La letteratura è un impegno vitale ma i libri sono oggetti

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La letteratura è un impegno vitale ma i libri sono oggetti
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Sabato 26 Ottobre 2013 Corriere della Sera
italia: 57575052495249
Cultura
L’appuntamento in Sala Montanelli
Il volume di Giuliano Gramigna,Viaggio al termine del Novecento
(Bruno Mondadori), in libreria nei prossimi giorni, sarà
presentato mercoledì 30 ottobre alle 18 in Sala Montanelli (via
Solferino 26 A, Milano) da Ferruccio de Bortoli, Paolo Di Stefano,
Ernesto Ferrero e Giulio Ferroni. L’ingresso è libero solo con
prenotazione : tel. 02.87387707; email [email protected].
Inediti Un’intervista mai pubblicata mentre esce il volume che raccoglie i testi del suo percorso critico tra i grandi romanzi del Dopoguerra
«La letteratura è un impegno vitale
ma i libri sono oggetti deperibili»
La lunga fedeltà di Giuliano Gramigna, iniziata con l’Ermetismo
di PAOLO DI STEFANO
La biografia
L’intervista a Giuliano Gramigna, che
qui pubblichiamo, è stata raccolta nel
1995 ed è rimasta fino a oggi inedita.
C
he cosa ha significato per la vostra
generazione di ventenni e trentenni fare letteratura al tempo del fascismo?
«C’era uno scambio di opinioni e di relazioni letterarie tra coetanei o quasi coetanei.
Io facevo parte di un giornaletto universitario bolognese, “Architrave”, un mensile del
Guf diretto da Francesco Arcangeli, di orientamento ermetico. La contraddizione stupenda e straordinaria era che quella letteratura, che era intrinsecamente e non per propaganda la negazione del fascismo, utilizzava i mezzi fascisti perché non eravamo in
grado di partecipare alla vita clandestina o
paraclandestina. Nella forma più semplificata e meno rigorosa, ci mettevamo qualcosa della solidarietà politica e delle nuove
istanze letterarie».
Si può dire che eravate in qualche modo
degli oppositori ingenui?
«Sono sempre un po’ imbarazzato, quando sento molti letterati della mia generazione rivendicare le proprie prese di distanza
dal fascismo, come fossero stati subito lucidamente consci dell’orrore e dell’errore, e
come se avessero camminato in quella valle
nell’ombra ma già presaghi di ciò che sarebbe successo. La verità è che la mia generazione, con eccezioni che io rispetto e alle quali
faccio tanto di cappello, ha una colpa, bisogna riconoscerlo: è arrivata fino al ’38 credendo ancora nel fascismo in cui si era formata».
È un’ammissione di inadeguatezza?
«È un doloroso atto di contrizione, una
ammissione di debolezza, di ignoranza, di
incapacità di realizzarsi e di svincolarsi. Fra
il ’37 e il ’38 cominciarono delle opposizioni
puramente verbali o teoretiche, ma interne
al fascismo, come se noi volessimo salvare
ancora ciò che si poteva salvare in quel guscio che era già marcio e a cui noi sentivamo
di avere contribuito se non altro con l’ignoranza e con l’accettazione, che non sono certo piccole responsabilità. I nostri erano ridicoli e patetici tentativi di cambiare il fascismo dall’interno... Ci mancava una coscienza politica: mentre noi camminavamo non
dico ballando sul vulcano ma un po’ tastando alla cieca, pietosamente e ridicolmente,
altri avevano già fatto le loro scelte da tempo
e avevano pagato per conto loro. È un ritratto
Giuliano
Gramigna
(Bologna 1920),
ha vissuto a
Milano, dove è
morto nel 2006.
È stato redattore
e critico
letterario del
«Corriere
d’informazione»,
del «Giorno» e
del «Corriere
della Sera». È
autore di raccolte
di poesie, di
romanzi e di
saggi di teoria
letteraria, tra cui
«Le forme del
desiderio»
(1986)
Nella foto,
Gramigna, figlio di un impaginatore del
«Corriere», si
è laureato in
Giurisprudenza nel 1948.
Ha cominciato
come giornalista al «Tempo di Milano»
sconfortante che costa ancora fare, ma per
un minimo di onestà mi sembra giusto».
La stagione ermetica è stata davvero
una solidarietà irripetibile?
«Avevo tra i sedici e i vent’anni, un’età in
cui si è straordinariamente capaci di assorbimento. La frenesia aveva la meglio sulla
selettività. Avevamo bisogno di ingerire
quanto più possibile, e gli entusiasmi andavano forse a scapito di una visione più chiara
e articolata, ma la poesia ci colpì come il segno della letteratura nuova. Leggendo Av-
vento notturno di Mario Luzi, nel ’40, sentivamo un’attrazione estetica o emotiva, ma
soprattutto una solidarietà passionale nei
confronti di una letteratura che ci sembrava
finalmente porre le domande essenziali che
accomunavano un’intera generazione, direi
un io generazionale di cui ero partecipe: poche volte nella vita ho sentito quel senso di
appartenenza e di identificazione culturale».
Quali rinunce e contraddizioni ha comportato il fatto di essere insieme giornali-
L’opera
Da Pasolini a Tabucchi: la mappa del ‘900
Esce la prossima settimana il volume di Giuliano
Gramigna, Viaggio al termine del Novecento. Il
romanzo italiano da Pasolini a Tabucchi, con
Introduzione e cura di Paolo Di Stefano (Bruno
Mondadori, pagine 208, e 18). Il libro raccoglie
79 recensioni di romanzi e racconti realizzate dal
critico letterario tra il 1955 e il 2003 per il
«Corriere d’Informazione», «La fiera letteraria»,
«Il Giorno» e il «Corriere della Sera». Critico
militante tra i più assidui e acuti del dopoguerra,
Gramigna è stato un lettore versatile per
sguardo e strumenti utilizzati, curioso e
attentissimo alle novità. Il libro disegna una vera
e propria mappa della letteratura
contemporanea, soffermandosi sui grandi autori
entrati nel canone scolastico (Gadda, Moravia,
Calvino...), ma anche sui «minori» spesso
ingiustamente trascurati.
sta, critico, narratore e poeta?
«Credevo che non nuocesse allo scrittore
essere giornalista e al giornalista pensarsi
scrittore: pensavo che le due attività potessero convivere. Avrei scoperto invece che si
nuocciono, al punto da essere in-com-pa-tibi-li: fare il giornalista significa non dico
rinnegare ma abbandonare, almeno provvisoriamente, le cose fondamentali della scrittura letteraria. Viceversa, la letteratura impone doveri, rigori e crudeltà verso la materia che non si possono trasferire al giornalismo, pena fare del cattivo giornalismo.
Senza aggiungere poi che la retorica letteraria quando si mescola al giornalismo produce il peggio, i fiori più detestabili e standardizzati. Per me la sfida è stata riuscire a salvare il lavoro creativo facendo un mestieretritacarne».
Pentito di aver fatto il giornalista?
«Mio padre era impaginatore capo del
Corriere dal 1922, e io ho vissuto con la familiarità per i giornali: era il lavoro paterno e
mi interessava... Poi ho capito che fare il
giornalista significa dimettere il proprio essere scrittore. Perché lo scrittore ha a che fare con i dubbi e le incertezze, il giornalista
con la chiarezza e la precisione; lo scrittore è
in preda al dubbio fondamentale del sogget-
to, e questa non può essere la premessa del
giornalismo».
Qual è il compito del recensore?
«Recensire comporta un impegno molto
serio con il lettore: rendergli un servizio,
con la descrizione del testo, e creare la possibilità di un giudizio, impegnando la propria credibilità e diciamo pure il proprio
onore anche avendo il coraggio di scommettere su autori nuovi. Nel mio piccolo ho questa soddisfazione: di aver individuato scrittori che non esistevano prima — non che li
abbia creati io, ma mi accorgevo subito che
erano veri... Oggi vedo che molti recensori si
sentono in obbligo di creare invece la recensione sensazionale...».
È cambiata la figura dello scrittore?
«Non mi sembrano molti quelli che credono nella scrittura come in qualcosa in cui
si mette a repentaglio se stessi. Purtroppo i
critici e i paracritici, e persino gli editori, finiscono per riconoscere che il libro è un oggetto deperibile, destinato a far posto ad altri libri altrettanto deperibili. Dunque si tratta di trovare il caso che faccia discutere e
questo mette al muro gli autori. Lo scrittore
non dovrebbe esistere se non incidentalmente come un nome sulla copertina, mentre dovrebbe esistere solo la sua scrittura.
Adesso invece diventa più importante che
l’autore sia qualcuno. E come è possibile che
un autore, che nella scrittura mette sofferenza noia disgusto fatica di anni nello scrivere un libro, non cerchi in ogni modo che il
suo libro abbia un’udienza e sia accettato?
Non possiamo chiedergli di essere un eroe o
un asceta. Il rischio è il silenzio e la totale assenza, e il non esistere è uno scotto durissimo per uno scrittore».
La letteratura implica necessariamente
una fede totale?
«La mia risposta è sì. La scrittura è una fatica disperata, distruttiva: non si può avere
un’idea debole della letteratura e scrivere seriamente. Sarebbe come mettere a rischio la
propria vita per motivi fatui. Solo se l’impegno letterario è un impegno vitale — anzi,
direi quasi mortale — vale la pena: è la fiducia in un atto essenziale, che può infischiarsene del successo. Certo, considerare secondario il successo può diventare il rifugio di
tutti i falliti e gli incapaci, me ne rendo conto. Però d’altra parte bisogna anche correre il
rischio di essere incapaci e falliti. La scrittura si gioca su un criterio assoluto, non nei risultati ma in partenza. Per questo bisogna
accettare la viltà, la condanna e il disonore
delle tre copie. Accettare che la letteratura ti
distrugga in ogni senso, non solo nell’assorbimento delle tue capacità vitali, ma anche
nel toglierti l’alone e la forza narcisistica,
che pure è indispensabile. È un paradosso.
In psicoanalisi si dice che la parola non può
esprimere mai completamente il desiderio,
eppure la funzione della parola è di esprimere il desiderio. L’inconciliabilità della letteratura sta in questo: non si può fare letteratura senza che entri in campo il più forte
narcisismo, che non è solo ambizione o vanità, ma nello stesso tempo la letteratura
implica il sacrificio totale di questo narcisismo. Oggi vedo troppa conciliabilità».
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