Epodé: persuasione, purificazione, cura dell`anima nella riflessione

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Epodé: persuasione, purificazione, cura dell`anima nella riflessione
Francesco Pelosi
Epodé: persuasione, purificazione, cura dell’anima
nella riflessione platonica sulla musica
Nella Repubblica (citata: «Resp.») Platone affida le anime dei Guardiani alle virtù della
mousiké; lo stesso fa nelle Leggi (citata: «Leg.») con le anime dei cittadini dello Stato ideale e
nel Timeo con la parte più preziosa dell’anima umana. La riflessione platonica sul fenomeno
musicale è per gran parte uno studio delle modalità attraverso le quali la musica si prende cura
dell’anima. Un’analisi del fenomeno dell’incantesimo e del suo legame con il motivo della
purificazione pare assai utile a comprendere il significato dell’analisi platonica di una musica
per l’anima: una riflessione sulla mousiké e sulle sue molteplici qualità, ma anche uno studio
della psyché, della sua natura e dei suoi rapporti con i sensi.
Alcuni dei meccanismi attraverso i quali la musica lavora nell’anima emergono già dalla
Repubblica (401d-402a): per bocca di Glaucone Platone si mostra convinto, in linea con la
cosiddetta teoria dell’ethos musicale, che la musica modelli l’anima, che una buona musica
sappia conferire all’anima «armoniosa bellezza» (401d 5-e 1). È già dato cogliere in queste
righe iniziali del passo un’idea – resa esplicita solo in 402a 1-4 – di straordinaria rilevanza nella
riflessione platonica sulla musica: nello svolgimento di un certo tipo di azione sull’anima, ritmo
e armonia non chiamano in causa la ragione. Il riferimento temporale presente in 402a 1-2
conferma a pieno questo dato: il lavoro della musica sull’anima ha così poco a che fare con il
logos da poter essere condotto a termine, e con successo, ancor prima che si sia formata la
capacità di esercitare la ragione. A questo livello la musica non insegna, ma plasma, non porta
scienza, ma abitudini, come riconoscerà Socrate nel settimo libro (522a 3-5).
È nelle Leggi, tuttavia, che l’idea di un accesso della musica nell’anima per vie a-razionali
emerge in tutta la sua rilevanza. La paideia musicale si presenta qui proprio come una
pedagogia della sensibilità, un’educazione che tende anzitutto ad abituare l’individuo ad avere
la giusta risposta emotiva alle situazioni che si presentano. L’esito felice di una buona
educazione musicale (Leg. 659d-e), l’effetto esercitato da quei canti che sono in realtà
incantesimi è l’abitudine «a non godere e a non soffrire per cose di cui godere e soffrire è
contrario alla legge» (659d 5), è un identico sentire comune, un’uniformità nelle risposte
emotive e una piena rispondenza di questa sensibilità generale al modello di reazioni offerto
dal più saggio, dal più vecchio, dall’educatore.
Non sembra un caso il fatto che il gioco di parole tra odaí ed epodaí faccia la sua comparsa
proprio in un contesto in cui l’accento è posto sull’educazione come formazione della
sensibilità: l’impiego platonico dell’epodé è comprensibile solo in relazione all’idea che l’anima,
struttura complessa irriducibile al solo aspetto razionale, possa (e debba) essere raggiunta
anche da stimoli educativi che non si rivolgono alla ragione e che, anzi, sfruttano a pieno il
canale della sensibilità.
Nel suo significato originario epodé rinvia alla sfera della goeteía: è la formula magica che
incanta e guarisce. A dar credito alla testimonianza di Giamblico (V.P. 114, 164) si apprende
che i Pitagorici impiegavano l’epodé per la cura di certe patologie; il tema dell’incantesimo si
lega qui a quello della catarsi e l’accento è posto sull’aspetto musicale del fenomeno. Altrove è
la componente verbale dell’epodé ad essere enfatizzata. Nell’Encomio di Elena (D-K 82 B 11 §
10) Gorgia fa riferimento alla capacità degli incantesimi dià lógon di recare piacere e di
allontanare il dolore; la forza dell’incantesimo affascina l’opinione dell’anima, la persuade, la
trasforma per mezzo di magia. L’effetto della parola sulle emozioni, il ruolo della doxa, il valore
della persuasione – tutti temi con i quali Platone si confronta costantemente nei dialoghi –
sono suscitati da una riflessione sul potere dell’incantesimo. Nell’analisi della meditazione
platonica sull’epodé si tenterà di avere presente la complessità originaria di un fenomeno nel
quale si fondono e si esaltano forza della musica e forza della parola: è tale complessità, del
resto, che si rinviene dietro l’impiego, a volte sorprendente, che ne fa Platone.
A sorprendere è, anzitutto, la constatazione che in più occasioni Platone non si mostra affatto
ben disposto verso le pratiche magiche in generale e l’epodé in particolare. Quel fenomeno che
è chiamato ad indicare l’azione della musica e addirittura del discorso filosofico presenta i tratti
inquietanti della magia che turba e confonde, del sortilegio impiegato per raggiungere fini
riprovevoli; tra i passi da citare, a tale proposito, Resp. 364b-365a, Leg. 909b, Leg. 933a-d. E
l’epodé si colora di un’indiscutibile accezione negativa anche là dove essa perde la forte
connotazione di pratica magica, per farsi parola persuasiva (Leg. 906b-c). L’impiego platonico
dell’epodé presuppone anche una riflessione sull’ineliminabile carica negativa – riprovevole o
inquietante – di questo fenomeno.
I canti hanno il fascino e la forza di parole magiche, dice Platone nelle Leggi. Al concetto,
ribadito con insistenza in quest’opera (659d-e, 666c, 670e-671a), va accordata importanza
maggiore di quella che si darebbe ad un semplice gioco di parole: l’accurata pianificazione della
vita musicale all’interno dello Stato, l’istituzione di tre cori incaricati di «incantare», il controllo
rigido sulla creazione musicale mostrano quanto sia forte la convinzione che la paideia
musicale eserciti davvero un potere persuasivo per vie magiche (cfr. 664b-c). I contenuti etici
più profondi di un discorso improntato alla virtù sono affidati ad un canto che ai cittadini si
richiede di cantare per tutta la vita, quasi si trattasse di uno scongiuro, di una formula magica,
appunto di un’epodé (665c).
In questo passo compare anche l’idea interessante di un auto-incantamento, una pratica alla
quale Platone già pensava nel Fedone (114d), quando rilevava la necessità di impiegare miti
per «farsi l’incantesimo» (114d 7). Il racconto escatologico al termine del dialogo ha il valore di
un’epodé: tale impiego del mito presuppone, a quanto pare (114d 4), una certa convinzione
nell’immortalità dell’anima, convinzione che, pure, da sola sembra non bastare; il racconto che
incanta e persuade è necessario (114d 6). Si tratta di attivare le parti irrazionali dell’anima, di
coinvolgerle nella conquista di un’importante acquisizione filosofica; si tratta, per usare le
parole impiegate in 77d-78a, di prendersi cura del fanciullo che alberga nell’anima umana. Il
bambino impaurito dalla prospettiva che la morte spazzi via l’anima deve essere incantato
quotidianamente, finché non sia del tutto calmo (77e 8-9); la pratica presenta i tratti di una
terapia: deve essere ripetuta ogni giorno fino ad una sorta di guarigione. Come in 114d,
l’incantesimo si rivela necessario (77e 8), ma è il caso di sottolineare, forse, una differenza tra
i due impieghi dell’epodé nel dialogo. L’incantesimo di 77d-78a non ha (ancora) la fisionomia
del mito. Non si tratta qui di ripetersi dei racconti per auto-incantarsi, ma di frequentare e
ascoltare un incantatore: Socrate appunto, anche se di lì a poco la morte metterà fine alla sua
attività di epodós (78a 1-2); e l’incantatore Socrate, dopo aver rilevato la necessità di
sottoporre l’anima ad un’epodé, non narra un mito, ma riprende a dimostrare l’immortalità
dell’anima. L’impressione è che in 77d-78a, nel bel mezzo delle argomentazioni razionali,
affiori la consapevolezza che il tema della morte sollecita elementi irrazionali e, tuttavia,
sembra esserci (ancora) fiducia nel fatto che una dimostrazione dell’immortalità dell’anima
possa allontanare la paura della morte. L’epodé – il mezzo per trattare le emozioni collegate al
pensiero della morte – si rivela mito solo nel momento in cui emerge l’idea che, al di là
dell’efficacia delle prove razionali, il tema della morte sia da affrontare anche su un piano
diverso da quello logico-argomentativo.
In 77d-78a l’idea che l’epodé sia necessaria, perché si ha a che fare con un bambino
suggerisce una riflessione sul legame tra discorso incantatore e psicologia infantile. In Leg.
887d i racconti narrati «un po’ per gioco un po’ seriamente» da madri e balie si esprimono
attraverso «parole incantatrici»; la particolare condizione dell’anima del bambino – una
condizione delicata in cui gli impulsi irrazionali hanno il sopravvento – esalta le qualità del
discorso incantatore che non si rivolge alla ragione. L’operazione che madri e balie compiono
sulle anime, narrando miti, non è assimilabile ad un insegnamento, ma al lavoro fisico di
modellare una forma.
Tuttavia in Leg. 790d-791b è presente la descrizione di un incantesimo che fa appello ancor
meno alla ragione. L’attenzione si concentra sul rimedio che madri e nutrici hanno scoperto,
con l’esperienza, per calmare i neonati: il movimento accompagnato dal canto. Non si tratta
qui di formare l’anima, ma di riportarla all’equilibrio; l’incantesimo musicale si rivela anche un
katharmós. La cura è analoga a quella impiegata nei riti coribantici e bacchici (790d 3-6, e 24): il movimento esterno della musica e della danza incontra e sovrasta quello interno della
paura o della follia (790e 11-791b 4). Il passo mostra con una certa chiarezza che la cura
musicale agisce sull’anima, intervenendo sulle «affezioni» (790e 8-791a 1).
Benché in questo passo Platone non si soffermi a descrivere lo stato di agitazione in cui versa
l’anima dei bambini, è possibile assumere come valida descrizione di questa irrequietudine
Tim. 42e-44d, dove la descrizione dell’incarnazione è al contempo un’illustrazione del disordine
che regna nell’anima infantile: uno smarrimento della ragione, dovuto allo squilibrio che si crea
nella parte razionale dell’anima a seguito del contatto con il corpo. L’inquietudine di cui si parla
in Leg. 790d-791b può essere interpretata come una delle manifestazioni di questo disordine
congenito; il rimedio delle madri, allora, è un’operazione che ristabilisce il corretto ordine tra
gli elementi dell’anima – e che riguarda, quindi, anche la parte razionale – agendo con mezzi
che si servono della sensibilità e che non chiamano in causa direttamente la ragione. A sortire
l’effetto incantatore non è qui la parola, né la parola accompagnata da musica: non è il
contenuto del canto, ma il canto stesso, la sua musicalità, il suo ritmo. È il caso di operare,
forse, a questo punto una distinzione tra gli elementi della mousiké e provare a chiarire a
quale di essi sia da ascrivere e in che misura il potere incantatore.
La nota concezione platonica della mousiké come di un insieme in cui l’aspetto musicale è
subordinato a quello verbale e la constatazione che Platone parla spesso di un’epodé del solo
logos potrebbero indurre a credere che gran parte del potere incantatore della mousiké sia da
attribuire alla parola; ora, è senza dubbio vero che i contenuti verbali dell’epodé musicale
giocano un ruolo fondamentale, ma ciò non comporta di necessità attribuire alla musica solo il
compito di enfatizzare il potere incantatore della parola. Alla luce della considerazione che
Platone ha in generale della musica, si è indotti a credere che nel fenomeno dell’epodé
musicale ritmo e armonia, a loro volta, comunichino precisi contenuti etici e sortiscano un
peculiare effetto incantatore. Nelle Leggi (670e-671a, 812c) compare l’idea che la possibilità di
esercitare un’epodé efficace dipenda dal possesso di profonde competenze in ambito
strettamente musicale: per incantare le anime dei giovani è necessario possedere «in maniera
spiccata una buona percezione dei ritmi e delle combinazioni di armonie». La musica, dunque,
gioca un ruolo importante nel fenomeno dell’epodé: attraverso meccanismi in parte oscuri,
armonia e ritmo esercitano un’azione persuasiva.
L’analisi dell’impiego platonico dell’epodé pone di fronte al problema di analizzare realtà
diverse – il mito, il logos, la mousiké – e di comprendere in che senso Platone riconosca in
ognuna di queste la forza dell’epodé. Se è vero – come si vedrà – che l’epodé del filosofo è la
«nuda parola», l’incantesimo che il filosofo concepisce per stregare un intero Stato si giova, e
non poco, della forza persuasiva della musica. D’altra parte, presentandosi come epodé, la
nuda parola filosofica si scopre dotata al suo interno della forza del canto.
Nel Fedone l’incantesimo esercitato dalla parola socratica ha i tratti rassicuranti del discorso in
grado di calmare un bambino impaurito, ma altrove la figura del Socrate incantatore non ha
nulla di rassicurante. Il riferimento al fatto che Socrate eserciti un incantesimo compare in
alcuni dei passi, assai noti, nei quali è descritto il disorientamento dell’interlocutore alle prese
con la dialettica socratica. Il celebre accostamento di Socrate ad una torpedine marina (Men.
79e-80b) è preceduto da un’interessante descrizione, in termini magici, dell’effetto che il
filosofo sortisce con i suoi discorsi; è come se Socrate esercitasse una malia, propinasse
pozioni magiche, facesse uso di incantesimi (80a 2-3). L’accostamento dell’epodé al
pharmakon è presente anche nel Carmide e nel Teeteto; è appena il caso di notare che
entrambi i termini sono dotati di una forte ambiguità: pharmakon è il rimedio che cura, ma
anche la pozione magica e il veleno; pharmakon è la cicuta che Socrate beve nel Fedone.
Nell’attribuire a Socrate i tratti di un incantatore, Platone non elimina dal concetto di epodé la
sua ambiguità morale, ma fa in modo che a metterla in evidenza sia colui che subisce quella
magia: Menone immagina che in una città straniera Socrate sarebbe arrestato «come mago»
(80b 5-7).
Un Socrate «ammaliatore» è anche quello che affascina e turba Alcibiade nel Simposio (215a222b): un auleta paragonabile a Marsia per la sua capacità di incantare con la bocca, se non
che Socrate sa farlo senza l’ausilio di strumenti, con la «nuda parola». Una facile
contrapposizione tra incantesimo della musica e incantesimo del logos sembra profilarsi nel
passo, ma la descrizione di Alcibiade è costruita su un complesso gioco di sovrapposizioni tra
dimensioni contrarie – esterno/interno, ad esempio, o irrazionale/razionale – e non su semplici
contrapposizioni. L’espressione che indica il mezzo con il quale Socrate, senza l’ausilio di
strumenti musicali, produce un effetto magico – 215c 7: psiloîs lógois – ricalca l’espressione
tecnica che indica la musica strumentale non accompagnata dalla parola. La ‘musicalità’ dei
discorsi socratici è ribadita più avanti nel passo: in 216c 4 essi sono definiti «arie per aulos» e
in 216a 6-8 si riconosce loro il potere di agire come il canto irresistibile delle Sirene.
L’affermazione della dimensione ‘logica’ dell’incantesimo socratico non comporta, dunque,
prendere le distanze da un incantesimo specificamente musicale: il logos filosofico che incanta
non è parola senza musica, ma parola che ha assunto al suo interno la forza incantatrice della
musica. Le modalità con cui agisce non sono diverse da quelle dell’incantesimo musicale: in
quanto incantesimo, anche il discorso socratico sollecita elementi non razionali; per descrivere
le reazioni che innesca nell’interlocutore, Alcibiade parla delle manifestazioni psico-fisiche
dell’invasamento coribantico.
Come riconosce lo stesso Alcibiade, la «magia dialettica» di Socrate tende «al fine più alto», ad
un ideale umano di comportamento che si esprime nella bellezza e nella bontà (Symp. 222a). è
la saggezza – come si apprende dal Carmide – l’obiettivo dell’incantesimo socratico.
Interrogato su un rimedio per curare il mal di testa, Socrate risponde di conoscere un farmaco,
la cui efficacia, tuttavia, è subordinata all’impiego di un’epodé (155e-156a). Con un’abile
mossa, Socrate sposta l’attenzione dal bel corpo del giovane Carmide all’anima, ma
l’introduzione dell’epodé si rivela ben presto tutt’altro che un trucco. Alla proposta di Socrate,
Carmide risponde che trascriverà senz’altro l’incantesimo: è evidente che il giovane intende
per epodé una formula magica, là dove essa rappresenta l’arte dialettica socratica. Nella
differenza tra il significato che Socrate attribuisce ad epodé e quello che gli dà Carmide,
trapela tutta l’originalità dell’operazione platonica che fa di un rimedio magico una pratica
filosofica.
Una corretta cura del corpo presuppone sempre una cura dell’anima (157a-c): dunque non
solo è necessario assumere l’epodé assieme al pharmakon (155e-156a), ma è fondamentale
anche che l’una preceda l’altro (157b 2-4, c 1-5, 158b 5-c 2). Sulla natura di questi
incantesimi Socrate è molto chiaro qui: si tratta dei «bei discorsi», dai quali si sviluppa
nell’anima la saggezza (157a 4-6). L’epodé è il mezzo specifico per la cura dell’anima, una
forma di psicoterapia (157a 3-4). Carmide denuncia, al termine del dialogo (175e-176b), la
sua necessità dell’incantesimo: egli dovrebbe essere incantato da Socrate ogni giorno, finché il
filosofo non decida che può bastare. E’ evidente la somiglianza con la pratica presentata in
Phaed. 77e 8-9 contro la paura della morte: l’incantesimo, proprio come un pharmakon, deve
essere assunto ogni giorno, fino a che non si renda più necessario. Socrate si conferma
epodós, ma l’accento è posto qui anche sulla necessità che l’interlocutore acconsenta a
sottoporsi all’incantesimo: Carmide deve offrire se stesso, o meglio la propria anima, all’azione
incantatrice di Socrate (157b 3-4, c3-4, 176b 6-7).
Esiste, dunque, un incantesimo filosofico, un discorso che sortisce un potere incantatore non
solo per le proprietà persuasive della parola, ma anche per i contenuti di verità che esprime.
Non è un caso che il potere incantatore della verità sia affermato con forza proprio in un
contesto in cui la malia della parola si rivela anzitutto falsità. Nel decimo libro della Repubblica
magia è la forza illusionistica dell’arte imitativa, quindi anche della poesia; per sottrarsi a tale
influenza è necessario possedere un pharmakon, cioè la conoscenza di come le realtà
rappresentate sono veramente (595b). Questo pharmakon – un alexiphármakon in realtà, un
antidoto alla magia dell’imitazione – è la verità. Bisogna incantarsi per resistere al fascino della
poesia imitativa, bisogna ripetersi, come uno scongiuro, il discorso che afferma il valore della
verità (608a). Contro quell’arte che strega e inganna sensi e passioni bisogna mobilitare il
logistikón (602d-e), ma di nuovo attraverso una parola che è, a sua volta, magia.
La constatazione che, anche quando si rivolge alla ragione, la filosofia può esercitare un’epodé,
mostra bene come, nella riflessione platonica, non esista una contrapposizione tra un’opera –
educativa e filosofica – razionale e attività dannose che fanno appello alle parti irrazionali
dell’anima; l’opposizione è tra un modo buono – filosofico, si direbbe – di sollecitare sensi e
passioni e uno cattivo. «Tutto ciò che inganna sembra sprigionare malia» dice Glaucone,
riflettendo sul potere magico delle passioni (Resp. 413c-e); ma l’impiego platonico dell’epodé
mostra che non è vero il contrario: non tutto ciò che esercita malia, inganna. Chi mostra di non
cedere facilmente alla malia di piaceri e di passioni, dà prova di essere buon custode della
musica appresa, del buon ritmo e della buona armonia (413e 2-4); dà prova di aver lasciato
che un’altra magia affascinasse e formasse la sua anima: quella esercitata dalla musica e dalla
filosofia.
Ora, offrire l’anima all’incantesimo musicale, piuttosto che alla magia esercitata dalla poesia
imitativa, ad esempio, o al fascino dei piaceri, non significa soltanto nutrire l’anima di virtù, ma
anche curare il suo assetto, ordinarne – come si trattasse delle tre note fondamentali di
un’armonia: nete, mese e hypate – le parti (Resp. 443c-e), creare al suo interno una
symphonia (Resp. 591c-d) che altro non è se non la sua salute. L’epodé si rivela di nuovo
strumento catartico, ma emerge anche l’idea che ciò sia possibile solo perché la struttura
originaria della psyché ha qualcosa di musicale. Far buona guardia alla musica appresa
significa, dunque, non permettere che qualcosa snaturi l’anima. Sarà il Timeo (47c-e) a
mostrare, nella maniera più efficace, questa relazione tra le virtù curative della mousiké e la
struttura dell’anima, chiarendo anche la ragione per cui Platone affida alle cure della musica la
parte migliore dell’uomo.
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