krivoj Rog. Infine sempre al periodo zarista risale la formazione di altre due aree
industriali: quella di Baku, sorta in funzione dello sfruttamento dei ricchi
giacimenti petroliferi ubicati nei dintorni delle città e al di sotto delle acque del
Mar Caspio (pur avendo da tempo perduto il suo primato per quanto riguarda
l'attività estrattiva vera e propria, questa regione è stata fondamentale per i suoi
poderosi complessi petrolchimici), e quella degli Urali, la cui enorme importanza si
basava prevalentemente sui giacimenti dei minerali metallici: ferro, rame, nichel,
bauxite, cromite, platino ecc. Anche se già sfruttata all'epoca degli zar, che con
capitali eminentemente esteri avevano installato nella regione uralica alcuni
complessi siderurgici, utilizzando come combustibile il carbone di legna delle
foreste locali, il gigantesco sviluppo di questa zona, una delle massime aree
industriali del mondo, è stato indissolubilmente legato agli sforzi sovietici di creare
una potentissima industria di base nell'interno del Paese, quindi ben protetta da
eventuali aggressioni dall'Ovest. Mancando la zona di adeguati minerali energetici
il governo decise di rifornirla di combustibile con il carbone proveniente dal bacino
siberiano di Kuzneck, il Kuzbass, ricchissimo ma distante dagli Urali oltre 2000
km. Grazie a questo colossale abbinamento di risorse, il cosiddetto UKK (Ural
Kuzbass Kombinat), si ottenne da un lato la grande industria siderurgica,
metallurgica e meccanica degli Urali, dall'altro l'industrializzazione del Kuzbass
stesso, che a partire dal dopoguerra raggiunse una completa autonomia produttiva
“combinando” lo sfruttamento dei giacimenti locali con i minerali provenienti dagli
Urali e dalla Siberia. Anche qui le principali lavorazioni riguardavano
naturalmente la siderurgia, la metallurgia e la meccanica pesante; grande centro
propulsore della vita economica e culturale del Kuzbass era Novosibirsk, tra le
massime “città nuove” dell'URSS. Insieme al Kuzbass il governo sovietico creava,
nel periodo anteriore alla seconda guerra mondiale, un'altra grande regione
industriale: quella di Karaganda, nel Kazahstan, che poteva contare su giacimenti
di minerali metallici (in particolare rame) e di carbone; nonostante le difficoltà
climatiche, trattandosi di una zona estremamente arida, il bacino di Karaganda è
divenuto una regione industriale ad attività multiple, sia pure limitatamente al
primo trattamento dei metalli estratti dai minerali. Infine le possibilità di sfruttare
grandi quantitativi d'energia elettrica a bassissimo costo e quindi di installare
industrie che, come la metallurgia dell'alluminio, richiedono un forte apporto
energetico, sono state alla base della nascita della più recente grande regione
industriale sovietica: quella della Siberia orientale. L'energia prodotta dalle
gigantesche centrali costruite sullo Jenisej e sull'Angara o da quelle termiche
alimentate dai giacimenti locali di carbone (Minusinsk, Irkutsk ecc.) ha favorito il
sorgere di colossali complessi: in particolare la zona attorno a Čita per quanto
riguarda le attività elettrometallurgiche e nucleari. In aggiunta alle grandi regioni
industriali la realizzazione di efficienti impianti praticamente in ogni città che
disponeva di materie prime locali ha determinato la formazione di poli di sviluppo
produttivi dislocati un po' in tutto l'immenso territorio sovietico; tra i più notevoli
si può ricordare quello di Taškent, centro primario dell'Asia centrale sovietica, con
una vasta gamma di industrie – dalla meccanica alla tessile e all'alimentare –
favorite dalla presenza di giacimenti petroliferi e carboniferi, nonché da una
fiorente agricoltura.
Economia: minerali
Per quanto riguarda le complessive produzioni minerarie l'Unione Sovietica poteva
venir considerata per i suoi molti primati, a cominciare da quelli relativi al ferro e
al petrolio, la massima potenza mineraria del mondo. Annualmente si estraevano
138 milioni di t di ferro contenuto, quasi un terzo del totale mondiale (Ucraina,
Urali ecc.); le principali produzioni degli altri minerali metallici comprendevano il
manganese (3 milioni di t di Mn contenuto; Nikopol in Ucraina, Čiatura in
Georgia), il nichel (210.000 t di Ni contenuto), la cromite (930.000 t; Hromtau negli
Urali Meridionali), l'oro (280.000 kg, di origine per lo più alluvionale; fiumi Lena,
Jenisej ecc.), il tungsteno (9200 t; Tyrnyauz, ai piedi della catena del Caucaso), il
rame (oltre 950.000 t di Cu contenuto; Urali, Kazahstan, Transcaucasia ecc.), il
piombo (520.000 t di Pb contenuto), il mercurio (1500 t), lo zinco (960.000 t di Zn
contenuto) e l'argento (oltre 1,5 milioni di kg). Ingentissima è stata la produzione di
platino (Urali, Siberia); così come di bauxite (5,7 milioni di t; Tihvin e
Boksitogorsk, Urali), di molibdeno e di antimonio. Anche per i minerali non
metallici il Paese deteneva vari primati, come per i sali potassici (10,4 milioni di t di
potassa contenuta, un terzo della produzione mondiale; Solikamsk e Berezniki,
nell'alto corso del fiume Kama) e l'amianto (2,5 milioni di t, metà del totale
mondiale; Asbestovski e altre località degli Urali); veniva invece preceduto dagli
USA per i fosfati naturali (34 milioni di t). Rilevantissime erano anche le
produzioni di pietre preziose, come smeraldi (Urali) e diamanti (12 milioni di
carati; Siberia orientale). Un'enorme importanza aveva il settore energetico; per
quanto riguarda il carbone, anche se negli ultimi anni l'estrazione era stata
relativamente ridotta (la produzione complessiva di carbon fossile e di lignite è
stata nel 1989 di 804 milioni di t), l'Unione Sovietica disponeva delle più ingenti
riserve carbonifere del mondo. Anche per il petrolio, si collocava nettamente al
primo posto, con oltre 600 milioni di t estratti annualmente; le aree più ricche
erano quelle della cosiddetta “seconda Baku” (la fascia dal Volga agli Urali) e della
“terza Baku” (bacino dell'Ob-Irtyš nella Siberia occidentale), cui vanno aggiunti,
tra i molti, i giacimenti della “prima Baku”, quelli dell'Ucraina, di Majkop (bacino
del Kuban), della Russia settentrionale (bacino della Pečora) nella parte europea;
nella sezione asiatica si trovavano i giacimenti caspici del bacino dell'Emba,
dell'Uzbekistan (Gazli), del Turkmenistan (Nebit-Dag), di Sahalin ecc. La rete di
oleodotti era, nel 1988, di 86.144 km; tra questi il più imponente è il cosiddetto
“Oleodotto dell'Amicizia”, di 4500 km, che porta il greggio dai pozzi del bacino del
Volga a varie raffinerie dell'Europa orientale. Al petrolio è stato spesso associato il
gas naturale (l'estrazione annua superava i 770.000 milioni di m3, cifra
leggermente inferiore a quella statunitense); i gasdotti raggiungevano nel 1988 una
lunghezza di 208.000 km, in buona parte in territorio siberiano; la più recente
realizzazione è stato il gasdotto, lungo ben 4450 km, destinato a portare il gas
naturale estratto dai pozzi siberiani di Urengoj a vari Paesi dell'Europa centrale e
occidentale, tra cui la Francia, l'Austria, la Germania, la Svizzera, l'Italia.
L'Unione Sovietica è stata altresì uno dei massimi produttori di uranio del mondo;
anche il potenziale idroelettrico, assolutamente gigantesco, è stato sfruttato solo
parzialmente. Poderosi gli impianti termoelettrici come la centrale di Stavropol (3,6
milioni di kW), quella di Rjazan (2,8 milioni di kW) e (entrambe con 2,4 milioni di
kW di potenza) le centrali di Konakovo presso Mosca e di Novočerkassk. Un certo
sviluppo, nonostante il gravissimo incidente alla centrale di Černobyl, continuava
ad avere l'energia di origine nucleare.
Industria
L'industria, che partecipava per oltre il 50% alla formazione del prodotto
nazionale, aveva una solidissima base produttiva, alimentata dalle risorse agricole e
minerarie del Paese. L'Unione Sovietica deteneva il primato mondiale per ghisa e
ferroleghe (114 milioni di t all'anno) e per l'acciaio (163 milioni di t), forniti
essenzialmente dalle tre zone siderurgiche dell'Ucraina, di Mosca e degli Urali; del
pari gigantesca era la produzione di cemento (135 milioni di t), l'industria
metallurgica (rame, alluminio, zinco, piombo) e in particolare le industrie
aerospaziale, aeronautica, navale, nucleare e delle telecomunicazioni. Mosca e San
Pietroburgo (Leningrado) rappresentavano i massimi centri dell'industria
metalmeccanica: apparecchi radio e televisivi (oltre 18 milioni in totale),
elettrodomestici (10 milioni tra lavatrici e frigoriferi) e la meccanica di precisione
(macchine fotografiche, binocoli, apparecchiature scientifiche ecc.). Tra le
principali produzioni dell'industria chimica, si possono ricordare quelle dei
fertilizzanti azotati (15 milioni di t) e dei prodotti in genere destinati
all'agricoltura; quindi acido solforico, soda caustica, ingenti quantitativi di acido
nitrico e cloridrico, ammoniaca, azoto, materie plastiche, caucciù sintetico (ca. 69
milioni di pneumatici), prodotti farmaceutici ecc. Il Paese disponeva di una
colossale industria petrolchimica; le numerosissime raffinerie, costruite in tutto il
territorio, avevano una capacità annua di raffinazione di quasi 620 milioni di t di
petrolio, inferiori però ai quantitativi estratti. Quanto ai più importanti settori
dell'industria leggera, quella tessile, molto efficiente, deteneva il primato mondiale
sia per il cotonificio, con i suoi centri principali nella regione di Mosca e nell'Asia
centrale sovietica (oltre 8600 milioni di m² di tessuti; 1,7 milioni di t di filati), sia
per il lanificio (870 milioni di m² di tessuti; ca. 500.000 t di filati); rilevanti erano
anche le produzioni di filati di lino, di canapa e di fibre artificiali (650.000 t tra
fibre e fiocco; primato mondiale) e sintetiche (950.000 t tra fibre e fiocco).
L'industria alimentare, naturalmente imponentissima in relazione alle colossali
produzioni agricole, era diffusa in tutto il Paese; oltre ai già citati settori
saccarifero, lattiero e caseario, possedeva grandiosi conservifici, impianti molitori,
birrifici (56 milioni di hl di birra), oleifici ecc.; le manifatture di tabacchi
producevano ca. 400.000 milioni di sigarette all'anno. Un certo rilievo occupavano
infine varie lavorazioni di artigianato artistico, in gran parte destinate al turismo o
all'esportazione: tappeti (Uzbekistan), monili di ambra, lacche, ricami, ceramiche
d'arte ecc.
Storia
Dalla Rivoluzione d'Ottobre all'indipendenza degli stati baltici.
La Rivoluzione d'Ottobre significò la nascita di un Paese nuovo. Dalle macerie del
vecchio Stato sorse una nazione che per la prima volta nella storia dell'umanità si
avviò ad applicare le teorie socialiste. Col novembre 1917 ebbe inizio, secondo il
concetto di Lenin, la dittatura del proletariato, fase intermedia tra il regime
capitalista e quello comunista, periodo di lotta e di vigilanza ininterrotta di fronte
al nemico interno ed esterno. Contro l'uno e l'altro avversario si organizzò
l'Armata Rossa (300.000 uomini nella primavera 1918), con i quadri tecnici tratti in
parte dalle armate imperiali, affiancati da “commissari politici” destinati a
garantire la fede comunista del nuovo esercito; e inoltre una polizia oculata e
assolutamente devota al regime. Le misure economiche furono dettate in parte
dalla volontà di costruire uno Stato senza sfruttatori né sfruttati e in parte
dall'assoluta necessità di far fronte ai bisogni immediati di un Paese stremato da
una guerra mal condotta e impopolare, senza riserve, con gli istituti e i servizi
essenziali fatiscenti e sull'orlo del collasso. Si cercò di riorganizzare l'industria; si
fece leva sullo spirito patriottico e rivoluzionario degli operai per indurli ad
accrescere il loro rendimento; si lottò eroicamente contro la carestia inviando nelle
campagne squadre d'azione operaie per costringere i contadini a consegnare
l'intera produzione nelle mani delle autorità locali. Nei distretti rurali i bolscevichi
dovettero lottare coi socialrivoluzionari che temevano di perdere la loro base
contadina. Fu una lotta durissima condotta da entrambe le parti per sopravvivere.
In questa atmosfera di rappresaglia trovò oscuramente la morte a Jekaterinburg lo
zar con tutta la sua famiglia (16 luglio 1918). Nel luglio 1918 fu promulgata la
nuova Costituzione, che sanciva una dittatura proletaria severa, privando dei
diritti politici i borghesi ostili all'ordine nuovo. Frattanto il nuovo governo doveva
fronteggiare la guerra civile (1917-21), originata da tre cause ben distinte: la spinta
centrifuga (sulla quale facevano leva sia gli Imperi centrali sia l'Intesa) delle
comunità nazionali non russe, prima fra tutte l'Ucraina; la resistenza dei fautori
del vecchio regime, dei socialrivoluzionari e dei contadini; il timore del “pericolo
rosso” esistente in tutti i grandi Stati borghesi, tale da indurli a intervenire anche
militarmente contro i bolscevichi, quando ancora la guerra mondiale non era finita.
Si ebbero così imponenti rivolte, con l'intervento di forze tedesche, inglesi, francesi,
statunitensi, italiane, giapponesi, cecoslovacche e polacche, scese in campo per
evitare il diffondersi del “contagio” comunista (più tardi, fallito l'intervento diretto,
si istituzionalizzò il “cordone sanitario” contro l'URSS) e per difendere i capitalisti
dei loro Paesi, che avevano investito, prima della guerra, somme ingenti in Russia.
Nel 1918 i bolscevichi si trovarono in una situazione quasi disperata, quando gli
Ucraini proclamarono l'indipendenza (22 gennaio) e istituirono un governo
filotedesco; nello stesso tempo le repubbliche caucasiche (Georgia, Armenia,
Azerbaigian) si liberavano dalla soggezione moscovita, il generale Denikin
avanzava con un esercito in prevalenza cosacco dalla regione del Don verso nord,
gli inglesi sbarcavano a Murmansk e ad Arcangelo e una legione di ex prigionieri
cecoslovacchi si alleava coi socialrivoluzionari e con l'ammiraglio monarchico
Kolčak per conquistare ampi territori siberiani e il sudest della Russia europea.
Trotzkij, commissario del popolo per la guerra, fece dell'Armata Rossa un valido
strumento per la difesa della Rivoluzione. Crollata poi la Germania nell'autunno di
quell'anno, si aprì una schiarita: i tedeschi abbandonarono l'Ucraina e il suo
atamano Skoropadskij, lasciando il posto alla dittatura nazionalista di Petljura
(novembre 1918). Francia e Inghilterra s'impegnarono anch'esse nell'inverno 191819 a inviare truppe in Russia, ma l'opposizione americana fece fallire il progetto e
le potenze occidentali si limitarono a provvedere d'armi e munizioni i cosiddetti
“bianchi”. Costoro attaccarono le forze bolsceviche di Pietrogrado e Mosca da
quattro parti: da N con Miller, da NW con Judenič, da E con Kolčak, da S con
Denikin. Judenič giunse alle porte di Pietrogrado nell'ottobre 1919;
contemporaneamente anche Denikin si avvicinò a Mosca attraverso l'Ucraina e
tentò la congiunzione con Kolčak che già da qualche mese premeva da E sul Volga.
Ma la resistenza di Caricyn (che già nell'autunno 1918 aveva respinto le forze
bianche del generale Krasnov sotto l'energico impulso di J. V. Stalin, che doveva
poi dare il suo nome alla città), rese vani ancora una volta i loro sforzi. Nell'inverno
1919-20 si ebbero continue vittorie bolsceviche: Denikin e Kolčak furono costretti a
penose ritirate. Kolčak fu poi preso e fucilato a Irkutsk, mentre Denikin affidava i
resti del suo esercito all'energico generale Vrangel. Il 1920 vide lo svilupparsi di
un'offensiva polacca contro la Bielorussia e l'Ucraina, dove sin dal marzo dell'anno
prima la dittatura di Petljura aveva ceduto il campo a una “repubblica sovietica
ucraina”. Piłsudski, avanzando rapidamente, occupò addirittura Kiev (7 maggio
1920), ristabilendo il regime di Petljura. Con Piłsudski non giungeva in Russia la
reazione filozarista di un Kolčak o di un Vrangel, bensì l'odioso nazionalismo
polacco, che scatenò la reazione patriottica di tutti i Russi: l'Armata Rossa cacciò
Piłsudski dall'Ucraina e lo inseguì verso la Vistola, giungendo sino alle porte di
Varsavia, dove il tempestivo aiuto dell'Intesa (14 agosto 1920) sconfisse i Sovietici.
Ma questi, liberi sulle frontiere occidentali, potevano rivolgere tutte le loro forze
contro Vrangel, che infatti veniva battuto (novembre 1920). La Russia della
Rivoluzione, che aveva dovuto nel frattempo riconoscere l'indipendenza della
Finlandia, poi degli Stati baltici (Estonia, Lettonia, Lituania), guardava adesso
all'avvenire senza più l'assillo dei nemici in casa.
Storia: dalle rivolte antibolsceviche del '21 al primo piano quinquennale
Il 1921 fu anch'esso un anno difficile per la distruzione dei raccolti, la chiusura di
molte fabbriche, la penuria dei generi necessari, il malcontento popolare e la rivolta
antibolscevica dei marinai di Kronštadt che, in nome di un socialismo libertario,
resistettero per oltre due settimane alle forze governative. Lenin si vide costretto a
reprimere la rivolta con la forza (marzo 1921). Furono allora istituite prima la
CEKA (1917-22), poi la GPU (dal 1922), entrambe dirette da F. E. Dzeržinskij (m.
1926). Ma ciò evidentemente non bastava. In Russia si moriva di fame, di freddo, di
stenti. Nessun aiuto proveniva dall'esterno, il commercio estero era inesistente.
Impossibile, per il momento, organizzare un efficiente sistema agricolo. Si cercò
allora una soluzione di compromesso fra la dottrina comunista e l'economia
tradizionale, istituendo la Nuova Politica Economica (NEP), che consentì
l'iniziativa privata nelle piccole e medie industrie e nel commercio interno e
riammise il diritto alla proprietà privata. Intanto lo Stato si ricostituiva lentamente
ma sicuramente. Nel 1920 l'Ucraina era passata definitivamente sotto l'ubbidienza
sovietica e nello stesso anno si era formata la repubblica sovietica dell'Azerbaigian.
L'Armenia, le cui regioni meridionali erano state annesse dalla Turchia, divenne
repubblica sovietica tra il 1920 e il 1921. La Georgia, governata dapprima dai
menscevichi come repubblica indipendente, dopo avere a lungo ondeggiato tra la
Rivoluzione russa e le grandi democrazie occidentali, fu sovietizzata nel febbraio
1921. Una repubblica orientale, costituitasi (1920) in Transbajkalia, dopo aver
assorbito la provincia di Vladivostok dove sopravvivevano, protette dai giapponesi,
forze “bianche”, fu costituita nel novembre 1922. In conseguenza di queste
riconquiste, il 27 dicembre 1922 fu decisa, al Congresso panrusso dei Soviet, la
creazione dell'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Tali repubbliche erano
allora sei e cioè la RSFSR (Repubblica socialista federativa sovietica russa,
comprendente la Russia abitata dai Grandi Russi, la Siberia e l'Asia centrale), la
Bielorussia, l'Ucraina, l'Azerbaigian, la Georgia e l'Armenia. Negli anni successivi
si distaccarono dalla RSFSR le repubbliche turkmena, uzbeka, tagika, kazaka e
kirghisa. Nel 1936 l'Unione Sovietica contava così 11 repubbliche ed era divenuta
uno Stato plurinazionale: ai 75 milioni di Russi si contrapponevano infatti i 65
milioni di non Russi. Se l'inverno 1921-22 era stato molto duro (la carestia aveva
fatto almeno 5 milioni di vittime), l'inizio del 1923 vide una certa ripresa
economica; nel gennaio 1924 entrò in vigore la Costituzione dell'URSS. Si
concedeva quanto allora si poteva concedere all'idea delle “nazionalità”, un
concetto innovatore che farà poi molta strada. Ma il rafforzamento del partito e la
sua struttura centralizzata assicuravano al giovane Stato una guida unica con
un'unica ideologia. La nuova Costituzione rifletteva ancora l'atmosfera tempestosa
dei primi anni e proponeva la dittatura del proletariato senza alcun addolcimento; i
borghesi, gli ecclesiastici e quanti non svolgevano un “lavoro produttivo” erano
esclusi dal voto. Apparivano evidenti certi aspetti estremisti della lotta
antiborghese, come la svalutazione della famiglia, della scuola tradizionale, della
religione. Il problema della scuola assunse ben presto un notevole spicco: non si
poteva infatti concepire che, contestata la vecchia cultura, non ci si preoccupasse di
cercarne una più aggiornata. La nuova scuola cessò di essere monopolio delle classi
borghesi; fu fatto ogni sforzo per renderla accessibile alle masse lavoratrici. Le arti
e le lettere ebbero momenti di splendore con i narratori Gorkij e Aleksej Tolstoj,
con i poeti Esenin e Majakovskij e con il regista cinematografico Ejzenštejn. In
politica estera, la Russia sovietica si adoperava intanto per uscire dall'isolamento.
Già nel 1921 concluse due trattati con l'Afghanistan e la Persia mentre si tentava in
ogni modo di avviare trattative economiche con le potenze occidentali. Mosca
divenne nel frattempo la sede di quella Terza Internazionale o Internazionale
Comunista (l'abbreviazione russa è Komintern) che fu progettata per la
propaganda dell'ideologia marxista-leninista. Nonostante la contraddizione fra
sistema comunista e sistema borghese, il ministro degli Esteri sovietico Čičerin
riuscì a stringere con la Germania un patto di amicizia che sollevò le
preoccupazioni di tutto l'Occidente (Rapallo, 16 aprile 1922). L'amicizia con la
Germania non durò però oltre il 1930, quando il nuovo ministro degli Esteri
Litvinov riuscì ad aprire un dialogo con la Francia e l'Inghilterra, fino allora
irriducibili nemiche del regime sovietico. Intanto Lenin, già ammalato da tempo,
moriva a Gorki presso Mosca (21 gennaio 1924). La sua morte scatenò una lotta
accanita per la successione: lotta ideologica prima che di potere. Si trattava infatti
di far compiere all'Unione Sovietica quel “salto di qualità” che Lenin non aveva
potuto fare, di tradurre in scelte concrete le indicazioni del grande rivoluzionario
scomparso. Fu uno scontro durissimo che si trascinò dal 1924 al 1927 dentro e fuori
il partito, nelle piazze e sui giornali, tra le tesi di Stalin e quelle di Trotzkij. Stalin si
sbarazzò di Trotzkij (che del resto fu sempre in minoranza), opponendo alla sua
dottrina della “rivoluzione permanente” la teoria del “socialismo in un solo Paese”,
il che significava prudenza in politica estera e, all'interno, pretendere il massimo
sforzo per fare di un Paese sottosviluppato uno Stato industrializzato e potente. Era
la politica della mano di ferro, per cui fu facile a Stalin liberarsi anche d'altri rivali,
seguaci di una linea più morbida (come Bucharin); dopo di che, abrogata la NEP, si
diede inizio (1929) alla collettivizzazione dell'agricoltura in tutto il Paese e alla
liquidazione dei kulaki (contadini agiati). Tra il 1929 e il 1930 i kulaki vennero
pressoché eliminati da una rivoluzione agraria sostenuta dalle autorità comuniste
locali. Fu uno degli eventi tipici di quel primo piano quinquennale (1928-32) che
ebbe il merito di far compiere un grande balzo in avanti all'industria russa, specie a
quella metalmeccanica, dell'acciaio ed estrattiva. Fu uno sforzo grandioso ed
esaltante compiuto tra incredibili difficoltà. Nonostante questi faticosi progressi e
un'evidente intenzione di uscire da un pericoloso isolamento, l'Unione Sovietica
tardava a trovare all'estero un adeguato riconoscimento. Il governo statunitense si
manteneva freddo e distante, le democrazie occidentali procedevano con estrema
cautela, mentre la Germania democratica era incerta anch'essa sulla linea politica e
i Paesi confinanti (Finlandia, Polonia, Romania) continuavano a guardare a Mosca
con diffidenza. Meno difficili furono i rapporti con l'Oriente, specie con la Cina, il
cui governo nazionalista (Sun Yat-sen, Chiang Kai-shek) si appoggiò in molti casi a
Mosca.
Storia:Dagli anni Trenta alla nascita della CSI
Già il 1º piano uinquennale aveva privilegiato la produzione industriale; il 2º (193337) e il 3º (1938-42) dovevano continuarne l'opera con la stessa determinazione. La
crescita industriale era apparsa imponente. Benché viziata dal “gigantismo”,
l'industria russa aveva veramente cambiato il volto del Paese; ma a questo sviluppo
facevano da contrappeso le carestie (per esempio nel 1931 e nel 1933), la qualità
scadente dei prodotti dell'industria, la povertà del contadino, la penuria dei beni di
consumo. Il malcontento delle campagne e gli abusi dei funzionari, gli eccessi
polizieschi sembravano persino mettere in forse la sopravvivenza del regime
staliniano, ma dopo il 1933 il momento più triste parve superato: i pericoli corsi
stimolavano le energie; gli sforzi dei lavoratori vennero esaltati (stachanovismo) e
premiati (salari differenziati); si tornò a proteggere l'intellettuale purché fosse
fedele all'idea; si riportò la disciplina nella scuola, ridando autorità all'insegnante;
si esaltò di nuovo il concetto di patria, si reintrodusse il culto delle tradizioni, degli
eroi, degli scrittori della vecchia Russia. Nel 1936 fu promulgata la nuova
Costituzione, in pratica più elastica e meno radicale di quella del 1924. Il voto era
concesso a tutti; a tutti si accordavano gli stessi diritti. Era garantita la libertà di
coscienza, libertà di parola, di stampa, di riunione. Al Partito comunista veniva
assicurata una preminenza assoluta su ogni altra istituzione statale. Non era
prevista nessuna forma d'opposizione. Dopo il 1936, il regime attraversò un periodo
drammatico: la dittatura staliniana, evidentemente minacciata da varie parti,
veniva difesa con misure straordinarie. Si susseguivano (1936-38) i processi contro i
nemici del regime: la vecchia guardia rivoluzionaria ne uscì quasi distrutta.
Scomparvero Zinovev, Kamenev, Bucharin, Ordžonikidze, Jagoda, Tuchačevskij e
molti altri grandi personaggi dell'epopea bolscevica. La politica estera si fece più
attiva dopo il 1934, quando l'Unione Sovietica entrò nella Lega delle Nazioni. Si
accentuò la collaborazione con le Potenze occidentali, preoccupate per le iniziative
di Hitler. Stalin tuttavia non rinunciò ad approcci con la Germania e d'altra parte
cercò d'impedire ogni possibilità d'accerchiamento, firmando patti di non
aggressione con la Lettonia e l'Estonia (1932), con la Polonia (1932), con la
Finlandia (1933) e ristabilendo normali relazioni con la Romania. Il suo
programma, coerente coi vecchi principi di Lenin, consisteva nell'attendere il
dissanguamento delle nazioni capitaliste in una guerra che si presumeva
imminente. Di qui la tattica prudente che portò Stalin ad accordarsi (agosto 1939)
con Hitler e a intervenire nella spartizione della Polonia. Anche la guerra contro la
Finlandia (1939-40) mostra che l'Unione Sovietica non aveva intenzione di gettarsi
anzitempo in un severo conflitto. L'attacco improvviso (22 giugno 1941) della
Germania e dei suoi satelliti costrinse l'Unione Sovietica a impegnare nella guerra
ogni sua risorsa. Per l'Unione Sovietica fu una prova durissima. Colte di sorpresa,
le forze sovietiche ebbero qualche mese di sbandamento. Il primo inverno di guerra
fu atroce: a Leningrado (oggi San Pietroburgo), accerchiata e affamata (ma mai
conquistata), la cittadinanza subì perdite enormi; a Mosca non fu facile sedare il
panico ma la rude energia di Stalin, le eccellenti doti tecniche dei comandanti e dei
soldati, l'ottima qualità dei mezzi tecnici (carri armati, aerei, artiglieria) permisero
di superare i momenti più terribili. Alla fine dell'inverno 1943-44 i Russi,
conquistata l'Ucraina e la Crimea, varcavano il Dnestr e raggiungevano il Prut,
rioccupando così quasi tutto il territorio dell'URSS. Nell'estate 1944 le truppe
sovietiche occupavano Leopoli, giungevano alle porte di Varsavia, costringevano
all'armistizio Finlandia, Romania e Bulgaria. Poi era la volta della stessa Germania
e dell'Austria, dove le armate sovietiche giunsero a conquistare (aprile 1945)
Berlino e Vienna. A Yalta Stalin, vincitore su tutta la linea, riusciva (4-11 febbraio
1945) a far prevalere di fronte agli altri due grandi il punto di vista del Cremlino; a
Potsdam infine, crollata ormai la Germania nazista, otteneva (17 luglio-2 agosto
1945) lo spostamento verso ovest dei confini polacchi e la contemporanea
occupazione di una parte notevole del territorio germanico. L'Unione Sovietica
usciva dalla guerra non solo come vincitrice sui campi di battaglia, ma come la
beneficiaria di una situazione politica radicalmente nuova. L'Unione Sovietica era
ormai una potenza mondiale non tanto per le risorse economiche e militari, seconde
solo a quelle degli USA, quanto per la vastità dei suoi interessi politici che
coprivano tutta la Penisola Balcanica, raggiungevano il Vicino e il Medio Oriente,
l'Africa settentrionale e tutto il Mediterraneo, l'Asia sino alla Corea e l'Europa sino
a Berlino e a Vienna. Ma la bolscevizzazione dell'Europa orientale e centrale
provocò un irrigidimento degli Stati occidentali. La “cortina di ferro” (l'espressione
fu coniata da Churchill) venne a separare i due mondi che le vicende belliche
avevano avvicinato. La Conferenza per il Piano Marshall (Parigi, 1947) diede
origine alla “guerra fredda”. Da un lato gli Stati Uniti, forti della bomba atomica,
rinunciavano alla politica di collaborazione con l'Unione Sovietica, chiamando i
Paesi democratici a far blocco contro il comunismo, dall'altro si delineava
chiaramente la costellazione dei “satelliti” dell'Unione Sovietica, ossia delle
Repubbliche socialiste dell'Est europeo. Gli eventi del 1947 inasprirono anche la
situazione interna della Russia, già resa tragica dai 20 milioni di morti, dai 25
milioni dei senzatetto, dalla miseria dei superstiti nelle terre devastate e nelle città
distrutte. In questo clima di tensione, anche i Paesi satelliti furono assoggettati a
una rigida disciplina ideologica; la Iugoslavia di Tito fu espulsa dal blocco sovietico
e considerata “eretica” (1948). Dopo il 1949 l'Unione Sovietica si dovette
preoccupare di un possibile attacco dall'ovest e dal sud d'Europa: il Patto Atlantico
(agosto 1949), esteso poi (1952) alla Grecia e alla Turchia, parve minaccioso per una
URSS che non aveva ancora sanato tutte le piaghe della guerra. Ma alla morte di
Stalin (5 marzo 1953), un netto mutamento, già avvertibile negli ultimi mesi di vita
del dittatore, si rese evidente nella politica interna ed estera del regime. La tesi
della coesistenza pacifica con gli Stati non comunisti fu subito affermata;
all'interno si ebbe il “disgelo”, ossia un'attenuazione della repressione ideologica e
culturale. L'immediato successore di Stalin fu Malenkov, primo ministro dal 1953
al 1955; lo seguì Bulganin, dal 1955 al 1958; ma accanto a entrambi stava
guadagnando terreno l'abile Nikita Chruščëv, segretario del PCUS dal 1953. Nel
XX Congresso del partito (febbraio 1956) questi, leggendo un rapporto segreto,
distrusse il mito di Stalin provocando ripercussioni in tutto il mondo e specialmente
nei Paesi del blocco orientale (rivolte di Polonia e di Ungheria). Dal 1958 Chruščëv,
divenuto primo ministro, guidò da solo la politica dell'Unione Sovietica: accolse la
tesi della coesistenza pacifica, ma non esitò a rinnovare la “guerra fredda” quando
gli parve necessario. Nel 1960 la Cina prendeva le distanze da Mosca e accusava il
Cremlino di tradire la dottrina comunista negando la necessità della guerra
anticapitalista: polemica che gli anni non sanarono. Con gli USA le relazioni
migliorarono al tempo di Kennedy (1961-63), pur con qualche momento
drammatico (questione cubana, 1962). Tra i successori di Chruščëv, Leonid
Brežnev apparve la figura dominante: accanto a lui Aleksej Kosygin, primo
ministro, e Nikolaj Podgornij, presidente del Soviet Supremo, completavano la
triade detentrice del potere. Brežnev non si discostò troppo dall'indirizzo dei
predecessori circa la coesistenza pacifica, studiandosi di non inasprire i conflitti
latenti, ma rimase fermo nell'opposizione all'ideologia cinese, mirando piuttosto a
stringere i legami tra i Paesi europei del blocco comunista, in vista di una comune
politica economica. Dopo il 1968, però, gli atteggiamenti politici di Brežnev, rigidi
in teoria, si mantennero in pratica piuttosto accomodanti. Soffocata l'eresia
cecoslovacca, non si procedette con pari vigore contro altre eresie “striscianti”
(Iugoslavia, Polonia e soprattutto Romania) e si cercò di responsabilizzare i governi
degli Stati comunisti piuttosto che scomunicarli. Anche nei riguardi della
Repubblica Federale di Germania, il governo sovietico non si rifiutò a gesti
nettamente distensivi, come il trattato del 1970, firmato da Kosygin e W. Brandt. In
Asia, perdurando la tensione con la Cina, dovuta non tanto a problemi di confini
quanto a una questione d'egemonia ideologica, l'URSS accentuava più volte la
tendenza a sostenere le ragioni dell'India; nel Medio Oriente si mostrava propensa
ad appoggiare la causa araba, ma nell'uno e nell'altro caso si asteneva da ogni
intervento decisivo. Gli anni Settanta furono caratterizzati dalla distensione con gli
USA e dagli incontri al vertice col presidente americano R. Nixon e col suo
segretario di Stato H. Kissinger. La distensione ebbe la sua consacrazione ufficiale
col trattato di Helsinki (1975), dopo di che il clima tornò a volgere al peggio. Nel
1977 Brežnev riuscì a ottenere anche la carica di capo dello Stato (presidente del
Presidium del Soviet Supremo) sottratta a N. Podgornij, che terminava così una
lunga e prestigiosa carriera all'interno del PCUS. Nel 1980 fu Kosygin a uscire di
scena, lasciando la carica di presidente del Consiglio dei Ministri a N. Tikhonov.
Brežnev rimase così il solo vero detentore del potere, cumulando cariche e onori
quali non si erano mai visti dai tempi di Stalin. Nel frattempo, in politica estera,
l'intervento armato sovietico in Afghanistan (dicembre 1979) causava un netto
deterioramento nei rapporti con gli Stati Uniti; con l'avvento, nel 1980, di R.
Reagan alla Casa Bianca il dialogo Est-Ovest parve del tutto bloccato (il momento
di maggior tensione si ebbe nel 1983, con l'installazione dei primi euromissili
NATO). All'inizio del 1982 scompariva M. Suslov, l'ideologo del partito ed
eminenza grigia del Politburo, e nel mese di novembre, dopo una lunga malattia,
moriva anche Brežnev. Fu chiamato a succedergli, nella carica di segretario
generale del PCUS, Jurij Vladimirovič Andropov, membro del Politburo, nonché ex
capo del temutissimo KGB. Nel giugno 1983 Andropov venne eletto anche
presidente del Presidium del Soviet Supremo, in pratica capo dello Stato,
cumulando così le cariche del suo predecessore. L'“era Andropov” (che si era
preannunciata innovativa e riformista) fu però di breve durata perché, colpito da
grave malattia, il segretario del PCUS moriva nel febbraio 1984. All'insegna
nuovamente della continuità, il segretariato passava nelle mani dell'anziano
Černenko, che a sua volta moriva poco più di un anno dopo. A Černenko
succedeva, nel marzo 1985, Michail Gorbačëv; nel luglio dello stesso anno A.
Gromyko era proclamato presidente del Presidium e il Ministero degli Esteri
passava a E. Ševardnadze. “Uomo nuovo”, Gorbačëv si faceva subito assertore
dell'urgente necessità di profonde trasformazioni, non solo economiche e non solo
all'interno dell'URSS, ma inglobanti una complessiva rilettura di tutta la politica
estera, in chiave nettamente distensiva. Anche Reagan, rieletto presidente nel 1984,
si dichiarava disposto a riprendere le trattative – da tempo interrotte – sulla
limitazione delle armi spaziali e nucleari; nel 1985 i due leader si incontravano a
Ginevra, summit cui faceva seguito, l'anno successivo, quello di Reykjavík, in
Islanda. Nel giugno 1988 il PCUS decise di riformare la struttura dello Stato,
secondo gli orientamenti della perestrojka, concedendo maggior autonomia agli
Stati, ai centri produttivi e più libertà ai cittadini. In tale contesto di accresciuta
liberalizzazione iniziarono a manifestarsi con crescente intensità sentimenti
nazionalistici e tendenze secessionistiche a vari livelli della struttura politicoterritoriale. Si intensificò la rivendicazione d'indipendenza da parte delle
Repubbliche baltiche (con l'Estonia che in novembre proclamava il diritto di veto
del proprio Parlamento sulle decisioni del Soviet Supremo), cui si opponeva la
crescita del nazionalismo panrusso rappresentato dall'associazione Pamjat, mentre
in Transcaucasia la contesa apertasi fra Armeni e Azeri per la provincia del
Nagorny-Karabach si trasformava in conflitto. Progressi ulteriori nel campo della
distensione internazionale si avevano con l'avvio del ritiro delle truppe sovietiche
dall'Afghanistan (che si completava all'inizio del 1989), con la riduzione unilaterale
degli effettivi dell'Armata Rossa e con la ripresa di più stretti legami diplomatici
con la Iugoslavia e la Cina (prima visita di un ministro degli Esteri cinese dopo
trent'anni); il consolidamento del dialogo diretto con gli Stati Uniti proseguiva con
visite reciproche dei due presidenti (maggio-giugno e dicembre). Le prime elezioni
semilibere (marzo 1989) dell'URSS, che per tre quarti dei seggi prevedevano la
scelta fra più candidati spesso estranei al partito, portavano, a Mosca, alla vittoria
di Boris Nikolaevič Elcin (o Eltsin) contro il candidato ufficiale del PCUS e nelle
Repubbliche baltiche alla larga affermazione dei nazionalisti. Eletto presidente dal
nuovo Soviet Supremo, Gorbačëv poteva operare più agevolmente contro le forze
conservatrici del Paese, rimpiazzandone alcuni leader in talune importanti cariche
politiche; difficoltà comunque continuava a incontrare la perestrojka, soprattutto
in campo economico, non apportando concreti benefici alla popolazione ma
traducendosi anzi, attraverso la progressiva liberalizzazione dei prezzi
(principalmente dalla primavera 1990) e la riduzione dell'occupazione, in un
sensibile abbassamento del tenore di vita. Nello stesso anno l'azione volta alla
distensione internazionale si concretizzava nella proposta della “Casa comune
europea” e nella sconfessione del principio della “sovranità limitata” enunciato da
Brežnev, nonché, soprattutto, nel conseguente avallo alla liberalizzazione dei regimi
comunisti dell'Est europeo e nell'apertura alla prospettiva di riunificazione della
Germania; si attenuavano inoltre i legami con Cuba e con i Paesi socialisti africani
e asiatici, mentre con la visita di Gorbačëv a Pechino (maggio 1989) veniva sancita
la piena riconciliazione con la Cina. Fra il 1989 e il 1990 si aggravava il conflitto fra
Armenia e Azerbaigian; nuovi focolai di tensione interetnica si manifestavano in
Kirgizistan, in Uzbekistan (contro i Mescheti), in Georgia (contro gli Osseti) e in
Moldavia, inducendo ulteriori spinte centrifughe che si aggiungevano a quelle già
presenti nell'area baltica. Alla proclamazione d'indipendenza della Lituania nel
marzo 1990, all'indomani della vittoria elettorale del movimento Sajudis, sospesa in
conseguenza delle sanzioni moscovite, seguivano quelle di Estonia e Lettonia, che
con maggior cautela introducevano un periodo di “transizione” preventivo
all'effettiva entrata in vigore della deliberazione; si trattava della prima e più
radicale espressione di una tendenza generale che, agevolata dall'introduzione del
multipartitismo (marzo 1990), vedeva entro la fine dell'anno ogni repubblica, a
iniziare da quella russa (giugno), affermare il primato della propria sovranità su
quella dell'URSS. Contestualmente all'abolizione del ruolo guida del PCUS e alla
rilegittimazione della proprietà privata, lo Stato assumeva una struttura di
repubblica presidenziale, alla cui guida era eletto dal Congresso dei Deputati del
Popolo lo stesso Gorbačëv. Temendo la disgregazione completa del Paese questi
cercava di salvaguardare una certa unitarietà, oltre che con l'ampliamento delle
prerogative presidenziali, proponendo un'Unione rinnovata nella
struttura e nei rapporti fra poteri centrali e nazionali, detta appunto Unione delle
Repubbliche Sovrane, alla cui costituzione rifiutavano però di partecipare ben sei
di esse (Armenia, Estonia, Georgia, Lettonia, Lituania e Moldavia), che
boicottavano il referendum del marzo successivo. L'appoggio dei settori più
conservatori impostosi a Gorbačëv per riequilibrare il calo di consenso già
manifestatosi durante l'elezione presidenziale determinava un'involuzione nella
politica interna (riattivazione della censura, rallentamento della liberalizzazione
economica ecc.) che provocava le volontarie dimissioni di vari riformatori di primo
piano (fra i quali E. A. Ševardnadze, protagonista del processo di distensione
internazionale e preoccupato per il rischio di una svolta dittatoriale), nonché il
rafforzamento della volontà d'indipendenza e autonomia espressa dai movimenti
più radicali, in particolare dopo il cruento intervento di truppe moscovite in
Lituania (gennaio 1991). In tale situazione cresceva la popolarità di Elcin,
presidente della Russia dal maggio precedente, il quale con la firma dell'accordo
per un nuovo Trattato dell'Unione e la propria rielezione (in contrapposizione al
candidato del PCUS, in giugno) riusciva a esercitare una notevole pressione politica
sul presidente sovietico fino a influenzarne la ripresa di una linea riformista. In
luglio il PCUS abbandonava l'ideologia marxista-leninista, veniva riconosciuta
l'indipendenza della Lituania (da essa ribadita in febbraio, dopo sospensione) e
firmato il trattato START per il disarmo. Dissenziendo da tali sviluppi, un gruppo
di conservatori, fra i quali alcuni ministri e, isolato Gorbačëv in Crimea, il 19
agosto tentava un colpo di Stato con la decretazione dello stato d'emergenza e
l'autoattribuzione di poteri sovrani. Agevolata dalle incertezze dei golpisti che non
riuscivano a farsi obbedire da buona parte dell'esercito, nonché sostenuta
dall'opinione pubblica internazionale, la mobilitazione popolare promossa dalle
forze democratiche strettesi attorno a Elcin riusciva in un paio di giorni a
scongiurare il golpe. Dal fallimento di questo progetto di restaurazione, il crollo del
sistema politico e istituzionale riceveva quindi un'accelerazione determinante:
rientrato a Mosca politicamente indebolito, Gorbačëv, dopo aver sciolto il governo,
era infatti costretto a cedere le leve del comando al presidente russo Elcin, mentre il
neoistituito Consiglio di Stato riconosceva l'indipendenza delle Repubbliche
baltiche e di alcune dell'area asiatica. Esigenze di carattere economico connesse alla
stretta interdipendenza degli apparati produttivi hanno indotto comunque a
ricercare subito nuove forme di cooperazione fra le varie unità statali in
costituzione: sottoscritto da otto repubbliche un trattato d'unione economica
(ottobre), l'Ucraina (che pure aveva proclamato la propria indipendenza), la
Bielorussia e la Russia, affossando le proposte di Gorbačëv per una rinnovata
Unione di Stati Sovrani, hanno sottoscritto (8 dicembre) l'atto di nascita di una
Comunità di Stati Indipendenti (CSI), politicamente meno vincolante, cui presto si
sono associati anche Armenia, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia,
Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. I presidenti di questi 11 nuovi Stati, riuniti
ad Alma-Ata il 21 dicembre 1991, hanno istituito formalmente la CSI, decretando
di fatto la dissoluzione dell'URSS, sancita quindi il 25 dicembre dalle dimissioni di
Gorbačëv da capo dello Stato. Quale erede dell'URSS si è subito configurata la
Russia (principale componente della CSI), che si è assunta la responsabilità del
controllo dell'ex Armata Rossa, della gestione del debito estero e sostituito l'ex
URSS nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU.
Letteratura
La Rivoluzione ebbe un'eco contrastante nel mondo letterario. Molti scrittori, come
Remizov (1877-1957), Balmont (1867-1942), Gippius (1869-1945), Vjačeslav Ivanov
(1866-1949), Cvetaeva (1892-1941) lasciarono la patria. Altri invece si
immedesimarono con convinzione nei grandi eventi vissuti dal Paese. Blok (18801921) e Brjusov (1873-1924) pubblicarono versi bellissimi, in cui riviveva con
profonda commozione il dramma dal quale il Paese era appena uscito. Inquieta,
incerta, titubante fu l'attività di altri, come l'Achmatova (1889-1966) che, dopo le
liriche raccolte in Anno domini (1921), tacque per venti anni. Fu ancora una volta
Lenin a capire che l'irrigidimento in arte avrebbe significato un livellamento sterile
e nel 1920 difese, contro i seguaci dell'arte proletaria, l'importanza del retaggio
culturale borghese. Sulla sua tesi si basò poi il Comitato Centrale del Partito nel
1925 quando avvalorò le posizioni degli scrittori non proletari e promosse una
politica culturale più tollerante, stimolando lo sviluppo della letteratura, del teatro
e della critica. Tale atteggiamento fu spesso interrotto da ripensamenti. Si vide, per
esempio, con scarsa simpatia la formazione di gruppi letterari e il partito nel 1932
li sciolse e propugnò, anzi stabilì, la costituzione di un'unica organizzazione che
preluse, nel 1934, in occasione del 1º Congresso dell'Unione degli scrittori, alla
nascita del realismo socialista. Nonostante il condizionamento politico, la
letteratura sovietica era andata manifestando la sua vitalità. La Rivoluzione e la
guerra civile furono uno stimolo vivissimo per i futuristi e per gli scrittori proletari.
L'avanguardia tutta, a cominciare da Majakovskij (1894-1930), ne trasse motivo di
fervore e di rinnovamento. Si può dire che Majakovskij si gettò nella Rivoluzione
per cantarla in ogni momento, nel suo grido di rivolta come nel suo impeto di
rinnovamento, in un'esaltazione creativa che fece di lui il cantore più alto e più
profondo. Le dedicò il poema 150.000.000 (1921), ampio, nervoso, pieno di acuti e
di silenzi come una cantata moderna, e alla Rivoluzione dedicò altre opere come
Per questo (1922), Vladimir Ilič Lenin (1925), Bene! (1927), Ottobre (1927), in uno
slancio creativo che accanto alla pubblicazione di opere, anche di teatro, come
(1918), (1929) e (1930) lo trasformò in un propagandista fervido di
quell'avanguardia futurista che sembrava polarizzare ogni idea innovatrice, alla
quale solo si opponeva la poesia di autori schietti, semplici come Kljuev (18841937), poeta contadino, i cui versi sono stati raccolti nel Libro dei Canti (1919), e
come Esenin (1895-1925), influenzato da Belyj (1880-1934) e da Blok (1880-1921),
passato attraverso il simbolismo e l'imaginismo, cantore accorato della Russia di
sempre, della natura, della grande anima slava, della nostalgia per il villaggio russo
perduto per sempre, con versi incantati, bellissimi. Il dopo Rivoluzione fu un
momento tormentato e incerto, per molti, ma fecondo. I simbolisti Blok e Belyj
ebbero un grande influsso sulle nuove generazioni, ma ebbero forse il torto di non
reclamare una cultura nuova, come invece propugnarono i futuristi e gli scrittori
proletari, i quali ultimi ebbero a loro volta il torto di voler dimenticare
completamente il passato, credendo di poter dar vita a una cultura nuova,
ignorando le fondamenta, e finirono per sfociare nella poesia del komsomol. Nuovi
gruppi andavano formandosi e muovendosi esitanti, come i Fratelli di Serapione,
sorti nel 1921, con Zamjatin (1884-1937), Vsevold Ivanov (1895-1963), Zoščenko
(1895-1958), Tikonov (1896-1979), Šklovskij (1893-1984) e altri, che vollero restare
apolitici per dedicarsi solo al rinnovamento della forma e che naturalmente
portarono allo sviluppo del formalismo, così come i Compagni di strada, formatisi
anch'essi negli anni Venti, con Pilnjak (1894-1937/41), A. N. Tolstoj (1882-1945),
Pasternak (1890-1960), Babel (1894-1941) e altri, cercarono di aderire alla
Rivoluzione, restando ancorati a un'attività di tipo, per così dire, borghese, che non
ebbe certo il favore del partito, ma che operò attivamente accanto ad altri gruppi,
come Il valico, i Costruttivisti e gli Imaginisti, e contribuirono con la loro opera alla
fioritura prima del racconto, specie con Babel e i suoi incomparabili (1926) e (1931)
e poi del romanzo, specie con Pasternak e il suo (1957). Si erano intanto affermati
autori importanti. La letteratura sovietica offriva un panorama interessantissimo
con autori, oltre ai già citati, come Serafimovič (1863-1949), Gladkov (1883-1958),
Fadeev (1901-1956), Ilf (1897-1937) ed E. Petrov (1903-1942), Platonov (1899-1951),
Bulgakov (1891-1940), autore del romanzo. Le critiche non rare alla società in
trasformazione, gli scrittori incomodi (Zamjatin, Pilnjak, Babel, Pasternak, Oleša
ecc.) e le correnti giudicate inopportune (formalismo, cosmopolitismo) furono
prima attaccati dagli scrittori proletari e nel 1934 condannati. Il realismo socialista
divenne il metodo da applicare. I temi preferiti furono: l'industrializzazione, i piani
quinquennali e poi la guerra patria. L'appello del partito trovò eco in numerosi
scrittori, primo fra tutti Gorkij (1868-1936) che aveva già dato opere
vigorosamente proletarie come Le mie università (1922) e L'affare degli Artamonov
(1925) e che concluse la sua partecipazione alla realizzazione socialista con La vita
di Klim Samgin (1927-36). Dall'insegnamento di Gorkij nacquero opere piene di
vigore come Čapaev (1923) e La rivolta (1925) di Furmanov (1891-1926) e i
romanzi dei già ricordati Fadeev e Serafimovič, mentre più vicino alla tradizione
classica rimase A. N. Tolstoj con i suoi romanzi storici. Nacquero autori nuovi o si
affermarono scrittori già apparsi alla ribalta, come M. Prišvin (1873-1954), stilista
splendido, e K. Paustovskij (1892-1968), che non aveva certo dimenticato i classici
della sua terra e che aveva scritto opere di grande vigore e respiro come Cronaca di
una vita (1946-62). Su tutti si eleva M. Šolochov (1905-1984), vero continuatore del
romanzo russo, creatore di una vasta galleria di ritratti, fiume in piena di una vita
sempre rigogliosa che affonda le sue radici nell'autentica ricchezza popolare. (4
vol., 1928-40) è l'epopea della vita cosacca dal 1912 al 1921 ed è forse il romanzo
più forte e pieno della letteratura sovietica contemporanea, cui fanno degnamente
corona, dello stesso autore, Terre dissodate (1932-60) e Hanno combattuto per la
patria (1943-59), evocazione della seconda guerra mondiale. Un altro scrittore
schiettamente legato ai canoni socialisti è N. A. Ostrovskij (1904-1936), autore del
famoso romanzo autobiografico Come fu temprato l'acciaio (1932-34), sulla guerra
civile. Accanto a lui va citato un altro autore, pedagogista di schietta ispirazione
socialista, A. Makarenko (1888-1939), autore del bellissimo Poema pedagogico
(1933), e il più inquieto I. Erenburg (1891-1967), cui si devono opere sempre al
limite dell'ortodossia sovietica, ma sempre vivaci, piene di intelligenza e di
intuizioni, come L'ultima ondata (1952) o Il disgelo (1954). Va detto a questo punto
che se il partito durante la seconda guerra mondiale era apparso conciliante, nel
settembre 1946, con A. Ždanov, condannò le tendenze democratiche e liberalizzanti
nella letteratura, nel teatro, nel cinema e, nel 1948, anche nella musica. La morte di
Stalin (1953) e il XX Congresso del Partito (1956) significarono il “disgelo” vero e
proprio, già intuito da Erenburg, e la scelta dei temi da affrontare venne
liberalizzata, anche se l'Unione scrittori non mancò di scagliare, quando le parve il
caso, i suoi anatemi contro i dissidenti. La liberalizzazione fu avvertita innanzi
tutto nella poesia, dove il pathos celebrativo cedette il posto a un'analisi polemica
ma autentica. Vennero o tornarono alla ribalta N. A. Zabolockij (1903-1958), B. A.
Sluckij (1919-1986), D. Samojlov (1920-1990), B. S. Okudžava (1924-1997), A.
Tarkovskij (1932-1986), R. I. Roždestvenskij (1932-1994), A. Voznesenskij (n. 1933),
B. Achmadulina (n. 1937) e soprattutto A. Tvardovskij (1910-1971), altissimo
rappresentante della poesia di impegno civile, autore dei poemi Dietro la
lontananza il lontano (1960) e Tërkin nell'altro mondo (1963). La prosa si rinnovò
al pari della poesia, abbandonando gli schematismi monocordi del “realismo
socialista”. Si affermarono così scrittori ben presto di valore e fama mondiale, come
V. Kataev (1897-1986), autore di L'erba dell'oblio (1967) e Il cimitero di Skuljany
(1975), Nekrasov (1911-1987), divenuto celebre con il romanzo Nella città natale
(1954), K. Simonov (1915-1979), autore dei racconti di guerra I vivi e i morti (1959)
e L'ultima estate (1971), A. I. Solženicyn (1918-2008), affermatosi con Una giornata
di Ivan Denisovic (1962) e con Divisione Cancro (1968), G. J. Baklanov (n. 1923), V.
Tendrjakov (1923-1984), autore de L'estraneo (1956) e Il trapasso (1968), V.
Astaf'ev (1924-2001), V. Solouchin (1924-1997), divenuto celebre con I sentieri di
Vladimir (1957) e Una goccia di rugiada (1960), J. V. Bondarev (n. 1924), J.
Trifonov (1925-1981), autore di I riflessi del rogo (1965), Un'altra vita (1975) e La
casa sul lungofiume (1976), J. P. Kazakov (1927-1982), V. Šukšin (1929-1974), che
ha scritto Gente di campagna (1963) e Conversazioni al chiaro di luna (1974), il
drammaturgo Rozov (1913-2004), V. Belov (n. 1932) ecc. Nonostante una certa
distensione, molti scrittori, a cominciare da Solženicyn, furono costretti tuttavia
alla via dell'esilio o a quella del samizdat, la diffusione clandestina attraverso una
catena di dattiloscritti delle opere proibite dalla censura. Nell'atmosfera plumbea
dell'era brezneviana, la vita letteraria continuava a scorrere semisegreta sotto la
verniciatura di maniera della cultura ufficiale. Molti libri, dal valore letterario
ineguale, penetrarono in quel periodo la cortina della censura,
giungendo in Occidente ammantati di quella curiosità eccitata e affascinata che da
sempre caratterizza la percezione europea del mondo slavo. È questo il caso del
celebre Mosca sulla vodka (1977) di V. Erofeev (1938-1990), lacerato brandello di
anima russa, divisa come sempre tra il sogno di un'impossibile purezza e la
corruzione del quotidiano. La letteratura russa continua la sua vita difficile in
patria, mentre quella dell'emigrazione, pur mantenendo un'identità forte, si
contamina poco a poco con le culture ospiti. V. Nabokov (1899-1977) entra a far
parte, a buon diritto, della cultura americana; lo stesso dicasi per I. Brodskij (19401996), la cui anima russa si esprime in una meravigliosa lingua poetica inglese.
Nina Berberova (1901-1993) si afferma come la musa della cultura russa negli Stati
Uniti, ricostruendo sul filo della memoria le vicende e l'atmosfera della Russia
prerivoluzionaria. Gli scrittori del dissenso politico militante pubblicano all'estero i
loro roventi atti d'accusa contro il regime che incarcera i suoi intellettuali più
critici: nasce un vero e proprio filone, la memorialistica del Lager, che può
annoverare alcuni lavori significativi come Grigio è il colore della speranza (1988)
di Irina Ratusinskaja (n. 1954). In patria la letteratura, che di lì a poco non potrà
più definirsi sovietica, ha aspetti diversi: c'è una letteratura ufficiale, grigia e
verniciata di ottimismo artificiale, diretta continuatrice dei dettami del realismo
socialista; c'è una letteratura cautamente riformista che, senza essere in aperta
opposizione al regime e soprattutto senza tradirne il principio di base (realismo
rigoroso senza alcuna concessione allo sperimentalismo), ne critica le storture più
evidenti. C'è, infine, una letteratura apertamente e sfrontatamente dissidente che
esprime, sia dal punto di vista stilistico che contenutistico, un totale rifiuto della
cultura ufficiale (Kaledin, n. 1949; Petrusevskaija, n. 1938; P'ecuch, n. 1946;
Popov, n. 1946; il già citato Erofeev). La vivacità del dibattito politico e il clima di
rinnovamento sociale che si respirano nell'URSS di Gorbačëv offrono uno
straordinario alimento alla letteratura, tanto da definire “disgelo gorbaceviano”
l'insieme delle nuove tendenze che caratterizzano la seconda metà degli anni
Ottanta. Da quando, nel 1991, l'Unione Sovietica ha cessato di esistere, è diventato
molto difficile seguire le fila del dibattito letterario. La cultura soffre di una tragica
crisi di identità, dovuta al rapido cambiamento del suo orizzonte politico-sociale:
venuta meno la ragione di esistere della cultura di protesta, l'intellettuale russo ha
dovuto reinventarsi un ruolo e ridefinire la propria identità. Fenomeni esterni,
come la penuria di carta e la ristrutturazione delle case editrici, più orientate verso
la letteratura straniera, rendono difficile interpretare le tendenze che
caratterizzano il mondo letterario russo contemporaneo.
Arte
Nel periodo rivoluzionario, della guerra civile e del primo assestamento economico
e politico della Repubblica popolare, cioè negli anni tra il 1918 e il 1925, vissero una
breve ma intensa stagione i movimenti d'avanguardia (raggismo, suprematismo,
costruttivismo) inserendosi attivamente nella cultura rivoluzionaria nel tentativo di
adeguarsi ai precetti di Lenin, che postulava la necessità dell'adesione popolare
all'opera d'arte, considerata come espressione di contenuti storici e sociali.
Pochissime furono ovviamente le realizzazioni in campo architettonico di questo
primo periodo; più numerosi i progetti tra cui quello per il Monumento alla III
Internazionale (1919) di V. Tatlin, concepito come una gigantesca architettura
astratta in metallo a forma di spirale, quasi un'antenna radio che diffondesse nel
mondo i valori rivoluzionari; secondo l'impostazione ideologica di Malevič e Tatlin
(affiancati da Rodčenko e Lissitsky), impostazione che tentava di conciliare la
figurazione astratta con i compiti rappresentativi e sociali che il partito imponeva
agli artisti sovietici, l'architettura e le altre arti dovevano così rappresentare
simbolicamente le conquiste e le aspirazioni delle masse rivoluzionarie. Queste
teorie, che ebbero largo seguito anche fuori della Russia, non giunsero tuttavia ad
affermarsi compiutamente. Tra le realizzazioni nel campo dell'architettura si
possono ricordare la Mostra Agricola Panrussa a Mosca (1923; di I. V. Zoltovskij,
A. V. Ščusev e altri), il Mausoleo di Lenin a Mosca (A. V. Šcusev; 1926), la centrale
idroelettrica di Volhov (1919-26) e i primi complessi di case operaie a Mosca, San
Pietroburgo, Jekaterinburg, Novosibirsk, approntati tra il 1920 e il 1930. L'attività
dei costruttivisti, legati nella società “Architettura Contemporanea” (1925-31) di
cui fecero parte tra gli altri i fratelli Vesnin, autori del Palazzo di Cultura della
Fabbrica di Automobili di Mosca, M. J. Ginzburg e P. A. Golosov, autore della sede
della Pravda a Mosca, mantenne vive le tesi di un'architettura razionalista e
funzionale, raccogliendo consensi anche all'estero. Mentre già intorno al 1920 i
movimenti connessi con le avanguardie europee (cubismo, futurismo, astrattismo)
apparivano esclusi dagli sviluppi immediati dell'arte russa, tentò una conciliazione
tra avanguardia e nuovi contenuti l'Unione degli Artisti da Cavalletto (1925-32).
Erano intanto venute delineandosi sempre più chiaramente, negli anni tra il 1920 e
il 1930, correnti conservatrici che, facendo appello alle tradizioni classiciste
nell'architettura (Società Architettonica di Mosca, 1869-1930) e al realismo nelle
arti figurative (Associazione degli artisti della Russia Rivoluzionaria, 1922-32),
avrebbero in seguito indirizzato in quel senso ogni ulteriore evoluzione dell'arte
sovietica, mantenendone il distacco dalle contemporanee correnti europee fino a
tempi recenti. L'avvenimento fondamentale del periodo in campo artistico, i
concorsi per il Palazzo dei Soviet a Mosca (1931-33), cui parteciparono tra l'altro
Le Corbusier e Gropius, segnò il definitivo trionfo del tradizionalismo accademico
di I. A. Fomin e A. V. Ščusev nell'architettura e del realismo socialista nella pittura;
successo confermato dalla fondazione nel 1932 delle Unioni degli Architetti
Sovietici e degli Artisti Sovietici, organi ufficiali del nuovo gusto. Le realizzazioni
grandiose dei periodi immediatamente precedente e successivo alla seconda guerra
mondiale si ispirarono a esigenze di rappresentanza e sfarzoso monumentalismo
con esiti discutibili per irrazionalità ed enfasi decorativa (Metropolitana di Mosca,
1932-35; Università di Mosca, 1948-53). Nelle arti figurative prevalse la
rappresentazione realistica, spesso fredda e oleografica, degli avvenimenti storici e
della realizzazione della società comunista (Ioganson, Gerasimov, Maximov,
Pimenov ecc.). Intensa riprese nel periodo postbellico l'attività urbanistica con la
ricostruzione dei centri danneggiati dalla guerra e con la costruzione di nuovi
centri industriali e residenziali nelle regioni orientali e in Siberia, secondo criteri di
architettura razionale con largo impiego della prefabbricazione; tra i numerosi
centri sorti dal 1945 a oggi si distingue per imponenza Togliatti (1967 e seguenti);
anche le ristrutturazioni urbane più recenti e i nuovi edifici si ricollegano al
funzionalismo (Mosca, Palazzo dei Congressi, 1961; Kalinina Prospekt e Lenina
Prospekt, 1967; San Pietroburgo, Hotel Russia, 1962), mentre parallelamente si
sviluppano nelle arti figurative correnti che si riaccostano all'astrattismo e
all'informale. Accanto all'arte cosiddetta “ufficiale”, negli anni Sessanta si sono
affermati numerosi gruppi d'avanguardia, le cui esperienze erano in qualche modo
rapportabili a quelle allora in voga in Occidente. Importante è il lavoro svolto dal
collettivo Dviženie, che si rifaceva alle vecchie avanguardie astrattocostruttiviste di
Malevič e Tatlin. Negli anni Settanta c'è stato anche nell'Unione Sovietica un certo
sviluppo dell'arte concettuale, dell'arte comportamentale e della land-art. Questi
lavori sono giunti in Occidente attraverso la Biennale veneziana del 1977. La
Galleria Tretiakov di Mosca nel 1981 ha allestito una mostra dedicata ad alcuni
pittori non conformisti come Ilya Pravdin, Aleksandr Simnikov, Tatiana
Nazarenko, Viktor Kalinin, Tatiana Nassipova e gli “iperrealisti” Aleksandr Petrov
e Andrej Volkov.
Musica
Dopo lo scoppio della Rivoluzione del 1917 oltre a Stravinskij altri musicisti
abbandonarono il Paese trasferendosi in Occidente: S. Rachmaninov (1873-1943)
nello stesso 1917, Nikolaj Nikolaevič Čerepnin (1873-1945), A. N. Čerepnin (18991977) e N. K. Metner nel 1921; A. T. Grečaninov (1864-1956) nel 1922, Glazunov
(1865-1936) nel 1928. Prokofev (1891-1953), che era stato assente dall'Unione
Sovietica dal 1918, pur condividendone le scelte politiche e ideali, vi fece ritorno nel
1933. La prima fase del regime comunista (sino al 1930 ca.) fu caratterizzata in
campo musicale da un'aperta adesione alle avanguardie storiche occidentali, in
particolare alle esperienze dell'espressionismo e della nuova scuola di Vienna
(Schönberg, Berg e Webern), e dalla ricerca di un linguaggio che rispecchiasse sul
piano dello stile il processo di rinnovamento rivoluzionario in atto nel Paese. La
rivalutazione del patrimonio folcloristico, la stretta collaborazione con uomini di
teatro e di cinema (celebre fra le altre la collaborazione di Prokofev con Ejzenštejn
per Alessandro Nevskij), l'elaborazione di nuove forme e modi di comunicazione
furono i punti nodali di questa ricerca. Accanto a Prokofev e a Šostakovič (19061975), personalità di rilievo della storia musicale del Novecento, si segnalarono N.
J. Mjaskovskij (1881-1950), R. M. Glier (1875-1956), B. V. Asafev (1884-1949), M.
O. Šteinberg (1883-1946), M. F. Gnesin (1883-1957), A. A. Krejn (1883-1951), J. A.
Šaporin (1887-1966), S. N.Vasilenko (1872-1956) e altri. La politica culturale
staliniana portò a un arresto di queste esperienze, ponendo l'accento sulla necessità
di una musica facilmente comprensibile al popolo, ispirata a tematiche patriottiche
e, soprattutto, nettamente legata al sistema tonale: in base a questi principi nel
1948 furono accusati di “formalismo borghese” autori quali Prokofev, Šostakovič,
V. I. Muradeli (1908-1970), A. Chačaturjan (1903-1978) e altri. Occorre comunque
tenere presente che queste direttive si accompagnarono a una capillare
ristrutturazione della vita musicale, sia sul piano didattico sia su quello
organizzativo, che fece dell'Unione Sovietica uno dei Paesi nei quali è stato
raggiunto il più alto e generalizzato livello d'istruzione musicale, com'è confermato
dalla vasta diffusione di complessi sinfonici e di solisti di fama mondiale: si pensi a
pianisti come E. Gilels (1916-1985), S. Richter (1914-1997), Y. Flier, V. Aškenazij (n.
1937), L. Berman (n. 1930), ai violoncellisti G. Piatigorski (1903-1976) e M.
Rostropovič (1927-2007) e a sua moglie il soprano G. Višnevskaja (n. 1926), ai
violinisti Igor (n. 1931) e David Oistrach (1908-1974), L. Kogan (1924-1982) ecc.
Anche sul piano delle esperienze compositive si è assistito a un ampio dibattito
sfociato in un cauto confronto critico con le esperienze del linguaggio musicale
occidentale, accompagnato a una sempre più approfondita indagine sulle
caratteristiche etniche e culturali del patrimonio musicale di ogni singola
pepubblica. Nel vasto panorama di indirizzi e di posizioni sono emersi D. B.
Kabalevskij (1904-1979), J. A. Šaporin, V. J. Šebalin (1902-1963), T. N. Chrennikov
(1913-2007), I. I. Dzeržinskij (1909-1978), A. V. Mosolov (1900-1973) e inoltre R.
Ščedrin (n. 1932), G. G. Galynin (1922-1966), A. Volkonskij (n. 1933), E. Denisov
(1929-1996), S. Slonimsky (n. 1894-1995), T. Mansurian (n. 1934), R. Grinblat (n.
1930) e soprattutto A. Schnittke (1934-1998), B. Tiščenko (n. 1939) e S. Gubaidulina
(n. 1931).
Danza
All'indomani della Rivoluzione d'ottobre, dopo un periodo di incertezza, animato
da aspre discussioni sul futuro della tradizione ballettistica e dal tentativo di
affidare a I. Duncan (1921-22) la creazione di una nuova cultura coreografica di
ispirazione rivoluzionaria, il governo sovietico, anche grazie alla determinante
presa di posizione di A. Lunacarskij, primo commissario alla Cultura, si assunse il
compito di preservare e tutelare adeguatamente l'arte del balletto. Fin dagli anni
Venti, nei due maggiori teatri dell'ex impero zarista, il Bolšoj di Mosca e il
Mariinskij (ribattezzato Teatro Accademico di Stato d'Opera e Balletto, poi dal
1935, Kirov, e dal 1992 di nuovo Mariinskij) di Leningrado (oggi San Pietroburgo)
al repertorio tardoromantico imperniato sull'opera di M. Petipa, cominciarono ad
affiancarsi nuove creazioni, largamente influenzate da varie correnti del
modernismo nonché dalle teorie di K. Stanislavskij e, a partire dagli anni Trenta,
dai principi del realismo socialista. A. Lopuchov e K. Golejzovskij, poi V. Vainonen,
R. Zacharov e L. Lavrovskij furono i coreografi protagonisti della prima fioritura
del balletto sovietico, mentre sul versante didattico l'opera di sistematizzazione e
riorganizzazione dei corsi e dei metodi di studio intrapresa da A. Vaganova, fornì
alla scuola sovietica un'impareggiabile base tecnica. Il primato dell'antico
Mariinskij si mantenne pressoché inalterato fino ai primi anni Quaranta, quando il
trasferimento a Mosca di G. Ul'anova, unanimemente considerata la “prima
ballerina assoluta” del balletto sovietico, segnò il passaggio a una fase di
predominio – quanto a risorse e prestigio, nazionale e internazionale – del Bolšoj di
Mosca. La cura e la riorganizzazione dell'insegnamento, della diffusione e della
riproduzione dell'arte coreografica (balletto e danze popolari) è stata
successivamente affidata ad appositi organismi centralizzati: nuove accademie per
la formazione professionale di ballerini, coreografi e maestri sono state create in
ogni repubblica e nuove compagnie si sono formate in tutte le principali città
dell'Unione Sovietica. Largo spazio ha avuto anche l'elaborazione di una moderna
tradizione coreografica folclorica, che ha contribuito all'arricchimento del
vocabolario ballettistico, grazie soprattutto all'opera pionieristica e
riorganizzatrice di I. Moiseev. L'apparizione di nuove splendide generazioni di
interpreti (M. Pliseskaja, E. Maximova, V. Vasilev, M. Liepa, Y. Solovä, A. Shelest,
A. Sizova, R. Stručkova, I. Kolpakova, N. Bessmertnova) non ha impedito il lento,
dapprima impercettibile, poi sempre più evidente declino, a partire dalla fine degli
anni Sessanta, della scuola sovietica: grandi talenti di interpreti – R. Nureev, N.
Makarova, M. Barijsnikov – si sono resi protagonisti di clamorose fughe in
Occidente, alla ricerca di una maggiore libertà di espressione artistica e personale,
mentre sul piano coreografico, nonostante l'apparizione di nuove personalità
creative (J. Grigorovič, L. Jacobson, O. Vinogradov) il sempre più soffocante clima
culturale sovietico impediva una vera fioritura di talenti. Salvo rare eccezioni, lo
stile sovietico si esauriva, a Mosca, in un esasperato tecnicismo, gonfio di atletismo
retorico e di virtuosismo fine a se stesso, mentre a Leningrado se si coltivava
ancora, ma con sempre maggiore fatica, l'antica aristocratica purezza
tecnicostilistica, sul piano creativo si soffriva delle medesime limitazioni. Il
patrocinio dello Stato e la certezza delle risorse finanziarie hanno comunque
garantito un fiorire di scuole e, in larga misura, la continuità di una ricca
tradizione. Con la dissoluzione dell'Unione Sovietica anche il balletto è entrato in
una profonda crisi.
Teatro
All'indomani della Rivoluzione d'Ottobre, un decreto del nuovo governo sottopone
l'intera attività teatrale al Commissariato per l'Istruzione, alla cui testa è il
drammaturgo A. V. Lunačarskij; due anni dopo tutti i teatri vengono nazionalizzati
e sono soggetti a un Comitato teatrale centrale. Il primo quindicennio del teatro
sovietico è caratterizzato da un fervore di attività che si manifestò non solo sulle
scene professionali, rapidamente moltiplicatesi di numero, ma anche negli
innumerevoli gruppi a carattere sperimentale che sorgono un po' ovunque. Si
possono distinguere alcune tendenze fondamentali: il rifiuto radicale delle forme
teatrali tradizionali e la loro sostituzione con grandi spettacoli di massa che si
riallacciano alle feste della Rivoluzione francese; la sperimentazione teatrale,
ritenendo sufficiente per l'epoca nuova il superamento delle forme nelle quali si è
finora riconosciuta la classe dominante (è la tendenza che si riscontra, per esempio,
negli ultimi spettacoli di Vachtangov, morto prematuramente nel 1922, e in quelli di
A. Tairov, peraltro radicalmente diversi); un teatro nel quale le più ardite
innovazioni formali (con occhio attento ai più avanzati movimenti letterari e
artistici, dal costruttivismo al suprematismo) procedono di pari passo con un
discorso volutamente e provocatoriamente politico: è la strada di Mejerchold e dei
suoi spettacoli, ogni volta sassi lanciati nello stagno e ogni volta oggetto di
furibonde polemiche; infine, la necessità di non rompere con il passato, la cui
lezione deve anzi essere ripresa e portata avanti adeguandola ai contenuti nuovi.
Sarà questa la linea prevalente, soprattutto a iniziare dagli anni Trenta, con
l'ufficializzazione dell'estetica del realismo socialista, con la condanna di tutti i
“formalismi” e con la stretta subordinazione del teatro, come di ogni altra attività,
alle esigenze prioritarie del Paese, in particolare a quelle della propaganda.
Mejerchold è arrestato nel 1939, altri registi d'avanguardia (come Ochlopkov,
Akimov, Popov ecc.) s'adeguano al nuovo corso, la tradizione realistica del Malyj e
del MCHAT (Teatro d'Arte di Mosca) diventa modello insostituibile, privata per di
più delle sue componenti di inquietudine e di critica. Il livello tecnico del teatro
(attori, registi ecc.) rimane assai alto, ma, fatte poche eccezioni, il tono generale
delle rappresentazioni è quello di un corretto accademismo. È solo dopo il 1953 che,
riabilitato Mejerchold, registi come Ljubimov, Efros, Tovstonogov, più alcuni
superstiti della grande epoca, riportano la scena sovietica all'attenzione dei
teatranti del mondo intero. Il risultato più importante del regime sovietico è
d'ordine soprattutto organizzativo e quantitativo. Si va dalla moltiplicazione delle
scene in tutte le Repubbliche che compongono l'Unione Sovietica alla loro
organizzazione in strutture permanenti; dall'aiuto e dall'incoraggiamento forniti
alle iniziative giudicate meritevoli al riconoscimento dell'autonomia di gestione dei
singoli teatri, che non vengono aiutati con sovvenzioni ma forniti di un capitale di
partenza da amministrare con piena responsabilità. L'Unione Sovietica è stata
dunque uno dei Paesi dove la diffusione del teatro è avvenuta in modo più capillare
e dove più alto è risultato il livello tecnico medio delle rappresentazioni. Ai dati
largamente positivi della capillarità della diffusione, della grande affluenza del
pubblico e dell'alta professionalità dei teatranti, si sono accompagnate tuttavia una
forte burocratizzazione dell'offerta teatrale e una certa uniformità, attestata dalla
prevalenza assoluta del modello stanislavskijano nella recitazione, dalla scelta di un
repertorio il più possibile privo di inquietudini e di problematiche contemporanee,
da una tecnica di messinscena subordinata alla preminenza del testo. Ci sono state,
naturalmente, le eccezioni, soprattutto negli ultimi decenni, cioè da quando è stato
di nuovo possibile rifarsi alla gloriosa lezione di Mejerchold. Registi come quelli
sopra citati, e anche alcuni drammaturghi, attenti ai problemi della nuova società
sovietica, hanno posto alternative ai modelli ufficiali. Dai loro spettacoli è affiorato
spesso un discorso di attualità, magari dalla messinscena non convenzionale di un
classico.
Cinema
Il cinema dell'Unione Sovietica ha le sue origini nel cinema russo prerivoluzionario
anche se nacque in polemica e in aperta rottura con esso e, per mancanza di
pellicola, talvolta sulla cancellazione degli antichi film (alcuni dei quali magari di
grande interesse come Il ritratto di Dorian Gray, 1916, di Mejerchold). Preziose
testimonianze delle cineattualità dell'epoca zarista sono i film d'archivio e di
montaggio di E. Šub La caduta della dinastia dei Romanov (1927) e La Russia di
Nicola II e Leone Tolstoj (1928). Giornalista a Nižnyi-Novgorod, Gorkij fu il primo
cronista cinematografico; G. Vitrotti dell'Ambrosio di Torino l'operatore straniero
di miglior fama; Drankov e Chanžonkov furono i primi produttori nazionali
(Stenka Razin, 1908, il primo film) e tra i registi di “colossi” storici e letterari si
segnalarono Gončarov e Čardynin, poi V. Gardin e I. Protazanov che girarono
insieme Guerra e pace (1915). Tolstoj, Lenin e Gorkij si erano battuti per un
cinema diverso, ma durante la prima guerra mondiale – con la produzione
Ermolev, le dive Lysenko e Cholodnaja, l'attore I. Mozžuchin, i registi Protazanov e
E. Bauer – trionfarono la tendenza salottiera e quella mistico-erotico-satanica,
anche se gli stessi registi e attori si riscattavano a contatto con la letteratura
dell'Ottocento o con temi politici contemporanei; finché Protazanov nel 1917, tra la
rivoluzione di febbraio e quella d'ottobre, in Padre Sergio da Tolstoj, con
Mozžuchin, diede forse il migliore dei quasi duemila film prerivoluzionari, uscito
soltanto sugli schermi sovietici e rimastovi per un decennio. Emigrato (soprattutto
a Parigi) lo stato maggiore del cinema zarista e kerenskiano, stabilita una certa
continuità tecnico-artigianale dai cineasti rimasti in patria (come Gardin) o più
tardi rientrativi (come Protazanov), il cinema sovietico, nazionalizzato il 29 agosto
1919, ebbe inizio dagli agitki, brevi film di propaganda della guerra civile e del
comunismo detto appunto di guerra, e del quale D. Vertov si farà il primo
banditore. Lenin fu il primo uomo di Stato a considerare il cinema “di tutte le arti,
la più importante”, Lunačarskij un commissario alla cultura che partecipava anche
di persona all'elaborazione dei primi soggetti e Majakovskij un poeta che si
produceva anche come attore cinematografico ma riteneva il cinema non
spettacolo, bensì “quasi una concezione del mondo”; mentre già nell'autunno 1919
si aprivano a Mosca e a Pietrogrado i primi due Istituti statali specializzati e nello
stesso anno si ricorreva ancora a Tolstoj in Polikuška, rimanevano apertissimi i
problemi della distribuzione (con un'accurata cernita dei film stranieri) e della
produzione, che negli anni Venti si ristrutturò, anche col concorso delle ultime
società private durante il periodo della NEP, o venne creata ex novo specie nelle
Repubbliche periferiche. Proprio dalla Georgia arrivò nel 1923 I diavoletti rossi di
I. Perestiani, mentre il 1924 fu un anno cruciale con il film fantascientifico di
Protazanov Aelita, con Le straordinarie avventure di Mr. West nel paese dei
bolscevichi di L. Kulešov, grande sperimentatore e maestro della nuova
generazione di cineasti, con Le avventure di Ottobrina che a Leningrado segnò
l'esordio della FEKS, con la prima serie Kino-Pravda di Vertov e con la prima
opera di Ejzenštejn, Sciopero, vero principio del cinema rivoluzionario. In un
crogiolo di battaglie ideali e linguistiche, di distacchi dal passato (come richiesto dai
virulenti manifesti del Cine-Occhio di Vertov) e di insegnamenti teatrali (quali
l'eccentrismo del Proletkult), il nuovo cinema sovietico fu elaborato con la
partecipazione prevalente del rovesciamento ideologico dal cinema borghese in
cinema classista (col proletariato operaio nuovo protagonista plastico). Seguirono:
La corazzata Potëmkin (1925) di Ejzenštejn e La Madre (1926) di Pudovkin in
Russia, Arsenale (1929) e La terra (1930) di Dovženko in Ucraina, capolavori che si
imposero come classici non solo in Unione Sovietica, ma in tutto il mondo, mentre il
cinema-verità documentario di Vertov si raccoglieva e si esaltava in sinfonie del
lavoro e dell'edificazione socialista. Fu un decennio straordinario, certo la punta
più alta mai raggiunta dal cinema internazionale, in cui apparvero le opere
successive di Ejzenštejn e Pudovkin (Ottobre e La linea generale per il primo, La
fine di San Pietroburgo e Tempeste sull'Asia per il secondo), il capolavoro
figurativo La nuova Babilonia (1929) di Kozincev e Trauberg a Leningrado, si
sviluppò il travaglio teorico dei “formalisti russi”, la commedia NEP toccò vertici
originalissimi nei film di A. Room e B. Barnet, il Manifesto dell'asincronismo
impostò i problemi del sonoro; in quegli anni vi fu la parentesi messicana di
Ejzenštejn, G. V. Aleksandrov e Tissé, apparvero il cine-treno e le satire militanti di
A. Medvedkin, i primi film parlati di Dovženko (Ivan, 1932), Pudovkin (Il
disertore, 1933) e Barnet (Okraina, 1933), l'ultimo film muto (Boule-de-suif, 1934,
da Maupassant) che segnò l'esordio di M. Romm. Va però notato che,
parallelamente a questa esplosione multiforme, si rassodava e si sviluppava una
linea più tradizionale che, facendosi forte della dichiarazione di Stalin al XIII
Congresso del Partito Comunista nel 1924 (“Il cinema è il più grande mezzo di
propaganda di massa. Dobbiamo prenderlo nelle nostre mani”), si opponeva
sempre più agli innovatori, ostacolava gli sperimentatori, accusava di formalismo,
di intellettualismo e di individualismo i maggiori registi, si rivolgeva indietro ai
modelli artistici e letterari dell'Ottocento e, privilegiando la commedia di costume o
musicale, il film storico e quello psicologico con eroe “positivo”, giungeva nel 193435, al Congresso degli scrittori e poi a quello dei cineasti, a decretare la
soppressione burocratica delle varie tendenze, a definire sorpassato il realismo
“critico” e a proclamare il realismo “socialista” unica tendenza del cinema
sovietico. Di questo processo furono testimonianza, nel 1932, film come Il cammino
verso la vita di N. Ekk e Contropiano di Ermler e Jutkevič, e nel 1934 Ciapaiev dei
Vasilev, che Stalin assunse a modello del nuovo corso. Si trattava ancora di opere di
grande qualità e ancora valide furono più tardi la “trilogia di Massimo” (1934-38)
di Kozincev e Trauberg, la “trilogia di Gorkij” (1938-40) di M. Donskoj, Il
deputato del Baltico (1936) e Membro del governo (1939) di Zarchi e Chejfic,
L'ultima notte (1937) di J. Rajzman, Biancheggia una vela solitaria (1937) di V.
Legošin, Aerograd (1935) e Ščors (1939) di Dovženko, Pietro il Grande (1937-39) in
due parti di V. Petrov, Aleksandr Nevskij (1938) di Ejzenštejn (reduce tuttavia dal
progetto incompiuto del Prato di Bežin, bloccatogli nel 1937 dal direttore della
cinematografia Šumjackij), il dittico su Lenin (1937-39) di M. Romm, L'uomo col
fucile (1938) di Jutkevič, Il maestro (1939) di S. Gerasimov ecc. A dispetto della
qualità di tali film e di quelli prodotti nelle Repubbliche periferiche, come I ventisei
commissari (1933) del georgiano Šengelaja, Pepó (1935) dell'armeno Bek-Nazarov,
Noi di Kronstadt (1936) del bielorusso Dzigan, Bogdan Chmelnickij (1941)
dell'ucraino Savčenko, i pericoli di schematismo, appiattimento e deformazione, sia
della storia sia della contemporaneità (tuttavia sempre più raramente affrontata),
si affacciavano però già in modo preoccupante, sostituendo all'analisi della realtà la
sua idealizzazione, alla dialettica l'ottimismo, specie nelle commedie colchosiane di
Pyrev che seguirono a quelle musicali di Aleksandrov. Durante la seconda guerra
mondiale i generi più sviluppati furono il documentario e quello storico-biografico
che, oltre a Georgij Saakadze (1942-43) di Čiaureli in Georgia e a David Bek (1943)
di Bek-Nazarov in Armenia, diede l'Ivan Groznij (1943-45) in due parti (titolo
italiano Ivan il Terribile e La congiura dei boiardi) di Ejzenštejn. La seconda parte
di quest'ultimo, bocciata con altri film da una risoluzione del Comitato centrale nel
settembre 1946, uscì in Unione Sovietica soltanto dopo la denuncia del “culto della
personalità” (1956), che l'opera a suo modo anticipava. Nel dopoguerra, mentre la
produzione declinava anche quantitativamente in quanto le sceneggiature erano
sottoposte a ferrei controlli, il culto del vincitore e la verniciatura della realtà
predominavano incontrastati, sia nel trittico staliniano di Čiaureli Giuramento
(1945), La caduta di Berlino (1949-50) in due parti, L'indimenticabile 1919 (1952),
sia nelle due parti della Battaglia di Stalingrado (1949) di Petrov, mentre una
visione meno distorta della guerra è nella Grande svolta (1946) di Ermler. Anche le
biografie storiche ebbero largo spicco: le migliori furono, nel 1949, L'accademico
Ivan Pavlov di G. Rošal, in cui prevale la monografia scientifica, e Mičurin di
Dovženko per i suoi aspetti lirici, sottolineati dal colore. Ma in quasi tutti i film del
periodo, salvo forse quelli favolistici di Ptuško (da Il fiore di pietra, 1946, a Sadko,
1953) e, in maggior misura, i bellissimi documentari scientifici di Žguridi e Dolin, la
teoria dell'“assenza di conflitti” e lo stravolgimento del concetto di “tipico”
conducono all'iperbole e al manicheismo; tra i titoli maggiormente denunciati in
seguito, I cosacchi del Kuban (1950) di Pyrev che, essendo tra i pochi sull'attualità,
meglio disvela la falsità del contrasto tra il bene e il meglio. Si salvò invece l'ultima
opera di Pudovkin, Il ritorno di Vasilij Bortnikov (1953), in cui il dolore riprendeva
la sua funzione di alternativa alla gioia di vivere e che preannunciava il tempo del
“disgelo”. Questo si qualificò anzitutto con un richiamo alla tradizione degli anni
Venti e Trenta (Il quarantunesimo, 1957, di G. Čurchraj rifaceva un film di
Protazanov del 1927; Quando volano le cicogne, 1958, di M. Kalatozov ricordava,
almeno nei virtuosismi fotografici, il suo
documentario del 1930 Il sale della Svanezia; la raffinatezza letteraria e figurativa
di film come La cicala, 1955, di Samsonov, Don Chisciotte, 1957, di Kozincev, La
signora dal cagnolino, 1960, di Chejfic, si ricollegava a modelli del passato). In due
opere del 1959, Destino di un uomo di S. Bondarčuk, regista e attore, e Ballata di
un soldato di Čuchraj, si riaffermava un sofferto umanesimo, mentre i veri
protagonisti del disgelo cinematografico risultarono, nei primi anni Sessanta,
l'anziano M. Romm, straordinario maestro di giovani, col suo Nove giorni di un
anno (1961), e i suoi allievi Čuchraj (il cui Cieli puliti, 1961, fu però meno felice dei
suoi precedenti, pur essendo il più coraggioso), A. Tarkovskij (che con l'opera
prima L'infanzia di Ivan, 1962, vinse il Leone d'oro a Venezia e destò l'entusiasmo
di Sartre), M. Chucjev (che con Ho vent'anni, 1962, uscito rimaneggiato nel 1964,
suscitò le preoccupazioni di Chruščëv) e V. Šukšin (già attore di Chucjev, che esordì
nel 1964 con Vive un ragazzo così, ottenendo a Venezia il Gran Premio nella Mostra
del film per ragazzi). I registi anziani concludevano intanto la loro carriera:
Kozincev con Shakespeare (Amleto, 1964; Re Lear, 1971), Jutkevič con due film su
Lenin e due da Majakovskij, e Romm col film di montaggio Il fascismo quotidiano
(1966); Bondarčuk monopolizzava la Mosfilm con le varie parti di Guerra e pace
(1964-67) come più tardi J. Ozerov con le varie parti di Liberazione, film-epopea
sulla seconda guerra mondiale ultimato nel 1971. Contemporaneamente i registi
giovani che meglio si segnalavano erano M. Kalik (L'uomo segue il sole, 1961), J.
Karasik (Dingo cane selvaggio, 1962), K. Voinov (Giovane verde, 1962), l'ucraina L.
Šepitko col film kirghiso Calura (1963) e con Ali (1966), G. Danelija (A zonzo per
Mosca, 1964; Trentatre, 1965), E. Klimov, V. Derbenjov, A. Saltykov, il lettone M.
Bogin, il lituano V. Žalakjavičus e il russo A. Končalovskij, ex collaboratore di
Tarkovskij, la cui attività personale si è sviluppata dal film kirghiso Il primo
maestro (1966), attraverso le riduzioni letterarie Nido di nobili (1969) e Zio Vanja
(1971), fino a Siberiade (1978-80) e a Maria's Lovers (1984), girato negli USA. La
personalità preminente del periodo è comunque Tarkovskij con Andrej Rublëv
(1966, presentato a Cannes nel 1969, proiettato in URSS nel 1972), Lo specchio
(1975), Stalker (1979); infine con i film, fedelissimi al suo mondo, Nostàlghia (1983),
girato in Italia, e Il sacrificio (1985) in Svezia. Di non minore rilievo sono però due
altri cineasti: l'armeno-georgiano S. Paradžanov, autore di Le ombre degli avi
dimenticati (1964), Sajat Nova ovvero Il colore della melagrana (1969) e, dopo
alcuni anni di carcere, La leggenda della fortezza di Suram (1985). Il siberiano
Šukšin, che con opere profondamente sue, splendidamente dialogate (da Vostro
figlio e fratello, 1966, a Viburno rosso, 1974), si rivelò prima della morte immatura
un singolare erede della tradizione contadina di Dovženko. L'interesse per la
contemporaneità proseguì negli anni Settanta e Ottanta, sebbene non senza
precauzioni, permanendo il “realismo socialista” la tendenza-guida. Tuttavia alcuni
registi hanno manifestato un notevole anticonformismo: S. Mikaelian con Il premio
(1975), I. Averbach con Lettere altrui (1975), G. Panfilov con Chiedo la parola
(1976) e Vassa (1983), Karasik con Opinione personale (1977), S. Solovëv
occupandosi del passaggio dall'adolescenza alla maturità nel trittico Cento giorni
dopo l'infanzia (1975), Il salvatore (1980), L'ereditiera in linea diretta (1981). Altri
hanno guardato in modo nuovo al passato, come Klimov nel sontuoso Agonia (1975,
presentato a Venezia nel 1982) e L'addio (1983) o A. German in Venti giorni senza
guerra (1976) e Il mio amico Ivan Lapšin (1985). Nel passato erano pure ambientati
i primi film di N. Michalkov (da Schiava d'amore, 1975, a Cinque serate, 1978, a
Oblomov, 1979): il cineasta si è però convertito all'attualità con La parentela (1982)
e con Senza testimoni (1984), mentre il veterano Rajzman (Vita privata, 1982) le
era fedele ormai da tempo. Il cinema russo, di cui sono espressione tutti i nomi ora
segnalati, continuò a esercitare il predominio. Nella seconda metà degli anni
Settanta, comunque, iniziò a emergere la produzione delle Repubbliche periferiche
(europee, transcaucasiche e asiatiche), dalle quali sono venute opere non
trascurabili. Proprio da queste regioni e dalle Repubbliche nate dalla dissoluzione
dell'URSS si sono imposti all'attenzione cineasti che avranno un ruolo nei futuri
sviluppi delle varie cinematografie nazionali. Già una lunga tradizione vantavano
le Repubbliche meridionali, specie la Georgia, attiva tra gli anni Venti e Trenta con
N. Šengelaja (I ventisei commissari, 1933), Kalatozov e Čiaureli; i figli del primo,
Eldar e Georgij, hanno raccolto l'eredità paterna, e Pirosmani (1969, edizione 1971)
di G. Šengelaja fece onore a tutto il cinema sovietico, così come Le montagne blu
(1985) di E. Šengelaja, Tre giorni di un'estate afosa (1982) di M. Kokočašvili, come
Non te la prendere (1968) di Danelija (il quale ha poi proseguito l'attività in Russia:
Afonja, 1975; Mimino, 1977; Maratona d'autunno, 1979), come La supplica (1968)
o L'albero dei desideri (1978) di T. Abuladze, o come i capolavori di O. Ioseliani:
La caduta delle foglie (1966), C'era una volta un merlo canterino (1971), Pastorale
(1976), I favoriti della luna (1984), girato a Parigi, Un incendio visto da lontano
(1988), Caccia alle farfalle (1992). Dall'Armenia sono giunti un notevole film,
Nahapet (1977) di H. Malian, e un grande cineasta-documentarista, A. Pelešian (Le
stagioni, 1975), creatore del “montaggio a distanza”. Dall'Ucraina L'uccello bianco
con la macchia nera (1971) di J. Ilenko, Gli orfani (1976) e La vita, le lacrime e
l'amore (1985) di N. Gubenko, Romanzo al fronte (1983) di P. Todorovski. Uno
sviluppo interessante si è registrato nelle Repubbliche asiatiche, dove i nomi più
noti sono i kirghisi B. Šamšiev (Il battello bianco, 1976) e T. Okeev (Il feroce grigio,
1973; La mela rossa, 1975; Il discendente del leopardo delle nevi, presentato al
Festival di Berlino nel 1985), che hanno attinto entrambi al narratore nazionale C.
Ajtmatov; i turkmeni C. Narliev (La nuora, 1972; Buio bianco, 1978) e U. Saparov
(Educazione virile, 1983); gli uzbechi E. Išmuchamedov (Tenerezza, 1966; Gli
innamorati, 1969; Incontri e distacchi, 1973) e A. Chamraev (L'uomo insegue gli
uccelli, 1975; Trittico, 1979). A metà degli anni Ottanta, con Gorbačëv e la
perestrojka, anche il cinema sovietico cominciò a rinnovarsi radicalmente. La vera
svolta si ebbe nel 1986, con l'elezione di Elem Klimov a segretario del congresso
dell'Unione dei cineasti, al posto dell'accademico Kuligianov. Da allora, infatti, il
“disgelo” della produzione sovietica prese a procedere a tappe sempre più veloci,
anche se l'aggravarsi della crisi, con la dissoluzione del regime e la rinascita degli
Stati indipendenti, ebbe serissime ripercussioni anche sul cinema nazionale.
Vennero messe in circolazione opere bloccate dalla censura, riemersero cineasti
sino a quel momento ostacolati, come Panfilov, A. Gherman, K. Muratova ed esordì
tutta una generazione di autori dal linguaggio spesso rabbioso e anticonformista.
Così, se l'attività di Tarkovskij (scomparso nel 1986), Končalovskij, Michalkov,
Ioseliani è ormai cosmopolita, in patria si fanno notare S. Bodrov, V. Khotinenko,
V. Pichul (Piccola Vera, 1988), P. Loungine (Taxi Blues, 1990; Luna Park, 1992), A.
Sokurov (Elegia di Mosca, 1990). Nei primi anni Novanta la gravissima crisi
economica ha spento la grande forza tradizionale della produzione di Stato.
Tuttavia, i grandiosi studi cinematografici Mosfilm, a Mosca, e Lenfilm, a San
Pietroburgo, lavorano a pieno ritmo per le produzioni straniere, vista la
straordinaria qualità dei servizi forniti.
Costituzione
dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche
Con le modificazioni e le aggiunte approvate dal Soviet Supremo dell'U.R.S.S. il 25
febbraio 1947 in base al rapporto della Commissione di Redazione
Capitolo I:
Struttura della Società
Capitolo II:
Struttura dello Stato
Capitolo III: Organi Supremi del Potere di Stato Dell'unione delle Repubbliche
Socialiste Sovietiche
Capitolo IV: Organi Supremi del Potere di Stato delle Repubbliche Federate
Capitolo V:
Organi di Governo dello Stato Dell'unione delle Repubbliche
Socialiste Sovietiche
Capitolo VI: Organi di Governo dello Stato delle Repubbliche Federate
Capitolo VII: Organi Supremi del Potere di Stato delle Repubbliche Socialiste
Sovietiche Autonome
Capitolo VIII: Organi Locali del Potere di Stato
Capitolo IX: Tribunali e Procura
Capitolo X: Diritti e Doveri fondamentali dei Cittadini
Capitolo XI: Sistema Elettorale
Capitolo XII: Stemma, Bandiera. Capitale
Capitolo XIII: Procedura per la modifica della Costituzione
Capitolo I - STRUTTURA DELLA SOCIETÀ
ARTICOLO 1
L'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è uno Stato socialista degli operai
e dei contadini.
ARTICOLO 2
La base politica dell'U.R.S.S. è costituita dai Soviet dei deputati dei lavoratori,
sviluppatisi e consolidatisi in seguito all'abbattimento del potere dei proprietari
fondiari e dei capitalisti e alla conquista della dittatura del proletariato.
ARTICOLO 3
Tutto il potere nell'U.R.S.S. appartiene ai lavoratori della città e della campagna,
rappresentati dai Soviet dei deputati dei lavoratori.
ARTICOLO 4
La base economica dell'U.R.S.S. è costituita dal sistema socialista dell'economia e
dalla proprietà socialista degli strumenti e mezzi di produzione, affermatisi in
seguito alla liquidazione del sistema capitalista dell'economia, all'abolizione della
proprietà privata degli strumenti e mezzi di produzione e all'eliminazione dello
sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo.
ARTICOLO 5
La proprietà socialista nell'U.R.S.S. ha la forma di proprietà statale (patrimonio di
tutto il popolo), oppure la forma di proprietà cooperativa-colcosiana (proprietà dei
singoli colcos, proprietà delle associazioni cooperative).
ARTICOLO 6
La terra, il sottosuolo, le acque, i boschi. le officine, le fabbriche, le miniere, le cave,
i trasporti ferroviari, acquei ed aerei, le banche, i mezzi di comunicazione, le grandi
aziende agricole organizzate dallo Stato (sovcos, stazioni di macchine e trattrici,
ecc.) e così pure le aziende comunali e la parte fondamentale del patrimonio edilizio
nelle città e nei centri industriali, sono proprietà dello Stato, cioè patrimonio di
tutto il popolo.
ARTICOLO 7
Le aziende sociali dei colcos e delle organizzazioni cooperative, con le loro scorte
vive e morte, la produzione fornita dai colcos e dalle organizzazioni cooperative,
come pure i loro immobili sociali, sono proprietà sociale, socialista, dei colcos e
delle organizzazioni cooperative.
In conformità con lo statuto dell'artel agricolo, ogni famiglia appartenente a un
colcos, oltre al provento fondamentale dell'economia collettiva del colcos, ha in
godimento personale un piccolo appezzamento di terreno attinente alla casa, e ha in
proprietà personale l'impresa ausiliaria impiantata su tale appezzamento, la casa
d'abitazione, bestiame produttivo, animali da cortile e l'attrezzamento agricolo
minuto.
ARTICOLO 8
La terra occupata dai colcos viene loro attribuita in godimento gratuito e per una
durata illimitata, cioè in perpetuo.
ARTICOLO 9
Accanto al sistema socialista dell'economia, che è la forma economica dominante
nell'U.R.S.S., è ammessa dalla legge la piccola azienda privata dei contadini non
associati e degli artigiani, fondata sul lavoro personale, escludente lo sfruttamento
del lavoro altrui.
ARTICOLO 10
Il diritto di proprietà personale dei cittadini sui proventi del loro lavoro e sui loro
risparmi, sulla casa di abitazione e sull'impresa domestica ausiliaria, sugli oggetti
dell'economia domestica e di uso quotidiano, sugli oggetti di consumo e di comodo
personale, come pure il diritto di eredità della proprietà personale dei cittadini sono tutelati dalla legge.
ARTICOLO 11
La vita economica dell'U.R.S.S. viene de terminata e diretta da un piano statale
dell'economia nazionale, allo scopo di aumentare la ricchezza sociale, di elevare
costantemente il livello di vita materiale e culturale dei lavoratori, di consolidare
l'indipendenza dell'U.R.S.S. e di rafforzare la sua capacità di difesa.
ARTICOLO 12
II lavoro è nell'U.R.S.S. dovere e oggetto d'onore per ogni cittadino atto al lavoro,
secondo il principio: .«Chi non lavora, non mangia».
Nell'U.R.S.S. si attua il principio del socialismo: «Da ciascuno secondo le sue
capacità, a ognuno secondo il suo lavoro.
Capitolo II - STRUTTURA DELLO STATO
ARTICOLO 13
L'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è uno Stato federale costituito
sulla base dell'unione volontaria, a parità di diritti, delle seguenti Repubbliche
Socialiste Sovietiche:
Repubblica Socialista Federativa Sovietica della Russia,
Repubblica Socialista Sovietica dell'Ucraina,
Repubblica Socialista Sovietica della Bielorussia,
Repubblica Socialista Sovietica dell'Usbekistan,
Repubblica Socialista Sovietica del Kasakhstan,
Repubblica Socialista Sovietica della Georgia,
Repubblica Socialista Sovietica dell'Aserbaigian,
Repubblica Socialista Sovietica della Lituania,
Repubblica Socialista Sovietica della Moldavia,
Repubblica Socialista Sovietica della Lettonia,
Repubblica Socialista Sovietica della Kirghisia,
Repubblica Socialista Sovietica del Tagikistan,
Repubblica Socialista Sovietica dell'Armenia,
Repubblica Socialista Sovietica del Turkmenistan,
Repubblica Socialista Sovietica dell'Estonia,
Repubblica Socialista Sovietica Carelo-Finnica.
ARTICOLO 14
Sono di competenza dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche,
rappresentata dai suoi organi supremi del potere statale e dagli organi di governo
dello Stato:
a) la rappresentanza dell'Unione nelle relazioni internazionali, la conclusione, la
ratifica e la denunzia dei trattati dell'U.R.S.S. con altri Stati, la fissazione di regole
generali per le relazioni delle Repubbliche federate con Stati esteri;
b) le questioni della guerra e della pace;
c) l'ammissione nell'U.R.S.S. di nuove repubbliche;
d) il controllo dell'osservanza della Costituzione dell'U.R.S.S. e della conformità
delle Costituzioni delle Repubbliche federate con la Costituzione dell'U.R.S.S.;
e) la ratifica delle modificazioni di confine tra le Repubbliche federate;
f) la ratifica della formazione di nuovi territori e regioni, come pure di nuove
Repubbliche autonome e regioni autonome nel seno delle Repubbliche federate;
g) l'organizzazione della difesa dell'U.R.S.S., la direzione di tutte le Forze Armate
dell'U.R.S.S., la fissazione dei principi dirigenti d'organizzazione delle formazioni
militari delle Repubbliche federate;
h) il commercio estero sulla base del monopolio di Stato;
i) la salvaguardia della sicurezza dello Stato;
k) la determinazione dei piani dell'economia nazionale dell'U.R.S.S.;
l) l'approvazione del bilancio statale unico dell'U.R.S.S. e del resoconto sulla sua
realizzazione, l'istituzione delle imposte e delle entrate che concorrono alla
formazione dei bilanci dell'Unione, delle repubbliche e locali;
m) la gestione delle banche, delle istituzioni e delle aziende industriali e agricole,
come pure delle aziende commerciali che interessano tutta l'Unione;
n) la gestione dei trasporti e delle comunicazioni;
o) la direzione del sistema monetario e creditizio;
p) l'organizzazione dell'assicurazione di Stato;
q) l'emissione e la concessione di prestiti;
r) la determinazione dei principi fondamentali del godimento della terra, come
pure del godimento del sottosuolo, dei boschi e delle acque;
s) la determinazione dei principi fondamentali dell'istruzione e della sanità
pubblica;
t) l'organizzazione di un sistema unico di statistica dell'economia nazionale;
u) la determinazione dei principi della legislazione del lavoro;
v) la legislazione relativa all'ordinamento giudiziario e alla procedura della
giustizia; i codici penale e civile;
x) la legislazione sulla cittadinanza dell'Unione; la legislazione sui diritti degli
stranieri;
y) l'istituzione dei principi della legislazione sul matrimonio e la famiglia;
z) la promulgazione degli atti di amnistia per tutta l'Unione.
ARTICOLO 15
La sovranità delle Repubbliche federate non ha altri limiti salvo quelli indicati
dall'articolo 14 della Costituzione dell'U.R.S.S. Oltre questi limiti, ogni Repubblica
federata esercita il potere statale in modo indipendente. L'U.R.S.S. tutela i diritti
sovrani delle Repubbliche federate.
ARTICOLO 16
Ogni Repubblica federata ha la propria Costituzione, che tiene conto delle
particolarità della Repubblica e che si trova in piena conformità con la
Costituzione dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 17
Ogni Repubblica federata conserva il diritto di uscire liberamente dall'U.R.S.S.
ARTICOLO 18
II territorio delle Repubbliche federate non può essere modificato senza il loro
consenso.
ARTICOLO 18.a
Ogni Repubblica federata ha il diritto di stabilire relazioni dirette con Stati esteri,
di concludere con essi degli accordi e di scambiarsi rappresentanti diplomatici e
consolari.
ARTICOLO 18.b
Ogni Repubblica federata ha le proprie formazioni militari repubblicane.
ARTICOLO 19
Le leggi dell'U.R.S.S. hanno eguale vigore nei territori di tutte le Repubbliche
federate.
ARTICOLO 20
In caso di divergenza tra la legge di una Repubblica federata e la legge federale, ha
vigore la legge federale.
ARTICOLO 21
Per i cittadini dell'U.R.S.S. è istituita una cittadinanza unica per tutta l'Unione.
Ogni cittadino di una Repubblica federata è cittadino dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 22
La Repubblica Socialista Federativa Sovietica della Russia è costituita dai territori
seguenti: Altai, Krasnodar, Krasnoiarsk, Primorie, Stavropol, Khabarovsk; dalle
seguenti regioni: Arcangelo, Astrakhan, Briansk, Vielikie Luki, Vladimir, Vologda,
Voronez, Gorki, Grozni, lvanovo, lrkutsk, Kaliningrado, Kalinin, Kaluga,
Kemerovo, Kirov, Kostroma, Crimea, Kuibiscev, Kurgan, Kursk, Leningrado,
Molotov, Mosca, Murmansk, Novgorod, Novossibirsk, Omsk, Oriol, Pensa, Pskov,
Rostov, Riasan, Saratov, Sakhalin, Sverdlovsk, Smolensk, Stalingrado, Tambov,
Tomsk, Tula, Tiumen, Ulianovsk, Celiabinsk, Cita, Ckalov, Iaroslavl; dalle seguenti
Repubbliche Socialiste Sovietiche Autonome: Tartaria, Basckiria, Daghestan,
Buriato-Mongolia, Kabardina, dei Komi, dei Marii, Mordovia, Ossetia
settentrionale, degli Udmurti, dei Ciuvasci, Iakutia; dalle seguenti regioni
autonome: degli Adighei, degli Ebrei, degli Oiroti, Tuva, dei Khacassi, dei Circassi.
ARTICOLO 23
La Repubblica Socialista Sovietica dell'Ucraina è costituita dalle regioni seguenti
Vinniza, Volinia, Voroscilovgrado, Dniepropetrovsk, Drogobic, Gitomir,
Transcarpatica, Zaporoge, Ismail, Kamenez-Podolsk, Kiev, Kirovogrado, Lvov,
Nikolaev, Odessa, Poltava, Rovno, Stalino, Stanislav, Sumi, Ternopol, Kharkov,
Kherson, Cernigov e Cernovzi.
ARTICOLO 24
Della Repubblica Socialista Sovietica del- l'Aserbaigian fanno parte la Repubblica
Socialista Sovietica Autonoma del Nakhicevan e la regione autonoma del Nagorni
Karabakh.
ARTICOLO 25
Della Repubblica Socialista Sovietica della Georgia fanno parte la Repubblica
Socialista Sovietica Autonoma dell'Abkhasia, la Repubblica Socialista Sovietica
Autonoma dell'Aggiaria e la regione autonoma dell'Ossetia Meridionale.
ARTICOLO 26
La Repubblica Socialista Sovietica dell'Usbekistan è costituita dalle regioni
seguenti: Andigian, Bukhara, Kascka-Daria, Namangan, Samarcanda, SurkhanDaria, Taskent, Fergana, Khorezm, e dalla Repubblica Socialista Sovietica
Autonoma dei Kara-Kalpacchi.
ARTICOLO 27
La Repubblica Socialista Sovietica del Tagikistan è costituita dalle regioni seguenti:
Garm, Kuliab, Leninabad, Stalinabad, e dal- la regione autonoma Gorni
Badakhscian.
ARTICOLO 28
La Repubblica Socialista Sovietica del Kasakhstan è costituita dalle regioni
seguenti: Akmolinsk, Aktiubinsk, Alma-Ata, Kasakhstan Orientale, Guriev,
Giambul, Kasakhstan Occidentale, Karaganda, Kzyl-Orda, Kokcetav, Kustanai,
Pavlodar, Kasakhstan SettentrionaIe, Semipalatinsk, Taldi-Kurgan, Kasakhstan
Meridionale.
ARTICOLO 29
La Repubblica Socialista Sovietica della Bielorussia è costituita dalle regioni
seguenti: Baranovici, Bobruisk, Brest, Vitiebsk, Gomel, Grodno, Minsk, Moghilev,
Molodecno, Pinsk, Polessie, Polozk.
ARTICOLO 29-a
La Repubblica Socialista Sovietica del Turkmenistan è costituita dalle regioni
seguenti: Askabad, Maryi, Tasciaus, Ciargiou.
ARTICOLO 29-b
La Repubblica Socialista Sovietica della Kirghisia è costituita dalle regioni
seguenti: Gialal-Abad, Issyk-Kul, Osc, Talas, Tian- Scian, Frunze.
Capitolo III - ORGANI SUPREMI DEL POTERE DI STATO DELL'UNIONE
DELLE REPUBBLICHE SOCIALISTE SOVIETICHE
ARTICOLO 30
Organo supremo del potere di Stato dell'U.R.S.S. è il Soviet Supremo dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 31
Il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. esercita tutti i diritti spettanti all'Unione delle
Repubbliche Socialiste Sovietiche, in conformità con l'articolo 14 della
Costituzione, nella misura in cui essi, in forza della Costituzione, non sono di
competenza degli organi dell'U.R.S.S. che devono rispondere al Soviet Supremo
dell'U.R.S.S.: il Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S., il Consiglio dei
Ministri dell'U.R.S.S. e i Ministeri dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 32
Il potere legislativo dell'U.R.S.S. è esercitato esclusivamente dal Soviet Supremo .
dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 33
Il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. si compone di due Camere: il Soviet dell'Unione e il
Soviet delleNazionalità.
ARTICOLO 34
Il Soviet dell'Unione è eletto dai cittadini dell'U.R.S.S. per circoscrizioni elettorali
in ragione di un deputato per ogni 300.000 abitanti.
ARTICOLO 35
Il Soviet delle Nazionalità è eletto dai cittadini dell'U.R.S.S. nelle Repubbliche fede
rate e autonome, nelle regioni autonome e nelle circoscrizioni nazionali in ragione
di 25 deputati per ogni Repubblica federata, di 11 deputati per ogni Repubblica
autonoma, di 5 deputati per ogni regione autonoma, e di un deputato per ogni
circoscrizione nazionale.
ARTICOLO 36
Il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. viene eletto per la durata di quattro anni.
ARTICOLO 37
Le due Camere del Soviet Supremo dell'U.R.S.S.: il Soviet dell'Unione e il Soviet
delle Nazionalità, hanno eguali diritti.
ARTICOLO 38
L'iniziativa legislativa appartiene in eguale misura al Soviet dell'Unione e al Soviet
delle Nazionalità.
ARTICOLO 39
Una legge è considerata valida se è approvata dalle due Camere del Soviet Supremo
dell'U.R.S.S. a semplice maggioranza di voti di ciascuna delle Camere.
ARTICOLO 40
Le leggi approvate dal Soviet Supremo dell'U.R.S.S. vengono promulgate nelle
lingue delle Repubbliche federate con la firma del Presidente e del Segretario del
Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 41
Le sessioni del Soviet dell'Unione e del Soviet delle Nazionalità cominciano e
finiscono nello stesso tempo.
ARTICOLO 42
Il Soviet dell'Unione elegge il Presidente del Soviet dell'Unione e due Vicepresidenti.
ARTICOLO 43
Il Soviet delle Nazionalità elegge il Presidente del Soviet delle Nazionalità e due
Vice-presidenti.
ARTICOLO 44
I Presidenti del Soviet dell'Unione e del Soviet delle Nazionalità dirigono le sedute
delle Camere rispettive e provvedono al loro regolamento interno.
ARTICOLO 45
Le sedute comuni delle due Camere del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. sono dirette a
turno dal Presidente del Soviet dell'Unione e dal Presidente del Soviet delle
Nazionalità.
ARTICOLO 46
Le sessioni del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. sono convocate dal Presidium del
Soviet Supremo dell'U.R.S.S. due volte all'anno.
Le sessioni straordinarie sono convocate dal Presidium del Soviet Supremo
dell'U.R.S.S. quando esso lo ritiene opportuno o a richiesta di una delle
Repubbliche federale.
ARTICOLO 47
In caso di disaccordo tra il Soviet dell'Unione e il Soviet delle Nazionalità la
questione viene sottoposta a una commissione di conciliazione formata dalle
Camere su basi paritetiche. Se la commissione di conciliazione non arriva a una
decisione concorde o se la sua decisione non soddisfa una delle due Camere, la
questione viene esaminata dalle Camere una seconda volta. A difetto di una
decisione concorde di ambedue le Camere, il Presidium del Soviet Supremo
dell'U.R.S.S. discioglie il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. e indice nuove elezioni.
ARTICOLO 48
Il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. elegge in una seduta comune delle due Camere il
Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S., costituito: dal Presidente del
Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S., da sedici Vicepresidenti, dal Segretario
del Presidium e da 15 membri del Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S.
Il Presidium del Soviet Supremo del- l'U.R.S.S. risponde davanti al Soviet Supremo
dell'U.R.S.S. di tutta la sua attività.
ARTICOLO 49
Il Presidium del Soviet Supremo del- l'U.R.S.S.:
a) convoca le sessioni del Soviet Supremo dell'U.R.S.S.;
b) emana dei decreti;
c) dà l'interpretazione delle leggi in vigore nell'U.R.S.S.;
d) discioglie il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. in virtù dell'articolo 47 della
Costituzione dell'U.R.S.S. e indice nuove elezioni;
e) indice le consultazioni popolari generali (referendum) di propria iniziativa o a
richiesta di una delle Repubbliche federate;
f) abroga i decreti e le ordinanze del Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. e dei
Consigli dei Ministri delle Repubbliche federate nel caso che non siano conformi
alla legge;
g) nell'intervallo tra le sessioni del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. su proposta del
Presidente del Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. esonera dalle loro funzioni e
nomina i singoli ministri dell'U.R.S.S., sottoponendo in seguito le sue decisioni alla
ratifica del Soviet Supremo dell'U.R.S.S.;
h) istituisce le insegne degli ordini e le medaglie dell'U.R.S.S. e stabilisce i titoli
onorifici dell'U.R.S.S.;
i) conferisce le insegne degli ordini e le medaglie dell'U.R.S.S. e attribuisce i titoli
onorifici dell'U.R.S.S.;
k) esercita il diritto di grazia;
l) istituisce i gradi militari, i ranghi diplomatici e altri titoli speciali;
m) nomina e revoca il comando supremo delle Forze Armate dell'U.R.S.S.;
n) nell'intervallo tra le sessioni del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. proclama lo stato
di guerra in caso di aggressione militare contro l'U.R.S.S. o nel caso in cui ciò sia
necessario per adempiere gli impegni internazionali risultanti dai patti di reciproca
difesa da un'aggressione;
o) ordina la mobilitazione generale o parziale;
p) ratifica e denunzia i trattati internazionali dell'U.R.S.S.;
q) nomina e richiama i rappresentanti plenipotenziari dell'U.R.S.S. presso gli Stati
esteri;
r) riceve le credenziali e le lettere di richiamo dei rappresentanti diplomatici degli
Stati esteri accreditati presso di lui;
s) proclama lo stato di guerra in singole località o in tutta l'U.R.S.S. nell'interesse
della difesa dell'U.R.S.S. o per assicurare l'ordine pubblico e la sicurezza dello
Stato.
ARTICOLO 50
Il Soviet dell'Unione e il Soviet delle Nazionalità eleggono le Commissioni dei mano
dati che verificano i poteri dei deputati di ognuna delle Camere.
Su proposta delle Commissioni dei mandati le Camere decidono o di riconoscere i
poteri o di annullare le elezioni di singoli deputati.
ARTICOLO 51
Il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. nomina, quando lo ritiene necessario, delle
commissioni d'inchiesta e di revisione per qualsiasi questione. Tutte le istituzioni e
persone aventi pubbliche funzioni sono tenute ad accedere alle richieste di queste
commissioni e a presentare loro i materiali e documenti necessari.
ARTICOLO 52
Nessun deputato al Soviet Supremo dell'U.R.S.S. può essere tradotto in giudizio né
arrestato senza il consenso del Soviet Supremo dell'U.R.S.S., e negli intervalli tra le
sessioni del Soviet Supremo dell'U.R.S.S., senza il consenso del Presidium del Soviet
Supremo dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 53
Alla scadenza dei poteri o dopo lo scioglimento anticipato del Soviet Supremo
dell'U.R.S.S., il Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. conserva i suoi poteri
sino alla costituzione di un nuovo Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. da
parte del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. nuovamente eletto.
ARTICOLO 54
Alla scadenza dei poteri o in caso di scioglimento anticipato del Soviet Supremo
dell'U.R.S.S. il Presidium del Soviet Supremo dell'U.R.S.S. indice nuove elezioni
entro il termine di non più di due mesi dal giorno della scadenza dei poteri o dello
scioglimento del Soviet Supremo dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 55
IlSoviet Supremo dell'U.R.S.S. nuovamente eletto è convocato dal Presidium del
Soviet Supremo dell'U.R.S.S. di precedente elezione non più tardi di tre mesi dopo
le elezioni.
ARTICOLO 56
Il Soviet Supremo dell'U.R.S.S. procede, in una seduta comune delle due Camere,
alla costituzione del governo dell'U.R.S.S. -il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S.
Capitolo IV - ORGANI SUPREMI DEL POTERE DI STATO DELLE
REPUBBLICHE FEDERATE
ARTICOLO 57
Organo supremo del potere di Stato della Repubblica federata è il Soviet Supremo
della Repubblica federata.
ARTICOLO 58
Il Soviet Supremo della Repubblica federata è eletto dai cittadini della Repubblica
per la durata di quattro anni.
La quota di rappresentanza è fissata dalle Costituzioni delle Repubbliche federate.
ARTICOLO 59
Il Soviet Supremo della Repubblica federata è l'unico organo legislativo della
Repubblica.
ARTICOLO 60
Il Soviet Supremo della Repubblica federata:
a) approva la Costituzione della Repubblica e vi apporta delle modificazioni in
conformità con l'articolo 16 della Costituzione dell'U.R.S.S.;
b) ratifica le Costituzioni delle Repubbliche autonome che ne fanno parte e
determina i confini del loro territorio;
c) ratifica il piano dell'economia nazionale e il bilancio della Repubblica;
d) esercita il diritto di amnistia e di grazia verso i cittadini condannati dagli organi
giudiziari della Repubblica federata;
e) stabilisce la rappresentanza della Repubblica federata nelle relazioni
internazionali;
f) stabilisce il sistema di creazione delle formazioni militari repubblicane.
ARTICOLO 61
Il Soviet Supremo della Repubblica federata elegge il Presidium del Soviet
Supremo della Repubblica federata, composto: dal Presidente del Presidium del
Soviet Supremo della Repubblica federata, dai Vice-presidenti, dal Segretario del
Presidium e dai membri del Presidium del Soviet Supremo della Repubblica
federata.
I poteri del Presidium del Soviet Supremo della Repubblica federata sono
determinati dalla Costituzione della Repubblica federata.
ARTICOLO 62
Per dirigere le sedute, il Soviet Supremo della Repubblica federata elegge il
Presidente del Soviet Supremo della Repubblica federata e i Vice-presidenti.
ARTICOLO 63
Il Soviet Supremo della Repubblica federata forma il governo della Repubblica
federata - il Consiglio dei Ministri della Repubblica federata.
Capitolo V
ORGANI DI GOVERNO DELLO STATO DELL'UNIONE DELLE
REPUBBLICHE SOCIALISTE SOVIETICHE
ARTICOLO 64
Organo supremo esecutivo e amministrativo del potere di Stato dell'Unione delle
Repubbliche Socialiste Sovietiche è il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 65
Il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. è responsabile davanti al Soviet Supremo
dell'U.R.S.S., cui risponde della sua attività, e, nell'intervallo tra due sessioni del
Soviet Supremo, davanti al Presidium del Soviet Supremo dell' U.R.S.S., a cui
risponde.
ARTICOLO 66
Il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. emette decisioni e ordinanze sulla base e in
esecuzione delle leggi vigenti, e ne controlla l'esecuzione.
ARTICOLO 67
Le decisioni e ordinanze del Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. devono essere
obbligatoriamente eseguite su tutto il territorio dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 68
Il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S.:
a) unifica e dirige il lavoro dei Ministeri federali e federali-repubblicani
dell'U.R.S.S. e delle altre istituzioni che gli sono subordinate;
b) prende delle misure per la realizzazione del piano dell'economia nazionale, del
bilancio dello Stato e per il consolidamento del sistema monetario e creditizio;
c) prende delle misure per assicurare l'ordine pubblico, per difendere gli interessi
dello Stato e salvaguardare i diritti dei cittadini;
d) ha la direzione generale delle relazioni con gli Stati esteri;
e) determina i contingenti annuali dei cittadini chiamati alla leva per il servizio
militare attivo, dirige la organizzazione generale delle Forze Armate del paese;
f) forma, in caso di necessità, dei comitati speciali e delle Direzioni generali presso il
Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. per questioni relative all'edificazione economica
e culturale e alla difesa.
ARTICOLO 69
Il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. ha il diritto, nelle branche
dell'amministrazione e dell'economia che sono di competenza dell'U.R.S.S. di
sospendere le decisioni e ordinanze dei Consigli dei Ministri delle Repubbliche
federate e di annullare gli ordini e le istruzioni dei Ministri dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 70
Il Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S. viene formato dal Soviet Supremo
dell'U.R.S.S. e ha la composizione seguente:
il Presidente del Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S.;
i Vice-presidenti del Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S.;
il Presidente delle Commissione del piano di Stato dell'U.R.S.S.;
i Ministri dell'U.R.S.S.;
il Presidente del Comitato per le Belle Arti.
ARTICOLO 71
Il Governo dell'U.R.S.S. o un Ministro dell'U.R.S.S., interpellati da un deputato del
Soviet Supremo dell'U.R.S.S., sono tenuti a dare risposta orale o scritta alla
Camera corrispondente entro il termine di non più di tre giorni.
ARTICOLO 72
I Ministri dell'U.R.S.S. dirigono le branche dell'amministrazione statale che sono di
competenza dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 73
I Ministri dell'U.R.S.S. emettono, entro i limiti della competenza dei rispettivi
Ministeri, ordini e istruzioni sulla base e in esecuzione delle leggi vigenti nonché
delle decisioni e ordinanze del Consiglio dei Ministri dell'U.R.S.S., e ne controllano
l'esecuzione.
ARTICOLO 74
I Ministeri dell'U.R.S.S. sono federali o federali-repubblicani.
ARTICOLO 75
I Ministeri federali dirigono la branca dell'amministrazione statale che è loro
affidata su tutto il territorio dell'U.R.S.S. sia direttamente, sia attraverso gli organi
da essi nominati.
ARTICOLO 76
I Ministeri federali-repubblicani dirigono la branca dell'amministrazione statale
che è loro affidata, di regola attraverso i corrispettivi Ministeri delle Repubbliche
federate, e ha!.1no sotto la loro direzione immediata sol. tanto un numero limitato
di aziende comprese in un elenco approvato dal Presidium del Soviet Supremo
dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 77
I Ministeri federali sono i seguenti:
dell'Industria aeronautica;
dell'Industria automobilistica; del Commercio estero;
dell'Armamento;
della Geologia;
degli Ammassi;
delle Riserve materiali;
delle Costruzioni meccaniche e degli strumenti;
dell'Industria medica;
della Flotta marittima;
dell'Industria della nafta delle regioni orientali;
dell'Industria della nafta delle regioni meridionali e occidentali;
delle Riserve alimentari;
dell'Industria dei mezzi per le comunicazioni;
delle Ferrovie;
dell'Industria della gomma;
della Flotta fluviale;
delle Poste, Telegrafi e Telefoni;
delle Costruzioni meccaniche agricole;
delle Costruzioni di macchine utensili;
delle Costruzioni meccaniche edili e stradali;
delle Costruzioni di aziende militari e marittime militari;
della Costruzione di aziende dell'industria pesante;
della Costruzione di aziende per combustibile;
dell'Industria delle costruzioni navali;
delle Costruzioni meccaniche per i trasporti;
della Preparazione di mano d'opera;
delle Costruzioni meccaniche pesanti;
dell'Industria del carbone delle regioni orientali;
dell'Industria del carbone delle regioni occidentali;
dell'Industria chimica;
della Metallurgia non ferrosa;
dell'Industria della cellulosa e della carta;
della Siderurgia;
dell'Industria elettromeccanica;
delle Centrali elettriche.
ARTICOLO 78
I Ministeri federali repubblicani sono i seguenti:
dell'Industria gustativa;
degli Affari interni;
delle Forze Armate;
dell'Istruzione superiore;
del Controllo di Stato;
della Sicurezza dello Stato;
della Sanità pubblica;
degli Affari esteri;
della Cinematografia;
dell'Industria leggera;
dell'Industria forestale;
dell'Industria della carne e del latte;
dell'Industria alimentare;
dell'Industria dei materiali da costruzione;
dell'Industria della pesca delle regioni orientali;
dell'Industria della pesca delle regioni occidentali;
dell'Agricoltura;
dei Sovcos;
dell'Industria tessile;
del Commercio;
delle Finanze;
della Giustizia.
Capitolo VI - ORGANI DI GOVERNO DELLO STATO DELLE REPUBBLICHE
FEDERATE
ARTICOLO 79
Il supremo organo esecutivo e amministrativo del potere di Stato di una
Repubblica federata è il Consiglio dei Ministri della Repubblica federata.
ARTICOLO 80
Il Consiglio dei Ministri della Repubblica federata è responsabile davanti al Soviet
Supremo della Repubblica federata, cui risponde della sua attività e, nell'intervallo
tra due sessioni del Soviet Supremo della Repubblica federata, davanti al
Presidium del Soviet Supremo della Repubblica federata, a cui risponde.
ARTICOLO 81
I1 Consiglio dei Ministri della Repubblica federata emette decisioni e ordinanze
sulla base e in esecuzione delle leggi vigenti nell'U.R.S.S. e nella Repubblica
federata, delle decisioni e ordinanze del Consiglio dei Ministri del- l'U.R.S.S. e ne
controlla l'esecuzione.
ARTICOLO 82
Il Consiglio dei Ministri della Repubblica federata ha diritto di sospendere le
decisioni e ordinanze dei Consigli dei Ministri delle Repubbliche autonome e di
annullare le decisioni e ordinanze dei Comitati Esecutivi dei Soviet dei deputati dei
lavoratori dei territori, delle regioni e delle regioni autonome.
ARTICOLO 83
Il Consiglio dei Ministri della Repubblica federata viene formato dal Soviet
Supremo della Repubblica federata e ha la composizione seguente:
il Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica federata;
i Vice-presidenti del Consiglio dei Ministri;
il Presidente della Commissione del piano di Stato;
i Ministri;
il capo della Direzione delle Belle Arti;
il Presidente del Comitato per le istituzioni culturali ed educative.
ARTICOLO 84
I Ministri della Repubblica federata dirigono le branche dell'amministrazione
statale che sono di competenza della Repubblica federata.
ARTICOLO 85
I Ministri della Repubblica federata emettono, entro i limiti della competenza dei
rispettivi Ministeri, ordini e istruzioni sulla base e in esecuzione delle leggi
dell'U.R.S.S. e della Repubblica federata, delle decisioni e ordinanze del Consiglio
dei Ministri del- l'U.R.S.S. e della Repubblica federata, degli ordini e delle
istruzioni dei Ministeri federali-repubblicani dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 86
I Ministeri della Repubblica federata sono federali-repubblicani o repubblicani.
ARTICOLO 87
I Ministeri federali-repubblicani dirigono la branca dell'amministrazione statale
che è loro affidata, subordinandosi tanto al Consiglio dei Ministri della Repubblica
federata quanto al corrispondente Ministero federale-repubblicano dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 88
I Ministeri repubblicani dirigono la branca dell'amministrazione statale che è a
loro affidata, subordinandosi direttamente al Consiglio dei Ministri della
Repubblica federata.
Capitolo VII - ORGANI SUPREMI DEL POTERE DI STATO DELLE
REPUBBLICHE SOCIALISTE SOVIETICHE AUTONOME
ARTICOLO 89
Organo supremo del potere di Stato della Repubblica autonoma è il Soviet
Supremo della Repubblica Socialista Sovietica Autonoma.
ARTICOLO 90
Il Soviet Supremo della Repubblica auto. noma è eletto dai cittadini della
Repubblica per la durata di quattro anni, secondo la quota di rappresentanza
fissata dalla Costituzione della Repubblica autonoma.
ARTICOLO 91
Il Soviet Supremo della Repubblica autonoma è l'unico organo legislativo della
Repubblica Socialista Sovietica Autonoma.
ARTICOLO 92
Ogni Repubblica autonoma ha la propria Costituzione, che tiene conto delle
particolarità della Repubblica autonoma e che si trova in piena conformità con la
Costituzione della Repubblica federata.
ARTICOLO 93
Il Soviet Supremo della Repubblica autonoma elegge il Presidium del Soviet
Supremo della Repubblica autonoma e procede alla formazione del Consiglio dei
Ministri della Repubblica autonoma in conformità con la sua Costituzione.
Capitolo VIII
ORGANI LOCALI DEL POTERE DI STATO
ARTICOLO 94
Organi del potere di Stato nei territori, nelle regioni, nelle regioni autonome, nei
circondari, nei rnandamenti, nelle città, nei villaggi (stanitsa, borgata, khutor,
kislak, aul) sono i Soviet dei deputati dei lavoratori.
ARTICOLO 95
I Soviet dei deputati dei lavoratori di territorio, di regione, di regione autonoma, di
circondario, di mandamento, di città e di villaggio (stanitsa, borgata, khutor, kislak,
aul) sono eletti rispettivamente dai lavoratori del territorio, della regione, della
regione autonoma, del circondario, del mandamento, della città e del villaggio, per
la durata di due anni.
ARTICOLO 96
Le quote di rappresentanza nei Soviet dei deputati dei lavoratori sono fissate dalla
Costituzione delle Repubbliche federate.
ARTICOLO 97
I Soviet dei deputati dei lavoratori dirigono l'attività degli organi amministrativi
che sono loro subordinati, assicurano la difesa dell'ordine statale, l'osservanza delle
leggi e la tutela dei diritti dei cittadini, dirigono l'edificazione economica e culturale
locale, stabiliscono il bilancio locale.
ARTICOLO 98
I Soviet dei deputati dei lavoratori prendono delle decisioni e danno delle
disposizioni entro i limiti dei diritti loro attribuiti dalle leggi dell'U.R.S.S. e della
Repubblica federata.
ARTICOLO 99
Organi esecutivi e amministrativi dei Soviet dei deputati dei lavoratori di territorio,
di regione, di regione autonoma, di circondario, di mandamento, di città, e di
villaggio sono i Comitati Esecutivi eletti dai Soviet e composti del Presidente,. dei
Vice-presidenti, di un segretario e dei membri.
ARTICOLO 100
Organi esecutivi e amministrativi dei Soviet dei deputati dei lavoratori nei piccoli
centri sono, in conformità con le Costituzioni delle Repubbliche federate, il
Presidente, il Vice-presidente e il segretario eletti dai Soviet dei deputati dei
lavoratori.
ARTICOLO 101
Gli organi esecutivi dei Soviet dei deputati dei lavoratori rispondono direttamente
tanto al Soviet dei deputati dei lavoratori che li ha eletti, quanto all'organo
esecutivo del soprastante Soviet dei deputati dei lavoratori.
Capitolo IX - TRIBUNALI E PROCURA
ARTICOLO 102
La giustizia è amministrata nell'U.R.S.S. dalla Corte Suprema dell'U.R.S.S., dalle
Corti Supreme delle Repubbliche federate, dai tribunali di territorio e di regione,
dai tribunali delle Repubbliche autonome e delle regioni autonome, dai tribunali di
circondario, dai tribunali speciali dell'U.R.S.S. istituiti per decisione del Soviet
Supremo dell'U.R.S.S., dai tribunali popolari.
ARTICOLO 103
L'esame delle cause in tutte le Corti e in tutti i tribunali si svolge con la
partecipazione dei giurati popolari, salvo i casi specialmente previsti dalla legge.
ARTICOLO 104
La Corte Suprema dell'U.R.S.S. è il supremo organo giudiziario. Alla Corte
Suprema dell'U.R.S.S. è affidata la sorveglianza sull'attività giudiziaria di tutti gli
organi giudiziari dell'U.R.S.S. e delle Repubbliche federate.
ARTICOLO 105
La Corte Suprema dell'U.R.S.S. e i tribunali speciali dell'U.R.S.S. sono eletti dal
Soviet Supremo dell'U.R.S.S. per la durata di cinque anni.
ARTICOLO 106
Le Corti Supreme delle Repubbliche federali sono elette dai Soviet Supremi delle
Repubbliche federate per la durata di cinque anni.
ARTICOLO 107
Le Corti Supreme delle Repubbliche autonome sono elette dai Soviet Supremi delle
i Repubbliche autonome per la durata di cinque anni.
ARTICOLO 108
I tribunali di territorio e di regione, i tribunali delle regioni autonome, i tribunali di
circondario sono eletti dai Soviet dei deputati dei lavoratori del territorio, della
regione, o del circondario o dai Soviet dei deputati dei lavoratori delle regioni
autonome per la durata di cinque anni.
ARTICOLO 109
I tribunali popolari sono eletti dai cittadini del mandamento a suffragio universale,
diretto, eguale, a scrutinio segreto, per la durata di tre anni.
ARTICOLO 110
La procedura giudizi aria si svolge nella lingua della Repubblica federata o
autonoma, o della regione autonoma - ed è assicurata alle persone che non
conoscono questa lingua la possibilità di prendere conoscenza completa dei
documenti della causa per mezzo di un interprete, e così pure il diritto di parlare
all'udienza nella lingua materna.
ARTICOLO 111
L'esame delle cause in tutti i tribunali dell'U.R.S.S. è pubblico, salvo le eccezioni
previste dalla legge; all'imputato è assicurato il diritto di difesa.
ARTICOLO 112
I giudici sono indipendenti e soggetti soltanto alla legge.
ARTICOLO 113
L'alta sorveglianza sulla esatta esecuzione delle leggi da parte di tutti i Ministeri e
delle istituzioni loro sottoposte, come da parte dei singoli funzionari pubblici
nonché da parte dei cittadini dell'U.R.S.S. è affidata al Procuratore generale
dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 114
Il Procuratore generale dell'U.R.S.S. è nominato dal Soviet Supremo dell'U.R.S.S.
per la durata di sette anni.
ARTICOLO 115
I procuratori delle Repubbliche, dei territori, delle regioni, come pure i procuratori
delle Repubbliche autonome e delle regioni autonome sono nominati dal
Procuratore generale dell'U.R.S.S. per la durata di cinque anni.
ARTICOLO 116
I procuratori di circondario, di mandamento e di città sono nominati dai
procuratori delle Repubbliche federate e confermati dal Procuratore generale
dell'U.R.S.S. per la durata di cinque anni.
ARTICOLO 117
Gli organi della procura esercitano le loro funzioni indipendentemente da qualsiasi
organo locale e sono subordinati soltanto al Procuratore generale dell'U.R.S.S.
Capitolo X - DIRITTI E DOVERI FONDAMENTALI DEI CITTADINI
ARTICOLO 118
I cittadini dell'U.R.S.S. hanno diritto al lavoro, cioè hanno diritto a ottenere un
lavoro garantito, con remunerazione del loro lavoro secondo la quantità e la
qualità.
Il diritto al lavoro è assicurato dall'organizzazione socialista dell'economia
nazionale, dello sviluppo ininterrotto delle forze produttive della società sovietica,
dall'eliminazione della possibilità di crisi economiche e dalla liquidazione della
disoccupazione.
ARTICOLO 119
I cittadini dell'U.R.S.S. hanno il diritto al riposo.
Il diritto al riposo è assicurato dall'istituzione per gli operai e gli impiegati della
giornata lavorativa di otto ore e dalla riduzione della giornata lavorativa a sette e
sei ore per una serie di professioni con condizioni di lavoro difficili e fino a quattro
ore nei reparti con condizioni di lavoro particolarmente difficili, dalla istituzione di
congedi annuali agli operai e agli impiegati con il mantenimento del salario, dalla
vasta rete di sanatori, case di riposo e club che è messa a disposizione dei
lavoratori.
ARTICOLO 120
I cittadini dell'U.R.S.S. hanno diritto di avere assicurati i mezzi materiali di
esistenza per la vecchiaia nonché in caso di malattia e di perdita della capacità
lavorativa.
Questo diritto è assicurato dall'ampio sviluppo delle Assicurazioni Sociali degli
operai e degli impiegati a spese dello Stato, dall'assistenza medica gratuita ai
lavoratori e dalla vasta rete di stazioni di cura che è messa a disposizione dei
lavoratori.
ARTICOLO 121
I cittadini dell'U.R.S.S. hanno diritto all'istruzione. Questo diritto è assicurato
dall'istruzione elementare generale obbligatoria, dall'istruzione gratuita settennale,
dal sistema delle borse di studio per i più meritevoli studenti delle scuole superiori,
dall'insegnamento scolastico nella lingua materna, dall'organizzazione
dell'insegnamento professionale, tecnico ed agronomico gratuito per i lavoratori
nelle officine, nei sovcos, nelle stazioni di macchine e trattrici e nei colcos.
ARTICOLO 122
Alle donne sono accordati nell'U.R.S.S. diritti uguali a quelli degli uomini, in tutti i
campi della vita economica, statale, culturale, politica e sociale.
La possibilità di esercitare questi diritti è assicurata alle donne accordando loro lo
stesso diritto degli uomini al lavoro, al pagamento del lavoro, al riposo,
all'assicurazione sociale e all'istruzione, provvedendo alla tutela, da parte dello
Stato, degli interessi della madre e del bambino, all'aiuto da parte dello Stato alle
madri con numerosa prole o alle madri non maritate accordando alle donne un
congedo di maternità con mantenimento del salario e grazie a una vasta rete di case
di maternità, di nidi e giardini d'infanzia.
ARTICOLO 123
L'uguaglianza dei diritti dei cittadini dell'U.R.S.S., indipendentemente dalla loro
nazionalità e razza, in tutti i campi della vita economica, statale, culturale, politica
e sociale, è legge irrevocabile.
Qualsiasi limitazione diretta o indiretta dei diritti o, al contrario, qualsiasi
attribuzione di privilegi diretti o indiretti ai cittadini in dipendenza della razza o
nazionalità alla quale appartengono, così come qualsiasi propaganda di
esclusivismo o di odio e disprezzo di razza o di nazione, è punita dalla legge.
ARTICOLO 124
Allo scopo di assicurare ai cittadini la libertà di coscienza, la Chiesa nell'U.R.S.S. è
separata dallo Stato e la scuola dalla Chiesa. La libertà di praticare i culti religiosi
e la libertà di propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini.
ARTICOLO 125
In conformità con gli interessi dei lavoratori e allo scopo di consolidare il regime
socialista, ai cittadini dell'U.R.S.S. è garantita per legge:
a) libertà di parola,
b) libertà di stampa,
c) libertà di riunione e di comizi,
d) libertà di cortei e dimostrazioni di strada.
Questi diritti dei cittadini vengono assicurati mettendo a disposizione dei lavoratori
e delle loro organizzazioni le tipografie, i depositi di carta, gli edifici pubblici, le
strade, le poste, i telegrafi, i telefoni e le altre condizioni materiali necessarie per il
loro esercizio.
ARTICOLO 126
In conformità con gli interessi dei lavoratori e allo scopo di sviluppare l'iniziativa
delle masse popolari nel campo dell'organizzazione e la loro attività politica, è
assicurato ai cittadini dell'U.R.S.S. il diritto di unirsi in organizzazioni sociali:
sindacati, cooperative, organizzazioni della gioventù, organizzazioni sportive e di
difesa, società culturali, tecniche e scientifiche, - mentre i cittadini più attivi e più
coscienti appartenenti alla classe operaia e agli altri strati di lavoratori si uniscono
nel Partito Comunista (bolscevico) dell'U.R.S.S., che è l'avanguardia dei lavoratori
nella loro lotta per il consolidamento e lo sviluppo del regime socialista e
rappresenta il nucleo dirigente di tutte le organizzazioni dei lavoratori, tanto sociali
che di Stato.
ARTICOLO 127
Ai cittadini dell'U.R.S.S. è assicurata l'inviolabilità della persona. Nessuno può
essere arrestato se non per decisione di un tribunale o con la sanzione del
procuratore.
ARTICOLO 128
L'inviolabilità del domicilio dei cittadini e il segreto epistolare sono tutelati dalla
legge.
ARTICOLO 129
L'U.R.S.S. accorda il diritto di asilo ai cittadini stranieri perseguitati per aver
difeso gli interessi dei lavoratori, o per la loro attività scientifica, o per avere
partecipato a lotte di liberazione nazionale.
ARTICOLO 130
Ogni cittadino dell'U.R.S.S. è tenuto a osservare la Costituzione dell'Unione delle
Repubbliche Socialiste Sovietiche, a rispettare le leggi, a osservare la disciplina del
lavoro, ad adempiere onestamente i doveri sociali, a rispettare le norme della
convivenza Socialista.
ARTICOLO 131
Ogni cittadino dell'U.R.S.S. è tenuto a salvaguardare e a consolidare la proprietà
sociale, socialista, base sacra e inviolabile del regime sovietico, fonte della ricchezza
e della potenza della patria, fonte dell'agiatezza e della vita civile di tutti i
lavoratori.
Coloro che attentano alla proprietà sociale, socialista, sono nemici del popolo.
ARTICOLO 132
II servizio militare generale è obbligatorio per legge.
Il servizio militare nelle file delle Forze Armate dell'U.R.S.S. è dovere d'onore dei
cittadini dell'U.R.S.S.
ARTICOLO 133
La difesa della patria è sacro dovere di ogni cittadino dell'U.R.S.S. Il tradimento
della patria: la violazione del giuramento, il passaggio al nemico, il pregiudizio
portato alla potenza militare dello Stato, lo spionaggio - sono puniti con tutti i
rigori della legge come il più grave dei misfatti.
Capitolo XI - SISTEMA ELETTORALE
ARTICOLO 134
Le elezioni dei deputati a tutti i Soviet ai deputati dei lavoratori: al Soviet Supremo
de l'U.R.S.S., ai Soviet Supremi delle Repubbliche federate, ai Soviet dei deputati
dei lavoratori di territorio e di regione, ai Soviet Supremi delle Repubbliche
autonome, ai Soviet dei deputati dei lavoratori delle regioni autonome, ai Soviet dei
deputati dei lavoratori di circondario, di mandamento, di città e di villaggio
(stanitsa, borgata, khutor, kislak, aul) si fanno dagli elettori a suffragio universale,
uguale, diretto e a scrutinio segreto.
ARTICOLO 135
Le elezioni dei deputati si fanno a suffragio universale: tutti i cittadini dell'U.R.S.S.
che hanno compiuto i 18 anni, indipendentemente dalla razza e dalla nazionalità a
cui appartengono, dal sesso, dalla confessione, dal grado di istruzione, dalla
residenza, dall'origine sociale, dalla condizione economica, dalla loro passata
attività, hanno diritto di partecipare alle elezioni dei deputati ad eccezione dei
minorati e delle persone condannate dal tribunale con privazione dei diritti
elettorali.
Ogni cittadino dell'U.R.S.S., che abbia compiuto i 23 anni, può essere eletto
deputato al Soviet Supremo dell'U.R.S.S., indipendentemente dalla razza e dalla
nazionalità a cui appartiene, dal sesso, dalla confessione, dal grado d'istruzione,
dalla residenza, dall'origine sociale, dalla condizione economica e dalla sua passata
attività.
ARTICOLO 136
Le elezioni dei deputati si fanno a suffragio eguale: ogni cittadino dispone di un
voto; tutti i cittadini partecipano alle elezioni a eguali condizioni.
ARTICOLO 137
Le donne godono del diritto di eleggere e di essere elette a parità degli uomini.
ARTICOLO 138
I cittadini che si trovano nelle file delle Forze Armate dell'U.R.S.S. godono del
diritto di eleggere e di essere eletti a parità di tutti i cittadini.
ARTICOLO 139
Le elezioni dei deputati si fanno a suffragio diretto: le elezioni a tutti i Soviet dei
deputati dei lavoratori, a partire dal Soviet dei lavoratori di villaggio e di città sino
al Soviet Supremo dell'U.R.S.S., si fanno dai cittadini direttamente, per via di
elezione diretta.
ARTICOLO 140
L'elezione dei deputati si fa a scrutinio segreto.
ARTICOLO 141
I candidati alle elezioni vengono presentati per circoscrizioni elettorali.
Il diritto di presentare dei candidati è assicurato alle organizzazioni sociali e alle
associazioni dei lavoratori: alle organizzazioni del Partito Comunista, ai sindacati,
alle cooperative, alle organizzazioni della gioventù, alle società culturali.
ARTICOLO 142
Ogni deputato è tenuto a render conto davanti agli elettori del proprio lavoro e del
lavoro del Soviet dei deputati dei lavoratori e può essere richiamato in qualunque
momento, per decisione della maggioranza degli elettori, secondo la procedura
stabilita dalla legge.
Capitolo XII - STEMMA, BANDIERA. CAPITALE
ARTICOLO 143
Lo stemma di Stato dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche si compone
della falce e del martello sul globo terrestre disegnato nel sole raggiante e
circondato da spighe di grano, con la scritta nelle lingue delle Repubbliche
federate: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!». La parte superiore dello stemma reca
la stella a cinque punte.
ARTICOLO 144
La bandiera di Stato dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è un
drappo rosso, nell'angolo superiore del quale, presso l'asta, sono disegnati una falce
e un martello d'oro sormontati da una stella rossa a cinque punte, orlata d'oro. Il
rapporto tra la larghezza e la lunghezza è di uno a due.
ARTICOLO 145
La capitale dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è la città di Mosca.
Capitolo XIII - PROCEDURA PER LA MODIFICA DELLA COSTITUZIONE
ARTICOLO 146
La Costituzione dell'U.R.S.S. può essere modificata soltanto per decisione del
Soviet Supremo dell'U.R.S.S., approvata dalla maggioranza di almeno due terzi dei
voti in ognuna delle due Camere.
Pianificazione
di Maurice Dobb
1. Introduzione
L'idea generale della pianificazione economica è solitamente attribuita, e associata,
ai pionieri del pensiero socialista del XIX secolo. Era abbastanza naturale supporre
che qualcosa di simile avrebbe dovuto prendere il posto del meccanismo di
mercato, meccanismo che gli economisti classici avevano dimostrato essere il
regolatore automatico di una società atomi stica basata sulla produzione e
l'iniziativa individuali (la famosa "mano invisibile" di Adam Smith, cioè le leggi
economiche che operano attraverso la libera concorrenza, piegando e
assoggettando gli interessi individuali a fini sociali). In realtà, i pionieri del pensiero
socialista hanno detto ben poco sull'argomento. Saint-Simon si è limitato ad
affermare che la società futura sarebbe stata ‟organizzata seguendo un disegno
generale preordinato". Landauer (v., 1959) nella sua ricerca sul socialismo europeo
ha scritto: ‟La progettazione è l'essenza della pianificazione. Nell'ultimo periodo
del XIX secolo e nella prima parte del XX, l'idea della pianificazione fu
completamente messa in ombra dall'esigenza di ottenere una più equa
distribuzione. Tuttavia, i fondamenti delle moderne concezioni in fatto di
pianificazione risalgono agli insegnamenti dei sansimoniani". Con Marx ed Engels i
riferimenti alla pianificazione si fanno più espliciti, anche se resta intenzionalmente
omessa al riguardo ogni indicazione di dettaglio, desiderando entrambi
abbandonare l'approccio di quelli che essi definivano ‟socialisti utopisti", e
convinti che fosse ozioso tentare di tracciare qualcosa di più che le linee generali del
futuro assetto della società, almeno fino a quando non si fosse giunti a un punto tale
da disporre di un quadro concreto di quelli che sarebbero stati i problemi reali (e
non più supposti) e le relative istituzioni. Tolte poche affermazioni generali sulla
distribuzione pianificata del lavoro produttivo - distribuzione che avrebbe dovuto
sostituire l'operare spontaneo delle forze di mercato - Marx ed Engles non hanno
fornito alcuna indicazione specifica sul modo in cui tale pianificazione avrebbe
dovuto agire e sulle istituzioni nelle quali avrebbe dovuto concretarsi il possibile
grado della sua centralizzazione e del suo decentramento. Engels, in Il socialismo
dall'utopia alla scienza, parla di ‟produzione socializzata secondo un piano
preordinato", e nell'Anti-Dühring della ‟anarchia della produzione sociale" che
sarebbe stata sostituita dalla ‟organizzazione cosciente della società sulla base di
un piano". Quanto a Marx, nel III Libro del Capitale fa riferimento, piuttosto di
sfuggita, ai produttori che ‟regolano la loro produzione secondo un piano
preordinato", alla ‟società organizzata come un'associazione consapevole e
organica", che fissa ‟una relazione diretta tra le quantità di tempo di lavoro sociale
impiegate nella produzione dei singoli prodotti e l'entità del bisogno sociale di
ciascuno di essi". E questo è tutto.
2. Il dibattito teorico
Quando, agli inizi di questo secolo, alcuni critici del socialismo - economisti come
G. Halm, N. G. Pierson e L. von Mises - cominciarono a sviluppare sul piano
teorico la critica di questo meccanismo economico, assunsero come verità
incontrovertibile che una società a proprietà pubblica dei mezzi di produzione
sarebbe stata inevitabilmente caratterizzata da una pianificazione economica
altamente centralizzata. Assunsero come assiomatico che una simile pianificazione
avrebbe sostituito integralmente il meccanismo del mercato (con la sola eccezione,
eventualmente, dei beni venduti al dettaglio a consumatori individuali) e che, se lo
Stato era proprietario dell'industria, avrebbe certamente stabilito ciò che
l'industria avrebbe dovuto realizzare, emettendo ordini dettagliati, in una forma o
in un'altra, ai suoi dipendenti ai vari livelli (come per ogni organo o ufficio statale).
L'attacco degli economisti alla pianificazione, e specialmente quello di von Mises,
contestò che, in assenza del mercato, un sistema di questo tipo potesse disporre di
un qualche criterio di razionalità, e sostenne che, di conseguenza, non vi sarebbe
stato modo in esso di distinguere metodi economici di produzione o di allocazione
delle risorse da altri che non lo fossero. Nel suo famoso articolo Die
Wirtschaftsrechnung in Sozialisticher Gemeinwesen (in ‟Archiv für
Sozialwissenschaften", 1920, XLVII), von Mises scrisse: ‟L'importanza del denaro,
in una società a controllo statale dei mezzi di produzione, sarà diversa da quella che
ad esso si annette in una società in cui i mezzi di produzione sono proprietà privata.
In effetti essa sarà incomparabilmente minore [...] in quanto sarà circoscritta ai
beni di consumo. Di più: proprio perché nessun bene di produzione potrà mai
essere oggetto di scambio, sarà impossibile determinarne il valore monetario. In
uno Stato socialista il denaro non potrà mai svolgere il ruolo che svolge in una
società concorrenziale nel determinare il valore dei beni di produzione. Qui il
calcolo in termini monetari sarà impossibile. [...] E proprio nelle transazioni di
mercato che si formano per tutti i generi di beni e di lavoro impiegati, quei prezzi
di mercato che debbono essere presi come basi del calcolo. Dove non vi è libero
mercato, non può esistere alcun meccanismo per la determinazione dei prezzi; ma,
senza un simile meccanismo, non vi è calcolo economico".
In precedenza, in un famoso articolo (Il ministro della produzione nello Stato
collettivista) apparso nel ‟Giornale degli economisti" del 1908, E. Barone,
seguendo il suo maestro Vilfredo Pareto, aveva esaminato le condizioni che un
ministero della produzione di uno Stato collettivista avrebbe dovuto rispettare ‟per
trarre il massimo vantaggio dalla sua azione", e concludeva che ‟il sistema di
equazioni di un equilibrio collettivista è identico a quello di un equilibrio di libera
concorrenza". Barone sosteneva ‟l'impossibilità di risolvere queste equazioni a
priori" e asseriva, in sintesi, che ‟le dottrine che immaginano che in uno Stato
collettivista la produzione sarà organizzata in un modo radicalmente diverso da
quello della produzione ‛anarchica', sono delle vere bizzarrie".
Nel corso degli anni trenta la sfida fu raccolta da diversi economisti socialisti, in
particolare da H. D. Dickinson, in Inghilterra, e dal polacco O. Lange, che in quel
periodo risiedeva negli Stati Uniti. La risposta del primo è stata definita ‛soluzione
concorrenziale', in quanto si sforzava di dimostrare che la proprietà pubblica del
capitale e della terra non era da nessun punto di vista incompatibile con il
mantenimento di un mercato per i cosiddetti ‛fattori di produzione' (o ‛beni
impiegati nella produzione') e con la concorrenza tra imprese di Stato nelle vendite
e negli acquisti. La soluzione di Lange non fa appello a mercati ‛reali', ma si fonda
invece (e tuttavia con un meccanismo in qualche modo analogo) su un sistema di
‛prezzi contabili', in base a cui potrebbero essere prese le decisioni produttive.
Questi prezzi contabili sono modificati in rapporto alle relazioni di domanda e
offerta prevalenti per i beni o i ‛fattori' produttivi in questione. Così, ad esempio,
l'autorità centrale, nell'offrire ai Consigli di amministrazione delle industrie o alle
imprese i servizi di fondi-prestiti o fondi di investimento, fisserà un costo del
prestito, o saggio di interesse, per il loro uso: esso sarà aumentato, se le richieste
superano il fondo di investimento complessivo disponibile, e abbassato nel caso
opposto. Lange allude a ‟un procedimento per ‛tentativi ed errori' nell'economia
socialista". Egli riassume in questi termini la sua risposta a Mises: ‟L'asserzione
del prof. Mises che un'economia socialista non può risolvere il problema
dell'allocazione razionale delle sue risorse è fondata su una confusione circa la
natura dei prezzi [...]. Il termine ‛prezzo' ha due significati. Può significare il prezzo
nell'accezione comune del termine, cioè la ragione di scambio di due merci su un
mercato, o può avere il significato più generale di ‛rapporti in base ai quali si
pongono le scelte alternative' [...]. Per risolvere il problema della distribuzione delle
risorse sono indispensabili solo i prezzi in questa accezione più generale [...]. Il prof.
Mises, invece, sembra aver confuso i prezzi nell'accezione più ristretta, cioè le
ragioni di scambio delle merci su un mercato, con i prezzi nel senso più generale di
‛rapporti in base ai quali vengono offerte scelte alternative". (v. Lange, 1938, pp.
59-61).
Coloro che avevano in precedenza sostenuto che il problema era teoricamente
insolubile in un'economia socialista, passarono a questo punto a sostenere che una
sua soluzione positiva, benché teoricamente possibile e da non escludere a priori,
fosse in pratica altamente improbabile. (Lange ha chiamato questa argomentazione
la ‟seconda linea di difesa" delle posizioni alla Mises). Si parlò delle migliaia, o
meglio dei milioni di equazioni che un organo di pianificazione avrebbe dovuto
risolvere. Fu questa la posizione assunta da F. A. von Hayek e da L. Robbins;
quest'ultimo disse che mentre ‟sulla carta possiamo immaginare di risolvere il
problema con una serie di calcoli matematici [...] in pratica una soluzione del
genere è quasi irrealizzabile" (v. Robbins, 1934, p. 151). Si può dire che da allora la
forza di questa argomentazione sia stata grandemente indebolita dall'invenzione
dei calcolatori elettronici e dallo sviluppo delle tecniche di programmazione lineare
per la soluzione dei problemi di ottimizzazione e di allocazione delle risorse.
Nonostante ciò, qualcuno potrebbe ancora sostenere che le difficoltà pratiche per
un calcolo che dia esito positivo rendono assai improbabile la realizzazione, nel
processo decisionale della società pianificata, di un grado di ‛ottimizzazione' non
troppo basso o addirittura di un alto grado di coerenza interna nei piani. Questo
problema della realizzabilità è, evidentemente, rilevante anche per determinare il
grado di dettaglio che dev'essere ed è incluso nelle decisioni centralizzate (problema
dipendente esso stesso non solo dall'efficienza de! calcolo, ma anche dalla
disponibilità in forma appropriata di informazioni attendibili). Su ciò ritorneremo.
In rapporto a ciò va osservato che, sia la ‛soluzione concorrenziale' di Dickinson,
che il metodo dei ‛prezzi contabili', proposto da Lange, fornivano una risposta al
problema proponendo un meccanismo per la determinazione delle decisioni
fortemente decentrato e riducendo al minimo le decisioni da prendere in modo
centralizzato ai vertici. Di conseguenza, essi sostenevano che un simile meccanismo
non è incompatibile con la proprietà sociale o pubblica dei mezzi di produzione ed è
in grado di operare praticamente. In sostanza, essi proponevano la combinazione
della proprietà sociale con una qualche forma di meccanismo di mercato, o
comunque di quasi-mercato: ma non asserivano, contro Mises, che esistesse una
soluzione compatibile con la pianificazione centralizzata ‛di per sé'. Persino nel
dibattito degli anni trenta vi fu però chi sostenne quest'ultima tesi. Per esempio, R.
Hall (v., 1937) affermava che, poiché ‟la domanda dei fattori di produzione è una
domanda derivata [...] non esistono difficoltà sul piano teorico per il calcolo dei
costi [...] fintanto che sussista un mercato per i beni di consumo". Ma poiché
l'allocazione del capitale nei diversi impieghi deve in pratica comprendere
l'allocazione di ogni tipo di bene capitale sui generis (tipò di metallo o di
combustibile, tipo di macchina utensile), il problema è notevolmente più intricato
di quanto potrebbe apparire a prima vista: e ovviamente diventa cruciale in questo
caso il metodo di determinazione dei prezzi e dei costi per ciascuno di questi beni.
3. La ‛pianificazione indicativa' del capitalismo
In tempi più recenti il concetto di pianificazione ha cessato di essere associato
unicamente alla proprietà sociale dei mezzi di produzione. Dopo la seconda guerra
mondiale si cominciò a parlarne, e persino in qualche misura ad applicarla, anche
nei paesi capitalisti. In larga misura ciò fu una conseguenza dell'esperienza, fatta in
tempo di guerra, dei controlli statali e del ‛dirigismo economico' (e anche del
razionamento delle risorse sia tra le imprese che tra i consumatori), e costituì un
deliberato tentativo di estendere questi metodi al tempo di pace per far fronte ai
problemi del dopoguerra. Il dibattito sulla pianificazione è stato stimolato anche
dall'interesse per i problemi dei paesi sottosviluppati, in rapporto con i progetti
internazionali di aiuto economico, patrocinati dalle Nazioni Unite, dalla Banca
Mondiale, ecc.
In Francia fu varato, nel 1947, il cosiddetto ‛piano Monnet'. Negli anni seguenti
piani per periodi di quattro o cinque anni furono redatti in Olanda, Belgio e
Scandinavia. In Italia vi fu il piano Vanoni; anche in Gran Bretagna vi fu qualche
anno più tardi un cosiddetto ‛piano nazionale', che rimase semplicemente un
progetto sulla carta ed ebbe scarsa o nulla efficacia operativa. Per motivi di
chiarezza, alcuni preferiscono indicare questi fenomeni con il termine
‛programmazione', anziché con quello di ‛pianificazione'. In conclusione, per
indicare questa specie di pianificazione capitalistica, piuttosto empirica, si finì per
adottare il termine ‛pianificazione indicativa' o quello di ‛dirigismo'.
Evidentemente, soprattutto se si tratta della realizzazione del piano, fa un'enorme
differenza che esso sia applicato a imprese di proprietà sociale e del settore
pubblico o invece a società private e autonome. Queste ultime possono essere
‛dirette' o costrette solo in situazioni eccezionali (per es. in tempo di guerra), ovvero
con metodi eccezionali (ma allora probabilmente questi metodi incontreranno
resistenze o saranno elusi). Ma l'argomentazione teorica usata per illustrare
l'efficacia specifica di questa pianificazione indicativa è stata che i piani, malgrado
non abbiano carattere coercitivo, serviranno come linee direttrici dello sviluppo
futuro e che, nei limiti in cui si ‛prevede' saranno seguiti, anche
approssimativamente, introdurranno un certo coordinamento tra i settori
produttivi e le imprese, agevolando decisioni di investimento a lungo termine, che
in loro assenza non sarebbero forse state prese. Il successo di un simile ‛dirigismo'
dipendeva soprattutto dalla misura in cui ciascuna singola impresa prevedeva che
le altre imprese sarebbero state influenzate nelle loro decisioni dagli obiettivi
indicati oppure al contrario, li avrebbero ignorati. Alcuni, tuttavia, sono andati
oltre l'idea del piano come semplice indicazione direttiva che le imprese private
potevano seguire o abbandonare a loro discrezione, e hanno interpretato la
‛pianificazione indicativa' come il tentativo di stabilire un collegamento tra le
grandi imprese e i grandi gruppi, incoraggiandoli a concludere una serie di accordi
circa il loro comportamento futuro, accordi destinati ad avere l'effetto di avviare gli
avvenimenti economici nella direzione desiderata. (v. programmazione).
4. Il dibattito recente
Negli anni successivi del periodo postbellico, il dibattito sulla pianificazione si è
incentrato su due aspetti, ambedue importanti: si è prestata maggiore attenzione
alla distribuzione del reddito come elemento qualificante per determinare le
condizioni di una ‛efficiente' allocazione delle risorse economiche; si è spostato
l'interesse dalle condizioni dell'equilibrio statico a quelle dello sviluppo economico.
Vediamo, in primo luogo, la distribuzione: il maggior rilievo dedicato a questo
aspetto del problema, nelle fasi più recenti della discussione, ha ridimensionato in
modo drastico i tentativi della teoria economica di difendere il sistema di mercato
(data la concorrenza) sul terreno della sua capacità di soddisfare in modo
‛automatico' le ‛condizioni di efficienza', capacità che si pretendeva non avesse
l'economia pianificata. Già un'opera come The economie of welfare (1920) di A. C.
Pigou sottolineava che la distribuzione del reddito era una delle due condizioni
principali della massimizzazione del benessere economico (e l'assunto implicava
che tale benessere potesse essere massimizzato solo se la distribuzione del reddito
fosse stata modificata in direzione dell'uguaglianza). Nondimeno, Pigou cercava di
proporre delle condizioni di efficienza per la massimizzazione del reddito nazionale
(o prodotto netto totale), nonostante il fatto che dal punto di vista del benessere (o
utilità) tale massimizzazione dipendesse completamente dalla distribuzione
(l'incremento di ‛utilità' apportato da un'unità addizionale di prodotto dipende,
infatti, interamente da chi la consuma, se una persona a reddito alto o una a
reddito basso). E vero che, a partire dalla fine degli anni trenta, autori come L.
Robbins in Inghilterra e numerosi economisti americani (tra di essi questa
posizione è ancora più largamente diffusa), hanno cercato di eliminare i problemi
della distribuzione, tornando alla ‟negazione della possibilità dei confronti
interpersonali di utilità", asserita da Pareto, e affermando, con forti accenti
positivistici, che l'economia come scienza positiva e wertfrei deve limitarsi a
formulare teoremi sulla ‛efficienza', intesa come massimizzazione della produzione.
Ma le considerazioni sulla distribuzione del reddito non possono essere eliminate
con tanta disinvoltura. Divenne ben presto chiaro che, se la negazione dei confronti
interpersonali fosse stata tenuta ferma in modo rigoroso, non si sarebbe potuto
asserire alcunché sulla massimizzazione del prodotto ‛globale' (dal momento che la
somma dei prodotti eterogenei in un prodotto globale era effettuata implicitamente
in termini di utilità, di cui i prezzi sarebbero stati il riflesso e la misura; ogni
somma di questo genere era, di conseguenza, dipendente dalla distribuzione). Per
superare questa difficoltà e far sì che si potessero formulare condizioni di
‛efficienza nonostante l'impossibilità dei confronti interpersonali, fu escogitato il
cosiddetto ‛principio di compensazione'. Ma un intricato e prolungato dibattito, che
si svolse negli anni cinquanta, finì col dimostrare che questo principio non poteva
essere enunciato senza cadere in contraddizioni contraddizioni dovute, ancora una
volta, all'intrusione di quegli influssi della distribuzione del reddito, che per ipotesi
erano stati esclusi.
In conseguenza di ciò, se l'‛efficienza' giudicata secondo il criterio del benessere
sociale era necessariamente dipendente dalla distribuzione del reddito, e non vi era
alcun motivo per supporre che la distribuzione del reddito creata dal mercato
avesse alcun rapporto con quella ideale, ne discendeva che l'efficienza di un libero
mercato poteva essere considerata, nel migliore dei casi, come nient'altro che
un'approssimazione rispetto al punto ottimale. Viste le forti disuguaglianze di
reddito e le imperfezioni della concorrenza, qualcuno potrebbe sostenere che
questo tipo di efficienza sarebbe notevolmente scarsa. Persino se un'economia
pianificata dovesse rimanere molto lontana dalle ‛condizioni ottimali di efficienza'
sulle quali cercavano di porre l'accento gli economisti, ciò non significherebbe
affatto, di necessità, che la pianificazione è inferiore al sistema di mercato.
Consideriamo ora lo spostamento del centro del dibattito economico dall'equilibrio
statico alla dinamica - spostamento che ha luogo dopo la seconda guerra mondiale e vediamone il rapporto con il dibattito sulla pianificazione. Questo nuovo interesse
per lo sviluppo economico come problema centrale derivò in parte dagli studi sui
cicli economici, fino al 1930 relativamente trascurati, e in parte dall'interesse
conseguente per i tassi di sviluppo e per l'andamento (trend) di lungo periodo. Da
questa discussione emerse tra l'altro il fatto che lo sviluppo economico è fortemente
instabile, non solo per la sua tendenza alle fluttuazioni, ma anche per la possibilità
che si verifichino movimenti divergenti, anziché convergenti, rispetto a ogni
tendenza all'equilibrio.
Il punto cruciale per la crescita e lo sviluppo è, naturalmente, l'accumulazione e
l'investimento di capitale e, di conseguenza, l'attività del settore che produce beni
capitali. Nell'economia atomizzata del libero mercato l'investimento è soggetto a un
duplice motivo di incertezza: un'incertezza, che è nella natura delle cose, sui fattori
che determinano l'andamento di lungo periodo (per es., il progresso tecnico, il
modificarsi dei gusti, le variazioni demografiche, ecc.); un'incertezza, ancora, sulle
intenzioni e i comportamenti delle altre imprese nella stessa o in altre branche
dell'economia, comportamenti che contribuiscono essi stessi a determinare
l'andamento dei prezzi e dei profitti nel periodo immediatamente successivo. Che
l'espansione del settore dei beni capitali sia profittevole o no, dipenderà, ad
esempio, dall'andamento futuro degli investimenti per il complesso dell'economia,
dalla probabilità che essi diminuiscano o aumentino o rimangano pressoché
costanti. Tuttavia proprio questa è una delle incognite nell'economia non
pianificata di libera concorrenza, che Mises e la sua scuola hanno esaltato per il suo
‛automatismo'.
Il risultato di questa attenzione per i problemi dello sviluppo fu, così, di sottolineare
i vantaggi potenziali della pianificazione nel limitare o magari addirittura
eliminare le accentuate fiuttuazioni cui fino allora la crescita economica era stata
soggetta, introducendo, di conseguenza, la stabilità nello sviluppo e aumentando
inoltre il tasso di crescita, mediante la diminuzione dell'incertezza sulla natura
dell'andamento di lungo periodo.
5. La pianificazione sovietica
È stato, tuttavia, in Unione Sovietica che la pianificazione economica ha raggiunto
il suo massimo sviluppo ed è all'Unione Sovietica che il termine ‛pianificazione' è
stato originariamente associato. È all'Unione Sovietica (e oggi anche agli altri paesi
socialisti dell'Europa orientale) che si guarda di solito quando si vogliono
analizzare le lezioni offerte dall'esperienza, un'esperienza durata ormai quattro
decenni e svoltasi nelle situazioni più diverse. Dopo la fine della seconda guerra
mondiale, anche altri paesi dell'Europa orientale e sudorientale hanno adottato la
pianificazione centralizzata, rigidamente modellata, almeno nei primi anni, sulla
struttura di quella sovietica, in una forma persino meccanica. Unica eccezione è
stata la Iugoslavia che, a parte alcuni anni iniziali, nell'immediato dopoguerra, di
pianificazione centralizzata secondo il modello sovietico, realizzò negli anni 19511952 (dopo la rottura politica con l'Unione Sovietica) un decentramento completo e
adottò un sistema simile al modello di economia socialista decentralizzata, proposto
nel dibattito economico degli anni trenta del quale abbiamo parlato.
Benché la nascita della Commissione per la pianificazione risalga, nel caso
dell'Unione Sovietica, alla fine della guerra civile, nel 1921 (si tratta del famoso
Gosplan nato da quella che negli anni precedenti era stata la Commissione statale
per l'elettrificazione), in realtà una pianificazione effettiva iniziò solo alla fine degli
anni venti, con il lancio del primo piano quinquennale. Nei suoi primi anni di vita,
il Gosplan si occupò soltanto di piani parziali per particolari settori ‛chiave'
dell'economia, fortemente danneggiati nel corso della guerra civile, che era urgente
ricostruire per il più generale risanamento della produzione: ad esempio, un piano
dei trasporti, un piano dei combustibili, e così via. Nel frattempo, il controllo e il
coordinamento dell'industria erano affidati a Commissariati (o dipartimenti
ministeriali), coordinati dal Consiglio supremo dell'economia nazionale (Vesencha).
Il settore agricolo era formato in quel periodo da circa venticinque milioni di
piccole aziende contadine, affiancate da un numero al confronto esiguo di grandi
fattorie statali. L'agricoltura veniva stimolata a tornare ai livelli normali dalle
misure della Nuova Politica Economica (NEP), la cui chiave di volta era costituita
dal riconoscimento del diritto dei contadini di commerciare liberamente i prodotti
agricoli, una volta pagata allo Stato una tassa agricola. Benché il commercio
privato fosse in quel periodo del tutto legale, il grosso del commercio dei prodotti
agricoli tra la campagna e la città era nelle mani delle cooperative e delle
organizzazioni commerciali dello Stato. Nell'ambito dell'industria la pianificazione
si orientò in quel periodo verso il decentramento e la produzione per il mercato.
Terminata la distribuzione centralizzata dei rifornimenti alle imprese e la raccolta
diretta delle loro quote di produzione, che erano operate dagli organismi statali
durante il ‛regime' bellico, le imprese (chiamate per la maggior parte di quel
periodo trusts industriali, in quanto concentrazioni di diversi impianti produttivi o
fabbriche) potevano e, in realtà, erano costrette a procurarsi i rifornimenti
necessari (di materie prime, combustibile ed energia, pezzi di ricambio ecc.)
instaurando rapporti contrattuali diretti con i fornitori. Allo stesso modo dovevano
operare per vendere la propria produzione agli eventuali clienti o intermediari. Il
principio del chozrasčët) cioè della contabilità economica fondata su un bilancio
autonomo, fu sanzionato come il principio fondamentale dell'attività economica.
Insieme a esso, fu elevato a principio fondamentale quello della responsabilità
individuale del direttore di fabbrica o di impresa (non eletto, ma nominato). Fu
sottolineata, inoltre, la distinzione tra il controllo e la direzione generale, di
competenza degli organi superiori, e la realizzazione e l'esecuzione concreta degli
obiettivi politici generali.
Il primo, e ancora sperimentale, tentativo di pianificazione industriale integrale del
Gosplan furono le famose ‛cifre di controllo' per il 1925-1926, raccolte in un volume
che non superava le 100 pagine. Furono il primo tentativo di tracciare un piano di
produzione annuale. Dovevano essere usate dai vari Commissariati come linee
direttive (orientovka) da prendere in considerazione per la redazione dei piani di
settore, ma non avevano il carattere di direttive obbligatorie. Nel presentarle al
governo, il Gosplan le definì, in effetti, ‟direttive di massima per il lavoro di
redazione dei piani operativi effettivi". Ma in pratica, a quanto risulta, esse furono
largamente ignorate dai vari organi responsabili dei programmi effettivi. Negli
anni successivi fu comunque fatto uno sforzo per migliorare la qualità dei dati
statistici, in base a cui erano formulate le previsioni, istituendo
contemporaneamente ai livelli inferiori della gestione dell'economia organi di
pianificazione subordinati. Nel frattempo le cifre di controllo annuali ampliarono il
loro campo di riferimento e, quindi, anche il loro ruolo effettivo. Nell'agosto del
1927 una risoluzione del Comitato centrale del partito chiese che fossero
trasformate da linee direttive generali in direttive concrete per la redazione di tutti
i piani operativi. Con il varo del primo piano quinquennale, della cui stesura erano
state incaricate speciali sezioni del Gosplan per la pianificazione a lungo termine, le
‛cifre di controllo' cominciarono ad assolvere un ruolo regolare nella redazione del
piano operativo annuale dettagliato. Quest'ultimo, a sua volta, venne rapportato al
‛piano di prospettiva', di più lungo periodo, destinato a coprire cinque anni, e in
teoria venne costruito all'interno di esso.
Il decennio che doveva seguire il varo del primo piano quinquennale nel 1928-1929
fu contraddistinto da condizioni particolari, destinate a conferire alla
pianificazione, e ai problemi che essa doveva affrontare, alcune caratteristiche
peculiari, che in circostanze diverse forse non si sarebbero prodotte. In particolare,
con l'inoltrarsi nel decennio, si accentuò la centralizzazione sia della pianificazione
che dell'amministrazione economica. Centralizzazione nel senso che i piani
operativi divennero sempre più dettagliati, e così anche le direttive supplementari
emanate dai ministeri (come tornarono a chiamarsi i vecchi Commissariati);
mentre erano drasticamente ridotti, in misura equivalente, la libertà di scelta e
l'ambito di iniziative concesse ai livelli inferiori, e in particolare alla direzione delle
imprese industriali. Questa situazione era in stridente contrasto con quella degli
anni precedenti il 1928. Il lancio del primo piano quinquennale era stato dominato
da determinati obiettivi politici (oggetto di aspre controversie negli anni
precedenti); in particolare, dall'obiettivo di portare a termine l'industrializzazione
del paese in un breve lasso di tempo. La realizzazione di ciò dipendeva dalla
trasformazione su larga scala dell'agricoltura sulla base di una struttura
collettivizzata (cioè la sostituzione della conduzione contadina tradizionale,
individuale e su piccola scala, con quella collettiva e cooperativa). Guardando
retrospettivamente, si potrebbe definirlo un ‛grande balzo'. Esso fu in larga misura
concepito, e senza dubbio realizzato, nella forma di ‛campagne' e ‛mobilitazioni',
concentrando tutte le forze disponibili su questo o quel ‛fronte economico' a
seconda di quelle che, nella situazione del momento, si presentavano come le
principali strozzature dell'economia. Il primo piano quinquennale era stato
preparato originariamente in due versioni, una minima e una massima;
quest'ultima era fondata sulle previsioni più ottimistiche di fattori quali
l'andamento della bilancia del commercio con l'estero, il raccolto e la consegna dei
prodotti agricoli, ecc. Come piano definitivo il governo adottò alla fine la versione
massima e, nel corso della sua realizzazione, gli obiettivi dei piani annuali,
specialmente quelli relativi all'industria pesante, furono aumentati in modo
drastico in base allo slogan ‟realizziamo il piano quinquennale in quattro anni".
Si raggiunse così un tasso di sviluppo eccezionalmente alto, che dette luogo a vasti
mutamenti strutturali nell'economia, accompagnati da trasferimenti su larga scala
di lavoro (e di conseguenza di popolazione) dall'agricoltura all'industria. Nel corso
del decennio, il crescente pericolo di guerra, derivante dall'ascesa del fascismo
hitleriano, e ancora, in Estremo Oriente, dall'incursione giapponese sul continente
con ‛'invasione della Manciuria, provocò uno spostamento di risorse, destinate al
riarmo e alla costruzione dell'industria bellica. Il secondo piano quinquennale, ad
esempio, prevedeva, nella versione iniziale, un certo rallentamento del ritmo di
espansione e dedicava maggiore attenzione alla produzione di beni di consumo; ma
nel corso del quinquennio esso fu rielaborato in vista di maggiori incrementi, a
causa della crescente tensione della situazione internazionale. Se pensiamo al
pessimo andamento delle ragioni di scambio del commercio estero nel 1930, dovuto
alla crisi economica mondiale e al crollo dei prezzi dei prodotti agricoli sui mercati
mondiali, e al susseguirsi di cattivi raccolti che si verificò nei primi anni del
decennio, associato alla drastica diminuzione del bestiame determinata dalle
campagne di collettivizzazione, non ci si deve stupire che si siano verificate acute
carenze di certi prodotti, come quelli alimentari per l'accresciuta popolazione
urbana o i materiali per le costruzioni edilizie e gli impianti industriali, ecc. Negli
anni 1931-1934 si rese necessario introdurre il razionamento dei prodotti
alimentari che scarseggiavano; allo stesso modo divenne prassi corrente, in
occasione di ogni acuta carenza di prodotti industriali, il razionamento ditali
prodotti tra i diversi settori industriali e tra le imprese di ciascun settore,
razionamento operato mediante un sistema di distribuzione centralizzato, come era
avvenuto negli anni precedenti la NEP. Quando si verificavano ritardi nella
realizzazione dei piani, ad esempio quando in un ‛assortimento' di prodotti, alcuni
di essi venivano trascurati a vantaggio di altri, oppure quando gli obiettivi di
produzione erano raggiunti trascurando la riduzione dei costi o persino
accrescendoli con un incremento spropositato dell'occupazione, la tendenza era
quella di fronteggiare simili fenomeni aggiungendo ai piani, negli anni successivi,
norme esplicite circa l'‛assortimento' della produzione, la riduzione dei costi e
l'impiego di lavoro. Come ulteriore strumento di controllo, in particolare sulle
spese per salari e sul livello degli stocks detenuti dalle imprese industriali, si
elaborò un piano del credito sempre più dettagliato, con la specificazione
dell'ammontare di credito che le banche potevano concedere all'industria per i
diversi obiettivi definiti. L'ammontare del credito era strettamente correlato al
piano di produzione dell'impresa in questione e includeva l'assegnazione di crediti
supplementari o ‛fuori piano' di entità strettamente limitata, per far fronte a
situazioni di emergenza o a necessità straordinarie.
Il metodo principale di pianificazione sviluppato in questo periodo fu il cosiddetto
‛metodo dei bilanci materiali'. Un ‛bilancio' era formato ponendo in equazione la
quantità disponibile e il fabbisogno di un determinato prodotto; esso costituiva lo
strumento indispensabile non solo per stabilire il fabbisogno di stanziamenti
concessi dal sistema centralizzato di allocazione, ma anche per coordinare le
componenti del piano di produzione complessivo. Per costruire questi bilanci erano
essenziali i cosiddetti ‛coefficienti tecnici', espressione delle relazioni input-output
dei diversi prodotti. Questi coefficienti, tuttavia, sarebbero stati diversi, nei diversi
impianti impegnati nella produzione dello stesso prodotto, a seconda
dell'attrezzatura tecnica e dell'efficienza complessiva di ciascuno di essi. Inoltre,
molto spesso la politica ufficiale fu quella di aumentare o diminuire i coefficienti al
di là di quanto le stesse industrie ritenevano ‛obiettivamente possibile' o al di là dei
rapporti che l'esperienza passata aveva mostrato essere prevalenti. Le informazioni
che affluivano al centro dai livelli inferiori, relative al fabbisogno di rifornimenti
necessari alla realizzazione di un certo programma di produzione, non sempre
erano prive di tendenziosità (visto che la possibilità di disporre di qualche riserva
facilitava la vita ai dirigenti industriali e ai loro dipendenti e li metteva in grado di
raggiungere più facilmente gli obiettivi previsti dal piano e di fronteggiare
situazioni impreviste). Ma se i pianificatori sospettavano questa tendenziosità,
tendevano a controbilanciarla diminuendo in misura corrispondente i coefficienti.
Il coefficiente appropriato di ogni particolare settore industriale era il risultato di
una media ponderata dipendente dalla composizione del suo piano di produzione;
di conseguenza, si modificava se quest'ultimo era modificato negli ultimi stadi della
rielaborazione del piano o nel corso della sua realizzazione. I coefficienti, inoltre,
contenevano inevitabilmente un elemento politico o ‛soggettivo'.
Un problema ulteriore era quello di coordinare i singoli bilanci per tener conto
delle interdipendenze reciproche, ossia dei cosiddetti ‛rapporti di feedback', un
problema familiare agli studiosi dell'analisi delle interdipendenze strutturali
(input-output analysis) nella forma dell'‛inversione di una matrice'. I pianificatori
sovietici, in questo periodo, non si preoccuparono quasi affatto di elaborare una
‛metodologia dei bilanci più raffinata, quale quella che doveva essere sviluppata in
Occidente nella forma della input-output analysis di W. Leontjef. Può darsi che se
anche l'avessero posseduta, in pratica non vi sarebbe stata una grande differenza
(almeno senza la possibilità di usare largamente i calcolatori elettronici): infatti i
vincoli temporali del processo di pianificazione limitano in modo serio il numero di
stadi o di ‛effetti di interdipendenza' che può essere calcolato quando un dato
indice di produzione è modificato. La prassi usuale è stata, in realtà, quella di non
sviluppare il calcolo oltre le cosiddette ‛interdipendenze di secondo ordine' o di
‛terzo ordine'.
Per tutti questi motivi si riuscì a garantire, anche per i piani operativi meglio
elaborati, solo una coerenza interna, o una ‛compatibilità', approssimativa. Il
sistema di distribuzione dei rifornimenti era quasi di necessità destinato a
provocare carenze di prodotti in alcuni settori e in alcune imprese industriali,
anche se i coefficienti decisivi input-output fossero stati fissati in modo realistico. Si
può affermare, tuttavia, che questi squilibri non tendevano a tradursi in
fiuttuazioni cumulative, com'è caratteristico di un sistema di mercato (vedi le
fiuttuazioni del tipo cob web descritte dagli economisti). Si può affermare altresì
che il coordinamento così realizzato, benché imperfetto, era verosimilmente
maggiore di quello possibile quando le decisioni sulla produzione e gli investimenti
erano prese dai diversi responsabili in modo atomistico e in condizioni di incertezza
circa l'andamento e la configurazione futuri della situazione complessiva.
Posto che l'obiettivo principe della politica economica di quel periodo era uno
sviluppo rapido, caratterizzato da vasti mutamenti strutturali, è comprensibile che
la pianificazione avesse il carattere di ‛pianificazione per priorità', ossia fosse
condizionata e operasse in base a una scala di obiettivi prioritari.
Tale scala poteva mutare a seconda delle modificazioni della natura delle
strozzature che di volta in volta intralciavano la crescita. Ma in tutto il periodo
anteguerra la priorità dominante fu sempre la cosiddetta ‛industria pesante', ossia
l'espansione del settore industriale produttore di beni capitali: i combustibili
fondamentali, l'energia, i metalli e la costruzione di macchinari. A ciò si aggiunse,
come abbiamo visto, la priorità dell' ‛industria della difesa' e delle branche a essa
complementari, un obiettivo che crebbe costantemente di importanza nel passaggio
dal primo al secondo e poi al terzo piano quinquennale; quest'ultimo (non portato a
termine) era dominato da tre obiettivi prioritari: industria bellica, metalli non
ferrosi e potenziamento dei trasporti.
In realtà, verso la fine del decennio l'economia del paese si era praticamente
trasformata in un'economia di guerra, strutturata secondo i metodi e il grado di
centralizzazione caratteristici di questa. Per un verso, questa scala di priorità nella
politica di pianificazione semplificò di molto i problemi di un sistema di
pianificazione e di amministrazione economica altamente centralizzato; per un
altro verso comportò un inevitabile costo sociale. Gli obiettivi e gli indici dei settori
prioritari potevano essere raggiunti più facilmente perché, in caso di difficoltà, si
potevano trasferire risorse in questi settori sottraendole ai settori non prioritari.
Questi ultimi svolgevano così il ruolo di ammortizzatori o fondi di riserva per
fronteggiare le carenze dei primi nella realizzazione del piano. Questi settori non
prioritari, che in quel periodo erano di solito quelli produttori di beni di consumo,
sopportarono così il peso della situazione, poiché non riuscivano a raggiungere gli
obiettivi previsti dal piano; ma le priorità fondamentali furono salvaguardate e
poterono essere realizzate (almeno per grandi tratti). Ma la situazione cambiò nella
misura in cui lo sviluppo puramente quantitativo e l'industria pesante persero la
loro schiacciante priorità e quest'ultima slittò verso le branche produttrici di beni
di consumo (il che cominciò a verificarsi negli anni cinquanta). Si trattava o di
considerare gli obiettivi prioritari come più numerosi, o di sostituire la prassi di
redigere una semplice lista di priorità con l'esigenza di ‛bilanciare' una molteplicità
di bisogni alternativi. In ambedue i casi cambiava la situazione, e così pure i
problemi che essa poneva; la comoda riserva costituita precedentemente dai settori
che non erano considerati prioritari cessava pertanto di esistere.
Fu questo un aspetto del mutamento della situazione dal decennio anteguerra agli
anni cinquanta, dopo la fine della ricostruzione postbellica. Vi furono altri
mutamenti ancora. Uno di questi riguardò la situazione del mercato del lavoro, e
investì l'intera offerta di lavoro. I primi dieci o dodici anni di pianificazione erano
stati un periodo di sviluppo ‛estensivo', nel senso che l'ampliamento della capacità e
dell'articolazione dell'industria esistente e la creazione di nuovi settori - motori,
metalli non ferrosi, aeronautica - erano stati realizzati attingendo alle riserve di
lavoro del paese. Così il mancato raggiungimento degli indici di incremento della
produttività del lavoro, fissati dal primo piano quinquennale, poté essere
compensato dall'espansione dell'occupazione oltre gli indici del piano, sebbene tale
espansione comportasse effetti inflazionistici, poiché aumentò il fondo salari
complessivo e quindi la domanda. È certamente vero che anche in questo periodo vi
fu carenza di manodopera qualificata; a ciò si fece fronte con piani di
addestramento su larga scala. Ma in generale non vi fu carenza di manodopera non
qualificata, poiché, come nella maggior parte delle zone sottosviluppate del mondo,
l'agricoltura in Russia era stata caratterizzata dal sovrappopolamento rurale (con
l'eccezione delle zone di popolamento più recente, come la Siberia e l'estrema zona
orientale). Verso il 1950, a seguito delle enormi perdite del periodo bellico, la
situazione dell'offerta di manodopera era in via di mutamento. Lo sviluppo
‛estensivo' cominciava a incontrare dei limiti in una, non più particolare, ma
generale carenza di manodopera. Si cominciò a sottolineare con maggiore vigore la
necessità di una più elevata produttività del lavoro, da ottenere introducendo le più
moderne innovazioni tecniche. Ancora una volta, i risultati non furono pari alle
intenzioni; molti dei problemi connessi alla diminuzione del tasso di sviluppo nella
prima metà degli anni sessanta vanno senza dubbio attribuiti a un ‛ritardo' nella
realizzazione di quello sviluppo ‛intensivo' che la nuova e mutata situazione
richiedeva.
Oltre al mutamento della natura degli obiettivi politici, che la pianificazione doveva
soddisfare, e al mutamento nella situazione del lavoro, fu il grande sviluppo
dell'industria nel periodo anteguerra a complicare non poco i compiti della
pianificazione centralizzata e, di conseguenza, ad accentuare in misura
considerevole le difficoltà del metodo dei bilanci, già menzionate, come anche gli
effetti negativi degli errori e delle incoerenze che ne derivavano nella redazione dei
piani (soprattutto in rapporto al sistema di allocazione centralizzata delle scorte).
Mentre all'inizio degli anni trenta il numero di bilanci particolari stesi dal Gosplan
era di alcune centinaia o poco più, negli anni cinquanta il loro numero era salito a
circa 2.000 (questa cifra comprende i bilanci redatti dal Gosplan dell'Unione e dai
Gosplan delle singole repubbliche). Il sistema di allocazione centralizzata
interessava qualcosa come 10.000 prodotti e forse più; oltre 5.000 prodotti, e tutti
gli indici e gli obiettivi ad essi pertinenti, erano inclusi nel piano annuale, e il piano
di una singola impresa poteva comprendere fino a 500 indici diversi. Negli anni
sessanta il numero delle singole imprese industriali che erano soggette alla
pianificazione raggiunse la cifra di 40.000.
6. Analisi critica delle tendenze al decentramento
È su questo sfondo che alla fine degli anni cinquanta e negli anni sessanta si avviò il
dibattito sulla necessità di introdurre misure di decentramento. Nella mutata
situazione degli anni cinquanta, i metodi di gestione economica fortemente
centralizzata, per quanto opportuni potessero essere stati nella situazione e con gli
obiettivi politici e i compiti specifici del decennio prebellico, e anche per l'economia
di guerra' degli anni quaranta, divenivano in modo evidente sempre più inadeguati.
Essi producevano addirittura risultati negativi, sui quali si cominciavano a
concentrare i commenti critici. Il dibattito non fu limitato all'Unione Sovietica, ma
si estese agli altri paesi del ‛blocco' socialista dell'Europa orientale; esso raggiunse
la massima intensità in Cecoslovacchia e in Ungheria, dove le misure di
decentramento richieste furono assai più radicali, mentre si svolse relativamente in
sordina nella Repubblica Democratica Tedesca e in Romania e mantenne un livello
intermedio in Polonia e in Bulgaria. In questa atmosfera furono preparate e
applicate le riforme economiche della metà degli anni sessanta (definite in qualche
caso - per es. in Ungheria - come ‛nuovo modello economico'). Era generalmente
riconosciuta l'esigenza di semplificare i compiti della pianificazione centrale, sia
diminuendo il numero di obiettivi e di indici fissati dagli organismi superiori e
inclusi nel piano centrale, sia accrescendo, contemporaneamente, l'autonomia e la
capacità decisionale della singola impresa, al fine di stimolare una maggiore
iniziativa da parte dei dirigenti delle imprese o degli stabilimenti (per es., per
quanto riguardava le innovazioni nei metodi di produzione e nella natura dei
prodotti, nuovi prodotti e nuovi modelli, ecc.). Su due questioni, tuttavia, esistevano
differenze di tono e diverse erano le misure di decentramento proposte: 1) se i
principali beneficiari dell'accresciuta libertà e autonomia dovessero essere le
imprese esistenti o piuttosto le nuove concentrazioni industriali di livello
intermedio (operanti sulla base del chozrasčët); 2) in che misura si dovesse
permettere una maggiore flessibilità nei prezzi e nell'approvvigionamento delle
scorte industriali sulla base di rapporti contrattuali diretti, in altre parole in che
misura si dovessero reintrodurre negli scambi interindustriali meccanismi di
mercato che richiamavano alla mente il periodo della NEP sovietica degli anni
venti.
In Ungheria, per esempio, il sistema di allocazione delle scorte fu abolito e i prezzi
di un numero considerevole di merci furono lasciati liberi di fluttuare tra un
massimo e un minimo, sulla base di accordi contrattuali diretti; inoltre, un ristretto
numero di prezzi (essenzialmente quelli dei beni di lusso) furono lasciati liberi di
fluttuare senza limiti di sorta in rapporto alla situazione del mercato. Si lasciò alle
imprese persino la possibilità di effettuare alcune spese per investimenti,
ricorrendo a prestiti bancari, purché esse non superassero un determinato
ammontare. Nei termini del dibattito economico degli anni tra le due guerre, queste
misure possono apparire una svolta verso quel tipo di sistema decentralizzato o
‛socialismo di mercato', come è stato talvolta chiamato, allora tracciato da Lange e
Dickinson. Ciò, tuttavia, è vero solo in parte. Nelle proposte di Lange e di
Dickinson alla pianificazione era lasciato uno spazio assai esiguo. Quasi tutte le
decisioni economiche erano prese sulla base delle condizioni del mercato ed erano
indirizzate da queste. Nel caso di Lange l'unica eccezione era il tasso generale di
investimento o l'ammontare totale di fondi per l'investimento da mettere a
disposizione degli organi economici, mentre l'allocazione di queste risorse era
decisa in base al rapporto tra la domanda e le scorte disponibili. Ma nel
meccanismo decentralizzato, introdotto con le riforme economiche degli anni
sessanta, l'ambito di intervento lasciato alla pianificazione centralizzata era molto
superiore a questo. In generale, la massa degli investimenti rimaneva, anche in
Ungheria, sotto il controllo delle autorità centrali; i piani di produzione annuali,
benché liberamente redatti dalle imprese, dovevano essere tali da corrispondere
abbastanza da vicino, nel loro complesso, al piano a più lungo termine redatto dagli
organi di pianificazione centrali: mentre i prezzi di tutti i prodotti ‛chiave', e di
tutte le merci delle quali vi era scarsità, restavano ancora di competenza delle
autorità centrali. Non avvenne nulla di simile allo smantellamento del sistema di
pianificazione quale si verificò in Iugoslavia negli anni cinquanta. Particolare il
caso della riforma sovietica del 1965. Mentre fu sostanzialmente ridotto il numero
degli indici compresi nel piano annuale, a livello di impresa quest'ultimo continuò a
prevedere alcuni indici fondamentali: in particolare, il totale della produzione
‛venduta' espresso in termini di valore (in sostituzione del valore della produzione
lorda prodotta, precedentemente assegnato) e un ‛massimo' per il fondo salari
complessivo. Il profitto del bilancio di esercizio fu riconosciuto quale principale
criterio della riuscita di un'azienda e a esso fu associato un nuovo tipo di fondo di
incentivazione per la distribuzione di premi; ma il sistema di allocazione delle
scorte fu mantenuto in piedi.
La prima critica rivolta al sistema ipercentralizzato esistente riguardava il modo in
cui gli obiettivi del piano dovevano di necessità essere espressi nelle direttive di
pianificazione; la critica si concentrava soprattutto sugli obiettivi, espressi in
termini di qualche misura fisica. Ovviamente, se la produzione a livello di impresa
è determinata dettagliatamente dal piano, la sua entità deve essere espressa in una
qualche misura, e l'esperienza ha mostrato che la particolare misura adottata può
indurre distorsioni nel modo in cui gli obiettivi di produzione sono realizzati.
In alcuni casi, la misura più appropriata della produzione è una misura di peso, in
altri una misura di lunghezza o di superficie o semplicemente un numero di unità.
Sono ormai numerosi e ben noti gli esempi di situazioni, in cui la misurazione in
termini di peso ha prodotto la tendenza a fabbricare oggetti pesanti, anziché leggeri
(vedi i telai dei letti, i candelieri o i chiodi), la misurazione in termini di lunghezza
(come nel caso dei tessuti), la tendenza a fabbricare stoffe strette e di tessitura la
più semplice possibile, e così via. Quando la produzione, anziché uniforme e
standardizzata, è eterogenea, come nel caso di numerosi prodotti dell'industria
meccanica, la misura più facile è espressa in termini di valore lordo, che ha il
vantaggio della semplicità, perché le singole unità prodotte possono essere sommate
in base ai prezzi correnti di vendita. Ma l'esperienza ha mostrato, di nuovo, che nel
caso del valore lordo la tendenza alla distorsione si manifesta come incremento
della quantità dei fattori di produzione acquistati all'esterno dalle imprese, che
vengono incorporati nel prodotto: l'uso, ad esempio, di materie prime e pezzi ad
alto anziché a basso costo, la produzione, cioè, di articoli cosiddetti ‛materialintensivi'.
Un altro esempio è il seguente: è più facile raggiungere l'obiettivo del piano
montando un gran numero di pezzi in un veicolo finito, piuttosto che produrre
singoli pezzi di ricambio, anche se vi è una grande richiesta di essi. Inoltre può
essere scoraggiata la concentrazione verticale in una stessa impresa di processi di
produzione consecutivi, anche se tale concentrazione dovesse avere come risultato
una maggiore efficienza e un coordinamento più equilibrato dei flussi di
produzione. Questa tendenza, tuttavia, è forse controbilanciata dalla tendenza alla
concentrazione verticale, che nasce dalla difficoltà di ottenere i rifornimenti e dai
ritardi nella loro consegna. Per tutte queste ragioni, tra la fine degli anni cinquanta
e l'inizio degli anni sessanta, in molti settori dell'industria, a cominciare
dall'industria tessile, il valore lordo fu sostituito con il valore netto.
Quale che sia la forma particolare della misura adottata, è inevitabile che obiettivi
di questo tipo tendano a privilegiare la realizzazione puramente quantitativa, a
scapito della qualità, delle esigenze di un assortimento ben equilibrato e soprattutto
a scapito dello sforzo di realizzare nuovi prodotti e nuovi e migliori modelli.
Similmente, la realizzazione puramente quantitativa tende a essere privilegiata
anche a costo di inefficienze: ad esempio con la prassi diffusa dell'eccessiva
accelerazione del ritmo produttivo e degli straordinari verso il periodo finale di un
piano. Fu proprio per contrastare simili effetti che vennero aggiunti alle direttive di
piano gli indici detti ‛qualitativi', che fissavano il tasso di riduzione dei costi da
realizzare o l'incremento della produttività del lavoro. In questo modo furono però
aumentati spropositatamente il numero e la varietà degli ‛indici' inclusi nei piani,
cosicché i dirigenti di impresa finirono con l'attribuire diverso peso ai vari indici, e
poiché alcuni di questi erano tra loro contraddittori, parte di essi tendeva a essere
ignorata completamente.
Gli svantaggi e le distorsioni derivanti dai vari tipi di ‛indicatori di successo'
adottati in precedenza erano generalmente considerati un corollario pratico
inevitabile dell'eccessivo dettaglio degli indici inclusi nel piano centrale; pertanto si
ricercò attentamente un qualche ‛indicatore sintetico' dei risultati dell'impresa, tale
da ridurre al minimo, in ogni caso, le deviazioni unilaterali prodotte dagli indici
esistenti. (In quel periodo fu in voga lo slogan: ‟meno fiducia negli ordini
amministrativi e più fiducia nei metodi economici", quali l'incentivazione tramite i
prezzi, le facilitazioni creditizie, la tassazione e simili). A tal fine, in concomitanza
con la diminuita fiducia nel metodo delle direttive dettagliate, le riforme
economiche della metà degli anni sessanta puntarono, abbastanza naturalmente, ad
accentuare il ruolo dei risultati complessivi di bilancio come strumento di
valutazione, come avveniva nei primi anni di applicazione del chozrasčët.
Ma, com'è ovvio, anche i ‛criteri di bilancio' possono avere come effetto distorsioni
nella produzione, se i prezzi non sono ‛giusti' in qualche senso appropriato: è
questa una delle ragioni per cui le misure di decentramento sono state
accompagnate da misure di riforma dei prezzi (misure che, nel caso dell'Ungheria,
hanno preceduto l'introduzione del ‛nuovo meccanismo economico).
Un altro tipo di critica rivolta al vecchio sistema centralizzato fu che esso tendeva a
dar vita a forme di conflitto nocive tra i livelli superiori e i livelli inferiori
dell'apparato di gestione, poiché limitava l'ambito di competenza di questi ultimi su
materie che essi conoscevano spesso assai meglio dei primi.
Si poteva naturalmente considerare questo fenomeno in qualche modo come un
conflitto tra punti di vista o interessi settoriali e interesse generale. Ma non sempre
era così. Si trattava quasi altrettanto spesso di un conflitto tra le decisioni di
dettaglio prese da persone staccate dalla situazione reale (sulla base di informazioni
imprecise e molto approssimative) e la conoscenza approfondita di quella situazione
da parte di persone a essa legate e fornite non solo di informazioni tecniche, ma
anche della ‛percezione' di ciò che era opportuno fare. Facciamo due esempi tra i
più significativi. In primo luogo, sottoposti alla costante pressione della necessità di
realizzare obiettivi di piano probabilmente eccessivi (pressione accompagnata da
incentivi finanziari), ossessionati dal timore costante di carenze nei rifornimenti e
di ritardi nelle consegne, ambedue fattori di pesante disorganizzazione della
produzione, i dirigenti industriali tendevano, nel fornire le informazioni ai livelli
superiori della gestione, a sottovalutare e nascondere le loro possibilità e a
esagerare le loro necessità (in termini di rifornimenti, macchinari, manodopera).
Abbiamo già ricordato che gli organi di pianificazione o i ministeri, se sospettavano
una simile tendenza, reagivano aumentando ancora gli obiettivi di produzione e
riducendo le allocazioni, intensificando così doppiamente la tensione tra i ‛livelli'.
(In quel periodo si diceva comunemente che un direttore assennato avrebbe potuto
superare i propri obiettivi di piano, poniamo, del 50%, ma mai del 25%, poiché, se
lo avesse fatto, il risultato sarebbe stato inevitabilmente il drastico aumento
dell'obiettivo per l'anno successivo).
In secondo luogo, venivano fortemente incoraggiate non solo le richieste eccessive
di rifornimenti, per garantirsi dei margini di manovra (e cioè per ristabilire una
certa flessibilità a livello dell'impresa) e per premunirsi di fronte a eventualità
impreviste, ma anche l'accumulazione - se possibile - di riserve in eccesso, sia di
macchinario che di materie prime e di lavoro. Questa era l'unica via che restava ai
dirigenti di impresa per recuperare una propria iniziativa autonoma. Ma l'incetta
tende ad aggravare le carenze di rifornimento, e probabilmente con effetti
concatenati.
Tutto ciò può aver accentuato e tenuto in vita nel periodo postbellico la situazione
cronica di un mercato dominato dai venditori, situazione sfruttata a sua volta dai
conservatori favorevoli al mantenimento del meccanismo centralizzato per
motivare la prosecuzione del razionamento tramite il sistema dell'allocazione delle
scorte.
Oltre a ciò, i marxisti, in particolare, possono ritenere che, con un sistema di potere
eccessivamente verticistico e con i subordinati assuefatti all'accettazione passiva di
ordini e direttive, l'alienazione dei produttori dal processo sociale viene forse
perpetuata, anziché superata.
Finora il movimento in direzione di riforme economiche di decentramento è stato
prudente e abbastanza limitato (tranne che in Ungheria e in Iugoslavia), e più
limitato ancora nella realizzazione che nella progettazione, non fosse che a causa
delle esitazioni e della resistenza degli interessi burocratici legati al vecchio sistema.
Tuttavia, in futuro, le cose sembrano destinate a muoversi in questa direzione.
L'esperienza ormai dimostra le difficoltà e gli effetti negativi di una
centralizzazione eccessiva del potere decisionale. Resta da verificare
sperimentalmente in quali dosi la combinazione di pianificazione e mercato possa
produrre, in circostanze normali, il massimo risultato: ossia, quali tipi di decisioni
debbano rimanere centralizzate ed essere incluse in un piano obbligatorio, e quali
sia più opportuno, invece, lasciar prendere ai livelli inferiori di gestione, sulla base
di indici di mercato (prezzi reali o contabili), come proposto da Dickinson e Lange
nel dibattito economico anteguerra. Nel secondo caso, la pianificazione si
limiterebbe a influenzare (per es. con la tassazione, le agevolazioni creditizie, le
variazioni dei prezzi) e a orientare su scala generale. Sembra abbastanza chiaro che
le decisioni sui nuovi investimenti più rilevanti debbano essere incluse nel primo
gruppo (decisioni centralizzate), in quanto decisive per la direzione dello sviluppo a
lungo termine dell'economia, per i mutamenti strutturali, per il livello di
occupazione e per la crescita; in favore di questa scelta sembrano sussistere
fondamenti teorici piuttosto solidi.
7. Il problema dei prezzi
Una volta, tuttavia, che siano stati reintrodotti nel quadro gli influssi del mercato
sulle decisioni economiche da prendere, diviene ovviamente rilevante - come
abbiamo visto - il problema di quali siano i prezzi ‛corretti' o ‛economici'.
Dobbiamo così tornare al dibattito dei teorici dell'economia, in particolare alle
discussioni più recenti sulla politica dei prezzi e la cosiddetta ‛ottimizzazione'.
Persino nella pianificazione centralizzata alcuni calcoli implicano l'uso dei prezzi,
anche se non necessariamente prezzi reali nel senso dei rapporti di scambio fra i
prodotti: può trattarsi semplicemente di prezzi contabili nel senso dei ‛rapporti di
equivalenza' di Lange (per es. rapporti come il ‛periodo di ricostituzione' o
‛l'efficacia dell'investimento').
In rapporto con le soluzioni di programmazione lineare, è oggi abbastanza
familiare il concetto di ‛prezzo-ombra', come ‛duale' di una soluzione data. Il
dibattito su questi problemi ha attirato l'attenzione della scienza economica in
Unione Sovietica e altrove sin dalla metà degli anni cinquanta. In quel periodo
iniziò una discussione piuttosto astratta e dottrinaria sul cosiddetto ‛funzionamento
della legge del valore'. Molto presto essa si trasformò in una disputa tra sostenitori
del ‛principio del valore' e sostenitori dei ‛prezzi di produzione', con un riferimento
concreto alla riforma della politica dei prezzi. Nel corso del dibattito assunse un
ruolo via via più importante la difesa da parte degli economisti matematici del
cosiddetto ocenka di L. V. Kantorovič. La riforma dei prezzi del 1968 rappresentò
per molti versi un compromesso tra i due punti di vista contrapposti, un
compromesso peraltro transitorio; essa, tuttavia, portava chiaramente l'impronta
del dibattito precedente e, almeno in linea di principio, pagava il suo tributo a
concetti quali l'uguaglianza dei tassi di profitto e l'imposizione del pagamento di
una rendita per l'utilizzazione delle risorse naturali o di situazioni particolarmente
vantaggiose.
In Occidente il dibattito economico su questi problemi (in larga misura
prosecuzione del dibattito sul calcolo socialista degli anni trenta) si concentrò
essenzialmente su due ordini di questioni: l'analisi dei casi di divergenza del costo
marginale dal costo medio (quando, cioè, vi sono sostanziali indivisibilità) e l'analisi
delle ‛punte massime' e delle ‛punte minime', di quei casi cioè in cui - come
nell'elettricità e nei trasporti - l'utilizzazione degli impianti al di sopra e al di sotto
della capacità produttiva si alterna nei diversi periodi della giornata o della
settimana o nelle diverse stagioni. Inizialmente, i sostenitori della determinazione
dei prezzi sulla base del costo marginale utilizzarono tale determinazione come
strumento critico per attaccare la teoria corrente, nel senso che le industrie
nazionalizzate avrebbero dovuto risultare ‛redditizie', in grado, cioè, di coprire il
costo medio totale incluso un margine prefissato di profitto. Di qui l'insistenza sui
casi in cui i costi medi sono decrescenti con l'espandersi della produzione o del
servizio offerto e, di conseguenza, il costo marginale è inferiore al costo medio.
Si tratta essenzialmente di casi nei quali esiste capacità in eccesso entro un'unità
produttiva indivisibile: l'argomentazione di senso comune consisteva nell'asserire
che vi era un vantaggio sociale a utilizzare la capacità produttiva in eccesso fino a
quando fosse coperto il costo primo o diretto connesso a tale utilizzazione
addizionale, mentre sarebbe stato uno spreco di risorse sociali bloccare
l'utilizzazione addizionale della capacità disponibile tentando di imporre un prezzo
pari al costo totale (medio), come avrebbe fatto naturalmente un'impresa privata
capitalistica. Un altro aspetto della stessa argomentazione consisteva nell'assunto
che nel caso in discussione il criterio di investimento più opportuno fosse quello del
‛beneficio sociale complessivo' e non quello di coprire il costo totale a un prezzo
uniforme, qual è illustrato dal caso classico del ponte di Dupuit.
I casi di costi marginali inferiori ai costi medi esistono e sono senza dubbio
importanti - qualcuno potrebbe sostenere che tra i casi di divergenza essi sono
predominanti - tuttavia non sono i soli. Vi sono casi di costi crescenti in cui il costo
marginale è superiore e non inferiore a quello medio; in pratica, poi, questi ultimi
tendono a implicare maggiori difficoltà. Quando non si tratti semplicemente di
costi sociali esterni all'unità di decisione in esame, come nel caso della congestione
del traffico, si tratta di casi esemplari di utilizzazione alterna degli impianti fissi al
di sopra o al di sotto delle capacità, come si verifica nella produzione di energia
elettrica, nella rete telefonica, o nel sistema dei trasporti ferroviari. In queste
situazioni l'imposizione di pagamenti differenti nei periodi di utilizzazione massima
e minima, connessi alla differenza del costo marginale dell'offerta del servizio a
seconda dell'utilizzazione delle capacità in quel periodo, si fondava essenzialmente
sull'esigenza di evitare sprechi negli investimenti espandendo le capacità per far
fronte alla domanda massima, che avrebbe comportato un eccesso di capacità
inutilizzate in altri periodi.
Quando affrontiamo la questione di una teoria generale della determinazione dei
prezzi in un'economia socialista, ci troviamo di fronte un apparente conflitto di
obiettivi. Esso può essere indicato come ‛conflitto tra breve periodo e lungo
periodo, oppure, in altri termini, tra i cosiddetti ‛prezzi di mercato' e i cosiddetti
‛prezzi normali'. In un qualsiasi momento considerato esisterà un sistema dato di
scarsità, che contiene elementi che potremmo definire ‛accidentali', dovuti a
variazioni impreviste della domanda o a variazioni delle scorte o a ritardi del
meccanismo con cui l'offerta si adegua alla domanda. In quel dato momento
l'equilibrio completo implicherebbe l'imposizione di un certo sistema di prezzi di
breve periodo, adeguato a quel sistema dato di scarsità, prezzi che per la loro stessa
natura non potrebbero che essere temporanei e potrebbero rivelarsi inadatti in
penodi successivi, una volta trascorso il tempo per adeguare l'offerta alla domanda.
Questa comunque sarebbe la situazione qualora le scorte non fossero tali da
reggere l'urto degli squilibri di breve periodo, cosa che potrebbe verificarsi più di
quanto talvolta non si ammettà, almeno in periodi molto brevi e per variazioni
della domanda non troppo accentuate. Il movimento dei prezzi nel primo caso, il
movimento delle scorte nel secondo, possono servire ai produttori come ‛indicatori'
del necessario adeguamento dell'offerta. Come abbiamo visto, tuttavia,
un'eccessiva fiducia in questi riaggiustamenti di breve periodo, o un eccessivo
spazio lasciato a essi, possono offrire un campo d'azione a fluttuazioni cumulative,
del tipo del teorema cobweb, che hanno indesiderabili effetti di disorganizzazione.
Ma quando si prendono in considerazione le decisioni che possiamo chiamare ‛di
lungo periodo', come gli investimenti in impianti durevoli (per es. un nuovo
stabilimento, una ferrovia, un bacino portuale o una centrale elettrica), diviene
rilevante un altro tipo di prezzi. Potremmo chiamarli ‛prezzi normali di lungo
periodo', nel senso che rappresentano una situazione di equilibrio relativa a un
numero di anni abbastanza elevato, affinché si realizzi compiutamente
l'adeguamento dell'offerta al livello probabile della domanda negli anni a venire. Si
tratta di un certo tipo di prezzo di costo che, in base a un teorema ora ben noto agli
economisti, se vi è sviluppo include un tasso di profitto approssimativamente
uguale al tasso di sviluppo.
Se tutti i prezzi fossero ‛prezzi contabili' del tipo definito da Lange, o anche ‛prezzi
di calcolo', prezzi ombra, usati dall'organo centrale di pianificazione per effettuare
le valutazioni che costituiscono la base delle decisioni, il conflitto sarebbe allora più
apparente che reale. In ogni calcolo potrebbe essere usata la categoria di prezzi (di
breve o di lungo periodo) più appropriata alla particolare decisione cui il calcolo si
riferisce, e ciò non impedirebbe di usare un tipo di categoria diverso e antitetico per
decisioni di genere differente. Ma se i prezzi sono prezzi reali, esprimono cioè
rapporti di scambio reali, in base ai quali enti finanziariamente autonomi (secondo
il principio del chozrasčët) alienano beni e redigono contratti, il conflitto è un
conflitto reale, poiché in realtà i prezzi in questione debbono essere o di un tipo o
dell'altro e sembra difficile che possano esistere simultaneamente due diversi
insiemi di prezzi, benché sia probabilmente possibile che vengano usati prezzi
‛immediati' e prezzi ‛futuri' per scambi operati a date diverse. La categoria dei
prezzi di breve periodo è evidentemente appropriata per il mercato al dettaglio, se
si intendono evitare il razionamento, la penuria di prodotti e le code nei negozi, nel
caso in cui esistano quantitativi limitati di certe merci. Tale categoria è forse
appropriata anche per i prezzi all'ingrosso dei beni di consumo, benché questi
possano essere stabiliti in base ad altre regole e la differenza tra essi e i prezzi al
dettaglio possa essere colmata con una qualche forma di tassa sulle vendite,
secondo una prassi usuale nell'Unione Sovietica.
Come conviene operare per i prezzi dei cosiddetti ‛mezzi di produzione', cioè per
quei beni che entrano nel processo di produzione e, in particolare, per i materiali
da costruzione e le macchine utensili? Poiché si tratta di elementi che sono oggetto
di decisioni di investimento, e di decisioni che implicano la scelta tra tecniche
diverse o tra diverse combinazioni dei fattori di produzione, per essi sembra più
appropriato usare l'altra categoria di prezzi. Alcuni di questi beni possono certo
presentare problemi di temporanea scarsità e rendere necessario che di ciò si
prenda atto imponendo temporaneamente un sovrapprezzo al prezzo ‛normale', sia
come strumento per imporne un uso in economia, sia come strumento per limitarne
l'uso ai bisogni più urgenti, finché duri la scarsità. Ma in questo caso le divergenze
dal costo normale' potrebbero probabilmente essere trattate come misure
eccezionali, anziché come regola generale, come accade invece sul mercato al
dettaglio.
8. Conclusione
In sintesi, si può affermare che i risultati più rilevanti ottenuti dalla pianificazione
sono connessi alla crescita economica e alle modificazioni strutturali su vasta scala
del sistema economico, che implicano la modifica dei rapporti tra i settori e tra le
branche dell'economia come anche, eventualmente, la modifica a ciò funzionale
della dislocazione delle imprese e della struttura della rete dei trasporti. A maggior
ragione a essa sono connessi obiettivi e rapporti sociali (fattori ambientali, livelli di
occupazione, creazione di bisogni e di abitudini, modi di vita e standards sociali)
che non possono essere commisurati unicamente in termini di mercato e di bilancio.
Nonostante i successi che nel passato, in condizioni di laissez faire, l'impresa
capitalistica ha ottenuto nell'industrializzazione, è molto probabile che, in
mancanza di una pianificazione, alcune forme di sviluppo non possano aver luogo
affatto, a causa delle interdipendenze strutturali esistenti: così lo sviluppo in un
certo settore può non essere vantaggioso se non è sicuro che le necessarie forme di
sviluppo complementari avranno luogo in un certo numero di altri settori. Inoltre,
di fronte a certi tipi di ostacoli, il ritmo dello sviluppo, una volta avviato, è difficile
da mantenere e di conseguenza la crescita si esaurisce. Per questi motivi negli
ultimi decenni la pianificazione è divenuta, in una forma o nell'altra, parte
integrante del patrimonio di convinzioni di un numero sempre più ampio di paesi
sottosviluppati.
Quando la maggioranza delle economie è in espansione, seppure in grado diverso,
in pratica non è possibile scindere i problemi dello sviluppo da quelli
dell'adeguamento equilibrato a un dato livello della domanda di consumo (si tratta,
insomma, di tutti quei problemi che gli economisti hanno chiamato problemi di
‛ottimizzazione'). Ma, nella misura in cui questi ultimi hanno la precedenza sui
primi, diviene utile, come si è visto, un grado notevole di decentramento, almeno al
livello delle decisioni di dettaglio; di conseguenza, diviene utile inserire il
meccanismo e l'influenza del mercato nella più ampia cornice delle decisioni
macroeconomiche pianificate o dirette dal centro. In queste condizioni e in
rapporto a questo tipo di obiettivo, l'eccesso di centralizzazione, riducendo la
flessibilità delle decisioni e congestionando l'apparato incaricato di determinarle,
può effettivamente ostacolare l'adeguamento e impedire ‛l'ottimizzazione', sia per
quanto riguarda l'adeguamento della produzione alle richieste dei consumatori, sia
per quanto riguarda la scelta più efficace dei metodi di produzione e di allocazione
delle risorse.
Di conseguenza il centro originario del dibattito teorico sulla pianificazione si è
notevolmente spostato ed è divenuto meno semplice. Nessuno o quasi degli
economisti che discutono oggi di questi problemi sarebbe disposto ad accettare il
puro e semplice ‟non possumus" di von Mises, se non altro perché nessuno o quasi
di loro, sia nel mondo socialista che nel mondo capitalista, accetterebbe di porre in
antitesi, come escludentisi a vicenda, pianificazione e mercato. Il dibattito si è
spostato piuttosto sul problema di quale sia la combinazione più funzionale e
meglio realizzabile di questi due termini, problema che può ricevere anch'esso una
varietà di risposte diverse in condizioni storiche caratterizzate da un proprio livello
di sviluppo. Non si può negare che il problema ricordato più sopra dei ‛milioni di
equazioni' da risolvere, per prendere le decisioni e coordinarle consapevolmente,
anche se non è stato risolto completamente, è stato però seriamente ridimensionato
dall'invenzione dei calcolatori elettronici. Ma qui l'ultima parola va lasciata, forse,
a Lange.
In quello che è stato probabilmente il suo ultimo intervento in materia, egli parla in
questi termini del rapporto tra pianificazione e calcolatori (modificando almeno in
parte le conclusioni delle sue precedenti proposte di decentramento): ‟I dirigenti di
economie socialista hanno oggi due strumenti di contabilità economica. Il primo è il
calcolatore elettronico [...], il secondo è il mercato [...]. L'esperienza mostra che per
un grandissimo numero di problemi è sufficiente un'approssimazione lineare; di
qui l'ampio uso delle tecniche di programmazione lineare [...]. Il calcolatore ha il
vantaggio indubbio di una velocità molto maggiore. Il mercato è un
servomeccanismo ingombrante e lento. Il suo processo di iterazione ha luogo con
considerevoli ritardi temporali e oscillazioni e può non convergere affatto". Dopo
aver affermato, d'altra parte, che ‟persino il calcolatore elettronico più potente ha
una capacità limitata", Lange conclude che per la pianificazione dello sviluppo
economico di lungo periodo il meccanismo di mercato è nettamente inferiore: ‟qui
non bastano più i prezzi di equilibrio di mercato, è necessaria la conoscenza dei
prezzi-ombra programmati per il futuro". ‟La programmazione matematica egli
dichiara inoltre si rivela uno strumento essenziale per la pianificazione ‛ottimale' di
lungo periodo [...]. La programmazione matematica accompagnata dall'uso dei
calcolatori elettronici è diventata lo strumento fondamentale della pianificazione
economica di lungo periodo, come del resto per la risoluzione di problemi di
dinamica economica di estensione più limitata. In questo caso, il calcolatore
elettronico non sostituisce il mercato: assolve una funzione che il mercato non è mai
stato in grado di assolvere (O. Lange, The computer and the market, in Sociahsm,
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Pianificazione
Pianificazione
Appendice di
Ota Sik
1. Breve excursus storico
L'evoluzione della pianificazione può essere descritta solo in rapporto
all'andamento dell'intero sistema economico socialista: subisce infatti il
condizionamento di tutti i processi economici e, dal canto suo, li influenza in modo
determinante. Le condizioni necessarie per realizzare una pianificazione come
quella che Stalin sviluppò in Unione Sovietica sono molto diverse da quelle esistenti
nei paesi più piccoli, che sono caratterizzati da un mercato necessariamente
ristretto e da una forte dipendenza dal commercio con l'estero.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, il sistema economico socialista fu
introdotto in parecchi paesi retti da governi comunisti. In fondo tutti questi paesi,
soggetti all'influenza politica dell'URSS, ricalcarono, ai loro inizi, il modello del
sistema economico sovietico e, così facendo, ne ripresero in primo luogo, in maniera
acritica, il ‛dirigismo' nella pianificazione, con tutti i suoi errori e le sue
insufficienze.
Tuttavia, in tutti i paesi socialisti vi sono state fasi iniziali durante le quali i difetti e
gli inconvenienti del sistema sovietico di pianificazione non apparivano in modo
così accentuato ed evidente come si rivelarono invece durante le fasi successive.
Questa fase iniziale si può definire anche come la fase dello sviluppo ‛estensivo', per
differenziarla da quella successiva, in cui si rese invece necessario uno sviluppo
economico ‛intensivo' (v. Šik, 19683; tr. it., pp. 73 ss.).
Nell'ambito dell'economia socialista si definisce fase dello sviluppo estensivo quella
fase in cui la crescita della produzione industriale si raggiunge prevalentemente con
un rapido aumento dei fattori produttivi. Attraverso prelievi sui guadagni, e anche
su gran parte degli accantonamenti di capitale attuati in tutte le imprese, e la
concentrazione di queste risorse nelle mani dello Stato, si ottengono mezzi che
possono essere utilizzati a vantaggio dello sviluppo pianificato degli investimenti
nell'industria, particolarmente nell'industria pesante. In questo modo i mezzi di
produzione (le capacità produttive) dell'industria, soprattutto dell'industria
pesante, aumentano in modo straordinariamente rapido a spese, principalmente,
dell'agricoltura e dei servizi. Anche la manodopera viene redistribuita, attraverso
misure pianificate e dirigiste, a vantaggio della produzione industriale. La
manodopera necessaria per l'industria viene prelevata anzitutto dall'agricoltura e
tra le donne non occupate.
Per un certo periodo questo accrescimento pianificato ed estensivo dei fattori
produttivi nell'industria rende possibile un incremento estremamente rapido della
produzione industriale. In questa fase di crescita estensiva la propaganda ufficiale
esalta solo i vantaggi del sistema sovietico di pianificazione, di cui vengono ignorati
intenzionalmente i difetti, che sono invece presenti fin dagli inizi. I vantaggi
consistono appunto nel fatto che, attraverso una redistribuzione pianificata delle
risorse da parte dello Stato, si può raggiungere un certo livello di sviluppo più
rapidamente di quanto si riesca a fare in un'economia senza pianificazione
centrale.
Una crescita estensiva di questo tipo è possibile tuttavia soltanto fino a quando
nell'industria possono aumentare rapidamente la manodopera e i mezzi
d'investimento. Da un certo momento in poi non è più possibile continuare a
sottrarre manodopera all'agricoltura (se non la si vuole completamente
distruggere) e anche le riserve di manodopera d'altro tipo tendono a esaurirsi.
Inoltre i mezzi d'investimento non possono più essere utilizzati solo a vantaggio
dell'industria e quindi anche la sua crescita estensiva deve essere limitata. Da quel
momento, per poter sostenere una crescita ulteriore della produzione nel suo
complesso, diventano sempre più importanti i fattori di crescita intensiva.
Fattori di crescita intensiva sono anzitutto il progresso tecnico, che è alla base di un
rapido incremento della produzione, nonché tutti quei metodi che conducono a uno
sfruttamento più efficace dei fattori produttivi esistenti e alla riduzione delle
perdite economiche non giustificate. Dal momento in cui diventa sempre più
difficile la crescita estensiva e i fattori di crescita intensiva assumono importanza
decisiva e questo avviene in momenti diversi nei singoli paesi - cominciano a
manifestarsi con grande evidenza i difetti del dirigismo della pianificazione
sovietica: anzitutto il fatto che con questo sistema di pianificazione non si riesce ad
assicurare una crescita intensiva e il progresso tecnico e l'efficienza economica
rimangono assai indietro rispetto ai ritmi di sviluppo dei paesi industriali a
economia di mercato.
La breve esposizione critica che segue dei difetti del sistema sovietico di
pianificazione, così come la descrizione della maggior parte dei tentativi di riforma
che son stati fatti, servirà a dimostrare analiticamente come la pianificazione
dirigista non sia in grado di sostituire con successo il meccanismo del mercato.
2. Difetti del dirigismo del sistema sovietico di pianificazione
L'elencazione dei difetti del sistema deve aprirsi con la descrizione delle carenze
nelle informazioni che affluiscono presso l'ufficio centrale della pianificazione, che
occupa una posizione decisiva nella pianificazione sovietica. Questo ufficio è
costretto a lavorare sulla base di informazioni insufficienti e di conoscenze
difettose, in quanto può ricevere i dati relativi alle prospettive di sviluppo solo dagli
organi delle imprese e dei settori industriali; quindi in una forma molto sintetica,
senza possibilità di verifiche puntuali e, salvo poche eccezioni, riuscendo a
elaborare solo obiettivi di elevata aggregazione. Più oltre si vedrà perché, sull'altro
versante, le imprese e i settori non hanno alcun interesse a fornire agli organi
centrali informazioni realistiche sulle loro possibilità di produzione ottimale.
A causa delle informazioni incerte o deformate provenienti dalle imprese, l'ufficio
centrale della pianificazione è costretto quindi a lavorare all'elaborazione del piano
con forti condizionamenti.
1. Non può individuare quali potenziali cambiamenti qualitativi nella tecnica e nelle
tecnologie produttive delle singole imprese e dei settori industriali sarebbero
vantaggiosi e porterebbero a un miglioramento dell'efficienza produttiva (rapporto
tra volume della produzione e costi degli investimenti, dei materiali e del lavoro).
2. Non può calcolare e confrontare la redditività di diverse alternative
d'investimento, in quanto i piani relativi sono definiti senza calcolarne la
redditività, solo in base alla copertura dei fabbisogni. In mancanza di un calcolo
della redditività degli investimenti, può accadere che per ottenere un dato
incremento dei guadagni si investa molto più del necessario, a scapito di un
incremento dei consumi.
3. Essendovi migliaia di beni, non può programmare per ciascun bene il livello di
produzione necessario per soddisfare i fabbisogni reali. Eccezion fatta per un
numero limitato di beni più importanti, nei piani si stabilisce solo l'incremento
relativo a vasti aggregati di beni, il che non garantisce l'effettiva copertura dei
fabbisogni.
4. Non può stabilire il livello ottimale dei fattori di produzione (mezzi di produzione
e lavoro) necessario per produrre singoli beni o gruppi di beni, e quindi nemmeno i
costi di produzione ottimali. L'impiego di materiali, energia e lavoro utilizzati per
raggiungere un dato volume di consumi risulta perciò inutilmente elevato.
Riassumendo si può dire che un organo centrale della pianificazione non è in grado
di assicurare lo sviluppo ottimale della produzione dei singoli beni, attraverso cui
soddisfare i bisogni dei consumatori (individui, imprese, enti), garantendo nello
stesso tempo l'utilizzazione più efficiente dei fattori di produzione e il loro sviluppo
qualitativo (v. Šik, 1973, pp. 130 ss.). Da parte loro le imprese, nelle quali i livelli di
produzione devono essere stabiliti in termini concreti, non sono interessate a uno
sviluppo della produzione efficace, innovativo e orientato secondo i bisogni, e
nemmeno possono esservi costrette, appunto perché l'ufficio della pianificazione
non dispone di dati concreti.
Per questo si tenta di stimolare le imprese a uno sviluppo ottimale della produzione,
non solo con incitamenti politici e morali, ma anche con incentivi materiali. Non
conoscendo però le possibilità di sviluppo ottimale della produzione nelle singole
imprese, l'organo centrale della pianificazione può ricompensarle solo per il
raggiungimento degli obiettivi produttivi inseriti nel piano in base alle informazioni
ricevute dalle imprese stesse. L'ufficio della pianificazione, che non si fida delle
informazioni trasmesse, aumenta e intensifica questi obiettivi, senza però poterli
commisurare alle possibilità reali. Le imprese non sono interessate a uno sviluppo
ottimale, come si è detto, perché sono state eliminate le motivazioni connesse al
meccanismo di mercato, motivazioni che gli incentivi programmati non possono
sostituire (ibid., pp, 69 ss.).
La soppressione dei meccanismi di mercato è stata effettuata per motivi ideologici
ed è caratterizzata da tre aspetti salienti.
1. Al posto dei prezzi di mercato sono stati introdotti i prezzi amministrati, cioè
stabiliti dallo Stato. Questi prezzi, fissati da un'autorità centrale di controllo, non
possono riflettere il rapporto continuamente mutevole tra offerta e domanda, non
sono il risultato di un confronto tra l'interesse dei produttori e quello dei
consumatori, e non inducono i primi né a una ricerca del profitto nè a una
copertura elastica della domanda.
2. La crescita dei redditi è stata separata dai risultati di mercato. I redditi delle
imprese (salari e profitti) non dipendono dai risultati di mercato, ma
dall'adempimento formale dei piani. Le imprese possono quindi raggiungere gli
obiettivi globali del piano anche nel caso in cui la produzione non corrisponda alla
domanda. Essendovi una forte eccedenza di potere d'acquisto non soddisfatto, esse
possono senza difficoltà smerciare tutti i prodotti, anche quelli che non appaiono
necessari e non sono qualitativamente soddisfacenti.
3. Non c'è alcuna concorrenza tra le imprese di uno stesso settore e la produzione si
svolge quindi in condizioni di assoluto monopolio, in quanto le imprese sono sempre
subordinate a un organo settoriale che divide tra loro i compiti produttivi. In tali
condizioni le imprese non sono costrette né ad aumentare la loro efficienza né a
progredire sul piano qualitativo e tecnologico. Esse tentano, al contrario, di
massimizzare le entrate con un minimo di cambiamenti e di sforzi innovativi,
ricorrendo anche alla mera produzione di scorte.
Il risultato complessivo di questo sistema di pianificazione è uno sviluppo della
produzione che non è in grado di soddisfare la domanda e di eliminare le carenze
dell'offerta. Questa realtà emerge chiaramente dalle file davanti ai negozi, dalle
grandi perdite di consumi, dallo sviluppo del mercato nero, dalla corruzione e dai
furti di massa nelle imprese. La scarsa efficienza economica ha per conseguenza
che il consumo pro capite, sia privato che pubblico, nei paesi socialisti è
continuamente inferiore rispetto a quello dei paesi che prima della rivoluzione
socialista erano alloro stesso livello (v. Šik, Vergleiche..., 1985). Nonostante le scarse
possibilità d'informazione, la coscienza di questi risultati negativi penetra tra la
popolazione dei singoli paesi, provocando scontento e creando le premesse dei
diversi tentativi di riforma.
3. La riforma del sistema iugoslavo
La Iugoslavia è stata il primo paese socialista in cui si è realizzata una
fondamentale riforma del sistema economico, un sistema inizialmente ricalcato su
quello sovietico, dal quale aveva ripreso, quindi, anche il modello di pianificazione
che ne era parte integrante. Questa riforma non fu il risultato di una lunga
preparazione teorica, ma dell'improvvisa rottura, nel 1948, tra il PC dell'URSS,
seguito dalla maggior parte degli altri partiti comunisti, e il Partito Comunista
Iugoslavo. Dopo la sospensione di tutte le forniture economiche (merci, crediti,
tecnici, ecc.) alla Iugoslavia da parte dei paesi socialisti, la dirigenza politica
iugoslava si vide costretta ad attuare, tra l'altro, una riforma del sistema economico
capace di realizzare la mobilitazione di tutte le forze interne e lo spiegamento di
una vasta iniziativa da parte delle imprese e dei lavoratori (v. Drulović, 1973, pp. 36
ss.).
Sulla base di una critica sistematica del socialismo staliniano, di carattere
prevalentemente politico, si fece strada, a poco a poco, la concezione originale di un
sistema socialista basato sull'autogestione e sui rapporti di mercato, un sistema in
forte contrasto con il criticato sistema ‛statalista'. Gli iugoslavi trovarono nei lavori
di Marx sulla Comune di Parigi delle conferme per le loro tesi su associazioni di
lavoratori decentrate e autogestite. Queste ultime furono concepite in
contrapposizione alle imprese amministrate dall'alto dalla burocrazia statale e
all'assetto economico molto centralizzato e gerarchico che già Lenin aveva attuato
(e che si fondava prevalentemente sulle idee di Engels in materia di statalizzazione).
Questo sistema basato sul lavoro associato, spesso designato brevemente come
economia di mercato socialista, esercitò ai suoi inizi una forte attrazione su tutte le
forze riformiste dei paesi socialisti, nonostante i duri attacchi delle forze staliniane
di quegli stessi paesi.
Nel sistema iugoslavo fu abolita la pianificazione centralizzata e dirigista perché si
giunse alla conclusione che essa non permetteva uno sviluppo produttivo efficace e
capace di soddisfare la domanda, e paralizzava altresì l'iniziativa dei collettivi di
lavoro. Si tentò quindi di ristabilire il meccanismo del mercato, introducendo i
prezzi di mercato e riconducendo lo sviluppo dei redditi all'andamento del mercato
stesso, ma si conservò la proprietà socialista dei mezzi di produzione (non però
nella sua forma statalista). In tutte le imprese (eccezion fatta per le piccole imprese
private con meno di cinque dipendenti; v. Dobias, 1969, p. 76) i mezzi di produzione
sono, secondo la Costituzione, proprietà di tutta la collettività e vengono dati in uso
ai collettivi delle imprese autogestite (v. Horvat e altri, 1975, pp. 258 ss.). Le
imprese non hanno solo il dovere di realizzare la più efficace utilizzazione dei mezzi
produttivi, ma hanno anche un proprio interesse a farlo, perché possono
appropriarsi e disporre dei profitti ricavati producendo per il mercato.
Al posto della pianificazione dirigista è stata introdotta una sorta di pianificazione
‛indicativa', con l'aiuto della quale si sperava di poter meglio coordinare lo
sviluppo della produzione e la crescita dei fabbisogni, prevenendo così la
formazione di rilevanti squilibri e di perturbazioni economiche. I piani economici
sono elaborati contemporaneamente dalle imprese, oppure dagli organismi
autogestiti, e dagli organi dello Stato (comuni, repubbliche, federazione), cioè dai
cosiddetti ‛portatori primari' delle finalità del piano, con l'aiuto dei ‛portatori
secondari' (camere di commercio o di altri settori produttivi, organizzazioni
politiche e sindacali, ecc.; v. Kleinewefers, 1985, pp. 236 ss.). Questi piani assolvono
una funzione sia di previsione che di coordinamento, attraverso i contratti e gli
accordi stipulati tra i partecipanti al piano; allo stesso tempo costituiscono la base
vincolante della politica economica dei governi sia della federazione che delle
singole repubbliche.
I governi non possono imporre alle imprese né vincoli di produzione o di
investimento, né forme prestabilite di ripartizione o di utilizzazione dei redditi.
Come le altre organizzazioni politiche, essi possono certo raccomandare il
perseguimento di determinati indirizzi, ma le organizzazioni autogestite sono le
uniche responsabili delle decisioni in materia di produzione e distribuzione delle
risorse. Questo vuol dire che, in ultima analisi, le organizzazioni autogestite
stabiliscono anche quale parte delle loro entrate nette (detratte le tasse e gli altri
contributi) debba essere impiegata per scopi collettivi (investimenti, fondi di
riserva, consumi sociali) e quale invece debba essere destinata ai salari.
L'introduzione del sistema di mercato nell'economia iugoslava ha determinato nelle
imprese una maggiore iniziativa e un accentuato interesse per il mercato stesso, che
si sono manifestati in una diversificazione della produzione assai maggiore di quella
che si è registrata nei paesi in cui si applica la pianificazione dirigista. Allo stesso
tempo, però, i difetti di fondo del nuovo modello di pianificazione e della politica
economica, e soprattutto le incoerenze nella realizzazione del meccanismo di
mercato, hanno creato al paese gravi problemi economici.
Un grave limite della pianificazione e della politica economica iugoslava deriva
anzitutto dal fatto che la ripartizione tra i redditi destinati al consumo e quelli
destinati agli investimenti, così come lo sviluppo creditizio, non sono determinati in
misura sufficiente dalla pianificazione centrale e dalla politica economica dello
Stato (v. Šik, Vergleiche..., 1985, pp. 51 ss.). L'eccessiva decentralizzazione di questi
processi ha avuto come conseguenza un abnorme aumento dell'inflazione (v. Dietz e
altri, 1984, pp. 262 ss.). Una spinta al consumo eccezionalmente forte, e che non può
essere frenata da nessun interesse opposto, induce le imprese ad aumenti esagerati
di redditi e di prezzi.
La mancanza di una distinzione tra salari dei lavoratori e loro partecipazione agli
utili è frutto di un condizionamento ideologico e deve essere considerata come un
errore di fondo del sistema iugoslavo. Senza salari chiaramente definiti non può
essere realizzato, nell'ambito dell'intera economia nazionale, l'importante principio
‛uguale salario per uguale lavoro', il che non può che essere considerato dai
lavoratori come ingiusto. L'interesse, altrettanto necessario, per lo sviluppo
dell'efficienza produttiva dell'impresa nel suo complesso dovrebbe essere garantito
attraverso forme di partecipazione agli utili nettamente distinte dal salario.
Attraverso una crescita pianificata dei salari e dei coefficienti di partecipazione agli
utili si sarebbe potuto affrontare più efficacemente l'aumento dell'inflazione.
L'inflazione è aumentata ancora più rapidamente a causa della concorrenza
insufficiente e dello sviluppo di tendenze monopolistiche. Attraverso un'espansione
del credito non sufficientemente regolata dallo Stato (con accensione di crediti sia
nazionali che esteri) si è continuato a incrementare esageratamente la massa
creditizia e quella monetaria e si è pervenuti a un incremento dei redditi nominali
notevolmente più rapido rispetto alla crescita della produzione reale, creando così
le premesse per un'inflazione galoppante.
Per frenare l'inflazione si sono cominciati a praticare il congelamento e la
regolamentazione dei prezzi (v. Dobias, 1969, pp. 86 ss.), condizionando così
pesantemente il funzionamento dei meccanismi del mercato. In modo particolare,
su questo meccanismo incide una protezione non ufficiale dei mercati delle singole
repubbliche, dovuta al fatto che le imprese e gli altri enti acquistano merci
prevalentemente nell'ambito della produzione delle rispettive repubbliche. La
concorrenza così si riduce e si stimolano ulteriormente atteggiamenti monopolistici
e tendenze inflazionistiche.
Conseguenze ancor più durature sui meccanismi del mercato ha avuto la politica di
sovvenzioni largamente praticata dai governi delle repubbliche che, per paura della
crescente disoccupazione, hanno aiutato e aiutano tutte le imprese afflitte da
difficoltà economiche.
Le imprese iugoslave continuano a impiegare un gran numero di lavoratori
superflui, mentre sono del tutto insufficienti gli investimenti idonei a determinare
un progresso tecnologico che consenta un risparmio di forza lavoro. Allo stesso
tempo, le cause principali della disoccupazione iugoslava sono: scarsa quantità
d'investimenti destinati all'ampliamento della produzione, con i quali si potrebbero
creare nuovi posti di lavoro, e insufficiente progresso tecnico, che permetterebbe
invece alla produzione iugoslava di diventare più competitiva e di rendere di più,
determinando anche in questo modo un aumento del reddito pro capite dei capitali
da investire.
Le cause dell'insufficiente sviluppo degli investimenti, sia sul piano quantitativo che
qualitativo, vanno ricercate nei due difetti del sistema, apparentemente opposti e
già menzionati: a) troppo poca pianificazione e troppo poco controllo nella
ripartizione funzionale dei redditi (divisione tra salari, utili e forme di
redistribuzione, dai quali traggono origine i redditi finali di consumo e di
investimento); b) troppo poca pressione sulle imprese da parte del mercato e della
concorrenza.
In Iugoslavia, quindi, si consuma troppo in rapporto alle reali capacità produttive,
così che le risorse effettive non bastano per realizzare maggiori investimenti. Questi
vengono incrementati nominalmente, in modo artificiale, attingendo a un eccessivo
volume di crediti (che porta solo ad accelerare l'inflazione), mentre in realtà sono
inadeguati per creare quei nuovi posti di lavoro che sarebbero effettivamente
necessari (v. Dietz e altri, 1984, p. 263). Per un altro verso gli organi burocratici
dello Stato portano avanti grandi progetti d'investimento, dispendiosi ma poco
efficienti, spesso eccessivi e non abbastanza ponderati, che non fruttano profitti
adeguati e che, di conseguenza, alimentano anch'essi l'inflazione (v. Dobias, 1969, p.
100). L'attività imprenditoriale privata, che avrebbe certamente portato a uno
sviluppo più efficace degli investimenti e della produzione, è invece frenata o resa
impraticabile per motivi ideologici.
Pertanto le difficoltà si presentano sotto due aspetti. Da un lato si ha uno sviluppo
troppo limitato o inefficace degli investimenti, che è da attribuire al fatto che la
ripartizione autonoma dei redditi nell'ambito delle imprese permette
partecipazioni individuali agli utili relativamente troppo elevate (anche perchè è
possibile procurarsi i mezzi per gli investimenti in modo troppo facile, ricorrendo
all'espansione inflazionistica dei crediti). Dove manca l'interesse capitalistico al
profitto come contropartita agli interessi unilaterali per i salari e dove, di
conseguenza, lo sviluppo degli investimenti diventa troppo lento rispetto allo
sviluppo dei consumi, là dovrebbe intervenire una regolazione pianificata della
crescita dei salari (politica dei redditi) per assicurare per via indiretta i capitali
necessari per lo sviluppo degli investimenti. Nello stesso tempo per questa via si
potrebbe, per mezzo della politica dei redditi, della politica creditizia e della
politica monetaria, limitare l'eccedenza della domanda, cioè del cosiddetto
‛mercato dei venditori', e aumentare la spinta all'efficienza delle imprese.
Dall'altro lato un'introduzione non coerente del meccanismo del mercato
determina uno scarso interesse delle imprese per l'efficienza produttiva. Per questo
si sarebbe dovuto favorire una maggiore pressione della concorrenza sulle imprese,
capace di determinare sviluppi tecnici più efficaci. Questo però richiede
l'abbandono della politica di sovvenzioni generalizzate, per cui tutte le imprese
deboli e arretrate vengono continuamente risanate. In questa prospettiva dovrebbe
essere abbandonata anche la protezione dei mercati delle singole repubbliche e si
dovrebbero introdurre misure più decise contro le forme di monopolio della
produzione e della vendita. Allo stesso tempo, al posto di molte decisioni statali
d'investimento, poco sicure in termini d'efficienza, dovrebbe essere incentivata
l'attività imprenditoriale privata (come accade per es. in Ungheria). Infine - di pari
passo con l'incoraggiamento della concorrenza e anche con la contrazione del
mercato dei venditori - si dovrebbe nuovamente incrementare la libera formazione
dei prezzi di mercato.
In conclusione, si può dire che la sottovalutazione della pianificazione funzionale
della distribuzione, un'eccessiva decentralizzazione delle decisioni economiche,
come anche alcune fondamentali incoerenze e mezze misure nell'introduzione del
meccanismo di mercato hanno vanificato i potenziali vantaggi del sistema
iugoslavo. Malgrado questi difetti di fondo, la riforma iugoslava ha indicato per la
prima volta nuove possibilità di sviluppo del sistema economico socialista. Gli
errori hanno certo impedito al sistema iugoslavo di diventare un esempio di
modello socialista alternativo, ma la reintroduzione del meccanismo di mercato,
l'autogestione e l'eliminazione della pianificazione dirigista hanno rappresentato
punti di riferimento illuminanti per i tentativi di riforma di molti altri paesi
socialisti.
4. Le idee di riforma in Cecoslovacchia
Lo sviluppo delle idee di riforma in Cecoslovacchia è caratterizzato anzitutto da
una fase di preparazione teorica molto lunga, anche se la teoria non ha avuto poi
modo di verificarsi nella prassi. La preparazione teorica di un nuovo modello
economico socialista prese l'avvio, in sostanza, già nel 1958 e fu portata avanti, dal
1963 fino al 1968, attraverso il lavoro di un'apposita commissione di riforma.
Anche dopo l'invasione militare della Cecoslovacchia e la conseguente repressione
politica delle prime iniziative di riforma, con il ripristino del vecchio sistema di
pianificazione dirigista, la teoria riformatrice fu ulteriormente sviluppata dagli
economisti cechi emigrati all'estero.
Le idee di riforma cecoslovacche si muovono in parallelo con la riforma iugoslava,
nel senso che anch'esse mirano a stabilire un collegamento tra pianificazione e
mercato, conservando forme di proprietà prevalentemente socialiste. I riformatori
cecoslovacchi hanno tentato però fin dagli inizi di imparare dalle carenze dello
sviluppo iugoslavo e di evitare il prodursi di distorsioni connesse al sistema.
Bisogna anche aggiungere che l'odierna critica dei difetti del sistema iugoslavo va
molto più in profondità di quanto non si potesse andare nel 1968 e che, nel caso di
un'attuazione pratica della riforma in Cecoslovacchia nel 1968, con ogni
probabilità non si sarebbe riusciti a evitare una parte degli errori della riforma
iugoslava. È stato comunque importante lo sforzo reale messo in atto per istituire
un sistema aperto e introdurre una democrazia politica pluralista, condizioni che
avrebbero facilitato la critica e il superamento degli errori individuati nell'ambito
del sistema economico.
Le idee più importanti dei riformatori cecoslovacchi erano e sono tuttora quelle
sotto elencate (v. anche Šik, Vergleiche..., 1985).
1. Eliminata la pianificazione dirigista, si deve passare a una pianificazione
orientativa, designata anche come ‟pianificazione macroeconomica della
distribuzione", che porti a scegliere democraticamente tra alcune opzioni
alternative.
2. L'introduzione dei prezzi di mercato non può avvenire dall'oggi al domani, ma
deve procedere gradualmente attraverso il ricorso a vari meccanismi di formazione
dei prezzi (prezzi imposti dal centro, prezzi controllati, prezzi liberi).
3. Si deve introdurre una forma di concorrenza legata al mercato, adottando
coerenti misure antimonopolistiche e approfondendo la trasparenza del mercato
stesso.
4. Il commercio estero deve essere gradualmente liberalizzato, con l'obiettivo
d'introdurre una valuta convertibile e il libero commercio delle divise.
5. La distribuzione dei redditi e lo sviluppo dei crediti e della massa monetaria
devono essere regolati dal centro per evitare inflazione e crisi economiche.
6. Vanno sviluppati organi di autogestione all'interno delle imprese, scelti
attraverso un confronto pluralistico e gestiti democraticamente attraverso gruppi
di lavoro autonomi.
7. I fondi di partecipazione agli utili per i lavoratori devono essere disciplinati da
norme di carattere generale e nelle imprese devono essere istituiti dei centri di
gestione degli utili facilmente controllabili.
8. L'attività imprenditoriale privata va stimolata senza restrizioni per quanto
riguarda il numero dei lavoratori impiegati, ma con un prelievo degli utili dalle
imprese regolato indirettamente e attuato dagli imprenditori stessi.
La novità più importante nella strategia delle riforme è certamente costituita dalla
pianificazione della macrodistribuzione, con una distribuzione regolata dei redditi e
dello sviluppo creditizio, il cui scopo è anzitutto quello di impedire squilibri
macroeconomici e oscillazioni cicliche congiunturali che provocano crisi
economiche e disoccupazione di massa (v. Šik, Zur Problematik ..., 1985). Allo
stesso tempo, però, si dovrebbe anche dare alla popolazione la possibilità di
scegliere democraticamente, tra due o tre piani alternativi, un piano di sviluppo
socioeconomico a medio termine. Per far ciò si dovrebbero elaborare diverse ipotesi
evolutive dello sviluppo, con combinazioni differenti di obiettivi socioeconomici,
quali, per esempio, un accrescimento dei consumi privati, un incremento nel
soddisfacimento del fabbisogno pubblico, una certa crescita degli investimenti e
della produzione, una riduzione dell'orario di lavoro e una nuova organizzazione
del tempo libero, preservazione e miglioramento dell'ambiente, ecc. In quanto
promossi e appoggiati da partiti politici diversi, questi progetti dovrebbero essere
sottoposti al vaglio popolare in occasione delle elezioni politiche.
La pianificazione della macrodistribuzione avrebbe per le imprese solo un carattere
indicativo e potrebbe essere realizzata mediante una politica economica chiara e
coordinata: una politica fiscale, dei redditi, creditizia, monetaria e del commercio
estero. Il meccanismo del mercato non verrebbe limitato da una politica economica
di questo tipo; l'autonomia delle imprese nelle decisioni di investimento e di
produzione sarebbe pienamente preservata e un rigoroso sostegno della
concorrenza, attraverso opportuni interventi antimonopolistici, renderebbe tale
meccanismo ancora più funzionale. Soltanto lo sviluppo dei salari medi, delle
partecipazioni dei lavoratori agli utili e delle remunerazioni degli imprenditori
(prelievi dagli utili), come pure la ripartizione dei crediti tra investimenti e
consumi, sarebbero soggetti a una regolazione pianificata (politica dei redditi e
politica creditizia), sempre in conformità del piano di macrodistribuzione
democraticamente scelto.
Questo modello di un'economia di mercato democratica, umana e socialista può
essere considerato come il risultato teorico dello sviluppo della riforma
cecoslovacca: una possibile evoluzione in questa direzione è stata designata anche
come ‟terza via". Nel corso di questi ultimi anni sono state portate avanti delle
riforme che s'avvicinano agli obiettivi di questo modello o che ne sono in parte
influenzate: si tratta in particolare delle iniziative riformatrici avviate in Ungheria
e in Cina.
5. Lo sviluppo della riforma in Ungheria
La riforma ungherese tende a realizzare un modello economico simile a quello che
perseguivano i riformatori cecoslovacchi fino alla repressione della ‛primavera di
Praga'. La differenza più importante sta però nel fatto che in Ungheria, non da
ultimo a causa delle esperienze fatte in Cecoslovacchia, non si punta ad attuare
cambiamenti essenziali del sistema politico nè a introdurre forme di autogestione.
Nel quadro del tradizionale sistema comunista a partito unico vengono realizzati
mutamenti abbastanza sostanziali del sistema economico che però, appunto a causa
degli ostacoli politici, in molti campi portano a compromessi incoerenti con il
precedente sistema a pianificazione dirigista. Proprio alla luce dell'andamento
politico si deve valutare la differenza tra gli obiettivi di riforma perseguiti o
ufficialmente decisi e la prassi reale, sottoposta costantemente anche all'influsso
delle forze burocratiche (v. Friedländer, 1984, pp. 74 ss.).
La pianificazione dirigista della produzione è stata ufficialmente abolita e le
imprese devono programmare autonomamente i propri livelli di produzione e di
investimento secondo le esigenze del mercato. Lo sviluppo autonomo degli
investimenti sulla base dei redditi delle imprese è tuttavia ancora frenato dai
prelievi relativamente troppo elevati effettuati dallo Stato; le decisioni statali
d'investimento non riguardano solo i servizi sociali, ma anche la produzione per il
mercato. Questo è considerato dai riformatori economici come un fenomeno di
transizione dovuto al fatto che il sistema dei prezzi riflette in modo ancora
insufficiente la realtà del mercato. In questo modo, però, si limita fortemente la
responsabilità delle imprese rispetto a uno sviluppo autonomo della produzione
orientato secondo le effettive richieste del mercato.
Una notevole indipendenza hanno raggiunto invece le cooperative agricole, che in
molti campi sono completamente libere dai vincoli del piano e soprattutto non sono
più soggette a rispettare determinati livelli di produzione e di vendita in natura. La
produzione agricola e il livello di vita della popolazione delle campagne sono
cresciuti in maniera notevole.
Si cerca di attuare un passaggio graduale ai prezzi di mercato utilizzando
meccanismi differenziali di formazione dei prezzi (prezzi fissati dallo Stato, prezzi
controllati, prezzi liberi): il criterio decisivo per la determinazione dei prezzi da
parte dello Stato, che interessa la maggior parte dei casi, è dato dal rapporto con i
prezzi praticati sul mercati occidentali. Nel nuovo sistema ‛competitivo' i prezzi
sono assai più elastici di quanto non fossero con il vecchio sistema, ma la loro
determinazione da parte dello Stato non riesce a riprodurre sufficientemente il
reale rapporto tra l'evoluzione della domanda e dell'offerta sul mercato interno;
inoltre, a causa della vecchia organizzazione statale monopolistica, solo in parte
soppressa, anche la concorrenza sul mercato interno risulta troppo debole (v.
Czege, 1984, p. 15; v. Friedländer, 1984, pp. 40 ss.). Le carenze nel campo degli
investimenti, della formazione dei prezzi e della concorrenza hanno come
conseguenza che i cambiamenti strutturali legati all'evoluzione della domanda,
l'attività innovatrice e lo sforzo di efficienza produttiva non si sono ancora
sviluppati in modo soddisfacente.
I problemi che esistono negli approvvigionamenti, le perdite di efficienza e
soprattutto le difficoltà di esportazione e l'indebitamento estero determinano
continue ricadute nei vecchi metodi burocratici di conduzione e di tutela statale e
amministrativa delle imprese; tali metodi sono anche espressione degli interessi di
potere della burocrazia, che non sono del tutto superati né all'interno dell'apparato
statale né all'interno dell'apparato del partito. Nonostante queste difficoltà, le forze
riformatrici cercano comunque nuove vie per stimolare la concorrenza, nell'intento
soprattutto di aumentare la pressione del mercato per una maggiore efficienza
produttiva delle imprese.
Nel campo della politica creditizia e dell'allocazione delle risorse sono state già
realizzate, o sono in via di preparazione, importanti novità. Per accrescere la
mobilità dei capitali, il sistema bancario è stato modernizzato con la costituzione di
banche commerciali indipendenti interessate all'efficienza; sono state costituite
società di leasing e anche determinate forme di società per azioni, come ad esempio
società per azioni a responsabilità limitata, attraverso le quali si convogliano i
risparmi verso lo sviluppo della produzione; il sistema del cambio è stato reso più
flessibile. Queste e altre misure contribuiscono al migliore funzionamento del
meccanismo di mercato.
Il sostegno all'attività imprenditoriale privata e alle imprese cooperative o a
economia mista contribuisce a sviluppare la concorrenza, mentre la cooperazione
delle imprese nazionali con quelle straniere si estende con successo; nella misura in
cui crescerà la pressione del mercato dovrebbero diminuire parallelamente gli
interventi statali. Particolarmente importante sarebbe la diminuzione delle
sovvenzioni statali alle imprese in difficoltà, un fenomeno che in Ungheria riveste
ancora dimensioni rilevanti. La convinzione fin qui radicata nelle imprese, che in
caso di non redditività non saranno abbandonate dallo Stato, ha minato fortemente
il loro sforzo di efficienza. Attualmente è però in corso di preparazione una legge
che dovrebbe disciplinare i fallimenti e facilitare la chiusura delle imprese non
redditizie.
Attraverso programmi a lungo termine e piani a medio termine la pianificazione
ungherese tende a determinare alcune grandezze macroeconomiche (incremento
del reddito nazionale, del consumo privato e pubblico, degli investimenti, del
commercio con l'estero, ecc.) da raggiungere con l'aiuto degli strumenti della
politica economica (senza contare le residue misure amministrative). A differenza
di quanto avviene in Iugoslavia, in Ungheria si cerca di raggiungere determinati
livelli nei consumi e negli investimenti utilizzando regole pianificate dal centro per
la ripartizione dei redditi nelle imprese: attraverso un determinato meccanismo di
calcolo, la crescita dei salari è legata al rendimento produttivo delle imprese;
detratte le imposte, i contributi e le maggiorazioni salariali, i profitti netti possono
essere utilizzati dalle imprese stesse per riserve e per investimenti (v. Friedländer,
1984, pp. 24 ss.).
Questo controllo indiretto dello sviluppo degli investimenti attraverso la
regolazione della crescita salariale (e con questo, indirettamente, anche dei consumi
privati) è uno dei presupposti fondamentali per una conduzione pianificata
dell'economia e per la prevenzione delle crisi economiche. In Ungheria rimane
problematica tuttavia la mancata distinzione tra salari e partecipazioni agli utili,
giacché le quote di utili conteggiate sono direttamente aggiunte ai salari (secondo la
formula salariale) e il livello dei salari nelle varie imprese deve, di anno in anno,
andare sempre più alla deriva; non si distingue inoltre tra le necessarie differenze
salariali tra le diverse professioni o attività e i risultati ottenuti dalle imprese sul
mercato. In questo modo viene negato il giusto principio ‛lo stesso salario per lo
stesso lavoro', il che può implicare per il futuro grandi difficoltà economiche. Una
partecipazione dei lavoratori agli utili chiaramente distinta dal salario base e
calcolata anno per anno in rapporto ai guadagni realizzati garantirebbe meglio il
necessario interesse dei lavoratori alla maggiore efficienza delle imprese, senza
ledere il principio della retribuzione secondo il lavoro.
Tra gli obiettivi dei riformatori ungheresi c'è anche quello di una
democratizzazione delle imprese con una partecipazione dei lavoratori alla scelta
dei dirigenti e una codeterminazione degli indirizzi aziendali a lungo e medio
termine. Infatti, quando i lavoratori sono chiamati a sperimentare direttamente e
concretamente, attraverso la partecipazione agli utili, le conseguenze delle scelte
fondamentali o delle capacità di gestione dei managers, devono avere anche la
possibilità di dire la loro sulla scelta o sull'allontanamento di questi ultimi e sulle
decisioni fondamentali in merito allo sviluppo dell'impresa. I riformatori ungheresi
sono consapevoli di questa realtà e i primi passi in questa direzione sono già stati
fatti con la creazione di consigli d'azienda elettivi e con i diritti di cogestione o, nel
caso di imprese fino a 500 lavoratori, di direzioni d'azienda elettive. Tuttavia
l'opposizione della vecchia burocrazia ministeriale contro questa evoluzione è
particolarmente forte.
Nonostante i persistenti vincoli burocratici, le incoerenze politiche e i molteplici
residui dell'antica pianificazione dirigista, il modello di pianificazione socialista
ungherese si deve considerare come quello che ha ottenuto il miglior successo. Le
difficoltà che deve superare l'economia ungherese nel presente sono notevolmente
minori di quelle iugoslave: esse sono causate non tanto dai difetti del sistema scelto,
quanto dalle incoerenze già indicate, dalla concorrenza ancora troppo limitata e
dalle attuali difficili condizioni sui mercati esteri. I riformatori ungheresi
dell'economia, nella teoria e nella prassi, procedono con decisione sulla via
intrapresa (v. Direttive..., 1985) e c'è da aspettarsi che saranno in grado se non
interverranno contraccolpi politici - di superare molte delle difficoltà sopra
menzionate.
6. Altri sviluppi del sistema socialista di pianificazione
Occorre distinguere tra due forme di sviluppo qualitativamente diverse del sistema
socialista di pianificazione. Una prima forma in cui si cerca di eliminare l'errore
fondamentale della pianificazione dirigista sovietica, cioè la sua incapacità di
sostituirsi effettivamente al meccanismo del mercato, attraverso riforme miranti a
reintrodurlo. Una seconda forma in cui si tenta, per motivi ideologici e di potere, di
conservare la pianificazione dirigista senza il meccanismo del mercato,
migliorandola però con piccole correzioni soprattutto di metodo o di carattere
organizzativo.
Al primo gruppo appartengono le riforme già descritte, attuate in Iugoslavia e in
Ungheria. A queste riforme s'avvicina anche, per quanto concerne alcuni dei suoi
obiettivi, lo sviluppo della riforma cinese, che conserva peraltro a questo riguardo
parecchi punti poco chiari. Questa riforma non sarà qui esaminata
approfonditamente, sebbene rivesta un'immensa importanza politica non solo per
la Cina, ma anche per il mondo intero, socialista e non. Essa, tuttavia, ha finora
prodotto alcune forme di collegamento tra piano e mercato tali da suscitare il
timore che gli eccessivi controlli esercitati sulle imprese per altre vie rendano
impossibile un'effettiva affermazione della loro autonomia, guidata soltanto dal
mercato.
In Cina si dovrà eliminare gradualmente dalle imprese il carattere dirigista del
piano espresso in termini di economia naturale, mentre andrà stimolata la
produzione delle merci ai prezzi di mercato (v. Risoluzione del Comitato centrale...,
1984); nello stesso tempo dovrà essere perfezionato il sistema di distribuzione e di
controllo dei settori monetario e creditizio, in quanto l'economia finanziaria delle
imprese risulta ancora oggi fortemente limitata. Oltre quanto viene prelevato
attraverso le imposte, occorre raccogliere dalle imprese anche le quote di
accantonamento e il denaro liquido per convogliarli in un nuovo sistema di banche
- regionali, locali e d'impresa - e distribuirli sotto forma di crediti in base ai piani
centrali e periferici. I piani elaborati non avranno più un carattere vincolante
espresso in termini di economia naturale, ma saranno formulati secondo grandezze
di valore. In questo modo i criteri d'efficienza, i tempi di recupero dei crediti,
l'onere per gli interessi, ecc. potranno influire sull'assegnazione dei crediti stessi (v.
Pillath, 1985, pp. 27 ss.).
Analogamente a quanto avviene in Iugoslavia, i piani devono essere rafforzati
attraverso un sistema di accordi tra produttori e organi economici in merito alla
gestione dell'economia, al commercio, alle banche e all'assetto finanziario; in
questo sistema di accordi, tuttavia, gli interessi dei differenti poteri politici regionali, locali e istituzionali - possono risultare più forti dei criteri di efficienza
indicati dal mercato (ibid., pp. 40 ss.). Quando le banche non sono interessate, oltre
che alla distribuzione degli utili ai propri collaboratori, anche all'assegnazione dei
crediti secondo criteri di efficienza e non operano esse stesse in un regime di
concorrenza, c'è il pericolo che la distribuzione dei crediti, e di conseguenza lo
sviluppo della produzione, possano di nuovo per vie traverse e attraverso decisioni
burocratiche prendere una direzione non conforme alle esigenze del mercato.
A prescindere da questi incerti meccanismi di pianificazione finanziaria, lo sviluppo
dei rapporti di mercato in Cina si scontra ancora con forti ostacoli obiettivi (v.
Scharping, 1984). In mancanza di una sufficiente ‛tradizione di mercato' le grandi
imprese industriali, che si sono formate durante il periodo del socialismo reale,
avranno bisogno di molto tempo prima di essere in grado di sviluppare una
produzione effettivamente elastica secondo gli orientamenti del mercato. Anche il
dispiegamento di una reale concorrenza richiederà tempi assai lunghi dato che le
possibilità di trasporto e di comunicazione sono molto limitate e che il peso del
commercio estero sul mercato interno è, per il momento, assai ridotto. Per tutte
queste ragioni ancora per lungo tempo una quota relativamente importante della
produzione dovrà essere assicurata facendo ricorso a rigide scelte di piano e a
prezzi fissati dallo Stato.
Molto positiva e capace di stimolare il mercato è l'attività imprenditoriale privata
che si sviluppa nell'ambito della produzione minore, dei servizi e del commercio,
attività che in Cina sono fortemente sostenute. Questa situazione non contribuisce
solo a un migliore approvvigionamento del mercato, ma anche a creare nuovi posti
di lavoro. Particolare successo ha avuto poi la soppressione delle comuni agricole e
la distribuzione dei terreni tra le singole famiglie contadine perché fossero utilizzati
e coltivati secondo le loro autonome decisioni. I contadini devono fornire a prezzo
fisso determinate quote di prodotto alle organizzazioni statali di commercio, ma
possono utilizzare la produzione eccedente non solo per il consumo personale, bensì
anche per venderla a prezzo libero sul mercato agricolo oppure alle organizzazioni
commerciali. Ampio spazio è quindi concesso all'iniziativa imprenditoriale dei
contadini e allo sviluppo di attività secondarie, il che porta a un rapido aumento dei
redditi delle famiglie contadine.
Vale anche per la Cina - e in misura maggiore di quanto non avvenga per i paesi
dell'Europa orientale - la constatazione che l'ulteriore sviluppo della riforma non
dipenderà solo dai livelli di conoscenza, dal contesto tecnico-economico e dai
quadri, ma anzitutto dalla futura evoluzione politica. L'opposizione delle vecchie
forze burocratiche non è interamente vinta ed è assai probabile che esse riescano a
sfruttare politicamente le inevitabili difficoltà che comporta il passaggio alla
produzione per il mercato. Saranno quindi estremamente importanti gli interventi
per prevenire le spinte inflazionistiche e l'aumento della disoccupazione senza
ricadere però nelle vecchie pastoie burocratiche.
Questo è quanto si può dire a tutt'oggi a proposito delle riforme cinesi. Il loro
inserimento tra le riforme del primo gruppo, quelle orientate verso il mercato,
rimane ancora piuttosto incerto; perché il loro senso si chiarisca, bisognerà vedere
se, in futuro, le imprese potranno prendere decisioni prevalentemente e
autonomamente ispirate dalle leggi del mercato e se il mercato, sotto la pressione
della concorrenza, diventerà un vero ‛mercato dei compratori'.
7. Tentativi di migliorare il sistema di pianificazione del socialismo reale
Non è possibile al momento dire molto a proposito del secondo gruppo di riforme,
con le quali si tenta di migliorare la pianificazione dirigista pur conservandone la
sostanza, in quanto i miglioramenti sono ancora molto modesti e non possono
eliminare il difetto fondamentale di questo tipo di pianificazione mentre, al
contrario, aumentano spesso ulteriormente le contraddizioni del sistema. Questi
tentativi di riforma, pur con notevoli differenze, sono applicati in tutti gli altri paesi
socialisti non ancora esaminati (URSS, RDT, Polonia, Romania, Bulgaria, ecc.).
La causa principale di tutti questi sforzi per tenere in piedi una scelta di
pianificazione che escluda il meccanismo di mercato non è di natura scientifica,
poiché in quasi tutti i paesi socialisti è nota e riconosciuta l'insostituibilità di tale
meccanismo. Le posizioni di questo tipo, tuttavia, sono continuamente represse in
quanto per la burocrazia di partito è in gioco un diretto interesse di potere a
conservare il vecchio sistema di pianificazione nella sua sostanza organizzativa e
istituzionale. Le carenze del sistema economico, tuttavia, sono talmente gravi che il
dominio politico di questa burocrazia risulta sempre più insicuro e si è quindi
costretti a realizzare continuamente piccoli cambiamenti nelle metodologie di
pianificazione, nei modi d'incentivazione, nell'organizzazione delle imprese, ecc.
In Cecoslovacchia, per esempio, nel 1980 sono stati approvati una serie d'interventi
per il miglioramento della pianificazione economica; tuttavia, poiché questi
interventi non portarono all'eliminazione dei tradizionali difetti nella pianificazione
e nell'attuazione del piano, il partito e il governo, nel 1984, hanno predisposto un
altro documento sull'ulteriore sviluppo di quel complesso di interventi (v.
Direttive..., 1984). Anche questa riforma però e destinata a non portare alcun
cambiamento sostanziale, in quanto anch'essa poggia soltanto su un'enorme
quantità di piccole modifiche degli indici del piano e degli incentivi, che non
sciolgono i nodi fondamentali del sistema di pianificazione socialista, cioè la
carenza di informazioni in cui si trova a operare il centro di pianificazione e
l'orientamento non economico che continua a guidare gli interessi delle imprese.
Un primo esempio dell'inefficacia di queste modifiche si ebbe fin dal 1980 quando,
con l'introduzione appunto degli interventi per il miglioramento della
pianificazione economica, si assunse, al posto del ‛prodotto lordo', come indice
principale della crescita della produzione e della produttività, il ‛prodotto netto',
indicato come ‛rendimento proprio'. Dato che il prodotto lordo comprende anche il
costo dei materiali e gli accantonamenti, le imprese, in passato, per realizzare gli
obiettivi sempre più elevati del piano in ordine all'incremento del prodotto lordo
(oppure della produttività del lavoro, calcolata sempre in riferimento a esso)
preferivano prodotti ad alto costo di materiali, con sprechi sia di materiali che di
investimenti. Con il nuovo indice, in cui dal prodotto lordo si detraggono i costi dei
materiali e gli accantonamenti, non si favorisce più direttamente lo spreco di
materiali, ma non si crea tuttavia nelle imprese alcun interesse diretto per una
struttura produttiva adeguata ai bisogni. Le imprese produrranno quindi
principalmente quei prodotti nei cui prezzi sono compresi margini di utile più
elevati, dal momento che salari e profitti sono parti costitutive del prodotto netto
(del nuovo valore creato). Poiché però i prezzi non sono prezzi di mercato e i
margini di utile sono differenziati arbitrariamente e non riflettono l'evoluzione
della domanda, i produttori continueranno a preferire prodotti che includono nel
prezzo margini di utile più elevati e con i quali, quindi, potranno più facilmente
corrispondere alle finalità del piano, indipendentemente dal fatto che tali prodotti
siano o no utilizzati. Dato che esiste un ‛mercato dei venditori', essi non
incontreranno comunque alcuna difficoltà per la vendita dei loro prodotti.
Tutto il problema, oggi come in passato, consiste appunto nel fatto che l'interesse
dei consumatori a fronte dell'interesse dei produttori può affermarsi solo nel caso
di veri prezzi di mercato. Già nel caso di forti monopoli e oligopoli, nell'economia
di mercato occidentale, la capacità di affermazione degli interessi dei produttori nei
confronti degli interessi dei consumatori aumenta fortemente. Quando poi esistono
le condizioni di assoluto monopolio proprie del socialismo reale, non esistono prezzi
di mercato e crescono gli obiettivi del piano, le imprese e le associazioni di imprese
monopolistiche continueranno a produrre secondo il loro interesse unilaterale,
senza che nei loro confronti si riescano a far valere gli interessi della società. In
questo appunto consiste il vero dilemma, che nessuna riforma fino a oggi ha potuto
risolvere dato che si è sempre continuato a reprimere il meccanismo del mercato.
Una molteplicità di piccole revisioni dei metodi di pianificazione ha realizzato
effettivamente modesti e sporadici miglioramenti, ma questi non potevano impedire
i ritardi dell'economia socialista nei confronti dell'economia di mercato sul piano
dell'efficienza e del soddisfacimento della domanda. Solo quando attraverso
determinate misure parziali è nato un interesse per il mercato e si è fatta sentire la
sua pressione, le imprese hanno cominciato a comportarsi in maniera più razionale.
Così, ad esempio, nella RDT, la conversione dei redditi in divise per le esportazioni
verso l'Occidente e l'attribuzione di quote di divise alle imprese esportatrici, in caso
di aumento delle esportazioni (v. Thalheim e altri, 1984, pp. 72 ss.), stanno
determinando un certo interesse per il mercato e una produzione a esso rivolta un
po' più efficiente; un'altra conseguenza, però, è che si trascura la produzione per il
mercato interno in cui il meccanismo di mercato continua a non funzionare mentre
sussistono le vecchie carenze in tema di approvvigionamento e di qualità.
Anche quest'ultimo esempio conferma che quando le imprese sono effettivamente
condizionate dal mercato il loro interesse coincide con l'interesse della società.
Soltanto un meccanismo di mercato molto perfezionato può portare quindi la
produzione socialista ad aumentare la propria efficienza e ad adeguarsi ai bisogni;
allo stesso tempo, però, una pianificazione-cornice, o pianificazione della
distribuzione, con la relativa politica economica, dovrebbe contribuire a evitare le
cicliche crisi economiche, la disoccupazione di massa e gli sviluppi inflazionistici
che tormentano l'economia capitalistica di mercato. Solo in questo modo anche la
pianificazione socialista potrebbe ottenere una giustificazione economica e sociale, e
portare a una forma di collegamento moderno tra piano e mercato.
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