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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 8 luglio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
INFORMAZIONE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da RaiTre – Ballarò del 07/07/15
Da Ventimiglia, Francesca Fagnani ci
racconta i "cervelli aperti"
Da Ventimiglia Francesca Fagnani ci racconta i giovani dai "cervelli aperti" impegnati nei
campi della legalità
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-c653bba7-1c10-4847-937b666a804b175d.html#p=0
Da Sanremo News del 08/07/15
I campi della legalità di Ventimiglia ieri sera in
collegamento diretto con la trasmissione
“ballarò”
Grazie alla collaborazione con l’ufficio nazionale dell’Arci, Matteo Lupi,
responsabile del campo, ha potuto realizzare il collegamento diretto con
lo studio di Roma insieme all’inviata Rai Francesca Fagnani ed
all’esterna 1 di Torino.
La trasmissione “Ballarò”, condotta da Massimo Giannini, si è collegata ieri2 volte in diretta
con la sede dei campi della legalità di Ventimiglia. Vetrina imperdibile per la Spes, che
ospita i campi, e per gli enti promotori dell’evento che hanno avuto l’opportunità di
veicolare il messaggio di speranza attraverso un programma televisivo molto seguito dai
telespettatori di Rai3.
Grazie alla collaborazione con l’ufficio nazionale dell’Arci, Matteo Lupi, responsabile del
campo, ha potuto realizzare il collegamento diretto con lo studio di Roma insieme
all’inviata Rai Francesca Fagnani ed all’esterna 1 di Torino.
Vittorio, Rita, Giacomo, Matteo, Elena, Luciano, Jacopo, Francesco e Ines, protagonisti del
campo hanno potuto interagire con lo studio e trasmettere un messaggio di speranza! Il
campo che unisce, un’esperienza di volontariato e di legalità che sta aiutando questi
giovani a far sviluppare il germe della cittadinanza attiva e della democrazia partecipata,
questa in sintesi la lezione del campo estivo.
Vittorio, di Livorno, dichiara: “grazie al campo ho compreso che la mafia si può colpire
tramite la cultura e l’educazione e che la scuola che vorrei dovrebbe unire quanto ha
saputo fare questo campo della Spes, dove richiedenti asilo, disabili e giovani insieme
operano per il bene comune!”.
Rita ha inteso sottolineare il valore di un’esperienza che favorisce una rivoluzione
culturale, i disabili ottengono la piena dignità nel lavoro! A seguire con interesse il
collegamento anche il Sindaco di Ventimiglia, Ioculano, il segretario CGIL Revello e la
Presidente Arci Imperia, Elisa Siri. I campi proseguono sino a sabato mattina, con la regia
di Arci Imperia, SPI e libera.
http://www.sanremonews.it/2015/07/08/leggi-notizia/argomenti/altre-notizie/articolo/icampi-della-legalita-di-ventimiglia-ieri-sera-in-collegamento-diretto-con-la-trasmissioneball.html
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Da Corriere.it del 08/07/15
L’appello di Amnesty all’ambasciatore
Saudita: “Rilasciate il blogger Badawi”
di Monica Ricci Sargentini
“In occasione del Ramadan un gesto di umanità per Raif Badawi” all’appello presentato
da Amnesty International all’ambasciatore saudita aderiscono in Italia associazioni,
giornalisti, scrittori e rappresentanti delle istituzioni.
“Nel sacro mese di Ramadan, dedicato alla preghiera e alla compassione, vogliamo
rivolgere un appello al senso di umanità e alla saggezza di Sua Maestà Salman bin Abdel
Aziz Al Saud, affinché Egli prenda la decisione di rilasciare Raif Badawi”.
Con questa richiesta, Amnesty International Italia e un numeroso gruppo di associazioni,
giornalisti, scrittori e rappresentanti delle istituzioni si sono rivolti il 7 luglio all’Ambasciatore
dell’Arabia Saudita in Italia, sollecitando un provvedimento che restituisca la libertà a Raif
Badawi, il blogger condannato a 10 anni di carcere e a 1000 frustate, 50 delle quali già
eseguite all’inizio dell’anno, e la cui condanna è stata confermata definitivamente dalla
Corte suprema saudita il 6 giugno.
“È nostra convinzione che Raif Badawi abbia esercitato il suo diritto alla libertà di
espressione, pubblicando su Internet opinioni e commenti che non abbiano causato danno
alla reputazione del Regno né alla religione professata dalla popolazione. La moglie e i tre
figli di Raif Badawi, attualmente in Canada, aspettano di poterlo riabbracciare.”
Questo è il testo dell’appello che si può firmare qui.
Voglio dire a voi, persone libere che avete preso a cuore il destino di Raif, che le vostre
proteste stanno facendo la differenza. Per favore, non fermatevi fino a quando Raif non
sarà rilasciato. (Ensar Haidar, moglie di Raif Badawi)
Il 7 maggio 2014, Raif Badawi è stato condannato a 10 anni di carcere e a 1000 frustate.
Queste condanne sono state confermate dalla Corte suprema il 6 giugno 2015, segnando
un giorno nero per la libertà di informazione in Arabia Saudita.
La sua colpa?
Aver fondato “Free Saudi Liberals”, un forum online di dibattito su temi politici e religiosi.
Aver “insultato l’Islam”, aver criticato alcuni leader religiosi.
Oltre al carcere, alla lontananza dalla sua famiglia, per Raif sono arrivateanche le frustate.
Il 9 gennaio 2015, è stato pubblicamente frustato davanti alla moschea di al-Jafali a
Gedda: 50 frustate, una pena disumana, una tortura. E solo per aver espresso le sue
opinioni.
Come Raif, anche Suliaman al-Rashudi, Abdullah al-Hamid, Mohammed al-Qahtani,
Abdulaziz al-Khodr, Mohammed al-Bajadi, Fowzan al-Harbi, Abdulrahman al-Hamid, Saleh
al-Ashwan, Omar al-Sa’id, Waleed Abu al-Khair e Fadhel al-Manasif stanno scontando
condanne per ciò che pensano o esprimono. Devono essere rilasciati immediatamente.
Questo è l’elenco, aggiornato al 6 luglio, delle adesioni all’appello di Amnesty International
Italia: Ezio Mauro, direttore La Repubblica; Marco Tarquinio, direttore Avvenire; Marcello
Masi, direttore TG2; Michele Migone, direttore Radio Popolare, Daniele Manca,
vicedirettore Corriere della Sera, Tommaso di Francesco, condirettore Il Manifesto,
Claudio Paravati, direttore del mensile Confronti, Francesco Cancellato, direttore
Linkiesta.it, Lucia Goracci, inviata RAI News 24, Francesca Paci, giornalista La Stampa,
Carola Frediani, giornalista, Roberto Saviano, scrittore, Ettore Zerbino, Medici contro la
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Tortura, Marco Perduca, rappresentante all’Onu del Partito Radicale, Marco Pannella,
presidente Nessuno Tocchi Caino, Sergio D’Elia, segretario Nessuno Tocchi Caino,
Elisabetta Zamparutti, tesoriere Nessuno Tocchi Caino, Raffaele Lorusso, segretario
generale Federazione nazionale stampa italiana, Giuseppe Giulietti, portavoce Articolo 21,
Antonella Napoli, presidente Italians for Darfur, Lorenzo Trucco, presidente Associazione
studi giuridici sull’immigrazione, Martina Pignatti Morano, presidente Un ponte per…, Luisa
Morgantini, presidente Assopace Palestina, Francesca Chiavacci, presidente nazionale
ARCI, Attilio Ascani, direttore FOCSIV, Yuri Guaiana, portavoce Associazione Radicale
Certi Diritti, Umberto D’Ottavio, deputato PD, Lia Quartapelle, deputata PD, Silvana Amati,
senatrice PD, Loredana De Petris, senatrice SEL, Ileana Piazzoni, deputata SEL, Laura
Puppato, senatrice PD.
http://lepersoneeladignita.corriere.it/2015/07/08/lappello-di-amnesty-allambasciatoresaudita-rilasciate-il-blogger-badawi/
Da Repubblica.it del 07/07/15 (Firenze)
Allarme alle Piagge: in 4 anni il doppio di slot
machine
La Comunità di don Santoro scrive a Arci e Mcl: "Perchè favorite il
gioco d'azzardo nei vosti locali?"
maria cristina carratù
SEMBRA una lotta contro i mulini a vento, ma la Comunità delle Piagge non rinuncia.
Dopo quella del 2011, che aveva già mostrato un panorama allarmante, sta aggiornando
la mappatura delle slot machine e delle videolottery nell'area ad alto rischio PeretolaBrozzi-Piagge. E scoprendo che in quattro anni sono quasi raddoppiate (circa 300).
Mentre sono in aumento i casi di dipendenza da gioco d'azzardo. Non solo: spesso slot ed
affini si trovano dentro circoli ricreativi e culturali affiliati ad Arci e Mcl, associazioni il cui
obiettivo sociale ed etico, si fa notare, è in pesante contrasto con la logica del lucro da
macchinette. E che infatti (per paradosso) la nuova legge regionale anti-slot considera
"luoghi sensibili" da proteggere con distanze di sicurezza. Un quadro che ha spinto la
Comunità che fa capo a don Alessandro Santoro, impegnata nella mappatura con il
Laboratorio politico Cantieri solidali e il giornale l'Altracittà, a scrivere una lettera aperta ai
presidenti provinciali di Arci e Mcl, chiedendo spiegazioni «sui motivi di una scelta dalla
pesantissime ricadute sanitarie, sociali ed economiche» da parte delle loro associazioni,
così diffuse e radicate nel territorio. «Non contestiamo la legittimità delle macchinette,
garantita dallo Stato» spiega Adriana Alberici, di Cantieri Solidali, «ma Arci e Mcl, il cui
obiettivo statutario è di realizzare attività di promozione sociale, e di contribuire così alla
crescita culturale e civile dei propri soci e dell'intera comunità, non possono non sapere
che cosa significa favorire il gioco dal punto di vista sociale, del rischio sanitario, della
spesa pubblica». Molti circoli, del resto, nota Alberici, negli ultimi anni hanno detto no alle
slot, segno che «consapevolezza del danno» c'è. Dunque, perché non vietarle ovunque?
All'appello delle Piagge entrambe le associazioni chiamate in causa si dicono pronte a
rispondere. «Siamo in contraddizione con noi stessi e non si può negare» ammette il
presidente di Arci Firenze Jacopo Forconi, «anche se è ingiusto presentare i nostri circoli,
meno di un terzo dei quali, oggi, ospita anche slot, come piccoli casinò, dimenticando le
preziose attività ricreative, culturali e sociali che svolgono». D'altra parte «esiste un
problema economico, rescindere i contratti con i fornitori implica penali insostenibili per un
piccolo circolo». Dunque, dice Forconi, occorre realismo: «L'Arci partecipa a tutte le
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campagne locali e nazionali contro il gioco d'azzardo, e incoraggia l'eliminazione delle slot,
ma per ottenerla ovunque occorrerà ancora un po' di tempo». E che le slot rappresentino
«tutto il male possibile» lo dice anche la presidente di Mcl Diva Gonfiantini: «E' vero, la
loro presenza nei nostri circoli non è coerente con i nostri valori» riconosce. Però «stiamo
facendo di tutto per toglierle anche dove resistono».Bisognerà studiare come liberarsi di
questi introiti senza impoverire la nostra presenza associativa sul territorio". L'Mcl ne
discuterà in autunno, con una grande manifestazione pubblica.
http://firenze.repubblica.it/cronaca/2015/07/07/news/allarme_alle_piagge_in_4_anni_il_do
ppio_di_slot_machine-118584587/
Da Arte.it del 07/07/15
Giulio Di Meo. Pig Iron. Il ferro dei porci
Dal 08 Luglio 2015 al 01 Agosto 2015
Bologna
Luogo: Quadriportico Chiostro Ex Ospedale Roncati
Enti promotori:
Associazione TerzoTropico
Arci Bologna
Azienda USL di Bologna
Festival Voci dal deserto
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +39 051 6230736 / 338 6394455
E-Mail info: [email protected]
Sito ufficiale: http://www.qrphotogallery.it
Comunicato Stampa: Inaugura mercoledì 8 luglio alle ore 18 la mostra del fotografo Giulio
di Meo "Pig Iron. Il ferro dei porci", promossa da associazione TerzoTropico insieme ad
Arci Bologna, Azienda USL di Bologna e Festival Voci dal deserto.
Pig Iron è una mostra sulle gravi ingiustizie sociali e ambientali commesse dalla
multinazionale Vale negli stati brasiliani del Pará e del Maranhão, tra i più poveri del
paese.
La Vale è un colosso mondiale con un fatturato di 59 miliardi di dollari. Possiede miniere in
Australia, Mozambico, Canada e Indonesia, industrie metallurgiche in Nord America ed
Europa. Caposaldo della sua attività produttiva rimane, però, l’estrazione di ferro in
Brasile, secondo produttore al mondo di questo minerale. Per trasportare il ferro dalle
miniere del Pará al porto di São Luis nel Maranhão, Vale ha costruito una ferrovia di quasi
1000 km, lungo la quale ogni anno vengono trasportate più di 100 milioni di tonnellate di
ferro destinate all’esportazione, una media di 300 mila tonnellate al giorno. Si tratta di circa
10 milioni di dollari che tutti i giorni vengono fatti annusare ai poveri senza che un
centesimo finisca nelle loro tasche. Niente ospedali, niente scuole, niente miglioramento
della qualità della vita. A loro vanno solo danni, sconquasso sociale e ambientale.
Le foto della mostra raccontano la storia, il quotidiano di queste persone, per non lasciare
l’ultima parola ad un’economia di sfruttamento. L’autore non ha cercato né il dramma né il
dolore, ma la speranza, la resistenza e la comunità. Tre ricchezze che non si calcolano
con i numeri e che la gente brasiliana non ha ancora perso, malgrado tutto.
http://www.arte.it/calendario-arte/bologna/mostra-giulio-di-meo-pig-iron-il-ferro-dei-porci17923
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 08/07/15, pag. 14
Addio a Luca Rastello
Giulio Marcon
Lunedì è scomparso Luca Rastello, giornalista, scrittore, operatore sociale.
Nel tempo è stato collaboratore de il manifesto, direttore de l’Indice e di Narcomafie,
giornalista de La Repubblica, di Linea d’ombra, de Lo Straniero. E’ stato operatore sociale
ed attivista nelle zone di guerra: un attento conoscitore dei paesi dell’est europeo, dei
Balcani (collaborando con l’Osservatorio trentino che ne ha seguito le evoluzioni in questi
anni) e degli intrecci tra guerre ed economia criminale.
Un compagno, un giornalista di particolare spessore umano e intelligenza politica, sempre
capace con i propri libri di fare un pregevole lavoro di inchiesta su temi come quelli della
TAV (Binario morto, pubblicato da Chiarelettere), i diritti dei rifugiati (La frontiera addosso
edito da Laterza), l’economia della droga (Io sono il mercato, pubblicato da Chiarelettere).
Luca Rastello è stato uno dei migliori compagni di viaggio degli operatori umanitari e dei
pacifisti in ex Jugoslava: l’abbiamo incontrato a Sarajevo sotto i colpi dei cecchini ed in
tanti villaggi e città della Bosnia Erzegovina a portare aiuti, a sostenere la riconciliazione, a
raccontare le atrocità di una guerra insensata.
Luca Rastello ha anche organizzato nelle sue terre l’accoglienza dei profughi dalle zone di
guerra ed ha descritto nel saggio-romanzo La guerra in casa (pubblicato da Einaudi) non
solo il dramma della guerra di Bosnia, ma anche le contraddizioni dell’aiuto umanitario, i
suoi limiti, le contraddizioni di tante azioni e iniziative e generose ma in alcuni casi
controproducenti. E, con un’ispirazione degna di Dostoevskij, ha descritto nel suo ultimo
romanzo I buoni (pubblicato da Chiarelettere), le ambiguità e le ipocrisie di quella stupidità
del bene con cui protagonisti del terzo settore senza scrupoli hanno inquinato esperienze
di intervento sociale nate con le migliori intenzioni.
Luca Rastello era una persona speciale e poliedrica, curiosa, brillante, ironico ed
autoironico, intellettuale e militante, raffinato e popolare: una persona piena di vita, anche
nel corso della sua lunga malattia. Un abbraccio alle sue figlie e alla loro madre, alla sua
compagna e ai suoi cari.
Un abbraccio e un addio a Luca, grande collaboratore delle pagine esteri negli anni ’90,
dal collettivo de il manifesto
I funerali si terranno oggi, mercoledì 8 luglio, alle ore 12,45 presso il Tempio Crematorio
del Cimitero Monumentale di Torino.
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ESTERI
Dell’8/07/2015, pag. 2
Ue durissima con Tsipras:accordo domenica
o la Grecia fallisce
Il vertice.
Eurogruppo inconcludente senza proposte da Atene. Ma domani il
premier greco presenterà un piano che probabilmente ricalcherà
l’ultima offerta della Commissione europea. “La accetterò con qualche
modifica”. Commenti shock ieri a fine vertice: Tusk e Juncker parlano
per la prima volta di Grexit
Rifiutato il prestito ponte da 7 miliardi, liquidità ripristinata solo se ci
sarà l’intesa.Summit tra i 28 leader a fine settimana
ALBERTO D’ARGENIO
BRUXELLES
«Io accetto le vostre proposte con qualche modifica per venderle al Parlamento e
all’opinione pubblica, però in pubblico diremo che voi avete accettato il mio piano con
qualche limatura». Sono circa le sette del pomeriggio. Quando Alexis Tsipras finisce di
parlare nello stanzone del Consiglio europeo cala il silenzio. Mai negli ultimi cinque mesi i
leader dell’Unione sono stati così vicini ad un accordo sulla Grecia. Le posizioni si
avvicinano, ma resta la diffidenza verso Tsipras e la pressione degli europei sul primo
ministro greco non calerà. Il vertice è duro e fino a domenica, giorno del summit decisivo,
gli europei terranno sotto pressione il collega di Atene. In caso di fallimento sarà Grexit.
LA TRATTATIVA
La giornata è un’altalena. In mattinata il presidente della Commissione, Jean Claude
Juncker, interviene all’Europarlamento e promette: «È tempo di tornare a negoziare, farò
di tutto per salvare la Grecia». In effetti tra Bruxelles e le capitali si negozia febbrilmente.
Ma nel primo pomeriggio arriva la gelata.
I greci, al contrario di quanto chiesto loro dagli europei sin da domenica notte, arrivano a
Bruxelles a mani vuote, senza proposte scritte per rilanciare il negoziato dopo il “no” del
Greferendum. Tutto sembra precipitare. Angela Merkel è tombale: «Mancano ancora le
basi per negoziare, oggi una soluzione non sarà possibile». Altri leader attaccano Tsipras.
Si parte con i vertici a diciannove, nel pomeriggio i ministri dell’Eurogruppo e in serata i
leader per l’Eurosummit.
Ma è nel chiuso della riunione dei ministri delle Finanze che, dopo avere incassato le
critiche dei colleghi, il nuovo ministro greco delle Finanze Euclid Tsakalotos fa segnare
una piccola svolta: «Sono consapevole che serve un nuovo inizio, dobbiamo cooperare e
per farlo il mio governo deve recuperare credibilità ai vostri occhi».Quindi per provare la
rinnovata buona fede di Atene accetta il consiglio avanzato da diversi ministri: a breve,
magari entro venerdì, la Grecia approverà un primo pacchetto di misure urgenti per
dimostrare di fare sul serio.
I COLLOQUI
Prima di imbarcarsi da Atene, Tsipras cerca di spegnere le polemiche, telefona ad alcuni
leader e spiega che la sua scelta di non farsi precedere da un testo scritto vuole essere
costruttiva: «In realtà sono pronto ad accettare il piano che mi ha offerto mercoledì scorso
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Juncker, vi chiederò solo qualche modifica per poterlo far accettare ad Atene». E
soprattutto non chiede più un haircut, il taglio netto del debito greco cavallo di battaglia di
Varoufakis, ma accetta il suo riscadenzamento: il taglio dei tassi e l’allungamento dei
tempi per il rimborso dei 240 miliardi già versati dai creditori dal 2010 per il salvataggio di
Atene. Ai colleghi chiede aiuto a convincere la Merkel perché, spiega, «ho esaurito il
tempo, tra due giorni le banche collassano e andiamo in default quindi sono politicamente
debole, più di così non posso accettare ma se c’è qualcuno che ci vuole spingere fuori
dall’euro non dipende più da me». Atterrato a Bruxelles Tsipras sente Obama, che pressa
gli europei per un accordo e chiama anche la Cancelliera. Quindi vede in una saletta del
Consiglio europeo Merkel, Hollande e Juncker. Un primo segnale positivo arriva dai
ministri dell’Eurogruppo che nel frattempo hanno terminato la loro riunione. Il suo
presidente, l’olandese Jeroen Dijsselbloem sollecita le proposte scritte dei greci ma per
quanto tutti siano irritati promette che se arriveranno oggi i ministri si sentiranno in
teleconferenza per lanciare la procedura necessaria a mettere in piedi il terzo pacchetto di
salvataggio per la Grecia tramite il Fondo salva stati dell’Unione (Esm).
IL NUOVO PIANO
Alle sei del pomeriggio si apre il summit. Tsipras chiede un prestito ponte immediato di
almeno 7 miliardi per permettere alla Grecia di arrivare a fine mese mentre sarà messo in
piedi il nuovo piano di aiuti a lungo termine. La sua richiesta viene rudemente respinta
dagli altri leader. Niente soldi prima di essere certi della buona fede dei greci. Gli europei
sanno che Atene è allo stremo, vogliono costringere Tsipras a chiudere il negoziato e
temono che dandogli altri soldi riprenda a tergiversare. Quindi, tra litigi e battibecchi, il
primo ministro greco annuncia che accetterà il piano Juncker con alcune migliorie su Iva e
pensioni e sembra rinunciare all’haircut del debito.
Tutti restano a bocca aperta: «Ma allora perché hai fatto il referendum e hai portato il tuo
popolo sull’orlo della crisi umanitaria? », chiedono in tanti. È questione di sfumature,
domenica i greci non hanno votato su un testo molto vecchio, che non comprendeva le
concessioni sul tavolo due venerdì fa quando Tsipras ha rotto il negoziato chiamando il
referendum e quelle che Juncker ha aggiunto mercoledì scorso per convincerlo ad
annullarlo. Ora lo schema approvato dai leader prevede che oggi Tsipras mandi, al
massimo giovedì, le sue proposte scritte. Quindi se saranno ricevibili l’Eurogruppo in
teleconferenza chiederà a Bce e Commissione lo studio di fattibilità per il terzo salvataggio
tramite l’Esm. Venerdì o sabato i ministri delle Finanze potrebbero tornare a Bruxelles per
lanciare l’Esm e domenica, sempre nella capitale europea, la trattativa dovrebbe essere
sigillata dai leader, questa volta a ventotto perché, spiegherà Tusk, «la situazione è molto
critica e in caso di fallimento avrà conseguenze geopolitiche per questo dobbiamo
discuterne tutti, non solo a livello di eurozona». Se sarà successo il piano sarà composto
da decine di miliardi del Fondo salva stati Esm, affiancato dall’Fmi, per chiudere i buchi di
bilancio e da 35 miliardi di fondi strutturali per rilanciare l’economia ellenica.
LE BANCHE
Ma i tempi per mettere in campo il pacchetto, durata almeno due anni, non saranno brevi:
andrà limato e poi approvato dal Parlamento greco e da quelli di Germania, Austria,
Estonia e Finlandia. Per permettere ai greci di non andare in default prima, il prestito ponte
potrebbe essere sostituito da un aiuto che sarà dosato dalla Bce con il contagocce per
tenere sotto scacco i greci ed evitare nuove inversioni a U.
Si pensa di versare ad Atene i 3,3 miliardi di profitti che Francoforte ha realizzato sui suoi
titoli. Inoltre, quando il negoziato sarà instradato, Draghi potrà tornare a versare liquidità
alle banche greche alzando i prestiti d’emergenza (Ela) dagli 89 miliardi attuali salvando gli
istituti ellenici dall’imminente bancarotta. Intanto ad Atene arriveranno aiuti umanitari
dell’Unione, medicine e beni di prima necessità. Resta diffidenza verso Tsipras e all’uscita
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del summit, verso le 22.30, tutti sopno durissimi. Renzi sottolinea che «il clima non è
migliorato dopo il referendum e ci sono perplessità dei colleghi». Juncker aggiunge: «Non
possiamo escludere il Grexit ». La Merkel afferma che «noi non chiediamo niente alla
Grecia, sono loro che hanno avviato una procedura per un nuovo programma ». Il clima è
teso, la Grecia gioca la sua ultima partita.
del 08/07/15, pag. 5
Le carte del negoziato
Cosa chiede Bruxelles
Pensione elevata a 67 anni Iva al 23% sui consumi e subito le
privatizzazioni
«Senza riforme non sarà possibile andare dove vogliamo andare». Angela Merkel ieri è
stata perentoria, interpretando il sentimento diffuso tra le cancellerie europee preoccupate
che la crisi greca - deflagrata dopo il «no» al piano dei creditori sancito dal referendum possa condurre ad un’uscita incontrollata del Paese dall’euro. Un precedente pericoloso
per la tenuta della moneta unica. Da Bruxelles a Berlino, da Parigi a Roma gli occhi sono
puntati sul contro-piano che Atene porterà sul tavolo dei negoziati per ottenere un quadro
di aiuti in grado di evitarle il fallimento. L’Europa è ferma alla proposta dei creditori (BceUe- Fmi) modificata per l’ultima volta il 26 giugno e rifiutata dal premier greco Alexis
Tsipras. Prevede una serie di riforme urgenti per rendere il Paese solvibile sul lungo
termine. Quattro i punti principali a cui la Commissione Europea presta estrema
attenzione: la previdenza, il lavoro, il fisco e le privatizzazioni. Bruxelles spinge per un
innalzamento dell’età della pensione a 67 anni (e a 62 per chi ne ha 40 di contributi) entro
il 2022. La Grecia avrebbe accettato, procrastinando però l’entrata in vigore della riforma a
chi andrà in pensione dopo il 31 ottobre. Irricevibile per la Ue, che vuole un cambio di
passo immediato. Mercato del lavoro. Qui la dialettica Grecia-Ue è asprissima perché
investe il programma politico di Syriza che vorrebbe ripristinare il sistema di contrattazione
collettiva in vigore fino a qualche anno fa. I creditori non ne vogliono sapere:
significherebbe ritoccare al rialzo i salari. Fisco. Qui molto si gioca attorno all’Iva. In Grecia
l’imposta sui consumi registra ben sei aliquote differenti. Il governo ha accettato di alzare
quella principale al 23% (il cambiamento sarebbe dovuto diventare effettivo il 1° luglio),
chiedendo però di fermare al 13% quella per i beni primari (acqua, cibo, energia elettrica)
per ora al 6,5%. Ci sarebbe una condivisione da parte di Bruxelles, relativa anche agli
alberghi (il turismo è la fonte principale di sostentamento dell’economia greca priva di una
tradizione manifatturiera) a condizione di inserire una clausola che preveda una «possibile
revisione del sistema delle quote a fine 2016». Una sorta di finestra temporale per
permettere ad Atene di superare la tempesta. Altro punto di frizione è lo sconto del 30%
per le isole greche (una sorta di free tax zone) criticata dalla Commissione per la difficoltà
di tradurre fattivamente il provvedimento per gli oneri burocratici che comporta nei
controlli. Qualcuno ipotizza che possa essere foriera di «trucchi» (come far transitare per
le isole le merci ottenendo tariffe agevolate). Ultimo capitolo: le privatizzazioni. La Grecia
ha accettato di voler portare a termine i bandi per la privatizzazione dei porti di Salonicco e
Pireo e dell’aeroporto di Atene, ma chiede di non adottare «misure irreversibili per la
vendita degli aeroporti regionali». I creditori hanno chiesto anche la privatizzazione
dell’Admie, la società che gestisce la rete elettrica del Paese. Tsipras dice di non volerla
svendere.
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Fabio Savelli
del 08/07/15, pag. 5
Cosa chiede Atene
Prestito ponte da 7 miliardi, altri 30 di aiuti in 2 anni Isole e imprese,
Fisco leggero
Il piano che non c’è in realtà esiste. Ma è stato già bocciato a tempo di record e per questo
sarà corretto ancora, prima di essere presentato al tavolo della trattativa con tutte le
formalità del caso. Il governo di Alexis Tsipras chiede un prestito ponte da 7 miliardi di
euro per fare fronte ai debiti in scadenza. Sarebbe solo una boccata di ossigeno in attesa
dell’aiuto vero e proprio: 30 miliardi in due anni. In cambio, però, l’Europgruppo chiede di
nuovo un piano di riforme in grado di mettere in ordine i conti e rilanciare l’economia.
Il governo di Atene ha ripreso in mano l’ultima proposta fatta dal presidente della
Commissione Jean Claude Juncker, quella che aveva poi portato alla rottura e al
referendum di domenica scorsa con la vittoria del No. Su quel testo il governo sta
lavorando di lima, sottraendo riforme o sacrifici (dipende dai punti di vista) che valgono
circa un miliardo di euro. Il punto considerato più importante è l’Iva agevolata per gli
alberghi e le strutture turistiche, che dovrebbe restare al 13% senza salire di 10 punti
come chiesto all’inizio dall’Eurogruppo. Atene chiede anche il mantenimento dello sconto
generale del 30% dell’Iva per le isole. Il vero nodo, però, riguarda la ristrutturazione del
debito. Già prima del referendum c’erano state sul punto diverse formulazioni: la richiesta
di Atene è che non ci si limiti a una dichiarazione di principio ma che a Bruxelles venga
preso un impegno concreto. Il governo Tsipras chiede che l’imposta sulle società resti al
26%, senza salire al 28%. Mentre, rispetto al piano Juncker, vengono dimezzati tutti gli
aumenti dei contributi chiesti per garantire l’equilibrio del sistema pensionistico.
Più salato, invece, l’aumento delle imposte sulla pubblicità televisiva, da 100 a 140 milioni
in due anni . Una «vendetta», secondo alcuni, visto che tutte le televisioni private hanno
appoggiato il Sì al referendum. Per contrastare la fuga degli armatori verso Cipro, già
cominciata nelle ultime settimane, verrebbe limato anche l’aumento delle imposte sugli
yacht.
Non si sa ancora di quanto, però. Per compensare lo sconto potrebbe salire, da 260
milioni di euro in due anni ad almeno 300, il gettito aggiuntivo da incassare attraverso
lotterie e gratta e vinci, che qui vanno fortissimo. Ultimo capitolo le spese militari. Nel
piano in arrivo c’è un taglio di 300 milioni di euro che però dovrebbe riguardare gli
armamenti e non gli stipendi dei soldati.
Non si tratta solo di numeri. Pochi giorni prima del referendum il ministro della Difesa
Panos Kammenos, in quota al partito di destra Anel, si era presentato in tv dicendo che
l’esercito era pronto a garantire la sicurezza nazionale. Molti hanno visto in
quell’apparizione un no ai tagli in casa propria. Non sarà più l’epoca dei colonnelli ma
ancora adesso, in Grecia, i militari hanno una certa influenza. E quella voce balla .
Lorenzo Salvia
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del 08/07/15, pag. 3
Piketty, Flassbeck e Sachs scrivono a Merkel
Merkel e Tsipras a Berlino nel marzo scorso
Martedì pomeriggio il «Guardian» ha pubblicato una lettera aperta ai leader europei sul
caso greco: «Angela Merkel deve agire subito per la Grecia, la Germania e il mondo».
Ne citiamo qui un breve passaggio.
«(…) Negli ultimi anni la serie dei cosiddetti programmi di aggiustamento inflitti alla Grecia
e agli altri paesi è servita solo a innescare una Grande Depressione mai vista in Europa
dal 1929–1933.
La medicina prescritta dal ministero delle finanze tedesco e da Bruxelles ha dissanguato il
paziente, non curato la malattia.
Esortiamo la Cancelliera Merkel e la troika a prendere in considerazione una correzione di
rotta per evitare ulteriori catastrofi e consentire alla Grecia di rimanere nella zona euro.
Al governo greco è stato chiesto di mettersi una pistola alla tempia e premere il grilletto.
Purtroppo, il proiettile non ucciderà solo il futuro della Grecia ma anche quello dell’Europa.
Il danno collaterale ucciderà la zona euro come faro di speranza, democrazia e prosperità,
e potrebbe portare a conseguenze economiche di vasta portata in tutto il mondo.
Nel 1950 l’Europa è stata fondata su un condono dei debiti pregressi, in particolare della
Germania, che ha contribuito in modo enorme alla crescita economica del dopoguerra e
della pace. Oggi abbiamo bisogno di ristrutturare e ridurre il debito greco, dare respiro
all’economia e consentire alla Grecia di sopportare un peso ridotto del debito per un più
lungo periodo di tempo.
Ora è il momento per un ripensamento umano del programma punitivo e fallito
dell’austerità degli ultimi anni e per accettare una forte riduzione dei debiti della Grecia, in
combinato disposto con le riforme tanto necessarie a quel paese. Il nostro messaggio alla
Cancelliera Merkel è chiaro: la invitiamo a compiere subito questo vitale passo di
leadership, per la Grecia, la Germania, e anche per il mondo.
La storia ricorderà le azioni avviate in questa settimana.
Ci aspettiamo e contiamo su di lei per avviare i passi verso la Grecia, coraggiosi e
generosi, che serviranno all’Europa per le generazioni a venire».
Thomas Piketty (Paris School of Economics), Heiner Flassbeck (ex ministro delle finanze
della Germania federale), Jeffrey Sachs (Earth Institute Columbia University), Dani Rodrik
(Ford Foundation e Harvard Kennedy School), Simon Wren-Lewis (University of Oxford)
del 08/07/15, pag. 3
Linee di frattura nell’eurozona e prospettive a
sinistra
Crisi greca. La vittoria di Syriza ridefinisce lo «spazio politico» come
spazio europeo
Teresa Pullano
Dal giorno del suo insediamento, il 26 gennaio 2015, il governo di Alexis Tsipras ha dovuto
affrontare due avversari, egualmente temibili: la Troika e l’opposizione interna a Syriza.
Con la vittoria del no al sessanta per cento durante il referendum del 5 luglio, Tsipras è
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riuscito ad ottenere un margine di vantaggio rispetto ad entrambi, e quest’esito non era
scontato. Il voto dei cittadini greci è stata la prova che la strategia del governo e della
maggioranza di Syriza è giusta: il punto di forza risiede nell’avere capito la posta in gioco
nella crisi dell’eurozona. Non si tratta solo di definire le politiche economiche dell’Unione,
spostandole da una direzione neoliberista verso una più sociale, né di recuperare una
dimensione democratica del governo europeo contro quella tecnocratica.
Questi sono obiettivi vitali, ma l’attuale governo greco ha capito che per ottenerli è
necessario incidere sulla questione politica di fondo: i contorni dello spazio europeo come
campo di battaglia e oggetto di scontro. Nei prossimi giorni, nella trattativa tra la Grecia e
la Troika, si gioca il potere di decidere la scala e le coordinate dello spazio politico come
spazio europeo. La forza di Tsipras e del suo governo è stata quella di mantenere sempre
lo scontro politico sul piano europeo e di usare gli elementi globali ed internazionali cosi
come quelli nazionali per intervenire nel rapporto di forze di scala continentale. In questo
modo, i contatti di Tsipras con Russia e Cina e la sua capacità di mobilitare il governo
Obama in difesa della permanenza della Grecia nella Nato non sono mai diventati reali
linee di fuga dalla scacchiera continentale, ma sono riusciti a rinforzare la necessità della
permanenza della Grecia nell’eurozona.
Allo stesso modo, il referendum greco non è stato solo un referendum nazionale, ma una
vera consultazione europea, con la capacità di cambiare l’assetto dell’Unione e con una
valenza costituente per la democrazia europea. Anche in questo caso, l’abilità del governo
greco è stata quella di non abbandondare mai il terreno europeo come terreno di lotta: se
il voto si fosse trasformato in un si o un no alla permanenza nell’euro, come volevano i
suoi detrattori, avrebbe perso tutta la sua potenza. La novità di Syriza è stata quella di non
cedere ai due errori di prospettiva di larga parte della sinistra radicale in Europa e in
Grecia, ovvero quello di pensare che il potere oggi è o al di sopra di ogni spazio politico
concreto, nelle mani dei centri finanziari internazionali, di cui il Fondo monetario
internazionale e l’Unione europea sarebbero i rappresentanti, o al di qua della scala
continentale, all’interno degli stati nazionali.
Se il governo greco giocasse sul terreno nazionale, uscendo dall’eurozona, farebbe felici i
suoi avversari, perché a questo punto uscirebbe dalla battaglia per definire lo spazio
europeo. Non è un caso che il governo tedesco, ed in particolare il ministro delle finanze
Schauble, puntino proprio ad usare il voto greco per arrivare a questo esito. Adesso il
rischio principale per Tsipras, una volta aggirate le trappole internazionali e nazionali, è
proprio quello di essere spinto fuori dal campo di battaglia europeo. Il referendum del 5
luglio ha avuto il merito di rendere manifesti i conflitti all’interno del campo europeo, ma ha
anche reso più acute le linee di rottura e di scontro di questo stesso spazio. Tsipras deve
mantenere la Grecia all’interno dell’eurozona, e questo per ragioni, come abbiamo
spiegato, più politiche che economiche.
Le istituzioni europee, tuttavia, si illudono se pensano di poter conservare intatto lo spazio
continentale con l’uscita eventuale della Grecia dall’euro e quindi dall’Unione: ogni
cambiamento nella rete di relazioni di cui è fatta, materialmente, oggi l’Europa porterà a
delle rotture ulteriori e ad una trasformazione del campo di battaglia stesso. In questo
risiede la miopia di una parte dell’élite comunitaria ed in particolare di quella tedesca.
Tsipras è consapevole di questo rischio, e ne ha scritto in un editoriale per il quotidiano
francese Le Monde pubblicato il 31 maggio 2015 ed intitolato “No ad un’Europa a due
velocità”. In questo pezzo si dice consapevole che lo scontro sulla Grecia è in realtà quello
tra due strategie opposte per la prosecuzione dell’integrazione europa. Una è quella di un
approfondimento dell’integrazione in un contesto di eguaglianza e solidarietà, l’altra invece
è proprio quella che vediamo in atto nel dopo referendum e si tratta di una strategia che
«porta alla rottura e alla divisione della zona euro e, di conseguenza, dell’Ue. Il primo
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passo in questa direzione sarebbe la costituzione di una zona euro a due velocità, in cui il
centro imporrebbe dure regole di austerità» (Alexis Tsipras, Le Monde, 31 maggio 2015).
Per evitare questo esito, il governo di Tsipras può sfruttare le incrinature all’interno
dell’asse franco-tedesco: la posizione e gli interessi di Francia e Germania non coincidono
su questo punto, infatti l’economia francese difficilmente reggerebbe una maggiore
austerità e Marine Le Pen vedrebbe i suoi voti aumentare ulteriormente. Il governo greco
deve inoltre cercare di usare le alleanze con i partiti di sinistra radicale costruite negli altri
paesi europei per non restare isolato e puntare soprattutto sulle prossime elezioni
spagnole e sulla possibilità di una vittoria di Podemos.
In ogni caso, se la Grecia rimane salda nella posizione di non uscire dalla zona euro sarà
difficilmente sconfitta, perché dovranno essere le istituzioni europee, e in primis la Banca
centrale europea, ad assumersi la responsabilità di cacciarla, e questo darebbe solo
nuova linfa alle forze che vogliono una disintegrazione del continente.
del 08/07/15, pag. 5
Gli scheletri della Deutsche Bank
La vicenda. Nei verbali del Fondo monetario si legge come i soldi per
salvare la Grecia siano finiti negli istituti di Germania e Francia
Vincenzo Comito
Nel giugno scorso i due amministratori delegati di Deutsche Bank hanno annunciato le loro
dimissioni. Deutsche Bank è la più grande di tutte le banche tedesche e fino a poco fa era
l’emblema del miracolo tedesco.
Ma dal 2012 si trova nei guai. Aveva scarsi mezzi propri, ha dovuto procedere a due
aumenti di capitale, la redditività è ancora oggi molto bassa e è piena di problemi
giudiziari. Tra il 2012 e il secondo trimestre 2015 ha dovuto pagare circa 10,5 miliardi di
euro, una cifra enorme, per le controversie con le autorità statunitensi e europee: restano
aperte le accuse di manipolazione dei tassi di cambio e dei prezzi delle materie prime, e di
non rispettare le sanzioni Usa verso alcuni paesi. Tanto che nel marzo 2015 il regolatore
americano le ha proibito di distribuire dividendi a causa delle numerose carenze nella sua
struttura del capitale, nel sistema di valutazione dei rischi, nei controlli interni — come
racconta il nuovo libro del leader della sinistra francese Jean Luc Mélenchon, Le hareng
de Bismarck (le poison allemand) (Plon, 2015). Nell’aprile scorso la banca ha poi dovuto
annunciare la riduzione dell’investment banking e la cessione della Postbank, a suo tempo
acquistata dal governo.
La crisi di Deutsche Bank è sintomatica della fragilità del sistema bancario tedesco, che
oggi presenta risultati economici e finanziari molto negativi a tutti i livelli, con situazioni che
in diversi casi non sono troppo distanti dalla bancarotta. In Europa le banche tedesche
sono state tra le più toccate dalla crisi con circa il 40 per cento delle perdite della zona
euro nel periodo 2007–2009. Il sistema bancario è poi riuscito a recuperare almeno una
parte dei prestiti imprudenti grazie all’intervento del governo, che da una parte ha
immesso molti soldi nel sistema per favorire il salvataggio di alcuni istituti e dall’altra è
riuscito a manovrare in diversi casi a Bruxelles la partita delle ristrutturazioni finanziarie dei
paesi in difficoltà — Grecia innanzi tutto — riuscendo a proteggere gli istituti nazionali.
Nel caso greco i verbali del Fondo monetario internazionale testimoniano come la
ristrutturazione del debito del paese mediterraneo sia stata studiata in modo da far sì che
una parte molto consistente delle risorse destinate a “salvare” la Grecia siano finite nelle
casse della banche tedesche e francesi.
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La concentrazione era iniziata da tempo, con la Postbank finita nelle mani della Deutsche
Bank e poi rivenduta, e la HypoVereinsbank finita in quelle di Unicredit. La Dresdner Bank
è entrata in difficoltà con lo scoppio della crisi ed è stata presto assorbita dalla
Commerzbank. Quest’ultima, avendo digerito male la fusione, è stata salvata dal governo
tedesco che ha dovuto a suo tempo investirci 18,2 miliardi di euro. Per stare a galla
l’istituto ha chiesto, dal 2010 ad oggi, 17,4 miliardi di euro di capitali freschi ai suoi
azionisti. Nel marzo del 2015 è stato costretto a pagare 1,5 miliardi di dollari per chiudere
le indagini federali statunitensi che stavano esplorando il suo coinvolgimento in attività di
riciclaggio del denaro sporco. Nel frattempo la sua redditività resta molto bassa.
Ma sono le banche piccole e medie — come le Casse di risparmio — a pesare di più in
Germania, con una quota vicina al 90 per cento del mercato. Esse svolgono un ruolo
fondamentale nel finanziamento dell’economia locale, ma si trovano in condizioni difficili e
hanno bisogno di radicali ristrutturazioni. Anche diverse Landesbank — una sorta di istituti
regionali — sono in una situazione sostanzialmente fallimentare; sono state colpite dalla
crisi del subprime e le loro difficoltà, secondo cifre non ufficiali, sono costate al governo
circa 23 miliardi di euro. La HSH Nordbank ha bisogno, secondo le stime, di circa 2,1
miliardi di risorse statali e la Bayern LB registra una perdita di 1,32 miliardi in alcune
operazioni.
I piccoli e medi istituti sono strettamente legati ai poteri politici locali, e il governo tedesco
vuole gestire la ristrutturazione in famiglia, senza che la Bce venga a curiosare. Di qui le
pressioni politiche di Berlino per fare in modo che all’interno dell’Unione bancaria l’attività
di controllo della Bce fosse limitata alle banche più grandi. Il fatto è che il sistema tedesco
si fonda sulla persistenza del modello della banca universale, sulla tradizionale prossimità
tra banche e imprese, che si traduce in una relazione molto stretta tra impresa e banca di
riferimento, la Hausbank, mentre si è molto ridimensionato l’intervento delle stesse banche
nel capitale delle imprese. Ma pesa soprattutto lo stretto e perverso legame tra gli istituti di
piccole e medie dimensioni e il sistema politico.
Dell’8/07/2015, pag. 2
Sul palcoscenico d’Europa in scena lo
scontro finale fra falchi e colombe
Otto uomini e due donne sono i protagonisti del capitolo conclusivo
della lunga telenovela greca
ANDREA BONANNI
NELLA commedia dell’arte, le maschere sono più o meno sempre le stesse. Ma recitano a
soggetto, sulla base di un semplice canovaccio. E dunque, se qualche maschera è
sempre uguale a se stessa, altre assumono ruoli mutevoli: a volte buone, a volte cattive, a
volte intransigenti, a volte concilianti. I protagonisti europei di questa interminabile
telenovela greca non fanno eccezione. Ci sono quelli arruolati in servizio permanente sul
fronte dei falchi o su quello delle colombe. E altri che recitano a braccio, adeguandosi di
volta in volta alla situazione e alle esigenze del canovaccio. I canoni della commedia
dell’arte prevedono dieci personaggi: otto uomini e due donne. Eccoli.
FRANÇOIS HOLLANDE
Nella vicenda greca il presidente socialista francese, è stato il capofila coerente e
incrollabile delle colombe. L’unico che in tutti questi mesi sia riuscito a non esternare mai,
ma proprio mai, il minimo segno di irritazione nei confronti di Tsipras. Degno erede di
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Giscard, che volle a tutti i costi la Grecia nell’Ue, e di Chirac, che spianò la strada
all’ingresso di Atene nell’eurozona. Da bravo francese, attribuisce all’euro un forte valore
di simbolo dell’impegno verso la costruzione europea. Per questo la moneta unica è tale
solo se resta indivisibile, e non può permettersi di perdere pezzi per strada. Inoltre, da
vero socialista vecchio stampo, si rifiuta di accettare che considerazioni puramente
contabili contraddicano le sue più profonde convinzioni politiche.
WOLFGANG SCHAEUBLE
È l’alter ego di Hollande: il referente ideologico dei falchi. Il ministro tedesco delle Finanze,
storico esponente della Cdu, è un convinto sostenitore di un monetarismo darwiniano, che
vede l’euro come uno strumento per spingere l’evoluzione della politica europea verso
traguardi sempre più alti di efficienza e competitività. Come (quasi) tutti i tedeschi, ha una
concezione “etica” della moneta unica: frutto di valori condivisi e scolpiti nelle Tavole dei
trattati. È da anni che Schaeuble si augura un’uscita della Grecia dall’euro. Politico
navigato e abilissimo, sa mostrarsi conciliante quando deve. Ma resta convinto che, alla
fine, sarà lui a vincere la partita sulla Grexit.
JEAN-CLAUDE JUNCKER
Il padre deluso. Discepolo e pupillo di Helmut Kohl, il presidente della Commissione ha
vinto le elezioni europee presentando una faccia del Ppe più sensibile al disagio sociale e
alle ingiustizie dell’austerità. Ha accolto Tsipras come un figlio: carezze, buffetti, pacche
sulle spalle. Ha cercato in tutti questi mesi di trovare punti di compromesso sempre più
favorevoli alle richieste greche. Per tutta risposta, Tsipras ha rotto le trattative e indetto un
referendum contro le sue proposte (che adesso però sembra pronto ad accettare).
Juncker si è sentito tradito. Ha usato parole dure nei confronti di Atene. Ma continua a
prodigarsi per trovare un accordo.
MATTEO RENZI
Tra tutte le maschere di questa commedia, è quella più in difficoltà. Non solo perchè guida
il Paese che ha il debito pubblico più alto dopo la Grecia, e dunque resta vulnerabile
nonostante le sue rassicurazioni del contrario. Anche in campo politico è combattuto.
Condivide molte idee di Tsipras sulla necessità di una palingenesi europea, ma certo non
approva né i suoi metodi né i suoi obiettivi. Condivide metodi e obiettivi della Merkel, ma
rifugge dalle rigidità tedesche. Falco quando dichiara che il referendum «è una scelta tra
l’euro e la dracma». Colomba quando, come ieri, assicura che «un accordo è a portata di
mano». Tsipras gli ha chiesto più volte di mediare. Lui lo ha fatto, ma dietro le quinte.
Lascia la leadership delle colombe a Hollande. Impossibile dargli torto.
ANGELA MERKEL
La maschera bifronte. Colomba per indole: cerca sempre l’accordo e il compromesso.
Falco per cultura: condivide intimamente la visione etica e darwiniana di Schaeuble.
Colomba per dovere: come leader europeo ha la responsabilità di evitare rotture
traumatiche tra gli Stati membri. Falco per interesse: i suoi elettori e la sua opinione
pubblica sono contrari ad un ennesimo salvataggio greco. Anche lei recita a soggetto. Ma,
facendolo, scrive la Storia.
CHRISTINE LAGARDE
Il giudice severo. «Ci vorrebbero degli adulti al tavolo», dice la direttrice del Fondo
monetario per criticare gli infantilismi di Varoufakis. Sferzante nell’indicare le
inadempienze e le inadeguatezze delle proposte greche. Conciliante quando rompe i tabù
europei per chiedere una ristrutturazione del debito di Atene. Sembra ubbidire ad una
ferrea logica economica, ma corteggia anche gli extraeuropei che devono rieleggerla alla
guida del Fmi. Intanto, per ora, è l’unica che non ha rivisto i soldi prestati a Tsipras.
PIERRE MOSCOVICI
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La colomba ad oltranza. Socialista e francese come Hollande, nominato commissario agli
Affari economici per volere del presidente francese. A Bruxelles è l’alfiere delle posizioni
più concilianti. Fedele alla linea, di Parigi si intende.
JEROEN DIJSSELBLOEM
Falco ondivago. Il presidente dell’Eurogruppo è socialista, ma olandese: non è un
ossimoro, ma ci assomiglia. Di sinistra, ma super rigorista. Detestava Varoufakis. Diffida
dei greci. In cuor suo, li vorrebbe fuori dall’euro, come Schaeuble. Ma deve seguire gli
orientamenti prevalenti tra i ministri che presiede. Anche perchè, pure lui, è in cerca di una
riconferma sulla poltrone che occupa.
MARIANO RAJOY
Il falco convertito. Di suo, il premier spagnolo sarebbe stato pure una colomba, sensibile ai
sacrifici imposti dall’austerità tedesca. Ma dopo che quei sacrifici ha dovuto imporli ai suoi
elettori per salvare la Spagna, è diventato un indefettibile difensore del rigore. Capofila dei
convertiti a forza, che comprendono portoghesi, spagnoli, lettoni e sloveni.
MARIO DRAGHI
Il deus ex machina. In questa vicenda, il presidente della Bce non sta né coi falchi né con
le colombe. Sta al di sopra. Non solo per il suo ruolo istituzionale ma perchè, da tempo,
vola molto più in alto di tutti i leader europei. Sarà lui, alla fine, a salvare Atene o a
spingerla fuori dall’euro. Ma la decisione, almeno questa volta, toccherà ai politici.
Dell’8/07/2015, pag. 2
CHI HA TRADITO I FONDATORI
DELL’EUROPA
NADIA URBINATI
IL REFERENDUM greco ha accesso i riflettori sulla scena più contradditoria e convulsa
che si trova a vivere l’Europa da quando ha intrapreso la strada dell’integrazione. Il destino
di questo progetto di pace per mezzo della cooperazione è più che mai sospeso tra
volontà e intenzioni contrapposte. Alla lucidità dei suoi visionari e fondatori fa seguito oggi
una grande opacità, e soprattutto la rinascita prepotente degli interessi nazionali, pronti a
usare l’Europa come arma per offendere e umiliare oppure come alibi dietro il quale
nascodere la mancanza di volontà decisionale. La visione di un’Unione europea è nata tra
le due guerre per sconfiggere i nazionalismi e i nazionalisti. Le direttrici originarie di questa
utopia pragmatica furono in sostanza due: quella che faceva perno sulla volontà politica
costituente e quella che faceva perno sulla formazione dell’abitudine alla cooperazione
mediante regole e accordi economici. La prima era impersonata da Altiero Spinelli e
faceva diretto ed esplicito appello alla volontà degli Stati di darsi un ordine politico
federale, un progetto da prepararsi con il lavoro politico e delle idee (come fece il
movimento federalista europeo). La seconda era rappresentata da Jean Monnet.
Quest’ultima divenne il paradigma ispiratore dell’Unione europea, il cui primo nucleo fu nel
1950 la creazione di un’alta autorità sulla produzione franco-tedesca dell’acciaio e del
carbone. Quel trattato sarebbe stato il primo di una serie numerosa di trattati sottoscritti
dai governi in tutti i settori di interesse comune. La federazione europea sarebbe cresciuta
quindi per accumulazione, senza un fiat fondatore, ma come politica di autoimbrigliamento degli Stati che avrebbe col tempo costituzionalizzato le pratiche
sovrannazionali.
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Le radici di questa via non-politica all’integrazione europea stanno nel Settecento, nella
filosofia della mano invisibile e della funzione civilizzatrice del commercio.
L’assunto kantiano era che gli individui tendono a muoversi, a interagire e a comunicare
per ragioni loro proprie con la conseguenza di mettere in moto un processo indiretto di
relazioni pubbliche e di diritti che col tempo avrebbero consolidato la convivenza pacifica
per generale convenienza. In prospettiva, l’integrazione avrebbe potuto mettere capo a
una più perfetta unione, senza che nessuno l’avesse esplicitamente voluta. Questa fu la
filosofia che ha sostenuto il progetto europeo mediante decisioni di secondo ordine,
indotte dalla convenienza a cooperare.
Questo paradigma è stato una strategia di successo nella fase espansiva della
ricostruzione post- bellica, proprio per la sua capacità di contenere le potenzialità
conflittualistiche della politica e dare spazio alla pratica degli accordi e dei trattati. Ma in
questo tempo di crisi economica, tale metodo ha perso mordente. La sfida di fronte alla
quale si trova oggi l’Europa richiederebbe una determinazione politica nello spirito di
Spinelli. Come ha sostenuto il costituzionalista Dieter Grimm, la rete di diritti e
costruzioni giuridiche ha bisogno di ancorarsi a una «espressione di autodeterminazione
del popolo sovrano europeo » per riuscire a far valere appieno la sua autorità su tutti e in
tutti gli Stati.
Affidarsi alle pratiche generate dall’uso di regole condivise, all’abitudine di vivere da
europei come se le cose vadano avanti per forza propria: tutto questo regge e funziona
fino a quando le cose procedono facilmente e non è necessario scomodare un
supplemento di volontà per prendere decisioni ostiche, benché necessarie. Il paradigma
dell’eterogenesi dei fini su cui si è modellata l’Unione europea è figlio dell’utopia
settecentesca del doux commerce , della forza civilizzatrice del commercio a condizone
che sia la mano invisibile del mercato a muovere le decisioni, non la volontà politica. Il
problema è che, mentre questa strategia ha avuto il merito di stabilizzare relazioni
pacifiche essa non è in grado ora di guidare l’Unione europea verso una integrazione
politica democratica, della quale invece vi sarebbe bisogno. La routine riproduce pratiche
ma non sa creare scenari nuovi. Ecco perché oggi la lotta che si combatte in Europa è tra
il partito della mano invisibile e il partito della volontà politica federale.
Non si giungerà mai ad una più perfetta unione se il demos europeo non sarà interpellato,
se la volontà politica non acquisterà la sua autorità fondatrice, condizione senza la quale
altri, dopo la Grecia, potrebbero pensare di usare lo strumento dell’appello al popolo
nazionale per reagire contro decisioni che non sono prese nel nome di un popolo europeo.
Il “no” referendario alle condizioni sul debito imposte alla Grecia ha messo in luce che solo
all’interno di un’Unione politica compiuta il caso greco potrebbe non essere solo e soltanto
una questione di rapporto privato fra debitori e creditori. Solo in un’Unione politica la
questione greca potrebbe essere a tutti gli effetti una questione europea, e la sua
soluzione una straordinaria opportunità di crescita continentale. Per comprendere questo,
la logica della mano invisibile non serve, e anzi è di ostacolo perché mentre rifiuta di dare
la scena alla politica rafforza la pratica delle trattative intergovernamentali e quindi rafforza
sempre di più gli interessi nazionali. Crea le condizioni per il declino dell’Unione europea.
In Come ho tentato di diventare saggio , raccontando come prese corpo l’idea federalista
ed europeista, Altiero Spinelli così dipinse l’Europa degli anni ’30: «Tutti questi Stati
d’Europa obbedivano sopra ogni altra cosa alla legge della conservazione e
dell’affermazione della propria sovranità. Fossero essi democratici o totalitari, erano
sempre più nazionalisti... La federazione europea non ci si presentava come una
ideologia, non si proponeva di colorare in questo o in quel modo un potere esistente... Era
la negazione del nazionalismo che tornava a imperversare ».
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del 08/07/15, pag. 1/2
La favola delle opposte democrazie
Marco Bascetta
Tra i numerosi argomenti messi in campo contro il governo di Atene e i suoi sforzi per non
sottostare ai diktat della Troika, ve ne è uno tanto indecentemente sofistico quanto
ampiamente diffuso. Con poche varianti il ragionamento funziona pressapoco così: è
indubbio che la popolazione greca si sia democraticamente espressa contro le politiche di
austerità imposte dalla governance europea. Tuttavia anche i restanti membri dell’Unione
sono delle democrazie (sebbene di qualcuno, come l’Ungheria, sarebbe lecito cominciare
a dubitare) cosicché il pronunciamento di Atene non può in nessun modo prevalere sulla
volontà espressa, con il tramite dei loro governi, da queste democrazie.
Si applica insomma quel principio che Stuart Mill poneva a fondamento della sua idea di
libertà, la quale avrebbe cessato di essere legittima laddove risultasse di ostacolo alla
libertà altrui. La speciosa inconsistenza di una siffatta trasposizione salta subito agli occhi.
In che modo il referendum greco possa minacciare l’ordinamento democratico di altri stati
europei resta un mistero della fede. Fatto sta che queste democrazie non sono mai state
chiamate ad esprimersi sulle politiche di austerità che avrebbero dovuto subire o imporre a
se stesse e ad altri. E di certo, nella loro propaganda elettorale, i partiti in lizza in questi
paesi si sono sempre prodigati nello sminuire i sacrifici richiesti e nell’enfatizzare le
promesse, perlopiù assai vacue, di crescita. Una volontà democratica in favore
dell’austerità o dell’iscrizione del pareggio di bilancio nelle Carte costituzionali non è mai
stata registrata (men che meno nell’Italia al suo terzo governo non eletto). Tanto è vero
che queste scelte sono sempre state presentate all’opinione pubblica non come un
possibile oggetto di scelta democratica, ma come vincoli esterni: «Ce lo chiede l’Europa»,
intesa in questo caso come una entità sovraordinata ai processi democratici, come regola
astratta scaturita da meccanismi imperscrutabili.
Le “riforme strutturali” in Grecia ci vengono invece presentate come un bisogno impellente
dei cittadini europei e una espressione della loro volontà democratica. Il vero problema
che il governo di Atene ha posto all’Europa è infatti quello della democrazia, per una volta
applicata non agli spettri della rappresentanza ma alle condizioni materiali di vita di una
intera popolazione. Una simile applicazione rischierebbe di strappare le democrazie
europee ai governi che oggi, “per il loro bene” le tengono al guinzaglio. Quale sia il
pericolo lo esplicita senza mezzi termini un giornalista di Spiegel on line (ma di scuola
ultraconservatrice): «Se qualcuno aveva ancora bisogno di una prova di quanto siano
pericolosi i pronunciamenti popolari è servito. La Grecia mostra una volta di più che i
referendum, ossia la registrazione contingente della volontà popolare, non producono
automaticamente i migliori risultati» (Roland Nelles). Sia pure. Sarà anche vero che gli
elettori tedeschi, per quanto danneggiati nei loro livelli di vita ben più dall’ossessione
competitiva e accumulatrice del governo di Berlino che non dal debito greco, voterebbero
l’immediata espulsione di Atene dall’eurozona. Ma un conto è pronunciarsi per
un’ideologia che ammicca alla superiorità nazionale (non è una novità che dalle urne
possano uscire governi o pronunciamenti mostruosi), un altro combattere per la propria
sopravvivenza.
Ma in spregio a qualunque ragionevole valutazione della realtà, la favola delle 19
democrazie su un piede di parità circola senza ritegno. Basterebbe domandarsi perché
solo alcuni parlamenti o solo alcune Corti costituzionali e non altre abbiano il diritto di
ratificare o di bocciare accordi e politiche di portata europea, per uscire da questa ridicola
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pantomima. Possiamo facilmente immaginare quanto conterebbe l’opinione dei paesi
baltici se non dovesse coincidere con quella di Berlino.
La crisi greca ha portato in luce le peggiori pulsioni alimentate dalle politiche governative
in Europa. Prima tra tutte quel “risentimento” considerato da sempre un cavallo di battaglia
della demagogia populista. Da Madrid a Lisbona si leva la protesta: perché i greci
(comunque già massacrati dai memorandum) dovrebbero essere esentati da ciò che noi
abbiamo dovuto accettare, rischiando il nostro consenso elettorale? Domanda
accompagnata dalla messa in scena di una presunta “uscita dalla crisi” che, con certi tassi
di disoccupazione e povertà, è davvero indecente permettersi. O la recita da Kindergarten
che rappresenta i risparmi dei contribuenti tedeschi, nella più totale innocenza del sistema
finanziario, fluire nelle tasche degli sfaccendati greci che se li godono alla loro faccia.
L’atmosfera greca della crisi in corso ha provocato un’alluvione di sbiaditi ricordi scolastici.
Ma forse uno sarebbe pertinente, non tanto per quel conflitto tra le ragioni della forza e
quelle della giustizia che lo ha reso esemplare, ma per quello, collaterale, tra governanti e
governati. Si tratta del celebre dialogo tucidideo tra i melii e gli ateniesi. I primi
chiederanno ai messi di Atene di parlare solo di fronte agli oligarchi e gli strateghi e non di
fronte a tutto il popolo che avrebbe potuto cadere preda dell’abile retorica ateniese. Poco
importa che l’oligarchia si disponesse, in quel frangente, a respingere il diktat della
potenza di Atene andando incontro a una catastrofe. Ciò che conta è che il popolo doveva
essere tenuto fuori da ogni decisione.
A parti invertite, schierandosi contro il diktat di Bruxelles, Tsipras ha fatto la scelta
opposta. Forse l’unica in grado di scongiurare una catastrofe.
Dell’8/07/2015, pag. 1-6
Il pressing di Obama al telefono con i leader
“Atene resti nell’euro”
Il presidente americano: “La Grexit non è un’opzione” Gli Usa irritati per
l’incapacità di risolvere l’emergenza
LOSCENARIO
FEDERICO RAMPINI
«LA GRECIA deve rimanere nell’euro, Grexit non è un’opzione». È tassativo Barack
Obama. In poche ore telefona ai principali protagonisti della crisi europea: Merkel, Tsipras,
Hollande. Il presidente americano è costretto a occuparsi di nuovo dell’emergenza greca:
come nel 2010, come ne1 2011, come nel 2012... E fa fatica a credere che i leader
europei possano essere ancora paralizzati su un dossier che si trascina da cinque anni.
Bisogna mettersi dal suo punto di vista. Sul finire del 2008, nel corso del tempestoso
passaggio delle consegne Bush-Obama, le due Amministrazioni entrante e uscente, pur
odiandosi cordialmente, concordarono in poche settimane un piano da 900 miliardi di
dollari per il salvataggio delle banche; cui ne seguì un secondo, quando Obama entrò alla
Casa Bianca, per salvare General Motors e Chrysler.
Questi bail-out — operazioni di perdono dei debiti e aiuti di Stato simili a quelle di cui si
parla per la Grecia — costarono lì per lì più di trenta volte le cifre che oggi sono in ballo
per Atene. In un certo senso si trattò di salvataggi geograficamente mirati, come per la
Grecia: le banche Usa in pericolo erano quasi tutte a New York; l’industria dell’auto è nello
Stato del Michigan. A nessuno venne in mente di chiedere l’espulsione del Michigan dagli
Stati Uniti. E comunque la maxi-operazione fu decisa, realizzata e infine chiusa con
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beneficio del contribuente (e perfino qualche profitto) in un tempo che è una micro-frazione
di quello impiegato dall’eurozona per... non decidere nulla.
Incomprensibile, per il pragmatismo americano, è la fissazione moralistica contro chi
fallisce per debiti. Uno degli atti fondativi del capitalismo moderno fu l’abolizione della
prigione per debiti: tra gli ultimi a patirne Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe , in
carcere per uno scoperto di 17mila sterline nel 1692. Estrarre al proprio debitore la carne
viva dal corpo, co- me avrebbe voluto fare Shylock nel Mercante di Venezia di
Shakespeare, può dare una soddisfazione vendicativa, ma non aiuta il debitore a ripartire
su nuove basi, creare ricchezza, restituire almeno parte di quel che ha preso in prestito.
Prove di questo atteggiamento laico e pragmatico verso i debitori, l’America ne diede
anche quando a governarla erano repubblicani neoliberisti come Ronald Reagan e George
Bush padre: tra la seconda metà degli anni Ottanta e il 1994 il Piano Brady cancellò un
terzo dei debiti a 18 paesi dell’America latina inclusi i più grossi come il Brasile. È molto
più di quanto Tsipras abbia mai osato sperare dall’Europa.
La preoccupazione di Obama oggi è strategica. Non vuole la Grexit perché teme che una
Grecia alla deriva finisca nelle mani della Russia, o della Cina, o di entrambe. Fu Churchill
alla fine della seconda guerra mondiale a spiegare a Roosevelt l’importanza geopolitica
della piccola Grecia, quando vi divampava la guerra partigiana guidata dai comunisti, e
intorno c’erano la Jugoslavia di Tito, la Bulgaria e la Romania occupate da Stalin. Da
allora gli americani non hanno mai sottovalutato «quegli scogli sul Mar Egeo». Tanto meno
possono farlo oggi, mentre vacilla un altro perno dell’alleanza atlantica in quella zona, la
Turchia. Sul piano strettamente economico, invece, non si respira negli Stati Uniti un’aria
di vera emergenza. Secondo l’ultimo sondaggio tra i grossi investitori, fatto a Wall Street
dalla Barclays, più del 50% considera che perfino lo scenario peggiore — l’uscita di Atene
dall’euro — provocherebbe solo un “blip” sui mercati globali, una modesta perturbazione.
(Avvertenza per l’uso di questi sondaggi: le crisi più dirompenti non sono mai state
previste in anticipo; gli eventi definiti “cigni neri” hanno sempre squarciato come lampi un
cielo blu di ottimismo). Per quanto Obama stia spendendo tutta la sua influenza per
indurre gli europei a trovare una soluzione, è lui stesso alle prese con due dilemmi.
Anzitutto, questo presidente era partito con un capitale di simpatia verso Tsipras, che ha
rapidamente esaurito. Quando il premier greco mandò questa primavera Varoufakis a
Washington per l’assemblea annua del Fondo monetario, gli uomini di Obama ebbero una
pessima impressione sull’allora ministro dell’Economia: un narciso incompetente. Sulla
stampa Usa, da quella conservatrice come il Wall Street Journal fino al liberal New York
Times, si sono moltiplicate le inchieste sulla massiccia evasione fiscale in Grecia, le truffe
allo Stato, il parassitismo dei pubblici dipendenti. Alla lunga questo ha finito per creare un
po’ di comprensione verso la Merkel. A difendere a spada tratta i greci rimane compatta
solo l’intellighenzia neo-keynesiana: i premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz, Robert
Reich, Jeffrey Sachs. L’altro dilemma per Obama è legato all’Fmi, di cui gli Stati Uniti sono
l’azionista di maggioranza relativa. In seno al Fmi cresce l’irritazione delle nazioni
emergenti: queste denunciano un trattamento di favore verso un «membro del club
occidentale dei ricchi» (la Grecia risulta tale, se paragonata all’emisfero Sud). L’America
deve evitare di trovarsi accerchiata da quel fronte dove la Cina conquista consensi. Infine
il Fondo monetario è portatore di una verità scomoda per tutti. Il suo capo economista
Olivier Blanchard è stato categorico: «L’austerity ha fallito». Una condanna inequivocabile
verso l’ideologia tedesca. Ma lo stesso Fmi è portatore di una ricetta in due tempi, che ha
quasi sempre applicato nelle bancarotte sovrane: prima la cancellazione di una parte
sostanziosa del debito, poi una massiccia svalutazione. Nel caso di Atene questo
significherebbe solo l’uscita dall’euro. La seconda metà della cura, è proprio quella che
Obama sta cercando di impedire.
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del 08/07/15, pag. 14
“Lupi solitari, fatevi branco”
L’Isis incita ad attaccare Roma
Maurizio Molinari
«Trasformatevi da lupi solitari in gang»: è l’ordine dello Stato Islamico (Isis) ai jihadisti in
Occidente contenuto in un ebook disseminato di consigli pratici su come portare la
guerriglia nei centri urbani e la conclusione è dedicata all’assalto all’Italia. Ecco una sintesi
di «Muslim Gangs», ottenuto dal website «Site».
«Gang in arabo si dice Usbah, significa essere legati dalla forza». Per crearne una
«bisogna essere fedeli come fratelli» e avere «l’obiettivo» di «imporre la guida di Allah
sulla Terra». «Serve un leader carismatico» che vive «nel quartiere dove è nato e di cui la
gente si fida» perché «proietta potere» ottenendo «la simpatia degli abitanti, garantendogli
sicurezza, servizi e lavoro» e ricevendo in cambio «lealtà e tasse».
La propaganda
«Per trasformarsi da lupi solitari in gang bisogna scegliere il proprio obiettivo: fare
propaganda o attività militari». Per propaganda si intende «incoraggiare la vostra comunità
musulmana alla beneficenza in loco, non all’estero». «Immaginate di essere attaccati dai
neonazisti e chiedevi cosa serve»: lezioni di pronto soccorso, tecniche di autodifesa.
«Dovete conquistare cuori e menti della vostra comunità». «Aprite delle Dawah» per
informare sull’Islam e per attirare la gente. «offrite cibo». Così «rimuoverete dai musulmani
il timore per la polizia».
La strategia è la «Tawwahhush» ovvero «isolare i musulmani dal resto della società» per
«evitare interferenze» e «non avere pietà per gli estranei». A tal fine è importante
«reclutare bambini e adolescenti».
Attività militari
Servono «soldi, armi e rifugi». Si inizia «con piccole cellule dentro la gang, formate da
persone fidate». Per ottenere fondi le scelte suggerite sono «rapine in gioiellerie», «frodi
con le carte di credito» e «far esplodere i bancomat». Poi ci sono le «bombe fatte in
casa»: il suggerimento è di confezionarle in «lattine» e «pentole» riempiendole «di
esplosivo e schegge» usando cellulari come detonatori. Infine, le istruzioni per autobombe
e attacchi «con auto in corsa come fanno i palestinesi in Israele» ma «rinforzandole
davanti con metalli» per riuscire a causare più vittime fra i passanti.
La previsione è che «la politica dell’Occidente favorirà l’estrema destra» portando a
«scontri coi neonazisti» che favoriranno il «reclutamento». L’obiettivo militare è «creare
corridori terrestri per collegarsi con i musulmani dei Paesi vicini». L’esempio fatto è l’Italia.
«Entreremo in Italia da Nord, convergeranno i musulmani inglesi, francesi, spagnoli,
tedeschi e scandinavi. E da Est i bosniaci, albanesi e kosovari. Così raggiungeremo
Roma».
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del 08/07/15, pag. 14
Vivere e morire a Raqqa sotto le false
promesse del Califfo
Nella “capitale” dei miliziani fra fame ed esecuzioni L’attivista
Shahinian: “Chi si oppone finisce giù dal tetto”
di Francesca Borri
Parlare di Siria e soprattutto valutare la reale forza dell’Isis, senza giornalisti sul campo, è
un girare a vuoto. Il Califfo perde Tikrit, conquista Ramadi. Conquista Yarmouk, perde Tal
Abyad.
“In realtà, sono discussioni senza senso – dice Jimmy Shahinian, uno dei più noti attivisti
siriani – 300 mila morti, quattro milioni di rifugiati, due milioni di emigrati. Dieci milioni di
sfollati, su un totale di 22 milioni di abitanti. L’80 per cento di noi vive in povertà. E di
questo 80 per cento, un terzo è alla fame. Letteralmente. Non ha che pane e acqua
piovana. In Siria, semplicemente, nessuno controlla più nessuno”. E se è difficile valutare
la reale forza militare dei jihadisti, ancora più difficile è valutare il loro reale radicamento
sociale. In Iraq, per esempio, è evidente: nei campi profughi, incontri famiglie in fuga
dall’Isis, ma anche, soprattutto, dalla guerra contro l’Isis. In fuga dalle milizie sciite. Jimmy,
27 anni, ingegnere, oggi rifugiato in Turchia, è di Raqqa, la prima città conquistata dall’Isis.
Da cui alcuni ti raccontano che gli ospedali funzionano. Altri che funzionano sì, ma a
pagamento: e nessuno può permetterseli. Alcuni ti dicono che funziona tutto. L’acqua,
l’elettricità. Altri che tutto funziona solo perché i dipendenti pubblici continuano a essere
stipendiati da Damasco. Ma per Jimmy, anche questo è un dibattito senza senso.
“Parliamo di gente non libera. E non solo perché se ti opponi finisci impiccato. Parlo della
libertà dal bisogno, dalla fame. Qualunque cosa la gente pensi dello Stato Islamico, viene
dalla paura e dalla necessità. Oggi Raqqa ha oltre un milione di abitanti: quasi tutti
profughi. Quasi tutti senza alcun reddito. Se ti arruoli, ti pagano 150 dollari al mese. Tutto
qui. A te la scelta”.
Il senso dei siriani per la democrazia
In più, spiega, i siriani non hanno mai sperimentato la democrazia. Come tutti, in Medio
Oriente, quello che chiedono a chi governa è essenzialmente la capacità di imporre il
rispetto della legge, assicurare l’ordine pubblico, perché dallo Stato non si aspettano altro.
In realtà, dice, “tecnicamente Raqqa non è stata mai conquistata dall’Isis. Né dall’Isis né
da altri. Perché è una città periferica, in mezzo al deserto, vicino al confine con l’Iraq: il
potere è sempre stato esercitato dai notabili locali. Che a un certo punto, semplicemente,
hanno deciso di schierarsi con i ribelli dell’Esercito Libero. E all’inizio, è sembrato davvero
che potessimo costruire una Siria nuova. Eravamo organizzati in 33 comitati. Impegnati in
iniziative di ogni tipo. Ma i combattenti avevano obiettivi tutti loro. Giorno dopo giorno,
sono diventati un altro regime. Una delle principali brigate, l’Ahrar al-Sham, ha rapinato la
banca, ha rapinato tutti i nostri risparmi, per comprare armi. E ci ha lasciato alla fame.
L’Isis è arrivato, e con la sua promessa di punire i colpevoli, di restituirci una vita normale,
ha avuto consenso: come l’aveva avuto l’Esercito Libero. Fino a quando non hanno ucciso
Abdullah al-Khalil, il presidente del nuovo Consiglio Municipale. Ed è stato chiaro che
anche loro, come l’Esercito Libero, erano venuti non a liberarci, ma a occuparci. Funziona
così, in Siria. Di gruppo in gruppo. Di peggio in peggio”.
L’unica certezza sono le torture
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“Ogni volta un’illusione. Ogni volta un tradimento. E da dove è arrivato, l’Isis? Dalle
prigioni di Assad. Perché Assad sapeva che così lui, per il mondo, sarebbe stato il male
minore. Che così nessuno sarebbe venuto a bombardarlo. E all’inizio della rivoluzione, ha
scarcerato tutti i jihadisti. Ha arrestato noi, scarcerato loro”. Perché in questi anni una sola
cosa non è cambiata, in Siria: Jimmy è stato torturato sia dal regime sia dai jihadisti. Che
ufficialmente sono nemici. Però poi, nel corso del 2014, solo il 13% degli attacchi dell’Isis
ha avuto come obiettivo il regime: e solo il 6% delle 982 operazioni di antiterrorismo
condotte dal regime ha avuto come obiettivo l’Isis. Jimmy è stato in carcere tre volte.
L’ultima, per 173 giorni: larga parte dei quali, appeso al soffitto per i polsi. Quando è infine
uscito, aveva entrambe le spalle spezzate. Fratture ovunque. La sua è la storia di tutti i
siriani. E di quelli che hanno provato ad aiutarli: Raqqa è la città in cui è sparito il nostro
padre Paolo dall’Oglio. Espulso dal regime, sequestrato dai jihadisti.
“Non abbiamo perso solo la rivoluzione. Abbiamo perso la Siria – conclude Jimmy amaro
– ormai è tutta una partita tra stranieri. L’avanzata dei ribelli di queste settimane è stata
resa possibile dalle armi di Turchia e Arabia Saudita. Il cui nemico, però, non è Assad, è
l’Iran. Questa non è più una guerra in Siria, ma una guerra attraverso la Siria. E domani,
magari, la Turchia e l’Arabia Saudita cambieranno idea di nuovo. E i ribelli si ritroveranno
di nuovo al fronte in ciabatte”.
Tutto in mano agli stranieri
Ma anche Assad, specifica. “L’opposizione è dominata da stranieri, ma anche il regime:
sono sciiti libanesi, iraniani, iracheni. Tutti agli ordini di Teheran”. E con chi avvii dei
negoziati, se da una parte e dall’altra, dice, non è chiaro neppure chi comanda davvero?
Ma le sue perplessità non si limitano ai negoziati. “Avete deciso di rispondere all’Isis solo
sul piano militare. Ma spendere un milione di euro per un missile Tomahawk che se sei
fortunato centri una casa, e elimini quattro jihadisti, non ha senso. Jim Foley è stato
decapitato con addosso una tunica arancione: la tunica di Guantanamo. Perché l’Isis si
fonda sulla paura e sulla fame, ma anche sul rancore, sul risentimento per le
diseguaglianze, gli squilibri del mondo. L’ingiustizia. Ho visto musulmani dormire nelle
chiese per evitare che venissero distrutte. No, l’Isis non è questione di religione, per
niente: è questione di frustrazione. Non è un’azione, ma una reazione”.
del 08/07/15, pag. 16
Guanti spessi, triplo velo e frustate
L’inferno delle donne nel Califfato
La realtà è molto diversa dai racconti edulcorati delle convertite unitesi
all’Isis
DALLA NOSTRA INVIATA LONDRA «Lo Stato islamico, sappi, è uno Stato perfetto. Qui
non facciamo nulla che vada contro i diritti umani». Così Maria Giulia Sergio (alias
Fatima), l’italiana unitasi all’Isis, ha detto via skype in un’intervista pubblicata ieri sul
Corriere.
Fatima è una delle (almeno) 550 occidentali residenti nel Califfato. Sono «l’apice della
macchina di propaganda dell’Isis — ci dice nella sua casa di Londra Mohammad Tasnime
Akujee, avvocato che rappresenta le famiglie delle tre quindicenni inglesi Amira Abase,
Kadiza Sultana e Shamima Begum fuggite in Siria — Tutto ciò che dicono fa notizia: l’Isis
lo sa e le usa. Se sono infelici di certo non lo diranno su Twitter». La maggioranza delle
muhajirat (migranti) occidentali hanno tra i 14 e 20 anni e sono attive sui social media.
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Postano foto di crepes alla nutella e tramonti, promettono case con elettrodomestici a chi
arriva, romanticizzano la «sorellanza» tra jihadiste e persino le nozze forzate. Dietro la
scura facciata di un edificio georgiano a Westminster, presso l’Institute for Strategic
Dialogue, le studiose Erin Saltman e Melanie Smith monitorano sui social media il più
grande database di donne occidentali nell’Isis: 111 profili. «Mostrando la loro vita
quotidiana danno l’idea che sia facile vivere nel Califfato — spiega Saltman — e diventano
modelli per altre ragazze. Nei loro account non vedi la guerra; anche se condividono le
immagini delle decapitazioni, si autocensurano sui problemi quotidiani».
Alcune donne arabe, scappate, hanno raccontato come si vive davvero. L’Isis proibisce
alle donne di uscire di casa senza accompagnatore. Il codice di abbigliamento prevede
abiti neri doppi, guanti e un velo triplo per nascondere gli occhi: le violazioni vengono
punite con la frusta. Il ruolo delle donne nel Califfato è di essere mogli e madri: sposate a
16-17 anni (ma è possibile anche a 9). Una vita così estrema che anche alcune donne
indottrinate non la sopportano: una giovane, Umm Abaid, ha spiegato in un recente
documentario di Channel 4 che pur condividendo i vincoli sull’abbigliamento, ha deciso di
scappare quando l’Isis ha cercato di assegnarle un nuovo marito appena è rimasta vedova
(una violazione della shiaria che richiede di aspettare 4 mesi). Ben 300 dei 700 inglesi
partiti per la Siria e l’Iraq sono tornati a casa: l’avvocato Akujee rappresenta diversi di loro.
Contattato via WhatsApp da una inglese in Siria è riuscito a negoziare per liberarla. «Ma
era nelle mani di Nusra. E’ più facile con loro che con Isis».
Per quanto edulcorati, anche i racconti online delle jihadiste a volte rivelano segnali di
infelicità. «Abbiamo imparato a leggere tra le righe», spiega Saltman. Ragazze incinte
rifiutate in ospedale a Raqqa (segno che la gente locale non ama i foreign fighters),
hashtag che lamentano i problemi delle vedove.
E poi ci sono account che improvvisamente tacciono, com’è accaduto con quelli delle
austriache Samra Kesinovic e Sabina Selimovic. C’erano voci che volessero tornare a
casa. «Ora si teme che siano sotto tortura, in quarantena o morte – continua la studiosa -.
Finisci nei guai se metti in dubbio l’Utopia». Sono una decina le occidentali «pentite»
fuggite all’Isis. E’ difficile per loro: non parlano l’arabo, i passaporti vengono distrutti.
Nessuna ha parlato al ritorno. «Sono sotto processo a porte chiuse», nota Saltman. «Ma
credo sia un errore non far sentire la loro voce: farebbe da contraltare alla propaganda».
Viviana Mazza
Dell’8/07/2015, pag. 17
ARABIA SAUDITA
“Clemenza per il blogger Badawi”
Appello di Amnesty International
“Nel sacro mese di Ramadan, dedicato alla preghiera e alla compassione, vogliamo
rivolgere un appello al senso di umanità e alla saggezza di Sua Maestà Salman bin Abdel
Aziz Al Saud, affinché Egli prenda la decisione di rilasciare Raif Badawi”: inizia così
l’appello promosso da Amnesty International al re dell’Arabia saudita in favore del blogger
saudita condannato a 10 anni di carcere e mille frustrate per aver chiesto più libertà nel
suo paese. All’appello, che sarà presentato oggi, hanno aderito direttori di giornali, scrittori
e intellettuali. Badawi è in carcere ormai da due anni e non può vedere la moglie e i suoi
tre figli che sono scappati in Canada: anche il suo avvocato (e cognato) Waleed Abu Khair
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è stato arrestato. Il blogger è stato frustato in pubblico nei mesi scorsi a Gedda e ha
riportato gravi ferite, tanto che la moglie ha fatto sapere di temere per la sua vita.
Dell’8/07/2015, pag. 16
La trattativa. Raggiunto il compromesso sui dettagli tecnici, la
discussione è ormai tutta politica: l’Iran chiede di poter acquisire
armamenti ma Washington non vuole accettare
Nucleare, a Vienna l’ultima partita a poker
“Un’intesa vera o nulla”
Negoziati alla stretta finale: il nodo è quello delle armi La scadenza
spostata a venerdì,tensione fra i ministri
DANIELE MASTROGIACOMO
VIENNA . L’Iran alza la posta in gioco e spariglia di nuovo le carte sul tavolo. Accetta le
ispezioni anche nei siti militari che aveva finora negato, ma in cambio chiede la revoca
delle sanzioni Onu sul commercio delle armi. Vuole rilanciare il suo programma
missilistico. Niente testate nucleari: Teheran non le ha mai cercate né le vuole. Ma
rivendica il diritto ad armarsi, a difendersi e a vendere i suoi ordigni.
Come in una partita a poker senza limiti di tempo, le trattative sul dossier atomico iraniano
si complicano e costringono tutti i ministri del Gruppo 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia,
Inghilterra e Germania) a dichiarare superata la data fissata in un primo momento come
scadenza per un’intesa. Si continua a negoziare, chiusi nel Palais Coburg, lungo il Ring di
Vienna, almeno fino a venerdì 10. L’importante, come sostengono tutti, è raggiungere «un
accordo equo e duraturo». Il Congresso americano, cui spettava l’ultima parola, a quel
punto potrà andare tranquillamente in ferie. La nuova legge gli consente di prendersi due
mesi di tempo e non più solo 30 giorni, per esprimere un parere e dare il suo assenso.
Il nuovo colpo di scena arriva in tarda mattinata. Il segretario generale dell’Aiea, Yukiya
Amado, è appena rientrato da Teheran. È il secondo viaggio in 4 giorni. Pensava di
portare a casa un risultato importante e inatteso: l’impegno scritto da parte iraniana ad
autorizzare le ispezioni anche nei siti militari finora negati. Soprattutto nella centrale di
Parchin, dove l’Agenzia di Vienna sospetta ci siano stati dei tentativi di costruire un
ordigno nucleare tra il 1997 e il 2003.
Amado ha avuto ampie garanzie da una figura di spicco del regime degli ayatollah. Ha
incontrato personalmente Alì Shamkhani, 60 anni, ministro della Difesa nel governo di
Mohammad Khatami dal 1997 al 2005.È considerato un riformatore, ha ottimi rapporti con
il presidente Rouhani ed è consigliere militare della Guida suprema Khamenei. Parlare con
quello che a Teheran tutti conoscono come l’”Ammiraglio” significa avere una garanzia ai
massimi livelli. Shamkhani ha già accettato di estendere le ispezioni. Ma Amado vuole un
impegno scritto: chiede di formalizzare l’accordo. Ha bisogno di tornare a Vienna con
qualcosa di concreto, un consenso di massima non basta.
Rientra invece a mani vuote e spiega ai ministri degli Esteri occidentali riuniti sotto la guida
dell’Alto rappresentante europeo Federica Mogherini la posizione di Teheran. Il Gruppo
5+1 è diviso. I falchi, soprattutto la Francia e la Germania ma anche l’Inghilterra,
scalpitano. Impensabile lasciare l’Iran libero di armarsi. Gli Usa restano inflessibili:
l’embargo sulle armi resta in vigore. A prescindere da qualsiasi accordo. Ma Teheran
ribadisce la sua scelta. L’atmosfera, a fine mattinata, è decisamente negativa. Difficile
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continuare a discutere gli aspetti tecnici di un accordo che ha preso una piega tutta
politica. La Casa Bianca ostenta tuttavia ottimismo: «I colloqui sono vicini alla soluzione».
Il segretario di Stato John Kerry resta a Vienna con il ministro degli Esteri iraniano Javad
Zarif e Mogherini. Il russo Sergey Lavrov, il francese Laurent Fabius, l’inglese Philip
Hammond tornano a casa. Rientreranno giovedì. Per chiudere un trattato storico o sancire
il fallimento di un accordo impossibile.
del 08/07/15, pag. 12
Un miliardo di poveri in meno
L’Onu centra i suoi Obiettivi
Più che dimezzati in 25 anni, ma ne restano ancora 836 milioni
Francesco Semprini
Dal 1990 ad oggi il numero di persone in estrema povertà è passato da quasi due miliardi
a 836 milioni. La lotta alla fame ha registrato decisivi passi in avanti, miglioramenti senza
precedenti sono stati attuati nella lotta a malattie come Hiv e Aids, e per tante donne e
bambine l’accesso all’istruzione non è più solo un miraggio.
Prossimo traguardo: 2030
Questi gli obiettivi raggiunti dal Millennium Development Goals (Mdg), il documento
programmatico con cui le Nazioni Unite, nel 2000, hanno stabilito otto obiettivi da
raggiungere entro 15 anni, per migliorare le condizioni di vita in tutto il mondo, al cospetto
di un processo di globalizzazione che mostrava opportunità e tante insidie. I risultati
raggiunti nell’ambito della campagna degli Obiettivi del Millennio sono contenuti nel
rapporto finale presentato ad Oslo, in Norvegia, nel quale è stato sottolineato come la
mobilitazione collettiva ha prodotto «il movimento contro la povertà di maggiore successo
nella storia». «Il rapporto dimostra come gli sforzi globali per raggiungere i “Goals” hanno
salvato milioni di vite e migliorato le condizioni di altri milioni di persone in tutto il mondo»,
ha dichiarato il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, nel corso della cerimonia di
Oslo. Un primo traguardo, che presenta tuttavia successi parziali, visto che ci sono ancora
lacune nella lotta alla disuguaglianza. Aspetti questi su cui i leader mondiali dovranno
concentrarsi nella nuova agenda che verrà adottata quest’anno, il Sustainable
Development Goals (Sdg) con 17 «Goals» e 169 «Targets» da raggiungere entro il 2030.
Ancora diseguaglianze
I conflitti restano la più grande minaccia per lo sviluppo umano, mentre il riscaldamento
climatico è diventato un problema esistenziale. «Tuttavia - chiosa Ban - gli Obiettivi del
Millennio ci hanno insegnato come governi, imprese e società civile possono lavorare
insieme, per realizzare innovazioni e trasformazioni». Vediamo quali sono i progressi
compiuti con Mdg. Il numero di persone che vivono in estrema povertà si è più che
dimezzato dal 1990 al 2015. C’è una maggiore presenza delle donne nelle rappresentanze
parlamentari (raddoppiata), e nel mondo del lavoro. La riduzione della mortalità infantile
(sotto i cinque anni) tra il 1990 e il 2015, si è triplicata. Gli investimenti mirati nella lotta
contro malattie come l’Hiv hanno portato ad una diminuzione delle nuove infezioni di circa
il 40%, tra il 2000 e il 2015, e la terapia antiretrovirale ha raggiunto 13,6 milioni di persone
nel 2014. Gli Obiettivi del Millennio hanno inoltre permesso a oltre 2,6 miliardi di persone
di ottenere l’accesso ad una migliore fonte di acqua potabile, e in Africa sub-sahariana, a
partire dal 2000, di incrementare il tasso di iscrizione alla scuola primaria del 20%.
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INTERNI
del 08/07/15, pag. 6
Tortura, in Senato vince il Sap
Giustizia. La commissione annulla le modifiche apportate dalla Camera
al testo di legge. Se nulla cambierà in Aula, il testo torna alla Camera.
Rimpallo continuo, a rischio la legge
Eleonora Martini
«Se devo prendere per il collo un delinquente, lo prendo. Se cade e si sbuccia un
ginocchio, sono cazzi suoi». Il linguaggio è quello che è, tipico del leghista Matteo Salvini
che il 25 giugno scorso aveva sintetizzato così la protesta del Sap, il sindacato autonomo
di polizia tanto conservatore quanto minoritario all’interno delle forze dell’ordine.
Ma il concetto è stato fatto proprio, né più né meno, dall’intera commissione Giustizia del
Senato — Pd in testa — che ieri all’unanimità ha annullato di fatto le modifiche apportate
alla Camera al testo della legge sulla tortura. In sostanza, la fattispecie del reato e le pene
previste tornano alla stesura approvata in prima lettura dallo stesso Senato il 5 marzo
2014, e si allontanano sempre più dai trattati Onu pure ratificati dall’Italia.
In poche parole, diminuiscono le sanzioni, e il reato — che pure rimane comune e non
proprio di pubblico ufficiale, come prescritto dalla Convenzione di New York e come
chiedevano Amnesty International e altre associazioni — diventa ancora più generico.
Affinché venga considerata tortura, per esempio, la violenza e la minaccia deve essere
reiterata. Per essere crudi, una testa sbattuta contro un muro una volta non è tortura.
Spariscono perfino, tra le finalità elencate per definire meglio la fattispecie, quelle
discriminatorie etniche, religiose o sessuali. Così come sparisce quella locuzione — «per
vincere una resistenza» — che tanto aveva irritato certa polizia.
«Bisognava pur tenere conto dei rilievi fatti dalle forze dell’ordine perché l’uso della forza
non è solo facoltativo ma è d’obbligo durante atti legittimi come l’arresto», ha detto al
manifesto il relatore del testo, Enrico Buemi (Autonomie), che si è detto «soddisfatto» del
risultato anche se inizialmente «avevo proposto un reato specifico per pubblico ufficiale».
Ora, se l’Aula di Palazzo Madama confermerà le modifiche approvate ieri dalla
commissione, il testo dovrà tornare di nuovo all’analisi dei deputati, continuando così un
rimpallo tra le due camere che dura dal marzo 2013 e che molto probabilmente finirà con
l’affossare la legge, come vuole certa polizia (non tutta), e come già avvenuto nel corso
della scorsa legislatura. E mostrando così ancora una volta l’equilibrismo del premier
Matteo Renzi che solo tre mesi fa esortava a non avere paura dell’introduzione della
tortura nel nostro ordinamento. «Anzi — aveva detto il premier/segretario — si deve avere
paura che non ci sia».
Il testo approvato ieri dalla Commissione di Palazzo Madama prevede pene che vanno da
3 a 10 anni di carcere (e non più, come nella versione licenziata dalla Camera, da 4 a 10)
per «chiunque con reiterate violenze e minacce gravi (nella versione dei deputati era
diventata «con violenza o minaccia»), ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute
sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico (non più solo «sofferenza psicologica
grave» perché «non accertabile a distanza di tempo» secondo i senatori della
commissione) a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia,
vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero si trovi in condizioni di minorata difesa».
Rimane dunque inalterata quest’ultima frase che, secondo i deputati di Sel, rischiava con
la sua ambiguità di escludere automaticamente situazioni come quella verificatasi
27
all’interno della scuola Diaz durante il G8 di Genova, nella quale le vittime non erano
sottoposte a stato di fermo né a custodia degli agenti autori del massacro.
Rimane l’aggravante se il reato è commesso da pubblico ufficiale ma la pena massima
prevista (la minima è 5 anni) scende da 15 a 12 anni di carcere. Viceversa, è stato
respinto l’emendamento del senatore Sergio Lo Giudice (Pd) che aboliva giustamente
l’ergastolo previsto in caso di morte volontaria della vittima. «Non sono affatto soddisfatto
di queste modifiche — ha confessato Lo Giudice al manifesto — anche se ho dovuto
votare come il mio gruppo, come prescritto dal vincolo in commissione: la tortura è un
reato specifico commesso da chi rappresenta lo Stato».
Infine, un passo indietro nell’evoluzione democratica anche per quanto riguarda i
respingimenti o le espulsioni: nel testo della Camera uno straniero non poteva essere
rimpatriato verso uno Stato dove avrebbe potuto essere oggetto di persecuzione, ma per
la commissione Giustizia in questo modo sarebbe stato impedito qualsiasi respingimento.
Ecco perciò che l’inammissibilità del rimpatrio è stata vincolata al caso che «esistano
fondati motivi di ritenere che la persona rischi di essere sottoposta a tortura».
«Ma siccome i respingimenti si fanno alla frontiera — spiega Buemi al manifesto — gli
agenti potranno attingere ad un elenco di Stati dove, secondo i report internazionali, si
pratica abitualmente la tortura e la violazione dei diritti umani». Elenco dal quale
ovviamente manca l’Italia. Almeno finora.
del 08/07/15, pag. 16
Io soffro, loro mentono
Caso Aldrovandi. Perché rimetto le querele contro Paolo Forlani, Franco
Maccari e Carlo Giovanardi
Patrizia Moretti
Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, il diciottenne ucciso nel 2005 a Ferrara da
quattro agenti di polizia, ha annunciato di voler ritirare le querele per diffamazione
presentate nei confronti del senatore Carlo Giovanardi, del segretario del Coisp Franco
Maccari e dell’assistente capo di pubblica sicurezza Paolo Forlani per le offese rivolte
contro Federico. In questa lettera, pubblicata integralmente sul sito del manifesto, spiega
le motivazioni della sua scelta.
Ho perso Federico che aveva 18 anni la notte del 25 settembre di dieci anni fa per l’azione
scellerata di quattro poliziotti che vestivano una divisa dello stato, e forti di quella divisa
hanno infierito su mio figlio fino a farlo morire. Non avrebbero mai più dovuto indossarla.
I giudici hanno riconosciuto l’estrema violenza, l’assurda esigenza di “vincere” Federico, e
una mancanza di valutazione — da parte di quei quattro agenti — al di fuori da ogni
criterio di senso comune, logico, giuridico e umanitario.
Non dovevano più indossare quella divisa: nessuno può indossare una divisa dello stato
se pensa che sia giusto o lecito uccidere. O se pensa che magari non si dovrebbe, ma
ogni tanto può succedere, e allora fa lo stesso, il tutto verrà ben coperto. Con la speranza
che il sospetto di una morte insensata, inutile e violenta scivoli via fra la rassicurante verità
di carte col timbro dello Stato, di fronte alle quali tutti si dovrebbero rassegnare. E poi con
quella stessa divisa si continuerà a chiedere il rispetto di quello stesso Stato: che però
sarà inevitabilmente più debole e colpevole. Come un padre ubriaco che ha picchiato e
ucciso i suoi figli.
Il delitto è stato accertato, le sentenze per omicidio emesse. Invece le divise restano sulle
spalle dei condannati fino alla pensione. Fine del discorso.
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L’orrore e gli errori, con la morte e dopo la morte di Federico. La mancanza di
provvedimenti non guarda al futuro, non protegge i diritti e la vita: non tutela nemmeno
l’onestà delle forze dell’ordine.
Alla fine del percorso giudiziario che ha condannato gli agenti tutto ciò ora mi è ben chiaro:
ed è il messaggio che voglio continuare a consegnare alla politica e all’amministrazione
del mio Paese.
Dopo la morte di Federico, abbiamo dovuto difendere la sua vita vissuta e la sua dignità
assurdamente minacciate. Era pazzesco, sembrava il processo contro Federico.
Ho chiesto risposte alla giustizia e la giustizia ha riconosciuto che Federico non doveva
morire così.
Il processo è stato per me, mio marito Lino e mio figlio Stefano una fatica atroce, ma era
necessario prendervi parte e lottare ad ogni udienza: ci ha sostenuti l’amore per Federico.
Su quel processo e da quel processo in tanti hanno espresso un’opinione. E’ stato un
modo per crescere.
Alcuni hanno colto l’occasione per offendere me, Federico e la nostra famiglia. Qualcuno
l’ha fatto per quella che ritengo gratuita sciatteria e volgarità, altri per disegni politici volti a
negare o a sminuire la responsabilità per la morte di Federico.
Avevo chiesto alla giustizia di tutelarci ancora. In quel momento era l’unica strada, e non
me ne pento.
Sono passati due anni dai fatti per cui ho sporto querela. Ci sono state le reazioni
pubbliche e anche quelle politiche. Però poi non è cambiato niente.
Ho riflettuto a lungo e ho maturato la decisione di dismettere questa richiesta alle Procure
e ai Tribunali: non perché non mi ritenga offesa da chi ha stoltamente proclamato la falsità
delle foto di mio figlio sul lettino di obitorio, di chi ha definito mio figlio un “cucciolo di
maiale”, o da chi mi ha insultata, diffamata e definita faccia da culo falsa e avvoltoio.
Non dimenticherò mai le offese che mi ha rivolto Paolo Forlani dopo la sentenza della
Cassazione: è stati lui, sconosciuto e violento, ad appropriarsi degli ultimi istanti di vita di
mio figlio. Le sue offese pubbliche, arroganti e spavalde le ho vissute come lo sputo
sprezzante sul corpo di mio figlio. E lo stesso sapore ha ogni applauso dedicato a quei
quattro poliziotti. Applausi compiaciuti, applausi alla morte, applausi di morte. Per me non
sono nulla di diverso.
Rappresentano un modo di pensare molto diverso dal mio.
Non sarà una sentenza di condanna per diffamazione a fare la differenza nel loro
atteggiamento.
Rifiuto di mantenere questo livello basato su bugie e provocazioni per ferirmi ancora e
costringermi a rapportarmi con loro. Io ci sto male, per loro — credo di capire — è un
mestiere.
Forlani e i suoi colleghi li lascio con le loro offese e i loro applausi, magari ad interrogare
ogni tanto quella loro vecchia divisa, quando sarà messa in un cassetto dopo la pensione,
sull’onore e la dignità che essa avrebbe preteso.
Un onore che avrebbero minimamente potuto rivendicare se da uomini, cittadini, pubblici
ufficiali e servitori dello Stato, coloro che hanno ucciso mio figlio e coloro che li hanno
sostenuti avessero raccontato la verità su cosa era successo quella notte, e non invece le
menzogne accertate dietro alle quali si sono nascosti prima, durante e dopo il processo,
cercando di negare anche l’esistenza di quella mezzora in cui erano stati a contatto con
Federico prima dei suoi ultimi respiri.
Da Forlani e dai suoi colleghi avrei voluto in quest’ultimo processo solo la semplice verità,
tutta.
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Chi ha ucciso Federico sa perfettamente quale strazio sta dando ad una madre, un padre
e un fratello privandoli della piena verità dopo avergli strappato il loro figlio e fratello.
Nessun onore di indossare la divisa dello stato, nessun onore.
E nessun onore neanche a chi da dieci anni cerca nella morte di mio figlio l’occasione per
dire che in fondo andava bene così: i poliziotti non possono aver sbagliato, in fondo deve
essere stata colpa di Federico se è morto in quel modo a 18 anni.
Costruite pure su questo le vostre carriere e la vostra visibilità. Dite pure, da oggi in poi,
che il mio silenzio è la vostra vittoria. Muscoli, volantini, telecamere, libri, convegni e
applausi. Per dire che non c’è stato nessun problema il 25 settembre 2005. E per
convincere voi stessi e il vostro pubblico che il problema l’hanno creato solo Federico
Aldrovandi e sua madre Patrizia Moretti.
Vi esorto soltanto, da bravi cattolici quali vi dichiarate, a ricordare il quinto comandamento:
non uccidere.
Non spenderò più minuti della mia vita per queste persone e per i loro pensieri. Mi voglio
sottrarre a questo stillicidio: una fatica soltanto mia che nulla aggiungerebbe utilmente e
concretamente a nessuno se non alla loro ansia di visibilità. Trovo stancante anche
pronunciare i loro nomi. Inutile commentare le loro dichiarazioni pubbliche.
A dieci anni dalla morte di Federico per il mio ruolo di madre, ma anche per le mie
aspirazioni e per la mia attuale visione del mondo, penso che il dedicare anche solo alcuni
minuti a persone che disprezzo sia un’imperdonabile perdita di tempo. Non voglio più
doverli vedere né ascoltare o parlare di loro.
Perciò ritirerò le querele ancora in corso.
Non lo faccio perché mi è venuta meno la fiducia nella giustizia, ma dieci anni sono troppi,
ed è il momento di dire basta.
Non è il perdono, d’altra parte nessuno mi ha mai chiesto scusa, ma prendere atto che per
me andare avanti nelle azioni giudiziarie rappresenta soltanto un doloroso e inutile
accanimento.
Ritiro le querele perché sono convinta che una sentenza di condanna non potrebbe
cambiare persone che — da quanto capisco — costruiscono la loro carriera
sull’aggressività e sul rancore.
Non ci potrà mai essere un dialogo costruttivo, perciò addio.
Questo non significa che verrà meno il mio impegno di cittadina per contribuire a rendere
questo paese un po’ più civile, e questo impegno mi vedrà come sempre a fianco
dell’associazione degli amici di Federico per l’introduzione del reato di tortura e ogni altra
forma di trasparenza e giustizia.
C’è molta strada da fare: confronti, discussioni, leggi giuste. Bisogna affrontare il problema
degli abusi in divisa in modo costruttivo.
Le parole e le espressioni contro Federico, contro me e la nostra famiglia le lascio alla
valutazione in coscienza di chi ha avuto il coraggio di dirle. E soprattutto alla valutazione di
chi se le ricorda. Io ne conservo solo il disprezzo.
Per me l’onore è un’altra cosa.
L’onore appartiene a chi ha cercato di capire, a chi ha ascoltato la coscienza e a chi ha
fatto professionalmente il proprio dovere, a chi ha messo il cuore e l’arte oltre quel muro di
gomma costruito attorno all’omicidio di Federico, a tutti coloro che gli dedicano un
pensiero, un rimpianto, gli mandano un bacio.
Sono queste le persone che ringrazierò sempre, è grazie a loro che Federico è stato
restituito al suo onore di figlio, fratello, amico, ragazzo che voleva vivere, e tornare a casa.
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del 08/07/15, pag. 6
Il governo fa dietrofront sulla norma contro il
valore della laurea
Riforma Madia. Dopo le proteste, la retromarcia. La ministra della
funzione pubblica Madia: «C'è la massima apertura a fare modifiche, in
modo condiviso, o anche a cancellare l'emendamento al ddl P.A.»
Roberto Ciccarelli
Il governo ha fatto marcia indietro sull’emendamento Meloni (Pd) contenuto nel Ddl Madia
di riforma della pubblica amministrazione in discussione in commissione Affari
Costituzionali alla Camera.Si tratta di una misura liberticida che prevede il superamento
del voto di laurea come requisito minimo per l’accesso ai concorsi pubblici (dove esistono)
e l’affiancamento a criteri quali il voto medio per classi omogenee, la valorizzazione del
dottorato di ricerca e, soprattutto, per atenei di provenienza dei laureati. A parere dello
stesso deputato Pd autore dell’emendamento, quest’ultima norma è il risultato
dell’intervento diretto del governo che ha provato a negare il valore legale della laurea e a
imporre le discusse classifiche sulla «produttività» degli atenei stilate dall’Anvur quali
criteri di accesso discrezionale a un diritto costituzionale.
«C’è la massima apertura a fare modifiche, in modo condiviso, o anche a cancellare
l’emendamento al ddl P.A.» ha detto ieri il ministro della Pubblica Amministrazione,
Marianna Madia. Se approvata, la norma avrebbe sancito l’esistenza di università e
studenti di «serie A e B» e rafforzato la sperequazione territoriale tra atenei «poveri» del
Sud e quelli «ricchi» del Nord. Rettori, sindacati, studenti e dottorandi di ricerca hanno
reagito con forza. «Approvarla — sostiene Alberto Campailla degli studenti Link —
significa accettare l’esistenza di diversi livelli di laureati». «Le disparità esistenti sarebbero
aggravate» ha confermato Francesco Sinopoli (Flc-Cgil). Il ritiro è stato (quasi) ottenuto.
Molti ritengono che questosia solo l’antipasto della «Buona università» che dovrebbe
essere servito in autunno. Per il governo c’è tempo per tornare all’attacco.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Dell’8/07/2015, pag. 18
Roma. La relazione del prefetto al comitato per l’ordine e la sicurezza
pubblica. Decisivo il parere del procuratore capo Pignatone
Il Campidoglio non sarà sciolto per mafia
Gabrielli salva i politici e commissaria i
dirigenti
CARLO BONINI
GIOVANNA VITALE
ROMA. Il Comune di Roma non sarà sciolto per mafia. Dopo tre ore e mezza di
discussione, il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica converge su una
posizione di cui il Procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, è stato chiave di volta. Che
conforta e sostiene le conclusioni della relazione del prefetto Franco Gabrielli e dunque
respinge le opposte conclusioni cui era giunta, il 16 giugno scorso, la Commissione
prefettizia di accesso agli atti insediata dal precedente prefetto Giuseppe Pecoraro.
A questo punto, nelle prossime quarantotto ore, Gabrielli, incassato il parere consultivo del
Comitato, firmerà dunque la sua relazione in cui esclude che ricorrano i presupposti
previsti dalla legge per il commissariamento del Campidoglio (almeno secondo quanto
previsto dall’articolo 143 del Testo unico degli Enti locali) e la consegnerà al ministro
dell’Interno Angelino Alfano. Ma il passaggio, insieme formale e sostanziale, non chiuderà
la partita. Né sarà incruento. Perché i segni lasciati dalle mille pagine della commissione
prefettizia e il quadro devastante che dell’amministrazione capitolina ne emerge avranno
una coda. Fonti qualificate riferiscono infatti, che pur portando a casa la pelle, la giunta
Marino vedrà l’intervento “invasivo” della Prefettura su figure chiave della macchina
burocratica comunale. O almeno questo sarà quanto Gabrielli proporrà ad Alfano nelle
conclusioni della sua relazione e nell’incontro che i due avranno in quell’occasione. E
questo avverrà con il “commissariamento” di figure tecnico-dirigenziali all’interno di singoli
dipartimenti ( quelli che l’inchiesta Mafia Capitale ha documentato come irrimediabilmente
inquinati da una corruzione sistemica di cui la banda Buzzi-Carminati è stata a lungo
monopolista) e la loro sostituzione con viceprefetti. O, se necessario, con il
commissariamento tout court di singoli Municipi. Quelli, come nel caso di Ostia (già
commissariato di fatto dall’assessore alla legalità Sabella), che dovessero dimostrarsi, alla
luce non solo degli sviluppi dell’inchiesta, ma anche di quanto sin qui accertato anche
dall’indagine prefettizia, incapaci di assicurare continuità e trasparenza dei propri atti
amministrativi e politici.
Insomma, la relazione Gabrielli certificherà lo stato di avanzata e capillare manomissione
della macchina pubblica e l’urgenza di atti che restituiscano legittimità e controllo
dell’attività amministrativa. Ma in modo selettivo. Di fatto, “imbracando” o se vogliamo
mettendo sotto tutela l’azione della giunta Marino lì dove, anche e soprattutto per ragioni
legate all’inamovibilità dei funzionari pubblici (non è stato possibile rimuoverne uno solo tra
quelli coinvolti dall’indagine Mafia capitale, né sospenderli dallo stipendio), non è stata o
non è in grado di intervenire. Una fragilità evidente ad occhio nudo e di cui la stessa giunta
è a tal punto consapevole che, da giorni, il sindaco è in cerca di un nuovo “city manager”
cui affidare quelle deleghe di direttore generale del Campidoglio che oggi sono nelle mani
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di Liborio Iudicello, segretario generale del Campidoglio transitato senza colpo ferire
dall’amministrazione Alemanno a quella Marino.
Una soluzione dunque, quella di Franco Gabrielli, che nell’escludere un inquinamento
mafioso in atto dell’attività politica non per questo lascia alla Politica la piena autonomia
nel mettere mano alla sua macchina amministrativa. Non fosse altro perché fino al giorno
dei primi arresti dell’inchiesta Mafia Capitale( dicembre 2014) nessuno, anche nella giunta
Marino, sembrava essersi accorto di cosa accadesse nella macchina comunale. E una
soluzione che, evidentemente, apre una frattura (su cui nei prossimi giorni probabilmente
si avventerà chi aveva chiesto e scommetteva sullo scioglimento) con il lavoro della
Commissione prefettizia di accesso agli atti. Mille pagine di cui, nella riunione del Comitato
di ieri pomeriggio, è stata data lettura riassuntiva delle conclusioni e difese nel merito dal
prefetto Marilisa Magno che quella Commissione ha guidato. Quanto meno nel suo
assunto centrale, lì dove si raccomandava, alla luce di un’interpretazione estensiva della
responsabilità amministrativa, che la giunta non potesse sopravvivere una volta constatata
la sua manifesta incapacità o impossibilità di controllare gangli decisivi della sua macchina
burocratica o delle sue articolazioni politiche periferiche (i municipi)oggettivamente
inquinate “per mafia”.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 08/07/15, pag. 21
I migranti dimenticati sugli scogli di
Ventimiglia «Un giorno passeremo»
I primi arrivarono un mese fa. Sono rimasti in 51
DAL NOSTRO INVIATO VENTIMIGLIA Nell’Europa al contrario di Ibrahim la Svezia e la
Norvegia stanno a sud. Il ragazzo sudanese indica i due Stati, dei quali ha intuito forma e
nome. Io e la mia famiglia vogliamo andare qui, dice. Sophie, la gentile pensionata di
Mentone che dà ripetizioni volontarie di geografia ai migranti, prende la cartina e la gira.
Nord, quello è il nord, gli risponde, indicando con il dito un punto oltre il confine alto di
Ponte San Luigi. E per farsi capire si stringe le braccia, simulando brividi di freddo.
Questa mattina sugli scogli dei Balzi rossi la temperatura al suolo è di 43 gradi. Sotto alle
tende, che in realtà sono spessi teli di plastica fissati agli scorrimano della passeggiata, fa
ancora più caldo. I miasmi del cibo andato a male sovrastano l’odore del mare. In quella
più vicina al confine c’è un altro ragazzo steso su un telo. Tiene gli occhi chiusi. Parla da
solo, borbotta, in un mare di sudore. Ibrahim gli si avvicina, è suo cugino. Lo sveglia,
anche se in realtà non stava dormendo. Da sotto il materasso estraggono due biglietti del
treno, Ventimiglia-Parigi, 118 euro. La data è quella di tre giorni fa. «Ci hanno fatto
scendere a Mentone, e ci hanno riportato indietro. Ci avevamo già provato un’altra volta.
Questi erano i nostri ultimi soldi. Ma non ce ne andiamo. Al caldo siamo abituati. In Libia ci
hanno tenuto per due settimane chiusi in un container, ci facevano bere una volta al
giorno. Non ci spaventa restare qui sugli scogli. Ditelo ai francesi: noi vogliamo solo
passare, non ci fermiamo da loro, non ci interessa».
Domani sarà un mese. I primi sono arrivati il 9 giugno. Erano cinquanta, sudanesi ed
eritrei. Furono respinti dai gendarmi alla frontiera e decisero di passare la notte sugli scogli
a due passi dal confine, nell’ultimo lembo di Italia, per protesta. Poco dopo divennero
duecento, e furono giorni di tensione, di proclami e solenni impegni. Poi passò il tempo,
accaddero altre cose giudicate più importanti, in fondo va sempre così. L’attenzione si
spostò altrove.
Molti di loro se ne andarono, i più rassegnati. Sugli scogli sono tornati a essere quelli che
erano all’inizio. La conta di questa mattina dice 51. C’è una sola camionetta della Polizia a
guardarli. «Non se li fila più nessuno — dice l’agente —. Vadano dove vogliono, se ci
riescono, noi di certo non li inseguiamo, anzi». Ai lati della statale che conduce ai Balzi
rossi è pieno di auto parcheggiate. I bagnanti scendono con materassini e teloni e
scompaiono nella spiaggia sottostante. Il mercatino del venerdì è ricominciato. Al bar
dall’altra parte della strada ne parlano come se fossero cose inanimate. «Stanno fermi»
dicono alzando le spalle.
I migranti accampati sugli scogli erano una emergenza umanitaria e sono diventati un
elemento del paesaggio. Ogni tanto passa qualche troupe televisiva e allora Yussah, la
mediatrice culturale marocchina, si incarica di garantire colloqui precari con traduzioni
annesse. Intorno a questi cinquanta disperati si è formato un microcosmo di finta
normalità. Al mattino passano i volontari della Croce rossa, risveglio e acqua per tutti. Sul
marciapiede è stato montato un punto per la ricarica dei telefonini. Nelle ore più calde si
spostano quasi tutti all’ombra degli edifici in fondo alla passeggiata. All’ora di pranzo i
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migranti a digiuno per il Ramadan rivolgono sguardi languidi ai piatti di pasta cucinati dai
ragazzi dei centri sociali.
Al pomeriggio arrivano i volontari di Mentone e Ventimiglia, carichi di buone intenzioni e
libri donati dalle biblioteche. Le loro lezioni si svolgono a gesti, nessuno dei ragazzi che
cercano di apprendere qualche nozione utile sulle loro terre promesse parla inglese o
francese.
Le giornate non passano, si trascinano, in una solitudine e in un disinteresse piuttosto
palpabili. Enrico Ioculano, il giovane sindaco di Ventimiglia, si fa vedere due volte al
giorno, qui e in stazione, dove il vai e vieni ai binari è uno spettacolo crudele e surreale.
Da un treno in arrivo vengono fatti scendere i migranti respinti in Francia. Da quello in
partenza dal binario accanto salgono di soppiatto quelli che provano a passare. «Una volta
che il caso politico è stato disinnescato — dice Ioculano — siamo ritornati nel nostro
splendido isolamento. Io telefono e chiedo che cosa devo fare, nessuno mi risponde. Ma
se soltanto un mese fa questa era una grande emergenza europea, le sembra giusto che
adesso la debba risolvere il sindaco di Ventimiglia?».
I dimenticati dei Balzi rossi sono liberi di andare dove vogliono. Ma non si muoveranno da
qui. L’esodo è cominciato due venerdì fa, quando i migranti raccolti intorno alla radio
capirono che dal vertice europeo non sarebbe arrivato niente di buono per loro.
Quelli che restano sono i più disperati tra i disperati. Come Ibrahim e suo cugino, sempre
più affaticati dal digiuno. Al tramonto chiedono dove poter trovare una cartina che indichi
una strada tra le rocce, verso il confine più in alto. «Tanto prima o poi ce la faremo a
passare».
Li interrompe il suono del clacson proveniente da una colonna di auto che ha appena
passato il confine di Stato. Sono quelli della Fratellanza islamica di Nizza. L’imam
distribuisce pasti caldi a tutti. È scesa un’altra volta la sera, almeno si può mangiare.
Marco Imarisio
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WELFARE E SOCIETA’
del 08/07/15, pag. 15
Riforme. Rapporto dell’Osservatorio Cisl: il calo maggiore in Calabria (29%), Liguria e Umbria (-13%)
Il welfare locale perde 250 milioni
Furlan: «Fondamentale è realizzare un nuovo modello contrattuale»
La contrattazione aziendale annaspa, quella nazionale sempre più spesso fatica, così
stretto da una parte e stritolato dell’altro, il welfare languisce. A complicare il quadro il calo
della spesa sociale degli enti locali: -2,7% dal 2009 al 2013: circa 250 milioni di euro in
meno per tutte le politiche di welfare, dalla sanità alle tariffe. Maglia nera per la Calabria
che ha tagliato il -29% delle risorse ma male anche Liguria e Umbria con un calo del 13%
È l’Osservatorio Cisl a lanciare l’allarme con un dossier dal titolo «Fragilità economica e
fragilità sociale, una sfida per tutti: un #pattosociale per rigenerare il Paese» presentato
all’assemblea nazionale dei contrattualisti sociali del sindacato. Un lungo lavoro di
indagine, quello compiuto dal sindacato, che ha analizzato 3.653 accordi di contrattazione
sociale sottoscritti e siglati dai sindacati a livello territoriale dal 2008 al 2013 con una
media negli ultimi 4 anni di circa 800 ogni anno.
A guidare la classifica delle intese siglate le politiche socio familiari (con più di 2.150 azioni
in media all’anno), seguite dagli accordi in tema di politiche fiscali, tariffarie, prezzi, welfare
occupazionale, politiche socio-sanitarie. In più del 90% dei casi gli accordi sono stati siglati
dai sindacati con la Pa, più del 70% hanno difeso e mantenuto i sistemi di welfare
esistenti, poco più del 20% sono stati orientati a fare innovazione sociale e meno del 10%
a contrattare riduzione di servizi.
L’indice di propensione al sociale nel 2013, dice ancora il Report della Cisl, è più alto nel
comune de L’Aquila (56,9 % della spesa corrente), mentre all’ultimo posto della
graduatoria c’è il comune di Caserta con appena il 3,6 % della spesa corrente destinata ai
servizi sociali. «Nonostante le migliaia di accordi ed intese nei territori, la contrattazione
territoriale non ha ancora registrato una diffusione omogenea in tutte le realtà del paese»,
ha spiegato il segretario confederale della Cisl, Maurizio Bernava, illustrando la ricerca.
Per questo la Cisl si propone da una parte di portare a compimento quel «patto sociale»
con la politica, le istituzioni locali e nazionali, gli enti locali e il partenariato che è il suo
obiettivo in questi ultimi anni e dall’altra «di investire sulla contrattazione sociale nei
territori» per aprire una nuova stagione di partecipazione sindacale. Per la Cisl, infatti, dice
ancora Bernava, è «fondamentale» ripensare le politiche sociali territoriali ed accelerare la
riforma del welfare nazionale, in modo da offrire ai livelli decentrati riferimenti certi e stabili
per sviluppare la propria azione.
In quest’ottica diventa prioritario ha dichiarato Annamaria Furlan, segretario generale della
Cisl realizzare «un nuovo modello contrattuale». «In questi anni - ha proseguito Furlan abbiamo perso tanto in produttività, tanto in produzione industriale» mentre, secondo il
leader Cisl, «rilanciare la competitività delle imprese e del sistema paese si fa con più
contrattazione, non con meno». Necessario, inoltre, rilanciare «la contrattazione sia sui
luoghi di lavoro sia sui territori. Tanti anni di tagli al sistema sociale e ai Comuni hanno
realizzato interventi di riduzione dei servizi e dalla qualità. In un momento come questo ha sottolineato Furlan - definire insieme un nuovo modello contrattuale è fondamentale per
recuperare qualità di vita».
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Dell’8/07/2015, pag. 1-28
Oggi la parlano 548 milioni di persone sparse sui cinque continenti,
entro il 2050 sarà la prima anche negli Usa: è la lingua di Cervantes, che
già ha superato l’inglese, l’hindi e l’arabo mentre è la seconda per
utilizzo su Twitter e Facebook. Gli esperti sono d’accordo: è l’inizio di
una nuova rivoluzione globale
Habla Español
ALESSANDRO OPPES
MADRID
COSÌ preziosi da meritare una protezione speciale. I “gioielli” della lingua spagnola sono al
sicuro dietro una pesante porta blindata di forma circolare con una combinazione
segretissima, nei sotterranei della sede dell’Instituto Cervantes sulla Calle Alcalá di
Madrid. Qui un tempo c’era la sede del Banco Central, uno degli istituti di credito che,
dopo una serie di successive fusioni, diedero vita all’attuale Santander. E allora, l’idea di
mettere a profitto la stanza corazzata a beneficio della salvaguardia dell’idioma fu quasi
automatica. Cassette di sicurezza che tengono sotto chiave manoscritti inediti, testi,
documenti di scrittori, cineasti, musicisti, architetti, scienziati. Gli ultimi a depositare le loro
opere sono Jorge Edwards e Juan Goytisolo, preceduti da nomi del calibro di Juan
Gelman e Alicia Alonso, Luis García Berlanga e Antoni Tàpies, Carmen Balcells e Juan
Marsé: ognuno ha indicato la data — fra dieci, venti, o trent’anni — prima della quale non
sarà possibile aprire i preziosi scrigni. Una metafora del valore, anche economico, di una
lingua che è forse la più di moda al mondo. La parlano già quasi 550 milioni di persone
distribuite sui cinque continenti. Tempo tre o quattro generazioni, il dieci per cento degli
abitanti della terra comunicheranno in spagnolo. Ma — forse questa è la vera sorpresa —
saranno gli Stati Uniti il primo paese al mondo per numero di “hispanohablantes”, persino
più del Messico, che oggi surclassa tutti con i suoi oltre 120 milioni di residenti. Negli Usa
è già la lingua madre per 41 milioni di persone, cui si aggiungono 11 milioni di bilingue:
fatte le somme, si sono già lasciati indietro la Colombia e soprattutto la Spagna, da tempo
in crisi demografica. Mille anni di vita e il peso del tempo che non si fa sentire. L’idioma di
Cervantes è in crescita costante. Già oggi lo conosce il 6,15 per cento della popolazione
mondiale. Con il cinese mandarino (14,1 per cento) non c’è competizione, per pure ragioni
demografiche, ma le altre grandi lingue del pianeta sono già state superate di slancio, a
cominciare dall’inglese, e poi l’hindi e l’arabo. Un mondo di opportunità da non sprecare.
Per questo nasce — e a presentarlo con la massima solennità è stato re Felipe VI durante
la sua visita di Stato in Messico — un esame unico che dovrà permettere di valutare in
tutto il mondo il livello di conoscenza dello spagnolo. Né più né meno quello che accade
già, da tempo, con l’inglese, che ha i suoi “bollini di qualità” nelle prove geste
dall’Università di Cambridge (sei livelli, fino al “proficiency”) o, nel caso degli Usa, nei
conosciutissimi test del Toefl.
Sicuro che anche questa sigla diventerà presto di uso comune: “Siele”. Significa “Servicio
internacional de evaluación de la lengua española”. Ottenere il diploma che concederà
sarà d’ora in poi una garanzia a livello internazionale di aver raggiunto un eccellente livello
di conoscenza nel secondo idioma più diffuso del pianeta. Un marchio di qualità da
inserire in un curriculum, un punto in più per ottenere un posto di lavoro. L’iniziativa è stata
sviluppata in maniera congiunta dall’Instituto Cervantes (la prestigiosa istituzione culturale
che fa capo al ministero degli Esteri di Madrid, 90 sedi in 44 paesi), dalla Universidad
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Nacional Autónoma de México (la più grande del mondo in lingua castigliana) e dalla
Universidad de Salamanca, la più antica di Spagna e la quarta in Europa dopo Bologna,
Oxford e Parigi. L’esame consisterà in quattro prove: comprensione nella lettura,
comprensione uditiva, espressione e interazione scritta e orale. E tutte verranno realizzate
per via elettronica con collegamento online, per mezzo di un sistema di appuntamento
preventivo nei centri d’esame autorizzati. I quali, almeno nei primi tre anni, saranno
concentrati soprattutto in tre grandi paesi, da anni all’avanguardia nello studio dello
spagnolo: Cina, Stati Uniti e Brasile. Per le prime due prove, la valutazione sarà
immediata. Per le altre due, il giudizio verrà emesso da esperti accreditati nel giro di tre
settimane. Dopo, finalmente, si potrà ottenere il diploma che avrà una validità di due anni.
L’obiettivo iniziale è quello di esaminare almeno 300mila candidati l’anno, che entro il 2020
diventeranno 750mila. Le richieste non mancheranno. Anzi, c’è da prevedere che
comincino ad arrivare presto in grande quantità, visto che già oggi sono circa 21 milioni le
persone che studiano il castigliano in tutto il mondo, un milione e mezzo in più rispetto a
un anno fa. E con i paesi europei nei quali si re- gistra un forte aumento d’interesse: dalla
Francia alla Germania, ma nache all’Italia. E il futuro lascia prevedere un’ulteriore
tendenza alla crescita. Basti pensare che lo spagnolo è già la seconda lingua su Wikipedia
per numero di visite, preceduta solo dall’inglese: risultato non da poco, se si considera che
l’enciclopedia virtuale è disponibile in oltre 280 idiomi. Stesso discorso per Facebook e
Twitter, dove si conferma come la seconda lingua più parlata. Come ricorda un rapporto
presentato nelle scorse settimane dall’Instituto Cervantes in occasione del “Día E” (la
giornata dello spagnolo), il suo utilizzo su Internet è cresciuto del 1100 per cento tra l’anno
2000 e il 2013. Ma il vero impulso verrà dalle straordinarie potenzialità di sviluppo
economico offerte da un veicolo di comunicazione che già rappresenta la lingua ufficiale in
24 paesi, ha lo status di “co-oficial” in altri 12 ed è molto diffuso all’interno di grandi
comunità in almeno altri 30, tra cui Giappone, Brasile, Israele e Svizzera. In fondo, la forza
culturale ed economica dello spagnolo diede vita alla prima vera globalizzazione della
storia, quella che prese il via con il “descubrimiento” dell’America. Oggi, si calcola, il peso
in termini economici della comunità “hispanohablante” rappresenta il 10,8 per cento del Pil
globale. Praticamente a un passo dal 12,4 per cento della Cina.
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INFORMAZIONE
Dell’8/07/2015, pag. 12
Senato e Rai, mossa di Fi per tornare in
partita Boschi:ok su settembre
Romani offre i voti azzurri: ma deve tornare l’elettività Accelera il
riassetto della tv,tra una settimana in aula
Al Senato adesso si lavora sul doppio binario e tutto è possibile: riprende il cammino della
riforma costituzionale - con la prospettiva di un rinvio sempre più probabile del voto in aula
a settembre - e si accelera sulla riforma Rai, che invece già la prossima settimana
potrebbe approdare in aula. La novità di queste ore è una nuova, stavolta inattesa
apertura di Forza Italia. Se ne fa portavoce il capogruppo Paolo Romani, sponsor della
prima ora del Patto del Nazareno. Riunisce il gruppo nel tardo pomeriggio e prova a
convincere i senatori vicini a Verdini (10-12?) a restare, evitando una nuova scissione. Ma
soprattutto, cerca di far capire a Berlusconi che col dissenso dei 25 senatori Pd, Forza
Italia potrebbe tornare ad essere decisiva e centrale. «Quel patto è morto, ma si può
sempre dialogare sulle regole comuni», fa presente Romani, aprendo all’introduzione del
Senato elettivo sul quale il governo sembra disposto a trattare. Al suo fianco la fedelissima
berlusconiana Mariarosaria Rossi. E una prima tappa del nuovo dialogo col pd potrebbe
maturare sull’altra riforma, quella della Rai. In commissione Lavori pubblici al Senato
l’esame prosegue con l’obiettivo di arrivare al sì a giorni per portare il testo in aula martedì.
Ieri è arrivato il via libera anche a un emendamento a firma Gasparri e Minzolini (sulla
«revoca dei componenti del cda»). L’obiettivo del governo Renzi è varare la riforma nel
giro di alcune settimane e per poter nominare la nuova governance con lo schema
rinnovato. «Il testo lascia invariata la legge che porta il mio nome per 46 articoli su 47»,
commenta non a caso un soddisfatto Gasparri. C’è da lavorare invece sulla riforma del
Senato che torna in commissione Affari costituzionali. La presidente Anna Finocchiaro ha
illustrato nella sua relazione tutte le modifiche apportate dalla Camera. Oggi sarà definito il
calendario (probabili due settimane di lavoro in commissione per cercare l’intesa) e da lì si
capirà che margini ci saranno per ricucire con la sinistra Pd sui correttivi proposti dai 25, a
cominciare proprio dal Senato elettivo. Il ministro Maria Elena Boschi conferma che un
rinvio non è un tabù: «Sarà la commissione a decidere i tempi, teoricamente è ancora
possibile completare i lavori entro la pausa estiva, altrimenti si farà a settembre,
l’importante è non sprecare tempo».
Dell’8/07/2015, pag. 22
Banda ultralarga allarme dell’Agcom Italia in
forte ritardo
Cardani: “Tv, radio e giornali in difficoltà” Boldrini: “Crisi che va
arrestata”
CARLOTTA SCOZZARI
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MILANO . Il mondo italiano delle comunicazioni fatica a gestire il profondo cambiamento
che attraversa. E’ evidente nel mondo delle tlc, dove la diffusione della rete di nuova
generazione, la banda ultra larga, stenta a prendere piede. E’ quanto emerge dalla
relazione annuale 2015 dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom),
presentata ieri a Roma dal presidente Angelo Marcello Cardani. Le risorse economiche
complessive delle comunicazioni, secondo l’Agcom, a fine 2014, valevano 52,4 miliardi, il
6% in meno del 2013. Nel dettaglio, il settore dei media ha perso il 3,2%, quello postale il
2,3% e quello delle telecomunicazioni addirittura il 7,7 per cento. Tra i problemi delle tlc,
l’Agcom indica proprio la scarsa diffusione delle reti di nuova generazione: «Se per la
banda larga il divario è accettabile, gli indicatori su quella ultralarga presentano un grado
di arretratezza preoccupante rispetto all’Europa». In particolare, l’Italia registra un livello di
copertura del 36% contro il 68% dell’Unione Europea.
La crisi non risparmia i media “classici”, ossia giornali, radio e tv, che secondo i dati
dell’Agcom, nell’ultimo quinquennio, cioè nel periodo dal 2010 al 2014, hanno
complessivamente perso 2 miliardi di ricavi, «con punte superiori al 30% nel caso dei
quotidiani». La televisione, invece, «anche grazie alla sua funzione di intrattenimento,
mantiene una posizione importante». Nel settore dei quotidiani, ha sottolineato Cardani,
«è necessario un radicale ripensamento del disegno istituzionale e regolamentare. In
primo luogo occorre adottare un quadro di regole coordinate per i vari media, flessibile, al
passo con l’evoluzione del sistema e in grado di continuare a garantire il pluralismo
informativo. Il quadro dovrebbe tener conto in particolare delle specificità del web e del
primario ruolo di mezzo di informazione che esso va assumendo ». Non si è fatto
attendere il commento di Maurizio Costa, presidente della Fieg, la federazione degli
editori: «C’è un quadro di debolezza della carta stampata, sia per quanto riguarda i
quotidiani sia per i periodici, ma ci sono anche indicazioni per superare questa situazione.
Una possibile collaborazione tra l’editoria tradizionale e quella digitale è la giusta strada da
percorrere».
Mentre la presidente della Camera Laura Boldrini ha sottolineato l’impossibilità di fare a
meno dei mezzi di informazione «più classici» come i giornali e la necessità di riflettere
sulla crisi dell’editoria, contrastando il «costante declino» della diffusione dei quotidiani che
«non è compensato dalla crescita della versione digitale».
Anche il settore postale mostra una certa difficoltà a stare al passo con i tempi: il fatturato
di lettere e attività di corriere, dal 2010 al 2014 ha fatto segnare una flessione del 12,6%,
mentre i volumi sono scesi del 15%, «tendenza che prosegue nel 2015». Anche in questo
caso, secondo l’Agcom, «la digitalizzazione e l’uso di servizi di corrispondenza elettronica
sono strumenti di sostituzione del servizio tradizionale». Una tendenza di cui si dovrà per
forza tenere conto nel processo, in corso, di privatizzazione delle Poste Italiane.
Dell’8/07/2015, pag. 23
Nasce il super-editore Springer-Pro7
La Germania punta a creare un colosso da 15 miliardi tra carta
stampata, Tv e Internet
ANDREA TARQUINI
BERLINO. Ci provarono una prima volta nel 2006, ma l’Antitrust federale li stoppò. Adesso
tentano di nuovo, e se davvero si metteranno d’accordo nascerebbe nel cuore dell’Europa
un gigante mediatico, mix di potere della carta stampata, delle testate online e della tv di
massa. E allora preoccupazioni e riserve rispuntano anche adesso. Parliamo della Axel
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Springer Verlag, il gigante editoriale liberalconservatore di Berlino, e di Pro7 Sat 1 Media,
il seguitissimo gruppo di tv network privato tedesco, fondato dal defunto “Murdoch di
Germania”, il magnate bavarese Leo Kirch.
Dalla loro fusione nascerà un colosso dal valore in Borsa di almeno 15 miliardi di euro e
dal fatturato di circa sei miliardi. Un peso massimo insomma, nel panorama dei media del
Vecchio continente. E un’azienda politicamente molto vicina ad Angela Merkel. Da ieri
mattina, si è saputo che nuove trattative sono in corso. «Siamo appena agli inizi» dicono i
due gruppi mettendo le mani avanti, ma ammettono: «questa volta vediamo delle chances
concrete». Nessuno rileverebbe l’altro, si affrettano a precisare: sarebbe una fusione vera
e propria, a pari diritti e pari dignità. L’azionista di riferimento dovrebbe essere Friede
Springer, l’energica vedova del grande, aristocratico editore di Berlino Ovest il quale nel
dopoguerra con Bild, il quotidiano popolare più letto d’Europa, inventò un quarto potere
mediatico e politico apprezzato dai conservatori della Cdu di Adenauer, di Kohl e e temuto
dalle sinistre e ancor più dagli intellettuali critici. «Il loro sogno », dice Caspar Busse,
esperto di media della Sueddeutsche, «è creare un campione europeo dei media,
un’azienda di dimensioni e mezzi tali da poter tentare di competere con i giganti
nordamericani». Recentemente Matthias Doepfner, influente ceo del gruppo e uomo di
fiducia di Friede Springer, aveva fatto sapere agli azionisti che Pro 7 Sat 1 Media non è
più, in alcun modo, nei programmi del gruppo Springer. Poi però aveva anche parlato di
«aprirsi a nuovi orizzonti ». Molti fanno notare che proprio sulla questione della ripartizione
di controlli e poteri sembrano sorgere difficoltà. Soprattutto perché Friede Springer, appare
decisa a non accettare una riduzione di peso della sua quota attualmente determinante.
E’complesso trovare un accordo, anche perché il tv network fondato dal defunto Leo Kirch
vale in Borsa circa 9,8 miliardi di euro e Springer solo 4,7 miliardi, pur essendo l’editore
tedesco con la maggior quota di mercato, e un portfolio ben diversificato: da Bild al
quotidiano di qualità Die Welt. Un’alleanza rafforzerebbe ancora il peso di entrambi in
internet, dove la loro espansione è stata fortissima negli ultimi anni. Springer ha cercato
nelle offerte web a pagamento di bilanciare il calo dei ricavi nel cartaceo, potrebbe
ottenere ancora nuove piattaforme tra cui il news network N24, la app per le corse
Runtastic, un sito pubblicitario israeliano e un portale Uk di annunci di lavoro. Mentre Pro 7
Sat1 sta puntando sull’e-trade, con siti di viaggi e autonoleggi.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 08/07/15, pag. 1/13
Scuola, stretta finale I sindacati avvertono: a
settembre sarà il caos
E al Senato partenza lenta per il ddl Boschi
ROMA È l’ultimo atto. Dentro Montecitorio. Ma fuori, davanti alla Camera, una piazza
piena di bandiere colorate e striscioni molto creativi («Renzi #staisereno prenditi un Oxi»)
scandisce a una sola voce: «Non ci fermeremo, la protesta contro la Buona scuola non
finisce qui, ci rivediamo a settembre». Dopo dieci mesi di dibattiti, consultazioni online,
proteste, scioperi, giornate per «spiegare», annunci, scuse e passi indietro, al massimo
domani la Buona scuola diventa legge.
Da ieri sera a Montecitorio è cominciata la discussione del disegno di legge 2994b. È
l’ultimo passaggio parlamentare del testo già approvato in prima battuta dalla Camera il 20
maggio e poi dal Senato il 25 giugno.
Pochissime quindi le modifiche del disegno di legge licenziato da Palazzo Madama,
appena 140 gli emendamenti (sfoltiti all’ultimo momento) da votare, cui si aggiungono gli
ordini del giorno. Poi le dichiarazioni di voto, con il via libera finale che potrebbe arrivare
domani e, visti i numeri della maggioranza alla Camera, la Buona scuola sarà legge senza
problemi: dal primo settembre verranno dunque assunti 10o.701 precari, sarà dato più
potere ai presidi, verrà assegnato un bonus in denaro ai docenti più meritevoli. «La svolta
è ormai dietro l’angolo» esordisce in aula la relatrice del testo Maria Coscia (Partito
democratico).
Lo sanno le decine di professori, precari e non, che ieri erano davanti a Montecitorio
nonostante il grande caldo romano e che, guidati dal leader dei Cobas Piero Bernocchi
hanno cercato di raggiungere il Quirinale per chiedere al presidente della repubblica
Sergio Mattarella di non firmare la nuova legge. Torneranno anche oggi e domani insieme
agli studenti dell’Uds.
La Buona scuola diventerà legge ma loro non demordono. «La mobilitazione continuerà
anche durante l’estate - promette Rino Di Meglio della Gilda insegnanti - e a settembre
ogni istituto diventerà la Stalingrado della Buona scuola perché l’applicazione di questa
riforma incontrerà enormi difficoltà». Annunciano fiumi di ricorsi i sindacati che
l’opposizione contro la riforma in questi mesi ha unito come non succedeva da anni.
Flc Cgil, Cisl scuola, Uil scuola, Fnals Confsal, Gilda: insieme hanno riunito gli uffici legali
«per rispondere alle centinaia di ricorsi che arriveranno da settembre da parte di precari
non assunti, ma anche contro le decisioni dei presidi trasformati in manager».
E si promette battaglia anche dentro il Parlamento. Il Movimento 5 Stelle chiede a
Mattarella di non firmare la legge «perché incostituzionale»: «La nostra opposizione è
totale e assoluta - dice in aula Gianluca Vacca - perché la riforma sarà dannosa per la
scuola italiana».
Elena Centemero, responsabile scuola di Forza Italia, spiega che «le proteste sono
eccessive: nel testo ci sono delle criticità ma la nostra scuola ha bisogno di cambiare e ora
alcuni passi vengono fatti».
Ma, prevede Domenico Pantaleo (Cgil) «l’anno scolastico comincerà nel peggiore dei
modi, sarà un autunno molto caldo».
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Se la riforma della scuola sarà legge adesso, sembra però ormai deciso che quella del
Senato slitterà a settembre. Anche se ieri sera il ministro per le riforme Maria Elena Boschi
ha mostrato fiducia: «Ci sono margini per fare un buon lavoro prima della pausa estiva».
Claudia Voltattorni
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CULTURA E SPETTACOLO
del 08/07/15, pag. 12
Ora stupite: con la cultura si mangia
L’Swg e La Sapienza hanno condotto una ricerca sui motivi che
spingono gli italiani a “consumare” momenti culturali
Li illustra il sociologo Enzo Risso in esclusiva su L’Unità
Stefano Miliani
Dai film Garrone, Moretti e Sorrentino passati per Cannes agli show di Caparezza ora in
tour, dai racconti di Stephen King attesi per novembre alle mostre, conta soltanto quanti
biglietti staccano, quante copie vendono i libri? Schiacciati da un culto-tritasassi per il diomercato, una ricerca dell'Swg con La Sapienza di Roma sposta l'obiettivo e regala
sorprese. Come il farci sapere che il 48% degli italiani vorrebbe visitare più musei; che, in
barba ai leghismi, il 56% vorrebbe conoscere più luoghi e altre culture e viaggiare; che il
40% vorrebbe più musica dal vivo.
L'istituto di ricerca con il suo direttore scientifico e docente di sociologia a Macerata Enzo
Risso ha condotto questa innovativa analisi sui consumi culturali con il Centro
interdipartimentale di ricerca e servizi Digilab dell'università romana diretto dal professore
Fabio Grasso, insieme a docenti tra i quali Alberto Marinelli in primo luogo, che insegna
Teoria e tecniche della comunicazione e dei nuovi media; Romana Andò, ricercatore di
Teoria e analisi delle audience, Giovanni Ragone, docente di Storia dell'arte e spettacolo.
Ci pare non esista qualcosa di analogo in Italia. I dati sono stati raccolti a fine 2014 su un
campione di un migliaio di persone rappresentativo della popolazione per strati sociali, età,
zone geografiche, grado di cultura.
Passione e conoscenza
È Risso a illustrare la ricerca: «È strutturata in otto "orbite". Noi andiamo a teatro, al
cinema o in vacanza non solo in base all'utilità o al prezzo, ma anche in base a come
questo ci rappresenta. Le otto "orbite" sono i fattori che sovrintendono il consumo di
cultura, cioè i motivi per cui compriamo un libro, andiamo a una mostra, stiamo in
panciolle». Il primo fattore è «Contemplazione e creatività» e .«coinvolge quasi il 20%
delle persone. Per loro la cultura è un luogo di passioni, di creatività, di ricerca del bello: si
compra per star bene, per coltivare le pulsioni più profonde, per dare spazio alla propria
creatività. E se la ragione principale è questa e non è non sentirsi il sentirsi "in", allora si
può capire meglio perché alcuni grandi mostre hanno avuto successo. Andare a vedere
Van Gogh è un modo per stimolare la propria creatività, per cercare il bello. Un motivo
altrettanto importante è la «conoscenza a tutto tondo », ovvero l'acquisire conoscenza: è
la seconda orbita e riguarda il 18%». Parlare di «consumo» non però una contraddizione?.
«No, non è in questo senso che parliamo di consumo culturale. Né rilevare che la cultura
fa star bene significa denigrarla. Al contrario: ricordiamo che il cinema nasce come
divertimento, pure il teatro e la danza nell'antica Grecia erano un momento di distrazione».
Divertirsi o sentirsi élite?
Il direttore scientifico di Swg indica altre «due orbite»: nella terza, chiamata «Esperienze
dirette» transita il 14,3% circa delle persone. «È chi vuole vivere direttamente la cultura
andando in un museo e non in rete, visitando città d'arte, facendo esperienze enogastronomiche particolari come prendere il lardo di Colonnata dal piccolo produttore e non
via internet, andando a sentire Vasco Rossi o Bruce Springsteen per vivere e sudare il
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concerto». Riguarda invece il 12,7% la quarta «orbita», «Accesso esclusivo », opposta in
qualche modo alla terza: «Riguarda chi vuole sentirsi parte di un'élite anche se non ne fa
parte. Volendo fare un esempio, potrei citare l'andare alla "prima" della Scala o all'Arena di
Verona o a uno spettacolo di teatro d'avanguardia: l'esperienza mi fa sentire diverso da
altri e uguale a pochi altri». «Queste sono le prime grandi quattro orbite che sovrintendono
le scelte culturali - continua Risso - Altre sono più di nicchia. L'll,4%, "Tecnologia e web", è
totalmente legato a internet, all'essere sempre informati sulle novità, sulla tecnologia; per
lui o lei la cultura significa costante innovazione». Passiamo alla sesta motivazione
indicata dagli italiani intervistati, «Titoli e comunicazione»: « er il 9,5% la cultura è un
modo per migliorare la propria condizione sociale, per saper stare al mondo e dialogare.
Non rappresenta la maggioranza come negli Sessanta- Settanta, eppure è una quota
importante, dopo la sbornia degli anni Ottanta e Novanta in cui contavano solo i soldi che
si potevano fare senza sapere niente ». Nella settima voce, «Religione e tradizione», la
ricerca individua un 8,3% del totale: «Qui si consuma cultura attraverso riti e feste per
riscoprire radici, siano esse religiose siano laico-identitarie»: Nell'ultima e ottava orbita,
«Partecipazione », ruota il 6,3%. «È la cultura vissuta come strumento per partecipare, è
far parte di associazioni tipo la banda di paese. È un segmento minoritario, però ha un
certo peso», osserva Risso.
Conoscere per star bene
Risso ritiene cruciale anche la domanda sul perché si «consuma cultura». Erano possibili
più risposte. L'opzione più gradita è risultata il voler «miglio- . rare le proprie conoscenze»
con il 67% delle risposte affermative, seguite dal «crescere come persona» (57),
«Conoscere meglio il mondo» (SO), «condividere interessi e passioni» (37), Agli ultimi
posti si collocano il «passare il tempo con i familiari» (11), «estraniarmi dal mondo» (7) e,
all'ultima emblematica posizione, finisce il «sentirsi importante » con il 6%. Anche le
risposte per descrivere cosa sia la cultura, suggerisce il sociologo, sono significative. Il
questionario prevedeva più possibilità in una scala da - 3 (motivazioni negative) a + 3.
Quelle positive hanno visto primeggiare «la curiosità che stimola un viaggio» e «Un libro
da cui imparare» (entrambi a+ 1, 7), seguiti dal «rimanere incantati davanti a un'opera
d'arte stupenda» ( + 1,6). In negativo spicca l'intendere la cultura come «una persona che
si sente superiore agli altri» (-1,0), l'idea che sia «una perdita di tempo» (- 0,9), che la
cultura riguardi chi è «distaccato dal mondo» (-0,8), che sia «qualcosa di vecchio» (0,7).
Infine, non piacciono le «Sale da concerto affollate da persone saccenti» (-0,6) e, ultima
figura, chi viene identificato come «Un professore arroccato nel suo sapere» (-0,5) .
del 08/07/15, pag. 13
“L’indagine svela un’Italia vitale
Non rattrappita”
I professori Marinelli e Andò interpretano i dati della ricerca Swg
L’ osservatorio sui bisogni e consumi culturali costruito da Swg e dalla Sapienza di Roma,
ha visto l'intervento diretto. dei docenti universitari della Sapienza (ma, tanto per chiarire,
ci hanno messo del loro tempo, non ha portato compensi a chi lo ha guidato, né nella
società di ricerca né nell'ateneo). Alberto Marinelli, docente di Teoria e tecniche della
comunicazione e dei nuovi media, con Romana Andò, docente di Sociologia della
comunicazione e della moda, dalla sede della Sapienza, illustra come hanno pensato la
ricerca: «Vogliamo capire la percezione della cultura per cui alle persone abbiamo
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suggerito immagini. Ad esempio per descrivere la cultura abbiamo indicato anche il
"professore arroccato nel suo sapere" o la "persona che si sente superiore agli altri"»,
elementi logicamente giudicati in modo negativi.
Cittadini consapevoli
Nel complesso, che atteggiamenti delinea l'indagine? Che tipo di persone siamo?
«Complessivamente emerge una dimensione matura e consapevole, affidata alla
profondità e non alla superficie -osserva Marinelli - Affidata a un rispettoso equilibrio della
propria esperienza di vita, come momento significativo. Bando alla superficialità e alla
moda emergono bisogni sostanziali e armonici; la cultura è inserita nel flusso della vita per
cui me la vado a cercare in parchi o siti archeologi. .. Come traspare dall'intera ricerca, il
momento culturale è vissuto come qualcosa che mi cambia in positivo: non mi sposta nella
scala sociale ma è molto importante per me, è un'esperienza che faccio soprattutto con gli
altri, come dimensione sensoriale: rimanere incantati davanti a una statua o anche andar
per fiere o immergersi nella natura sono tutte dimensioni attive». La definizione di «attivo
», avverte Marinelli affiancato da Romana Andò, non esclude la lettura. «Anzi, leggere è
un'esperienza molto rilevante». La ricerca conferma che la radio è molto amata, non solo
ascoltata: «Sì, emerge come passione, è il pacchetto più rilevante». Ma, ci tiene a
sottolineare il docente, questo rilevamento porta a galla qualcosa che ha un forte
significato economico: «Secondo me qui ci sono indicazioni precise sui punti di Pil che
muove la cultura perché le spese per viaggiare, il voler visitare musei come dice il 48%
degli intervistati, sono attività che arricchiscono il Paese, provocano un ritorno economico.
Di cultura si vive, migliora la propria esistenza e quella degli altri, riempie la mia
espressione di vita. L'idea che non si mangia con la cultura fortunatamente mi pare
dissolta o che si stia dissolvendo. E questi dati descrivono tutto tranne una società
rattrappita o in crisi».
Una e centomila tribù
È il direttore scientifico dell'Swg Enzo Risso ad aggiungere un elemento di valutazione che
lui e i docenti reputano decisivo: quando individuano una categoria di «consumatori» non
è una categoria separata dalle altre. «Non sono sfere chiuse o bloccate: secondo i
momenti possiamo scegliere il concerto per vivere la passione o la gita nel piccolo centro
per riscoprire tradizioni. La retorica secondo cui ognuno sceglie in base a uno stile di vita
non esiste più: siamo tutti bricoleur, · direbbero i francesi: possiamo scegliere un
appuntamento per sentirci élite e il giorno dopo uno sgarrupato concerto rock per
scatenare le nostre pulsioni». Il sociologo cita un esempio da un non addetto ai lavori
nell'arte: «Una mostra genovese su Lucio Fontana ha avuto un gran successo. Rispetto
alle solite esposizioni sugli Impressionisti aveva evidentemente qualcosa di diverso: anche
se uno non capisce i tagli sulla tela del pittore, ha potuto immergermi in un'altra
dimensione del bello e, infatti, la ricerca del bello risulta essere tra le prime motivazioni».
Capire queste motivazioni, conclude il sociologo, può aiutare il marketing. E, aggiungiamo,
aiuta a comprendere cosa siamo, cosa vogliamo.
Ste.Mi.
del 08/07/15, pag. 20
PRIMO MONITORAGGIO
Le fondazioni liriche verso il riassetto
Le fondazioni liriche intraprendono la strada del risanamento. Il primo monitoraggio
effettuato dal commissario Pier Francesco Pinelli dimostra che i bilanci degli enti più
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disastrati, che rischiavano la liquidazione, si stanno lentamente rimettendo in carreggiata.
La relazione - che Pinelli ha inviato ieri ai ministeri dei Beni culturali, dell’Economia e alla
Corte dei conti - registra, infatti, un aumento dei ricavi, una riduzione dei costi, un
incremento della produzione degli spettacoli. «C’è - afferma Pinelli - un miglioramento
generale su quasi tutti i fronti, segno che la cura iniziata l’anno scorso sta iniziando a dare
risultati. È però necessario mantenere alta la guardia per centrare in pieno entro il 2016 gli
obiettivi contenuti nei piani di risanamento».
Questo monitoraggio - il primo di una serie di verifiche semestrali - ha coinvolto cinque
enti: il Maggio musicale fiorentino, il San Carlo di Napoli, il Verdi di Trieste, l’Opera di
Roma e il Comunale di Bologna. I primi tre navigavano in brutte acque per via di bilanci in
profondo rosso ed erano commissariati - insieme al Massimo di Palermo e al Petruzzelli di
Bari - già all’epoca del primo decreto Cultura (il Dl 91/2013). Con quel provvedimento si
decise, pertanto, di aiutarli mettendo a disposizione un fondo di rotazione di 75 milioni di
euro per ristrutturare i forti debiti. Insieme al fondo, il decreto stanziò altri 25 milioni a titolo
di anticipazioni. Quella dote iniziale di 100 milioni è poi arrivata - per effetto del secondo
decreto Cultura, il Dl 83/2014 più conosciuto come Artbonus, voluto dall’attuale ministro
Franceschini - a 150 milioni. Nel frattempo, a quelle cinque fondazioni commissariate se
ne sono aggiunte altre tre (Carlo Felice di Genova, Opera di Roma e Comunale di
Bologna), anch’esse con i conti in dissesto. Solo cinque di quelle otto fondazioni hanno
finora visto approvati dal ministero i piani di riassetto. Si tratta del Maggio fiorentino, del
San Carlo, dell’Opera, del Comunale e del Verdi. Mancano ancora all’appello i teatri di
Genova, Palermo e Bari. Un ritardo che, secondo Pinelli, è attribuibile unicamente a
ragioni burocratiche.
È, dunque, sui cinque piani approvati che si basa il primo monitoraggio. I preconsuntivi
2014 e i bilanci preventivi 2015 sono stati messi a confronto con gli obiettivi indicati nei
programmi di risanamento, che rispondono a quanto chiesto dai due decreti Cultura. In
particolare, il traguardo che le otto fondazioni devono centrare entro il 2016 - pena la
liquidazione degli enti ancora in rosso - è di aumentare complessivamente del 40%
l’offerta di spettacoli, di incremetare i ricavi dell’8% (passando da 222 a 239 milioni), di far
crescere i contributi dei privati portandoli a 76 milioni, di ridurre i costi del 9%, facendoli
scendere da 236 a 215 milioni, di contrarre del 10% il personale, che dovrebbe contare
2.635 addetti contro i 2.885 del 2013, di ridurre il debito del 4%, da 233 a 223 milioni. Per
raggiungere questi obiettivi sono già stati allocati 146,2 milioni dei 150 disponibili. Dei fondi
allocati, 121 sono già stati approvati e 100,5 stanziati. A fronte di questi impegni, la
relazione ci dice che la produzione di spettacoli è aumentata sia rispetto al 2013 sia in
relazione ai traguardi da raggiungere nel 2014: le alzate sono state, infatti, 816, il 22% in
più del 2013 (quando erano state 663) e nel 2014 si pensava di arrivare a 796
programmazioni. Allo stesso tempo sono cresciuti i ricavi totali, seppure in maniera più
contenuta rispetto all’aumento della produzione: siamo a 163 milioni, contro i 161 del
2013, ma l’obiettivo 2014 era fissato a 168 milioni. «Questo è dovuto - spiega Pinelli soprattutto al fatto che i ricavi da biglietteria, che pure crescono nel complesso,
diminuiscono però del 12% per singolo spettacolo». Scendono i costi totali, passando da
170 milioni del 2103 a 152 (-10%) del 2014: obiettivo centrato, perché il traguardo per
l’anno scorso era a 158 milioni. La contrazione delle spese è effetto soprattutto delle
minori uscite per il personale (da 115 a 104 milioni) e dei costi di produzione (da 33 a 29
milioni).
In controtendenza è, invece, la situazione debitoria: nel 2013 le cinque fondazioni prese in
esame erano, nel complesso, esposte per 188 milioni, diventati 206 nel 2014. «Su questo
parametro - spiega Pinelli - pesa il fatto che i piani di risanamento sono stati chiusi a fine
ottobre 2014, ma i soldi del fondo di rotazione sono arrivati a gennaio di quest’anno». Se il
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primo monitoraggio indica, in generale, l’avvio di un percorso di risanamento del belcanto,
uno sguardo più analitico rivela che il Maggio fiorentino e il Comunale di Bologna avranno
anche nel 2014 un risultato di esercizio negativo, mentre l’Opera di Roma e il Verdi di
Trieste raggiungono il segno più anche grazie a manovre di bilancio. Inoltre, c’è da rilevare
che per gli enti di Firenze, Bologna e Trieste il margine operativo lordo è negativo e
diventa positivo solo in virtù di eventi di carattere non ripetibile, sui quali non si può fare
affidamento nelle prossime gestioni. Alla luce di tali considerazioni, il risanamento, scrive
Pinelli nella relazione, «rimane un obiettivo possibile e impegnativo, con gradi di difficoltà
differenti a seconda delle specificità di ciascuna fondazione».
Antonello Cherchi
del 08/07/15, pag. 19
Una “casa” unica per il cinema italiano
Un Centro nazionale per l'audiovisivo è previsto nel disegno di legge
presentato al Senato dal Pd
Un luogo unico per contenere le infinite istituzioni, associazioni dipartimenti che si
occupano i cinema, e una nuova proposta per un "prelievo di scopo" a sostegno della
produzione cinematografica, quindi artistica e culturale. È il disegno di "legge quadro" per
il riassetto del settore cinematografico e audiovisivo, presentato al Senato da 46 senatori,
la maggior parte del Pd, prima firma Rosa Maria Di Giorgi, e da parlamentari di altri gruppi,
dei quali alcuni ex grillini. L'ispirazione viene dal modello francese, che con una legge del
1946 promuove lo sviluppo del cinema. L'idea principale è quella di istituire un Centro
nazionale del cinema e delle espressioni, una sorta di "casa" istituzionale che contenga in
sé quella frammentata galassia di soggetti che si occupano dell'audiovisivo: il Ministero dei
Beni culturali, la Fondazione centro sperimentale di cinematografia, la Cineteca nazionale,
la Scuola di cinema, almeno sei ministeri e altri enti, dalla Polizia Postale alla Conferenza
delle Regioni fino alla Siae.
Troppi, l'alternativa proposta dai senatori Pd, e presentata ieri a Palazzo Madama da Di
Giorgi, Lorenza Bonaccorsi, responsabile Cultura del Pd , Francesco Martinotti, direttore
del Festival France Odeon e da pochi giorni presidente dei produttori dell'Anac, è quella di
una istituzione unica. Avrà un cda, un direttore e un presidente nominato con un decreto
del presidente del Consiglio su indicazione del Mibac. Il rischio che si ricreino i
meccanismi delle nomine Rai «l'abbiamo considerato», spiega la senatrice che è membro
della commissione Istruzione, ma si tratta di razionalizzare il sistema e non esisterà più
una direzione Cinema al ministero dei Beni culturali o altre sovrapposizioni.
La quota di solidarietà
Il secondo punto chiave del disegno di legge è il “cosiddetto prelievo di scopo", un piccolo
contributo ricavato dalle attività di produzione e distribuzione di prodotti cinematografici e
audiovisivi, che siano proiettati nelle sale o trasmessi in televisione o guardati via internet
o da uno smartphone, tanto più con l'arrivo di Netflix. Un principio di "generosità" che porti
a «superare i particolarismi », spiega Di Giorgi, e perché il settore stesso possa vivere
anche sulle proprie risorse. Il che non esclude il finanziamento pubblico, perché la tax
credit e il Fus, il Fondo unico per lo Spettacolo, restano e, con la nuova legge, verrebbero
gestiti dal Centro nazionale, per il 2015 sono già stati stanziati 5 milioni di euro per la
produzione di film. La proposta di legge prevede anche un Registro del Centro nazionale
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di Cinema, in nome della trasparenza, per chi ha ricevuto contributi pubblici e sanzioni per
chi non rispetterà le normative.
Certo non sarà facile superare le resistenze al versamento delle quote ma la senatrice Pd
porta l'esempio della tassa di scopo imposta agli albergatori fiorentini proprio quando era
sindaco Matteo Renzi «hanno protestato, abbiamo discusso ma adesso fila liscio, con
somme simboliche che però vanno nelle casse del Comune di Firenze».
Sarà «Una battaglia da fare», avverte Di Giorgi, per superare le spinte corporative tipiche
dell'Italia, rassicurata però dall'interesse mostrato dal governo attraverso il ministro dei
Beni culturali, Dario Franceschini, che ha inserito la proposta nel programma di Palazzo
Chigi.
Tante volte, infatti, i ddl sul cinema si sono arenati, l'ultima nella legislatura scorsa proprio
al Senato, dove si erano già svolte molte aμdizioni di personaggi del settore
cinematografico. Il 14 luglio si terrà una consultazione pubblica nella sede Pd al Nazareno,
«ospiteremo gli operatori per confrontarci su questo testo, e vedere dove intervenire», ha
spiegato Lorenza Bonaccorsi, che ha segnalato come «il settore necessiti di una legge da
qualche anno, perché c'è troppa frammentazione di competenze».
Il j'accuse di Zavoli
Alla conferenza stampa nella sala Nassiriya il senatore Pd ha apprezzato l'iniziativa
parlamentare ma ha denunciato il fatto che «gli intellettuali italiani primeggiano per la loro
assenza», in un impoverimento della qualità, dai premi letterari ai talk show, perché «la
banalizzazione prodotta dalla tv ha disamorato il pubblico dal criterio del bello. Il peggio
dalle tv è dato proprio dove si riceve il massimo di consenso e non si fa nulla per rompere
questo legame».
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ECONOMIA E LAVORO
del 08/07/15, pag. 4
La crisi greca sull’Italia
Il rapporto. Anche il Fondo monetario sconfessa Renzi sulla
sostenibilità dei nostri conti pubblici. E il premier dal Cern di Ginevra
esalta la svolta «dell’Europa nella scienza»
Roberto Romano
Alla fine anche il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) è costretto a scrivere che la crisi
greca condizionerà la crescita italiana e la sostenibilità dei conti pubblici. E, fatto singolare,
lo fa nello stesso testo che esalta le «riforme» governative come il Jobs Act.
La rilevanza del rapporto del Fmi pretenderebbe almeno che Matteo Renzi parli sui risultati
del referendum in Grecia, li metta davvero al centro dell’iniziativa in Italia e in Europa. ma
finora, oltre un elenco di indicazioni per supportare il ministro Padoan nell’opera di
nascondimento dei problemi strutturali del belpaese, ci si è limitati ad esaltare dal Cern
una svolta «dell’Europa nella scienza». E ieri inaspettatamente, nel segno del disprezzo
pronunciato da jean Claude Juncker all’Europarlamento, ha sfottuto la centralità evidente
della crisi greca chiedendo di farla finita con «questo Truman show».
Il rapporto presentato dal Fondo monetario internazionale (Fmi) sullo stato dell’economia
nazionale, redatto il 16 giugno, cioè prima che precipitasse la crisi greca — ma già era più
che esplosa — sottolinea la marginalità dell’economia nazionale. Renzi e Padoan hanno
sempre detto che l’economia italiana sarebbe al riparo dall’implosione delle trattative
europee sulla Grecia, ma hanno mentito fin dall’inizio.
Infatti, i funzionari (esperti?) del Fmi citano la crisi della nazione ellenica tra i rischi al
ribasso per l’Italia, con una preoccupazione circa le implicazioni di lungo termine se la
percezione dell’irreversibilità dell’area euro dovesse cambiare permanentemente.
Ma il rapporto degli esperti del Fondo monetario internazionale è ancora più duro quando
ri-ripete che la ripresa è ancora fragile. Le stime di crescita non si schiodano da quelle
note, 0,7% per il 2015 e 1,2% per il 2016, e ribadisce che sono le più deboli tra tutti i paesi
dell’area euro, al netto della Grecia.
Sono richiamate le solite riforme, ma questa volta utilizza un termine più ambiguo.
Richiama generici problemi di medio termine, e utilizza il termine colli di bottiglia. Se le
riforme su Jobs Act, Fisco e Pubblica Amministrazione sono riforme coraggiose, allora i
colli di bottiglia sono imputabili ad altri problemi e sono, purtroppo, molto più seri. Il
continuo richiamo all’alta disoccupazione e all’alto rapporto debito-PIL, probabilmente,
sotto-intende un problema di struttura che le politiche richiamate solo a margine possono
risolvere.
Si richiama la necessità di privatizzare, di alleggerire il bilancio pubblico e il carico fiscale
sul lavoro, ed altre misure simili, ma il Fmi sa benissimo che più di tanto non si può fare.
L’Italia è il paese che più di altri ha pedissequamente seguito i dettami della Troika, con
avanzi primari e riduzione della spesa pubblica che non ha eguali nei paesi europei.
Il problema dell’Italia è la crescita economica, e se abbiamo fatto tutte le riforme suggerite,
perché non si manifesta e rimane lontana dalla media degli altri paesi?
Rimane la riforma di struttura più importante, anche se il Fmi non lo dirà mai: quella della
struttura produttiva che produce beni e servizi a basso valore aggiunto, interamente
piegata alla concorrenza di costo.
Il Quantitative Easing non è servito molto alla crescita, e con la crisi greca potrebbe
cambiare persino la sua natura-obiettivo. Rimane l’imbarazzo del primo ministro Renzi e
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del ministro dell’Economia Padoan quando sostenevano che la crisi greca non colpirà
l’Italia più di tanto perché abbiamo fatto le riforme che il mercato chiedeva.
Se almeno imparassimo a non mentire sarebbe una bella rivoluzione. Adesso abbiamo la
consapevolezza che la crisi greca colpirà tutte le economie europee e perseverando
nell’impostazione del pareggio di bilancio, non ci sono ragioni per credere il contrario,
dobbiamo aspettarci una bella manovra aggiuntiva rispetto a quella già preventivata.
del 08/07/15, pag. 4
«Roma chieda la conferenza sul debito»
Camera. La mozione proTsipras: Renzi cambi verso, si schieri con la
Grecia
Il governo italiano aiuti la Grecia «a sostenere le sue ragioni in tutte le sedi europee e
presso l’Eurogruppo e il Consiglio europeo», sostenga il rispetto della «sovranità nazionale
e del mandato democratico» e si impegni «nelle sedi Ue ad affrontare la questione del
debito pubblico dei Paesi più esposti». Ieri alla camera il gruppo dei parlamentari che
domenica scorsa è andato ad Atene a sostenere Alexis Tsipras e il suo governo (molti del
gruppo di Sel, l’ex Pd Stefano Fassina, il democratico Alfredo D’Attorre e l’ex M5S
Francesco Campanella) con l’aggiunta di Pippo Civati, hanno presentato una mozione per
chiedere a Renzi di non assumere un atteggiamento solo «notarile» sulla vicenda greca.
Anzi, di cambiare verso. Ad esempio promuovendo una conferenza per la ristrutturazione
dei debiti, che era già una delle richieste di Tsipras alle europee del 2014. E che potrebbe
realizzarsi «attraverso iniziative di rinegoziazione, stabilendo una diversa rimodulazione
sulla base dell’effettiva crescita e ripresa economica; e anche promuovendo l’emissione di
eurobond finalizzati alla riduzione del debito». Nel testo si chiede di avviare con gli altri
partner europei «un processo di riforma dei trattati che promuova l’allentamento dei
parametri del fiscal compact». E infine si chiede «un’indagine conoscitiva nelle
commissione parlamentari competenti per ricostruire le origini e i detentori del credito
italiano vantato verso la Grecia». Un’iniziativa, spiegano, utile a fare chiarezza sull’origine
dell’indebitamento di Atene.
Non hanno firmato i deputati grillini, che pure erano presenti in forze in piazza Syntagma
alla festa della vittoria del ’no’. E se ne capisce il motivo: il M5S propone un referendum
per l’uscita dall’euro, che pure in Italia non si potrebbe svolgere perché la Costituzione lo
vieta. Una linea tutta diversa da quella del governo greco. Proprio per evitare il rischio di
alimentare confusioni, i dirigenti di Syriza sabato e domenica non hanno ricevuto i 5 stelle
nella sede del loro partito. Ed anzi, anche in piazza, hanno fatto in modo di evitare di
trovarsi al fianco dei grillini.
del 08/07/15, pag. 4
Un No che ci carica di responsabilità
Dopo il referendum. Il rifiuto greco del memorandum interroga gli altri
paesi del sud dell'Europa. Se la sinistra italiana non saprà rispondere
alla sfida lanciata da Atene il nostro default politico sarebbe totale
Gaetano Azzariti
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Non si è trattato di una sfida tra democrazia e tecnocrazia, bensì tra due concezioni di
democrazia, tra due visioni politiche. Non è vero infatti che sia stata la troika a imporre
l’austerità, sono stati i governi degli Stati — legittimamente eletti — a delegare alle
istituzioni finanziarie il compito di attuare le misure economiche di stampo neoliberista
volontariamente decise dagli Stati stessi in sede europea.
Visioni inconciliabili
I Trattati e i reiterati accordi tra i paesi membri dell’Unione europea (dal Six-Pack al Fiscal
compact al Two-Pack) sono le fonti normative che hanno generato le misure di rigore
europee. Il governo greco — anch’esso legittimamente eletto — chiede ora di cambiare,
denuncia l’insuccesso delle misure di austerità sin qui seguite che hanno portato molti
paesi ad un passo dal tracollo, hanno impedito la ripresa, non sono riuscite ad affrontare le
questioni che strutturalmente caratterizzano la debolezza economica dei singoli paesi. In
questo quadro c’è poi la questione specifica della Grecia, il cui debito è un ostacolo per
ogni possibile ripresa del paese.
Ciò che ha impedito l’accordo tra i diciotto Stati dell’eurozona non è stato il debito, bensì le
inconciliabili visioni di politica economica. È questa la vera questione che il governo greco
e ora anche il suo popolo ci pongono.
Incamminarsi verso l’ignoto
Il No greco al memorandum dei creditori e all’ideologia da questo espresso rappresenta il
rifiuto di un modello di sviluppo. Ci carica di responsabilità interrogandoci sulla nostra
concezione di democrazia, sul rapporto tra diritti e mercato, sull’idea di società. Ci invita ad
abbandonare il noto (le politiche sin qui seguite) per incamminarci verso l’ignoto (almeno
in Europa: negli Stati uniti la ripresa c’è stata proprio grazie all’abbandono delle politiche
recessive).
Una sfida straordinaria. Sapremo in grado di raccoglierla?
Quel che può dirsi e che non basteranno le astuzie o i tentativi di addolcire le politiche sin
qui seguite. La Grecia ci ha mostrato che non si può puntare su un’«austerità espansiva»,
ma è necessario puntare ad una rottura di continuità.
Ciò vuol dire cambiare i Trattati e gli accordi che definiscono le politiche economiche e
sociali tra Stati. Vuol dire riscoprire un’Europa politica e sociale, prendere sul serio quel
che è pur scritto nel preambolo della Carte dei diritti dell’Unione europea («L’Unione pone
la persona al centro della sua azione»), ma che è stato travolto dal dominio arrogante e
disumano delle politiche di mercato.
È evidente che un’impresa così grande non è nella disponibilità di un solo paese o di un
piccolo popolo, per quanto orgoglioso e consapevole possa essere. Ed è anche per
questo che il referendum greco ci interroga direttamente e assegna ai popoli e a tutti gli
Stati europei una responsabilità immensa.
Niente egoismi nazionali
L’obiettivo di cambiare i Trattati e far adottare politiche sociali alle istituzioni europee
(comprese quelle finanziarie e bancarie) potrà essere raggiunto solo a seguito di una
difficile e responsabile lotta politica da svolgere in Europa. Non si potrà concedere nulla al
populismo, neppure a quello radicale che tanto alletta parte della sinistra. Non ci si
potranno formare alleanze spurie con gli antieuropeisti, nazionalisti, gli egoismi nazionali di
varia natura.
Non si potrà fare affidamento neppure sulle grandi socialdemocrazie, che potranno pur
cambiare e alla fine dare una mano, ma solo se costrette. I paesi del sud d’Europa
dovrebbero essere le più interessate a cambiare: oltre la Grecia, la Spagna. La vittoria di
Podemos può essere un tassello decisivo in questa strategia. Poi il Portogallo, chissà che
ne sarà dell’ondivaga Francia. E l’Italia?
La delegazione più folta
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Se si guarda al nostro paese oggi non c’è da essere ottimisti. Non c’è nessuno che sia in
grado di rappresentare con adeguata forza le istanze del cambiamento reale. Saremo
anche pieni di buone intenzioni e, a volte, persino generosi. Ma c’è egualmente da
disperare: la delegazione più folta che ha festeggiato la vittoria del referendum ad Atene
era quella italiana. Per forza, ciascuno rappresentava se stesso! Per la Germania c’era la
Linke, per la Spagna Podemos, per l’Irlanda Sinn Fein, e così via. Per l’Italia un esercito
diviso di personalità disorganizzate e indistinte.
Ora veramente non c’è più tempo. Se noi italiani non sapremo rispondere alla sfida che è
stata lanciata dalla Grecia rischiamo di compromettere una strategia di riscatto dei popoli
europei. Un debito che poi non potremmo mai più restituire e il nostro default politico
sarebbe totale.
del 08/07/15, pag. 5
I socialisti cedono, l’europarlamento oggi
vota il Ttip
Alberto Zoratti
Fairwatch/Stop TTIP Italia
Ci hanno provato, ma non ci sono riusciti. Il rinvio del voto e della discussione sulla
Relazione Lange sul TTIP del 10 giugno scorso al Parlamento europeo di Strasburgo è
stato l’’ultimo tentativo per un gruppo Socialdemocratico (S&D) alla deriva di cancellare
buona parte dei 116 emendamenti presentati, salvaguardando un testo debole e poco
incisivo e quindi non problematico per i sostenitori del Trattato.
Sono bastati due minuti alla Commissione Commercio Internazionale del 29 giugno per
chiudere la pantomima confermando 113 emendamenti e rimandando il tutto alla plenaria
che oggi esprimerà il voto finale. Con, in aggiunta, un emendamento di compromesso che,
a detta del Pd Pittella, affosserebbe definitivamente l’Isds, l’arbitrato privato che
permetterebbe alle imprese straniere di portare alla sbarra i governi.
Parole subito smentite, come evidenziato dall’appello lanciato dagli europarlamentari
italiani Eleonora Forenza, per il Gue, Tiziana Beghin, per il M5S e Sergio Cofferati, a nome
di un gruppo sempre più ampio di parlamentari S&D, che rimanda al mittente la proposta
di compromesso sull’Isds in quanto: «Non risolve il problema perché nel voler superare il
meccanismo Isds attuale legittima la presenza di tribunali arbitrali e la presenza di un
interesse degli investitori da difendere contro le decisioni prese dagli stati nell’interesse
pubblico». Una posizione condivisa anche dalla Confederazione Europea dei Sindacati
(Etuc-Ces) che chiede esplicitamente di votare no.
«La proposta di compromesso sull’Isds — dichiara Monica Di Sisto, tra i portavoce della
Campagna Stop TTIP Italia — è un ulteriore tentativo di mescolare le carte. Il testo non
risolve il tentativo surrettizio di imporre la priorità del mercato rispetto ai diritti. Del resto, la
retorica sui limiti che l’europarlamento imporrà al negoziato si scontra con i dati di realtà:
quale tutela verrà assicurata sugli standard agroalimentari europei, se sui testi di
posizionamento l’Ue fa riferimento al Codex Alimentarius come standard unificante che,
come tutti sanno, ha riferimenti molto meno stringenti dell’Efsa, per esempio sui residui di
pesticidi nei nostri piatti?».
«Diversi studi autorevoli — aggiunge Elena Mazzoni, tra i coordinatori della Campagna
Stop TTIP Italia — smentiscono la vulgata secondo la quale, nelle cause Isds, la
maggioranza dei contenziosi veda gli stati vincitori; basterebbe semplicemente scorporare
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i dati per capire che è l’esatto contrario: sono proprio gli investitori a uscire vincitori da un
meccanismo costruito ad uso e consumo degli interessi economici che contano».
La mobilitazione di Stop TTIP Italia è passata per l’invio di email e di tweet agli
europarlamentari, dove si ribadiscono le linee rosse insuperabili per la società civile.
L’opposizione al TTIP rimane tutta, sottolinea la Campagna italiana, che con questa
mobilitazione vuole contribuire a mettere paletti chiari per dimostrare l’assoluta
insostenibilità del trattato e, d’altra parte, per evitare scenari peggiori nella malaugurata
ipotesi che venisse davvero concluso.
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