IL CERCHIO di Napoli - Fondazione Julius Evola
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IL CERCHIO di Napoli - Fondazione Julius Evola
ALLEANZA PER UNA CORRETTA INFORMAZIONE 4 Settembre-Dicembre ---2012--- “La bellezza, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza”. ALBERT CAMUS (1913-1960) (Aforisma di domenica 28 ottobre da Zenith) 2 Da questo numero la Rivista è interamente consultabile sul sito www.cerchionapoli.it Chi desidera leggere e collezionare l’edizione cartacea potrà sottoscrivere abbonamento con versamento sul c.c.p. postale 39930805 intestato a: «Associazione Culturale Il Cerchio» IBAN IT47 0076 0103 4000 0003 9930 805 € 50 Annuale ordinario - € 100 Sostenitori - € 250 Benemeriti NON FATE MANCARE IL VOSTRO SOSTEGNO Ed. Associazione Culturale “Il Cerchio” Registrazione Tribunale di Napoli n. 4699 del 17.11.1995 Direttore Responsabile Giulio Rolando Condirettori Pierfranco Bruni, Massimo Scalfati Redazione: Micol Bruni, Aurora Cacopardo, Mario Di Vito, Eugenio Donadoni, Rosemary Jadicicco, Alessandra Laricchia, Anna Maria Liberatore, Rosaria Morra, Mariangela Petruzzelli, Ciriaco M. Viggiano, Maurizio Vitiello, Paolino Vitolo Realizzazione Eventi Paola Franchomme Fotografie Uccio De Santis Direzione e Redazione Via Santa Lucia, 110 - 80132 Napoli Tel. e Fax 081.240.51.74 E-mail: [email protected] Sito Internet: www.cerchionapoli.it Stampa: Tipografia LE.G.MA. Srl C/so Amedeo di Savoia, 210 - Napoli Le opinioni contenute negli articoli impegnano esclusivamente la firma degli Autori. L’Editore ha ottemperato agli obblighi in merito a diritti, tiratura, eccetera. Ha preinformato eredi, enti, agenzie. Ma nel caso che qualcosa da conteggiare sia sfuggito o che con qualcuno avente diritto non è stato possibile comunicare in tempo, l’Editore è pronto a conferire il dovuto. Questo numero è stato chiuso nel dicembre 2012 4 S O M M A R I O / 2 PERISCOPIO LETTERARIO (pag. 51) MO-YAN IL NOBEL PARLA INGLESE Stefano Dentice di Accadia Ammone GENNY SANGIULIANO DESCRIVE COME A CAPRI SI CAMBIARONO I DESTINI DEL MONDO Rosemary Jadicicco LA POESIA DEL COSMO E DEL MISTERO IN GIOVANNI PASCOLI Aurora Cacopardo LA GRANDE E MODERNA VETRINA VIRTUALE DELL’ARTE SCRITTORIA Vincenzo Nuzzo (pag. 64) LIBRI E LIBRI Lo scaffale de Il Cerchio LA FELICITÀ DI ESSERE NICOLA PAGLIARA Patrizia Giordano CESARE IMBRIANI “VOCI SENZA TERRA E ALTRO” Aurora Cacopardo PAOLA PISANO, “IMAGES” Alberto Baldi “PASSIONE E MORTE” - GARETTA E BEN Carmen Di Stasio “IL GIARDINO DEI SILENZIOSI” - “CARAVAGGIO - HO SCRITTO IL MIO NOME NEL SANGUE” A.C. PER NON DIMENTICARE: LA BATTAGLIA DI CAPO MATAPAN - FESTA SUI MURI L’ULTIMO LIBRO DI VITTORIO PALIOTTI Annarita Siniscalchi S O M M A R I O / 3 5 IL CERCHIO di Napoli (pag. 76) UNA CITTÀ CHE VA PENSATA IN MODO ORGANICO Rosaria Morra a colloquio con Mario Forte A SANTA LUCIA UN APPUNTAMENTO IN ROSSO Ermanno Corsi CON UNA NUOVA FONDAZIONE RINASCONO I CAMPI FLEGREI Salvo Iavarone NAPOLI NEL MOSAICO LETTERARIO DI GIOVANNI BOCCACCIO Marilena Cavallo L’ULTIMO VIAGGIO LETTERARIO DI ANTONIO PARLATO Lidio Aramu PALAZZO REALE LA MAISON ROYALE DE BOURBON DES DEUX SICILES Eugenio Donadoni UNIONE MONARCHICA ITALIANA Alessandro Sacchi FUTURISMO E DINTORNI (pag. 93) IL SEGNO DI GINO BOCCASILE Leo Castoldi PATRONI E LA PLASTICITÀ EMOTIVA Luigi Tallarico FUTURISMO, DINAMISMO E COLORE Aurelio Tommaso Prete LE MEMORIE DI A.T. PRETE - LA TENDA ROSSA 6 S O M M A R I O / 4 IL TRIANGOLO DELL’ARTE (pag. 103) VERMEER ALLE SCUDERIE DEL QUIRINALE Annamaria Liberatore Sabini ASPETTANDO LE RESTITUZIONI 2013 A CAPODIMONTE IL POLITTICO CON LE STORIE DELLA PASSIONE, Paola Franchomme L’ARTE E LA POLITICA NELLE OPERE DI VALENZI GIANCARLO ALISIO RICORDATO DA Sergio Brancaccio LE AFFICHE DELLA COLLEZIONE MELE P.F. FREE MIND: INTESE FOTOGRAFICHE LIBERAMENTE FEMMINILI Le fotografie di Ilaria Sagria e Maria Raffaella Scalfati G.R. CONTROPIANI MEDITERRANEI Maurizio Vitiello CARTIER BRESSON “L’OCCHIO DEL NOVECENTO CHE AMÒ SCANNO” Gabriella Riselli PREMI E PREMI (pag. 113) L’ACCADEMIA DEI LINCEI AL 410° ANNO DI ATTIVITÀ Giovanni Anzidei PREMIO CAPRI SAN MICHELE Raffaele Vacca PREMIO PENISOLA SORRENTINA A.M.L.S. PREMIO MASANIELLO A.S. SPOLETO FESTIVAL ART FESTIVAL NATURALISTICO DI SCANNO I.G. CRONACHE SORRENTINE (pag. 121) a cura di Annarita Siniscalchi LETTERE AL DIRETTORE (pag. 125) UN IRRINUNCIABILE INVITO DI EMILIO CESARE RACCONTO DI UN VIAGGIO: I TRE GABBIANI Mario Di Vito INCONTRIAMOCI A MELFI Gabriele Ladislao Moccia IN IN APPENDICE (pag. 130) MEZZANOTTE ALL’ACQUARIUM Un nuovo racconto giallo di Aurora Cacopardo 7 EDITORIALE Giulio Rolando Il fascino delle idee na previsione azzeccata quella che, con gli amici più assidui di questa Rivista, facemmo nello scorso mese di luglio quando decidemmo già allora di parlare del ‘teatrino della politica’che da quest’autunno ci avrebbe coinvolti tutti, attori o ‘astanti’, come ci piace definirci ed essere. Oggi sarebbe molto più improbabile imbroccare con eguale esattezza una previsione per i prossimi tre mesi. Che poi vorrebbe dire argomentare del futuro possibile dell’Italia. E dunque, per non essere sopraffatti dal vortice sempre più incalzante di notizie, notiziole e pettegolezzi di ogni genere che investono a tutto campo un quadro già di per sé sufficientemente complesso, abbiamo deciso di dare alla stampa – a conclusione di un anno che resterà nella storia per la intrinseca complessità degli accadimenti – un fascicolo ancora una volta centrato su idee, personaggi e figure attorno alle quali – qualunque sia l’orientamento di partenza di ciascuno – potersi concentrare per riflessioni di sicura qualità. E poi eventualmente dibattere. Per onestà intellettuale va detto subito però che una speranza forte, di base allo svolgimento del lavoro, ci ha attraversato la mente. E la metto in chiaro. Ciò che auspichiamo è il ridimensionamento del comunismo di vecchia maniera che ancora imperversa e condiziona le scelte di fondo della politica italiana. Per affrontare con qualche probabilità di successo il futuro della Nazione e la sua adeguata proiezione nell’ambito internazionale, ove politici di quella origine non trovano nessun titolo di ascolto o di presenza, c’è assoluto bisogno di rinnovamento, senza abiure di memoria. U 8 EDITORIALE Se tale è l’ipotesi di fondo attorno alla quale dovrà decidere e fare quadrato il mondo dei lavoratori, l’industria e il commercio di sana e robusta costituzione, la società civile e di professionisti onesti e puntuali contribuenti, borghesia e ceto medio, allora resta solo da valutare, superando ogni pre-concetto, la persona o il gruppo di persone più idonee a conseguire questo primario obiettivo, premessa indispensabile di ogni altra susseguente valutazione. Non siamo certamente in grado – oggi e nessuno – né di saperlo né di immaginarlo, né tampoco di suggerirlo. Come dicevo, senza lasciarsi abbacinare da inutili fronzoli dialettici o da informazioni deviate e devianti, i nostri lettori – che spesso me ne domandano – sapranno liberamente, come si suole dire, dove mettere mano. Una sola altra cosa credo che vada ancora aggiunta a questo anti-sommario per poter cogliere appieno il senso di una proposta di letture intesa a superare ogni schematismo di parte. Il tempo delle categoriche linee mentali di demarcazione verticale cui ci avevano abituati – esempio non ultimo fascismo/antifascismo, e poi ancora destra/sinistra – è sicuramente superato. Ogni ragionevole confine andrebbe cercato invece apponendo ai nostri ragionamenti delimitazioni in senso orizzontale, cioè nel verso che aiuta a discernere i valori e le qualità in ragione del superiore livello delle idee e delle cose che si pensano, si dicono e soprattutto si fanno, piuttosto che non dello schieramento o dell’appartenenza, spesso presunta, o ancora di mediatiche forzature volte ad inutili discriminazioni. Sappiamo bene, e ancora ne sopportiamo il peso, di quanto – specie in campo culturale – le schematizzazioni verticali siano state pesanti e ingiuste e, ancora peggio, quanti guasti abbiano apportato alla Nazione intera. Cancellare in palese malafede un intero pezzo della sua storia recente, anche nelle più lucide acquisizioni, ha ridotto il Paese a non sapere più immaginare il futuro. Non si meraviglieranno allora i lettori se sfogliando questo fascicolo troveranno immediatamente già in copertina un quadro, alla maniera di Warhol, EDITORIALE 9 con ritratti di pensatori considerati a volte antitetici o tra essi stessi non compatibili. Non è più il tempo di simili barriere, con il rischio che il confronto dialettico si trasferisca sulle piazze in inconcepibili violenze o ostruzionismi al vivere civile. Quella pagina di copertina rappresenta l’invito a voler approfondire, anche se attraverso squarci di pensiero o di rapidi spunti di attualità, la complessità di un mondo in cui, volenti o nolenti, affondano le radici di noi tutti e le premesse del domani. Il sommario che ancora una volta presento con orgoglio e convinzione, dopo l’ampio e libero dibattito di idee, di cui si diceva, si sposta sul tema cruciale del mondo di oggi: l’economia. E nulla ci è parso più adeguato per centrare l’argomento in modo equilibrato che sentire voci di eminenti esperti che, avendo collaborato alla stesura dell’ultimo rapporto Svimez, hanno riproposto per noi il succo, per così dire, dei loro interventi in quella sede tanto qualificata. Il passo verso l’osservazione dello scenario internazionale è dunque breve. E qui è intervenuta la voce autorevole dell’emerito Ambasciatore d’Italia a Washington, commentatore di eccezione della rielezione di Obama. La vocazione di questa Rivista a rapportare i grandi temi internazionali e nazionali alla realtà locale del Mezzogiorno e della nostra Città non è certo venuta meno, raccogliendo non solo le impressioni ma anche le proposte di eminenti personaggi della cultura e della politica. Nelle pagine de ‘Il Cerchio di Napoli’ sono raccolte numerose testimonianze della effervescenza di una Città che non è morta ma vive una fase di ricerca di sé stessa, oggi ancora più confusa. Le rubriche d’arte e le pagine dedicate ai ‘Premi’ e alle Mostre comprendono una immediata riprova di una vitalità non repressa e sulla quale vale scommettere. Nel nostro piccolo, grazie alla collaborazione preziosa e disinteressata di tanti autorevoli amici, i cui nomi corredano la quarta di copertina, siamo riusciti ad organizzare che la lettura dell’intero fascicolo avvenga anche su ipad per via telematica, gratuitamente come si addice a chi è motivato solo dal fascino delle idee. 10 EDITORIALE PROSSIME RECENSIONI Il Palazzo e la missione Tutto vive di una esistenza unica e globale Autore: Laura Giammichele Anno di edizione: 2009 Pagine: 176 Prezzo: € 15.00 Editore: Gangemi Nella bottega di Carlo Antonio Grue. Un maestro del barocco castellano Autore Rosa Sergio Prezzo € 10,00 Dati 2009, 120 p. Editore Verdone (collana Conosci l’Abruzzo) La mia Edith Autore: Vincenzo Nuzzo Prezzo: € 14,50 Loffredo Editore - i Semi di Partenope CULTURALMENTE UNITI 11 IL FUNERALE DELLA POLITICA MA NON LA DISFATTA DELLE IDEE Machiavelli e Prezzolini: il coraggio della verità Pierfranco Bruni orse sia Machiavelli che Prezzolini, oggi, si imporrebbero una giornata di silenzio e di lutto. “L’Italia che aveva fatto il mondo moderno, s’era nel medesimo tempo disfatta”. Così cesella Giuseppe Prezzolini nel suo magnifico saggio dal titolo Vita di Nicolò Machiavelli Fiorentino. Una Nazione vissuta dentro il fare della politica si abbandona al suicidio della politica. Stiamo assistendo (e vivendo), in queste stagioni, al funerale della politica. Con le geremie e le nenie di una classe politica che non ha la capacità di suscitare un’analisi, un commento che vada oltre il semplice logoramento delle incertezze. Questi ultimi mesi di sbandamento, questo costante vivere il senso del quotidiano senza la consapevolezza di essere entrati in una “tragedia del vivere umano” stesso (direbbe Unamuno) hanno segnato non tanto la fine della politica, questa già aveva preso il suo corso da qualche anno, quanto questo vissuto e questo vivere nella provvisorietà hanno celebrato il funerale della politica con tutte le dovute condoglianze e le dovute partecipazioni. Non è polemica la mia. Tanto meno vuole innescare polemiche. La vita è fatta di provocazioni intelligenti Ma si tratta di una valutazione che nasce da una chiave di lettura che ha posto sempre al centro la politica come modello di partecipazione, di confronto, di dialettiche tra diverse scuole di pensiero. La politica come modello di libertà non giacobino o “francesizzato”, ma come processo dialettico sia intorno a delle idee sia intorno alla capacità di sviluppare, dalla politica stessa, dei valori. La teconocrazia non può prevale sulla politica. C’è una filosofia dei saperi che si è smarrita. Il suicidio della politica è anche il suicidio di un parlamentarismo che ora dovrà confrontarsi con posizioni meramente tecniche. Ma il tecnicismo deve necessariamente fare i conti con una progettualità politica che ha la sua vitalità nei partiti, nei gruppi politici, nelle commissioni, nel Parlamento. Ciò avvalora maggiormente il fatto che la politica si è suicidata facendosi governare da coloro che sono all’esterno della realtà della politica intesa come processo democratico ed elettorale. Credo che sia un fatto molto grave che i partiti, nella loro maggioranza, tranne alcuni, abbiano potuto condividere una tale scelta. Primo. Dimostrano la loro incapacità di progettare e, quindi, non sono in grado di far uscire l’Italia dalla crisi. Secondo. Si propongono all’elettorato come modelli di fallimento perché non sono stati in grado di proporre delle indicazioni. Terzo. Pur nelle loro contraddizioni si mostrano amalgamanti da destra a sinistra e la loro coesione consiste proprio nella loro sconfitta. Quarto. Diventa una offesa e una umiliazione per l’elettorato che ha votato, sia di sinistra sia di destra, facendosi rappresentare all’interno della Nazione. Quinto. Sia la destra che F 12 la sinistra devono motivare storicamente le loro posizioni nei confronti di un governo, pur nella nobiltà delle istituzioni e dei singoli ministri, che, nei termini prima detti, sembra aver commissariato la politica e anche il Paese. È pur vero che l’Italia si trova in una crisi economica storica, ma è anche vero che la politica, in questi particolari momenti, non può esiliarsi o assentarsi demandando. È come se ci fosse stato un colpo di stato con l’applauso del Parlamento e dei partiti. Chi crede nelle democrazie compiute o nella democrazia delle scelte, non può che infastidirsi davanti ad un quadro del genere. Perché, se abbiamo sostenuto più volte l’importanza della politica come centralità della vita sociale economica culturale, questa inquadratura non può essere condivisa. E non possono essere condivisibili i ragionamenti che provengono dalla sinistra con delle giustificazioni che storicamente sono oltre il concepire la politica come focalizzazione dei problemi sociali ed economici e tanto meno possono essere giustificati le posizioni di una destra che fino a qualche giorno fa governava con un suo governo. Siamo, sul piano di una ratio guicciardiniana vera e propria, nel regno delle doppiezze e delle ipocrisie. È vero che sembrano trascorsi secoli. Ma la politica resta, nella nostra modernità e contemporaneità, quella improntata da Togliatti e da Berlinguer, da De Gasperi e da Moro, da Almirante e da Tripodi, da La Malfa e da Spadolini. I decenni si consumano ma il pensiero non dovrebbe spezzarsi e andare in frantumi mortificando l’etica della democrazia. L’Italia è una Nazione nata sulla politica e dentro il pensiero moderno machiavelliano. Ciò che è avvenuto, in questi giorni, mi spaventa perché in nessun Paese che ha una partecipazione diretta alla “cosa pubblica”, pur in una Europa dei mercati e non dei valori, è mai accaduta una delegittimazione così grave della politica. Non è avvenuto ciò neppure nel 1922, in cui la politica aveva assunto, nelle sue sfaccettature, un riferimento ideologico di fondo. Oggi assistiamo alla supremazia della tecnocrazia. Si commissaria la politica e il Parlamento eletto si lascia commissariare. Ma il Parlamento è sovrano. Ci sono responsabilità? Certo. La morte della politica ha una fase precedente. Ma bisogna prendere atto che non si è sostituita quella politica che ha sancito il suicidio delle ideologie con una politica di altra natura. È stata spazzata la politica tout court. E questo è inaccettabile in una Nazione come la nostra che nasce sulla base di una Costituzione condivisa e votata e su una Repubblica non presidenziale. Lo dico guardando a sinistra, che avrebbe avuto, più di una motivazione per cavalcare la tigre non dell’antipolitica ma di una politica sociale ed economica più rispettosa nei confronti dei cittadini e degli elettori. Lo dico guardando a destra, ad una destra che esce completamente lacerata dall’accettazione di una tecnocrazia che ha esiliato il governo Berlusconi. Lo dico guardando al mondo radicale, che avrebbe più di una motivazione per non condividere un governo che non ha alcuna rappresentatività sul piano sia delle scelte liberali sia sul piano vero di una idea di partecipazione democratica in termini istituzionali – elettorali. In tutto questo c’è il “cortocircuito” del mondo cattolico che diventa inspiegabile per alcuni aspetti, ma comprensibile e non accettabile e non condivisibile per una storia antica di cattocomunismo dentro la macchina tecnocratica e burocratica che esplode nelle fasi più drammatiche. 13 Cosa si sarebbe dovuto fare in una disfatta della politica? Una politica che si è sfaldata per un vuoto di culture. Domandarselo dopo che è accaduto diventa anacronistico. Ma due potevano essere le soluzioni. La prima: un governo politico di ampie convergenze. Difficile da farsi ma le antiche “convergenze parallele” sono una emblematica politica della ragione. E Moro sapeva manovrarle non abiurando mai, comunque, la politica e lo ha fatto anche durante i 55 giorni della sua agonia nel 1978. La seconda: le immediate elezioni. Non si è arrivato a ciò. Per un senso di colpa degli schieramenti e per la debolezza sia delle leadership che dei nuclei partitici. Siamo dunque alla celebrazione di un funerale. Mi auguro, cristianamente, che dopo la morte ci sia la rinascita e la resurrezione. Ma questa rinascita vorrei vederla non metaforizzata e non tra gli angeli e i cieli ma in questa vita terrena. Subito. Anzi domani stesso vivendo e non lasciandosi vivere. “Vi furono lusso e oppressione,/vi furono licenze e miseria./Vi fu meschina ingiustizia./Però noi s’andò avanti a vivere,/vivendo e in parte vivendo” (Thomas Eliot, Assassinio nella cattedrale). Mi auguro che non si continuino a costruire “case sulla sabbia”. Un monito molto bello di Matteo. Ma ricominciamo a dare senso alla politica e un orizzonte agli uomini. Il saggio di Prezzolini su Machiavelli oggi risulta di sicura attualità. Ma occorre soprattutto saper leggere Machiavelli. Non ci sono fini che giustificano i mezzi e neppure mezzi che possono sostituire la dialettica delle idee. Non si può applicare il Machiavelli “scolastico” e oltre la storia delle idee ad un contesto in cui cadute le ideologie sono crollati i sistemi del pensare e del pensiero. Dobbiamo riabitare il pensiero come insegna Maria Zambrano. Abitandolo, riabituiamo le società a porre al centro l’umanesimo dell’uomo. Giovanni Gentile ci ha lasciato una testimonianza di grande valenza esistenziale. L’umanesimo della cultura porta la politica nella centralità del pensare stesso. Da qui, forse, dovremmo ripartire per ripensarci e ripensare una nuova struttura di Stato, di Nazione, di Società. Machiavelli e Prezzolini sono punti di riferimento in una lettura della politica che dovrebbe avere come presupposto il coraggio della verità. Addio a Rauti, l’altra faccia della politica: “le idee che mossero il mondo” non moriranno mai! 14 L’indispensabilità dei Tecnici nel Governo della nazione Massimo Scalfati a rivista “Il Cerchio”, nel numero precedente (n.82-83/2012), ha avuto il merito di ospitare un mio articolo intitolato “I contenuti tecnici delle decisioni pubbliche”, nel quale, in sostanza focalizzavo i seguenti concetti: a) lo scenario del mondo contemporaneo è caratterizzato dalla complessità della conoscenza, ad ogni livello ed in ogni settore, da quello propriamente personale a quello della gestione dei sistemi complessi come quelli delle istituzioni pubbliche, per cui alla base di ciascuna decisione pubblica deve necessariamente esserci una base di competente professionali nelle materie di gestionali, giuridiche, economiche; b) l’analisi razionale delle politiche pubbliche è uno strumento scientifico che non lascia spazio all’improvvisazione da parte di un ceto politico privo di competente tecniche; c) per quanto concerne la politica, ciò comporta inesorabilmente l’inefficienza dei sistemi autoorganizzati. Nello scenario contemporaneo della complessità, è necessario che i sistemi siano governati, attraverso programmi, strategie e, se occorre, anche piani pluriennali, magari flessibili ed adattivi. Non è più ipotizzabile un sistema come quello liberale, che si basi sull’equilibrio spontaneo del mercato e “sui pesi e contrappesi” del vecchio costituzionalismo. Pertanto in quell’articolo ponevo alcuni problemi, tra cui: 1) Ne consegue che l’imponente aumento della complessità sociale, dei flussi di informazione e, dunque, delle competenze, che sono indispensabili per la gestione della cosa pubblica, pone il cittadino comune, che non ha competenze specifiche (e, aggiungiamo, anche i politici), nell’impossibilità di seguire attivamente tale gestione. Da questa situazione, che è immodificabile, deriva poi la presa di distanza critica di Luhmann dalla concezione classica della democrazia, intesa come responsabile partecipazione (diretta o indiretta) dell’individuo alla vita della società. L 15 Infine, in relazione al livello delle attuale classe dirigente, concludevo che, per le motivazioni sopraindicate, “coloro che non posseggono questi strumenti farebbero bene a non proseguire sulla strada della politica ed a ripiegare, piuttosto, in un’oscura, ma più dignitosa, collocazione sociale, certamente più consona alla loro mediocre situazione personale”. È di questi giorni la pubblicazione di un libro di Mario Monti e della deputata europea Sylvie Goulard, membro della Commissione “Affari Economici” della U.E. – intitolato “La democrazia in Europa” – in cui gli autori ricordano, innanzitutto, che Norberto Bobbio (nell’opera “Il futuro della democrazia”) aveva osservato che gli inventori della democrazia avessero mancato di prevedere la complessità delle società contemporanee. Per chi conosce il mio modo di pensare, sa bene che la mia critica ai sistemi liberal-democratici si è sempre fondata sulla constatazione che trattasi di ideologie nate del ‘700 nella ristretta cerchia di aristocratici e proprietari terrieri e che, sovente, si sono dimostrate inadeguate ad interpretare la realtà sociale di altri periodi storici, sicché occorre andare al di là delle attuali democrazie liberali, per ricercare una “terza via”, consistente in diverse modalità di partecipazione popolare (es. per rappresentanze di “categorie” e non per “partiti politici”). D’altronde, nell’attuale sistema elettivo, né il “popolo sovrano” né i “rappresentanti eletti” posseggono gli strumenti cognitivi per valutare le scelte gestionali da compiersi, poiché queste scelte, nello scenario di un mondo complesso, assumono sempre più natura tecnica e perciò presuppongono un’idonea preparazione tecnica-economica-giuridica-gestionale, di cui la classe politica, sovente, è del tutto carente. Inoltre, Monti e Goulard, nel loro libro, evidenziano, tra l’altro, come talune posizioni politiche di tipo “populista” che si stanno affacciando sulla scena politica europea, attraverso i richiami ai valori nazionali e si solidarietà, in realtà celano “la volontà dissimulata di preservare una serie di prerogative nazionali e locali” e tendono, in sostanza, all’immobilismo decisionale. Inoltre, gli autori ritengono giustamente che il “localismo” (sul tema, mi permetto di ricordare il mio “Il fantasma del localismo”, Napoli, 2004) finisce per essere lo strumento politico di tutela di un “affastellarsi di amministrazioni locali e nazionali che finiscono per pesare sui bilanci dei contribuenti, dimostrandosi tutt’altro che efficienti”. In proposito, il libro di Monti e Goulard, può indurre anche altre considerazioni. In particolare, è evidente che la classe politica di alcuni Paesi europei (Grecia, Italia, ecc.) sta tentando – pericolosamente – di cavalcare il malcontento popolare nei confronti delle misure di 16 risanamento finanziario adottate dai governi, con lo scopo di tutelare se stessa, i propri privilegi e, perfino, i propri sprechi. Da parte di taluni, strumentalmente, si rivendica “più politica” e meno governi tecnici. In proposito, come affermano ancora Monti e Goulard, “l’esperienza insegna che “più politica” tante volte significa meno rigore e più problemi: i giochi della politica minano la fiducia nelle istituzioni …”. Ma se un ceto politico, ormai screditato ed in declino, tenta di fare leva sul malcontento popolare, al contrario, dal canto suo, il popolo-sovrano si dimostra scaltro, allorché “i cittadini sono sempre meno disposti a mantenere con i loro contributi una classe politica il cui valore aggiunto è tutto da dimostrare, e che, forza di lotte intestine, riduce il potenziale del Paese, quando dovrebbe invece operare al servizio del benessere collettivo”. Ma si deve temere che, in presenza dell’ulteriore protrarsi della crisi, il popolo potrebbe agitare le piazze ed essere tentato di attribuite ad alcuni politici demagoghi una missione salvifica, che, in realtà, è ben lungi dalla loro vera natura. Perciò, a mio avviso, il problema si sposta dai problemi del momento contingente ad una visione di più ampio respiro, che presupponga una specifica formazione delle classi dirigenti, la quale potrebbe avvenire, come in Francia, mediante prestigiose istituzioni come l’ENA – Ecole Nationale d’Administration. Infatti, non è più consentito che la classe politica sia improntata ad improvvisazione. Il problema delle classi dirigenti (e della loro fomazione), che è un tema classico della politologia, oggi, merita di essere approfondito nell’ottica della stretta ed inscindibile connessione con il “principio di competenza”. Al politico non si richiede più un bell’eloquio, il sapere improvvisare una battuta o una slogan ad effetto, o la frequente presenza in tv. Sono tutte cose di un’altra epoca storica (il ’900). Oggi, al politico di conoscere il diritto pubblico ed amministrativo, la scienza dell’amministrazione, l’economia pubblica ed i principi di contabilità di Stato, nozioni gestionali, e così via. Una siffatta preparazione, può essere acquisita soltanto attraverso la formazione presso apposite istituzioni pubbliche formative, come, ad esempio, la prestigiosa ENA Ecole Nationale d’Administrazione francese, che è, nel contempo, fucina di tecnocrati (i “grands Commis” di Stato) ma anche di politici di governo, come lo sono stati Chirac, Giscard d’Estaing, Balladur, Jospin, Juppé, de Villepin e tanti altri. È questa la strada che anche l’Italia deve intraprendere, magari avvalendosi di istituzioni come la SSPA Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, la SEF Scuola di Economia e Finanza “Ezio Vanoni”, la SSAI Scuola Superiore dell’Amministrazione degli Interni. NdR – Massimo Scalfati dedicherà il prossimo intervento sul nuovo numero de Il Cerchio al tema della “formazione delle classi dirigenti”, in cui, tra l’altro, analizzerà il ruolo e la funzione dell’ENA francese e delle Scuole Superiori italiane, cui sopra ha accennato. 17 Julius Evola e il professor Eliade Un rapporto significativo nella storia della cultura del Novecento Giovanni Sessa a crisi con la quale siamo costretti a convivere da diverso tempo non è, e della cosa hanno ormai contezza gli osservatori più accorti, semplicemente economica. Non è neppure dovuta all’inadeguatezza dei sistemi politici e costituzionali prevalenti nell’Europa mediterranea, quell’area del Vecchio Continente in cui la crisi ha, per ora, inciso con maggior vigore, ma è, come con cognizione di causa ha colto Alain de Benoist nel suo Sull’orlo del baratro, crisi sistemica. In una condizione siffatta, solo la riflessione teorica sui limiti del sistema vigente, potrà consentire di portarci oltre lo stato attuale delle cose. Dove attingere nuova linfa vitale per innescare processi, innanzitutto esistenziali, che possano consentire all’uomo europeo di ritrovare se stesso e di tornare a proporsi come protagonista della storia? A quale cultura di riferimento è possibile guardare, per recuperare almeno la speranza di una vita migliore e capace di mirare all’alto? Riteniamo che stimoli importanti per la non più rinviabile ri-partenza, siano rintracciabili nella cultura che, qualche decennio fa, il poeta Franco Fortini definì, sulla terza pagina del “Corriere della sera”, della “Destra Alta”, della quale non era certo un simpatizzante, ma a cui riconosceva meriti non secondari. A cosa si riferiva il poeta e saggista marxista con l’espressione “Destra Alta”? Si riferiva al pensiero di Tradizione, non compromesso in alcun modo con i dogmi dell’epoca ultima e sostanziato dalla visione antimoderna della vita. I grandi pensatori tradizionalisti del secolo XX rappresentano una vera e propria miniera critica per l’ermeneutica della contemporaneità, i cui giacimenti possono, pertanto, essere utilmente spesi nella battaglia delle idee. Tra essi, un ruolo di primo piano occupa Julius Evola, in quanto mai si sottrasse al confronto con la modernità, neppure nell’ultimo periodo della sua vita. Si pensi, al riguardo, ai contenuti di una delle sue opere del dopoguerra, Cavalcare la tigre, scritta e pensata in riferimento ad un uomo che, differenziato idealmente rispetto al proprio tempo, in esso però vive attivamente. L’importanza e la centralità del suo magistero sono confermate dalle relazioni intellettuali che intrattenne con pensatori e studiosi di tutta Europa. Certamente, uno dei rapporti intellettuali più coinvolgenti egli lo visse con l’eminente storico delle religioni romeno Mircea Eliade. Gli studiosi si sono resi conto da tempo che l’indagine di questa “amicizia mancata” è essenziale per dirimere alcuni snodi teorici della storia culturale del Novecento. Tra i primi, intervenne in merito alle relazioni Evola/Eliade, Claudio Mutti, alla fine degli L 18 anni Ottanta con il suo Mircea Eliade e la Guardia di Ferro. Altro momento esegetico rilevante è rappresentato, tra gli altri, dal saggio di Gianfranco de Turris, L’“Iniziato” e il Professore. Solo nell’ultimo periodo è stato possibile, però, tirare le somme sull’argomento in questione, per la pubblicazione di tre diverse e specifiche opere. La prima è un Quaderno della Fondazione Evola, intitolato Julius Evola, Lettere a Mircea Eliade 1930-1954 (Controcorrente, Napoli 2011), a cura di C. Mutti e con prefazione di G. Casadio, storico delle religioni dell’Università di Salerno. Il testo contiene sedici lettere scritte dal filosofo tradizionalista al suo corrispondente romeno. La seconda pubblicazione in questione è un lavoro del filologo Marcello De Martino, Le ultime lettere di Julius Evola a Mircea Eliade, (Settimo Sigillo, Roma 2011). In essa si presentano altre due missive intercorse tra gli studiosi ed infine, a chiudere gli approfondimenti sul tema, il saggio di Liviu Borda , Mircea Eliade e Julius Evola. Un rapporto difficile, comparso sulla rivista “Nuova Storia Contemporanea” n. 2, Marzo/Aprile 2012. Questo studio è dirimente in quanto l’autore raccoglie, oltre a quelle contenute nel volume di De Martino, altre sei nuove lettere di Evola, rintracciate presso il Centro di Ricerca della Collezioni speciali della Biblioteca dell’Università di Chicago, dove il pensatore romeno insegnò fino alla morte. Tentiamo ora, alla luce della lettura di queste pubblicazioni, un bilancio sia pure sintetico della vexata questio, relativa ai controversi rapporti tra i due intellettuali. Allo scopo conviene forse muovere, per agevolare la comprensione del problema, dalla fine della relazione tra i due. Quando Eliade apprese la notizia della morte di Evola, nel 1974, scrisse nel proprio Diario: “Non l’ho più visto da circa dieci o dodici anni, anche se sono passato più volte per Roma”. Tale affermazione fa sorgere l’immediata e conseguente domanda: perché Eliade decise di non vedersi più con Evola? La risposta la si ricava da un’altra significativa pagine del Diario, inerente la pubblicazione dell’autobiografia evoliana, Il Cammino del cinabro,opera del 1963. In essa, Evola ricordava di aver incontrato lo storico romeno nel 1938 in Romania, tra gli intellettuali che facevano parte della cerchia di Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro. Questa rivelazione esplicita delle sue simpatie giovanili irritò non poco lo storico delle religioni, a causa di possibili censure politiche che avrebbero potuto ostacolarlo nel momento in cui era impegnato nella ricerca universitaria oltreoceano. Da allora, egli, pur dichiarando di continuare ad apprezzare e a leggere le opere dell’italiano, e citandolo spesso in conversazioni private, non gli scrisse e non lo incontrò più. La conoscenza tra i due, diretta o indiretta come sostiene Mutti, avvenne nel 1927 o nel 1928, durante un soggiorno a Roma del giovane studioso di Bucarest, come si evince dalla lettera del 28 Maggio del 1930. Fin da subito, i due instaurarono un’intesa cordiale, non solamente di tipo intellettuale, ma anche caratteriale. Ciò è attestato, dalla reciproca stima che, in più occasioni, si manifestarono vicendevolmente. Allo scopo, tra le altre, basti qui ricordare, la recensione di Eliade a Rivolta contro il mondo moderno o il suo commento elogiativo all’articolo che Evola pubblicò sulla rivista “Bilychnis”, intitolato Il valore dell’occultismo nella cultura contemporanea. Evola, a sua volta, recensirà, nientemeno che sull’organo dell’Ismeo, ancora nel 1955, il volume eliadiano Lo Yoga, immortalità e libertà e, più volte, in Metafisica del sesso, richiamerà, in termini positivi, le opere dello storico delle religioni. Per non parlare delle molte recensioni delle opere di Eliade che il tradizionalista scrisse per il “Roma”, quotidiano di Napoli. Più in particolare, diversi studiosi (si pensi agli stessi de Turris e Mutti, ma anche a De Martino nel suo Mircea Eliade esoterico) hanno messo in luce come un’evidente influenza evolia- 19 na sia rinvenibile nella produzione letteraria dell’accademico, meno vincolata allo “scientificamente corretto”, rispetto alle opere di saggistica. Esemplificativi, in questo senso, sono i casi dei romanzi La luce che si spegne, Il segreto del dottor Honigberger, Diciannove rose, nei quali emergono riferimenti a tesi evoliane. Nel primo libro citato, è addirittura esplicita la ripresa delle problematiche proprie dell’idealismo magico. Del protagonista, Manoil, viene detto che “era sempre stato un idealista e perciò la “magia” era implicita nel suo sistema”. Alcuni protagonisti di questi romanzi sono “costruiti”, secondo modalità diverse, sulla figura di Julius Evola. Ne Il segreto del dottor Honigberger, scritto tra il 1939 e il 1940, un personaggio dai tratti enigmatici è indicato con la sigla J. E., di lui si dice che abbia tentato un’iniziazione yogica, miseramente fallita, causa della paralisi alle gambe di cui soffriva. Il lettore di certo sa che Evola patì la medesima patologia. Nel terzo racconto, Diciannove rose, si narrano le vicende di un filosofo ed esoterista, Ieronim Thanase, “paralizzato in poltrona”, che attribuisce questa infermità ad un errore commesso in gioventù. Per quanto si riferisce alle opere accademiche di Eliade, è possibile rilevare che, i suoi studi alchemico-ermetici, incontrano e intersecano le problematiche de La tradizione ermetica e che, l’apporto del primo Evola, sembra evidente anche nei trattati sulla mistica indiana, così come i risultati delle indagini eliadiane, furono utilizzate dal pensatore romano nel secondo libro sul tantrismo, risalente al 1949, Lo yoga della potenza. Sappiamo, inoltre, grazie alle ricerche su quest’aspetto biografico, condotte da de Turris e Scagno, che i due si videro anche nel dopoguerra, dopo il ritorno a Roma di Evola, probabilmente nel maggio del 1952. Inoltre, il tradizionalista collaborò fino al 1969 alla rivista “Antaios”, diretta dallo stesso Eliade e da Jünger, e inserì, nonostante i rapporti con lo storico delle religioni si fossero raffreddati nel 1963, altri libri dello studioso nella collana “Orizzonti dello spirito”, da lui diretta presso le Mediterranee, non ultimo il trattato sullo Sciamanesimo, già edito nel 1952, per sua intercessione da Bocca. Dirimenti, per comprendere gli effettivi rapporti tra i due, risultano sia la lettera del 15 dicembre 1951 sia la successiva del 31 dicembre dello stesso anno: nella prima, Evola manifestava un certo disappunto ad Eliade, poiché questi evitava di citare autori non accademici nelle proprie opere e non faceva riferimenti espliciti alle posizioni dei tradizionalisti. Nella seconda, il filosofo pare invece accettare la ragioni addotte dal suo interlocutore alle obiezioni sollevate, consistenti essenzialmente nell’attribuire gli omessi a una scelta tattica. Alla qual cosa, Evola non ebbe nulla da obiettare, in quanto: “…contro il tentativo di introdurre qualche cavallo di Troia nella cittadella universitaria nulla ci sarebbe da dire. L’importante sarebbe il non lasciarsi prendere… in un inganno, perché agli ambienti accademici corrisponde una qualche “corrente psichica”… deformante e contaminante.” Forse, il filosofo avrebbe fatto meglio a ricorrere a una buona dose di scetticismo in merito alla giustificazione avanzata da Eliade. La cosa, a suo tempo, fu fatta rilevare da Paola Pisi, che pensò non esservi: “…alcun indizio per ritenere che davvero (Eliade) intendesse far penetrare le idee tradizionaliste nella “cittadella” universitaria”. Il problema esegetico di questa “amicizia mancata” o, meglio, interrotta, sta, come ci pare aver mostrato con chiarezza Giovanni Casadio, nel fatto che certamente Eliade fu, in particolare nel periodo giovanile, influenzato dalla cultura dei pensatori della Tradizione, non solo da Evola, ma non aderì mai pienamente al tradizionalismo come scuola. Il suo pensiero, indirizzato alla ricerca di un modello antropologico tradizionale, ha agito in profondità, ma dall’esterno, su diverse correnti dell’intellettualità non 20 conformista. Ci pare di poter concludere con una citazione di Eliade che spiega, da un lato, le ragioni che lo avvicinarono alla Tradizione, dall’altro il suo non riuscire ad aderirvi in toto: “…di fatto la tragedia della mia vita si può ridurre a questa formula: sono un pagano, un perfetto pagano classico che cerca di cristianizzarsi. Per me i ritmi cosmici, i simboli…esistono di più e più immediatamente del problema della redenzione”(in Journal portuguez,p.135). Lo studioso romeno visse in sé, quindi, un evidente contrasto tra una tendenza innata ed una, come dire, acquisita e di carattere culturale, che probabilmente non risolse mai del tutto. Evola, al contrario, non sentì mai tale lacerazione interiore. Fu, da sempre, uomo della affermazione assoluta, che poco si curò dell’accademicamente corretto. Per questo, fa bene Mutti a ricordare le parole che Eliade adoperò, nella recensione a Rivolta contro il mondo moderno, contro i critici del tradizionalista: “Evola viene ignorato dagli specialisti, perché oltrepassa i loro quadri di ricerca”. Tale frase, valga a spiegare anche l’ambiguo rapporto Evola/Eliade, fondato, fin dal suo sorgere, sui “non detti” del secondo nei confronti del primo. Riteniamo che l’analisi approfondita delle relazioni intercorse tra i due intellettuali non sia riducibile semplicemente a fatto meramente erudito. Infatti, da essa, come si diceva all’inizio, è possibile trarre insegnamenti e stimoli per l’azione nella realtà contemporanea. Nelle parole del protagonista di Diciannove rose, si manifestano il senso e il significato di quel metodo tradizionale al quale Evola si attenne in tutte le opere e che esplicitò ne Il Mistero del Graal. Certamente, pur non ammettendolo per evidenti ragioni accademiche, della sua significanza ebbe contezza lo stesso Eliade. Tale metodo mira a cogliere nel sensibile il sovrasensibile, nella storia la sovrastoria. Per dirla con le parole del protagonista del romanzo eliadiano: “Dobbiamo correggere Hegel e portare più in là il suo pensiero. D’accordo, ciascun evento storico costituisce una manifestazione dello Spirito Universale…Dobbiamo andare più lontano: decifrare il suo significato simbolico. Giacché ogni evento, ogni vicenda quotidiana comporta un significato simbolico, illustra un simbolismo primordiale, metastorico, universale”. Ciò vuol dire che la storia ha valore quale luogo in cui il mito diviene realtà, in cui si incarna nella vita degli uomini. È pertanto necessario guardare alla nostra vita quotidiana, agli eventi di questi mesi, con altri occhi. Solo il recupero della dimensione destinale e mitica, ci consentirà di lasciarci alle spalle la paralisi dell’azione, già diagnosticata da Nietzsche come malattia terminale dell’uomo europeo. Dalla condizione di turisti oziosi che si aggirano tra le rovine della storia, dobbiamo tornare utopicamente e liberamente a proporci come facitori di storia, creatori di mondi. Ciò ci pare possibile anche in conseguenza di queste considerazioni di Hugh B. Urban, uno degli storici delle religioni più prestigiosi tra gli esponenti della terza generazione della Scuola di Chicago, nonché, e ciò è paradossale, espressione della sinistra radicale statunitense: “Oggi Evola resta una delle figure più enigmatiche, meno comprese e tuttavia più influenti negli studi accademici e nella politica dell’Europa moderna”. Se, come è stato rilevato, tra gli altri da Veneziani, di fronte alla governance imperante è necessario ripartire dalla Cultura, è al pensiero di Tradizione che bisogna guardare, realizzando quel “cambio di cuore” capace di rianimare le nostre esistenze. 21 BENEDETTO CROCE OGGI § Benedetto Croce e il Nuovo Mondo Ernesto Paolozzi are che in tutto il mondo vi sia un risveglio di interesse per la filosofia italiana. Naturalmente ciò non è da intendersi in senso geografico, per così dire. Sarebbe banale e certamente fuorviante. È da intendersi in senso storico e metodologico. Significa identificare una tradizione di pensiero, una cifra che caratterizza una particolare sensibilità. Sembra, soprattutto nel mondo anglosassone, che torni l’interesse per una tradizione filosofica che colloca l’eticopolitico come elemento insostituibile della costruzione filosofica stessa lasciandosi alle spalle il relativismo scettico di una certa filosofia ermeneutica da un lato e i tecnicismi logicistici degli analitici neopositivisti dall’altro. Benedetto Croce e Giovanni Gentile furono i protagonisti all’inizio del Novecento del recupero del nostro passato e, al tempo stesso, costruirono un’altra fondamentale tappa di quella storia che oggi ritorna prepotentemente alla ribalta. In verità i due filosofi recuperarono anche la tradizione dell’idealismo tedesco (Hegel in particolare), accantonata dal positivismo e dall’irrazionalismo, mostrando come, in definitiva, il pensiero critico non conosce confini nazionali invalicabili. In un momento di crisi dell’Occidente è probabile che si torni a chiedere alla filosofia di “dare una mano alla prassi”, come disse una volta Croce, senza perdersi nei meandri dello stanco e spesso presunto specialismo accademico, o nella vuotezza delle mode costruite dall’industria culturale, dai media colpevoli di banalizzare la ricerca autentica e sofferta che caratterizza la filosofia autentica. Particolarmente interessante la riscoperta crociana in Sudamerica, particolarmente in Argentina. La studiosa Ana Jaramillo dell’Università di Lanùs di Buenos Aires, oltre ad aver patrocinato la traduzione del volume crociano Cultura e vita morale, ha pubblicato un volume Nuestra America, in gran parte dedicato al filosofo italiano come si desume dal sottotitolo, pensiero e azione, che richiama il fondamentale La storia come pensiero e azione del 1938. Una lettura e, in certo qual modo una utilizzazione, del pensiero crociano strettamente legata alla dimensione etico politica e a quella argentina in particolare. Lo storicismo crociano viene posto alla base di un tentativo di costruire una via sudamericana al liberalismo sociale. Croce antifascista e anticomunista, liberale ma non acritico liberista, potrebbe indicare una via a quei grandi Paesi del sub-continente che cercano faticosamente di eman- P 22 ciparsi dal dominio culturale e non solo culturale, del nord America e, al contempo, di liberarsi dalle pulsioni populiste di destra e sinistra che hanno storicamente impedito il loro sviluppo. Un percorso originale per costruire una democrazia liberale originale, strettamente connessa alla storia, ai costumi, alla tradizione culturale del’Argentina come di altre grandi nazioni sudamericane. Il liberalismo, ma soprattutto il liberalismo storicistico del filosofo italiano, diventano così un punto di riferimento essenziale per evitare di immaginare un modello astratto di tipo genericamente illuminista da imporre a popoli diversi per storia e per cultura. Il pensiero, dunque, che orienta l’azione pur senza determinarla in modo meccanico, deterministico. Un’operazione politica e culturale, suggerirei, del tipo di quella che propose il vichiano, storicista Vincenzo Cuoco nel suo Saggio sulla rivoluzione di Napoli del 799, che indicò la strada al nuovo liberalismo italiano di cui si sostanziò il Risorgimento nazionale italiano. Al pensiero vichiano è dedicato, non a caso, l’ultimo recente volume della Jaramillo, El historicismo de Nàpoles al Rio de la Plata. Il volume si intrattiene sulla figura poco nota ma fondamentale dell’esule napoletano Pietro de Angelis. Riparato in Argentina dopo i moti del 1821 si adoperò a divulgare il pensiero di Vico e nel 1852 propose il progetto di Costituzione della Repubblica Argentina. Croce ricordò Pietro de Angelis nel volume Una famiglia di patrioti, augurandosi che se ne potesse approfondire la biografia e la storia. Ciò che sta accadendo in Argentina. Uno dei modi migliori per ricordare Benedetto Croce a sessant’anni dalla morte. § Identità e memoria indispensabili per il futuro Il valore del passato e della memoria locale va salvaguardato ancor più nel nostro tempo, per evitare lo spaesamento degli individui e delle comunità indotto dagli effetti deteriori della globalizzazione. Antonio Pisanti i è più volte evidenziato, anche in questa Rivista, come la mancanza di conoscenza della realtà locale, e quindi della sua memoria storica, possa affievolire, fino a renderlo nullo, quel senso di appartenenza che è condizione indispensabile per la formazione di un’identità e di un impegno civile teso al comune benessere. In occasione del 60° anniversario della morte di Benedetto Croce, è il caso di ritornare sull’argomento, per sottolineare un aspetto della sua indagine e della sua produzione giovanile particolarmente attente al tema della memoria e della cultura locale. Con gli scritti su avvenimenti, personaggi, aneddoti e curiosità legati a determinati luoghi, Croce intese tramandare ai contemporanei e alle generazioni future il ricordo di fatti dei quali, anche grazie a lui, possiamo serbare la memoria. S 23 Incamminatosi verso la metà del proprio percorso filosofico, egli avrebbe giudicato con severità tali attività, definendole pure e semplici “esercitazioni erudite e letterarie”, ma nelle ultime opere sarebbe poi ritornato con maggiore indulgenza sugli scritti giovanili, mentre sottolineava ancor più il valore del passato e della sua conoscenza per alimentare quell’“intelligenza storica, condizione di ogni avanzamento civile”. Il valore del passato e della memoria locale va salvaguardato ancor più nel nostro tempo perché, se è vero che gli effetti della globalizzazione tendono ad aprire all’individuo sempre più ampi orizzonti di conoscenza e di esperienza, è pur vero che il graduale sradicamento dalla realtà territoriale tende a creare uno spaesamento che lo fa diventare più cittadino del mondo ma meno abitante del suo ambiente. Lo stesso ambiente va perdendo i suoi specifici connotati per assumere aspetti sempre più anonimi, in un circolo vizioso di relazioni via via prive di senso. I cosiddetti non-luoghi sono anche luoghi esemplari dell’oblio e dell’indifferenza. Il non riconoscersi nel territorio appartenente alla propria realtà esistenziale comporta anche l’attenuarsi di vincoli tra i suoi abitanti e il conseguente disconoscimento di quelle regole di solidarietà e di rispetto che rendono attrattiva la condivisione di un ambiente comune. La rarefazione delle identità territoriali, indotta dalla globalizzazione, invoca la rivalutazione di beni locali, come tradizioni, abilità artistico-artigianali, usi e costumi, la cui sopravvivenza era affidata alle vecchie generazioni che quelle abilità e quelle memorie orgogliosamente detenevano. La necessità di riconnotare il territorio con i suoi originari significati comporta la riscoperta di beni materiali e immateriali come patrimonio della comune memoria storica e della comune identità. Lo stesso termine di “monumento” riporta all’etimologia della parola, monimento, in quanto “strumento per (far) ricordare”, la cui potenzialità evocativa rischia invece di essere totalmente vanificata da approcci superficiali, indotti da consuetudini di presenzialismo consumistico fatte sempre più di immagini viste e sempre meno di ricordi, parole, senso. La riappropriazione della memoria territoriale non esclude, ma può integrare arricchendola, la possibilità di riconoscersi, con il proprio bagaglio culturale, in realtà e in identità più grandi. La tendenza a volersi ritrovare in contesti sempre più ampi fa sussistere e coesistere identità concentriche nelle quali si ritrovino comuni problematiche e comuni ricerche di svolte risolutive. Particolarmente significativi a tale proposito sono non solo il rinvenimento di analoghi miti e ritualità in civiltà lontane nel tempo e nello spazio, ma anche la riscoperta di dottrine maturate in epoche e in contesti diversi alle quali si accostano studiosi e ricercatori per la risoluzione di problemi emergenti nelle loro rispettive comunità. Di qui la riproposizione di autori e di opere tradotte in realtà molto lontane da quelle nelle quali furono elaborate. Non a caso, in questo stesso fascicolo appare a firma di Ernesto Paolozzi, un articolo sulla riscoperta crociana in Sudamerica. In effetti, se il bisogno di resistenza al dominio di ideologie e di poteri imposti sul proprio territorio può bastare per fornire iniziali motivi di aggregazione e di condivisione per battaglie comuni, non è certamente sufficiente per la creazione di identità che possano durare a lungo, a sostegno di un progetto non effimero per il tempo Portale di Palazzo Filomarino futuro. 24 § A Napoli, un appuntamento importante che ha riunito gli uomini di cultura della città illa Tritone a Sorrento, Villa Ruffo e Palazzo Filomarino a Napoli sono i luoghi che hanno ospitato e accomunato due grandi personaggi. L’uno, il grande filosofo Benedetto Croce, l’altro il famoso scrittore polacco Gustaw Herling Grudzinski; nella vita privata suocero e genero. Bene, questi due autorevoli uomini il 20 novembre scorso sono stati ricordati in due cerimonie molto significative. A Villa Ruffo, presenti la signora Lidia Croce e la figlia Marta con i Presidenti d’Italia, della Polonia e della Germania, è stata scoperta, su una parete della Villa, una targa che commemora la vita dello scrittore polacco Gustaw Herling Grudzinski che qui visse dal 1955 al 2000, anno della sua scomparsa. E proprio davanti a questa lapide il Presidente Napolitano ha sottolineato che la sua presenza stava ad attestare un “risarcimento di incomprensioni e chiusure faziose che possono talvolta averlo fatto sentire isolato”. Con queste parole il Capo dello stato Italiano ha suggellato, quindi, un ravvedimento nei confronti dello scrittore, esiliato dalla sua patria sino al 1991, anno in cui la Polonia torna libera e indipendente. A Palazzo Filomarino - sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici che ha compiuto 65 anni di vita, della Biblioteca e della Fondazione Croce - si è tenuta la commemorazione di Benedetto Croce a sessant’anni dalla sua scomparsa, alla presenza del Presidente Napolitano e del Presidente della Polonia Bronislaw Komorowsky. Dopo le parole dense di significato storico sulla vita dell’istituto da parte del Segretario Generale dell’Istituto Marta Herling, del Direttore Gennaro Sasso, della borsista Elena Alessiato e del Presidente Natalino Irti, che ha tracciato un interessante profilo del filosofo Croce, il Capo dello Stato Italiano nel ricordare il Croce “politico malgré moi” ha tenuto un discorso molto appassionato e denso di messaggi e riferimenti all’attuale panorama politico italiano. Paola Franchomme V Consigliere di Amministrazione Istituto Italiano per gli Studi Storici 25 A QUARANT’ANNI DALLA “MORTE PER ACQUA” DEL POETA DEI PISAN CANTOS Chi ha paura del dottor Ezra Pound? Salvatore Maria Sergio ubito, avverto che non intendo raccattare condanne viziate da rauche ostilità culturali, da nervosismi moralistici, o, peggio, da manichei pregiudizi ideologici, né generiche opinioni giustificazioniste, o furori apologetici destinati piuttosto ad alimentare la leggenda del “poeta maledetto”, che vòlti all’approfondimento dell’opera di Ezra Pound – frammentaria e a un tempo grandiosamente unitaria – e al riconoscimento della sua importanza nel quadro della letteratura del Novecento. Mi propongo, peraltro, di evitare la suggestione che provocherebbe il raffronto con le vicende umane, politiche e letterarie di altri grandi “reprobi”. E sarebbe facile suggestione: Tommaso Campanella, che pagò col carcere il suo atteggiamento di filosofo naturale e sperimentatore; Giordano Bruno, mandato al rogo per avere rifiutato di ritrattare le sue opinioni giudicate eretiche; Thomas More, decapitato dal suo re per non aver voluto rinnegare l’autorità del papa in materia religiosa e approvare il divorzio di Enrico VIII da Caterina d’Aragona; Baruch Spinoza, dai rabbini e dai notabili del Mahamad di Amsterdam, “con il consenso di tutta la santa comunità maledetto di giorno e di notte, mentre veglia e mentre dorme, scomunicato, esecrato, espulso dalla sinagoga per le sue cattive opinioni, bandito e separato dalla Nazione d’Israele”; infine, costretto per vivere a fare il lucidatore di lenti per strumenti ottici; Galileo Galilei, il sommo pisano indotto all’abiura del suo stesso pensiero e condannato alla prigione a vita, poi commutata nel domicilio coatto ad Arcetri. E, nel tempo piú vicino al nostro, Max Stirner, ossia il mite professore Johann Kaspar Schmidt, reo d’avere scritto L’unico e la sua proprietà, un’opera dal radicalismo totale che rientra a pieno titolo nell’ambito della letteratura anarchica, dunque, insopportabile alla società ottocentesca: abbandonato dalla moglie e dagli amici, ridotto a venditore ambulante di latte e morto in miseria. Knut Hamsun, il novantenne norvegese d’antico ceppo contadino (fin dalla prima giovinezza dovette guadagnare i mezzi per vivere col lavoro manuale, esercitando ogni sorta di mestiere, calzolaio, spaccapietre, carbonaio, commesso di negozio, cantoniere, venditore ambulante, infine maestro elementare), vincitore nel 1920 del Premio Nobel per Il risveglio della terra, probabilmente il suo capolavoro, che durante l’occupazione tedesca aveva mostrato simpatie per il regime di Quisling e per questo era stato accusato di collaborazionismo. I giudici, non potendo negare la grandezza del visionario ve- S 26 gliardo, non trovarono di meglio che confinarlo in un ospedale psichiatrico di Oslo. D’altra parte, non era pazzo Torquato Tasso, non erano forse matti Gerard de Nerval e Dino Campana? E, ancora fra i “reprobi”: Charles Maurras, lo scrittore provenzale capo del movimento nazionalista e monarchico dell’Action Française, consigliere di Pétain, che ormai quasi ottuagenario fu gettato in un ergastolo, da cui sarebbe uscito pochi mesi prima di morire, per complicità col regime di Vichy; e, ancora, Pierre Drieu La Rochelle, il poeta di Francia sconvolto dalla cecità dei connazionali immersi nel culto della France éternelle e perciò illusi che tutto si fosse risolto con la resa tedesca a Compiègne e la pace di Versailles, ultima romantica proiezione delle generazioni che sommossero e insanguinarono l’Europa nel secolo XX, indottosi al suicidio. “Ho perduto, esigo la morte”, sono le ultime parole scritte su un pezzo di carta prima di uccidersi. Robert Brasillac, seguace di Maurras e critico letterario de “L’Action Française”, che, arrestato per collaborazionismo, alla fine della seconda guerra mondiale venne fucilato. Potrei continuare con gli esempi, naturalmente senza dimenticare (e sarebbe grave dimenticanza) la folla innumerabile dei dissidenti dell’Unione Sovietica vittime delle purghe staliniane, o passati per le armi o gettati con ferocia belluina a morire di freddo e di fame nei gulag, i manicomi-prigione di Breznijev, nel silenzio vile dell’Europa e di coloro che, sovente per nascondere le proprie colpe, avevano scelto di farsi intransigenti moralisti. Ma, messo il punto fermo alla cursoria (e incompleta) rassegna, a quarant’anni dalla morte, è ora di tornare a Pound. Orbene, al di là degli assiomi antropologici cari a Taine o a Saint-Beuve, soltanto chi fosse disinformato o, peggio, portatore di pregiudizi politici e ideologici (quindi, non proprio in buona fede), potrebbe lasciare da un canto la complessità della sua storia umana e letteraria, che è quella d’un uomo che visse fino in fondo un terribile dramma interiore. Un’esperienza esistenziale che lasciò segni non cancellabili nella sua vita privata e pubblica e incise profondamente sulla formazione e lo sviluppo dei nuclei fondamentali della sua produzione letteraria. Cosí, come già ho osservato, mentre per un verso non è ragionevole scandire acriticamente enfatiche note di concerti laudatori, giacché muovendo attraverso la sua bio-bibliografia s’incontrano le stesse difficoltà di un marcia nella jungla – o si fa uso del machete per aprire la strada, oppure si rischia di rimanere impantanati –; per l’altro, quando al centro dell’analisi è il suo pensiero economico-politico è ingiusto mettere in moto congegni inquisitori sottesi alla svalutazione dello scrittore, prospettando l’idea del tradimento. Questo, mentre non è dato dimenticare che la vicenda poundiana si svolse nel corso della terrificante storia d’Europa, a partire dalla Grande Guerra, una guerra rivoluzionaria che aveva provocato la dissoluzione delle ultime strutture tradizionali, gl’Imperi Centrali; alla comparsa sulla scena politica mondiale della Russia bolscevìca che aveva riproposto in termini nuovi il problema del marxismo, al delinearsi dei Fascismi in chiave di reazione alla decadenza e al marxismo, fino al tragico epilogo del secondo conflitto, sullo sfondo di un’Europa smarrita, coperta di rovine. Credo, quindi, che in luogo d’una banale dossografia della critica (la bibliografia è sterminata) e d’una mia personale analisi letteraria, risulterà piú utile l’indagine sullo svolgimento del processo a cui fu sottoposto il Poeta quando, dalla gabbia infame di Coltano, venne trasferito negli Stati Uniti, sviluppata entro il quadro politico e culturale del dopoguerra. Per un singolare coincidenza sovviene, qui, la folgorante apostrofe con cui Saint-Just, il rivoluzionario poco piú che adolescente, ridusse al silenzio Girondini e Montagnardi i quali alla Convenzione si dibattevano in con- 27 traddizioni e cavillanti esercizi legali: “Io non vi chiedo la testa del cittadino Luigi Capeto, perché non siamo chiamati a giudicarlo pei suoi delitti; bensì vi chiedo la testa di Luigi XVI perché dobbiamo compiere un atto politico”. Ebbene, il processo contro Ezra fu un atto politico. Il General Attorney Tom G. Clark aveva contestato all’antico studente dell’Università di Filadelfia – la città dove i Padri avevano sottoscritto la Costituzione – il crimine di tradimento, definito dalla Magna Charta come arruolamento in guerra contro gli Stati Uniti, ovvero adesione al nemico dandogli aiuto e conforto nei suoi disegni politici. L’accusa riguardante il Poeta era la violazione della seconda fattispecie legale: avere aderito al Regno d’Italia in guerra con gli States, pronunciando dai microfoni dell’EIAR (con una breve interruzione dal 7 dicembre 1941, data dell’attacco nipponico a Pearl Harbour, al 20 Gennaio 1942) una serie di discorsi critici nei confronti dell’America dalla prima decade del gennaio 1941 al 25 Luglio 1943, due giorni prima della seduta del Gran Consiglio del Fascismo che aveva decretato la caduta di Mussolini, in tal modo sostenendo il nemico nei suoi disegni politici. Qui, non è superfluo un rilievo, invero di non poco momento: la Procura della Corte Distrettuale della Columbia, mostrando un tracotante disprezzo del dovere di lealtà processuale, aveva rifiutato la discovery, non mettendo a disposizione della Difesa i testi dei discorsi poundiani; testi poi pervenuti all’avvocato di Pound dal Servizio Informazioni del Foreign Office britannico, che ne conservava nel suo archivio le registrazioni. Cosí, soltanto per la cortesia degli Inglesi, la Corte fu messa nella condizione di apprendere che le conversazioni del Poeta, introdotte dalla frase “Europe calling, Ezra Pound speaking”, erano sempre precedute da questa dichiarazione: “In base al principio della libertà d’espressione delle opinioni da parte di coloro che sono qualificati per avere opinioni, al dottor Pound è stato concesso libero accesso ai microfoni dell’EIAR. Non gli verrà chiesto di dir nulla di contrario alla sua coscienza o di contrario ai suoi doveri come cittadino americano”. Non a caso, Pound aveva scritto al Procuratore Generale Biddle che mai aveva inteso denigrare la Patria, ma aveva attaccato gl’inetti e l’usurocrazia dei grandi banchieri che avevano trascinato l’America nel conflitto: “Non ho detto nulla che si riferisca a ‘questa’guerra, ma ho parlato per denunciare un sistema che provoca una guerra dopo l’altra, sistematicamente e in serie. Non mi sono rivolto ai combattenti, non ho suggerito che si ribellassero […] Ero ritornato in America prima della guerra per protestare contro ben precise influenze che operavano per scatenare la guerra…” Dalla lettera appare chiaro il senso che Pound aveva inteso dare alle sue trasmissioni. A tal proposito, giova ricordare che nei primi mesi del 1939, osservando un’abitudine tipica della democrazia americana, aveva incontrato deputati e senatori, tra i quali Henry Wallace, Segretario all’Agricoltura, per prospettare la necessità d’attenuare la tensione tra l’America e l’Italia e d’indirizzare la politica economica degli Stati Uniti verso finalità piú pacifiche. E, questo, riguarda l’elemento soggettivo del reato. Poiché, però, sovente nell’apparato penalistico fioriscono malefiche licenze, e anche per evitare la congettura d’una artificiosa argomentazione difensiva, è indispensabile riferire il contenuto d’una missiva diretta da Pound a un amico americano mesi avanti l’entrata in guerra: “Anche se l’America dichiara guerra all’Asse non vedo ragione, secondo il mio giudizio, perché io non debba continuare a parlare in mio nome, purché io non dica nulla che possa in alcuno modo recare danno all’esito della azioni militari americane, alle Forze Armate o al be- 28 ne del mio paese nativo […] vi sono cose che io credo di avere il diritto di dire, di continuare a dire fino a che venga approvata dal Congresso e dal Senato una legge che proibisca dati argomenti e proibisca l’uso di una radio straniera […] Io credo che l’effetto di ciò che io posso dire (secondo la mia coscienza e secondo le leggi degli Stati Uniti, come io le intendo) avrebbe maggior peso a lunga scadenza se si può provare che io non mi abbandono a propaganda clandestina di qualunque specie […] certi principi o verità hanno valore universale. Essi non sono toccati dalle contingenze, sia interne che esterne, di una particolare nazione…” A leggere sine ira et studio, l’assordante maglio dell’accusa suscita effetti fiochi. E, invece, s’alza alto come un grido il silenzio di Ezra: è il silenzio del vinto che ha in gran dispitto il vincitore; è il silenzio orgoglioso di chi ha saputo rimanere fedele a se stesso e al suo principio: “se un uomo non è disposto ad affrontare qualsiasi rischio per le sue opinioni, o le sue opinioni non valgono niente o non vale niente lui”. Sta in silenzio davanti ai giudici, il vecchio poeta, e questo, per la procedura, è una dichiarazione di non colpevolezza. Ma, chi è costui, e perché sta in catene? Nel 1913 Gaudier Brzeska aveva scolpito il suo ritratto e l’aveva intitolato Hieratic Head: il marchio del destino era già impresso nel suo volto. Il destino di Pound, come è stato acutamente scritto, è quello d’essere un simbolo nella grande tragedia politica e nel dramma culturale del secolo XX. Simbolo della nuova alleanza fra America ed Europa, fra Occidente e Oriente, dello scontro tra massa e persona, tra ideologia e pensiero, tra democrazia e cesarismo. E simbolo d’una cultura vilipesa, decimata, perseguitata, prometeica. Ebbene, se il poeta dev’essere specchio concavo del mondo, personaggio-simbolo, senza dubbio questo ruolo corrisponde esattamente a quello svolto da Pound. Paradosso straordinario, il demiurgo della piú grande rivoluzione letteraria moderna era nato ad Hailey, un villaggio di duemila anime nell’Idaho, cioè in terra di frontiera. L’America puritana e quacquera, priva d’una tradizione letteraria e filosofica, è per lui un deserto silenzioso: il giovane poeta, pronipote dei cercatori d’oro e dei cacciatori di Sioux, si lascia alle spalle la terra dei pellegrini del “Mayflower”, ormai teatro d’un capitalismo sfrenato, usuraio, che produrrà il trionfo della Ford T, ma subirà la sconfitta di Wall Street, sbarca in Europa per abbeverarsi alle fonti della Tradizione, soggiogato dalla visione mistica e volontaristica della storia e dalla profetica affermazione dei valori perenni dello spirito di cui aveva scritto Carlyle. Ora, in Europa, c’è anche Pound: in tasca ha ottanta dollari, e in mente un grande sogno. Finalmente, il suo impegno morale e artistico trova la fonte: la Francia con la sua antica tradizione trobadorica e quella moderna dei simbolisti, la Provenza di Mistral e Charles Maurras, il controrivoluzionario estremo difensore della Monarchia; l’Italia, con Catullo, Ovidio, Sesto Properzio, Cavalcanti, Guinizzelli, Dante; la Grecia, con Omero, Saffo, Ipponatte e Teocrito; l’Inghilterra con Chauser e gli anonimi anglosassoni: quel Chauser e quegli anonimi che affascinarono Pasolini, evocatore di un decadente neoestetismo. È a Venezia, dove pubblica in cento copie il suo primo libro di versi, A lume spento, poi è a Londra. Dà alle stampe Personae, Exultations, The Spirit of Romance, Provença. Infine è a Parigi, dove da un pezzo è arrivata la Pallade Athena degl’intellettuali in fuga dall’America, Gertrude Stein (che vive con Alice Toklas, quella del Diario, la vecchia cornacchia amica del cuore e anche piú) e ci sono quelli della Lost Generation: Scott Fitzgerald, Hemingway, Morley Callaghan, Henry Miller, Dos Passos e tutta la schiuma del Greenwich Village, ve- 29 nuti in Europa a cercare quel che non hanno trovato nella loro patria; e ci sono anche tutti gli altri: i Russi scappati dalla Rivoluzione d’Ottobre, i Pvsner, Marc Chagall, che sogna sempre Vitebsk, e, ancora, Kikoine, Zadkine, Kremegne, i Surrealisti, i Dada, e poi gli Spagnoli, Juan Gris, Picabia, Pablo Gargallo, Manolo Gonzalez, Picasso; gli Italiani Severini, Soffici, Lorenzo Viani, Carrà, Dedo Modigliani, Savinio, Marinetti, Balla, De Chirico. E ci sono Braque, Utrillo, Zbrowoski, Derain, Van Dongen, Foujita, Kisling, Chaïm Soutine, Cocteau, Brancusi… La “Ville Lumière” è l’ombelico del mondo ed è una festa mobile, come scriverà Hemingway. È povero, Pound, ma si fa mecenate e rabdomante d’artisti: aiuta Yeats a trovare la giusta via e a rinnovarsi; fa pubblicare Joyce da Silvia Beach e lo trasforma di colpo da oscuro professore della “Berlitz School” in un celebrato autore; fa conoscere Wyndham Lewis. Ancora, mostra a Eliot come si deve fare quando questi gli dà perché l’esamini il manoscritto d’un poema a cui lavora da anni e che ha intitolato Rifà il verso a piú voci ai poliziotti: corregge, elimina brani e cambia il titolo: The waste land. La lucente apertura del poema, quale è giunta a noi, cadeva al verso 56: “Aprile è il piú crudele dei mesi”. E corre subito la leggenda del lavoro poundiano ed Eliot gli dedica il poema: “Al miglior fabbro”. Ezra pubblica Sonnets and Ballade of Guido Cavalcanti e Homage to Sextus Propertius: il suo lavoro infastidisce i filologi e irrita i cattedratici; ma, con i suoi errori, che sono gli errori d’un creatore, spezza gli schemi della traduzione da copisteria e insegna a tradurre come modo di creare. Scopre i Nô e i Bokku giapponesi, inizia a tradurre K’ung fu-tzu e Li Po sulla base delle note che gli ha lasciato lo iamatologo statunitense Fenollosa, seguendo, però, un criterio opposto a quello seguito da Fitzgerald nella versione delle Rubà’iyyat di Umar Khayyàm e da Galland in quella delle Alf Layla wa Layla - Le mille e una notte. Ma questa attività frenetica non lo appaga e il suo spirito ribelle lo spinge verso altri sentieri: fonda l’“Imagismo”, poi il “Vorticismo”, mezzi per esprimere una forte e vigorosa protesta contro tutte le cose malate e moribonde. “L’uomo è un ponte sopra l’abisso”, ha detto Zarathustra, e Pound sta superando l’abisso. Nondimeno, non si ferma lì l’azione e l’opera del miglior fabbro. Rilegge Arnaut Daniel, Guglielmo di Poitiers, Falchetto da Marsiglia e annuncia l’attualità dello spirito romanzo; rimedita il misticismo di Riccardo di San Vittore, riscopre Cielo d’Alcamo; attraversa l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso concludendo che Dante, nel quadro teologico della sua epoca, aveva scritto la Commedia per costringere la gente a pensare; e fa di Lorenzo de’ Medici il suo eroe preferito. Alla fine, sfida le false avanguardie e proclama che “tutte le epoche sono contemporanee”. Bene ha osservato Allen Tate: Pound è uno spirito interamente votato ai tempi in cui i miti non erano soltanto belli, ma veri. Questa, a guardare con attenzione, è la ragione onde molti, anzi troppi, sovente in cattiva fede, l’hanno definito tradizionalista reazionario. La verità, viceversa, è che il figlio del Nuovo Mondo, dopo avere lottato disperatamente per mettersi alla pari della Tradizione del Vecchio Mondo, ha inteso spingersi oltre i confini della poesia pura, perché il suo sogno è il poeta-testimone, il poeta-guida, il poeta-profeta. Non sceglie l’azione come D’Annunzio, non si dà alla lotta sul campo come Malraux, non corre l’avventura come Hemingway; ma non rimane spettatore. Non ha raccolto il grido di Jennings Bryan, “Non crocifiggete l’umanità su una Croce d’oro”; viceversa s’è accostato alle idee di Clifford Hug Douglas, l’iniziatore della teoria economica del “Social Credit” e a quelle dell’economista tedesco Silvius Gesell. Ha frequentato Lincoln Steffens, il radicale americano che era arrivato a contrapporre alla classe dirigente americana Lenin e Mussolini, il pensiero del quale gli sembrava avesse significativi punti in 30 comune col sistema sociale del “socialismo corporativo” di Douglas. Ha pubblicato, perfino, un articolo sulla rivista di sinistra “New Masses”, s’è interessato a I dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Read, apologeta della Rivoluzione d’Ottobre. Insomma, Ezra è alla ricerca di principi e di idee che valgano a salvare il retaggio etico ch’era stato di Thomas Jefferson, John Adams, Van Buren, Abramo Lincoln. Alla fine, nell’altissima scansione lirica dei Cantos, il miglior fabbro costruisce l’edificio politico del suo Stato ideale, da cui dev’essere bandita l’usura, per lui simbolo di tutto ciò che v’è di disumano nello sfruttamento economico, scaturigine d’ogni corruzione e che conduce inesorabilmente alla guerra, a tutte le guerre. L’usura diventa, quindi, uno dei temi cardine, anzi il fulcro etico-morale dei Cantos, che cosí hanno il medesimo scopo dell’opera dantesca: costringere la gente a pensare: Dante lo raggiunge esprimendosi in termini religiosi-teologici, Pound dissotterrando le radici economiche, sociali e politiche. Dalla sponda dell’Europa, Pound osserva l’America: un colosso costituito da masse prive di senso critico e incapaci di rendersi conto dell’immoralità d’una rivoluzione industriale caratterizzata dalla legge spietata del superprofitto, sottomessa alla religione del dollaro. Allora, immerso nell’idea del “Rinascimento” americano, che anni prima l’aveva indotto a scrivere quell’atto di fede e d’amore per l’America che è Patria mia, scaglia i suoi dardi contro l’usura e gli usurai. E scrive: “Si deve stabilire la giustizia sociale, un ordine nuovo, avendo per base il lavoro. Con la morte di Lincoln il vero potere negli Stati Uniti passò dalle mani del governo ufficiale a quelle dei Rhotschild e altri del loro bieco consorzio. Il sistema democratico morì”. Il suo pensiero va a Francesco Bacone e a Mazzini, e s’illumina della grande frase di K’ung fu-tzu, Confucio: “Il tesoro di una nazione è la sua onestà”. Pound identifica la parte corrotta dell’America con Franklin Delano Roosevelt e col suo trust di cervelli; accusa l’uomo dei “discorso dal caminetto” di volere una nuova Guerra dei Trent’anni istigato dai fabbricanti di cannoni, e gli fa addebito d’aver scritto pagine che sembrano pagine di liberalismo e di tolleranza, quelle del “New Deal”, che sono invece pagine di menzogne. “Il signor Roosevelt – dice nell’Atto di accusa contro Roosevelt – è stato eletto dal popolo americano su promessa di tenerlo fuori dalla guerra; il signor Roosevelt ha sistematicamente sconfinato dai termini del suo ufficio”. Forse, il sogno del Poeta è quello dell’Utopia di Thomas More, il suo sdegno per gli usurai e gli sfruttatori è quello di Papa Innocenzo IV, che indusse il Concilio di Vienna a condannare il nichilismo di una società che non ha altro scopo che l’arricchimento. Cosí, mentre si fa oscura la visione della Patria, succuba d’un gruppo di potere cinicamente votato allo sfruttamento del popolo, l’entusiasmo di Ezra per il Mito Romano e le tavole della legge incise dal Fascismo probabilmente scaturisce dal suo vagheggiare un ordine nuovo, a cui sia estraneo il peccato capitale del mondo, l’usura, marciume che corrompe le coscienze disfacendo la società. Perfetto impolitico è Pound, non perché ignori Machiavelli e Toqueville, ma perché non concepisce un potere separato dalla morale: a ben guardare, è un moralista della genia di Montaigne e di Pascal. Ecco, dunque, quale è stata la sua battaglia dai microfoni dell’EIAR: non una battaglia contro l’America, ma contro i nemici interni, ossia i profittatori, i mercanti di cannoni, i fomentatori di guerre, in una parola, gli usurai. Alla fine, ecco che i vincitori chiamano il vinto che ha parlato dalla radio dei vinti a discolparsi dei suoi slanci utopici, del suo senso di equità sociale, del suo sogno ideale, come gli Arconti-giudici chia- 31 marono Socrate. Però, chiamano lui solo, perché lui solo s’è esposto vivendo le contraddizioni del tempo. “Ben folle è quegli che a rischio della vita onor si merca”, è il verso tragico dell’Abate Parini. Solo lui ha voluto essere poeta-testimone, poeta-guida, poeta-profeta; mentre gli altri, da Kipling a Shaw, da Lawrence a Eliot, da Belloc a Yeats, dall’altro Lawrence, quello d’Arabia, a Wyndham Lewis, i quali pure avevano fatto le sue scelte, prudentemente avevano indossato l’abito dei voltagabbana e recitato miserabili mea culpa. Al pari di certi intellettuali d’Italia, che Leo Longanesi bollò di becero trasformismo, scoprendone la propensione a… soccorrere i vincitori. E, tuttavia, ora che il prigioniero, reso martire dalla gabbia infame di Coltano, dove ha per compagno soltanto un libro di Confucio, non vuole fare autocritica, né vuol rinnegare nulla, non bisogna offrirgli una tribuna da cui possa spiegare le sue opzioni ideologiche, e possa, ancora una volta denunciare le trame dei falchi e scagliare rampogne contro le vili colombe. È imbarazzante chiedere che beva la cicuta. E, poi, è fastidiosa la voce di Usher L. Burdick, che al Congresso denuncia la violazione del V, VI e VIII Emendamento ai danni del Poeta. E provoca disagio la constatazione del rappresentante del popolo americano secondo cui molti inorridiscono per il fatto che Pound era riuscito a ottenere dal nemico quella libertà di parola che non si sarebbe stata concessa dall’amministrazione roosveltiana; inoltre, che non può essere incolpato di tradimento giacché il Governo gli aveva impedito di lasciare l’Italia con un convoglio diplomatico al momento dell’entrata in guerra proprio per la sua accertata ostilità nei confronti dell’amministrazione di Roosevelt. Con brutale coerenza, l’Inquisizione ebbe il coraggio di mandare al rogo Jan Huss e il filosofo di Nola, ma, oggi, i guerrieri vincitori non hanno il coraggio di mandare Ezra alla sedia perché non vogliono riconoscere che mai era stato istituito un Tribunale che giudicasse i colpevoli della prepotenza internazionale, dal Poeta messi alla gogna. Allora, se al poeta non si può negare la grandezza, se all’idealista non si può rubare il sogno, si può, invece, rubare la ragione all’uomo: alla fine, c’è una raffinata e antica giustificazione letteraria: ogni poeta è genio e sregolatezza. Bene. Non c’è altro da fare, si deve mettere la camicia di forza a Pound e bisogna gettare al fuoco il libro che ha osato dare alle stampe: L’Asse che non vacilla. Vecchio pazzo: s’è infatuato per l’Asse RomaBerlino-Tokio. Allora, un fuoco, un bel fuoco. Erostrato non è solo. Peccato, però: i vincitori non sanno che l’aveva scritto una ventina di secoli prima L’Asse che non vacilla K’ung fu-tzu. Se, poi, col trascorrere degli anni, il vecchio pazzo rinchiuso nell’ospedale per matti dovesse diventare un scheletro nazionale nell’armadio, inducendo qualche petulante redattore di “Life” o di “Esquire” a farne un caso, si potrebbe accogliere l’appello per la liberazione firmato da Frost, Lowelll, Eliot, Hemingway, Cummings, Tate, Borges, Paul Morand e cento e cento altri intellettuali di tutto il mondo; dai giurati radicali, repubblicani, liberali e democratici i quali – col solo voto contrario dell’ebreo Shapiro – gli hanno assegnato il Premio Bollingen. Poi, ci sono anche gli italiani – Repaci è il capomanipolo – che saltabeccano come tacchini attorno al tavolo delle firme, ansiosi di rifarsi una verginità e comparire tra cotanto senno. Ma ora il Vate sconfitto sta in silenzio, perché v’è un tempus tacendi e un tempus loquendi: censori ipocriti, dicono ch’è il silenzio del rimorso perché vogliono far dimenticare che la follia di Pound l’hanno decisa gli usurai pseudo democratici che si preparano a costruire cannoni per la prossima guerra. Il Viet-Nam è un ricordo che ancora brucia… Disgraziatamente, i vincitori di Norimberga continuano a erigere patiboli, perchè non ascoltano l’ammonimento di Eschilo: “Solo rispettando i templi dei vinti, i vincitori si possono salvare”. 32 Manifesto del vivere civile LA RISCOPERTA DI DIO, PATRIA E FAMIGLIA SECONDO VENEZIANI Ciriaco M. Viggiano ha parlato con l’A. del suo ultimo sforzo morale e intellettuale uardare oltre. Ri-costruire, ri-generare. Magari anche recuperando categorie del passato, ma pur sempre compiendo un coraggioso atto di rifondazione. A suggerire la strada, ancora una volta, è Marcello Veneziani col suo ultimo libro «Dio, Patria e Famiglia» (ed. Mondadori, pp. 151). Uno sforzo morale ed intellettuale, che il filosofo e giornalista pugliese compie dopo una disincantata analisi del progressivo ed inarrestabile declino di cui sono stati protagonisti i valori fondanti della nostra civiltà. Anzi, di qualsiasi civiltà. Perché è sul culto del sacro, sull’amor patrio e sul rispetto della tradizione che si fonda necessariamente ogni comunità civile. Una nazione non può trovare altro presupposto se non nell’autorità che definisce la libertà ed evita che quest’ultima degeneri in anarchia, nel rispetto di un confine che non è solo geografico e politico ma anche umano, spirituale e culturale. Venuto meno il senso del limite, la società di avvia al declino. Partiamo da Dio. La società contemporanea l’ha messo in soffitta, costringendolo ad un ruolo tanto marginale da far parlare addirittura di «cristofobia». Il Crocifisso, simbolo più alto dell’amore di Dio, rimosso dalle scuole e dagli uffici pubblici; la devozione religiosa occultata; i luoghi di culto deserti. Al posto di Dio, morto proprio come aveva annunciato Nietzsche, l’uomo contemporaneo ha scelto il denaro come unica ragione di vita. I giovani, per i quali Dio non è altro che il retaggio di un’infanzia lontana oppure una parola priva di significato, hanno deciso dio votare la vita al culto dionisiaco del piacere. Niente progetti, ambizioni o valori: ciò che conta è varcare il limite, violare le regole della vita, della natura e della legge, assecondare ogni impulso o desiderio. E così, come scrive Veneziani, Dio è stato decapitato e sostituito dall’Io. In questo modo, la massima di Dostoevskij, secondo la quale «senza Dio tutto è permesso», ha trovato piena realizzazione: senza il sentimento del sacro, senza il timor di Dio, senza il vincolo morale e spirituale imposto dalla religione, l’uomo diventa capace di commettere qualsiasi nefandezza e la società si mette sulla strada che porta alla barbarie. Non è andata meglio alla patria, distrutta dalla perdita di senso del sacro e dal dominio della finanza. Non esiste più la patria, ma solo il mercato. Nell’epoca dei governi tecnici, è a quest’ultimo che i governanti devono rispondere. Il benessere della società è misurato in base al differenziale di rendimento tra i titoli di Stato, i mercati approvano o respingono ogni progetto di riforma, la «troika» regge le sorti delle nazioni escludendo la libera determinazione dei popoli. Una realtà desolante alla quale, secondo Marcello Veneziani, manca un antidoto: «Balenano solo vaghe invocazioni di rifugi: nella democrazia, per taluni, o peggio nel triangolo partiti-sindacati-intellettuali; nella religione, per altri, che però è avvertita al tramonto, almeno da noi dove si è spento il Dio storico che si fece Provvidenza, fede e monoteismo. O combinando prospettive fumose di democrazia, ecologia, diritti umani e spiritualità». Il declino sembra non aver risparmiato nemmeno la famiglia, sempre più spesso sostituita da unioni occasionali. Veneziani aveva colto questo fenomeno già in «Rovesciare il ‘68» quando ave- G 33 va sottolineato come, nella società post-sessantottina, tutto sia «secondario, relativo e reversibile, a eccezione di se stessi». La perdita del senso della misura, coniugata alla golosità bambina ed al rifiuto di ogni assunzione di responsabilità, ha abbattuto la fondamentale istituzione familiare a colpi di sesso morboso, aborti e divorzi. Marx e Lenin sarebbero contenti: siamo ormai prossimi all’abolizione definitiva della famiglia, del matrimonio e della figura-cardine del pater. La crisi della cellula fondamentale della società, tuttavia, non è un buon motivo per invocarne la dissoluzione. Nonostante tutto, la famiglia resta l’istituzione che contribuisce a dare all’uomo una prospettiva e un’eredità. Non c’è futuro senza famiglia, non c’è avvenire senza tradizione. A chi o cosa dobbiamo addebitare la dissoluzione della triade su cui si fonda la società? Il declino di Dio, Patria e Famiglia è legato innanzitutto al materialismo di marca comunista ed al nichilismo imperante nella nostra epoca. A questo si è aggiunta l’ideologia permissiva del Sessantotto, caratterizzata dalla cieca contestazione del principio di autorità: è così che i vincoli legali, morali e spirituali sono venuti meno, facendo posto ad una becera forma mentis per la quale tutto è sempre e comunque permesso. Gli egoismi personali, portato della moderna società consumistica, hanno fatto il resto. Come rifondare la società dando un valore nuovamente vivo e profondo a Dio, Patria e Famiglia? Veneziani suggerisce un decalogo di suggerimenti, di cui vogliamo qui evidenziare il nono: «la dignità prevalga sulla sopravvivenza a qualsiasi prezzo». Un invito a dare alla vita un significato preciso e, soprattutto, uno scopo degno. Nella speranza che tutti lo accolgano, a cominciare dai politici. Insieme a Marcello Veneziani, a Napoli per ritirare il prestigioso premio CapriEnigma, abbiamo voluto affrontare alcuni temi trattati in «Dio, Patria e Famiglia». A cominciare dal rapporto tra Apollo e Dioniso, su cui Veneziani ha voluto incentrare la sua prolusione sull’Ordine e sulla Bellezza. Perché oggi trionfa Dioniso ai danni di Apollo? In quali epoche l’ordine ed il bello hanno primeggiato sul caos e come si è determinata questa odiosa inversione di tendenza? «Dioniso è sempre in agguato dietro Apollo e talvolta bisogna dare ascolto alla sua esplosione di vitalità, incanalando il suo desiderio d’infinito, di sublime, contenendo la sua voglia di trasgressione e di misuratezza e frenando la sua sete di caos e distruzione. Apollo rappresenta l’ordine, l’armonia e la bellezza, ed è dunque un dio fondativo; le civiltà migliori hanno saputo fondarsi su principi apollinei, magari consentendo spazi di liberazione delle energie dionisiache, come valvole di sfogo e catarsi. La 34 nostra invece è un’epoca in preda ai deliri di Dioniso, che risulta essere l’unica alternativa all’automatismo sovrano della tecnica e dei consumi». Sulle pagine del Giornale, ha scritto che Dio Patria e Famiglia «servono ancora»: qual è il loro valore al giorno d’oggi? Qual è il loro valore rispetto alle epoche passate? «Non è mai esistita una civiltà che non abbia avuto a suo fondamento il legame religioso, il legame patrio e il legame famigliare. Sono tre dimensioni costitutive della vita umana e della vita civile. Oggi tendiamo a ripensarle attraverso le loro degenerazioni, il fanatismo teocratico, il nazionalismo razzista, il familismo amorale. Ma di ogni cosa è possibile vedere la sua degenerazione: in questa logica dovremmo cancellare l’amore perché dà luogo spesso a violenze, soprusi, delitti, stalking… Non si può, in realtà, demolire un principio di vita sulla base del suo uso distorto». Dio, Patria e Famiglia sono stati protagonisti di un inarrestabile declino: quanto ha pesato l’assenza di conservatori autentici e coraggiosi, da Lei invocati anche in «Rovesciare il ‘68», in questo processo apparentemente inarrestabile? C’è un personaggio, oggi, che secondo Lei incarna questi valori? «Non ho voluto scrivere un manifesto politico su quei tre principi e ho anzi paura a usarli nel presente perché non saprei dove rintracciare i suoi ipotetici affermatori; con lo spettacolo che vediamo meglio viverli nella dimensione personale, interiore e comunitaria, ma senza trascinarli nella lotta politica. In ogni caso ci sono tanti esempi ammirevoli, avrei difficoltà a indicare grandi modelli viventi. Sarei ovvio se dicessi Benedetto XVI e pochi altri, in versione laica». Che rapporto c’è tra la dismissione di Dio, Patria e Famiglia e l’evidente scadimento della classe politica italiana? Non crede che, deposti i tre fondamentali valori che dovrebbero accomunare tutte le forze politiche, sia venuto meno un legame fondamentale tra eletti ed elettori? Non crede che anche questo abbia contribuito a spianare la strada alla seconda Tangentopoli italiana? «Credo che ci sia un preciso nesso, una rigorosa relazione. Penso che il degrado politico e sociale sia dovuto all’aver sostituito quei tre principi fondativi con un’altra trinità: il dominio mondiale della tecnica, il primato assoluto dell’economia e infine la fede nell’Io, che è poi un Dio che ha perso la testa. L’egoismo universale sta distruggendo le basi della vita personale e comunitaria. Tangentopoli è solo uno degli effetti di questa perdita totale di riferimenti superiori rispetto all’io. Se al centro di tutto c’è l’individuo alla fine non resta che dare priorità assoluta agli interessi personali, ai porci comodi e al proprio interesse. Perfino la corruzione politica ha seguito una parabola: dai corruttori per una grande causa, come fu un Enrico Mattei, patriota e imprenditore pubblico, ai corrotti per ragioni id partito come accadde con la prima repubblica, per arrivare ai corrotti per uso personale, che sono i presenti». Pochi mesi fa, Lei ha aderito al «Progetto Itaca» lanciato da Renato Besana. Che rapporto c’è tra il suo ultimo libro e questo nuovo progetto politico? Il Suo libro ambisce a diventarne il manifesto? «In realtà, ho lanciato un appello a tutte le destre e poi, insieme a Renato Besana, ho dato vita al progetto Itaca. È stato, per quel che mi riguarda, un modo per testimoniare il mio dissenso da questa destra in disfacimento, per incitare le sue componenti migliori (se ancora c’è qualcosa di vivo in giro) a dar luogo ad un nuovo movimento di idee prima che politico. Ma il mio libro si muove su altre lunghezze, non intende farsi manifesto di alcun movimento nascente, mai nato o morente». 35 La privacy è al capolinea Luigi Iannone ronunciarsi sul tema della privacy significa non solo tracciare i contorni di uno degli elementi fondativi del moderno processo di civilizzazione, e cioè quello della tecnica, ma anche ridisegnare le nuove sfide che il diritto deve affrontare, nel tentativo di regolare le irrefrenabili mutazioni della società dell’informazione e i relativi processi democratici. Perché nella società contemporanea lo sviluppo della tecnologia sta diventando sempre più multiforme ed invasivo, mettendo a dura prova le democrazie avanzate le quali fanno sempre più fatica a confrontarsi con esso. Negli ultimi anni, lo sviluppo della tecnologia ha acuito l’esigenza di normative che potessero difendere la privacy ma le soluzioni adottate sono state contraddittorie. Nella maggior parte dei casi sono sembrate un passo indietro rispetto al progresso ‘delle macchine’ e quindi insufficienti; in altri casi, timide nel timore che le libertà individuali potessero essere intaccate; in taluni limitati casi, pericolosamente contigue a scelte liberticide. È evidente, almeno al momento attuale, che la dinamica sempre più perversa tra le applicazioni della tecnologia e la presa di coscienza individuale e collettiva su tali temi, rende tortuosa qualsiasi fissità normativa. Cioè rende ogni soluzione legislativa adeguata per il presente, ma emendabile già nell’immediato futuro. Ciò accade perché il legislatore si trova ad operare in un mondo in continua trasformazione e il suo cammino e le sue scelte, a volte anche a sua insaputa, rischiano di essere letali per i diritti dei singoli e per la democrazia nel suo complesso. Io ritengo che si dovrebbe tener fisso davanti un unico concetto, quello dello sviluppo sostenibile, applicandolo in ogni campo dell’agire umano. Una tesi che può sembrare molto vaga nella sua cornice ideologica ma che, con fatica, dovremmo quotidianamente riempire di contenuti razionali e realistici dato che non possiamo ritenere la crescita economica l’unico indicatore su cui misurare il progresso dell’umanità. Elementi immateriali, come l’esercizio della libertà in tutte le sue forme, non possono più essere circoscritti nell’ambito della pura teoria ma devono essere messi al centro del dibattito dell’opinione pubblica e far parte degli indicatori principali di un nuovo modello di sviluppo. Ciò che dunque serve è una svolta anche da un punto di vista etico, con conseguenti scelte razionali e di buon senso, ponderate dal punto di vista legislativo. Tuttavia, se ci guardiamo intorno, le questioni sono tutte sul tavolo e sembrano di non facile soluzione. Quando parliamo di privacy c’è innanzitutto un evidente problema legato alla sicurezza e quindi alla riservatezza delle informazioni che si divulgano indipendentemente dalle contromisure che noi possiamo adottare. La rete è, per fare un esempio paradigmatico, uno degli strumenti attraverso i quali si manifesta la pervasività del progresso tecnologico, che si amplia vertiginosamente senza che istituzioni, politica o società civile si pongano il problema in maniera risolutiva. Noi tutti sia- P 36 mo consapevoli che il web è anche uno strumento fondamentale per promuovere la democrazia ma operare su di esso può farci incorrere in due tipi di problematiche contrapposte. Da una parte, si trovano soluzioni provvisorie e insufficienti che non risolvono le problematiche che la rete ci impone. Dall’altra, sentiamo come sempre più urgente la necessità impellente di una rigida regolamentazione ma da qui a passare ad una sorta di bavaglio, una censura (magari per combattere rischi seri come il cyber-terrorismo) che implicitamente limiterebbe l’espressione del libero pensiero, il passo è davvero breve. Adottando, infatti, una misura di questo genere, c’è il rischio di confondere la necessità di sicurezza con il tentativo di mettere sotto silenzio notizie scomode che potrebbero invece contribuire a formare il giudizio dei cittadini su quanto avviene intorno a loro. E l’incidenza del web sui processi politici del Nord-Africa, dove il tentativo di moltiplicare il bavaglio per ragioni di sicurezza interna è stato controproducente, ha chiarito come la rete possa essere un chiaro spazio di esercizio democratico. Ma i diritti individuali vanno anche difesi e non solo declamati come se fossero delle rime dantesche. Una quota di responsabilità devono perciò assumersela i cittadini. Molte delle nostre azioni quotidiane sono infatti poco accorte e vengono ancora compiute come se vivessimo nella prima metà del secolo scorso. È quindi anche un problema di educazione personale. In passato, eravamo tutti più accorti e gelosi dei nostri sentimenti, delle nostre disgrazie (o successi) personali e professionali. Ora avviene l’inverso, in special modo con i social-network. Tutti vogliamo difendere la privacy ma siamo pronti a gettare in pubblico, come si usa nella società dello spettacolo, ogni piccolo prezioso anfratto della nostra anima. In realtà, la trasformazione della società è molto più potente e veloce del nostro grado di prudenza e di accuratezza. Il mondo è cambiato e con esso, purtroppo, dovremmo via via modificare anche taluni nostri atteggiamenti. Il controllo sui telefoni cellulari, il telepass sulle autostrade, l’accesso ai centri storici cittadini grazie a delle card personalizzate, la telesorveglianza in luoghi pubblici, la televisione digitale interattiva, le memorie elettroniche, tutti i sistemi di rilevamento dei dati, le reti di comunicazione, le banche dati che gestiscono informazioni in tema di sanità (pensiamo ai casi limite della mappatura del Dna o ai trapianti di organi), una volta violati, possono menomare l’uomo nella sua identità e compromettere libertà di scelta e relazioni sociali. Tuttavia, come dicevo in precedenza, essa rappresenta solo una quota di responsabilità. Il punto centrale è che, nelle società moderne, oltre allo spaesato cittadino, anche il legislatore si trova di fronte a due dilemmi insormontabili. Aspetta che la tecnologia faccia il suo corso e quindi adegua passivamente le leggi al fluire del progresso scientifico; oppure, cerca di prevenire gli ipotetici danni, mettendo limitazioni e freni, di conseguenza intaccando le libertà. In entrambi i casi, esistono vantaggi ma anche sostanziali svantaggi: nel primo, l’autonomia del cittadino è minacciata dalla tecnica; nel secondo, dalle leggi. Dunque, per adesso, le istituzioni democratiche, cercando un equilibrio virtuoso, si muovono con fatica tra le dinamiche del progresso scientifico che hanno sempre un forte impatto sociale e quelle relative alla libertà personale. La speranza è che il buon senso, la ragionevolezza e il realismo prevalgano, ma ho forti dubbi sul fatto che l’uomo non si faccia definitivamente sovrastare dal mito del progresso indefinito e che, per questo, sia pronto a rinunciare a dosi sempre più massicce di democrazia e libertà. AL CENTRO DEL GIORNALE 37 Rapporto Svimez 2012 Ombre sul Mezzogiorno che si allungano sul Mediterraneo Il Mezzogiorno, secondo l’ultimo Rapporto Svimez, è sempre più a rischio desertificazione industriale e segregazione occupazionale. I consumi non crescono da quattro anni e meno di una giovane donna su quattro lavora ufficialmente. La proposta per il Sud, lanciata dagli studiosi che ogni anno si confrontano sul tema, dovrebbe essere capace di integrare sviluppo industriale, qualità ambientale, riqualificazione urbana e valorizzazione del patrimonio culturale. Nel Mezzogiorno, il tasso di occupazione giovanile per la classe 25-34 anni è giunto nel 2011 ad appena il 47,6%, pari cioè a meno di un giovane su due, a fronte del 75% del CentroNord, cioè di 3 impiegati su 4. Situazione drammatica per le giovani donne meridionali, ferme nel 2011, al 24%, pari a meno di una su quattro in età lavorativa, che spinge le stesse di fatto a una segregazione occupazionale rispetto sia ai maschi che alle altre donne italiane. Strettamente connesso con il fenomeno della disoccupazione è quello della migrazione. In dieci anni, dal 2000 al 2010, oltre 1 milione e 350mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno. Tra questi sono da considerare i pendolari di lungo raggio, che nel 2011da Sud a Nord sono stati quasi 140mila, seimila in più rispetto al 2010. Si tratta di persone con lavori precari che mantengono la residenza a Sud ma lavorando al CentroNord o all’estero, falsando le rilevazioni sulla disoccupazione nell’area. § La diagnosi e le terapie della Svimez in occasione del Rapporto annuale per il 2011 Massimo Lo Cicero1 1. Lo stato delle cose Le parole chiave della diagnosi sulla situazione dell’economia meridionale, formulata nell’ultimo rapporto della Svimez, quello relativo al 2011, sono tutte molto inquietanti: desertificazione industriale; consumi stagnanti da quattro anni, cioè dal 2007; mezzo milione di posti di lavoro in meno tra il primo semestre del 2007 e quello del 2012; solo una donna su quattro trova un lavoro sul mercato ufficiale. Nel 2011 il tasso annuale di crescita nel Mezzogiorno ristagna prossimo allo zero (0,1%) mentre quello del Centro Nord rimane inconsistente, si limita allo 0,6%: ma, anche nella recessione, la perfor- 38 mance del Sud è peggiore della tenuta del Centro-Nord del paese. Cioè distante dal 6% di crescita che registra il Centro-Nord. Nel medio periodo le cose vanno ancora peggio: negli ultimi dieci anni, dal 2001 al 2011, il Mezzogiorno è rimasto fermo (0%) rispetto ad un mediocre 0,4% del Centro-Nord: un dato che rivela la dimensione stagnante dell’economia italiana, e non solo in ragione della crisi apertasi nel 2007/2008. Marche e Lazio sono state le regioni più “dinamiche” dell’economia italiana, ma comunque con tassi di espansione ridicoli (rispettivamente 0,6% ed 1,1%); in coda a questa graduatoria “miserabile” si trovano Piemonte (0% medio annuo) ed Umbria (0,1%). Detto in altre parole, in soli cinque anni, dal 2007 al 2012, il pil del Mezzogiorno è crollato del 10%, tornando ai livelli di quindici anni prima, il 1997. La divaricazione della crescita, come si è già detto in altre sedi, non avviene più tra Nord e Sud ma tra il Mezzogiorno, ed il Nord Ovest, con una enfasi su Piemonte e Liguria, mentre l’area del Nord Est, ed alcune regioni a Nord del Lazio, la Lombardia, le Venezie, la Toscana crescono moderatamente ma non ristagnano. Nel 2011 il Nord-Est, con un incremento dell’1% del proprio pil, rappresenta la zona di area vasta dinamica nell’economia italiana. Il Centro è rimasto fermo, come il Sud allo 0,1%. Se vogliamo prendere in esame la divaricazione tra le regioni italiane, invece, nel Mezzogiorno si osserva, nel 2011, una oscillazione tra il boom della Basilicata (+2%) e la flessione del Molise (-1,1%), che accusa una crisi del tessile e dell’abbigliamento nella propria struttura industriale. La Basilicata sarebbe, dunque, la regione “virtuosa” nella crescita, nel Sud, mentre la crescita più significativa, sempre nel Sud, si registra in Abruzzo (+1,8%), che conferma l’incremento dell’anno precedente (+1,7%). Modesti segni positivi in Sardegna (+0,9%) e Puglia (+0,5%). In calo la Calabria (-0,7%), la Campania (-0,6%), e la Sicilia (-0,2%). Insomma, un polo del Nord Est, che si protende verso l’Emilia e la Toscana, e si collega al sistema economico della Germania, e 39 dei suoi satelliti: i Paesi baltici, i Paesi bassi, le economie che si frappongono tra la stessa Germania e la Russia. Ed un polo centromeridionale dove il Lazio ed il Molise ristagnano mentre l’Abruzzo gira a regime. Gli scarti tra le regioni meridionali sono variazioni minimali intorno allo zero o poco più. Non si tratta solo di una fotografia congiunturale, non sono solo le conseguenze della lunga crisi recessiva che ha fatto seguito alla prima crisi finanziaria globale, quella del 2007/20082. Dicono, in sintesi, gli analisti della Svimez che “La dinamica complessiva dell’ultimo decennio mostra come ci sia stata una interruzione del processo di accumulazione del (nostro) Paese, soprattutto per la progressiva erosione della spesa pubblica in conto capitale. Dal 2001 al 2011, il processo di investimento è risultato complessivamente negativo sia nel Mezzogiorno che nel resto del Paese. Il tasso di variazione cumulato degli investimenti fissi lordi negli ultimi dieci anni è stato pari al Sud a -1,4%, mentre nel Centro-Nord la variazione negativa è risultata molto maggiore (- 5,0%). Questo divario è completamente riconducibile alla maggiore caduta dell’accumulazione di capitale nel Centro-Nord negli anni di crisi: se nel periodo 2001-2007 il tasso medio di crescita della spesa per investimenti è stato pari a 1,6% nel Mezzogiorno e a 1,9% nel resto del Paese, nel periodo 2008-2001 le dinamiche si invertono, con un calo nel Mezzogiorno (-3,0%) meno forte che nel Centro-Nord (-4,5%). 40 L’accumulazione di capitale è frenata dalle incertezze sulla ripresa dell’attività economica e sull’andamento del ciclo internazionale, dalla presenza di ampi margini di capacità inutilizzata dopo la flessione del 2009 e infine, specie dall’estate 2011, dalle tensioni sui mercati finanziari”. Da quattro anni i consumi nel Mezzogiorno non crescono. Il loro livello risulta inferiore, in termini reali, di oltre 3 miliardi di euro rispetto al 2000. Il calo reale dei redditi delle famiglie, unito alla flessione dei consumi pubblici e alla incertezza sulle prospettive del mercato del lavoro, pregiudica le eventuali, ma improbabili, prospettive della domanda interna nel 2013. Nelle due tabelle precedenti (la figura 1 e la figura 2) si leggono sia le dinamiche macroeconomiche del decennio alle nostre spalle che gli scarti che hanno ridimensionato l’economia delle regioni italiane dopo la crisi del 2007. Mentre le ulteriori tre tabelle, tutte riprodotte dal testo del rapporto Svimez per il 2011, indicano le modificazioni relative alla dinamica dei consumi ed a quella degli investimenti. Si tratta della figura 3, della figura 4 e della figura 5. 2. Un giudizio sulle politiche possibili e necessarie nel medio e lungo termine Il Mezzogiorno presenta una condizione critica per una ragionevole ripresa della crescita ed un consolidamento della sua base economica. Ma anche l’Italia presenta ormai squilibri significativi dopo venti anni di bipolarismo federale e di federalismo inconsistente e velleitario. Il primo ha generato federazioni elettorali, ex-ante, che si frantumavano alla prova del governo, una volta ottenuta la maggioranza parlamentare. Il secondo ha esaltato il localismo e la retorica assembleare dei “parlamenti” regionali ed ha frantumato, amministrativamente, processi economici che percorrono in termini longitudinali tutta la nostra economia. Una economia che non si articola in isole ed arcipelaghi ma che presenta potenti correnti carsiche che ne connettono i sistemi produttivi e le relazioni di scambio. Come si può e si deve leggere, oggi e dopo un ventennio così inconcludente, la struttura economica del Mezzogiorno? Al centro del Mezzogiorno si colloca la grave condizione della Campania, penultima della graduatoria ottenuta dai dati della Svimez. Al centro della Campania si trova l’area metropolitana di Napoli. Quella che gli illuministi del settecento indicavano come la testa, deforme e sproporzionata, di un corpo reso esausto dalla progressiva sottrazione di risorse da parte della capitale rispetto al resto del regno. Il fatto nuovo, e paradossale, è che la stessa deforme asimmetria tra la testa del Mezzogiorno, Napoli, e la sua economia sia oggi ribaltata in termini ancora più negativi. Napoli non ha oramai funzioni urbane qualificate: è un’area metropolitana deindustrializzata, priva di un sistema bancario endogeno, un grande mercato di consumo dove convivono due strutture sociali in ragione di una sperequata distribuzione dei redditi (troppa popolazione dal basso reddito procapite e troppa poca popolazione ad alto reddito pro capite) e di una larga estensione del lavoro neo e delle attività criminali. 41 Non è troppo affermare che Napoli presenti tutte le caratteristiche di una metropoli di tipo sudamericano, come Caracas nel Venezuela. Con standard certamente peggiori delle grandi aree metropolitane del Brasile, un’altra economia in forte espansione nel continente sudamericano. L’unificazione delle due province interne della Campania, disposta dal Governo, ha preceduto la formazione, che pure sarebbe già stata possibile, della creazione della città metropolitana di Napoli: un primo tentativo per ridare ordine e razionalità alle sue molte patologie. La Campania, in sintesi e nel suo insieme, presenta il 18%, sul totale nazionale, della disoccupazione italiana, ed una larga area grigia di mercato informale ed illegale del lavoro; un 10% della popolazione ed un valore nell’ordine del 6,5% del reddito prodotto. Sempre facendo cento il totale dell’economia italiana. Si tratta di una regione evidentemente ipertrofica sul piano demografico, ipotrofica nella dimensione della propria base economica, dalla mediocre produttività per addetto. Essendo la quota percentuale degli occupati superiore a quella del reddito prodotto. A questa economia, squilibrata nei suoi fondamentali (la base economica, la dimensione demografica, la intensità della produttività media del lavoro), si affianca una ulteriore patologia. Alla crescita del prodotto procapite, comunque molto stentata, si è affiancato negli ultimi venti anni un trasferimento di fondi pubblici, a vario titolo erogati, che ha allargato la dimensione del reddito come spesa aprendo un divario profondo rispetto al reddito come prodotto generato dal lavoro locale. Questo squilibrio ulteriore, tra reddito, come capacità di spesa e reddito, come prodotto lordo interno, ha generato una patologia addizionale: ha trasformato la nostra economia regionale in una “pentola bucata”. Una economia che consuma più di quanto produca. Questa forma degenerativa dell’equilibrio con i conti con l’estero, della nostra regione, si è esteso negli ultimi venti anni prima all’intero Mezzogiorno e, progressivamente, anche all’intera economia italiana3. L’Italia, avvitandosi in una progressiva caduta della propria produttività, è essa stessa, oggi, una economia che consuma più di quanto produca. Solo la congiuntura recessiva, che deprime consumi ed importazioni, ci ha evitato, negli anni immediatamente alle nostre spalle, di vedere dilatarsi ulteriormente questo fenomeno negativo. Se, allora, il Mezzogiorno, ma anche l’economia italiana nel suo complesso, sono diventate entrambe “pentole bucate” sembra avere poco senso insistere sul tema del dualismo tra Nord e Sud ed, in particolare, sul recupero del divario tra la crescita al Nord ed al Sud del paese. L’economia italiana si trova, infatti, come sappiamo da oltre un anno, in una posizione border line rispetto alle altre economie europee. La fragilità della propria finanza pubblica e la fiacchezza della base economica nel suo complesso – nonostante siano presenti nel nostro tessuto economico imprese capaci di aggredire i mercati esteri e produrre in regime competitivo, anche in presenza di una frantumazione eccessiva delle dimensioni medie di impresa e di una quotazione “forte” dell’euro rispetto al dollaro – impongono alla politica economica italiana di integrarsi con una politica comune dell’intera area dell’euro e di proiettare il Mezzogiorno, ed il resto d’Italia, sul percorso della crescita e di una riduzione dei divari tra l’Italia ed il resto dell’economia europea. Abbandonando la dimensione domestica di una politica di sviluppo che si ripiega, altrimenti, solo nel tentativo di ridurre lo scarto tra le due economie, che hanno accompagnato, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, la crescita italiana: dividendola tra Nord e Sud. Un processo di integrazione europea che includa e non marginalizzi l’Italia – ponendola ai limiti della regione inclusa nel triangolo compo- 42 sto dalla Germania, dai Paesi baltici e dalla Russia – offrirebbe, al contrario, la piena opportunità di sviluppare, attraverso la parte meridionale del nostro Paese, e lungo il confine naturale del Mediterraneo, una porta di accesso alle trasformazioni ed agli scambi che l’Europa come un tutto, dovrebbe realizzare con culture ed economie diverse dalla propria. 1 Economista, Docente presso le Università La Sapienza, Tor Vergata e Suor Orsola Benincasa. Su questa diversa interpretazione della geopolitica del dualismo nell’economia italiana si rimanda a Massimo Lo Cicero, Sud a perdere? Rimorsi, rimpianti e premonizioni, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2010. Ed anche ad AA.VV. (a cura di Maurizio Serio) La prospettiva del meridionalismo liberale. Politica, istituzioni, economia, storia, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2012 3 Si legga AA.VV. (a cura di Riccardo De Bonis, Zeno Rotondi e Paolo Savona), Sviluppo, rischio e conti con l’estero delle regioni italiane, Editori Laterza, Roma – Bari 2010 2 § Neo-dualismo e Ambiente: un caso di problemi non condivisi Cesare Imbriani e Piergiuseppe Morone Il progressivo miglioramento delle condizioni ambientali, conseguito attraverso processi virtuosi di sviluppo sostenibile, rappresenta uno dei banchi di prova più difficili non solo per l’Italia ma per l’Unione Europea in generale. Nonostante gli sforzi profusi, nel corso degli ultimi decenni i danni all’ambiente si sono amplificati notevolmente. Ogni anno, negli Stati membri dell’Unione europea, sono prodotti circa 2 miliardi di tonnellate di rifiuti e si registrano aumenti del livello di biossido di carbonio e del consumo di energie inquinanti. Anche l’Italia ed il suo Mezzogiorno, stretto tra l’emergenza economica e quella ambientale, condividono la preoccupazione per i problemi dell’ambiente con gli altri paesi economicamente avanzati. Per il Mezzogiorno, la salvaguardia e la valorizzazione delle risorse ambientali è un prerequisito allo sviluppo; non è più pensabile uno sviluppo di questa parte dell’Italia senza strutture a livello dei migliori standard europei. Nonostante la recente (e meno recente) narrativa economica ci consegni un Mezzogiorno con seri elementi di preoccupazione, nel corso dell’ultimo decennio, le differenze tra lo sviluppo del Mezzogiorno e quello del resto del paese non si sono acuite: anzi, dalla metà degli anni Novanta in poi, il prodotto nel Mezzogiorno è cresciuto sostanzialmente agli stessi ritmi di quelli del Centro Nord. Ciò ha indotto chi scrive a parlare di problemi condivisi tra Nord e Sud del Paese. Sebbene, in sintesi, il Mezzogiorno sembra essere stato maggiormente colpito rispetto alle regioni del Nord dall’intensificarsi della concorrenza internazionale (verosimilmente per motivi di composizione settoriale, per una minore presenza nei mercati emergenti e per una dimensione media delle imprese inferiore a quella del Centro Nord), alcuni indicatori territoriali e ambientali elaborati dall’Istat lasciano identificare ambiti in cui il Mezzogiorno presenta sostanziali miglioramenti 43 rispetto al passato seppur con valori ancora sfavorevoli rispetto a quelli del Centro-Nord. Tuttavia, da una attenta analisi del nesso inquinamento/dualismo territoriale emerge un quadro fatto di luci ed ombre che vanno opportunamente analizzate per capirne l’origine ed il loro significato. Da diversi anni si è sviluppata una letteratura sul Mezzogiorno che attribuisce il divario di sviluppo economico fra il Nord ed il Sud del Paese più alle differenze di cultura e di tradizioni fra le varie regioni italiane che ad elementi prettamente economici. Una linea di frattura sembra, infatti, separare il Mezzogiorno e il Nord del Paese per quanto riguarda la performance ambientale misurata attraverso indicatori che potremmo definire di civic engagement, cioè indicatori che attengono al comportamento individuale dei cittadini (quali, appunto, i livelli di raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani, coste balneabili e superficie forestale percorsa dal fuoco) ma che non attengono direttamente al mondo della produzione. Viceversa, il Sud d’Italia ha performances superiori rispetto alle regioni settentrionali per ciò che attiene gli indicatori più direttamente legati all’attività produttiva (quali, ad esempio, i livelli di PM10 nell’aria). Ci sembra, dunque, che esistano due facce di una stessa medaglia che determinano effetti di segno opposto sull’ambiente. Importanti eccezioni in questo quadro sono presenti e vanno ovviamente valorizzate (si pensi alla performance dei Comuni campani – ad eccezione del capoluogo di regione – per la raccolta differenziata). Tali eccezioni, seppur vadano inserite in un quadro unitario che consenta una lettura organica del fenomeno in esame, concorrono tuttavia a definire il forte livello di eterogeneità territoriale che caratterizza il sistema-Paese nel suo complesso. Se dunque, in una visione d’insieme non si può non apprezzare il generale riavvicinamento tra Nord e Sud d’Italia, va tuttavia sottolineato come tale riavvicinamento sia, a nostro avviso, almeno in parte riconducibile alla duplice natura del fenomeno in esame. Se, infatti, da un lato la problematica ambientale legata al civil engagement premia le regioni del Nord a discapito di quelle del Sud, dall’altro nel rapporto sistema produttivo/ambiente è il Sud a mostrare performance migliori rispetto al Nord. Tuttavia, quest’ultimo aspetto non è necessariamente il riflesso di comportamenti virtuosi ma più probabilmente dipende dal minor grado di industrializzazione notoriamente presente nelle regioni del Sud d’Italia. Sembra quindi emergere un quadro poco confortante per le regioni meridionali, caratterizzate da bassi livelli di inquinamento quando questo è legato all’attività produttiva, ma da una scarsa propensione alla tutela ambientale legata al civic engagement (quel contesto socio-politico-economico che si riflette nei comportamenti personali). Il Nord del Paese, viceversa, soffre di maggiori livelli di inquinamento legati al più accentuato dinamismo industriale, compensati tuttavia da un più forte senso civico ed una maggiore propensione a comportamenti virtuosi dei singoli cittadini. Possiamo individuare, dunque, una matrice disomogenea di problemi tra il Nord ed il Sud del Paese, che ci induce a parlare dell’ambiente come un caso di ‘problemi non condivisi’, il che comporta che gli eventuali interventi di policy debbano essere differenziati nelle macro-aree considerate. Ad esempio, nel Sud del Paese sembra opportuno un intervento principalmente rivolto alla sensibilizzazione delle fasce più giovani della popolazione, ciò al fine di stimolare comportamenti virtuosi (e rispettosi dell’ambiente) mediante una strategia che potremmo definire di commitment 44 intergenerazionale (il bambino costringe il genitore a comportamenti virtuosi ed environmentally friendly) rispetto ad una opportuna consapevolezza ambientale. Il Nord del Paese, invece, sembra più consapevole in termini di rapporto cittadino/ambiente, ma richiede una politica industriale volta alla valorizzazione delle cd. eco-innovazioni e ad un approccio eco-compatibile della produzione industriale, ciò per far convergere le dinamiche di crescita e di sviluppo ad una piena compatibilità e sostenibilità ambientale. A margine di tutto ciò è forse opportuno dedicare alcune rapide osservazioni al rapporto sistema produttivo/ambiente in tempi di profonda crisi economica, com’è ai giorni attuali. L’auspicio è che l’emergere di problemi più contingenti (disoccupazione, allentamento della crescita economica, contrazione delle esportazioni, etc.) non sposti in secondo piano le problematiche ambientali, relegandole ad un ruolo di low politics, come purtroppo è stato per anni. Una ripresa economica stabile e di lungo periodo passa, a nostro giudizio, attraverso l’allineamento di politiche di rigore fiscale, di crescita economica e di tutela dell’ambiente. Ciò richiede un cambio di passo nell’interpretazione stessa dei fenomeni, superando una visione in cui la tutela dell’ambiente è ancillare e subalterna (se non contrapposta) al perseguimento di altri obiettivi quali la crescita economica (a livello macro di sistema Paese) o la massimizzazione dei profitti (a livello micro di singola impresa). § Ma cosa succede nei Paesi dell’Africa mediterranea? Alessandra Laricchia Per più di tre decenni, le economie del Nord Africa non sono riuscite a crescere in maniera tale da creare sufficienti posti di lavoro per assorbire sia i lavoratori disoccupati preesistenti sia per fronteggiare la rapida crescita dell’offerta di lavoro proveniente dalle nuove leve. Dopo un periodo di rapida crescita e creazione di posti di lavoro dal 1960 al 1980, la produzione e l’occupazione sono entrate in una fase di stallo e la disoccupazione ha raggiunto in media circa il 12% negli ultimi due decenni, il più alto tasso di qualsiasi altra regione del mondo. I picchi, secondo i più recenti dati, in Tunisia (14,2%), Algeria (11,4%), Marocco (10%) ed Egitto (9,4%). Lenta crescita economica e scarsa elasticità dell’occupazione sembrano quindi accomunare non poco l’area del Sud dell’Italia con quella del Nord dell’Africa, soprattutto in termini di tassi di disoccupazione (nel 2010 il tasso di disoccupazione registrato ufficialmente è stato del 13,6 % al Sud e del 6,3% al Centro-Nord). 45 Ciò che differenzia di molto le due regioni è, tuttavia, il dato della crescita della popolazione giovanile. La popolazione europea è sempre più anziana e nei prossimi decenni 50 milioni di lavoratori lasceranno il mercato del lavoro, creando un buco al quale si dovrà far fronte solo guardando oltreconfine. In Nord Africa il tasso medio di disoccupazione per la fascia d’età tra i 15 e 24 anni raggiunge circa il 30%, più del doppio rispetto alla media mondiale del 13%. Con una situazione ancor più grave in Egitto e Tunisia. Dato ancor più allarmante è che la disoccupazione è maggiormente concentrata nella fascia dei giovani istruiti. In Egitto, ad esempio, il più alto tasso di disoccupazione è proprio tra i laureati e in Tunisia il tasso di disoccupazione tra i laureati nel 2007 è arrivato al 40%. Il problema dell’occupazione giovanile in gran parte riflette una scarsa organizzazione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, anche a livello interregionale ed europeo, ed un grave scollamento tra le competenze dei giovani lavoratori e le esigenze dei datori di lavoro del settore privato. Numerosi studi hanno messo in discussione la qualità dell’insegnamento fornito agli studenti, evidenziando la rigidità del sistema di istruzione, che ha spesso un approccio di apprendimento mnemonico a scapito del pensiero critico. Tali studi hanno anche sottolineato lacune nelle competenze scientifiche e trasversali, quali la comunicazione e il problem solving. Uno dei principali problemi occupazionali del Nord Africa è la sostanziale sottoutilizzazione del potenziale economico delle donne. Il tasso d’occupazione femminile è il più basso del mondo, così come il livello di partecipazione femminile alla forza lavoro, mentre il tasso di disoccupazione femminile supera quello di tutte le altre aree del pianeta. Mediamente, considerando l’ultimo decennio, in Nord Africa più di due donne su tre non entra nel mercato del lavoro e, tra coloro che vi riescono, più di tre su venti sono disoccupate. Pertanto, l’area pur presentando tassi di partecipazione degli uomini allineati a quelli del resto del mondo, manifesta un basso tasso di partecipazione al lavoro prevalentemente a causa della limitata partecipazione femminile. La situazione delle donne è particolarmente preoccupante se si analizza la fascia dei 15-24 anni: secondo le più recenti stime dell’ILO, nel 2010 i tassi di partecipazione delle giovani donne alla forza lavoro variavano da un bassissimo 8,9% in Algeria, fino ad un ancor poco incoraggiante 24,2% della Libia. Anche su questi dati è necessario un confronto con il Mezzogiorno, che presenta una situazione drammatica per le giovani donne, ferme nel 2011, ad un tasso di occupazione pari al 24%, meno di una su quattro in età lavorativa, che spinge le stesse di fatto a una segregazione occupazionale rispetto sia ai maschi che alle altre donne del resto d’Italia. Il fattore determinante del cambiamento demografico di questi Paesi non è solo il continuo aumento della popolazione, ma anche il cambiamento della distribuzione per età. Il considerevole aumento del numero di giovani (15-24 anni) è conseguenza di quello che gli studiosi hanno definito come youth bulge, cioè il boom di nascite registrato negli anni Ottanta e Novanta che, accompagnato da un altrettanto forte declino del tasso di mortalità, si sta traducendo in un aumento rilevante di giovani, cioè di potenziali lavoratori. Oggi, più del 40% della popolazione della regione 46 nordafricana ha un’età compresa tra i 15 e i 24 anni, una percentuale che si riflette sul dato della forza lavoro e sulla società in generale. Le cause profonde della “primavera araba” e le motivazioni che hanno spinto in differenti Paesi così tanti giovani a scendere in piazza, anche a costo della vita, fanno sorgere pressanti interrogativi. Le risposte sono di certo molteplici, ma un fattore comune alla regione è la mancanza di prospettive future per i giovani, che vedono dinnanzi a loro un orizzonte fosco. Per i giovani le possibilità di ottenere un lavoro soddisfacente sono molto limitate e nonostante siano più istruiti rispetto alle generazioni precedenti, non riescono a trovare un lavoro che permetta loro di vivere una vita economicamente indipendente. Colonia Marina della Croce Rossa Italiana a Tripoli Refezione al “Miramare” Le maggiori Riviste coloniali italiane (ufficiali e non ufficiali) Lo stabilimento balneare di Tripoli Casa del balilla “Italico Sandro Mussolini” di Tripoli Foto d’epoca tratte dal libro “La nuova Italia d’0ltremare - L’opera del Fascismo nelle colonie italiane - Notizie, dati, documenti raccolti d’ordine di S.E. Emilio De Bono, Ministro delle colonie, e coordinati a testo da Angelo Piccioli - Prefazione di Benito Mussolini”. Mondadori editore 1933. Anno XI SCENARIO INTERNAZIONALE 47 “La rielezione di Obama? Un fatto positivo per l’America e per il mondo” A colloquio con Paolo Janni, un diplomatico American Style Gabriella Riselli aolo Janni (Sant’Angelo in Formis, Capua) è stato un diplomatico di carriera. Ha prestato servizio nelle rappresentanze diplomatiche di Bruxelles (UE), Lagos (Nigeria), Atene (Grecia) e Ginevra (Nazioni Unite) e Washington, dove è stato vice capo missione della nostra Ambasciata e successivamente Ambasciatore presso l’Organizzazione degli Stati Americani. Dal ’91 al ’94, ha fatto parte del “Comitato dei Garanti” dell’Accademia Italiana di Studi Avanzati della Columbia University of America. Dal 1995 ha insegnato Politica Europea alla Catholic University of America e ha curato le “Edmund D. Pellegrino Series of Lectures on Contemporary Italy”. Da qualche tempo, con sua moglie Francesca, vive a Piedimonte Matese. Hanno due figli, Ottavio e Gabriella. Quale, tra i Paesi i nei quali ha vissuto, ha arricchito la sua personalità? Negli anni ’60 andai in Nigeria da Bruxelles. La Nigeria allora non era in Africa: era l’Africa. Vi conobbi due uomini straordinari. Uno, Chinua Achebe, un giovane Ibo che aveva scritto un libro già famosissimo: “Things Fall Apart”, la storia delle devastazioni che l’innesto di una cultura europea produceva in una società tradizionale come la Nigeria. Achebe insegna oggi alla Brown University. L’altro era un play-writer. A differenza di Achebe, sembrava sempre molto arrabbiato: si chiama Wole Soyinka, Premio Nobel per la Letteratura nel 1986. Nel suo primo libro, “Italians in Nigeria” del 1968, lei ha fotografato la nostra comunità presente a Lagos in quegli anni. Il libro, stampato in mille copie dai ragazzi delle Missioni Cristiane, fu inviato in tutte le scuole del Paese e nelle cinque Università nigeriane. Venne recensito da The Economist, La Stampa e Nigerian Times che titolò: “Bestseller in one week”. All’interno c’è un disegno, donatomi da un anziano nigeriano, che rappresenta il fronte mare del 1859 con il Consolato del Regno di Sardegna. Una copia del libro è nella biblioteca del Congresso Americano. Cosa le ha lasciato complessivamente l’esperienza in Africa? P 48 Mi hanno molto arricchito i sette anni trascorsi tra la Nigeria e l’Egitto. Essi hanno vivificato la mia professione, che si fa bene solo se ci si immerge nella cultura del Paese. Come noi siamo figli del nostro passato, anche gli africani lo sono. Solo da qui è possibile trovare un punto di contatto, di intesa, di cooperazione. In quegli anni ho vissuto in culture radicalmente diverse dalla mia. Ne ho conosciuto qualità e difetti che mi hanno permesso di guardare alla mia cultura in maniera più ravvicinata, profonda e critica. Quando ho lavorato in Belgio, Svizzera, Grecia e Stati Uniti ho vissuto in un contesto culturale non diverso dal mio. Quando la mia cultura è stata esposta al contatto con quelle altrui se ne è arricchita. Come spero - se ne siano avvantaggiati tutti quelli che hanno avuto contatti con me. Con sua moglie Francesca come ha alimentato dall’America il legame dei suoi figli con l’Italia? Non immaginavamo che un giorno saremmo tornati a vivere a Piedimonte. Abbiamo una casa qui per dare un indirizzo ai nostri figli e dar loro la possibilità di indicare il loro luogo di origine. Lei ha insegnato quattordici anni alla Catholic University of America. Potrebbe raccontarci qualcosa di quell’esperienza? Ho insegnato European Politics alla Catholic University cioè la Storia, le Istituzioni, le Politiche dell’Unione Europea più un IV Capitolo sul Rapporto Transatlantico. Diventai professore quasi per caso. La mia prima lezione non fu un grande successo, mi ero preparato come un professore italiano e mi accorsi di non aver impegnato l’udienza. Tornato a casa, ebbi un colloquio illuminante con mia figlia, che si era appena iscritta all’Università “Papà tu non vai là e per due ore dici bla, bla, bla, bla?” Da allora cominciai un dialogo con i miei studenti: insegnavo, ma lo facevo dialogando. Alla fine del semestre ero stato accettato e venni riconfermato per altri ventotto semestri. All’indomani delle elezioni presidenziali americane potrebbe commentare i risultati che hanno confermato Barack Obama? La rielezione di Obama è un fatto positivo per l’America e per il mondo. Essa rappresenta la continuità di una politica che ha mantenuto la pace del mondo e ha reagito agli eventi attraverso la diplomazia, il dialogo e non con le minacce. Obama potrà continuare nell’attuazione della sua agenda che, per un complesso di circostanze, non ha avuto modo di realizzare nei primi quattro anni. Obama non è “confrontational”, come dicono gli americani. Nel suo interlocutore raramente vede un avversario. La sua prima reazione ad un tavolo negoziale è quella di capire le ragioni dell’altro. Le realtà politiche americane impongono di dialogare con l’opposizione, ma alla fine occorre decidere. Nel suo secondo mandato Obama dovrà ritrovare in se stesso e nell’esercizio della presidenza il suo ruolo di leadership. “Le elezioni americane sono ancora una questione di razza” ha detto la scrittrice afroamericana Toni Morrison, Premio Nobel per la letteratura nel 1993. Anche l’ex Presidente Jimmy Carter crede che la razza abbia giocato un ruolo contro e a favore di Obama. Il 95% dei neri d’America ha votato per lui per il colore della pelle ma anche perché rappresenta una speranza di redenzione di una etnia discriminata dalla storia. Nella elezione e nella rielezione di Obama, il ruolo maggiore l’hanno giocato la sua personalità, la novità della sua persona e il suo mes- 49 saggio. Nella storia della famiglia di Obama - a differenza di quella della moglie Michelle - non c’è la schiavitù. Il Presidente americano è un uomo libero dal peso del passato e ha sempre collocato la storia dei neri d’America nella tela di fondo della società americana. “Il meglio deve ancora venire”, ha detto Obama nel suo primo discorso dopo la rielezione. Una frase che ha colpito il mondo… Questa affermazione riflette perfettamente una tendenza, una cultura e un’ideologia propriamente americane. Reagan diceva sempre: “Is morning again in America”. Gli americani non sono prigionieri del passato, ma guardano avanti. Sono proiettati nel futuro. Questa è una delle tante differenze che separano gli Stati Uniti dall’Europa e dal resto del mondo. La stessa cosa vale anche nei successi personali. Per un americano, essi non sono mai un punto di arrivo ma un nuovo punto di partenza. Quale sarà il primo banco di prova in materia di politica estera che il neo-confermato Presidente statunitense si troverà ad affrontare? Nel mondo che cambia sotto i nostri occhi, neanche gli Stati Uniti hanno un effettivo controllo sugli avvenimenti. Gli eventi accadono e la leadership - compresa quella del Presidente degli Stati Uniti - consiste nel gestire alla meglio l’imprevisto. Era imprevisto l’uragano Sandy, ma anche lo spessore e la profondità di Al Quaeda. Era imprevisto che paesi non nucleari potessero accedere alla soglia nucleare con relativa facilità e con le conseguenze potenzialmente destabilizzanti della proliferazione delle armi di distruzione di massa. Ci sono una pluralità di problemi che attendono i prossimi quattro anni dell’ “Obama bis”. Come confrontarsi e competere con il resto del mondo che cambia e aumentare la competitività degli Stati Uniti. Penso alla Cina, all’India e alle altre economie emergenti. Come far fronte al pericolo di proliferazione nucleare. Non sappiamo come evitare che l’Iran si munisca di un’arma nucleare. Il pericolo resta. C’è infine il problema irrisolto del Medio-Oriente: sul terreno, stanno per essere modificate le condizioni per la nascita di uno Stato palestinese vitale e padrone di se stesso; ciò si ripercuote non solo sulla stabilità di quell’area ma anche sui rapporti che il mondo arabo e islamico avrà con l’Occidente. Ma definire in anticipo cosa faranno gli Stati Uniti nei confronti delle incognite è temerario. Viviamo in un mondo in cui si “naviga a vista”. Wall Street ha accolto con freddezza la rielezione di Obama. I protagonisti di Wall Street non sono tanto i piccoli risparmiatori ma i grandi gestori dei fondi di investimento. Con un dito sul computer muovono una quantità inimaginabile di soldi. Il mondo degli affari, della finanza e del business è tendenzialmente repubblicano, perché non ama le regole che proprio i presidenti democratici hanno progressivamente introdotto. Lei nutre fiducia verso l’America che, a suo giudizio, uscirà per prima dalla crisi globale. Perché? Concordo con la Merkel, secondo la quale la crisi che stiamo vivendo durerà qualche anno. Non è una crisi ciclica, come quelle sperimentate nel passato, ma “una mutazione”, addirittura antropologica 50 secondo uno studio del Censis: una parola forse un pò forte, ma i segni ci sono. Assistiamo a una mutazione delle condizioni di produzione, che tecnologia e globalizzazione hanno sconvolto. Non so se l’America uscirà prima da questa crisi: so che in America ci sono più condizioni perché essa esca prima. Il fair play della politica americana post elettorale ci ha dato la misura della distanza dell’Italia dall’America. Non possiamo comparare l’incomparabile. L’Europa - e l’Italia con essa - ha una storia totalmente diversa da quella degli Stati Uniti: sono due realtà nate e cresciute diversamente. Durante e dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti sono intervenuti in Europa e vi sono rimasti, divenendo a tutti gli effetti una potenza europea. Quando è caduto il muro di Berlino e nuove potenze si sono affacciate nel Pacifico come protagoniste della storia, gli Americani hanno riscoperto che sono al contempo un Paese dell’Atlantico e del Pacifico. Cercare di trarre lezioni dalla politica americana e tradurle in quella italiana è arbitrario: come italiani, ed europei dobbiamo trovare in noi stessi e nella nostra storia le ragioni e la forza per rinnovarci e modernizzarci. Qual è il ruolo della diplomazia nel mondo nuovo nel quale ci siamo inoltrati? Negli ultimi decenni la diplomazia ha cambiato pelle. Nel nostro tempo una guerra tra le grandi potenze è diventata impossibile perché significherebbe la distruzione reciproca. Il futuro è nella cooperazione. L’economia, la tecnologia, la globalizzazione hanno ulteriormente accelerato la metamorfosi nel teatro della diplomazia. Le riunioni del G7, G8, G20 coinvolgono capi di Stato o di Governo, ministri economici e un pò meno ministri degli Esteri. Gli argomenti prevalenti nei giorni nostri sono il futuro dell’euro, il tasso di disoccupazione, il salvataggio finanziario di Stati o di aziende. Sono questi problemi al cuore stesso della diplomazia. Il mondo è diventato ovunque più insicuro. Pensi a chi oggi è ambasciatore in Afghanistan o in Iraq o nei Paesi nei quali le condizioni di sicurezza non sono delle migliori. Che cosa le manca dell’America? L’America è un Paese che non si racconta. Essa è un’esperienza individuale. Mi manca “We can do it”. Si tratta di mettere un uomo sulla Luna, di inviare una sonda su Marte o di cambiare faccia all’America? We can do it. Mi manca “How can I help you?”. L’America è un Paese teso verso il futuro, senza nessuna nostalgia del passato. Da un anno, con sua moglie Francesca, si è definitivamente trasferito a Piedimonte Matese: un salto di scala notevole da Washington… Grazie a Dio, non mi sono mai sentito condizionato dall’ambiente esterno. Sono stato all’Eliseo, alla Casa Bianca, al Quirinale, negli incontri più esclusivi ma non mi sono mai sentito psicologicamente diverso da quando passeggiavo tra i boschi del Matese. Oggi vivo a Piedimonte con la stessa naturalezza con cui ho vissuto ventotto anni a Washington, nel cuore della capitale del mondo. Per me non esistono le folle, ma gli individui, con le qualità, i difetti, le speranze e i rimpianti che ho io, con tutto ciò che c’è di buono e di cattivo in ognuno di noi. Quali sono i suoi prossimi programmi? Ha un desiderio che le piacerebbe ancora realizzare? Non faccio programmi. Nella mia vita ho avuto come unico programma quello di non fare programmi. Mi piacerebbe parlare agli studenti per dire loro che sono essi gli unici protagonisti del loro futuro. Vogliamo migliorare il mondo? Cominciamo a migliorare il piccolo mondo che è intorno noi. PERISCOPIO LETTERARIO 51 Mo Yan Il Nobel parla cinese Stefano Dentice di Accadia Ammone l Premio Nobel per la Letteratura è stato assegnato quest’anno a Mo Yan, prolifico autore di romanzi e racconti, tra i quali il più conosciuto resta senz’altro Sorgo rosso, del 1987, da cui è stato tratto il film omonimo, vincitore dell’Orso al Festival di Berlino del 1988, che racconta l’invasione giapponese della Cina dal punto di vista insolito e originale degli invasori. Mo Yan, Nobel per la Letteratura 2012. Mo Yan nasce nel 1955 nel distretto di Le sue opere sono pubblicate in Italia da Einaudi Gaomi, provincia dello Shandong, Cina orientale, da una famiglia di contadini. Lascerà la scuola durante la Rivoluzione Culturale per andare a lavorare in fabbrica e arruolarsi, quindi, nell’Esercito di Liberazione Popolare. Ed è proprio da soldato che comincerà nel 1981 la propria attività di scrittore, affiancandola a quella di insegnante di Letteratura. Prima di lui un altro Cinese, Gao Xingjian, era stato insignito del prestigioso premio nel 2000. Se Xingjian era però un esule naturalizzato francese e dissidente, Mo Yan è considerato uno scrittore cinese al cento per cento, molto letto nel suo Paese e criticato, all’estero, come autore di regime, al punto che è stata avanzata l’ipotesi che l’Accademia Reale di Svezia gli abbia assegnato il Nobel obbedendo soprattutto ad una ragione di opportunità politica, per riparare, cioè, alla (presunta) offesa arrecata al Governo cinese in occasione della premiazione del 2000. Lasciando da parte le polemiche, c’è da chiedersi, però, se sia corretto considerare Mo Yan uno scrittore soltanto nazionale. Non c’è dubbio che la sua opera si iscriva nella tradizione letteraria cinese, sospesa com’è tra il realismo sociale di Lu Xun e la narrativa popolare tradizionale. Altrettanto indubbio è, poi, che i suoi libri siano grandiosi affreschi storici del gigante asiatico. Del resto la motivazione dell’Accademia di Svezia coglie proprio il valore storico di un’opera, che “con un realismo allucinatorio fonde racconti popolari, storia e contemporaneità”. Anche gli elementi magico-fantastici, che pure hanno suggerito un accostamento col sudamericano García Márquez di Cent’anni di solitudine, rimandano inequivocabilmente a no- I 52 zioni e valori culturali propri dell’Estremo Oriente. Così uno dei personaggi di Mo Yan è raccontato nell’atto di trasformarsi in un antico guerriero della dinastia Song, per andare a combattere contro i colonizzatori tedeschi, colpevoli di voler costruire una linea ferroviaria che avrebbe distrutto il Feng Shui, violando le tombe degli antenati, il filo tra i vivi e l’aldilà: “…videro Sun Bing saltare su, curvando la schiena come una carpa che guizza fuori dall’acqua. Il suo corpo robusto e pesante si sollevò in aria per circa un metro, quasi fosse diventato leggero come una piuma, e poi tornò a posarsi dolcemente a terra” [da Il supplizio del legno di Sandalo, Torino 2005² (Pechino 2001¹), p. 210]. Eppure Mo Yan è molto di più che il degno rappresentante di una letteratura nazionale. La sua opera sa parlare a tutti, anche a chi è distante, e non solo geograficamente, dallo Shandong. Sa coinvolgere il lettore con una scrittura ricca, immaginifica, ma mai ampollosa, così come quando ne Il supplizio del legno di Sandalo, di cui l’Italia vanta con Patrizia Liberati la prima traduzione assoluta, è descritto l’incontro tra la bella popolana Sun Meniang e il potente e colto magistrato Qian Ding, che ha condannato il padre della donna ad una pena atroce: “Poi i loro occhi si scrutarono e i loro sguardi si intrecciarono come un filo rosso. Lei sentì che il suo corpo era legato da una corda invisibile: aveva perso la forza di reagire. Il cestino che teneva al braccio e il coltello che impugnava caddero insieme sul pavimento coperto di lastroni quadrati. Il coltello luccicava sul pavimento, ma lei non lo vide, e nemmeno lui. Il cosciotto di cane caduto a terra spandeva il suo profumo, ma lei non lo sentì, e lui nemmeno. Lacrime ardenti sgorgarono dagli occhi di lei, le inondarono il volto, le bagnarono il petto. Quel giorno indossava una blusa di seta viola chiaro, il bordo delle maniche, il collo e l’orlo erano ornati di un delicato ricamo verde. Avvolto nel colletto alto, il suo collo appariva ancora più candido e flessuoso. I suoi seni orgogliosi urlavano dentro l’abito. L’incarnato, leggermente roseo, pareva un fiore di loto stillante rugiada, tenero e delicato, timido e vergognoso. Il cuore di Sua Eccellenza Qian si riempì di emozione. In questa splendida donna piovuta dal cielo aveva ritrovato l’amata da tempo perduta. Qian si alzò e aggirò il tavolo. Uno spigolo gli ferì la coscia ma non se ne accorse. I suoi occhi erano fissi in quelli di lei. C’era solo lei nel suo cuore, una farfalla appena uscita dal bozzolo, non c’era posto per altro. Gli occhi gli si inumidirono. Il suo respiro accelerò. Allargò le braccia per accoglierla. Poi si fermò: li separava ancora qualche passo. Si fissavano con gli occhi pieni di lacrime. Stavano raccogliendo le forze; la temperatura salì. Poi, come colpiti da un fulmine, si ritrovarono abbracciati. Avvinghiati come due serpenti, con tutte le loro forze. I respiri si fermarono, le articolazioni scricchiolarono. Le bocche attirate l’una all’altra si toccarono. Appena a contatto si incollarono. Allora chiusero gli occhi. Ormai c’erano soltanto quattro labbra roventi e due lingue che si dimenavano in una lotta mortale, disperata, onde di un mare in tempesta: le loro labbra ardenti si sciolsero come melassa… Poi, come l’acqua che scende verso il canale, il frutto che maturo cade a terra, niente poté più fermarli. Alla luce del giorno, nell’austera sala delle firme, senza letto d’avorio, senza coperta ricamata con anatre mandarine, scivolarono fuori dai loro gusci, ricrearono la bellezza e sul pavimento di pietra si trasformarono in due esseri celesti.” (Ibid., pp. 174-175). 53 In una Cina di fine impero, dove le atrocità delle potenze straniere colonizzatrici si sommano agli scempi del governo nazionale e il sangue scorre a fiumi, c`è posto per un uomo e una donna che sanno “ricreare la bellezza” originaria, che gli interessi economici, il calcolo politico e la violenza bruta hanno cancellato. Ed è appunto l’invito a riflettere sul Male umano che si può cogliere nei romanzi di Mo Yan. Il gusto per il dolore altrui, il voyeurismo della massa ignorante non è certo prerogativa cinese, ma perversione umana, che sperimentiamo ogni qualvolta che televisione ci propina folle esultanti per una sentenza di ergastolo. È così che il boia provetto, il maestro Zhao Jia, è sì l’eroe nazionalpopolare che sa placare la sete di sangue dei suoi concittadini, ma è anche lo specchio della nostra crudeltà: “Il pubblico di Pechino era il più esigente del mondo. Quel giorno il maestro aveva fatto uno splendido lavoro e lei l’aveva assecondato in pieno. In realtà non era altro che un grande spettacolo in cui il boia e il condannato si esibivano in coppia. Durante la rappresentazione, il condannato non dovrebbe urlare in maniera esagerata, ma nemmeno rimanere in silenzio. L’ideale è che la vittima si lamenti adeguatamente e con un ritmo ben preciso, tanto da solleticare la pietà ipocrita degli spettatori e, al tempo stesso, soddisfare il loro deviato senso estetico. Il maestro disse che in decenni di mestiere e migliaia di esecuzioni portate a termine aveva capito una cosa: gli uomini sono bestie bifronti, una faccia che obbedisce alla morale, giusta e benevola, che pratica le tre regole di obbedienza e le cinque virtù cardinali, l’altra che mostra gli uomini come farabutti e le donne come puttane, creature depravate e assetate di sangue. Davanti al corpo di una bella donna che veniva tagliato a pezzi, il pubblico, anche se composto da gentiluomini rispettabili o caste donne e fanciulle innocenti, era eccitato dal gusto dell’orrido.” (Ibid., p. 238) E proprio in uno dei suoi romanzi più belli e più crudi, dove già il titolo mette in guardia gli stomaci più deboli – Il supplizio del legno di sandalo –, che l’autore sente la necessità di chiarire al lettore il perché di tanta atrocità in un’opera di narrativa. “Le lunghe descrizioni dei terribili supplizi che si trovano in questo libro hanno lo scopo di far conoscere al lettore la barbarie e gli orrori che si sono verificati nel corso della storia, per risvegliare in lui un cuore compassionevole … Il motivo per cui ho voluto scrivere un libro del genere è perché nella vita attuale continuano a verificarsi crimini che provocano la nostra indignazione e che per di più vengono lodati e premiati…” (Ibid., Nota dell’autore, p. 505) Probabilmente Mo Yan tutto sommato è meno conformista di quanto si creda, perché sa mettere a nudo le nostre colpe. Il suo è uno pseudonimo, che significa “Non parlare”, il prudente consiglio dei genitori a chi è cresciuto nella dittatura comunista. Eppure Mo Yan parla. Non da dissidente, né da cronista. Parla semplicemente da scrittore, con la sua straordinaria capacità descrittiva, i suoi slanci di poesia, il suo caldo abbraccio narrativo. E parla a tutti noi. 54 Genny Sangiuliano descrive come A Capri si cambiarono i destini del mondo Rosemary Jadicicco a Russia agli inizi del XX secolo appariva ancora legata alle consuetudini economico-sociali dell’Ancien Régime. L’assolutismo era la forma di governo che gli zar continuavano ad esercitare senza il supporto di nessun sistema parlamentare. L’economia era arretrata e si basava su di una organizzazione del lavoro, per lo più agricolo, di tipo feudale. La società era dunque, di conseguenza, fortemente caratterizzata da un marcato modello verticistico-piramidale in cui la nobiltà costituiva una minoranza esigua, ed il popolo ne rappresentava invece l’enorme massa restante, in mancanza del ceto medio borghese. La grande letteratura russa di autori come Lev Tolstoj con Guerra e Pace, ed Anna Karenina, ma anche il Dottor Zivago di Pasternak, ci offrono uno spaccato inequivocabile di quella società nell’Ottocento e nel Novecento. Vi era una vita estremamente elegante e mondana fatta di balli e feste pompose nei palazzi principeschi. Le donne indossavano gioielli sfarzosi sulle creazioni di modelli all’ultima moda arrivati direttamente da Parigi. Il francese si parlava correntemente a Mosca e a San Pietroburgo e costituiva la lingua ufficiale dell’elite. Ma dalla Francia non giungevano, insieme agli oggetti di lusso, anche quelle riforme modernizzatrici dello stato attuate in seguito alla rivoluzione del 1789. La popolazione versava per contro in gravi difficoltà acuite dal terribile gelo dei rigidissimi inverni russi. Una importante serie di cambiamenti si era ormai resa necessaria. Già nel 1905, circa 140000 persone insorsero e sfilarono davanti al Palazzo d’Inverno, ma la manifestazione fu repressa dall’esercito e quella giornata, il 9 gennaio venne chiamata “la domenica di sangue”. In seguito, dal seno della borghesia si formò un partito contro lo zar, denominato Costituzionale Democratico, e i suoi adepti presero il nome di “cadetti”. Lo zar Nicola II, allora, impressionato dagli eventi, concesse l’elezione di un parlamento: la Duma, attiva dal 1906 al 1917, ma ebbe sempre e solo un ruolo consultivo. La rivoluzione non aveva ancora trovato il momento giusto, né l’uomo giusto per ottenere la vittoria. La vera svolta si avrà solo con il ritorno in patria dall’esilio svizzero di Vladimir Ilic Ul’janov, che tutti conoscevano come Lenin. Non un figlio della povera terra russa né un borghese, bensì, come lui stesso amava definirsi, un “nobile ereditario”. Una figura storica che influì con il suo operato in modo preponderante sulla vicenda umana di milioni di uomini e che riuscì a stravolgere non soltanto i destini della Russia, ma anche dell’Europa e di tutto l’Occidente. L 55 Questo gigante della storia, per molti non un gigante buono, non ha avuto un risalto particolare nella storiografia passata e recente. Gran parte degli storici, ed anche degli autori cinematografici, hanno rivolto la propria attenzione soprattutto ad un altro importante esponente del comunismo sovietico: Stalin. Si era venuto così a creare una sorta di vuoto pneumatico culturale, diciamo un deficit di conoscenza, che ora possiamo ritenere finalmente colmato. Il noto giornalista e vicedirettore del Tg1, Gennaro Sangiuliano, ha voluto rivisitare questo personaggio ripensandolo in una chiave particolare ed oltremodo affascinante. La sua acuta analisi storica si sofferma soprattutto sul periodo da lui trascorso a Capri, a cavallo tra il 1908 e il 1910. Una permanenza che è stata, secondo l’autore, qualcosa di più di una semplice vacanza. Sangiuliano, che approda a questo potremmo dire quasi-romanzo, dopo la pubblicazione di numerosi altri testi fra cui, nel 2008, Giuseppe Prezzolini, l’anarchico conservatore, si è avvalso in questa sua accattivante ricerca, di strumenti documentali precisissimi: i sostanziosi archivi dei servizi segreti britannici. Quest’ultimo libro di Gennaro Sangiuliano Scacco allo Zar, per Le Scie della Mondadori, è coinvolgente come un film di spionaggio e controspionaggio, degno delle più riuscite pellicole holliwooddiane di 007. Ci si inoltra in questo libro con passione quasi pioneristica, nello snodarsi dei nuovi dati e delle puntuali argomentazioni, tutte ben circostanziate dall’autore. Si va spediti alla scoperta di eventi poco o per nulla noti, guidati da un’agile penna. Alle volte restiamo finanche sorpresi da alcuni aspetti umani di Lenin, aspetti che, forse nostro malgrado, ci ispirano simpatia. Come il suo strano modo di pescare in barca facendo drin drin tirando su l’amo, tanto da essere soprannominato dai pescatori del posto: signor Drin Drin! O per i suoi calzoni distrattamente arrotolati alla caviglia. Lenin non è solo a Capri, vi si reca con la moglie Nadezda Konstantinovna Krupskaja. Essi vi giungono la sera del 23 aprile del 1908 con il vaporetto Principessa Mafalda. Ad accoglierli lo scrittore russo Aleksej Maksim Gor’kij, osannato e ammirato dai socialisti italiani, in primis da Arturo Labriola e Enrico Ferri, che guidavano la corrente rivoluzionaria del Partito socialista italiano fondato nel 1892, e la sua bellissima compagna Marija Fedorovna Jurkovskaja, da tempo stabiliti sull’isola. In realtà, a Capri esisteva già una folta colonia di esuli russi, fuoriusciti in seguito al fallimento della rivoluzione del 1905. Tra gli altri, Lenin vi aveva ritrovato anche il suo amico e rivale Alexander Bogdanov, fondatore della Scuola di Capri, che sfidò in una impegnativa partita a scacchi poi immortalata dall’obbiettivo fotografico. Insieme ai due contendenti apparivano altri personaggi, ma secondo l’uso sovietico, man mano che venivano eliminati fisicamente, sparivano anche dalla foto. 56 Peskov, Bazarov, Ladyznikov e Aleksandr Ignat’ev. Anche Bogdanov venne in seguito epurato. Prima venne espulso dalla redazione del Proletarij, il giornale diretto da Lenin, e poi dal Partito. Infine lui e la sua scuola vennero bollati come “caricatura del bolscevismo”. Lenin a Capri conduceva una vita uguale in tutto e per tutto a quella dei tanti aristocratici che vi soggiornavano. L’interprete degli scritti di Marx ed Engels, colui che avrebbe tradotto i loro convincimenti nelle “tesi di aprile”, scrive all’amata sorella Marija: «Mi sto godendo un periodo di riposo come non facevo da parecchi anni» e la moglie Krupskaja rivelava alla propria madre: «Abbiamo guadagnato tanto peso che quasi non è decente mostrarci in pubblico… Qui c’è una foresta di pini, il mare, un tempo splendido; insomma tutto è eccellente». Lenin era letteralmente incantato dai meravigliosi paesaggi di Capri, ma anche di Napoli, dove volle ritornare anche durante il suo secondo soggiorno a Capri. A Napoli Gor’kij lo condusse finanche a teatro per assistere ad una commedia di Edoardo Scarpetta di cui lo scrittore era entusiasta: «Qui abbiamo l’attore comico Edoardo Scarpetta, direttore del teatro Mercadante e autore di tutte le commedie che vi si allestiscono. Lui e il suo compagno della Rossa sono artisti incredibili! Scarpetta assomiglia a Pulcinella – il nostro Petruska – ma vedessi in che modo!...» Lenin amava anche la musica e apprezzava in modo particolare alcuni grandi compositori napoletani come Domenico Cimarosa e Giovan Battista Pergolesi che ascoltava fino a notte fonda dalla nuovissima invenzione dell’epoca, il grammofono, sulla terrazza della grandiosa villa Blaesus, ospite di Gor’kij. In quel tempo spensierato, lo scrittore che era divenuto l’ambasciatore della Rivoluzione russa nel mondo, riuscendo a procurare ai soviet notevoli finanziamenti, non poteva minimamente sospettare che, di lì a qualche anno, anche lui sarebbe caduto in disgrazia e fatto assassinare da Stalin. In effetti, dopo le atrocità commesse dai comunisti, la sua adesione alla dittatura diverrà sempre più un atto solo formale. Atrocità come metodo e sistema, nascoste in parte dalla propaganda. È ciò che fa assimilare comunismo e nazismo, nel giudizio storico, dello studioso “revisionista” Ernest Nolte. Intanto i servizi segreti, inglesi e tedeschi soprattutto, già erano in allerta per la presenza della comunità degli esuli russi, non solo intellettuali e rivoluzionari, ma anche pittori, nobili, giramondo e avventurieri. Sull’isola soggiornavano anche diverse teste coronate, come Gustavo di Svezia e la futura regina Vittoria. La presenza di personaggi noti per la loro ideologia contraria alla classe aristocratica e borghese preoccupava non poco i funzionari incaricati dell’ordine pubblico. Era presente sull’isola anche una corposa comunità di aristocratici ed imprenditori tedeschi importantissimi, tra gli altri Friedrich Alfred Krupp, industriale dell’acciaio, forse l’uomo più ricco del mondo. Spesso egli ospitava sull’isola anche il futuro feldmaresciallo Paul von Hindenburg. Sangiuliano comprende che la contemporanea presenza di Lenin e Hindemburg a Capri ispira ben più di un sospetto su di un possibile accordo fra i due. La Germania ha un fortissimo interesse ad appoggiare il bolscevismo in Russia e lo finanzia. Ecco che lo zar non ha scampo, ormai è sotto scacco! Lenin il 4 aprile 1917 arriverà a Pietrogrado di ritorno dall’esilio in Svizzera viaggiando su di un vagone blindato che giunse in Russia attraversando indisturbato la Germania. Dalla piccola meravigliosa isola di Capri erano stati ormai decisi i destini del mondo. 57 La poesia del cosmo e del mistero in Giovanni Pascoli Aurora Cacopardo e parliamo di poesia del mistero non possiamo non riferirci alla presenza simbolista che in Italia accompagna, più che seguire, i successi precari del Verismo. D’altronde, il mistero è dell’anima, della natura, delle cose, della vita l’opposto di ciò che affermavano i veristi per la letteratura, cioè arrivare a chiarire attraverso l’uso della scienza, i fenomeni della psiche come quelli della natura, i fatti sociali come quelli morali. Già in precedenza gli Scapigliati avevano raffigurato il mistero che è nella realtà come nell’animo umano. È il fascino dell’ignoto, di ciò che sfugge alla ragione, non solo nella realtà, quanto nella inquieta inventività della letteratura, la quale offre a chi scrive o a chi legge o la studia, la possibilità di eventi o di situazioni che superano certamente gli oggetti di indagine scientifica, che non possono essere giustificati o spiegati con la plausibilità della scienza, dal momento che certi fatti esistono come contenuti della coscienza. Aspetto importante è quello legato ad ascendenze simboliste: poesia come forma di conoscenza, meta razionale, cioè poesia che va al di là di ciò che dice la scienza nell’esplorazione della natura scoprendo in essa relazioni segrete, analogie, significati che non possono essere realizzati dagli strumenti inadeguati della scienza, che, sono importanti per la comprensione del senso della vita e della realtà: mistero se guardato dal punto di vista delle scienze positive. Il poeta che in Italia rappresenta la coscienza del mistero come luogo della poesia in quanto forma di conoscenza metascientifica e metarazionale è Giovanni Pascoli. Il mondo è odorato di mistero e proprio la presenza del mistero giustifica l’ideologia del contratto sociale. Nella prona terra troppo è il mistero e solo chi procaccia d’aver fratelli in suo timor non erra1 Pascoli coglie il mistero: le forze sconosciute che operano nella natura, come nella storia e che l’uomo non riesce a comprendere appieno, anzi più indaga e meno comprende, come nella lirica “Alexandros”, nella quale il grande condottiero che ha creato un vasto impero avverte che la brama dell’infinito sfocia nel nulla: S 58 azzurri, come il cielo, come il mare, oh monti, oh fiumi! Era il miglior pensiero ristare, non guardare oltre, sognare: il sogno e l’infinita ombra del Vero2 Questa affermazione sottolinea il senso del reale che ha la poesia del mistero. Al vero positivo, di quello della scienza e della filosofia si contrappone il sogno, ossia il “senso del mistero che è infinitamente intorno al poco che scienza e ragione possono dire del mondo e della vita”3. Pascoli, dunque, poeta del mistero, tra realismo e fantasia, trascendenza e preveggenza, in una vertigine spaziale e celeste, ricca di rifrazioni esistenziali ed estetiche. “Dopo Dante nessun poeta italiano ebbe più di lui il sentimento dei mondi”4. Sentirsi parte del cosmo è per Pascoli un’avventura poetica che si misura in un certo senso, con lo spettro mai sparito della morte. Il poeta sente l’horror vacui, il terrore del nulla per cui avverte l’esigenza di dare un nome positivo anche al nulla, immaginando “che una nuova vita si svolga in un eremitaggio dal cosmo”5. Il poeta sente vivo in sé il mistero che grava su di noi e dalla contemplazione del cielo, nero abisso trapuntato da miliardi di stelle, di nebulose, di costellazioni, di pianeti e satelliti, concepisce una poesia in cui finito ed infinito si incarnano nello spazio-tempo di una parola ritmica, sonora, di un’immagine mai statica, in una misura musicale e pittorica ricca di futuro. Gli effetti cosmici racchiusi ne “La vertigine” riflettono il senso del sospeso, del pendulo che privilegia ora la mimesi ora il sogno tra realtà e favola con conseguenze metriche per un linguaggio che sperimenta territori mai frequentati prima con pari arditezze inventive. Gli uomini sanno – dice il poeta – ma fingono di non sapere; essi non sono “eretti” sulla terra, ma “penduli”: e mi sentii quaggiù piccolo e sperso errare tra le stelle in una stella. Come osserva Giovanni Getto, in Pascoli non c’è solo cosmo e mistero ma umanità, termini essenziali della meditazione svolta dal poeta attraverso le sue opere. Egli mette in evidenza l’insufficiente spazio terrestre e quello immenso celeste; il breve tempo umano e quello infinito astrale; l’immediato oggi e domani sociale e politico ed il problema dell’eterno destino umano, della morte e di Dio. Questi sono temi che s’intrecciano di continuo nella poesia pascoliana in rapporto alla Terra e al cosmo e con uguale angoscia egli contempla l’una e l’altra condizione. Nella sua poesia il mistero sembra avvolgere ogni cosa: l’infinitamente grande dei cieli, l’infinitamente piccolo della vita. La poesia osserva e svela all’uomo, attraverso l’illuminazione del linguaggio, l’ignoto. 59 Per il Nostro, la vita è un mistero impenetrabile dove l’uomo come un cieco è condannato a brancolare. La Scienza – orgogliosa dei suoi traguardi – tuttavia non ha uno sguardo abbastanza acuto per fendere quel buio e, dal momento che anche la Fede, è in crisi per le continue incursioni della Scienza, solo la poesia, eterna fanciulla, può interpretare i messaggi che ogni tanto lampeggiano nelle tenebre del mistero. Nel pensiero pascoliano non c’è più posto per il mito dello scientismo ed al suo posto si “accampano confusamente le istanze delle filosofie dell’irrazionale che avevano preparato l’exploit del Decadentismo”7. La “sostanza agreste e astrale”, capace di conciliare terra e cielo, vicino e lontano, tangibile ed in attingibile, si riflette in un linguaggio realistico e surreale, precisissimo nel nominare le cose ma altrettanto proiettato a ricercare e a ricreare il loro alone originario, “in nome di una eziologia esistenziale ed estetica, che riporta alle radice del mondo, a quell’era fanciulla, in cui l’universo non era ancora oppresso dallo spessore dell’opaco che avrebbe corroso l’anima e con essa la creazione poetica”8 1 Giovanni Pascoli dai “Primi Poemetti” – I due fanciulli (1899). Da: Sambugar – Ermini, Poemi Conviviali – Alexandros, ed. La Nuova Italia (Firenze 1995), p. 602. 3 Gaetano Mariani – Mario Petrucciani “Letteratura italiana contemporanea” ed. Scuola vol. I (PG – 200) p. 160. 4 Francesco Flora, La poesia di Giovanni Pascoli, BO 1959, p. 67. 5 Ibid., p. 77. 7 Renato Filippelli, L’eredità letteraria, il ‘900, Ed. Simone, Casoria (NA), 2004, p. 53. 8 Francesco D’Episcopo, Critici e miti del ‘900, ed. Graus NA 2005, pag. 214. 2 60 La grande e moderna vetrina virtuale dell’arte scrittoria Vincenzo Nuzzo* he delizia e che pena nello scorrere la grande vetrina della letteratura esposta in rete! Certo non vi è cosa che faccia più moderno che questo esporre, ormai così capillare e sempre più scintillante, trovate sempre più al passo con il gelido ma ammiccante nitore che oggi tanto piace. Eppure corre voce che perfino ciò che poco fa si chiamava “sito” ormai inizi a sentire già un po’ troppo di muffa se non di putrido. Almeno per quelli che sono i gusti di coloro che ritengono che essere al passo con l’ormai vertiginoso sviluppo della tecnica sia l’unico modo di vivere da persone veramente perbene. C Ma perché delizia e perché pena? Delizia.....! Perché l’effetto che questa vetrina virtuale vuole ottenere è proprio quello di stupire e divertire in modo apertamente barocco. Poco importa se il moderno barocco è ben poco rutilante e variopinto, ed invece ben più discreto nel suo grigiore mortuario da polito acciaio. Tutto ciò oggi si chiama clean. E pronunciare questo aggettivo richiede peraltro una ben nutrita dose di disinibita ed elegante puzza al naso modernista e quindi decisamente anti-tradizionalista. Sappiamo tutti però che la soglia sia della lotta alla Tradizione sia della vittoria contro di essa è stata ormai decisamente superata. E quindi come si può spiegare il fatto che tutta questa spasmodicamente ultimo-moderna estetica incentrata sullo stupire e divertire assomigli tanto all’ormai così antico épater les bourgeois? Ciò si può spiegare rendendosi consapevoli del fatto, peraltro abbastanza ovvio, che tutto ciò, pur essendo squisitamente moderno, ha ormai una lunga storia alle sue spalle. E quindi è esso stesso qualcosa che inizia curiosamente a puzzare di muffa se non di putrido. Ed allora la spiegazione di tutto sembra essere proprio nel fatto che coloro che continuano, o meglio che si ostinano a continuare, ad épatèr les bourgeois, non sono essi stessi oramai nient’altro che dei bourgeois. Cosa che, una volta ammessa, li spaventerà non poco, visto che si tratta di una delle infamie più grosse che si possano oggi mai concepire. E con quest’infamia appiccicata addosso non si fa carriera non si fanno soldi ed in generale non si combino nulla di buono. 61 Non è allora che forse siamo di fronte a qualcosa che ormai, con linguaggio nietzschiano, sta iniziando a chiedere a gran voce di essere superato? Certe ormai datate ma attualissime analisi sociologiche di un certo Pitirìm Sorokin1, sembrerebbero proprio autorizzare a crederlo. Ma ora veniamo la pena. Perché la pena? Pena...! Perché, una volta riavutisi dall’effetto voluto e raggiunto dalla mediatica vetrina di moderna arte scrittoria ci si ritrova quasi subito con l’amaro in bocca. A patto naturalmente che si abbia l’indecenza di conservare in sé almeno una briciola di quel buon gusto che proviene da antiche consuetudini del pensiero e dell’emozione. Usare la parola morale in questo caso sarebbe pur giustificato ma evitiamo di farlo per non essere provocatori. Perché ormai chi usa questa parola è solo un provocatore. E insomma quei pochi disperati che ancora pensano e sentono così profughi miserabili di un esercito da tempo in rotta ma comunque ancora dappertutto rastrellati , si sentono terribilmente a disagio davanti a tutto questo. Poco o molto a disagio non importa. Ed allora la prima cosa che ad essi salterà all’occhio sarà che la vetrina letteraria virtuale di cui parliamo non è in fondo altro che uno degli scenari di quello sterminato pullulare di scrittori che il mondo moderno ormai conosce. E questo è da un lato uno spettacolo spumeggiante. Ma dall’altro è invece uno spettacolo molto deprimente. Anzi decisamente desolante. Perché questa così incommensurabile estensione di disperati alla disperata ed avida ricerca di ascolto, in una società come quella moderna in cui ogni senso e soprattutto ogni senso comune si è dissolto tanto che già molto tempo fa la verità dovette essere sostituita da cogenti e prepotenti valori, cioè in fondo da meri frutti di calcolo, è cosa che fa veramente sgorgare le lacrime. Tutti disperati dell’anonimato! Scrittori a bizzeffe. Dovunque vi sia una superficie da graffitare. E siccome la carta ormai scarseggia, e peraltro non è nemmeno più tanto di moda, oggi a questo preponderante esercito di forzati della creatività si offrono altre possibilità. Dai muri delle case, alle pareti dei treni, a quegli strani giornaletti dall’atroce nome in neo-anglo-esperanto di fanzines, etc. Per giungere poi fino alle scintillanti superfici virtuali di cui stiamo parlando. Abbiamo parlato dello scenario globale. Ma che dire dei contenuti! Solo minimalismo lirico-onirico, specie quando si tratta di poesia. Lirico-onirismo di un quotidiano in cui viene stemperata l’ormai irresistibile tendenza delle personalità a liquefarsi, effondendosi come una melensa e calda glassa sulle cose circostanti. 62 Continuamente sfiorando, accarezzando, e talvolta anche eroticamente titillando, luoghi comuni sentimentalistici, lirici disimpegni da idealisti ormai troppo consumati e scaltri per aver paura della sciatteria (e che così non disdegnano di comparire in vestaglia o in mutandoni mentre sbadigliano e si grattano le parti basse), privatismi tra l’anamnesi medica e l’esibizionismo culturista, e quindi volgari, o disgustosi, o perfino apertamente esibizionistici. Come ho detto prima, davanti a questo così spigliatamente disinibito essere poeti (o filosofi) in rete, e quindi davanti a questa così doviziosa esposizione di mercanzia estetica, non si può non rimanere a prima vista impressionati. E qui allora lo scrittore intimista, e peraltro ammalato di tradizionalismo, il cui sentire ed il cui pensiero, così come le forme da lui usate per esprimerli (linguaggio, stile, mezzi comunicativi...), sono irrimediabilmente impastati di arcaismi e di ingenue nostalgie, si sentirà davanti a tutto questo una vera nullità. Ma bisogna cedere a questi attacchi di umiltà che spingono nelle braccia dello spasmodico ultimo-modernismo anche gli ultimi sparuti superstiti della reazione? Oppure bisogna restare fedeli al disagio che sorge spontaneo in noi, facendoci provare di fronte a tutto ciò se non nausea, certamente almeno tedio e pena. Ebbene c’è stato qualcuno che già nei primi decenni del secolo XX si confrontò da scrittore e letterato con tutto ciò. Ed in ciò che lui ha scritto al proposito si possono trovare tutte le ragioni per il disagio sia davanti alla totalità dello scenario del moderno esibizionismo scrittorio sia davanti ai contenuti che esso pone in mostra. Quest’uomo fu lo scrittore che proprio dalla crudezza del Moderno si sentì costretto ad essere un genio, cioè ad essere “una letteratura intera” invece che un semplice scrittore. È il Fernando Pessoa del Livro do Desassossego2, il Libro dell’Inquietudine. Ebbene quella che lui fa è una chiara e netta diagnosi di crisi rispetto alla modernità in tutte le sue forme. Politiche, morali, esistenziali ed artistiche. Si tratta, egli dice, della “malattia terribile” calata sulla civilizzazione dal XVIII secolo in poi. Malattia a causa della quale l’”attività superiore” si ammalò per sempre venendo così sostituita dall’”attività inferiore”. E così al centro di un un’arte e di una politica ormai fatte solo di elementi secondari del pensiero (romanticismo e democrazia...) dominava incontrastato l’ormai più totale ed impositivo sentimentalismo. Era giunto il tempo in cui le anime fatte per comandare erano costrette ad astenersi dal farlo e le anime fatte per creare dovevano limitarsi a farlo solo nei loro sogni. Per gli uni e per gli altri, in un mondo umano ormai indifferente a tutto ciò che è autenticamente (e non idealisticosentimentalmente) grande e sublime, non vi era infatti più alcun ascolto. Era insomma un tempo come quello di oggi, Un tempo in cui iniziavano a scrivere cani e porci. 63 Ed iniziavano ad avere successo letterario solo coloro che sapevano veramente scrivere come cani e porci, cioè senza vocazione, senza passioni ideali, senza visioni. E soprattutto senza libri. E così, dice Pessoa, non potendo più affermarsi alcuna qualità superiore a causa della defiinitiva rovina di ogni influenza aristocratica, la conseguenza di tutto ciò è un’“atmosfera di brutalità e di indifferenza per le arti, dove una sensibilità raffinata non ha rifugio”. E ciò implica che la vita “faccia male di più, ogni volta di più”, essendo ormai universale l’obbligo di sottomissione al penoso ed odioso sforzo come unico modo di esistere. Ecco che l’assenza politica e sociale dell’elezione, ossia di uno spazio protetto dall’immediatezza esistenziale, costringe anche gli eletti a confrontarsi con la vita nella sua brutalità. In altre parole in un mondo in cui non sono più nemmeno concepibili degli eletti, essere a qualunque titolo artista significa essere ormai l’esatto contrario dell’eletto. Il che significa moltiplicazione esponenziale degli artisti e decadenza inarrestabile dei contenuti dell’arte. Ecco insomma che, detto con le parole dello stesso Pessoa, con la rovina degli ideali, gli artisti divengono cattivi artisti. Ecco insomma riassunte tutte le ragioni per la seconda tra le due scelte alternative cui accennavano. La via dell’ostinato riserbo verso l’entusiasmo del godimento che la moderna vetrina virtuale dell’arte moderna non solo propone ma impone. Ebbene, se si fa questa seconda scelta allora si giungerà a chiedersi a cosa veramente serva tutto questo così minimalistico eppure sempre più pretenzioso rutilare. A stupire, divertire, intrigare e titillare, di certo! Ma come la mettiamo se ci si aspetta dall’arte qualcosa di più? 1 Pitirìm Sorokin, La crisi del nostro tempo, Arianna Editrice Bologna 2000 2 Fernando Pessoa, Livro do Desassossego, Relógio d’Água Lisboa 2008, pag. 279-281 *LETTERE Caro Giulio, il mio amico napoletano Vincenzo Nuzzo mi chiede che io ti parli di lui perchè so che sta avviando una collaborazione con Il Cerchio. Lui è un medico col pallino della filosofia e scrive cose non banali, animato da vera passione. Mi ha sottoposto non pochi scritti e il suo desiderio preminente è scrivere di filosofia. Ecco, voleva che te lo dicessi. Un caro saluto, Marcello LIBRI & LIBRI 64 Lo scaffale de Il Cerchio La Felicitá di essere Nicola Pagliara Patrizia Giordano etta dietro di te il tuo dolore e sarai libero”, questa citazione di Ibsen è una delle chiavi di lettura per abbandonarsi alla forza narrativa, alla sommessa volontà di raccontare e raccontarsi di Nicola Pagliara nel suo bel romanzo di esordio “ La felicità dell’essere”, edito da Pironti (pagg.110). Una serie di “appunti spontanei” quasi sfuggiti alla sua penna - scrive Gilberto Marselli nella prefazione - di architetto e docente universitario, amabile gentiluomo e fervido intellettuale che alle soglie degli ottant’anni parla di sé per successioni concrete, quasi passeggiando come un dandy all’inglese assieme al fido Argo tra le stagioni della sua vita. Viso espressivo, sguardo animato dalla eterna vicenda di tutto ciò che scorre, nel creato e nella storia, spinto dalla curiosità di sapere e di scambiare il sapere, l’autore procede a passi lunghi, non troppo ponderati come se si muovesse tra i plastici dei suoi edifici, mettendo al bando la ripetitività e i luoghi comuni, affidandosi ad una scrittura scattante, impetuosa, espressionista, ricca di slanci, pause, fughe, decori, bicromie colorate di affetto nostalgico e immediatezza comunicativa. Un dialogo costante col tempo che è anche il suo modo di “essere architetto”, sintesi dei suoi molteplici interessi - il cinema, la letteratura, la musica - vissuti senza risparmio di energie. Un modo di fare memoria che in Pagliara non è ciò che ricordiamo ma ciò che avremmo voluto ricordare. E quello che emerge dalle pieghe del ricordo è un universo tutto al femminile, ambientato con leggerezza e ironia, nella Roma degli anni Trenta, papalina e vaticana, ampia e luminosa, dove l’autore vive la sua infanzia felice tra le grazie di una madre “bella e ben messa” - come lo erano le donne della borghesia di provincia -, l’affetto delle quattro sorelle maggiori e di una balia, arrivata dalla robusta Ciociaria - orgoglio e prestigio per tante mamme dell’epoca - a dare “latte” nei primi anni di crescita. Ma ci sono anche le amiche delle sorelle e quelle di scuola, la burattinaia danese, i primi giochi solitari e le prime scoperte infantili che lo aiuteranno a costruire il suo universo di sogni. Poi arriva l’adolescenza nelle valli trentine e nella fredda e austera Trieste di Saba, la sconfinata ed appassionata ammirazione per il lieb Meister viennese di Otto Wagner, la villeggiatura a Tai di Cadore in una villetta con giardino e un gran parco dove si svolgevano le prime partite di tennis con quei “giovanotti” dai pantaloni bianchi sopra le scarpe Superga, che presto sa- “G 65 rebbero partiti per il fronte. Un’atmosfera che l’autore ritroverà, ricostruita perfettamente, nel film di De Sica “Il giardino dei Finzi Contini” con gli stessi flirt ed i giovani amori. C’è poi il ricordo vivido e straniante della seconda guerra mondiale, infine il trasferimento improvviso a Napoli nel ’47, la città dove “tutto è troppo” ma che avrebbe segnato per sempre il suo destino di uomo e di studioso e della quale si sarebbe innamorato. Perdutamente innamorato della sua “veracità”, quel rapporto intimo, intenso con le persone e le cose. “Quando gli anni incalzano, i ricordi riaffiorano in cordata e richiedono una sorta di cittadinanza letteraria - ha spiegato Francesco D’Episcopo nel corso della presentazione del volume alla Feltrinelli, facendo un chiaro riferimento a Marcel Proust - Ricordi più o meno consapevoli che in Pagliara si fanno forti, lucidi, diventando una molla potente per il disegno del futuro.” E mentre i volti sfilano nel catalogo della memoria, le emozioni riemergono e con esse si ritrovano gli odori, i colori, i sapori di un tempo. Allora la pagina si inebria di profumi e sensazioni : le prime colazioni consumate tra le braccia di sua madre divorando il pane zuppato nel caffellatte - un sapore che non ha mai più ritrovato e che lo riempieva di un piacere sottile -, il profumo della brillantina Fixina usata dal padre, l’odore intenso delle sigarette Serraglio, le canzoni di Rabagliati e la lingua inventata dalle sorelle maggiori, che era un miscuglio composto da “ufutuz e sengretinchi” e che per l’autore resterà per sempre dal significato misterioso. Tessere di un mosaico che si intrecciano e si ricompongono conferendo alla narrazione una dimensione lirica, evocativa che diventa anche affascinante testimonianza su un periodo centrale della nostra storia: il “secolo breve”. E allora a guardarli, con gli occhi del tempo, questi diciassette capitoli, diciassette lectio magistralis, con un tema autonomo per ciascuna, scopriremo come saranno determinanti i traslochi di città in città, il cinema di Fellini, Rossellini e De Sica, l’architettura di Otto Wagner, la poesia di Rilke e le storie di Schnitzel, il rapporto con l’altra metà del cielo, donne vicine e lontane, persino il ritardo della tesi di laurea e l’interruzione della carriera politica. “Un libro che assomiglia ad una mobilitazione generale con un chiaro riferimento alla storia di Guido, il protagonista di “Otto e mezzo”, uno dei film cruciali e decisivi per la formazione dell’autore, basti pensare al linguaggio misterioso, criptato usato dalle sorelle - ha sottolineato il critico cinematografico Valerio Caprara - Una mobilitazione generale che è un balletto, un fascinoso girotondo, una rievocazione di personaggi, figure, fatti, emozioni, affetti, di luci e di ombre che appaiono cinematograficamente vigili, come se fossero dei flash, delle connessioni alla “Sliding Doors” - ha proseguito Caprara - dove il ’68 gira nella candidatura a sindaco poi arriva l’esperienza dell’architettura che si intreccia alle scelte private. Una sorta di viaggio di Odisseo che è insieme realistico, dettagliato, nitido, visionario”. Una moviola della memoria che con Pagliara entra continuamente in azione senza pause, sin dalla prima battuta - la copertina in bianco e nero - guarda avanti portandosi con sé il passato, ma per salvarlo, come si raccolgono i feriti ed i caduti lasciati indietro, per portarlo in quella patria, in quella casa natale - come scrive Claudio Magris - che ognuno crede nella sua nostalgia di vedere nell’infanzia e che si trova invece nel futuro alla fine del viaggio. Questa è la felicità di essere. 66 Cesare Imbriani “Voci senza terra ed altro” Casa editrice: Plectica Il lavoro di Cesare Imbriani affronta i temi prediletti che la letteratura, grande borghese del ‘900, ha dibattuto nei salotti o in ambienti adeguati a discorsi sulla morte, sulla bellezza, sulla solitudine e sull’amicizia, ed è proprio l’amicizia che lo ha legato a Riccardo Tanturri ad apparire nella dedica “voci senza terra a Riccardo, la sua lettura, nel territorio dei mille linguaggi”; amicizia che si intona ad un inno alla vita e comprende dramma e dolore ineludibili dall’esistenza. Il suo lavoro è inquietante e contagioso perché l’autore possiede l’ironia, i suoi monologhi sono costellati di interrogazioni, di reiterazioni e di interpolazioni che assolvono nel connettivo della narrazione alla stessa funzione che il grande drammaturgo Beckett poneva nei suoi drammi. Quello di Cesare Imbriani è solo un apparente monologo: in realtà è un dialogo con interlocutori varii con i quali ripristina il contatto tra il quotidiano e l’assoluto con un continuo, imprevedibile scaturire di senso. Ad esso si associa una leggerezza mentale ed espressiva di cui l’ironia è componente primaria. Tale leggerezza non deve trarre in inganno perché è il risultato di una rigorosa e lucida, sapiente padronanza degli strumenti linguistici. La poesia di Cesare Imbriani non dà risposte perché ogni domanda può solo generare altre domande. Essa parla in modo aperto, dubbioso, non definitivo, non chiude ma apre ulteriori spazi alla riflessione e di ogni lettore sembra voler condividere intuizioni e sensazioni. Samuel Coleridge diceva: “In ogni conquistatore c’è un poeta”. Imbriani è un economi- sta che si occupa di teoria economica, banche, mercati finanziari, ma è un uomo perfettamente duale. Anche se noi, oggi – sembra voler dire l’autore – viviamo in un mondo apparentemente governato dall’assoluta casualità e, spesso, siamo a contatto con cattivi maestri, l’incanto della poesia ci renderà la vita più sopportabile e lieve. Aurora Cacopardo Dedica a Riccardo Un artista dell’avvenire che calca la scena nel territorio dei mille linguaggi, che canta nei giorni adibiti al silenzio e balla quando il moto appare fatica molesta, insomma una traccia preziosa nella continua speranza di codici nuovi, i luoghi dell’anima. Grato sono all’amico che mi sottrasse timore d’altrui lettura rinuncio a merletti ed altro per un solo verso dove l’anima completi la ragione di un disorientato viandante degno di memoria anche non etern 67 “Fotoreportage al femminile, sul femminile”, presentazione del volume “Images” di Paola Pisano, Napoli, Megaride Eventi Club, 18 ottobre 2012. Lo scorso 18 ottobre, nell’accogliente e partecipe cornice del Megaride Eventi Club di Napoli, è stato presentato da Ermanno Corsi, Francesco D’Episcopo e chi scrive il volume fresco di stampa “Images” per i tipi di Arte Tipografica Editrice che raccoglie una ricca selezione di foto di viaggio di Paola Pisano. Mentre i relatori leggevano del volume, da angolazioni diverse, le specificità, gli aspetti che maggiormente avevano colpito la loro attenzione di giornalisti e docenti universitari, in videoproiezione scorrevano le foto dell’autrice a ribadire comunque la supremazia dell’icona sulla parola, a fornire all’affollata platea il registro visivo di ciò a cui le parole alludevano. E dalla platea, gradito ospite, è stato invitato dai relatori a dare il suo personale punto di vista sulle immagini Luigi Maria Lombardi Satriani: nella cornice di un simpatico, non previsto fuoriprogramma, l’antropologo ha stigmatizzato la dimensione sociale ma pure intimistica delle foto di Paola. Personalmente, sempre a proposito del menzionato registro visivo dell’autrice, ci pare esso riconoscibile in funzione di un idioletto iconico altrettanto ben definito, maturato e strutturatosi in molti anni di viaggi ed in molte migliaia di fotografie con le quali Paola Pisano ci disvela il suo personale approccio con la gente incontrata nelle mutevoli e distanti contrade del globo da lei visitate. Assolutamente distante dalle logiche aberranti e distorcenti dei viaggi preconfezionati, effettuati nei decontestualizzanti confini di villaggi turistici e di escursioni pilotate, Paola si avventura in punta di piedi, lieve ma, al contempo anche risoluta, nelle pieghe di un’umanità che spende la propria vita con i pochi mezzi di cui dispone, sulla strada, nella foresta, in povere abitazioni, in America latina, in India. Gente che si incontra, si parla, che commercia, che lavora i campi, che accudisce i figli, che viaggia o che resta immersa nella lettura o nella preghiera, che sorride o si schernisce, che nasce e muore. L’espressione che stiamo per utilizzare è certamente retorica, ma le foto di Paola compongono un affrescosull’esistenza umana che colpisce per la forte pregnanza di immagini che molto lavorano sul colore, sui primi piani e sui grossi formati in ciò, però, non facendosi mai assordanti, mai soverchianti i volti ritratti. È qui che la foto palesa, a nostro giudizio, la sua provenienza “femminile” in quel suo indagare ambiti etnologici ed al contempo cari alla foto di denuncia socialesenza sposare, soprattutto di quest’ultima, la marcata, quasi esibita referenzialità, in altri termini la “voce grossa”. Più introspettivo, nei limiti consapevoli di uno scatto, di un viaggio che è innanzitutto cammino e non sosta, deambulazione e non acquartieramento, sia mentale che fisico, lo sguardo di Paola Pisano, comunque perscrutante, coglie la grazia di un sorriso, la pudicizia di un espressione maggiormente ascosa, la ieraticità di chi prega o medita, restituendoci le forti essenze di quei momenti ma non oltre azzardandosi. E la grazia di un sorriso non è solo quella delle molte donne, dei molti bambini ritratti, ma certamente la 68 sua medesima, quella con cui, prima di accostare l’occhio al mirino, intercetta ed evoca la disponibilità umana dei suoi soggetti ad accettare il forestiero, l’altro, anche soltanto, od innanzitutto, in un’occhiata, in una semplice occhiata che però già dice di un contatto avvenuto, di un’accoglienza certa. Materica e delicata è dunque la foto di viaggio di Paola, riverbero di una donna tan- to discreta quanto pragmatica e forte, ove il connotato antropologico, già in ella evidentemente presente ben prima dei suoi percorsi universitari nell’ambito delle scienze dell’uomo, mostra rispettosamente di attingere ad un etnocentrismo critico in cui matura, prima dello scatto, il rispetto per l’umanità raffigurata. Alberto Baldi 2013 Gli amici de Il Cerchio sono cordialmente invitati 16 gennaio 2013 - ore 20.30 Crisi economica versus lavoro I cineforum di attualità a cura di Raffaele Della Vecchia 30 gennaio 2013 - ore 20.30 Crisi economica versus lavoro II cineforum di attualità a cura di Raffaele Della Vecchia 13 febbraio 2013 - ore 20.30 L’eterna seduzione. Ovvero di vampiri, politici e altri mostri reading filosofico a cura di Alessandro Arienzo e Marco Castagna 20 febbraio 2013 - ore 20.30 Io Georges Méliès reading sulle origini del cinema a cura di Alessandro Stile 27 febbraio 2013 - ore 20.30 Pavese cantore del lavoro reading filosofico a cura di Riccardo De Biase e Rosario Diana 69 13 marzo 2013 - ore 20.30 Ambiguità del reale I cineforum filosofico a cura di Leonardo Distaso 17 aprile 2013 - ore 20.30 Fioriture dal silenzio reading filosofico a cura di Riccardo De Biase e Rosario Diana 20 marzo 2013 - ore 20,30 Dei patimenti dello sguardo. Da Beckett e oltre reading filosofico a cura di Riccardo De Biase e Rosario Diana 6 maggio 2013 - ore 20.30 L’Accademia della luna spettacolo teatrale scritto e diretto da Maurizio Morello 27 marzo 2013 - ore 20.30 Ambiguità del reale II cineforum filosofico a cura di Leonardo Distaso 22 maggio 2013 - ore 20.30 Voci spettacolo teatrale scritto da Daniela Garofalo e diretto da Lina Perrella 3 aprile 2013 - ore 20.30 Vita a scacchi. Tre pezzi di Samuel Beckett spettacolo teatrale diretto da Lina Perrella musiche di Rosalba Quindici “Passione e morte. Claretta e Ben” “Passione e morte. Claretta e Ben”. Qualsiasi titolo riferibile alle tensioni derivanti da un pensiero sostenuto dall’espressione di poesia avrebbe convalidato la tessitura di Passione e Morte – Claretta e Ben, Luigi Pellegrini Editore, di Pierfranco Bruni. Il libro sembra concludere il cerchio del pensieropoesia dedicato all’amore nella silloge Ti amerò fino ad addormentarmi nel rosso del tuo meriggio, che qui raggiunge la matu- 19 giugno 2013 - 20.30 Come parlare a Dio. Lutero e Bach reading filosofico a cura di Riccardo De Biase e Rosario Diana 70 rità espressiva nella coincidenza di prosa che assimila l’essere poesia senza maschere. Il passaggio si dota di una semantica simbolica che procede come monologo interiore nel quale il parlante-autore si rivolge all’io assente compresso in un tempo istantaneo, che rallenta e riprende l’esplorazione dei sotterranei evocati negli spazi vuoti: Mio padre mi racconta. Mia madre ascolta ma rincorre i segni delle favole lontane. Le favole sono fiori di una primavera che scava nel tempo. Si comprende da subito che il libro sarà nucleo di altro per parlare con la voce delle proprie sensibilità, esternate attraverso metafore dialogiche che incedono con uno slancio che porta costantemente fuori e dentro. Similmente é l’intonazione anapestica della narrazione, che abbandona la convenzionale forma lineare in favore di affermazioni sillabiche interrotte: Bruni spiega (come vela) una situazione che parla di amore e che sconfina oltre le parole di una storia nata con il seme della tragedia in un tempo anti ideale. Soprattutto il suo cannocchiale punta su Claretta-territorio donna in un’intonazione anti-nostalgica, che suggerisce la concentrazione io-spettatore-protagonista mediante la quale perviene a una sorta di contrazione del sé-poeta al sé-donna, tesa a scegliere il destino di fine nel momento in cui sceglie il destino di amore. Passione e Morte intralcia quindi la linearità oleografica per assumere le sembianze di una rappresentazione sensibile della propria esperienza di pensatore. Ed è all’insegna della poeticità assorta che il libro si apre in una metamorfosi che unifica l’autore intrapreso da libito nei confronti dell’idea di amore e l’immagine di sintesi bustrofedica passione-morte: Tra l’amore e la morte si resta come volo appeso tra i venti dell’attesa. Dunque. Il linguaggio interviene quale sintomo di un’aporia espressiva della divergente situazione che unifica e al contempo contrappone due situazioni, l’una di natura fisica e l’altra quale eterna attesa. In tal senso, l’alone luminoso intorno alla scrittura diviene strategia per confrontare se stesso con l’essenza di amore che pervade spazi interrotti. Bruni manifesta il suo essere dalla parte della donna che sceglie il suo cammino; che mira ad affermare la sua volizione nell’incastro di azione e volontà in reciproco accordo, nella determinazione che la sua scelta sia luogo di auto riconoscimento. Claretta, dunque, e Piefranco. Claretta: amore-pathosmalattia che soggioga senza possibilità di cura. Pierfranco: pathos-struggenza che alimenta una poesia dettata da meditazioni all’interno del circuito mente-sensi. Esemplare gioco di alternanze e coincidenze. Espressione dell’io volente. La narrazione infittisce note personali ed esplora privati nuclei per fondersi con le pressioni dell’immaginazione, poiché Le storie d’amore (…) lasciano, tra le pieghe, le sensazioni, le emozioni… A questo punto, l’invenzione di una nuova esistenza incrociata con le lusinghe della fantasia é chiamata a metter ordine a pensieri che altrimenti fluttuerebbero impazziti tra le pagine. Tutto si acquieta e nel momento in cui l’intonazione sembra intraprendere l’amaro, l’autore oppone una chiosa e determina la conclusione con la motivata spiegazione: Si può amare in tanti modi. Si può morire in tanti vissuti. Carmen De Stasio 71 Folta partecipazione al Megaride per la presentazione del libro 72 “Il giardino dei silenziosi” Mauro Castaldo Iuppiter Edizioni In un Paese che apprezza sempre meno i suoi intellettuali, che esilia i poeti e dove i pochi scrittori capaci di misurarsi con un vero saggio o romanzo mi fanno ricordare esploratori in una giungla privi di ogni bussola, quando accade di trovare un libro pieno di senso e di fascino come è “Il giardino dei silenziosi” (Iuppiter Edizioni) di Mauro Castaldo, allora ci si sente affrancati dalla crudeltà dei tanti che della scrittura sono abituati a fare un uso improprio ed un abuso frequente. Mauro Castaldo, nel suo lavoro, offre a chi legge una impeccabile testimonianza del valore e della qualità della sua ricerca sugli organi nelle chiese napoletane, inchiesta tra storia e provocazioni. Si coglie in questo libro una varietà di atteggiamenti che vanno da quello elegiaco (quando l’autore fa compiere all’organo un vero e proprio giro per i luoghi anche nascosti, che dallo strumento ricevevano suoni di preghiera ed erano i tempi in cui la messa era solo diurna e mattutina) al grido di protesta per lo scempio e l’oblio in cui a Napoli sono finiti gli organi. Nel complesso conventuale di San Lorenzo Maggiore vi è una cappella che custodisce un organo del XVII secolo completamente abbandonato, in compenso vi sarebbe sepolto Francesco Durante, grande maestro della Scuola Napoletana. Imperdibili gli organi della Chiesa di Santa Maria La Nova in cui è possibile solo godere delle mostre magnifiche in quanto sono stati ridotti al silenzio. Come nel caso dell’antica basilica di San Pietro ad Aram: la Chiesa subì alterazioni e distruzioni. La bella espressione arabe per indicare i cimiteri, giardino dei silenziosi, ben si addice, sostiene l’autore con ironia, a questo enorme giardino di organi nella città di Napoli. Da notare anche la bella flora che cresce indisturbata sulle cupole maiolicate delle chiese della città. Il giardino dei silenziosi suscita una commozione che, forse, non ti aspetti, poiché accompagni pian piano l’autore nel suo viaggio reale e realisticamente descritto dal Nord al Sud dell’Italia e finisci per condividere con lui l’essenza e l’armonia della vita, le trame della sofferenza ed il mistero dell’Oltre. Lo stile dell’autore è incisivo ed essenziale, ricco di immagini che rendono più efficace la sua narrazione. Il libro si chiude con una citazione importante intorno all’organo, citazione che troviamo ne La Divina Commedia e precisamente nelle terzine con cui Dante chiude il IX canto del Purgatorio: “Io mi rivolsi attento al primo tuono/ e te deum laudamus/ mi parea Udir in voce mista al dolce suono/ Tale immagine appunto mi rendea/ Ciò ch’i’ udiva/ qual prender si suol/ Quando a cantar con organi si stea: Che or sì or no si intendon le parole” A.C. Caravaggio Ho scritto il mio nome nel sangue di Mariano Marmo – Iuppiter Edizioni Romanzo-saggio di forte impegno morale, di intensa lucida carica drammatica e distruggente coinvolgimento. Sì, perchè l’autore nella 73 sua attenta, puntigliosa ricostruzione della vita e della morte di Michelangelo Merisi detto Caravaggio, non riesce a nascondere il fascino e la passione che l’artista “maledetto” ha su di lui. Mariano Marmo, medico, giornalista, autore di pubblicazioni storico-scientifiche, è testimonianza eloquente delle doti necessarie per sentirsi pronto ad affidare ad un libro il pensiero e la voce di “Michel Angelo incominciò l’imitazione delle cose vili, ricercandosi le sozzure e le deformità […] e così nell’imitare li corpi si ferma con tutto lo studio sopra le rughe e i difetti della pelle e dita nodose, le membra alterate da morbi”1 . Violetta Luongo ha scritto una prefazione esaustiva, impeccabile e, cosa sempre più rara oggi, chiara, di godibile lettura. Michelangelo ci viene presentato come osservatore attento della realtà da lui esplorata in tutte le dimensioni possibili sia per vocazione artistica sia per viaggi, spostamenti continui che lo hanno portato a sperimentare di persona il carattere, gli umori, l’anima della gente. Al soggiorno milanese veneziano non troppo felice, secondo il Bellori, succede il romano; periodo duro, è sfruttato da prelati di poca coscienza, si ammala ed è ricoverato in un ospedale. Caduto in miseria, dipinge fiori per il Cavalier d’Arpino poi, inimicatosi costui, per sopravvivere dipinge figure. Ottenuta, infine, la protezione del Cardinale del Monte e la commissione dei quadri di San Luigi dei Francesi, si impone all’ammirazione dei pittori, ottiene fama, suscita intorno a sé una schiera di invidiosi nemici ai quali risponde in tutti i modi: con una serie di capolavori, con diffamazione, con duelli, ferimenti, con un omicidio. Si istruiscono contro di lui quattro processi. Fugge dal carcere. Le sue tappe saranno Napoli, Malta, Messina, Palermo. A Malta farà il ritratto ad Alof di Wignacourt dal quale riceverà accoglienza ed onori. Ma la natura lo incalza: offende un cavaliere e viene arrestato. Fugge a Siracusa, Messina, Palermo sempre braccato, poi di nuovo a Napoli dove viene raggiunto e ferito al volto. Su una feluca ripara a Porto Ercole, dove per errore è trattenuto due giorni in prigione. Liberato non trova più la feluca con le sue robe. Disperato e stanco abbandona sulla spiaggia del Tirreno, il suo corpo ferito e, colpito da febbre malarica, così morirà senza assistenza umana il 18 luglio 1610 all’età di 39 anni. Una vita dura, tragica e fosca che si intravede nella sua opera pittorica. Luce ed ombra, vita e morte si inseguono in una danza macabra dove, proprio perché alla seconda non si sfugge, anche la prima trova, nonostante tutto, il suo risalto. Caravaggio si spinge molto avanti nella sua riflessione artistica. Meditazione sulla malattia e sulle sofferenze produce esiti vertiginosi non sempre compresi dai suoi contemporanei, vedi ad esempio: “La morte della Madonna”, rifiutato dagli altari, forse il quadro più profondamente religioso del ’600 italiano. Nella sua meditazione straziata e straniante sull’eterno e sull’umana caducità, l’opera di Caravaggio sembra voler coniugare arte e religione. Il senso complessivo che si coglie nel lavoro di Mariano Marmo è quello di un luminoso calvario, dove il dolore non è mai benedetto ma neppure inutile. Di fronte al mistero e all’abisso è necessario fermarsi, ma il cammino che ha condotto fin qui in questo libro denso e composito è comunque gravido di senso. A.C. 1 Bellori. Mariano Marmo “Caravaggio” pag. 13 74 LE LETTURE DI ANNARITA SINISCALCHI Per non dimenticare: la battaglia di capo Matapan Durante la seconda guerra mondiale, tra il 28 ed il 29 marzo 1941, nelle acque a sud del Peloponneso, una squadra navale della Regia Marina Italiana, agli ordini dell’ammiraglio di squadra Angelo Iachino, affrontò la Mediterranean Fleet britannica, capitanata dall’ammiraglio Andrew Cunningham, nella famosa battaglia di capo Matapan. Due furono gli scontri: uno, combattuto nei pressi dell’isolotto di Gaudo tra la mattina ed il pomeriggio del 28 marzo, ed un secondo al largo di capo Matapan nella notte tra il 28 ed il 29 marzo. Purtroppo, nonostante il valore dei nostri connazionali, tra le cui fila si contarono più di 3000 morti, lo scontro fu sfavorevole alle forze italiane: i tre incrociatori Fiume, Pola e Zara andarono perduti, mentre la corazzata Vittorio Veneto fu gravemente danneggiata. Ancora una volta, mancò la fortuna, non certo il valore. Una tragedia umana, quella della battaglia di capo Matapan, che ancora oggi insegna e induce a riflettere. Questi temi sono stati affrontati nel corso del convegno organizzato, ad agosto scorso, presso il Circolo Nautico Portosalvo “Girolamo Vitolo”, a Marina di Pisciotta. Avvalendosi della collaborazione del l’Ufficio Storico della Marina Militare Italiana e dell’Istituto di Studi Storici e Sociali di Napoli, i soci del circolo hanno pubblicato anche un interessante opuscolo che ripercorre i momenti cruciali della battaglia di capo Matapan. Con un preciso obiettivo: celebrare i valorosi marinai e comandanti italiani, il cui coraggio ed eroismo fu riconosciuto anche dagli stessi nemici inglesi. Tant’è che l’autorevole quotidiano londinese Times, nell’edizione del 25 febbraio 1961, dopo quasi vent’anni dalla battaglia, ebbe a scrivere: «Riconosciamo che Matapan fu una nostra fortunata e assai fruttuosa azio- ne navale, ma tributiamo anche onore alla Marina Italiana, quando onore le è indubbiamente dovuto». Dimostrazione del fatto che, a dispetto di quello che fu il tragico epilogo del conflitto mondiale, nelle forze armate italiane, i valori dell’onore e della fedeltà erano molto più radicati di quanto non lo fossero in certi ambienti della politica ed in alcune frange dello Stato Maggiore. Figure della Passione: i versi di Dora Celeste Amato Nelle “Figure della Passione” (Empiria edizioni) di Dora Celeste Amato, la lingua poetica si costruisce via via a partire da una costante verifica delle possibilità di dire – e, prima ancora, di capire – con gli accenti di una, sostanzialmente utopica, tensione alla verità, all’autenticità, e la costante riaffermazione di un sentimento che è alla base della possibilità stessa di dire l’“altro”: l’individuo dello scambio e del confronto, ma soprattutto la persona amata. Nelle sue poesie è racchiusa la straordinaria possibilità di far dire alle parole tutto ciò che si vuole e scegliere, tuttavia, di restituire ad ogni singola espressione il suo originario significato. La poesia è parte integrante dell’animo dell’au- 75 trice, già da molto prima che pubblicasse questo libro, come conferma la sua intensa attività di scrittrice, operatrice culturale ed autrice di libri per il Touring Club Italiano e per la ESI (Edizioni Scientifiche Italiane). Non solo: la sua intensa attività creativa, infatti, si è esplicata con successo anche come programmista-regista di molti documentari per RAI 3 e per Napoli Canale 21. La parola poetica di Dora Celeste Amato ha uno spessore e una pregnanza di significati, racchiude simboli reconditi e suggestive figurazioni, conferisce a semplici eventi di vita vissuta una ricchezza e una molteplicità di significato straordinari grazie all’efficacia delle figure retoriche (soprattutto la metafora e l’allegoria) ed al vigore espressivo, alla capacità di sintesi, alla musicalità, all’originalità dello stile così diretto e così apparentemente asciutto. Dora Celeste Amato dimostra di possedere una padronanza del verso davvero eccezionale, come giustamente sottolinea Giorgio Patrizi nella prefazione: «Dora Celeste Amato ci narra - con questa duttilità di registri, che poi vuol dire duttilità di sentimenti, di modi di esprimerli di approcci alla propria e all’altrui esistenza – una vicenda esistenziale complessa descritta attraverso un occhio smaliziato, ma non distaccato, consapevole eppure, in fondo, non immune da ingenuità». “Festa sui muri” per l’ultimo libro di Vittorio Paliotti “Festa sui muri” (Rogiosi editore), questo il titolo dell’ultimo lavoro di Vittorio Paliotti. Giornalista, scrittore e commediografo, già autore di sei romanzi (“Casa con panorama” (anche per il teatro), “Spara, amore mi”, “Donna di salvataggio”, “La strada delle maschere”, “La luna fredda”, “Dentro di me una strega”), nonché inviato speciale dei maggiori settimanali italiani e conduttore di importanti rubriche della Rai. In “Festa sui muri”, Paliotti descrive una Napoli leggendaria datata anni Cinquanta, animata da uno spirito popolare un po’ gaglioffo, ma anche pervasa da ardori sinceramente rivoluzionari. Un mondo ed un approccio alla vita in cui il profitto e l’utile personale non sono gli unici obiettivi possibili. È la storia di Giovanni Pasca, pensionato casualmente candidato alle elezioni amministrative, non più giovane, l’esistenza del quale si intreccia con la vicenda del misterioso Carmelo. Quest’ultimo omicida per onore dell’amante di sua figlia. Potrebbe sembrare un mondo antico, quello narrato nelle pagine di “Festa sui muri”, eppure l’affresco narrativo di Paliotti si impasta in una realtà moderna, forte e sanguigna. Lo si intuisce già dalla copertina, che sembra una sorta di manifesto nostalgico e festoso di una politica ormai perduta. Quasi un affresco contraddistinto da giochi di luce quasi caravaggeschi che gli conferiscono realtà e lo rendono animato al punto da far sì che il lettore attraversi un ponte temporale fino ai giorni nostri. Un romanzo, insomma, che con un soffio di amarcord evoca la passione di giovani sognatori, spesso e volentieri impegnati nella militanza politica e nella propaganda elettorale. Ma che, con grande icasticità di immagini, riesce a raccontare la vita di Giovanni Pasca, aspirante politico per caso, lasciando trasparire tutta la trasgressione e la ribellione anarchica di certi personaggi. 76 IL CERCHIO di Napoli Una città che va pensata in modo organico Rosaria Morra ne ha parlato con Mario Forte na città da pensare in modo organico». Così l’avvocato Mario Forte, già sindaco di Napoli, parlamentare europeo, membro della Commissione per i Bilanci, della Delegazione per le relazioni con il Giappone, dell’Assemblea paritetica della convenzione fra gli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico e la Comunità economica europea (ACP-CEE), della Commissione per le Libertà pubbliche e gli Affari interni, della Commissione per le Petizioni, della Delegazione alla Commissione parlamentare mista CE-Spazio economico europeo, e della Commissione per gli Affari esteri e la Sicurezza, parla della città di cui è stato primo cittadino dal 6 agosto al 28 novembre del 1984. L’uomo di legge che nell’esperienza politica ha espresso la passione e il senso di responsabilità verso la res publica, parla della sua amata città oggi, evitando le idee romantiche che molti amministratori, nel tempo, hanno confezionato ad hoc e sottolineando con chiarezza e lucidità le risorse da cui far rinascere Partenope così come i nodi, atavici, da sciogliere. A raccogliere le sue acute riflessioni è Il Cerchio, che lo ha incontrato nel suo prestigioso studio al 19 di via Depretis. «U 77 Onorevole, cosa pensa della situazione in cui versa oggi Napoli? «Io ho l’impressione che ci sia molto fumo e non tanto arrosto. Penso che la quotidianità dei napoletani abbia bisogno di scelte che rendano la città concretamente vivibile, che risolvano i problemi e non ne creino di ulteriori. Ad esempio, la “liberazione” dalle macchine di via Caracciolo, che ha espresso la forte visione ecologica del sindaco, ha comportato però l’“aprirsi” dell’ennesima vetrina alternativa di ambulanti e, allo stesso tempo, il deleterio intensificarsi del traffico alla riviera di Chiaia, già notoriamente impazzito. Sono molti i napoletani che non condividono la “liberazione”: seppur l’immagine “verde” del sindaco sia cresciuta agli occhi del mondo, non so quanto la città abbia guadagnato da questa scelta». E la vocazione verde di Napoli continua con la pista ciclabile, una “gimkana”, come molti l’hanno definita, ancora lontana dai ben fulgidi esempi europei cui anela. Secondo lei è l’ennesima scelta propagandistica oppure si tratta di un’alternativa concreta visto il periodo di forte crisi? «Indubbiamente si tratta di una scelta vicina all’ambiente, ancora una volta nel solco dell’ecologia. Napoli, che non ha mai dimostrato la vocazione alla bicicletta, potrebbe o dovrebbe convertirsi alla stessa; certo, ideologicamente, è bello pensare ad una Napoli di ciclisti ma, data la struttura della città, rappresenta più un sogno che una realtà. Io non vedo tante biciclette in più rispetto a prima, forse adesso ci facciamo più caso. Secondo il mio modesto punto di vista, oggi più che mai, l’amministratore non può permettersi utopie ma deve guardare la realtà così com’è nella sua concretezza, spesso amara. Come pensare nei vicoli dei Miracoli o di Toledo di passeggiare in bicicletta? Mentre nelle città del Centro e del Nord il suo utilizzo come autentico mezzo di trasporto è molto sviluppato da noi rappresenta solo un “optional”, forse un tantino snob». E allora cosa si potrebbe fare, concretamente, nell’immediato, per risollevare Napoli, per “rianimarla”? «La priorità assoluta è risollevarsi dalla crisi economica. Ad esempio, ogni giorno mi trovo a percorrere via Francesco Gilardi e, solo ultimamente, ho contato ben dodici, e, ribadisco, dodici, magazzini chiusi. Questo è il simbolo della crisi che attraversa la già povera economia napoletana che, nonostante tutto, nel commercio ha sempre espresso il suo lato positivo; ora che è entrato in crisi, per dinamiche che sicuramente interessano l’intera economia globale, la città si mostra in ginocchio. Altro esempio clamoroso, è la chiusura di negozi in via Toledo, cioè nel cuore della city, cuore pulsante della nostra economia; una cosa che non mi era mai capitato di riscontrare. Napoli, infatti, non “soffre” per la chiusura dei grandi complessi industriali che da tempo ha perso, ma entra in difficoltà nel momento in cui il “commercio”, inteso a trecentosessanta gradi, accusa segni di decadenza». Secondo lei il polo fieristico potrebbe essere un volano? E i grandi eventi sono delle risorse o dei bluff? 78 «Il polo fieristico è un’opportunità. Un’opportunità concreta e reale, sia per la centralità della location quanto per la capacità di accogliere visitatori, peccato che, ad oggi, abbia perso l’allure di un tempo. Se l’attenzione degli amministratori si concentra sull’illusorio rilancio offerto dai grandi eventi, che attirano sì appassionati e addetti ai lavori ma si rivelano assolutamente incapaci di creare economia reale, questo può far perdere di vista l’importanza della Mostra d’Oltremare, una risorsa dall’immenso potenziale, ahimé, inespresso. Il suo “silenzio” nell’agenda degli appuntamenti napoletani con il grande pubblico “impoverisce” visibilmente la città tutta, e rappresenta quella esigenza che la classe dirigente dimostra verso una struttura che è in se uno strumento per il rilancio espositivo e fioristico. Inevitabile pensare allora ad un’altra “sedicente” risorsa, Bagnoli, costantemente simbolo di propaganda e di rinascita. Ma è qualcosa da cui poter ripartire o si tratta dell’ennesima utopia napoletana? «Vorrei pensare in positivo ad un rilancio di Bagnoli, però propongo al lettore una domanda: tra Capri, Ischia - solo per citarne due - e Bagnoli, dove sceglierebbe di trascorrere, ove possibile, 15 giorni? Io sono nato a Bagnoli, nella casa estiva che mio nonno anni addietro costruì come luogo di villeggiatura. Poi venne l’industria siderurgica e il futuro di Bagnoli fu completamente modificato. Oggi si parla di un “avvenire turistico”, il lungomare di Bagnoli ha certamente uno splendido panorama ma non una altrettanto splendida spiaggia. Per cui non so davvero quanti napoletani, e specifico, napoletani, non turisti, sarebbero disposti ad andare a fare il bagno d’estate sulle spiagge di Bagnoli. Sono fortemente convinto che la sua vocazione sia quella di un raffinato quartiere residenziale da realizzarsi con strade larghe e squadrate con infrastrutture di livello, esercizi commerciali di qualità, alberghi ed iniziative legate al terziario superiore. Insomma, Bagnoli potrebbe diventare il nuovo quartiere della “borghesia napoletana”, così come fu il Vomero agli inizi del ‘900. Sepolta, e giustamente, la prospettiva industriale non è credibile l’insediamento di altre “industrie”, mentre resta una proposta realistica quella di veder crescere con una responsabile architettura un’area residenziale, soprattutto dati i collegamenti che la rendono facilmente raggiungibile». Ha parlato di “borghesia napoletana”, eppure, oggi, Napoli esprime una “borghesia” che non è più parte attiva e integrante della città. Non crede più alla causa di Partenope o pecca, come troppo spesso ha fatto, di presunzione e “pigrizia”? «La borghesia napoletana in verità non ha mai brillato per grandi iniziative. Ricordiamo come tutti i più grandi meridionalisti abbiano sempre espresso giudizi negativi verso una “classe” più proclive a cercare l’impiego che a dar luogo ad iniziative imprenditoriale. Va tuttavia aggiunto, non a giustificazione, ma con senso realistico, che le scarse possibilità di lavoro hanno costretto i giovani napoletani a preferire altre realtà, spesso al nord o addirittura all’estero, che oggi, grazie alla facilità dei trasporti e alla semplicità e possibilità delle rimesse, il rapporto con la propria terra natia resta rafforzato, per cui si attenua il distacco “dell’emigrato. Complessivamente, però, per evitare lo spopolamento ed il degrado conseguente, non possiamo più pensare in termini di “città tra- 79 dizionale”, ma pensare e ragionare in termini di “area metropolitana”. Ciò è vero a tal punto che il governo Monti ha adesso previsto lo status di città metropolitana per la nostra Napoli». Da qui il potenziale di Bagnoli sempre più vicino all’esempio residenziale domitio? «È inutile arrampicarsi sugli specchi e sognare: se in quelle zone c’è stata urbanizzazione non si torna indietro. Il futuro è nell’area metropolitana, con un “governo” a più ampio raggio ed al posto cioè di tanti municipi avere, per i grandi indirizzi della programmazione e della spesa per le opere, un governo metropolitano che si sostituisca per gli interventi conseguenti all’iniziativa del Comune. Si tratta di una realtà, ormai, e Bagnoli potrebbe godere di queste scelte lungimiranti e (ri)nascere, nel senso già detto di nuovo quartiere residenziale. E Napoli oggi può (ri)nascere anche attraverso il traffico crocieristico. Ma allora perché resta un luogo di “passaggio” e non diventa una meta? «Le attività crocieristiche rappresentano uno dei fattori fondamentali di sviluppo per la città. I numeri parlano di circa due navi al giorno che attraccano presso il nostro porto con un flusso di circa tre-quattromila passeggeri. Non si può non vedere come, ancora una volta, dal mare vengano le risorse per la nostra economia, eppure non siamo capaci di rendere concreto questo immenso potenziale, non siamo capaci, nonostante il vastissimo patrimonio culturale, artistico e paesaggistico, di offrire attrattive che rendano “stanziale” questo “turismo”. Demerito e miopia di un sistema che abbiamo contribuito a creare». E se fosse il patrimonio di cui ha parlato la risorsa economica di Napoli? Se si desse vita ad un’“industria culturale”? «Rispondere no è impensabile. Ma penso sia più corretto parlare di iniziativa culturale anziché di industria culturale. L’esempio, inevitabilmente, va all’opera di Gerardo Marotta. Quando circa 30 anni fa creò prima la biblioteca e poi l’Istituto (italiano per gli studi filosofici, ndr), io allora proposi una legge regionale ad hoc per le sovvenzioni necessarie; con questo voglio dire che l’iniziativa culturale più che essere produttiva in termini economici può e deve rendere in termini d’immagine alla città. L’Istituto, non certamente produttivo di economia, ha reso un servizio significativo all’immagine di Napoli. Quando nel 1994 su mio invito, allora ero capo del gruppo italiano dell’MPE al Parlamento europeo, arrivò il presidente del parlamento europeo, Egon Klepsh, la visita principale che facemmo in città fu proprio all’Istituto perché il presidente, uomo di cultura, volle conoscere questa primizia napoletana». Non crede quindi nell’“industrializzare” il patrimonio culturale? Potrebbe essere interessante, ma ritengo che la c.d. industria culturale o attività creativa se ha un riflesso nel Mezzogiorno e a Napoli, non genera però una grande attività produttiva. Le statistiche recentemente pubblicate indicano che a Napoli gli addetti alle attività culturali sono 10.378 contro i 62.505 di Milano e i 61.617 di Roma. Da noi, insomma, le attività culturali non sono “fabbriche” e più che creare posti di lavoro, servono essenzialmente a lanciare iniziative ed eventi temporanei che possono anche attirare turismo e fare immagine, ma non determinare occupazione stabile. 80 A Santa Lucia un appuntamento in rosso Caro Direttore, nel “Cerchio” primavera-estate 2012 hai preannunciato che, nel numero successivo, avrei “parlato di Santa Lucia nell’ultimo racconto di Annella Prisco”. In effetti, nel presentare il libro della nostra amica scrittrice al Circolo Savoia, ho fatto un (per me divertito) riferimento a Santa Lucia per dire che, noi “luciani”, abbiamo un forte senso dell’apparenza. Per questo mi è venuto di affermare che Santa Lucia non è una strada, né un rione e nemmeno un quartiere. È direttamente una “patria” per i tanti significati che questa parte di Napoli contiene in sé. Santa Lucia, nel romanzo “Appuntamento in rosso” (edito da Guida) di Annella Prisco, è uno dei luoghi cui maggiormente si lega la figura della protagonista che, per la sua attività nel campo della promozione culturale, si muove fra Napoli e Roma, fra Milano, Ravello e Capri. È una donna che, come mette bene in rilievo Gianna Schelotto nella postfazione, vive una singolare dualità. Sono le due dimensioni del mondo reale-pubblico e del mondo parallelo-privato. Una dualità che contiene una forte contraddizione. Da una parte c’è, in Irene Bellucci, la protagonista, il realismo della quotidianità che non le nega momenti di euforia; dall’altra l’immaginazione che la induce a pensare a nuove complicità e sintonie, ma che non le risparmia una ricorrente sensazione di vuoto. Punto centrale del romanzo è il possibile superamento di questa duplice dimensione. Annella Prisco lavora abilmente sulle figure e sui luoghi della sua narrativa espressa da pagine incalzanti e con un ritmo sostenuto: Suor Orsola e il professore responsabile del dipartimento in cui la protagonista è ricercatrice; una “movimentazione interiore” che induce Irene Bellucci a ritenere che il professore abbia un segreto per il quale ha bisogno di essere (da lei) compreso e amato; la crescente disponibilità della protagonista alla schermaglia amorosa; il tailleur di raso rosso che dovrebbe diventare strumento di seduzione (senza scampo); l’enigmatico allontanamento da Napoli del docente; le nuove abitudini e il nuovo lavoro per Irene Bellucci che, come donna in carriera, non manca di ottenere significativi riconoscimenti. Ma la dualità di fondo resta sempre in primo piano. Alla velocità sempre più vorticosa di un mondo esteriore, si contrappone la solitudine del mondo interiore. L’universo emotivo di Irene è sempre più attraversato e scosso da “presenze inafferrabili”. Basta il ricorso a una cartomante? 81 Prende sempre più corpo, nel romanzo, l’idea dell’appuntamento come occasione e pretesto per sciogliere nodi da troppo tempo irrisolti. Una casualità importante (peraltro ben poco casuale perché fa parte evidentemente di un disegno prestabilito) è il convegno che il professore (andato via da Suor Orsola ma diventato rettore di Urbino) terrà a Capri. La protagonista si trova così di fronte all’incognita di un evento spinta però dal richiamo “ostinato e pressante di un enigmatico appuntamento in rosso” che è sempre un modo per andare incontro al nostro destino: una modalità ineludibile per uscire dalla gabbia della propria psicologia e porsi come obiettivo il raggiungimento di una liberazione completa. Ermanno Corsi Foto originali di Pietro Di Rienzo - Album d’epoca - Coll. priv. 82 UNA NUOVA FONDAZIONE Rinascono i Campi flegrei Abbiamo deciso di affrontare la grande sfida dello sviluppo dell’area flegrea, facendo la nostra parte e costituendo la Fondazione dei Campi Flegrei, che cala sul territorio una nuova formula. La Fondazione fece già un’esperienza una decina di anni fa, ma, dopo alcune iniziative di successo, andò spegnendosi. Forse i tempi non erano maturi, e restava necessario attendere un po’. Ci inseriamo in una proposta più ampia, viva sul territorio nazionale, che è quella delle fondazioni culturali. D’altronde, non lontano da Pozzuoli, possiamo osservare modelli vincenti come la Fondazione Ravello o la Fondazione Sorrento (quest’ultima presieduta da Gianluigi Aponte, che non è proprio l’ultimo degli arrivati). Le attività socio-culturali stanno morendo sotto la scure dei tagli statali e resta quindi indispensabile trovare modelli alternativi. E allora spazio ai privati, che hanno il dovere di rispettare l’interesse pubblico e, naturalmente, le regole. Nostro scopo è la valorizzazione del patrimonio archeologico presente sull’area. Uno dei modi è la esportazione di mostre fotografiche. Ma ce ne sono anche altri. Ma anche promuovere il turismo culturale è compreso tra i nostri obiettivi. Oppure la costruzione di un centro di archeologia sperimentale, sul modello di “ Antiquitates “, una realtà attiva nel viterbese, con la quale stiamo lavorando. Insomma, le idee non mancano e lo strumento per promuoverle è la Fondazione. Siamo certi di perdere la scommessa, se agiremo da soli. Lanciamo quindi un messaggio a tutte le forze politiche, di ogni colore, istituzionali e sociali affinché la si smetta con gli antichi individualismi e si volti pagina, alimentando ogni forma di cooperazione. Questa terra merita impegno, professionalità, altruismo. Solo così potrà ricevere i riconoscimenti che da troppo tempo mancano. Lavoriamo con passione, con un unico obiettivo: vincere la sfida a vantaggio di tutti. Salvo Iavarone Presidente della Fondazione dei Campi Flegrei Anche quest’ anno la missione Asmef Giornate dell’Emigrazione ha partecipato alle celebrazioni del Columbus Day, svolte a New York nei giorni scorsi. Evento centrale, la grande sfilata sulla 5a strada del lunedì, preceduta dalla messa ufficiale alla Chiesa di St. Patrick. Si dice che sia la più importante parata al mondo: 35.000 partecipanti, carri, striscioni, tutto tricolore ed in nome della nostra Italia; e tutto sotto la perfetta regia della ColumSalvo Iavarone con l’ambasciatore italiano in USA, Natalia Quintavalle bus Citizen Foundation. 83 Napoli nel mosaico letterario di Giovanni Boccaccio a 700 anni dalla nascita Marilena Cavallo apoli è per Giovanni Boccaccia (a 700 anni dalla nascita) non solo un modello di rottura con la formazione tosco – certaldiana – europea pura, ma rappresenta una apertura con modelli di cultura e di costume che provengono da altre tradizioni come quelle mediterranee. “Gli anni napoletani sono gli anni più belli della vita del nostro poeta finalmente libero… giovane, ricco e spensierato, gode dell’amicizia del re, dei principi, dei dotti e di tutto il meglio che la corte e la città partenopea possa offrire” (Florinda M. Jannace, “La religione del Boccaccio”, Trevi, 1977, p. 13). Il Boccaccio “napoletano” è quello della cultura profondamente radicata nello scavo popolare. Giunge a Napoli nel 1327 ed è subito colpito dallo straordinario scenario della corte di Roberto d’Angiò. Qui i Bardi hanno sempre esercitato un interesse particolare. Boccaccio era nato a Certaldo o Firenze nel 1313 e morto il 21 dicembre del 1375. La sua presenza a Napoli condizionerà chiaramente tutto il suo rapporto con la letteratura e con la vita. In Boccaccio la letteratura vive di immaginario e immaginazione. Napoli, dunque. Enzo Mandruzzato, nel suo “Il piacere della letteratura italiana” (Mondadori, 1996), riferendosi a Boccaccio e Napoli, ebbe a scrivere: “A Napoli lesse e scrisse molto. Tra le letture abbondano le ‘prose di romanzo’ e primeggia il poeta del gratuito e degli amori, Ovidio, che Dante cita severamente solo come repertorio di simboli alti e assurdi. Scoprì presto Dante e ne avrà il culto per tutta la vita, cosa che ci dà misura di che cosa sognava per alma poesis”. Sempre Mandruzzato riferendosi alla sua formazione napoletana sostenne: “Il suo primo poemetto, la “Caccia di Diana”, è in terzine dantesche, anche se dedicato a belle cacciatrici in abiti attillati, ‘inghirlandate di rose rosse’, in atti sportivi ma voluttuosi, e le nomina tutte; si pensa al D’Annunzio mondano dei primi tempi romani… (Pp. 132 – 133). “Caccia di Diana” risale, comunque, al 1339. Il linguaggio (la parola che crea immagini: mi sembra che sia una delle peculiarità di un “novellare” tutto moderno) non ha retorica ma neppure si serve dell’uso della metafora. È un tagliare costante la quotidianità perché è dentro la quotidianità che la “caricatura” prende il sopravvento. Vive l’amore infatuazione con Maria conosciuta a Napoli il 7 aprile del 1341. Maria è la figlia naturale di re Roberto e lo scenario è quello della corte “licenziosa” della regina Giovanna. Maria diventerà Fiammetta. “Elegia di Madonna Fiammetta” è un punto di estremo interesse in una letteratura che gioca la sua vita tra il personaggio, la fisicità e il linguaggio che diventa sensualità”. Da qui si apre un capitolo significativo nella letteratura immediatamente post medievale. Già, N 84 perché Boccaccio non è più Medioevo e la Napoli che vive non è una città di sobri legami di estreme cristiane eleganze. È la Napoli popolana e Boccaccio si forma in questa città e tra le donne che hanno odore di sensualità e di meraviglia. È il Boccaccio delle ironie e delle caricature allegre. Il suo Dante è il Dante della composizione dei destini e delle decomposizioni delle avventure. Dante gli servirà molto per comprendere la Napoli dei luoghi, dei suoni, delle musiche orientali. C’è da dire, comunque, che “l’allegra caricatura” di Giovanni Boccaccio come la definisce Francesco De Sanctis, nella sua “Storia della Letteratura Italiana” (Newtnon, 1997, terza edizione) costituisce realmente “l’arma” Giovanni Boccaccio grazie alla quale il volto di un’epoca ben radicata nella cultura ontologica della “Commedia” dantesca e nella trepidante visione di un amore fatuo ben definito nel personaggio della Laura petrarchesca rappresenta, in una temperie regolata dai canoni religiosi, una irregolarità. Irregolarità che non è soltanto il Boccaccio del “Decameron” ma è la vita stessa e gli studi compiuti dal Boccaccio che sono fuori dallo stile sia di una retorica scolastica di quel tempo sia da una articolazione progettuale costruita su riferimenti che avevano guidato sia Dante che Petrarca. Boccaccio è un irregolare sul piano delle “coordinate” esistenziali e lo è sulle proposte letterarie. Già ne “La vita di Dante” ci sono cesellature che lo portano oltre la misura di una biografia che troveremo nelle storie su Dante in una dimensione conformistica. Boccaccio comincia a ragionare sulla “fisicità” ed è chiaro che i due elementi fondamentali sono la donna (Boccaccio si interrogherà più volte sulla Beatrice angelicata e sull‘innamoramento a 9 anni) e il linguaggio. La donna è allegria, ironia, sesso. Non è un mirar di sguardi. Boccaccio capovolge il quadro dantesco e petrarchesco ed è distante dallo Stil Novo perché c’è una differenza sostanziale tra la Firenze di Beatrice e la Napoli di Fiammetta. Napoli, infatti, è già una città profondamente esigente con la tradizione sia linguistica e di costume proveniente dal mondo Mediterraneo, soprattutto arabo. 85 Fiammetta è la donna che vince il pudore ma è Boccaccio che non accetta il moralismo perché la sua formazione, siamo ancora al De Sanctis, è aliena “da ogni seria cultura scolastica e ascetica, profano anziché mistico”. Tanto che “si foggiò un Dante a sua immagine”. Con Boccaccio si entra a pieno diritto nella rappresentazione dei personaggi dando loro un ruolo che caratterizzerà tutta la novellistica successiva sino a Verga e al “Fuoco” di D’Annunzio e altresì si dà un senso alla femminilità, anzi alla donna con la sua potente attrazione fisica. Nel dannunziano “Trionfo della morte” e nel “Fuoco” che segna l’inizio del ’900, il Boccaccio di Fiammetta è presente con una percezione di un eros molto marcato. Ma c’è un’altra lodevole componente in Boccaccio che è quella del “disordine”. Ovvero ci fa capire che la letteratura prima di tutto non offre testimonianze moralistiche e impone, nella ricostruzione del raccontare, non un ordine ma uno scavo nella inquietudine che diventa beffa umana se non ci si impone di vivere la vita con l’ironia. Giorgio De Rienzo, nella sua “Breve Storia della letteratura italiana” (2001), coglie questa angolatura e parla che l’ordine di Boccaccio “lascia margine alla bizzarria, che ammette l’eccezione, come una variabile prevista, per quanto incontrollabile nel proprio capriccio”. In realtà il Medioevo letterario con Boccaccio non c’è più. Rompe gli schemi ed esaspera la parola ristrutturando l’immagine dei personaggi. Non c’è più la penitenza e tanto meno il peccato. Boccaccio è come se “scacciasse” il concetto di peccato dalla letteratura e considera l’amore “sempre al di là del bene e del male”. È un anticipatore e come tutti coloro che rischiano diventa un laico profeta di una modernità che ha nel suo interno non più il timore ma il tremore per la sensualità. Napoli gli offre la capacità di interagire tra una aristocratica letteratura in punta di spillo e un ballo sempre intrecciato sul filo del popolare mediterraneo tra ninfe e simboli. Tanto da far scrivere a Mario Marti: “… quelle ninfe di Diana o di Venere sono pur le belle dame napoletane, che il Boccaccio, lusingate dalla poetica esaltazione della loro bellezza e della loro nobiltà… (in “Dante Boccaccio Leopardi, Liguori, 1980, pp. 151). Ma è Fiammetta che diventa personaggio tra i personaggi in una Napoli orientaleggiante e popolare. Ma come è stato identificato il personaggio di Fiammetta? Oltre alle sottolineature già espresse c’è da dire, con Francesco Erbani (in “Boccaccio, Elegia di Madonna Fiammetta – Corbaccio”, Garzanti 2010), che Fiammetta è “una gentildonna napoletana che partecipa intensamente alla vita di corte” e il racconto si snocciola, nella “Elegia” nell’incontro con Panfilo, “un giovane fiorentino che ha risieduto a Napoli per parecchi anni e che viene costretto a lasciare la città perché il padre lo richiama” (p. XIX). Boccaccio è un giovane con delle belle prospettive quando giunge a Napoli. I suoi anni napoletani sono anni intensi e anni che lo portano a diverse iniziazioni tra il mito e la figura di Fiammetta, amicizie di corte e personaggi che segneranno la sua vita oltre ad arricchire un bagaglio di conoscenze culturali. Ci saranno altri giorni per Napoli, altri mesi, altri incontri. Alcuni scritti iniziati a Napoli verranno poi terminati a Firenze. Ma Napoli resta centrale anche per i suoi scritti successivi. Il popolare che si vive nel “Decamerone” ha anche la sue radici in ciò che Napoli e la cultura napoletana ha ritagliato nella vita di Boccaccio. 86 Il pistrice immane di Positano, l’ultimo viaggio letterario di Antonio Parlato Lidio Aramu Edizione postuma di un libro ricco di aneddoti e storie di mostri marini ad opera di Stamperia del Valentino l mare è stato l’elemento dominante dei libri e della vita stessa di Antonio Parlato. Del resto, la sua smisurata passione per il mare se l’era ritrovata nel genoma derivando da un’antica famiglia positanese di uomini di mare. Un sentimento che appare in tutto lo sfolgorio delle sue tonalità negli “Avvisi ai naviganti”, in “Flavio Gioia e la bussola”, nell’“Ulisse e le sirene di Positano” e nel “Sua maestà il baccalà. Storia del Pesce in salato che ci vien d’oltremari”. Tuttavia, la lettura “Del Pistrice immane di Positano e di altre mostruose creature delle acque”, un agile volumetto di un centinaio di pagine, costituisce una piacevole sorpresa poiché, tra i tanti, forse è quello che meglio esprime la sua poliedrica natura. Con l’obiettivo di rendere riconoscibile un segno identitario (Pistrice) della sua Positano attraverso la riscoperta dei suoi più profondi significati, Antonio Parlato, con grande misura, miscela ai valori della tradizione marinara, letteraria e artistica, spruzzi del suo instancabile lavoro politico. In maniera subliminale oserei dire, emerge il suo impegno di parlamentare nella difesa del patrimonio storico–archeologico del Mezzogiorno, nella tutela - da presidente dell’IPSEMA - della gente di mare aumentando i margini di sicurezza nella navigazione, nella denuncia – da ambientalista convinto qual era - degli effetti perversi di una globalizzazione selvaggia, scevra da ogni responsabilità verso l’ambiente. L’infinita ed antica passione per il mare ha da sempre stimolato la fantasia degli uomini di tutte le latitudini, dal Mediterraneo agli Oceani. Nei loro racconti, i fondali diventano luoghi leggendari, popolati da creature mitologiche. Ed è proprio ad una di queste leggendarie figure che si rivolge l’attenzione di Antonio Parlato. Un ibrido tra un drago ed un pesce: il Pistrice. Il racconto ammaliatore prende le mosse dall’osservazione di una lastra marmorea collocata sul campanile medievale della Chiesa Madre di Positano, sulla quale un ignoto scultore scolpì la figura zoomorfa di un Pistrice dal corpo di un enorme serpente e con una testa canina con le fauci spalancate. Poche pagine, un battito di ciglia, e ci si ritrova nel pieno della mitologia classica stret- I 87 ti tra Poseidone e le Nereidi, tra Nettuno ed il nugolo infinito di mostri marini che soltanto la paura dell’ignoto poteva partorire. Solchiamo un mare infido – recita una delle tante preghiere dei marinai – di un mondo traditore, al sospirato lido chi mai ci condurrà? Il mare è un’entità naturale immensa che sovrasta l’uomo ed è al tempo stesso metafora della sua vita. La lotta ed i cedimenti del vivere quotidiano. La sfida continua con quello che è più grande di lui, per conoscere i confini delle proprie debolezze: le frontiere delle proprie forze ma anche i confini dell’Io. Oltre è l’ignoto da esorcizzare, il regno dei mostri pelagici. Con levità, la narrazione comincia col travaso degli elementi della tradizione marinara pagana in quella cristiana, ove il Pistrice riassume simbolicamente di volta in volta la lotta tra il bene ed il male o la morte e resurrezione (il racconto biblico di Giona), ed evolve in un vero e proprio inseguimento dell’autore al sinuoso e proteiforme drago degli abissi marini. Grazie alla capacità di far convivere nel suo animo la curiosità e lo stupore dell’infante con l’osservanza dei principi razionali e sistematici della ricerca scientifica, Antonio Parlato ci conduce per mano attraverso un singolare rosario di antiche chiese sorgenti tra i costoni calcarei della penisola sorrentino-amalfitana, nella ferace pianura dell’entroterra casertano, lungo la dolce costiera del basso Lazio, ed in ognuna di esse ritrova e ci rivela, grazie alle sue spiccate doti di affabulatore, le tracce del passaggio del mitologico mostro. La ricerca parlatiana, tra l’altro, affonda nella tradizione letteraria, per poi riaffiorare nel mondo dei lumi, di coloro, che come Bernard Heuvelmans, naturalista e studioso di animali scomparsi, ritenne di definire, dopo rigorosi confronti scientifici, nove tipologie di bestie esistite e forse ancora esistenti là nel profondo degli abissi. Per giungere infine alla sorprendente conclusione che il Pistrice non si è mai estinto: egli è presente e vive tra noi. Nella letteratura, nelle arti, nella cultura e nell’immaginario popolare. E non solo. Nelle buie profondità degli oceani si ritrovano creature che, nelle dimensioni, forme e colori, nulla hanno in comune con gli stessi pesci che vivono più in superficie. Nessuno può escludere che questi signori degli abissi siano stati, con qualche loro sporadica apparizione sul pelo dell’acqua, la matrice che ha dato origine alle mostruose creature dell’acqua. Esseri leggendari che si ritrovano, seppur in forme e nomi diversi, nelle tradizioni marinare di popoli apparentemente lontani tra loro. L’abisso oceanico continua a custodire misteri che non finiranno mai di farci sognare. E non c’è leggenda e non c’è mito – ricorda Antonio Parlato – che non trovi ragion d’essere dalla realtà e dalle sue trasfigurazioni. * Tratto da medinapoli.it/cultura PALAZZO REALE 88 UNA GRANDE OCCASIONE CORONIAMO L’ITALIA CASA BORBONE a Principessa Beatrice di Borbone è stata a Napoli ancora una volta e in più occasioni ha manifestato amore e ammirazione per Napoli e la sua civiltà. Appena può vi torna, non disdegnando il contatto con la gente di Napoli e la visita dei quartieri popolari, dove si respira la vera anima della città. L’abbiamo incontrata nello scorso mese di settembre nella sua visita alla Basilica di Santa Chiara, ove si è celebrata una solenne cerimonia religiosa promossa dal Delegato per la Campania del S.M.O. L Alessandro Sacchi, Presidente Nazionale U.M.I. inalmente ci siamo! Il Consiglio Nazionale dell’UMI ha convocato, alla fine di novembre, un Congresso Nazionale da tenersi nella Capitale. Il panorama politico impone alcune riflessioni e la predisposizione di nuove strategie. F Unione Monarchica Italiana U.M.I. Si è concluso a Roma, presso la sala convegni dell’Hotel Massimo d’Azeglio, il XII Congresso nazionale dell’Unione Mo- 89 Costantiniano di San Giorgio il Marchese Pierluigi Sanfelice di Bagnoli. Anche in questa occasione si è avuto modo di apprezzarne la generosità d’animo, la classe e il sincero coinvolgimento con cui la principessa segue le vicende della nostra città. Il suo sorriso luminoso e leale, la sua finezza e umanità sono un sollievo in tempi dominati dalla grettezza e dalla volgarità, il suo instancabile dinamismo in favore di Napoli e di tutte le Due Sicilie è un esempio per tutti. In quella stessa occasione, volle mettere a disposizione del maestro Enzo Amato un suo gioiello rappresentante il disco solare, affinché lo utilizzasse, come poi è stato fatto, per la copertina del suo fondamentale volume sulla grande musica classica napoletana, La musica del sole, recentemente pubblicato sempre da Controcorrente. La Maison Royale de Bourbon des Deux Siciles Eugenio Donadoni Napoli e Parigi, due capitali unite da una sola dinastia, i Borbone. E sono proprio gli attuali pretendenti al trono di narchica Italiana che ha avuto come slogan “Coroniamo l’Italia!”. L’assise si è articolata in tre giorni, dal 23 al 25 novembre 2012, ed è stata un momento importante di riflessione e di innovazione. All’evento hanno presenziato le LL.AA.RR. i Principi Amedeo e Silvia di Savoia che, con la Loro presenza, hanno testimoniato l’indissolubile legame, voluto da Re Umberto II, tra l’U.M.I. e la Famiglia Reale. Nellala Famiglia Reale. Il Presidente dell’U.M.I. di Roma, Paolo Rossi de Vermandois, aprendo i lavori del Congresso ha dato lettura dei messaggi di augurio giunti dall’On. Angelino Alfano, dal Vicepresidente della Camera On. Rocco Buttiglione e del leader dei liberali italiani Stefano de Luca. Sono stati ringraziati le maggiori personalità presenti in sala: l’Amb. Fabrizio Rossi Longhi, il Console Onorario di Serbia Prof. Roberto Veraldi, il direttore del Secolo d’Italia Marcello 90 Napoli, Carlo e Camilla di Borbone delle due Sicilie, ad aver voluto la mostra che è stata inaugurata il 13 novembre a Parigi nel salone di rappresentanza dell’ottava municipalità. La mostra è stata patrocinata dall’assessore alla cultura del comune di Parigi Erika Duverger e dall’ambasciatore d’Italia in Francia Giovanni Caracciolo di Vietri. E’ una mostra molto particolare: saranno infatti esposti tutti oggetti ancora oggi di proprietà della famiglia di Borbone, non necessariamente di gran valore, ma sicuramente oggetti particolari, molti dei quali particolarmente familiari a noi napoletani. Ci saranno quadri e busti di famiglia molto noti ma anche del tutto inediti, molte uniformi e relative decorazioni, veri capolavori dell’arte orafa, medaglie al merito, ma anche pregevoli medaglie commemorative, porcellane, bisquit, gioielli tabacchiere e scatole con finissime miniature e pregevoli intarsi, la famosa spada con elsa d’oro e madreperla di Ferdinando II ed ancora tanti manoscritti, curiosità e foto di famiglia che testimoniano i momenti più significativi della Famiglia. Molto interessante il catalogo, in italiano e francese, corredato non solo delle foto degli oggetti esposti, ma anche da una serie di monografie sui Re di Napoli e sulla storia dei Borbone di Napoli. Come ci ha dichiarato Carlo di Borbone: «Questa mostra nasce dal desiderio di rendere omaggio ad un passato ormai lontano che affettivamente è sempre presente nei miei ricordi ove ritrovo i volti cari della mia Famiglia ed i racconti dei miei genitori e dei nonni de Angelis, il prof. Aldo Alessandro Mola ed i Consultori del Senato del Regno, Marco Valerio della Giovane Italia, Paolo Bianchi della Gioventù Liberale Italiana e la delegazione del Corpo delle Infermiere Volontarie della Croce Rossa Italiana, ed in particolare un plauso ed elogio di stima personale al Comandante Ugo D’Atri, Presidente nazionale dell’Istituto per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon. Per l’elezione degli organi congressuali previsti dallo Statuto, Alessandro Sacchi ha proposto, seguito da caloroso applauso dei convenuti, l’illustre scienziato Giuseppe Basini per la Presidenza, Vincenzo Vaccarella e Gian Andrea Lombardo di Cumia come vicepresidenti e Davide Colombo come segretario. A seguire è stata data la parola agli ospiti intervenuti, in ordine rigorosamente alfabetico. Il Capogruppo del PdL al Senato, On. Maurizio Gasparri, pur non appar- tenendo all’area monarchica, ha riconosciuto che nel momento di crisi attraversato dall’Europa intera, la proposta monar- 91 spesso arricchito da particolari che colpivano la mia fantasia, sulla nostra dinastia. Gli oggetti esposti evocano un mondo che riprende vita grazie all’amore per la storia e per la verità, all’attaccamento ai Sovrani di un Regno che fu grande e a tanti eroi silenziosi che vi furono educati e che seppero tener vivo il rispetto delle tradizioni di un Sud dell’Italia che era la terra dei primati nelle scienze, nell’arte, nella musica e nell’edilizia sia pubblica che privata». La mostra resterà aperta sino a fine novembre per essere poi quasi sicuramente trasferita a Roma e forse anche a Napoli. Dopo la mostra alcuni ospiti sono stati amabilmente ricevuti nella bella casa parigina di Carlo e Camilla di Borbone per una bellissima cena tutta ispirata alla cucina napoletana. che è stata particolarmente apprezzata da tutti gli illustri ospiti tra cui il Principe Antonio di Borbone delle Due Sicilie, le Principesse Beatrice ed Anna di Borbone, S.A.I. la Principessa chica non è assolutamente incompatibile con i principi della democrazia, come è dimostrato da tante Nazioni europee dove regna un Sovrano super partes. Gasparri guarda con rispetto alla nostra proposta ed ha una condivisione di valori con molti amici monarchici. La Contessa Renata Jannuzzi, Presidente del Consiglio Nazionale del Partito Libe- rale Italiano, accumunata ai monarchici da tradizioni e valori, da monarchica e liberale ha auspicato che si possa compiere un percorso comune. Anche l’On. Adolfo Urso ha portato il proprio saluto all’Assemblea, ricordando i rapporti di stima ed amicizia con i quali è legato sia al Prof. Basini che al simbolo vivente dell’ideale monarchico, il romano di adozione Sergio Boschiero. Il Presidente della Consulta dei Senatori del Regno, Prof. Aldo Alessandro Mola, storica Istituzione indissolubilmente legata all’U.M.I., ha affrontato i temi della crisi in un’ottica di universalità. Sacchi nella relazione programmatica ha ribadito la linea politica dell’U.M.I. ra- 92 Napol onla Principessa Napoléon, il Principe Laurent de Belgique, il Conte e la Contessa di Parigi, il Principe e la Principessa Jean de Luxembourg, il Principe e la Principessa Carle de Bourbon-Parme, i Duchi di Vendôme, il Principe Fayçal Bey de Tunisie, i Principi de Liechtenstein con la Principessa Milena, ed ancora la Ira de Fürstenberg, i Principi Napoleone Orsini, la Principessa Nesrine Toussun; l’On. Deputato presso il Parlamento Europeo Madame Rachida Dati, S.E. l’Ambasciatore di Spagna presso l’UNESCO Juan de Barandica, Madame Erika Duverger; Monsieur et Madame Laurent Dassault, la principessa d’Aremberg, Micael di Jugoslavia ed il principe Carlo Giovannelli, ed infine gli amici napoletani: Giuliano e Roberta Buccino Grimaldi, Leopoldo e Federica de Gregorio di Sant’ Elia, Eugenio e Masa Donadoni, Antonio e Maro’ Mottola di Amato, Alberto e Selvaggia Visocchi, nonché Carlo e Claudia Arcari napoletani residenti a Parigi. dicatasi negli ultimi anni: offrire risposte concrete alle esigenze del Paese, basta con i tecnici, la parola torni alla politica alla quale viene chiesto un esempio dopo tante avvilenti dimostrazioni di inadeguatezza. Gli Italiani sono pronti a fare rinunce e sacrifici ma la politica deve riprendere il ruolo di guida della vita civile, ormai perduto. Sacchi ha richiesto un Fisco meno ingordo, una Magistratura indipendente, un’informazione imparziale, una televisione meno becera ed una maggiore attenzione alla scuola, soprattutto primaria, in quanto fondamentale per la formazione degli italiani. Mentre tutti parlano della “malattia”, l’U.M.I. indica “il farmaco” giusto! FUTURISMO E DINTORNI 93 Il segno di Gino Boccasile Dai muri e dalle pagine di riviste le sue creazioni grafiche hanno sostenuto la modernizzazione italiana e la sua identità. Leo Castoldi evento non è tra quelli usuali rivelati dalla cifra tonda come il decennale o il centenario ma è pur sempre una ricorrenza che non può essere ignorata. Ricorrono infatti i sessanta anni dalla morte di Gino Boccasile1 e finora non si è notata alcuna rincorsa a sottolinearne pubblicamente la scadenza. Eppure di tratta di un artista a tutto tondo che ha contrassegnato con la sua multiforme opera una lunga e densa fascia del ventesimo secolo. E’ l’ennesimo meridionale che - trasferitosi al nord - dovette affrontare perfino la dura esperienza della indigenza come compagna non occasionale, nel cui ricordo si profuse in innumerevoli gesti di generosità appena glielo consentì il successo professionale. Senza farsi scoraggiare neanche dall’incidente subito da giovane che gli causò un danno permanente alla vista ma consapevole delle proprie capacità affrontò con volontà, estro e passione un lungo tirocinio, che lo vide tentare anche la via dell’espatrio in Argentina; esperimento poco fruttuoso economicamente ma che gli offrì l’occasione di fare conoscenza con la donna, italiana, con cui avrebbe condiviso la vita. Non tralasciò di effettuare una capatina nella capitale francese, che si riconfermò per la sua abituale disattenzione verso un non integrato, che difatti aveva esposto alcuni dipinti al Salone degli Indipendenti . Rientrò definitivamente in una Italia che, grazie alla svolta politica, si stava rimettendo in sesto, dopo gli inconsulti colpi di coda del giolittismo alimentatore del sovversivismo cruento del migliolismo e dei seguaci del bolscevismo, e che affrontava con ricette originali anche i disastrosi effetti sull’economia mondiale diffusi dalla crisi borsistico-produttiva statunitense. Dopo le sue felici esperienze per le riviste di moda furono le pagine di nuovi periodici - che editori intraprendenti immisero numerosi sul mercato per soddisfare voglia di lettura e curiosità di sempre nuovi strati di popolazione di estrazione popolare e borghese – che incominciarono ad accogliere le L’ 94 sue illustrazioni a corredo della narrativa. Ben presto si manifestò un nuovo fenomeno: a contendersi le sue creazioni arrivarono aziende commerciali e industrie che gli affidarono le loro campagne pubblicitarie, essendo risultato palese che i suoi manifesti riuscivano ad attrarre l’attenzione anche dei passanti più distratti promuovendo la vendita di prodotti e servizi che vi campeggiavano. E quando Cesare Zavattini ebbe la fortunata idea di incaricare proprio Boccasile di approntare le copertine della risorta rivista di letteratura e costume Le Grandi Firme2 fondata e diretta da Pitigrilli, trasformata in settimanale con una nuova veste editoriale e finanche tipografica, l’accoglienza del pubblico fu clamorosa. E grande fu il merito proprio di Boccasile che riuscì a perfezionare la sua cifra grafica ed anche a creare un personaggio femminile dotato di personalità e riconoscibilità che travalicavano la fisicità, altrettanto evidente. Ella poteva proporsi autonomamente abbandonando le vicende narrative escogitate dai vari scrittori, ed esibirsi perfino in sue ministrip. Non ci sono dubbi sul fatto che tutto ciò segnalava l’avvenuta accettazione in Italia della modernità e dell’evoluzione del costume da parte di ogni ceto. Esso è rivelato dal calcolato gioco di seduzione gestito con innocenza e disinvoltura in ambientazioni prossime alla vita comune, fino al punto da porsi come evento rivelatore dell’immaginario collettivo, riproposto da seguaci e imitatori che trasbordarono insieme all’originale perfino nelle pagine di riviste umoristiche. E gli avvertiti redattori del settimanale non tardarono a chiedersi pubblicamente: <Esiste la Signorina Grandi Firme?> invitando le lettrici a farsi avanti, attirate anche dal contratto cinematografico messo in palio. L’esito fluviale fu tale che poco dopo una nuova testata (Il milione), lanciata mirando ad un pubblico di lettori più differenziato e più vasto rispetto a quello del cessato settimanale, colse la palla al balzo registrando un nuovo exploit. Ideato da Dino Villani – tra i primi organizzatori del mondo pubblicitario italiano – il concorso “5000 lire per un sorriso” lanciato con la sponsorizzazione della Gi.Vi Emme-Erba produttrice di un dentifricio, si giovò del supporto grafico di Boccasile3 oltre che del suo ruolo di componente della giuria. Ed è noto che l’operazione ebbe un seguito nel dopoguerra evolvendo nella ricerca della Miss Italia, che vide sfilare ormai dal vivo flo- 95 ride ragazze che meritarono l’appellativo di ‘maggiorate’ e tracimarono in film dal largo successo. Nel frattempo Boccasile entrò nel novero degli illustratori di un periodico letterario che godeva di grande diffusione, grazie sia al prezzo di vendita sia al buon nome degli autori e alle traduzioni oltre che della qualità dello stesso apparato illustrativo. Infatti collaborò alla collana “I romanzi della palma” edita dalla Mondadori con periodicità mensile o quindicinale; in particolare con la sua firma uscirono le copertine di tutti i dodici fascicoli del 1940. Il valore di Boccasile come grafico, illustratore, pubblicitario e vignettista è tanto solido da riuscire a superare nel dopoguerra le difficoltà creategli nel becero tentativo di emarginarlo professionalmente, misconoscerne il ruolo4 e rimuoverlo dalla storia artistica italiana. I suoi manifesti e le sue cartoline a sostegno delle armi italiane in guerra anche dopo l’operazione-Badoglio offrirono un facile appiglio ai molti revenant timorosi di doversi confrontare con un artista che ben sapevano essere in grado di primeggiare grazie al suo talento. Difatti con una rinnovata fase inventiva egli riuscì a creare ancora tanti manifesti e inserti pubblicitari che le Aziende italiane non esitarono a commissionargli, con i felici riscontri economici attesi. E a smentire quanti hanno risibilmente tentato di limitare la sua creatività solo se finalizzata alla rappresentazione della figura femminile ci sono le innumerevoli prove dei manifesti e delle cartoline propagandistiche e reggimentali e, nel dopoguerra, quelli per il formaggino Mio o per la Pirelli e le borse per acqua calda col pulcino che esce dal guscio. A tal proposito una studiosa recentemente ha sottolineato come “costante nei manifesti di Boccasile realizzati dopo il conflitto mondiale è la presenza dei bambini” e che “molti dei bambini disegnati da Boccasile sarebbero stati utilizzati nelle campagne pubblicitarie delle aziende committenti parecchio tempo dopo la loro creazione”, diventando in alcuni casi “sinonimo e simbolo di quelle stesse aziende”, rinviando al caso specifico di quello ’passato alla storia del costume come lo Yomino’ senza trascurare la “bambina che stringe a sè il tubetto di dentifricio Chlorodont” per la quale aveva scelto quale “modella d’eccezione la nipotina di Franco Aloi, il suo socio amministratore”5. 96 Solo la morte improvvisa in ancor giovane età impedì al Maestro “autodidatta” Boccasile di portare a termine l’opera cui si era accinto con trasporto e cioè di illustrare tutte le giornate del Decamerone. Per decenni solo sporadiche citazioni del suo nome hanno fatto capolino in pagine di libri e riviste, situazione inaccettabile cui tentò di porre rimedio con le sue forze l’Istituto Prezzolini: nel 1987 organizzò nella natia Bari una mostra-omaggio, e il critico Luigi Tallarico6 la accompagnò con una presentazione che resta per decenni uno dei pochi saggi dedicatigli. Mentre schiere di appassionasti collezionisti da sempre si sono contesi sul mercato dell’antiquariato gli esemplari superstiti delle sue opere7, una genia di operatori della ribalta accademica e mediatica - tanto affollata quanto gracchiante - ha cercato di continuare ad occultare o sminuire perfino con deliranti sproloqui un artista che ha saputo misurarsi con colleghi del livello di Sironi, Depero, Dudovich, Sacchetti, Carboni, Venna o Golia, a loro volta quasi tutti sottoposti ad un trattamento oscurante o ‘depurante’ più o meno della stessa intensità e durata. Ma l’opera e il nome di Boccasile e dei suoi pari sono riemersi luminosi mentre l’oblio meritato ha steso il suo manto su gran parte dei ‘pennaruli’. LEO CASTOLDI Note bibliografiche 1 – Gino Boccasile nacque a Bari il 14 luglio 1901 e morì a Milano il 10 maggio 1952. 2 – Il volumetto La Signorina Grandi Firme raccoglie le sue copertine da aprile 1937 a settembre 1938, proposte dall’editore milanese Longanesi nel n. 13 de “I Tascabili del Bibliofilo nel luglio 1981. Esso contiene una Presentazione firmata da Antonio Faeti che riduce Boccasile al ruolo de ‘L’inventore delle gambe’ salvo concludere che la <…’signorina’ vista come ‘graffito pompeiano’ di una complessa stagione iconografica su cui spesso si è abbattuta la saccente e nullificante riassuntività di tanti improvvisati ‘studiosi’ dell’illustrazione ‘ e della grafica>. Paola Pallottino vi firma la pagina unica con la ‘nota sull’autore’. 3 – La campagna pubblicitaria risultò vasta e martellante, ricorrendo sia alla inserzioni su varie testate sia a spot radiofonici con testi di Marcello Marchesi. 4 – L’immarcescibile Giorgio Bocca nel suo intervento dedicato a “Il manifesto pubblicitario” nel catalogo IPSOA per la mostra L’economia italiana tra le due guerre/ 1919-1939 svoltasi a Roma dal 22 settembre al 18 novembre 1984 a cura di Gaetano Rasi e Giano Accame (e la consulenza scientifica di 97 Renzo De Felice), in vena di sobria discriminazione classificatoria asserisce: “c’è il tipo femminile di Boccasile che è la soubrette di Macario, la bellona provocante, dalle forme tondeggianti, incapace di cantare e di ballare, ma esemplare per il maschilismo del tempo, per le educazioni sentimentali ed erotiche compiute nelle case chiuse” (pag. 352), supposizione che involontariamente lascia aleggiare un fondo di grande nostalgia per i beati suoi giovanili e lontani anni. Il detto catalogo offre a pag. 385 la riproduzione del famoso manifesto per l’aviazione civile col gabbiano, mentre a pag. 457 figura una piccola riproduzione tratta da La Lettura, 1934, con donna in poltrona che ascolta una cronaca calcistica, richiamata da una visione sovrastante di un portiere slanciato verso un pallone che sta per entrare in rete. 5 – Paola Biribanti, Boccasile. La Signorina Grandi Firme e altri mondi, Alberto Castelvecchi editore, Roma 2009, pag.184.Il volume raccoglie anche una breve testimonianza di Bruna Boccasile che ne esplicita il tentativo di non escludere dal percorso col quale ricostruisce alquanto meticolosamente il Boccasile illustratore, pubblicitario e propagandista, anche il lato umano. 6 – Lo scritto di Luigi Tallarico, Un “omaggio” a Gino Boccasile alla Festa tricolore di Bari./ Una mostra tutta dedicata al celebre pittore il cui stile caratterizzò un’intera epoca - Un artista che è sempre stato ingiustamente sottovalutato da una critica faziosa - Il rapporto con il fascismo, è stato riprodotto in Il Secolo d’Italia, 24 settembre 1987. 7 – Valgono a testimoniarlo il lavoro di Giovanni Pancaldi, Boccasile 84 Nuovo catalogo di cartoline, Pancaldi editore, Reggio Emilia 1984, e quello di Furio Arrasich, Catalogo 1995 degli illustratori di cartoline italiane, Edizioni La Cartolina, Roma, che gli dedica le pag.31-37, completando la lista con i prezzi medi dell’epoca con una selezione articolata di riproduzioni. E perfino la collana Targhe Pubblicitarie edita dalla Hachette nel 2004-2006 analizzandolo (fascicolo 16) nella sezione della storia della pubblicità lo definisce “famosissimo”’ e uno degli “illustratori più amati” d’Italia oltre che ”oggetto di collezionismo” di tutta la sua vasta produzione, inclusa quella su latta, come per lo ‘Estratto Olandese Moretto’, Bantam, Ramazzotti, Martini e gli impermeabili Pirelli. In un box riproduce la locandina per la rivista “Si stava meglio domani” in scena nel 1946-47 con Enrico Viarisio e Wanda Osiris con “audace abito nero scollatissimo e con l’orlo delle calze che fa capolino dallo spacco”, immagine “che contribuì al successo dello spettacolo”. E in effetti la recente esibizione al Festival canoro di Sanremo della soubrette Belen ha semplicemente costituito una tardiva variazione sul tema. Più attento risulta Enzo Cassoni, Il Cartellonismo e l’illustrazione in Italia dal 1875 al 1950, Nuova Editrice Spada, Roma 1984, pagine 188. E’ un volume tra didascalico e memorialistico che apre la sezione dedicata a ”Il manifesto pubblicitario negli anni trenta” affermando che un ‘pittore cartellonista cominciava a giganteggiare su tutti’ per dedicargli in alcune pagine i paragrafi Ricordando Boccasile e La carriera artistica di Boccasile (pag. 75-80). Inoltre nelle tavole fotografiche, inserite fuori testo tra le pagine 96 e 97, ne dedica alcune a Boccasile, riproducendo copertine de Le grandi firme e 4 tavole dal Decamerone, specificando che le figure mostravano uno ”straordinario senso di rilievo e seducente plasticità” con “effetti chiaroscurali veramente caravaggeschi”; segnala che dipingeva “a tempera acquarellata per ottenere effetti di colore pastosi e morbidi” ricorrendo talvolta all’aerografo. Completano la serie la riproduzione del su citato manifesto del 1939 per la L.A.T. I. e quello bellico del 1943, con la statua dal prezzo segnato di due dollari trasportata dal militare USA, giocato sul contrasto tra la massa bianca della statua e il corpo e l’abbigliamento nero dell’uomo. Fra i testi più recenti che hanno almeno analizzato alcuni manifesti di Boccasile segnalandone l’apporto fondamentale all’affermazione ed alla evoluzione del genere è possibile citare Beba Marsano, XX Secolo Manifesti, Electa, Milano 2003. Invece Paolo Lombardi, Il prodotto è donna. Gino Boccasile e il miracolo italiano, in Charta, anno 17 numero 94, novembre-dicembre 2007, pag.66-71, dopo essersi soffermato sui manifesti in cui Boccasile sceglie di porvi al centro non il prodotto ma la donna conclude che a scorrerli si possano ricavare i segni dei rinnovati canoni femminili in un ampio arco temporale. Ma constata anche che i bambini singoli o in folti gruppi paffuti e gioiosi gli consentono di dialogare con i prodotti pubblicizzati, mentre in periodo di bombardamenti essi cedono il posto a scolari sanguinanti o morti. Constata che uscito dal carcere è sommerso di incarichi, tanto che basta leggere la lista dei lavori eseguiti “per rendersi conto che Boccasile è il cartellonista principale del miracolo economico italiano”. E oltre le riproduzioni che accompagnano l’articolo la rivista offre in allegato la riproduzione in cartolina del manifesto della Paglieri in versione originale che fu oggetto di un doppio intervento censorio. 98 Patroni o della plasticità emotiva Luigi Tallarico a necessità di penetrare le tracce di superficie della medaglia e indagare la figura nella sua interezza, ha indotto Vincenzo Dino Patroni, pittore-scultore e già titolare della prestigiosa cattedra di Plastica Ornamentale all’Accademia di Belle Arti di Dino Vincenzo Patroni e il senatore Luigi Maria Lombardi Satriani Napoli, a usare i segni della propria singolarità di stile ed ottenere una espressività più netta e innovativa, rispetto all’iconografia della medaglia tradizionale. La sua impostazione plastica ha infatti dimostrato, nei frequenti incontri e rassegne d’arte, specie nelle sedi delle scuole, come le forme espressive, a contatto con l’arte contemporanea, abbiano acquistato un risalto nelle forme sculturali, senza perdere i riflessi pittorici e gli stacchi architettonici, perfino senza fare a meno del modellato, che da bidimensionale si tramuta nella sua opere in tessitura a tre dimensioni. Il riferimento all’unità delle arti è un concetto sempre vivo, se è vero che, ieri, Leon Battista Alberti considerava l’architettura una espressione musicale e, oggi, Mario Sironi guarda alla reversibilità dell’opera d’arte, sia di quella costruita che dipinta o scritta, sicché la validità del concetto è stato confermato da Umberto Boccioni, il quale nel manifesto futurista ha proclamato “l’avvento di un rinnovato ordine plastico”, il solo in grado di dare una “organizzazione” e una nuova gradazione ai valori costruttivi. D’altra parte, nella diversa prospettiva della medaglistica, la riproducibilità delle immagini non sempre è stata considerata nella sua autonomia tattile, specie dopo la seconde metà del XV secolo, in cui si è venuto registrando un appiattimento di valori, a causa del mutato procedimento a stampa, analogo a quello delle monete e che per lungo tempo ha fatto a meno della fusione a cera perduta. Alla medaglistica è così venuta a mancare quell’unità dei contrari (profondità e modellazione) che l’Alberti aveva individuato nel trattato De Statua e che avrebbe consentito alla medaglistica una sintesi nell’uso “per via di levare”, che è prerogativa della scultura, unitamente “all’efficacia di porre”, che è proprio dell’organizzazione ornamentale. É mancato al “picciol cerchio” (B. Cellini) la liberazione dall’affanno tecnologico e la fusione di oggetto e spazio, pur essendo noto che parva mole grandia cavit. Per un operatore di cultura, come Vincenzo Dino Patroni, sarà stata questa intuizione, basata sul tempo vichianamente “ritornato”, a mettere in moto la vocazione dello scultore e ad estendere alla medaglistica, entrata in crisi, i valori unitari della pittura e della grafica, non soltanto perché L 99 richiamati dalla globalità della nuova percezione visiva, ma perché necessari all’organizzazione dei caratteri formali del bianco e del nero, della luce e dell’ombra, in quanto elementi tangibili, creativi della costruzione emotiva. Ed è su questo concetto che il pensiero critico di Vincenzo Dino Patroni si collega a Umberto Boccioni, laddove l’artista futurista aveva ribadito che lo “stato d’animo plastico” non è lo sbrendolo analitico dei sentimenti, bensì “è la sintesi, anzi l’architettura emotiva delle forze plastiche degli oggetti, interpretate nella loro evoluzione architettonica”. Del resto Vincenzo Dino Patroni, che ha unificato i termini contraddittori dell’ossimoro di emotività e plasticità, è stato in grado di realizzare la straordinaria medaglia che fa rivivere il sacrificio senza speranza di Carlo Pisacane, in cui la ritmica distribuzione emotiva delle forze contrapposte viene guidata a comporre l’emotività dell’evento. Certamente sarà stata la portata emotiva dello stato d’animo ad avere “irrorato” alla partenza i neuroni dell’artista, per come vedremo, ma è certamente la conclusa sintesi delle forze plastiche ad avere concretizzato, in termini d’arte, la portata sia cromatica che architettonica degli oggetti. D’altro canto, senza volere azzardare riferimenti e/o automatismi espressivi di riporto, ci sembra doveroso riferire di un recente esperimento che ha collegato la permutabilità dei ritmi neuronici all’espressività dell’arte. Dalla scoperta si rileva infatti che Dan Lloyd, filosofo del Trinity College di Hartford (Usa), ha individuato come l’aumento dell’irrorazione di alcune cellule cerebrali comporta l’accensione dei ritmi e che sotto la pressione in atto trasformano gli stimoli in immagini e in suoni-colori di portata audio-visiva. Come si vede, la conclusione è nelle cose, perché se è vero che gli scultori e gli espressionisti ci avevano confermato che i riflessi delle emozioni stimolano gli stati d’animo, ora possiamo contare su un quid in più per considerare che i neuroni dell’emozione compongono, perfino dominano la portata stessa dello stato d’animo plastico. 100 Futurismo, dinamismo e colore Aurelio Tommaso Prete A l Museo “Vittoria Colonna” di Pescara, la Fondazione Pescarabruzzo ha presentato il volume “FUTURISMO DINAMISMO E COLORE” in grandi dimensioni: (24 per 30 cm), una pubblicazione di alto pregio che inserisce tavole a cura di Maurizio Scutieri. V’è ancora una prefazione (con una bella figurazione della prima pagina del giornale LE FIGARO di Parigi che riporta in prima colonna l’articolo Le Futurisme a cura del sindaco di Pescara Luigi Albore Mascia e del presidente della Commissione Cultura Augusto Di Luzio. V’è ancora una introduzione del Presidente Fondazione Pescarabruzzo. Segue quindi, alla pagina 9, “II Futurismo, uno sguardo allargato” di Maurizio Scutieri, riportando una nitida foto dei cinque fondatori a Parigi. Quindi varie fotoriproduzioni di opere futuriste in bianconero più ‘L’Italia Futurista’ che rammenta la commemorazione di Umberto Boccioni, il migliore divino genio futurista commemorato da Marinetti, nonché una riproduzione in nero e rosso di Futurismo del 26 marzo 1911 che comprende - in termine - i futuristi sansepolcristi con articoli su “Estrema sinistra” e “1919 San Sepolcro”. Un ritratto di F.T. Marinetti di Giancarlo Carpi ed ancora “Marinetti, Pescara e l’identità adriatica” di Marilena Giammarco: titolo preceduto da “Dinamismo e colore, “comprendente una bella riproduzione di “D’Annunzio intimo” a colori a firma di Filippo Tommaso Marinetti, edizione del giornale “Verde azzurro di Milano”, oltre alla copertina del libro Les Dieux s’en vont d’Annunzio reste, edito a Parigi dalla Biblioteque Internationale d’Edition Parigi 1908 ed anche una foto di d’Annunzio a bordo del suo aereo a Vienna. Andiamo, quindi, a “I Maestri”, che inizia con Balla. Seguono Umberto Boccioni con “La Madre” a matita, Gino Severini, Luigi Russo (e qui con il manifesto dei pittori futuristi). Nel panorama degli anni ’10: Giacomo Balla, a cui dedicai miei articoli, Fortunato Depero, Enrico Prampolini, Gerardo Dottori (su cui scrissi vari decenni fa un articolo mio sui giornali), Primo Conti sul quale mi diceva Antonio Berti: “Primo Conti è quella cosa che non vede la pittura, se la incontra per la strada, la saluta e se ne va”. Per gli astrattisti Giacomo Balla, con un articolo a colori “Al mio caro Deperissimo”, Enrico Prampolini. Gli anni ’20 su “Manifesto dell’arte meccanica futurista” di nuovo Balla, Prampolini, Julius Evola, Gerardo Dottori, Benedetto Marinetti, ancora Depero, Dottori e Mario Sironi, che mi diceva l’amica Margherita Sarfatti di non voler esser portato con la sua opera a Parigi, Antonio Marasco. 101 Gli anni ’30 comprende opere di Prampolini, l’amicissimo Tato che valorizzò il mio nome e cognome riguardo ad una monografia che stesi per lui, e tanti altri con una tavola a colori su Marinetti per “Lussuria, velocità”. Questo interessante catalogo me lo portò mio figlio Gianluigi che andò (lui appassionato di Futurismo) espressamente a Pescara per visitare il Museo Vittoria Colonna. Pubblicazione meritevole che per me manca di Francesco Cangiullo, artista tanto caro a Marinetti e del quale io compilai una grande monografia. Cangiullo lo vedevo a Livorno dove abitava in un albergo che guardava il mare, lo stesso mare, diceva lui, che bagnava Napoli, la sua Napoli. MEMORIE DI AURELIO TOMMASO PRETE* La tenda rossa redevo di vedere di nuovo La Tenda Rossa in TV, invece non era il film che vidi anni or sono e che apprezzai tanto. Ricordo che a fine spettacolo telefonavo e telefonavo al vecchio numero di Umberto Nobile a viale Mazzini, qui a Roma. Il Generale mi aveva affettuosamente dedicato proprio il volume ‘La tenda rossa’, mentre la consorte dott. Gertrad, allora funzionario della FAO (di cui ho sempre diretto la rivista Fao Gazette), mi ha dedicato altri volumi sulla fatidica spedizione al Polo Nord. Telefonavo… ma il numero era sempre occupato. Dopo un po’ mi rispose Gertrud giustificandosi che anche lei chiamava me. Gertrud sapeva la mia amicizia con il console Umberto e teneva a gioire per la pellicola. Fu un momento di reciproco entusiasmo. Questa ultima trasmissione di qualche giorno fa era, invece, un ottimo reportage dell’amico Piero Angela e di suo figlio. Ho rivisto Andersen, con il quale Nobile era stato non troppo fortunato nella spedizione al Polo Sud, e poi il Radiotelegrafista Biagi ed Andersen, Pomella, Zappi, Mariani ed altri. Ho anche ammirato il sistema di Nobile quale scienziato ed inventore a sua volta di tecnologie nella magnifica grande mongolfiera che sfidò il Polo Nord e cadde sul Pack. Ed ancora ho rivisto Zappi e Mariani che si allontanarono in cerca delle falde dell’isola cospicua alla tremenda lastra di ghiaccio. Mariani, che fu poi Prefetto e quindi Presidente di quella Unione Monarchica Italiana di cui fui il fondatore insieme al Duca del Pezzo di Caianiello, poi lui Presidente a Napoli ed io a Salerno. Mariano all’U.M.I. giocava con i miei piccoli figli (oggi più che quarantenni e cinquantenni) ed aveva riportato dal Pack l’amputazione di un piede. Ed ancora Piero Angelo ci ha fatto vedere il capitano Romagna, Comandante la nave Città di Milano. Torniamo all’amico Nobile, quando ci intrattenevamo giocando a scacchi nella sua casa di via Monte Zebio e mi descriveva gli oggetti relativi alla sua grande impresa mi disse anche che pochi giorni prima della missione al Polo Nord fu invitato a pranzo dai Reali d’Italia e la Regina Marghe- C 102 rita volle regalargli un antico scatolo contenente due pistole. Alla meraviglia del Generale, l’augusta Regina disse: “Potrebbero servirLe, non si sa mai”. Nobile me le mostrò e precisò: “Vedi, Aurelio, questa con un piccolo nastrino è quella con cui Malgrmen uccise l’orso salvando la vita, a noi tutti e assicurandoci l’esistenza con il cibo”. Noi della Burckhardt celebrammo Umberto Nobile ed io personalmente parlavo con particolare affetto delle sue imprese gloriose e onoranti l’Italia. Aurelio Tommaso Prete * Presidente della Internationale Burckhardt Akademie IL TRIANGOLO DELL’ARTE 103 Vermeer ello splendido Museo delle Scuderie del Quirinale, si è inaugurata la mostra “Vermeer, il secolo d’oro dell’arte olandese”, aperta al pubblico fino al 20 gennaio 2013. “È la prima rassegna presentata in Italia sul 600’ olandese – ci dice Pier Giorgio Paris, direttore dell’ Azienda Palaexpo – la risposta del pubblico è stata immediata e possiamo già registrare più di mille prenotazioni al giorno”. L’architetto napoletano Lucio Turchetta ne ha curato l’allestimento con pannelli e luci dai colori che danno il giusto rilievo ai vari quadri. L’Esposizione, coprodotta con Mondo Mostre, porta anche la firma di Arthur K. Weelock della National Gallery of Arts di Washington, maggior esperto, nel mondo, di Johannes Vermeer. “Abbiamo provato – racconta – una grande emozione nell’ aprire le casse e vedere emergere dal buio opere sospese nel tempo dell’eternità”. Possiamo attribuire all’autore de “La ragazza con l’orecchino di perla” solo 37 opere. Personaggio dalla storia abbastanza misteriosa, non a caso fu definito dal critico Thoré-Bourgher: “ la Sfinge di Delft”. Morto a 43 anni, sappiamo molto poco della sua vita: mercante d’arte e pittore, dipinse solo su commissione e mai più di due, tre opere l’anno, il necessario per mantenere moglie e 11 figli. Con le sue opere in cui dominano il blu e il giallo, ci rende testimonianza dei colori del cielo d’Olanda nell’epoca in cui la luce veniva ancora riflessa dalle paludi e dai laghi, in seguito bonificati. La mostra romana presenta otto capolavori di Vermeer fra cui la celebre “ Stadina”(1658) e vari ritratti femminili, (definiti a quel tempo: “ tronien”) come “La ragazza con il cappello rosso” (1665-67), olio su tavola che, per i critici, anticipa l’impressionismo. Alcuni quadri rappresentano scene di vita domestica, vedi “ La suonatrice di liuto” e la “ Giovane donna seduta al virginale” Artista raffinato, dotato di una straordinaria memoria visiva, molto amato da Proust e dai fratelli Goncourt, utilizzava la camera oscura per mettere a fuoco persino il pulviscolo, anticipando così il “pointillisme” di Seurat. E non solo. Flavio Caroli lo descrive come “vero erede della lezione rinascimentale di Piero della Francesca per il purissimo spirito di geometria per cui ogni dipinto è un incastro di scatole prospettiche”. L’Esposizione delle Scuderie desta interesse per la presenza di artisti olandesi suoi contemporanei come Carel Fabritius, allievo di Rembrandt, di Pieter de Hooch, tra i più conosciuti dell’epoca, a sua volta ispiratosi a Vermeer. E ancora Gerrard Dou, famoso per le scene notturne” a lume di candela”, Nicolaes Maes, Gabriel Metsu, Frans van Mieris e Jacob Octervelt. Una bella e variegata antologia del “secolo d’oro della pittura olandese”. Annamaria Liberatore Sabini N 104 Aspettando restituzioni 2013 l 23 novembre scorso è stato presentato in una Conferenza Stampa presso il Museo di Capodimonte il restauro del Trittico con le Storie della Passione, opera in alabastro del XV secolo. E’ un restauro d’eccellenza, voluto da Intesa Sanpaolo, che annuncia la grande Mostra della prossima primavera dedicata al recupero del patrimonio artistico nazionale. Realizzato a Nottingham, il grande dossale giunse a Napoli, forse grazie a Ladislao d’Angiò Durazzo, e venne esposto nella chiesa di San Giovanni a Carbonara, “pantheon” degli ultimo d’Angiò. Dai primi anni dell’Ottocento appartiene alle collezioni del Museo di Capodimonte. L’intervento sul trittico, che si concluderà nei prossimi mesi, è realizzato nell’ambito della XVI edizione di Restituzioni, il programma biennale di restauri di opere d’arte appartenenti al patrimonio nazionale curato e promosso da Intesa Sanpaolo in collaborazione con gli Enti pubblici preposti alla tutela, le Soprintendenze. Nel corso della conferenza stampa hanno preso la parola il Soprintendente Speciale PSAE e per il Polo Museale della città di Napoli, Maurizio Vona, che, nel ringraziare tutti i protagonisti dell’operazione di restauro del trittico, ha evidenziato l’impegno suo personale e di tutti gli addetti del Museo di Capodimonte affinché cresca sempre più presso il pubblico l’interesse per questo museo; il Presidente del Banco di Napoli, Maurizio Barracco, ha sottolineato il ruolo della Banca sul territorio sia sotto il profilo di sostegno all’economia, sia sotto il profilo della valorizzazione del patrimonio culturale del Mezzogiorno; il Responsabile per i Beni archeologici e storico-artistici di Intesa Sanpaolo, Andrea Massari, nel prendere la parola ha posto in luce la volontà della Banca di favorire Napoli nella scelta della sede della Mostra di primavera; mentre Paola Giusti, Direttore Scientifico del restauro, funzionario del Museo di Capodimonte, ha illustrato con dovizia di particolari e grande competenza le varie peculiarità dell’opera in corso di restauro, esaltandone la preziosità. Sarà, quindi, Napoli protagonista della grande Mostra Restituzioni 2013. Tesori d’arte restaurati che, dal 22 marzo al 9 luglio 2013, consentirà al pubblico di ammirare tutte le opere restaurate nel corso degli anni. Due saranno le sedi espositive. Il Museo di Capodimonte e le Gallerie d’italia- palazzo Zevallos Stigliano. La Mostra, promossa e curata da Intesa Sanpaolo nella persona di Silvia Foschi, è organizzata in partnership con la Soprintendenza Speciale per il Patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico e per il Polo museale della città di Napoli e si avvale della preziosa e fattiva collaborazione dell’Associazione Amici di Capodimonte. La curatela scientifica è di Carlo Bertelli e Giorgio Bonsanti. Il restauro è stato realizzato da Bruno Tatafiore. Paola Franchomme I 105 ARTE E POLITICA Opere di alto valore artistico e testimoniale nella rassegna dedicata a Maurizio Valenzi, inaugurata a Roma il 6 novembre 2012. Presentiamo una serie di ritratti di personaggi napoletani che con Valenzi ebbero rapporto di vicinanza, come ha illustrato Mario Franco nel catalogo dell’esposizione (Arte’m). 106 Giancarlo Alisio In occasione della significativa cerimonia di commemorazione organizzata alla Certosa di San Martino sabato 1 dicembre per iniziativa del Soprintendente Fabrizio Vona e del Presidente di Amici di Capodimonte Augusto de Luzenberger, ci è pervenuta la lettera di Sergio Brancaccio, indirizzata ad Alisio, che volentieri pubblichiamo qui di seguito per l’antica comune amicizia. Lettera per Giancarlo Alisio Caro Giancarlo, avevi già seguito la tesina su Sessa Aurunca che ci aveva assegnato Roberto Pane. Nell’ottobre del 1970 venisti nel reparto del Professor Quattrin al Cardarelli per seguire la laurea di mio fratello Ugo Brancaccio, gravemente malato, che la conseguì in quel reparto, con la lode. Ricorderai quanto fu difficile far intervenire “undici” Professori Ordinari fuori sede, la cui partecipazione era obbligatoria per le lauree del tempo. Erano presenti il Preside Franco Jossa, il Relatore Giulio De Luca e tanti altri colleghi ed amici di Ugo. Due ore prima della Laurea, munito di scopa, ti impegnasti per pulire il pavimento del reparto e rendere l’ambiente più accogliente. Era veramente inconsueto, e lo è tuttora, vedere un professore che con tanta umiltà voleva sostenere moralmente il proprio allievo, la famiglia e tanti amici di Ugo, in un momento reso ancora più difficile per lo stato avanzato della malattia. Sono trascorsi quarantadue anni da quando mio fratello ci ha lasciato, ma il tuo gesto di umanità merita un ricordo ed un ringraziamento che vada oltre i tuoi noti meriti scientifici e per il disinteresse che hai dimostrato nel donare alla città di Napoli, la tua splendida collezione d’arte. Ho ritenuto che fosse utile interpretare questi sentimenti per offrirli d’esempio ai nostri studenti e pertanto trascrivo alcuni versi di Ugo pubblicati in occasione del torneo cestistico femminile che ebbe luogo a Summonte il 23 giugno 1973 e te li dedico: “... la vita va attuata come un’opera d’arte, come governo di se stessi, sotto lo sguardo dei popoli passati e che verranno”. Un caro ricordo ed un forte abbraccio Sergio Brancaccio 107 La Mostra di Affiche della Collezione Mele avvero una bella mattinata quella di domenica 25 novembre, organizzata dalla Fondazione Mele nel Museo di Capodimonte con tanti amici. Padrone di casa Alfonso Mele Presidente della Fondazione che, insieme al Soprintendente per il polo museale della città di Napoli, Fabrizio Vona, Nicola Spinosa e Franco Tortorano, consigliere della Fondazione, ha dato avvio all’inaugurazione della Mostra su I Manifesti di Mele provenienti dalla collezione ben più cospicua, custodita dalla Fondazione intitolata agli avi Emiddio e Alfonso Mele, imprenditori napoletani illuminati, colti e di ampie vedute che nel 1889 inaugurarono “I Grandi Magazzini Italiani” in Via San Carlo, in un bel palazzo (detto Palazzo della Borghesia) acquistato proprio per l’attività commerciale che i due fratelli avevano deciso di intraprendere. Sul modello parigino de La Galerie Lafayet e Bon Marchè e su quello londinese di Harrods, i Mele diedero vita in Italia, a Napoli, ad un nuovo modello di vendita di prodotti di abbigliamento destinati alla piccola-media borghesia. I due fratelli intuirono che dovevano avvalersi di un modo di pubblicizzare e di comunicare diverso da quello utilizzato fino ad allora. La comunicazione doveva essere molto più accattivante, proponendo modelli e stili di vita a cui ogni cliente anelava, cercando di raggiungerli e farli propri. “Massimo Buon Mercato” era lo slogan che conquistava ciascun acquirente. Un’operazione, diremmo oggi, di marketing ben architettata. I magazzini Mele, grazie anche a questo tipo di comunicazione innovativa, divennero ben presto un punto di riferimento per gli acquisti della borghesia piccola e media. Le affiche, molto colorate ed attraenti erano realizzate dalla nota ditta Ricodi di Milano che in quegli anni aprì una succursale a Napoli. La costruzione delle immagini, sul modello della produzione di Toulous Lautrec a Parigi, erano di Beltrame, Caldanzano, Cappiello, De Stefano, Dudovich, Laskoff, Malerba, Manzan, Mazza, Metlilovitz, Sacchetti, Terzi e Villa. In particolare Marcello Dudovich fu la firma che accompagnò, più di ogni altra, con annunci, calendari, cartoline, locandine, cataloghi, l’ascesa dell’impresa Mele. Le figure e le ambientazioni riportate sui manifesti attraevano lo sguardo del passante o del lettore e lo catturavano. Un’arte minore che però ha contrassegnato un periodo a cavallo tra fine Ottocento e primi Novecento, quando in arte vi erano ancora gli Impressionisti parigini (1860 circa) e incalzavano gli Espressionisti (primi 900 fino al 1925 circa) e i Cubisti e si affacciavano i primi Futuristi (1909-1929). I Magazzini Mele conclusero la loro attività nel 1929, anno della grande crisi. L’intraprendenza della famiglia non si è però arrestata, oggi, attraverso la Fondazione vengono poste in essere azioni finalizzate alla promozione dell’artigianato Partenopeo in tutte le sue forme. Paola Franchomme D 108 Free Mind, intese fotografiche liberamente femminili Le fotografie di Ilaria Sagaria e Maria Raffaella Scalfati al Kestè Bar di Napoli iberare la propria mente e abbandonarsi a un viaggio dell’intelletto, confidando esclusivamente nell’indiscutibile potere comunicativo del mezzo fotografico. Con questo invito due giovanissime fotografe, Maria Raffaella Scalfati e Ilaria Sagaria, studentesse all’Accademia di Belle Arti di Napoli, hanno presentato dal 28 settembre al 16 novembre, la loro prima personale congiunta: Free Mind,“libera-mente”. La mostra ha esposto 14 fotografie al Kestè Art Bar di Largo San Giovanni Maggiore Pignatelli: un luogo del centro storico di Napoli, brulicante di gioventù dal mattino a sera inoltrata, che promette di diventare una nuova fucina di idee per l’arte contemporanea partenopea. Nella “cueva” del Kestè Bar, sotto lo sguardo vigile del grande murale che riproduce San Gennaro – esempio vernacolare di street art migrato in un interno tipico della movida underground – le due fotografe si sono confrontate ad “armi pari”. Il loro intreccio di scatti è infatti – soprattutto – un dialogo femminile sulla donna, onnipresente nelle foto in mostra. Indubbiamente nel lavoro delle due artiste, che hanno incrociato le loro esperienze in momenti diversi del percorso accademico, si riflettono il mondo interiore e le attitudini di ognuna. Da un lato c’è la Sagaria, poco più che ventenne ma già vincitrice di vari concorsi di settore, migrata dalla pittura alla fotografia che, a suo dire, “è il mezzo ideale per sintetizzare quell’ideale di bellezza assoluta oggetto della sua ricerca, che trova la sua massima espressione nel nudo femminile”. Dall’altro lato c’è la Scalfati, quasi trentenne, scenografa in procinto di concludere il biennio specialistico di Fotografia del corso “Linguaggio d’Arte”, che ha al suo attivo numerose mostre collettive e personali. Nel corso di queste ultime, la giovane laureanda ha sperimentato di recente la tecnica della sovrapposizione di due o tre diapositive per comporre nuove immagini con l’ausilio di uno scanner. Al Kestè Bar le “metafotografie” della Scalfati mescolano con disinvoltura passato e presente, antico e nuovo, statue famose dell’arte classica e persone in carne ed ossa, presenze maschili e femminili. Ma, osservando bene gli scatti in mostra, si intuisce che tra le due fotografe c’è una sottile intesa artistica perchè il loro modo, finemente femminile di raccontare attraverso le immagini l’universo donna, è complementare. Infatti, dove la Sagaria cela gli occhi dei suoi nudi raccolti o seminascosti tra libri e lenzuola, la Scalfati dà risalto allo sguardo conferendogli un potere quasi ipnotico che assorbe su di sé l’intero quadro. E ancora, dove la prima fa risaltare la massa chiaroscurale dei nudi, la seconda lavora tra immersioni ed emersioni corporee, concedendosi talvolta tagli cubisti e prospettive policentriche simultanee. Ma, come in una conversazione di musica jazz, gli scatti in mostra restano saldamente ancorati alla “nota” dell’assunto iniziale: nel voler essere anacronistici e privi di riferimenti antropologici dicono tutto, con un linguaggio scarno ed essenziale, della contemporaneità del vivere declinato al femminile. Gabriella Riselli L 109 Mostra “Contropiani Mediterranei” Maurizio Vitiello Domenica 11 novembre 2012, al Fortino di Sant’Antonio di Bari, inserita nell’ambito del progetto “Agorà dell’arte” e organizzata dall’associazione “Agorà mediterranea”, è stata inaugurata la mostra “Contropiani Mediterranei”, con opere recenti degli artisti: Luisa Bergamini, Lucia Buono, Alfredo Celli, Carlo Cottone, Maria Pia Daidone, Teresa Follino, Franco Giacopino, Luciana Mascia, Monica Pennazzi, Nino Perrone, Massimo Pompeo, Myriam Risola. La mostra “Contropiani Mediterranei”, allestita nell’interessante spazio del Fortino di Sant’Antonio di Bari, inserita nell’ambito del progetto “Agorà dell’arte”, desidera rispondere all’esigenza di reperire nuovi spazi in cui promuovere efficacemente la creatività degli artisti locali in rapporto alle tendenze culturali del territorio nazionale e delle proiezioni mediterranee. “Contropiani Mediterranei” rilancia un segnale, seppur minimo, di verifica dello stato dell’arte in Italia; è un incontro tra artisti di diverse aree geografiche italiane. Sono presenti: Luisa Bergamini, Lucia Buono, Alfredo Celli, Carlo Cottone, Maria Pia Daidone, Teresa Follino, Franco Giacopino, Luciana Mascia, Monica Pennazzi, Nino Perrone, Massimo Pompeo, Myriam Risola. Questa rassegna d’arte contemporanea, che vede insieme dodici presenze artistiche con relative recenti opere d’arte realizzate con diversi codici linguistici, vuole essere un ulteriore contributo di verifica dello stato dell’arte italiano. L’esposizione incapsula “sensi mediterranei” di artisti di varie località italiane e con all’attivo tante personali, molte collettive e diverse rassegne, di grande importanza, da “La Quadriennale” di Roma sino a “La Biennale” di Venezia. Istanze, aperture, tensioni, lieviti, esiti, palpiti e risultati di ricerche vivono nelle loro opere l’urgenza e la neces- 110 sità di confrontarsi. Questi artisti di tono e di qualità, da molti anni sulla scena artistica nazionale, e non solo, differenti per caratteri, offrono un serio ventaglio di misurate declinazioni del linguaggio plastico e pittorico contemporaneo. Attuali direttive di molteplici modalità espressive convergono per manifestare attendibili presenze e per determinare una possibile misurata ricognizione. Questi artisti con lavori di ricerca, seriamente conosciuti e ampiamente riconosciuti, sostengono un contemporaneo visivo di temperamento euro-mediterraneo e attivano, così, oggi, una prova espositiva per alimentare, in fondo, una resistente apertura futura. Bisogna sottolineare che la creatività nel Mezzogiorno risulta sempre in crescita e i risultati delle varie indagini in campo hanno bisogno di luoghi di confronto per eventuali dibattiti. La filosofia di quest’incontro, improntato al confronto di stili, permette al territorio barese di poter recepire un momento squisitamente visivo-culturale, mentre all’orizzonte si tratteggiano ulteriori spunti per scambi aggreganti di nuovi progetti. In questa mostra s’incontrano vari vissuti; nelle opere si riflettono attraversamenti memoriali; difatti, nelle cognizioni artistiche che s’inoltrano la memoria è recepita come fondo d’avvio, mentre passaggi diaristici rafforzano un campo di profili evocativi, aggettanti, risonanti. Alza il livello qualitativo la metabolizzazione di estremi, quelli epocali e quelli intimistici, quelli sociali e quelli domestici; ogni artista delimita un proprio ambito di ricerca, finitimo agli altri; le rispondenze estetiche squillano e si specchiano, movimenti e intrecci rafforzano congetture e rimandi. L’incontrarsi è vivificare la comunicazione, rinvigorire il sentire comune. Fermare la memoria per assicurarla come testimonianza del vissuto e sommare anche la pronuncia diaristica permette di regolare passato e presente per graffiare il futuro; e sembrano scattare altri possibili incontri. Quest’esposizione è un meeting di paralleli segni incisi e di espressioni raccolte sul “fil rouge” del ricordo, associato e spinto dalla voglia di andare oltre le leggi dell’uomo per avvicinarsi, invece, a quelle sagge della natura e questa doppia declinazione del motivo del ricordo si pone come un’interpretazione più liberale per captare movimenti e gesti, ciò che ci circonda o ciò che ci abbraccia. 111 L’occhio del Novecento che amò Scanno LA “MESSA DI MEZZANOTTE” DI HENRI CARTIER BRESSON IN MOSTRA ALLA REGGIA DI CASERTA utta l’Italia del Sud è nata qui: le tre teste calve infagottate nei mantelli neri, come dei gufi notturni pietrificati dalla luce, i tre cappelli neri, da cui un uomo rispettabile non si separa mai, posati direttamente sull’altare, i ceri accesi di fronte all’immagine sacra, le colonne di marmo di cui nessuna chiesa, neanche la più povera è mai sprovvista, e soprattutto il contrasto tra il bianco della tovaglia dell’altare e il nero dei vestiti. Messa di Natale, colta nella forza e nella magia delle opposizioni rudimentali, nel cuore dell’Abruzzo selvaggio: liturgia del sacrificio, nel paese dei bianchi fusi di luce e dei neri spaventosi”. Così nel 1988 lo scrittore francese Dominique Fernandez commentò la “Messa di Mezzanotte a Scanno” del 1933 che, insieme ad altri 42 scatti di Cartier Bresson, è esposta fino al 14 gennaio 2013 negli Appartamenti Storici della Reggia di Caserta. Il grande maestro della fotografia francese, universalmente conosciuto come “l’Occhio del Novecento” per l’intensità e la completezza con cui lo raccontò attraverso le immagini, fu in Abruzzo e a Scanno a più riprese. Proprio nel ‘33, in occasione di uno dei suoi primi viaggi in Italia, vi realizzò un lungo reportage fotografico – cui appartiene la foto della Messa di Natale alla Parrocchia di Santa Maria della Valle – che ha reso famoso quest’angolo d’Abruzzo, consacrandolo come il paese della fotografia. Infatti, sulla scia di Cartier Bresson, altri fotografi celebri come Mario Giacomelli e Gianni Berengo Gardin, hanno ripercorso l’Alta Valle del Sagittario fino a Scanno, raccogliendo impressioni fissate per sempre in immagini memorabili. La foto scannese della Messa di Mezzanotte appartiene al corpus della collezione Immagini e Parole, il cui nucleo originario si costituì nel 1988 per l’ottantesimo compleanno di Cartier Bres- “T 112 son. In quell’occasione, alcuni amici – che si chiamavano, tra gli altri, Gae Aulenti, Balthus, Jean Clair, Ernest Gombrich, Arthur Miller, Milan Kundera e Leonardo Sciascia – decisero di regalargli il proprio commento a una sua foto. L’idea di compleanno, che strada facendo si è arricchita del contributo di autori dell’ultima ora come Antonio Tabucchi e Alessandro Baricco, raccoglie il fior fiore dell’opera del fotografo francese letta e “chiosata” dalle parole suggestive e affettuose di altrettante personalità illustri. Al gioco dell’intelletto partecipò lo stesso Cartier-Bresson che, in telefonata con l’amico editore Robert Delpire, commentò l’ultima fotografia – in mostra a Caserta – scattata in un pomeriggio di settembre del 1988 durante una passeggiata con la moglie Martine a Isle-sur-la-Sorgue in Provenza. “Un fossato, alcuni alberi, un fascio di luce sull’acqua e un’anatra”: è tutto qui il testamento artistico di un grande fotografo dall’obiettivo temperato che, nell’attimo dello scatto, aveva il dono speciale di allineare con la stessa intensità occhi, mente e cuore. E che, nell’ultima immagine, tradisce il definitivo ritorno al disegno e alla pittura, suoi primi e mai dimenticati amori. Gabriella Riselli La famiglia Pisani Massamormile e l’impegno per un restauro che sembrava impossibile PREMI & PREMI 113 L’Accademia Nazionale dei Lincei inaugura Il suo 410° Anno di attività LAMBERTO MAFFEI, PRESIDENTE: “L’ACCADEMIA È VIVA PERCHÈ LA CULTURA È ALLA BASE DEL VIVERE CIVILE E IL SUO APPREZZAMENTO È NECESSARIO PER USCIRE DALL’OPACITA’ MORALE DELLA NOSTRA SOCIETÀ” Accademia Nazionale dei Lincei ha celebrato il 9 novembre l’apertura dell’anno accademico 2012-13 alla presenza del Ministro dei Beni e delle Attività culturali, Lorenzo Ornaghi. Il Ministro dell’Università e della Ricerca, Francesco Profumo, ha inviato un messaggio di auguri. Nel corso della cerimonia, durante la quale i 24 nuovi soci eletti nel 2012 hanno ricevuto i diplomi e i distintivi e sono stati consegnati dal Ministro Ornaghi i Premi Feltrinelli, il Presidente dell’Accademia, Lamberto Maffei, ha ricordato le iniziative portate avanti nell’anno passato e ha presentato i progetti che caratterizzeranno il nuovo ciclo di attività dell’Accademia. “Nell’aprire il 410° anno dell’attività dei Lincei mi conforta pensare che la nostra illustre tradizione culturale è ancora viva nell’Accademia di oggi ed è capace di tradursi in progetti e attività che abbiano rilevanza per la nostra società, per la nostra cultura in un momento così difficile e delicato – ha dichiarato Maffei nel suo di- L’ scorso – si potrebbe riassumere il nostro compito in una frase che Pasolini scriveva più di 50 anni or sono: “…noi abbiamo una vera missione in questa spaventosa miseria italiana, una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà”. L’Accademia dei Lincei è sul campo con i suoi soci e le sue numerose iniziative a scuotere coscienze e comportamenti nella sua indipendenza e purezza, sottolineo purezza, di intenti”. L’impegno dell’Accademia nel dare voce alla tradizione culturale italiana è stato recentemente riconosciuto con il conferimento di due premi prestigiosi: il premio Scanno per i Valori, consegnato il 23 giugno, e il premio annuale delle Scienze conferito dalla National Italian-American Foundation (NIAF) il 13 ottobre scorso. “È stato un grande piacere e onore per me ritirare a nome dell’Accademia questi premi. Il premio Scanno a palazzo Taverna mi è stato consegnato dal dott. Gianni Letta 114 che ha illustrato a una sala affollatissima la nostra attività con apprezzamenti che mi hanno confortato e commosso – ha commentato il Presidente dell’Accademia – mentre il premio conferito dalla National ItalianAmerican Foundation costituisce un importante riconoscimento all’attività che i Lincei svolgono per la promozione e la diffusione della scienza e della cultura nel mondo”. Dopo aver ricordato le attività svolte nell’anno passato, convegni, seminari, incontri inter-disciplinari e manifestazioni, il Presidente ha presentato i progetti futuri. Tra i più rilevanti, c’è certamente la manifestazione “Stati Generali della Cultura” organizzata in collaborazione con l’Enciclopedia Italiana e il Gruppo Sole 24 Ore per discutere di cultura come risorsa per lo sviluppo, crescita e occupazione del nostro Paese. “Particolare importanza – ha sottolineato Maffei – viene data dall’Accademia ai progetti sulla scuola che, avviati lo scorso anno in collaborazione col ministero, si sono estesi a numerose realtà scolastiche. Oltre a Roma, Napoli, Pisa e Venezia, l’anno prossimo partiranno i centri di Milano, Torino, Palermo. Grazie all’accordo di collaborazione tra i Lincei e Rai Educational, dallo scorso 2 giugno va in onda il programma “Quale sapere? Orientarsi con l’Accademia dei Lincei”, 14 lezioni tenute da soci appartenenti a vari ambiti disciplinari con lo scopo di orientare i giovani nella scelta universitaria. “Molte altre e diversificate – ha ricordato il Presdente Maffei – sono le attività dei Lincei. Ricordo l’attività di consulenza e di documentazione delle nostre commissioni e qui ringrazio i presidenti per la loro infaticabile attività. L’“Accademia è viva, impegnata, perché i soci sanno che la cultura sta alla base del vivere civile e che l’apprezzamento orgoglioso di essa e la promozione dei nostri tesori culturali è condizione necessaria per uscire dall’opacità morale, direi immorale, che si è annidata nei gangli della nostra società, e nei confronti della quale troppo raramente troviamo la forza dell’indignazione – ha concluso Maffei – il nostro illustre socio Presidente del Consiglio dei Ministri ci conforta dicendo che vede una luce anche se lontana nelle tenebre della nostra crisi economica e morale. Noi ci contentiamo più modestamente con il nostro lavoro di far nascere almeno la speranza perché, come scrive S. Agostino. “La speranza ha 2 figli bellissimi: lo sdegno e il coraggio; il primo di fronte a come vanno le cose, il secondo per cambiarle”. La cerimonia è proseguita con il conferimento dei premi Feltrinelli e la prolusione del prof. Remo Cesarani “Conflitti di lingua e di cultura”. È stata poi la volta dei nuovi soci che hanno ricevuto i diplomi di Accademici Lincei. Uno spazio particolare è stato riservato al progetto GULU-NAP a sostegno della sanità in Uganda, illustrato dal Rettore dell’Università di Napoli “Federico II”, dal Prof. Luigi Greco e dal Prof. Nyeko Pen-Mogi V. Chancellor dell’Università di Gulu. L’Accademia ha supportato il progetto assegnando il premio Feltrinelli di 250.000 euro.“Questo premio ci sarà di grande supporto nel portare avanti il nostro lavoro – ha detto il professor Nyeko Pen-Mogi dell’Università di Gulu – sono molto onorato ed esprimo la più sincera gratitudine all’Accademia Nazionale dei Lincei.” Giovanni Anzidei 115 Il Convegno del Premio Capri San Michele er alcuni secoli, una delle opere della letteratura italiana più lette e famose in Europa è stata Il Cortegiano di Baldesar Castiglione. Riporta le conversazioni, avvenute nella corte granducale di Urbino, iniziate nella serata del giorno seguente quello della partenza di Giulio II, che aveva soggiornato ad Urbino dal 3 al 7 marzo 1607, e che erano durate per quattro serate. Vi avevano partecipato coloro che vivevano o frequentavano la corte ed alcuni di coloro che erano al seguito di Giulio II, e si erano trattenuti ad Urbino. L’opera di Baldasar Castiglione ci rivela una civiltà dove c’e ancora armonia tra cultura e politica, e l’individuo, come era stato nei secoli precedenti, può ancora aspirare a compiere azioni degne di quelle che compivano gli antichi. A mano a mano, con la scoperta della polvere da sparo e il continuo entrare nella vita degli uomini di prodotti industrializzati, venuti da scoperte scientifiche e dalla loro applicazione della tecnica, questa civiltà è diventata sempre più solo un sogno, sempre più un irrealizzabile ideale. Non è stato mai un sogno, né un irrealizzabile ideale invece il conversare con spontaneità, senza spirito competitivo e scacciando il desiderio di aver l’ultima parola. È sta- P to sempre una concreta realtà. E specialmente nell’isola di Capri, che viene considerata la più bella del mondo, così come il più bel palazzo del mondo veniva considerato quello ducale di Urbino. A conversazioni di tal genere ha teso il Premio Capri – S. Michele con i suoi convegni iniziati nel 1992. Si svolgono nel pomeriggio del giorno che precede quello della cerimonia di proclamazione dei vincitori e di assegnazione dei premi. Intendono essere un primo incontrarsi dei membri della giuria, degli autori delle opere premiate e di altri partecipanti, ed un loro sereno conversare su un particolare tema. Ciò ritenendo che tutti coloro che vi intervengono siano amici della bellezza, della verità, dello spirito, conoscano l’autenticità delle parole che usano, e siano consapevoli della loro identità. Tutto ciò è stato sempre più evidente di anno in anno. Ed è stato mirabilmente evidente nelle conversazioni di quest’anno, che 116 sono iniziate nel pomeriggio di venerdì 28 settembre, e sono state riprese nella mattinata del 29 settembre. E che si potrebbe dire abbiano avuto una logica conclusione con la cerimonia svoltasi nel pomeriggio del 29 settembre, festività di S. Michele e degli altri arcangeli. Ad Urbino dieci furono gli interlocutori principali, tredici i secondari, e ci furono anche altri che seguirono in silenzio le conversazioni. Nel chiostrino di San Michele in Anacapri, che apparteneva al monastero di San Michele, fondato nel 1683 da suor Serafina, ci sono stati sedici interlocutori principali, mentre quasi un centinaio di persone ha seguito il conversare nel pomeriggio di venerdì e nella mattinata di sabato. Oltre trecento erano presenti alla cerimonia. Ad Urbino si conversò su “il cortegiano”, ad Anacapri si è conversato sul paesaggio, in occasione del novantesimo del primo convegno italiano su questo tema. Ideato ed organizzato da Edwin Cerio, nella sua qualità di sindaco, si svolse a Capri il 9 e il 10 luglio 1922. Ebbe un’appendice nella mattinata del giorno seguente ad Anacapri, dove, presso l’Albergo Paradiso, i partecipanti che erano rimasti ascoltarono una relazione di Vincenzo Cuomo sul paesaggio e sulla climatologia. Nelle conversazioni anacapresi è stata auspicata la conoscenza e la giusta tutela di quel complesso di elementi, forme, processi di origine naturale ed umano, fra loro interconnessi, che chiamiamo paesaggio, che per l’Italia è una delle massime risorse. Ed è stato ribadito che l’uomo potrà ritrovare se stesso, e frenare la sua decadenza, solo se ritornerà a quella armonia con la natura dalla quale si è sempre più allontanato. Raffaele Vacca 117 Premio Penisola Sorrentina on uno spettacolo concepito come format televisivo, si è svolta, al Teatro delle Rose di Piano di Sorrento, la diciassettesima edizione del Premio Penisola Sorrentina Arturo Esposito. Il Premio, dedicato alle industrie culturali ed alla creatività, quest’anno ha lanciato un nuovo segnale coniugando spettacolo ed impegno civile. Tema della serata: l’amore. Maria Grazia Leonetti Rodinò, premiata dalla Camera dei Deputati per il “Management culturale”, bene incarna l’amore per l’arte e la cultura cui dedica da sempre, con instancabile attività, tempo ed energie. Esponente di una grande famiglia che porta la cultura da Napoli nel mondo, già nel 2005 è stata primo governatore donna del Pio Monte della Misericordia (antica istituzione benefica che nel 600’, commissionò a Michelangelo Merisi da Caravaggio il famoso quadro “ Le sette opere di misericordia”). Dal 1985 ha istituito il “Premio Tommaso e Laura Leonetti-Un impegno per Napoli”, oggi alla dodicesima edizione, per la valorizzazione dell’immenso patrimonio artisticoculturale della nostra città. Abituata a dare questo prestigioso premio a personaggi quali Muti, Accardo, Carlo Azeglio Ciampi, nel ricevere il riconoscimento “ Penisola Sorrentina” ha parlato del suo impegno per la valorizzazione dei beni culturali del nostro territorio secondo la sua personale filosofia: “usare l’arte per fare del bene e farlo bene.” A consegnarle il premio è stato il direttore de Il Cerchio, Giulio Rolando, che si è detto «felice ed onorato di consegnare un riconoscimento tanto prestigioso ad un’amica per la quale l’impegno culturale e sociale rappresentano da sempre un’autentica ragione di vita». Ad Alfonso Ruffo, direttore della rivista Il Denaro, è andato il Premio per l’editoria: “Stiamo attraversando un periodo di pericolosa crisi – ha detto – c’è bisogno di scambio e cooperazione. Il C mio giornale è un gruppo multimediale, non si occupa solo di economia, ma anche di editoria e dedica molto spazio alla cultura che deve essere volano per lo sviluppo”. La serata condotta dal direttore artistico Mario Esposito, ha visto premiati per le filiere della moda, del teatro, dello spettacolo e dei beni culturali Dino Boffo, Benedicta Boccoli, Sofia Balestra, Giovanni Toti, Sabrina Testa, Pina Testa, Ruggero Po, Iva Zanicchi, Danilo Amerio e Massimo Di Cataldo. Vari intermezzi di spettacolo offerti da Gino Rivieccio, Danilo Amerio, Massimo Di Cataldo e da Iva Zanicchi hanno arricchito la manifestazione che si è chiusa con le parole di Magdi Cristiano Allam, presidente del comitato scientifico del premio: “se la cultura è l’anima dell’umanità, per l’Italia la cultura è tutto”. Ad impreziosire la serata ci ha pensato il messaggio inviato dal presidente Giorgio Napolitano, che ha sottolineato l’importanza delle «iniziative che sostengono l’innovazione e che riconoscono il valore dell’istruzione e della conoscenza come fattori insostituibili di progresso». Anna Maria Liberatore Sabini 118 Il premio «Masaniello» a Jean Noël Schifano restigioso riconoscimento per Jean Noël Schifano, insignito col premio «Masaniello», che da tempo cerca di valorizzare un suggestivo angolo di Napoli come è piazza Mercato. Di ritorno nella città dove ha diretto per anni l’istituto «Grenoble», Schifano ha detto di aver trovato «un lungomare meraviglioso e così pulito da fare invidia a Parigi», ma anche «un centro storico in degrado, con molti palazzi ancora diroccati ed i soliti problemi irrisolti». In una interessante intervista, raccolta da Marco Perillo per il «Corriere del Mezzogiorno», Schifano ha sottolineato anche come Napoli sia migliorata dagli anni Settanta ad oggi: «Quando vivevo qui, non c’era nemmeno un turista; addirittura, per un periodo, fu soppresso il volo tra Parigi e Napoli. Oggi è diverso: i turisti sono tornati, sebbene a volte non siano accolti al meglio: mi riferisco agli scippi ed alle rapine». L’intellettuale francese si è spinto oltre, dichia- P rando che il Nord dovrebbe risarcire il Sud per averlo derubato sin dai tempi dell’unità d’Italia. Opinioni storiche a parte, Schifano ha parlato diffusamente di «Dizionario appassionato di Napoli», un compendio di 500 pagine pubblicato in Francia ma non ancora in Italia. Ecco perché l’intellettuale transalpino vorrebbe ora pubblicarlo con un editore napoletano. Al momento, però, nessuno si è fatto avanti per dare alle stampe un’opera così interessante e densa di significato. Motivo? In tempi di crisi, nessun editore sembra disposto a stampare un volume di 500 pagine. Una circostanza che non scalfisce l’ambizione di Schifano, che ha sottolineato anche la necessità di esportare nel mondo il talento unico di molti artisti napoletani. Annarita Siniscalchi Spoleto Festivalart er l’inaugurazione dello Spoletofestivalart, il 28 settembre è stata una vera e propria celebrazione dell’arte e di Spoleto con le parole del critico Giammarco Puntelli. Presenti molti presidenti di Consigli Comunali da ogni parte d’Ita- P lia, capeggiati da quello di Spoleto Patrizia Cristofori e quello di Firenze Eugenio Giani. Presente anche l’ambasciatore dell’Iraq presso la Santa Sede e Massimo Bigioni, direttore artistico del Festival della Pace, con una rappresentanza di circa 80 artisti da 119 tutto il mondo. In grande evidenza gli artisti contemporanei: Giuseppe Menozzi, Giulio Greco, Sergio Bizzarri, Giuliano Ottaviani, Manuel Campus, MenelaW Sete (brasiliano), Gerard Berrizzi (francese), Sandro Trotti, con l’esposizione di opere inedite concessse dal collezionista daniele Taddei. A conclusione, grande sfilata di moda con abiti ispirati all’artista Mirò, condotta e realizzata da Stefania Montori. Soddisfatto il presidente Luca Filipponi: “Quest’anno, con tutte le attività, parliamo di un vero festival che rafforza la famosa autostrada Spoleto-New York degli anni ’50 e ’60 e rende sempre di più Spoleto una città teatro”. Tra i premiati Gilberto Madioni (Premio alla Carriera per l’attività di Critico d’Arte e Giornalista), Guido Oldani (Premio alla Carriera per la Poesia), Simone Fagioli (Sezione Poesie Inedite), Riccardo Cecchelin (Sezione Libri “Successi Editoriali”), Alfonso Marchese (Sezione Romanzi), Bianca Maria Spironello (L’Arte e la Poesia), Claudio Angelini (Vincitore assoluto con il Libro La Donna D’Altri Graus Editore), Sara Rodolao (Libri di Poesia Contemporanea), Filippo Gambacorta (Poesia Inedita), Valerio Giuffrè (Sezione saggi L’Antimetafisica Si Editore), Marcelllo Bemporad (Storia e Società 100 e Più Anni, Graus Editore), Ernesto D’Orsi (Poesia Contemporanea), Alfredo Mercutello (Poesia Contemporanea), Mario Pergolari (Poesia intenazionale), Tiffany con (Masha Sirago Essere o Avere), Giovanni Angelo Conte (Poesia Contemporanea), Annalisa Alfano (Premio Speciale per il romanzo storico). 120 I vincitori del 4° Festival Scanno Natura Doc-effetto uomo e divinità della montagna di Paolo Volponi è il documentario vincitore dell’edizione 2012 di Scanno Natura Doc/Effetto uomo, il Festival del Documentario Naturalistico Italiano che si conclude oggi nella cittadina abruzzese di Scanno: una storia di uomini e stambecchi nel cuore del Parco Nazionale del Gran Paradiso che con toccanti e profonde riflessioni e grande stile visivo parla delle minacce incombenti – il bracconaggio, l’espansione edilizia, l’invadenza dell’uomo - su questo animale simbolo della più selvaggia natura alpina. È stato questo il verdetto delle 15 giurie di spettatori operanti in varie città italiane, e coordinate da Giorgio De Vincenti, Direttore del Dipartimento Comunicazione e Spettacolo dell’Università Roma Tre, che ha indicato al secondo posto Parlare con le orecchie di Alberto Sciamplicotti. Il Premio Speciale Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, assegnato dall’ Ente patrocinatore del Festival, è andato invece a Idroeden di Daniele Cini, quale opera in concorso che ha saputo meglio rappresentare la capacità del documentario naturalistico di essere veicolo di promozione della sensibilità verso la natura e verso l’ambiente, idea portante del progetto di Scanno Natura Doc. Riconoscimenti anche per la sezione delle opere amatoriali. Il Premio Scanno Natura Doc/Effetto uomo/Doc amatoriali è stato vinto ex-aequo da due documentari: Il deserto verde. La foresta che non vive di Paolo Giardelli e Daniela Bruzzo, intenso e coraggioso lavoro sul devastante intervento delle multinazionali della cellulosa nel Pampa, uno dei maggiori biomi del Brasile, e L’Orso e le genti di Claudio Potestio, un’omaggio alle genti d’Abruzzo attraverso i riferimenti alle tradizioni e ad uno dei suoi animali più simbolici. Menzioni speciali sono state attribuite a due originali lavori: Il safari dietro casa di Giovanni Fiorani e Marco Sonnati, un viaggio alla scoperta delle specie animali che hanno imparato a convivere con l’uomo; Anime Verdi, dialogo tra un’imponente e saggia quercia ed una donna cresciuta al suo fianco, realizzato da un gruppo di giovani studenti del Liceo Statale “Don Quirico Punzi” di Cisternino (Br). Il Festival si è concluso domenica 16 settembre con i CORTI, una nonstop di brevi filmati a tema naturalistico e ambientale e, a seguire, con Tesori nel verde di Giuseppe e Davide Cetrone, avvistamenti nella natura di Scanno accompagnati dal vivo dalla musica del Maestro Antonio Coppola. Al termine della serata vi sarà la proiezione del documentario vincitore di Scanno Natura Doc effetto uomo 2012. Scanno, 16 settembre 2012 Italia Gualtieri L CRONACHE SORRENTINE 121 a cura di Annarita Siniscalchi Via libera al restauro della porta di Marina Grande Il Comune di Sorrento restaurerà l’antica porta di Marina Grande col contributo del Rotary Club. L’accordo è stato siglato dall’assessore ai Lavori Pubblici, Raffaele Apreda, e dal presidente del club sorrentino, Baldo Liguoro. Stando a quanto pattuito, l’ente di piazza Sant’Antonino fornirà l’assistenza tecnica ed amministrativa necessarie affinché la Soprintendenza dia l’ok al progetto definitivo di restauro. Poi si aprirà una breccia sul muro di tompagno per eseguire un rilievo dello stato dei luoghi, individuare le zone d’intervento ed effettuare una stima approssimativa del costo dei lavori. Il Rotary Club, invece, finanzierà l’intervento con fondi propri, cui si sommeranno le cifre messe a disposizione dagli sponsor privati. Realizzata nel III secolo avanti Cristo, la porta di Marina Grande ha rappresentato l’unico accesso alla città dal mare fino al Quattrocento. Nei tratti conserva ancora i segni della tipica tecnica di costruzione delle porte sannite, con la muratura isodoma a blocchi squadrati, e l’impianto medievale a doppio arco. Della porta sono ancora visibili i fori dei cardini, attraverso i quali venivano calati i tronchi necessari per rinforzare il varco in caso di assedio. Il sito è legato all’invasione dei turchi del 13 giugno 1558: secondo la tradizione, fu proprio dalla porta di Marina Grande, aperta nottetempo da uno schiavo infedele della famiglia Correale, che gli invasori riuscirono a penetrare in città per poi metterla a ferro e fuoco. Dopo la distruzione delle antiche mura, avvenuta nell’Ottocento, quella di Marina Grande è divenuta la porta più antica di Sorrento. Ma anche il cinema ha contribuito a rendere la struttura famosa in tutto il mondo: proprio qui, nel 1955, il regista Dino Risi volle ambientare proprio a Sorrento il film-cult «Pane, amore e. A denunciarne il degrado, mesi fa, era stato Luigi Garbo, componente del direttivo della sezione sorrentina dell’Anc. L’appello era stato poi raccolto prima dal Rotary Club. Infine l’intervento del Comune e il via all’iter di riqualificazione. 122 Artigianato in vetrina a villa Fiorentino Si rinnova l’appuntamento con «Maestri in mostra», l’esposizione dedicata all’artigianato presepiale. Confermatissima la location: per il terzo anno consecutivo, le suggestive sale di villa Fazzoletti si trasformano in uno scrigno colmo di tesori d’arte, oltre che un imprescindibile punto di riferimento per la promozione culturale di Sorrento e dintorni. Inaugurata il 7 dicembre scorso alla presenza del sindaco Giuseppe Cuomo e delle altre autorità, la terza edizione della kermesse ha visto in esposizione le opere dei maggiori artigiani della Campania e d’Italia. Su tutti il sorrentino Marcello Aversa, che per l’ennesima volta ha strabiliato il pubblico con i suoi presepi in miniatura, ed il metese Giuseppe Ercolano, capace di incantare grazie all’incredibile cura dei particolari ed alla particolare espressività dei personaggi rappresentati. Migliaia di persone hanno già visitato villa Fazzoletti, i cui cancelli resteranno aperti al pubblico fino al prossimo 13 gennaio. Ennesima soddisfazione per Luigi Gargiulo, presidente di quella fondazione Sorrento che ha organizzato la mostra col pa- Quando il mare e la storia incontrano la tradizione L’associazione «Asso vel’a tarchia», d’intesa con l’amministrazione comunale, ha voluto creare nello specchio d’acqua sul versante occidentale della spiaggia di San Francesco un suggestivo harbour heritage. Un «porto di trocinio del Comune: «Il nostro obiettivo è quello di valorizzare l’artigianato locale dando spazio ai maestri campani – fa sapere – Inoltre, l’esperienza insegna che il turismo e la cultura rappresentano un formidabile volano per l’economia: è da qui che bisogna ripartire per uscire dalla crisi». Il successo di «Maestri in mostra» segue di poche settimane quello di «Casa Madre», la mostra delle opere di Antonio Biasiucci e Mimmo Paladino che ha animato villa Fiorentino dal 23 giugno al 28 ottobre: anche in questo caso, pubblico in visibilio e record di visitatori. 123 tradizione», come quelli che spopolano da qualche anno a questa parte in Francia ed Inghilterra, dove quest’anno resteranno ancorate dieci barche d’epoca frutto del genio dei maestri d’ascia di Sorrento e dintorni. I gozzi «Santa Rosa», datato 1950, e «Santa Maria del Lauro», realizzato nel cantiere metese di Alimuri seguendo tecniche risalenti all’Ottocento; le lancette sorrentine «Salvatore» del 1945 e «Miccarella»; il dinghy 14 piedi «Fara», vanto dell’ammiragliato inglese, e i due caratteristici 12 piedi «Sunshine» e «Mizar»; «Francesca Bella», tipica barchetta utilizzata per la visita alla Grotta Azzurra di Capri: eccole le dieci signore del mare chiamate a fare bella mostra di sé in quello che si presenta come un museo gal- leggiante in piena regola. L’area che funge da cornice al «porto di tradizione», dichiarata «di interesse particolarmente importante» nel 1993 dall’allora ministro per i Beni Culturali Alberto Ronchey, conserva gli ambienti marittimi della villa romana dove Agrippa Postumo soggiornò in esilio forzato. Evidentemente, si tratta di una delle più importanti testimonianze archeologiche della penisola sorrentina e dell’intera Campania, tale da conferire all’harbour heritage un fascino senza eguali. Due ninfei, diverse peschiere, una banchina sommersa ed un imprecisato numero di grotte e cunicoli: quanto basta per fare del «porto di tradizione» sorrentino il primo in Italia all’interno di un parco archeologico marittimo. Nuova luce per la basilica di Sant’Antonino allievo di Cristoforo Roncalli, tra i più quotati agli inizi del Seicento. Dopo aver dato nuova luce alla cripta e dopo aver restaurato il transetto e l’abside della chiesa dedicata al santo patrono, la Soprintendenza per i beni architettonici di Napoli e provincia ha voluto ripercorrere i lavori di restauro con la pubblicazione di un volume, che è stato presentato nella stessa chiesa, nel corso di una cerimonia alla quale hanno preso Finalmente una paternità certa per gli affreschi, raffiguranti i santi protettori di Sorrento (Antonino, Attanasio, Bacolo, Valerio e Renato), che impreziosiscono la basilica di Sant’Antonino. A realizzarli fu il pittore Giuseppe Agellio, come hanno accertato gli esperti che, sotto la guida di Angela Schiattarella, hanno eseguito il minuzioso intervento di recupero della calotta che sovrasta l’altare maggiore. Le antiche testimonianze fino ad ora pervenute erano confuse ed i pareri contrastanti. Molti storici, infatti, avevano attribuito gli affreschi a Giacomo Del Po, autore delle tele poste nella parte inferiore dell’abside. Poi, gli studi condotti dai tecnici della Soprintendenza hanno consentito di attribuire i dipinti ad Agellio, pittore di origini sorrentine, 124 parte l’arcivescovo Francesco Alfano, il rettore don Luigi Di Prisco, il sindaco Giuseppe Cuomo ed il presidente del Rotary Club Baldo Liguoro. Da quest’ultimo, un contributo decisivo perché il restauro fosse portato a termine. Nel corso della cerimonia, infine, è stato presentato il gozzo che un anonimo pescatore di Marina Grande ha voluto costruire con le sue mani e donare alla basilica a lode e gloria di Sant’Antonino. L’imbarcazione sarà messa all’asta e col ricavato saranno finanziati ulteriori lavori di restauro. Gli ex-carabinieri sempre in prima linea membro del consiglio direttivo dell’Anc, che il Comune di Sorrento ha avviato l’iter per il restauro dell’antica porta di Marina Grande. L’Anc, inoltre, ha promosso raccolte di fondi per i terremotati dell’Abruzzo e dell’Emilia, ha sostenuto la riscoperta dell’inno di Mameli e del tricolore diffondendo uno specifico opuscolo nelle scuole e contribuisce ogni giorno a garantire la sicurezza a Meta e negli altri centri della Costiera. Non solo cultura e spettacoli: la penisola sorrentina offre anche mirabili esempi di amor patrio ed impegno civile. È una realtà ormai consolidata in penisola sorrentina. Sono più di 25 anni, infatti, che l’Associazione nazionale carabinieri (Anc) è in prima fila per garantire la sicurezza degli abitanti di Sorrento e dintorni. Ma anche per sostenere progetti ispirati alla cultura ed alla solidarietà. Merito soprattutto del cavaliere Michele Gargiulo, che presiede la sezione locale dei reduci e degli ex-carabinieri. A lui ed ai suoi collaboratori va ascritto il merito di aver riportato a Sorrento le spoglie di Antonino Russo, il soldato italiano scomparso nelle acque del Mediterraneo durante la seconda guerra mondiale. Originario della costiera, Russo trovò la morte a bordo del cacciatorpediniere Espero, affondato dal nemico nel 1940. Le sue spoglie furono traslate prima nel cimitero militare di Derna, in Libia, e poi in quello di Taranto. Grazie all’impegno di Michele Gargiulo e dei suoi collaboratori, la salma di Antonino Russo è tornata a Sorrento. Per rendere onore al valoroso combattente, è stata celebrata anche una messa cui hanno preso parte anche i sindaci dei sei Comuni della costiera. Ma non finisce qui: è grazie alle segnalazioni di Luigi Garbo, LETTERE AL DIRETTORE 125 Un irrinunciabile invito Caro Giulio, ritorna il problema di fine vita, anzi, non si è mai abbandonato! Il caso ora si propone, anche se con altre sfaccettature, per il film di Bellocchio presentato a Venezia. Dalla impalcatura dello stesso, sembra evidente che si vuole sostenere punti di vista della Chiesa Cattolica individuata come Chiesa orante. Ma lasciamo al linguaggio della pellicola queste limitazioni. La Chiesa, infatti, è “UNA ed ESPERTA in UMANITÀ”, come diceva un grande Papa, e ci insegna chiaro e forte che non si può fare confusione tra stato vegetativo e fine vita. Pensare diversamente è imbarbarimento delle coscienze. È anche noto, come hanno sostenuto vari editorialisti, che idratazione ed alimentazione artificiale non sono terapie ma trattamento di sostegno vitale, quindi in linea di principio obbligatorie. Queste sono persone viventi e alle persone viventi non si possono far mancare i trattamenti di sostegno. A tal proposito, torna di attualità una nota che inviai ad Indro Montanelli il 3 luglio 2000, che teneva allora una rubrica “La Stanza” sul settimanale “Epoca”, che Ti invio in allegato. Il richiamo a questa lettera è per suscitare un dibattito tra lettori e collaboratori de “Il Cerchio”, dibattito di cui Ti chiedo di essere il moderatore. Emilio Cesare 126 127 Racconto di un viaggio: i tre gabbiani Caro Direttore, allo scrivente è fortunatamente capitat, nei giorni scorsi, di fare un viaggio per mare su una lussuosa nave, visitando città, gente e villaggi dell’Europa del Nord. È ritornato a percorrere le antiche rotte dei mari del Nord, che la fantasia della sua gioventù, di un tempo oramai passato, gli riempiva l’immaginazione con le formidabili gesta degli eroi dei romanzi epici della Letteratura di quei Paesi. Sigfrido e Brunilde e le sagre dei Nibelunghi riapparivano nella sua mente, auspicandogli nuove speranze di sincero rinnovamento spirituale, come, in verità, intende proporre, nei tempi più recenti, anche Richard Bach, con il suo famoso best seller “Il gabbiano Jonathan Livingston”. Una dolce storia attuale lo ha, infatti, colpito particolarmente, quella dei tre gabbiani, che al gentile lettore indichiamo con i nomi familiari di Salvatore, Lorenzo e Ciro. Questi speciali uccelli lo hanno sempre accompagnato per tutto il viaggio nelle sue divagazioni e si sono sempre dimostrati per quelli che sono nella loro candida naturalità: autentici amici dell’uomo, del cielo, della terra e del mare. Con i loro splendidi voli, planavano spesso direttamente sul mare o sulle coste o addirittura sulla poppa della nave, formando nel cielo gioiosi e spettacolari giri ed offrendo agli animi degli spettatori tanta serenità di libertà, sollecitando perfino negli animi più afflitti intense riflessioni della mancata fraternità per le costanti e continue vicende che tanto turbano la nostra indifesa esistenza. Dei tre gabbiani, Ciro, il più gioviale, s’appollaiava perfino sulle braccia di chi gli dava del cibo, mormorando con la sua vivace testolina dolci cinguettii di ringraziamento; gli altri due gabbiani s’accostavano al loro amico più intraprendente con larghe, festose ed allegre discese, come se volessero pure loro ringraziare tutti i presenti della loro benevolenza mostrata per il loro compagno. Era davvero un incanto, un sogno d’amore, una visione vera di affettuosa partecipazione alle nostre aspirazioni spirituali da parte di queste amorevoli creature. Bisogna sapere al riguardo che l’ornitologia ha sviluppato da tempo studi approfonditi ed ha fornito ai cultori obbiettive risultanze di eccezionali novità. I gabbiani, uccelli della famiglia dei Laridi, hanno ali molto larghe, un “cappuccio” personalissimo e sono dei possenti volatori del mare e della terra. Il gabbiano “argentato” nasce proprio nelle terre nordeuropee ed è molto bello, rispetto a quelli del Mediterraneo, con il suo piumaggio luccicante, alla cui famiglia certamente dovevano appartenere i nostri piccoli eroi. La scienza continua ampiamente nelle sue dissertazioni, ma lo scrivente ha preferito segnarli solo nella sua memoria. L’augurio, che prorompe impetuoso da siffatta incantevole visione, riguarda oggi il nostro amato Paese, ancora immerso in continue lotte intestine, nelle quali sono pure spesso coinvolte le Istituzioni. La gente si domanda, con palese ingenuità, perché avvengono ancora tutte queste “battaglie di potere”, giacchè oramai è consapevole dei turbamenti che ancora affossano ogni afflato di rinascenza, ogni tentativo di superamento del- 128 la crisi che ci sta stravolgendo, sia sul piano economico, sia su quello spirituale, per cui gli antichi splendori etici e culturali della nostra tradizione sembrano oramai del tutto annientati. Forse i gabbiani, che lo scrivente ha incontrato nel suo viaggio, hanno voluto lasciare pure loro un accorato appello, come dire naturale ed umano, di insistente, amorevole solida- rietà, un messaggio che la nostra gente laboriosa conosce bene ed alla luce del quale ha sempre operato fino ad oggi. Forse il loro messaggio è rivolto massimamente ai nostri politici, perché smettano una buona volta di litigare e si dedichino tutti insieme con impegno e sacrificio ad un migliore raggiungimento del bene comune. Mario Di Vito Incontriamoci a Melfi e il penultimo weekend di ottobre non sapete cosa fare e volete vivere una esperienza enogastronomica stimolante a Melfi troverete quello che state cercando. Da 53 anni infatti si volge, nelle mura del borgo antico, la “sagra della varola”, come la chiamano qui, ovvero la sagra del Marroncino di Melfi. Il castello di Melfi Una manifestazione popolare che ha antiche origini, che impegna l’intera cittadinanza nei festeggiamenti di uno dei prodotti più nobili del territorio, le castagne del monte Vulture, candidate al riconoscimento di prodotto DOCG dalla Comunità Europea. Melfi cinta dalle sue mura medievali, ospita questa festa attraverso un percorso che partendo da Piazza Umberto I accompagna il visitatore fino al castello normanno, reso celebre dallo “Stupor Mundi” per aver da qui emanato le “Liber Augustalis”. Questa manifestazione riunisce migliaia di turisti e curiosi, quest’anno quasi 40000, che invadono Melfi per gustare ed acquistare le “caldarroste”, bere del buon vino, rigorosamente Aglianico del Vulture e deliziarsi delle tante tipicità preparate non solo dai ristoratori del posto ma anche da privati e associazioni culturali. Per citare alcuni di dati, quest’anno si contano più di 300 camper e ben 200 autobus di comitive organizzate, finanche uno storico treno messo a disposizione da Trenitalia, ribattez- S 129 zato il Treno delle castagne, con a bordo 740 pugliesi accolti in città dal Sindaco. Il centro storico è un brulicare di visitatori che armati di calici e sacchetti godono della bellezza del borgo degustando le bontà del posto. Nell’occasione il centro sembra trasformarsi in un vasto castagneto, tutti gli stand infatti sono addobbati di rami di castagno e la distribuzione lungo le vie sembra quasi far dimenticare al viandante che si trova in un centro abitato. In questi stand ci si imbatte nelle bellezze locali, formaggi, salumi, dolci, prodotti da forno e tanti piatti tipici realizzati ad hoc per l’occasione, c’è voglia infatti di mostrare in tutte le delizie del posto, dalla “maccaronara” al “pan cotto” accompagnando il tutto con il vino, il barolo del sud come viene definito l’Aglianico del Vulture. I marroncini vengono preparati nella varola, un enorme recipiente bucherelIl campanile del Duomo di Melfi lato in cui vengono arrostiti trasformandoli in caldarroste. Instancabili uomini per tutta la durata della festa preparano per i visitatore quintali e quintali di castagne, riattizzando il fuoco e rimestando con i loro rami di castagne le caldarroste per ore intere, creando quasi una suggestiva scenografia al calar del sole per lo scoppiettio dei carboni ardenti e il fumo della varola. La musica poi accompagna ovunque il visitatore, con complessi musicali che suonano in ogni piazzetta, creando un’atmosfera di festa nella quali si fonde il vociare della gente con i suoni degli artisti. A Melfi in queste due giornate si evocato ricordi e sensazioni straordinarie, quasi perdute nella memoria, quelle dei racconti dei nostri nonni che ci tramandavano le immagini delle feste popolari alla fine del raccolto, quella semplicità e bontà perduta da tempo nella vita di oggi. Un esperienza sicuramente da provare per la sua unicità e la sua caratteristica multisensoriale e che sicuramente vorremo rinnovare, con tanti nuovi amici, nella prossima primavera. Gabriele Ladislao Moccia 130 IN APPENDICE Mezzanotte all’Aquarium a panchina stava sotto due piccoli platani. Sui prati lì accanto c’era, alla rinfusa, la sporcizia lasciata dai pomeriggi domenicali di luglio: bucce d’arance, pacchi di patatine vuoti e fogli unti. Era passata da poco mezzanotte e dal fogliame filtrava sulla panchina, proprio di fronte all’Aquarium, la luce bianca del lampione. Il cielo afoso dell’estate dormiva in un silenzio oscuro. Dal buio apparve un uomo e si sedè sulla panchina. Aveva un berretto di tela con la visiera tirata quasi sugli occhi: non si poteva dire quanti anni avesse, forse trenta, forse cinquanta. L’uomo appariva stanco e lacero, come un animale a cui si fosse data la caccia. Più che seduto era riverso sulla spalliera a cui si abbrancava con la mano sinistra: l’altra mano, giù, penzoloni, impugnava una rivoltella. Diede d’un tratto un lungo sospiro, poi alzò l’arma. Ma, in quel momento, un altro uomo sopravvenuto come per miracolo gli afferrò il polso. Cosa fate? Lasciatemi! Colui che gli teneva il polso era un uomo sui quarant’anni, elegante. Guardò con attenzione lo sconosciuto, poi esclamò stupito: Oh! Carlo! Gli lasciò la mano. L’altro lo guardò, sembrò voler parlare, ma non vi riuscì, un nodo gli serrava la gola. L’altro aggiunse con calore: Carlo, volevi morire, ma perché … perché? Ho un tremendo disgusto di questa vita, perché vivere? Non dire sciocchezze Carlo – e gli sedè accanto; tirò fuori un portasigarette d’argento Prendi una sigaretta. Carlo obbedì, gli tremavano le mani. E lei, signor giudice, come mai qui e a quest’ora? Ma non ci siamo dati sempre il tu sin dal liceo? Siamo o no stati compagni di scuola? Si, ma è passato tanto tempo! Accesero le sigarette. Il giudice teneva un braccio intorno alle spalle di Carlo. Dimmi perché volevi morire? Non ti posso aiutare in qualche modo? È da diverso tempo che ho voglia di farla finita, sono sfiduciato, ovunque mi giro vedo marciume. Ho più di trent’anni e non me n’è andata bene una. Mio padre morì, non so se lo sai, appena finii il liceo. La laurea mi è costata molto: studiare e lavorare onestamente è faticoso. Sono nello studio di un noto avvocato romano, tra poco potrei dare gli esami di legge ed iniziare la professione forense … ma non vedo prospettive per il futuro. È tutto così incerto. Mia madre – poveretta – è sofferente. Esce pochissimo da casa e io faccio la spola tra Roma e Napoli. La ragazza con la quale ero fidanzato, e della qua- L 131 le mi fidavo, si è sposata, pochi giorni fa, con un ricco commerciante. Eh! … cosa vuoi? Le donne cercano, soprattutto, una buona sistemazione. Stefano … io ti ho visto spesso in tribunale a Napoli. Sei un uomo straordinario, energico, combattivo, un grande oratore, affascinante, che crea sempre un’atmosfera incredibile, misteriosa. Tutto ciò conferma il carisma che hai e che eserciti su tutti. Ho seguito anche la tua genesi politico-sociale … la tua attenzione ai fatti, ai luoghi a situazioni, a vicende di storie vissute e sofferte da uomini, donne che, senza i tuoi interventi, sarebbero rimasti nell’ombra e che invece forniscono uno spaccato della Napoli di oggi, testimoni di questo tempo ingrato, di questa epoca deludente. Tu sei un esempio di uomo vincente, l’opposto cioè di me che sono sempre stato un perdente. Il giudice battè commosso sulle spalle dell’amico ritrovato. Capisco questa tua amarezza, Carlo. Ma ascoltami. Si può e si deve vivere. Ecco, ora io ti do tutto il denaro che ho in tasca. Prendilo, prendilo … accettalo tranquillamente. Da me lo puoi accettare. Me lo restituirai quando ne avrai molto di più. Per me è come fosse nulla. Pensa, mi capita di puntarne altrettanto su una carta sola. Poi, ascoltami, non ti curare troppo delle donne, quando avrai trovato la tua sposati. Ecco prendi questo denaro e va via, lascia a me la rivoltella. Carlo era commosso. Non sapeva cosa dire. Aveva quasi le lacrime agli occhi. Gli vennero parole di gratitudine, parole rotte dalla commozione. Dio ti benedica, Stefano – e sparve nel buio. Stefano lo seguì con lo sguardo quanto più potè. Pensò come fosse improvvisamente calma la notte, riandò agli ultimi anni, ai fatti criminosi che avevano toccato la vita di Napoli e del Paese. Il suo lottare contro la spirale della camorra e della mafia e il prezzo che aveva pagato. Ripensò a fatti, situazioni e condizioni che avevano colpito altri suoi colleghi, la malavita gli aveva ucciso amici a lui molto cari ed ora temeva per la sua famiglia. Come in un flash davanti agli occhi cominciarono a scorrere una serie di istantanee sulla Napoli ante e dopo terremoto. Sulla generazione di quei quarantenni che avevano creduto negli ideali di giustizia e di solidarietà, ma anche nel rampante carrierismo che avrebbe dovuto – tutto sommato – combattere il tedio di un disincanto esistenziale, di una classe sociale che aveva fondato sulla comunicazione il proprio credo. Ora il giudice capiva che non era possibile porre la poesia al servizio della pubblicità, né la giustizia al servizio della mondanità, e registrava intorno a sé figure senza profondità, personaggi da fumetto, ubriacati di nichilismo, inesorabilmente vinti. Ripensò che la malavita era ancora trionfante e continuava imperterrita nel suo lugubre lavoro. Ripensò alla sua storia, ai suoi rapporti non solo con la città ma con l’intera realtà meridionale. Un meridione come riappropriazione di una idoneità anche attraverso il dolore e la tragedia. Tutto gli sembrò inutile … Dopo un po’ strinse sotto la giacca la rivoltella di Carlo. Si sparò con esattezza al cuore. E rotolò sulla panchina. Aurora Cacopardo 132 Amici de Il Cerchio PUBBLICITÀ OMAGGIO Pensiamo alla salute