Realismo meditativo - Biblioteca Provinciale di Foggia La Magna

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Realismo meditativo - Biblioteca Provinciale di Foggia La Magna
L'ANNO DI GIORDANO
Realismo meditativo
Il quadro che si suole generalmente fare dell'opera verista in Italia non è
nè roseo nè allettante; e questo mi sembra che derivi in parte da malumore
polemico, in parte dall'aver dato importanza esclusiva alle forme più clamorose
e « popolareggianti » del così detto verismo musicale. In un saggio su Mascagni
che ebbe particolare risonanza ai suoi tempi, Giannotto Bastianelli osservava
che « l'operista italiano ha, quasi sempre, una mentalità del tutto immersa, anzi
sommersa, nel flutto della mediocrissima vita che lo circonda. Egli è così
un'anima semplice, di quella semplicità un poco artefatta delle anime popolari,
che non appena venga varcata da noi, ci desta un'antipatia irrimediabile ».
Questa semplicità poteva essere facilmente scambiata con la facile
contentabilità, con la mancanza di autocritica e con l'indifferenza verso la
cultura; elementi negativi a cui si collegano una vera e propria faciloneria e una
eccessiva fiducia nelle varie forme di retorica teatrale consacrate dalla
tradizione.
Arte popolare, dunque, quella del nostro melodramma verista: popolare
perchè facile, perchè sostenuta da una fluida e copiosa vena melodica, in cui
tuttavia si riproducono, sempre più logorati dall'uso, i moduli della « vecchia
melodia italiana dalle forme regolari, dai blandi ritornelli, dalla serena cadenza
finale coronata da una nota tenuta per far piacere alla voce dei cantanti e
all'orecchio del pubblico, che ama i cantanti un po' simili a lottatori di molta
resistenza ». Questa diagnosi ha certo
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dei fondamenti di verità, specialmente se la riferiamo a una situazione generale
del teatro musicale italiano degli ultimi decenni del sec. XIX. Si può infatti
ammettere con una certa facilità che la cattiva retorica e una eccessiva
contentabilità formale fossero i pericoli più frequenti che implicava
l'adorazione della formula verista. Ma è legittimo considerare conclusa in
queste linee la fisionomia dell'opera italiana a cavaliere tra il sec. XIX e il XX?
Non si dovrà riconoscere che, sulla base di questi dati sommari e parziali, la
visione del melodramma post-verdiano risulta alquanto ristretta e tale da
interessare più la storia del costume teatrale che non quella dell'arte musicale?
Ognuno può del resto constatare quanto vi sia di generico e di impreciso in
certi termini riassuntivi. Il giudizio critico non può nascere se non dall'esame di
un particolare ambiente culturale e di concrete personalità; perchè non sarebbe
giusto porre sullo stesso piano musicisti così diversi l'uno dall'altro e così
diversamente dotati come furono Puccini, Mascagni, Leoncavallo, Cilea e
Giordano, anche se è possibile e giustificato farli rientrare in uno stesso clima
storico.
E' opinione piuttosto comune che la cultura musicale italiana, nella
seconda metà del sec. XIX, fosse arretrata nei confronti della contemporanea
cultura d'oltralpe. Limitarsi ad osservare ciò non è sufficiente, ai fini di un
concreto giudizio storico; occorre darsi una ragione di questo fatto, dal quale è
stato determinato, per via di una erronea illazione che deduce la qualità
progressiva dell'arte in relazione allo sviluppo della tecnica e del gusto, un
giudizio restrittivo, e a volte addirittura negativo, intorno alla musica italiana di
quel periodo, generalmente considerata « inferiore » a quella tedesca (Wagner e
post-wagneriani) e a quella francese (Debussy e impressionisti). E' necessario
rendersi conto che quasi tutta la cultura del sec. XIX fu caratterizzata dal
sentimento romantico della nazionalità, e che pertanto l'arte e la letteratura
ottocentesca in Europa si sono sviluppate in gran parte nell'ambito di una
cultura nazionale. Gli scambi tra una nazione e l'altra si verificarono piuttosto
tardi e in maniera sporadica o superficiale; perciò furono poco fecondi. La
fedeltà alla tradizione nazionale rappresentava la fedeltà dell'uomo alla sua
umanità vera e profonda. Anche il verismo da noi, sebbene fosse nato sotto la
spinta del naturalismo francese, valse a riaffermare e a rinsaldare nell'artista il
sentimento della tradizione nazionale e l'esigenza di un legame
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più attivo e più fecondo con la vita del popolo in mezzo a cui egli era nato e di
cui veniva cogliendo le peculiarità etniche e l'originalità creatrice.
Nato a Foggia il 28 agosto 1867, Umberto Giordano ebbe i primi
insegnamenti di solfeggio e di pianoforte da un amico di famiglia il quale,
considerate le singolari attitudini del fanciullo, persuase il padre a rinunciare
all'idea di fare di lui un medico. Fu quindi affidato alla cura di due musicisti
foggiani, Luigi Gissi e Giuseppe Signorelli. A 14 anni partecipò al concorso per
un posto gratuito nel Collegio di musica del Conservatorio di S. Pietro a
Majella di Napoli; fu respinto per alcuni errori nel basso armonizzato, ma le
composizioni presentate al concorso attirarono su di lui l'attenzione di Paolo
Serrao, che volle dargli lezioni gratuite. Dopo 6 mesi di insegnamento,
Giordano era in grado di guadagnare il posto ambito su 57 concorrenti. Nel
Conservatorio napoletano studiò contrappunto e composizione con lo stesso
Serrao, organo con M. E. Bossi, pianoforte con Martucci e violino con A.
Ferni. Fu allievo del Conservatorio dal 1882 al 1890; in questo periodo ebbe
modo di farsi apprezzare dalla stampa napoletana per alcune composizioni
orchestrali; nel 1888 inviò l'opera Marina al concorso Sonzogno, quello stesso
che doveva dare così grande notorietà alla Cavalleria rusticana. Su 73 opere
concorrenti, Marina fu classificata sesta e fu particolarmente apprezzata da F.
Marchetti, che faceva parte della Commissione. L'editore Sonzogno non volle
tuttavia acquistare l'opera, di cui non apprezzava il libretto, ma per i buoni
uffici del famoso direttore d'orchestra Leopoldo Mugnone impegnò Giordano
a scrivere in un anno, con un assegno di 200 lire mensili, una nuova opera, che
fu Mala vita, dal dramma 'O Voto di S. Di Giacomo e G. Cognetti, che il
librettista Nicola Daspuro (leccese di nascita) elaborò sul piano di un realismo
senza orpelli, dominato da violenti impulsi sensuali.
L'azione si svolge in un « basso » napoletano, nelle vicinanze di un
postribolo; il protagonista, Vito Amante, fa voto a Cristo di sposare una
prostituta se guarirà dalla passione mordente e tormentosa che lo avvince a
Donna Amalia. Cristina ripone in lui le sue speranze di redenzione; ma Donna
Amalia non si rassegna a perdere l'amante e riesce di nuovo a soggiogarlo, e a
Cristina non rimane che ritornare definitivamente nella mala casa. L'opera fu
rappresentata con successo a Roma, protagonisti gli stessi cantanti, la
Bellincioni e Stagno, che ave3
vano eseguito Cavalleria rusticana; anche sulla base di una formula naturalistica
troppo cruda, Giordano è riuscito a mettere in luce le sue più sensibili qualità,
specialmente nella vibrante e pietosa umanità con cui è sottolineata la dolorosa
e desolata storia di Cristina. Mala vita ebbe buon esito anche a Vienna e a
Berlino, ma a Napoli non piacque. Qui cadde anche l'opera successiva, Regina
Diaz, rappresentata nel 1894, e il fiasco indusse Sonzogno a licenziare il
compositore, il quale si trovò in serie difficoltà. Intervenne Franchetti, il quale
persuase Sonzogno a provare le qualità del giovane musicista con una nuova
opera che era stata offerta a lui e che Franchetti cedette generosamente al suo
giovane collega.
Trasferitosi a Milano, Giordana si mantenne in costante contatto con il
librettista, che allora preparava pure il soggetto di Bohème per Puccini. Non
senza difficoltà e contrasti con Illica, l'opera fu portata a compimento; ma
Amintore Galli, che era consulente musicale di Sonzogno, la giudicò «
irrapresentabile » e fece quindi in modo che fosse cancellata dal cartellone.
L'intervento di Mascagni evitò questo guaio, ma sorsero altre difficoltà; il
tenore A. Garulli, forse intimorito dal giudizio negativo del Galli, si rese
irreperibile. Il Borgatti s'indusse a sostituirlo, e così, il 28 marzo 1896, Andrea
Chénier veniva rappresentato trionfalmente alla Scala di Milano; e poi le voci
dello stesso Borgatti, di Tamagno, di De Lucia, di Battistini e di Sammarco ne
consolidarono il successo nei principali teatri d'Europa e d'America.
E' stato detto che con l'Andrea Chénier Giordano ha creato l'opera tipo
della Rivoluzione francese; tanto è vivo in questo melodramma il senso
dell'atmosfera, a volte anche il senso cupamente tragico di quei tempi così
torbidi e sanguinosi. Si veda, per esempio, con quale sobrietà e sicurezza di
tocchi Giordano riesca, nel primo atto dell'opera, a suggerire il contrasto tra la
brillante galanteria della festa settecentesca e il sinistro spettacolo di miseria che
viene a turbare l'aristocratica adunanza; vivaci note ambientali cogliamo anche
nel secondo atto, specialmente in quel ritmo cupo che accompagna il passaggio
delle pattuglie; o nelle fosche note di colore che, nell'ultimo atto, evocano la
desolazione del carcere di San Lazzaro, in cui il protagonista è chiuso nella
imminenza del suo supplizio. Ma Giordano non era Mussorgsky; non aveva,
come il musicista russo, quel potente sentimento corale, in cui passava, con
tratti di
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grande energia realistica, il pathos di vaste folle assorte nella preghiera o
esultanti o agitate nell'impeto della ribellione. Tuttavia noi non diremo che il
Nostro sia stato evasivo nella rappresentazione ambientale, giacchè se avesse
operato qualcosa di diverso da quello che ha fatto avrebbe creato una
sproporzione nell'economia del dramma. L'ambiente storico doveva
necessariamente rimanere in un secondo piano, e infatti il compositore lo ha
realizzato come sfondo, per isolarvi i due protagonisti, Chénier e Maddalena;
giacchè questi configurano il nodo drammatico dell'opera, e nella loro vicenda,
nella storia del loro amore contrastato e dei loro desideri inadempiuti doveva
acuirsi la linea musicale del dramma. Quello che a Giordano importava
soprattutto era di raggiungere un equilibrio, un rapporto vivo tra l'individuo e il
mondo che lo circonda; e ci è riuscito, qui come altrove. E così egli si è
preoccupato di graduare la evidenza dei singoli personaggi in relazione ai due
protagonisti, nella cui passione vivevano gli elementi più intensi del suo
romanticismo, il sentimento di un miraggio non mai raggiunto, di una salvezza
o di una felicità intravista e non mai posseduta.
Nell'anno stesso in cui fu rappresentato Chénier Giordano prese in
moglie Olga Spatz, figlia del proprietario dell'Hotel Milan. Avendo ascoltato al
Teatro Sannazaro, nell'interpretazione magistrale di Sarah Bernhardt, Fedora di
Sardou, chiese a costui l'autorizzazione a musicare il dramma. La stessa
concessione egli aveva chiesta al drammaturgo francese nel 1885, quando aveva
solo 18 anni, e gli era stato risposto seccamente On verra plus tard. Fedora,
rappresentata al Lirico di Milano nel 1898, interpreti la Bellincioni e Caruso,
consolidò col suo successo la fama di Giordano e cominciò da allora il suo giro
trionfale per i teatri del mondo. A Vienna fu diretta da Gustav Mahler, a cui
piaceva particolarmente il primo atto.
Il travaglio della passione amorosa costituisce senza dubbio la corda più
sensibile dell'anima di Giordano; egli vive l'amore con passione immediata,
senza complicazioni intellettuali, sentendolo come voluttà, come illusione
suprema, purtroppo circoscritta entro un orizzonte che non riesce ad aprirsi.
Ma, a differenza dalle creature pucciniane, che sembrano quasi tutte presaghe
di una punizione imminente, della amara sorte che le attende, epperò hanno il
cuore grave di una prematura tristezza, a differenza dalle creature pucciniane i
personaggi di Giordano sono animati da una giovanile ansietà di esistere, da un
intimo
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fervore che li protende ansiosamente verso la vita. Perciò nella vicenda scenica
la morte giunge sempre inattesa, come uno scacco improvviso del destino o
come una subitanea determinazione della creatura umana che vede
irrimediabilmente rovinate le sue speranze, svanite le illusioni su cui
poggiavano unicamente le sue possibilità di vita. Sembrano esseri nati per
gioire, e che a un tratto il fato sorprende e opprime inesorabilmente. Perciò è
naturale che, all'inizio dell'azione scenica, essi figurino immersi in un'atmosfera
di elegante seduzione o di lusso: Chénier e Maddalena nella luce sfarzosa di una
festa aristocratica, Fedora in un salotto gentilizio, Stephana davanti alla graziosa
palazzina donatale dal principe Alexis.
In Fedora il rapporto tra ambiente e personaggio scenico è più stretto e
costante; perchè protagonista dell'opera è una donna, la cui psicologia, la cui
istintiva passionalità hanno il loro elemento naturale in quell'aria di mondanità
raffinata che costituisce lo sfondo permanente dell'azione drammatica. Il
compositore si è perfettamente reso conto di ciò, ed ha rivelato una singolare
sapienza stilistica nel modo con cui ha introdotto e sviluppato la situazione
iniziale. L'opera comincia con una introduzione orchestrale che enuncia il tema
fervido dell'amore di Fedora. Dopo un breve intervallo arguto e brioso, in cui
un cameriere e due staffieri parlano delle imminenti nozze di Vladimiro,
ricordando la vita mondana e spensierata del loro padrone, affiora il tema di
Vladimiro, un tema che ha qualcosa di ambiguamente dolce e seducente e che
evoca, anche per mezzo di un linguaggio armonico ricercato, piuttosto insolito
in Giordano, il senso di una raffinatezza voluttuosa e galante. Questo tema
commenta, nell'orchestra, la curiosità ammirata con cui Fedora osserva il
magnifico arredamento della casa di Vladimiro, e poi costituisce lo spunto
iniziale dell'Aria che segue: O grandi occhi lucenti, fondendosi col tema dell'amore
di Fedora.
Originale modo con cui il Maestro dà senso poetico alle suggestioni
offertegli da una vita così preziosa e signorile; ogni oggetto, ogni ninnolo
suscita in Fedora vaghe emozioni, che si accordano a uno stato di sensualità
raffinata. Il fascino dell'eleganza acquista così una intensità lieve, ma
penetrante, che si esplica ampiamente nel secondo atto. Questo è certo tra le
cose più riuscite e geniali che abbia scritto Giordano; qui l'abilità del mestiere e
la felicità dell'invenzione collaborano perfettamente a realizzare un discorso
vivo, fluido, pieno di bella evi6
denza. Tutto è dosato con precisione, direi proprio con bravura, e con un
senso sicuro delle varie salienze sceniche o drammatiche. Senza dubbio il punto
di maggior riuscita è costituito dal dialogo tra Fedora e Loris, e specialmente
dal colloquio sommesso che i due intrecciano sul lento ritmo del Notturno che
Lazinski suona al pianoforte. Due fatti diversi sono qui sincronizzati in moda
che lo spettatore possa cogliere l'azione nel vivo della sua dinamica interna;
giacchè la vaghezza idillica e un po' estatica del Notturno si rifrange sulla
situazione dei protagonisti, riflettendo nelle sue dolci e morbide volute da un
lato il fascino e la squisitezza sensuale di Fedora, dall'altro lo sgorgo di un
sentimento nuovo nell'animo della donna, un sentimento di cui ella non ha
ancora coscienza e che stranamente si mescola in lei al desiderio di vendicare
l'amore perduto.
Esempi di un'arte discretissima nell'impiego dei mezzi sonori e di un
sapiente equilibrio tra orchestra e palcoscenico sono le scene successive, nelle
quali il movimento drammatico del dialogo (particolarmente nel racconto che
Loris ha dell'uccisione di Vladimiro) è articolato e graduato senza forzature,
risolvendosi nella calda effusione lirica di due momenti contigui: l'Aria di Loris
: Vedi, io piango, e la bellissima Romanza di Fedora: Lascia che pianga io sola. In
tutta questa seconda parte dell'atto ricorrono echi o riprese di temi già apparsi
nell'atto precedente; in particolar modo significativo l'accostamento, che già
notammo a proposito dell'Aria: O grandi occhi lucenti, del tema di Vladimiro e di
quello dell'amore di Fedora. L'orchestra riprende i due temi mentre Fedora
scorre le lettere che le danno la prova dell'infedeltà di Vladimiro. Però notate:
questa volta nella voce della donna affiora appena qualche debole eco delle
melodie; ciò indica il suo distacco definitivo dal passato, a cui ormai nessuna
cosa potrà più ricongiungerla. Solo l'orchestra, con le sue riprese insistenti,
sembra evocare l'ombra dolorosa di una illusione caduta, di un ingannevole
sogno a cui Fedora non crede più.
Il terzo atto si svolge nella villa di Fedora, nell'Oberland svizzero; la
suggestione del paesaggio alpestre è data da una melodia giuliva suonata da un
corno e ripresa dall'orchestra. Un quadro dai coloriti lievi e teneri, a cui si
accorda il chiaro timbro delle voci di soprano e di contralto che intonano un
breve coro festoso. Tutte note gradevoli e armoniose, che evocano un senso di
dolcezza idillica, inquadrando la nuova situa7
zione della protagonista; sembra che la vita sia ricominciata per lei, come la vita
della natura che si risveglia dopo il letargo invernale. Qualcosa di tenero
assume, in questa temperie, anche la leggerezza frivola di Olga, nel cui canto
(Sempre lo stesso verde) si avvertono sfumature di affettuosa elegia. Senza
dubbio Giordano ha voluto dare una fisionomia particolare a questa prima
parte dell'atto, quasi per creare un elemento di contrasto con la seconda parte,
in cui la tragedia è avviata al suo epilogo attraverso un discorso incisivo e a
volte serrato, malgrado qualche tratto ingenuo, dove il particolare è ridotto alla
sua dimensione realistica. Il movimento drammatico procede per lo più a
blocchi, collegati spesso tra loro da riprese tematiche, con le quali il Maestro
tende a porre un legame tra i vari momenti dell'azione e a renderli più
significanti. Un richiamo pieno di forza emotiva è quello che segue la scena in
cui Loris apprende la notizia della morte di sua madre e di suo fratello. Egli
non sa ancora che causa di quella duplice morte è stata Fedora; ma la donna sa
bene che oramai per lei ogni sforzo è vano, vano l'accanimento con cui finora
era tesa a proteggere il suo sogno. Torna a questo punto la dolcissima melodia
del canto: Lascia che pianga io sola: otto battute soltanto, perduta nostalgia di
un amore, di un legame irrimediabilmente spezzato.
Nel 1903 ebbe luogo la prima rappresentazione, alla Scala, di Siberia,
che Sonzogno poi portò a Parigi, dove ebbe lusinghieri riconoscimenti da parte
di Bruneau, Fauré e Lalo. E a titolo di curiosità diremo che proprio dell'opera
Siberia è l'unico brano di opera italiana citato come esempio da Charles Marie
Widor nel suo supplemento (Technique de l'orchestre moderne, 1904) al Trattato
d'istrumentazione di Berlioz.
Siberia ha senza dubbio pregi meno appariscenti nei confronti di Andrea
Chénier e di Fedora; di qui la diversa fortuna che l'ha accompagnata finora e
che autorizza a credere che quest'opera non debba porsi allo stesso livello degli
altri due capolavori giordaniani. Ma, oltre a rivelare la presenza di una più
esigente cura formale, di una più esperta tecnica, sia nell'armonia che nel
contrappunto e nella strumentazione, Siberia contiene elementi di riuscita
lirico-drammatica così penetranti da persuaderci che il declassarla senz'altro
sarebbe una vera e propria ingiustizia. Ben è vero che, in un'opera a cui
prendono parte numerosi personaggi e in cui spesso prevale l'urto di passioni
concitate o esasperate, non sempre era facile evitare i pe8
ricoli di una effusione troppo immediata o disordinata; e infatti bisogna
riconoscere che più di una volta l'impegno « veristico » ha appesantito la
pagina. Ma certi scadimenti momentanei, certe ineguaglianze temporanee
non valgono a turbare l'equilibrio dell'insieme, quella unità stilistica in cui
è sopratutto la garanzia della riuscita drammatico-musicale.
Il tema dominante del dramma, impostato su un sentimento
tormentoso dell'amore, di un amore che implica la coscienza del peccato e
quindi il desiderio di una purificazione morale, era diventato piuttosto
comune nel romanticismo, e aveva ispirato, salvo rare eccezioni, tanta
cattiva letteratura, la cui efficacia si affidava per lo più alle suggestioni di
un falso umanitarismo e di un falso misticismo. Sarebbe stato facile,
quindi, su questo piano, cadere nelle forme più abusate e convenzionali di
una retorica sentimentalistica. Ma è certo che la realizzazione di un
rinsaldamento stilistico del tutto fedele alla spontaneità della sua maniera
originaria ha consentito a Giordano dei risultati di una dimensione esatta,
una elasticità e resistenza di frase che gli ha impedito un eccessivo
abbandono, e quindi un intenerimento eccessivo di fronte alla umiliata
condizione dei suoi personaggi.
Il nodo drammatico è l'amore di Vassili e Stephana : una allucinante
attrazione sensuale che è come un turbine impetuoso in cui i due
personaggi sono presi e sono come sommersi e confusi, quasi a formare
una sola individualità. Nel primo atto infatti non riusciamo a cogliere
elementi che valgano a formare una discriminazione tra i due amanti. E a
me pare che in questo modo il compositore abbia appagato una sua
esigenza costruttiva, al fine di graduare l'azione drammatica e di dare un
adeguato rilievo agli atti successivi, e specialmente al secondo atto in cui,
dall'intimo crescendo della passione e della coscienza della colpa, emerge
in Stephana il desiderio di redenzione e di purificazione.
La ragione della maggior riuscita del secondo atto nei confronti
degli altri due è proprio nel fatto che qui convergono i motivi più intensi
della tragedia: il tema della passione amorosa, a cui si intreccia il senso
cupo, squallido della pena alla quale sono condannati i forzati in Siberia
(particolarmente nel doloroso canto di Vassili : O r r i d e s t e p p e e nelle note
vibranti dell'Intermezzo) e l'aspirazione della donna a riscattare gli errori
della sua vita precedente (E' q u i c o n t e i l m i o d e s t i n ) . P o 9
trebbe osservarsi che questa differenza di qualità e di intensità tra il secondo
atto e gli altri due crea un certo squilibrio nell'interno dell'opera; ma in realtà
non si tratta di uno squilibrio, giacchè il secondo atto non altera minimamente
l'omogeneità dell'opera, di cui anzi si potrebbe quasi considerare il centro di
gravitazione. Esso infatti ha molteplici legami col primo e specialmente col
terzo atto (si pensi con quale delicatezza di sfumature sia trasfigurato il
desiderio di redenzione morale di Stephana nelle pagine che sottolineano
l'avvento della Pasqua) ; e questo concatenamento di motivi implica una precisa
funzionalità drammatica, escludendo il sospetto di una ispirazione disorganica e
frammentaria.
Nella serena pace di villa Fedora, che il Maestro aveva acquistato a
Baveno, sul Lago Maggiore, nascevano altre opere Marcella (1907) patetica
storia dell'infelice amore tra un principe russo e una ragazza di cabaret; Mese
mariano (1909) e Madame Sans-Gêne (1915). Sembra che sia stato Verdi, in uno
dei suoi colloqui con Giordano svoltisi nell'Hotel Milan a suggerire al Nostro il
soggetto di Madame Sans-Gêne. Avendo Giordano accennato alla difficoltà di
far cantare sulla scena la figura di Napoleone, il vecchio maestro replicò che
quella difficoltà poteva valere per un Napoleone in divisa e con la mano sul
petto, ma un Napoleone in pantofole poteva benissimo cantare in un'opera
lirica, tanto più che nè lui Giordano nè il pubblico avevano mai visto
Napoleone. Ogni perplessità fu poi superata, dopo che Giordano ebbe modo
di assistere a una recita parigina della commedia di Sardou e Moreau; così
decise di mettere in musica Madame Sans-Gêne, lasciando interrotta la
composizione di un altro lavoro, La festa del Nilo, di cui aveva già abbozzato il
primo atto. Gli ultimi lavori, La cena delle beffe e Il re, rappresentati
rispettivamente nel 1924 e nel 1929 sotto la direzione di Toscanini, ebbero
buona accoglienza sia dal pubblico che dalla critica, ma hanno dimostrato una
vitalità piuttosto scarsa in relazione alle opere precedenti.
Al fine di rendere più semplici e chiare le partiture musicali, Giordano
ideò un sistema di notazione che consentisse di notare tutte le parti orchestrali
nelle sole due chiavi di violino e di basso, più comunemente conosciute.
Adottando questo sistema, che fu approvato nel Congresso Musicale Didattico
Internazionale del 1908, egli curò la ristampa, presso l'editore Ricordi, delle
nove Sinfonie di Beethoven. Negli ultimi anni visse
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piuttosto appartato, comparendo di rado in pubblico, e per lo più in occasione
della ripresa di qualche sua opera; poco prima di morire, celebrò a Bergamo
con un commosso discorso la figura di Gaetano Donizetti. Si spense a Milano
il 12 nov. 1948.
Nella impostazione della struttura operistica, Giordano si è attenuto in
genere ai criteri prevalsi nell'ambito della estetica verista; criteri che del resto
rientravano nella linea della nostra tradizione, dopo le mirabili conquiste
dell'ultima produzione verdiana. Una articolazione drammatica fondata sulla
successione di zone liriche diverse, ma senza soluzione di continuità, doveva
apparire la più naturale ed elastica; capace di una realistica funzionalità, doveva
consentire di dare allo svolgimento musicale una chiarezza di contorni e di
volumi, oltre a conferire l'opportuno rilievo ai momenti di canto spiegato. Nel
quadro di questa struttura equilibrata e serrata, Giordano ha inserito e graduato
le varie situazioni sceniche propostegli dai suoi librettisti, modulando con
attento scrupolo il suo lirismo ora idillico, ora elegiaco, ora concitato, dosando
con bravura i suoi slanci drammatici; di qui l'impressione di organicità che
danno le sue opere, anche a dispetto di qualche momentaneo squilibrio.
Non sarebbe quindi giusto asserire che Giordano fosse semplicemente
un melodista; un intuito sicuro, una vivace sensibilità teatrale lo inducevano alla
ricerca di una coerenza architettonica, a contemperare la linea melodica col
declamato, gli effetti orchestrali di puro accompagnamento con quelli evocativi
e allusivi. Le sue opere rivelano pertanto una singolare unità di concezione,
accanto a una singolare flessibilità di scrittura, che nasce da una sensibilità
attenta a cogliere con vigile amore le varie inflessioni sceniche, le varie
sfumature interiori del personaggio drammatico. Questo a me sembra un
sostanziale elemento di valutazione critica. Giacchè è ben vero che, per quanto
riguarda il suo linguaggio melodico, Giordano si attenne alla poetica verista, la
quale postulava una forma di linguaggio semplice, lontano dalla inconsistenza e
dalle preziosità auliche del romanticismo cadente, e vicino alle forme del
linguaggio popolare, ricco di concretezza e capace di mettere a fuoco le cose.
Ma è anche vero che egli per lo più rifiutò quelle soluzioni troppo facili di cui a
volte si contentarono Mascagni e Leoncavallo ; perchè assai vivo fu in lui il
gusto della verità, e sempre attiva la forza stimolante del reale, al cui contatto
egli sentiva crescere la sua carica sensitiva. Il suo realismo po11
trebbe definirsi realismo meditativo, in quanto implica un grado di attenzione,
una coscienza animata da un travaglio fecondo e mirante a cogliere la logica
interna del dramma. Perciò egli riuscì spesso a vincere lo schematismo e a
salvarsi dalla monotonia, variando continuamente le inflessioni del suo
linguaggio, senza mai snaturare se stesso, senza attenuare la forza espansiva del
suo lirismo.
Andrea Chénier, Fedora e Siberia sono, tra le opere giordaniane, le più
celebrate e le più eseguite, ma non sono, in realtà, l'unico polo di attrazione
dell'arte del Nostro. Qui egli ha dato vita poetica al dramma della passione
amorosa e del sacrificio per amore, giungendo a una lucida delineazione delle
figure femminili, specialmente attraverso un melodiare fervido, dalle larghe
volute che anche nei toni più dolenti si espandono in risonanze pensose. Ma
già queste opere, nella diversità molteplice dei personaggi che le distingue,
contenevano in germe gli sviluppi futuri, la possibilità, per il musicista, di
estendere la sua attività creativa su un maggior numero di registri spirituali.
Difatti le opere successive dovevano rappresentare le varie fasi di questo
dispiegarsi dell'indole giordaniana. Quelle forme di lirismo idillico ed elegiaco
che abbiamo visto affiorare in alcuni tratti della partitura di Fedora
assumeranno sfumature più delicate e sensibili in Marcella, nelle patetiche scene
di Mese mariano, il dramma silenzioso dell'amore materno. Quel gioco di mezze
tinte, che già avvertimmo in alcune scene di ambiente mondano di Chénier e di
Fedora, si assottiglierà in movenze più argute e lievitanti nelle pagine di Madame
Sans-Gêne; il gusto quotidiano della storia con cui Sardou aveva ridotto a
proporzioni normali, direi quasi domestiche, la figura epica di Napoleone
consentì senza dubbio a Giordano la possibilità di una tessitura fluida e leggera,
di una scrittura fine, penetrante, gradevolmente volubile.
Madame Sans-Gêne rappresenta forse il momento più interessante della
evoluzione stilistica di Giordano, per la sapiente dosatura dei toni comici,
patetici ed umoristici, per il sottile gusto timbrico-orchestrale, che non ha tolto
nulla alla spontaneità dell'espressione, specialmente nelle due figure della
lavandaia e del sergente i quali, col loro linguaggio schietto, portano una nota di
freschezza e di simpatia nel clima ipocrita e corrotto della corte imperiale.
VINCENZO TERENZIO
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