l`articolo in pdf - Il rasoio di Occam

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l`articolo in pdf - Il rasoio di Occam
Il populismo come confine estremo della democrazia rappresentativa.
Risposta a McCormick e a Del Savio e Mameli
di Nadia Urbinati
Il populismo è il confine estremo della democrazia rappresentativa. Quando il populismo
diventa potere di governo si corre il rischio di un’uscita dalla democrazia e dall’ordine
costituzionale. Il populismo mette a rischio l’uguaglianza formale che le regole
costituzionali hanno il compito di proteggere. In questo articolo, Nadia Urbinati
riprende alcune tesi che sono
elaborate in maniera più estesa e analitica nelle sue due più recenti monografie,
Democrazia sfigurata: il popolo fra opinione e libertà (2014) e Democrazia in diretta: le
nuove sfide della rappresentanza (2013).
Il populismo è un concetto molto impreciso, usato per descrivere situazioni politiche diverse tra
loro e movimenti politici che perseguono obiettivi diversi, per esempio forme di partecipazione
spontanea o partiti organizzati al fine di conquistare la maggioranza di un parlamento
democratico. Per alcuni il populismo è solidaristico e inclusivo, per altri discriminatorio e
insofferente verso i diritti individuali e le minoranze. Per alcuni esso mette a rischio le
democrazie costituite, per altri esso inaugura nuove possibilità per la democrazia. Vi sono
scienziati sociali che hanno sostenuto che il populismo ha aperto la strada a forme dittatoriali e
scienziati sociali che sostengono che esso agevola la transizione democratica in paesi postcoloniali in quanto esprime le esigenze dei molti di vedere attuata una certa distribuzione della
ricchezza e della proprietà della terra, precondizione senza la quale la democrazia non decolla. In
quest’ultima accezione, il populismo ha ricevuto buona accoglienza nei paesi del continente
americano. In America Latina, il caudillo che guida le masse di campesinos verso il governo del
paese è una figura centrale nella storia della formazione tanto di movimenti populisti che di
transizioni verso regimi democratici. Sempre dall’America, questa volta statunitense, viene
l’altra esperienza che ha contribuito a leggere il populismo come espressione di democrazia:
l’esempio del People’s Party di fine Ottocento che Michael Kazin ha anni fa rubricato come caso
esemplare di riappropriazione della politica da parte del popolo americano (un processo già
iniziato nel Settecento con il Great Awakening). Ma il populismo (e in Europa soprattutto) è
anche identificato con movimenti non democratici e anti-democratici: il fascismo che emerse in
Italia come mobilitazione populista per diventare regime anti-democratico; il più recente
movimento etnocentrico della Lega Nord; e infine, i movimenti fascio-populisti che si stanno
organizzando e mobilitando in queste settimane per conquistare seggi nel nuovo Parlamento
europeo.
L’ambiguità del termine è confermata anche dai contributi precedentemente pubblicati su
Micromega e rispetto ai quali propongo questa riflessione: John McCormick (Sulla distinzione
tra democrazia e populismo) propone di leggere il populismo come “grido di dolore” della
democrazia rappresentativa, un grido che può mobilitare tanto la destra quanto la sinistra (tornerò
su questa immagine durkheimiana più avanti); Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli (Sulla
democrazia machiavelliana di McCormick: perché il populismo può essere democratico)
sostengono che la distinzione più convincente per comprendere il ruolo del populismo nelle
democrazie moderne è tra populismi solidaristici e populismi razzisti; quando e se solidaristici, i
populismi possono avere “potenzialità” democratiche. Come rendere conto dell’ambiguità
nell’uso di un termine tra l’altro così frequentemente usato, il fatto cioè che il populismo possa
rappresentare tutto e il contrario di tutto?
Il termine populismo designa un fenomeno complesso e ambiguo. Più che un regime, esso è un
determinato stile politico o un insieme di tropi e figure retoriche che possono emergere
all’interno di governi democratici rappresentativi. La prima distinzione da fare quindi è tra
movimento popolare e potere ovvero governo populista. È Occupy Wall Street un movimento
populista o un movimento popolare di protesta? La risposta a questa domanda è sintomatica di
questa distinzione. Alla fine del presente contributo emergerà perché Occupy Wall Street non è
stato un movimento populista e perché il populismo è altra cosa dalla partecipazione democratica
nelle forme e nelle procedure stabilite da una costituzione: libere elezioni a suffragio universale
con voto segreto per eleggere rappresentanti, libertà di stampa, parole e associazione al fine di
partecipare alla costruzione di opzioni politiche, conta dei voti secondo regola di maggioranza e
quindi riconoscimento della minoranza (opposizione) come essenziale al gioco democratico (che
non è né unanimità né consenso senza libera espressione del dissenso, di qualunque dissenso
anche su questioni che la maggioranza ritiene buone e giuste).
Ora, dato il contesto di democrazia rappresentativa e costituzionale, è prevedibile che il tema del
contendere è proprio la rappresentazione del popolo (l’ideologia del popolo) nella sua unità
politica sovrana; per il populismo il popolo è definito sempre contro un’altra parte che al popolo
appartiene formalmente ma non socialmente in quanto detentrice di un potere economico che è in
eccesso rispetto a quello degli ordinari cittadini (la soglia che designa l’eccesso è un oggetto
stesso del contendere, intraducibile in norma certa). “Popolo” e “grandi”, ci ricorda McCormick,
è la classica e mai superata contrapposizione repubblicana che sta alla radice del populismo, e
che McCormick rende come tensione tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale.
Dunque, il populismo non è il popolo ma una sua rappresentazione coniata o promossa da un
leader o un partito-leader. Il populismo quindi può essere più di un semplice movimento politico
dei molti se i suoi leader riescono a conquistare il potere dello Stato. Come anche McCormick
mette in luce, il populismo è impaziente con le regole e le procedure di una democrazia
rappresentativa parlamentare perché impaziente con la formalità del diritto: l’eguaglianza
politica e per legge ovvero la libertà nel diritto sono categorie che il populismo contesta nel
nome di una eguaglianza sostanziale. L’obiettivo polemico del populismo è una lettura giuridica
e costituzionale della democrazia, quella appunto che sta alla base del sistema rappresentativo.
Come si è visto con l’approvazione della nuova costituzione ungherese (11 marzo 2013),
l’aspetto inquietante del populismo emerge qualora esso abbia l’opportunità di passare da
movimento (politico o di opinione) a potere di governo. Infatti, l’esito delle decisioni di un
governo populista sarà verosimilmente quello di piegare lo Stato agli interessi del “popolo”,
ovvero della sua parte maggioritaria contro quell’altra parte che è minoranza (sia essa economica
o culturale o religiosa o etnica). Si potrebbe obiettare che essere contro la minoranza economica
non è la stessa cosa che essere contro la minoranza religiosa o civile; si tratta però di
un’obiezione debole perché chi ha il potere di decidere chi sia minoranza buona o cattiva ha un
potere che è esorbitante e quindi insicuro per tutti. Il populismo ha impazienza verso i principi
della democrazia costituzionale, a partire dai diritti individuali (e che proteggono tutte
minoranze, anche quelle che possono nascere all’interno del gruppo maggioritario), alla
divisione dei poteri e al sistema pluripartitico: insomma a quel che è la democrazia
rappresentativa.
Come si intuisce, l’ideologia del “popolo” è centrale. Se per democrazia noi intendiamo il
governo del popolo e per popolo intendiamo la volontà politica di “un gruppo sufficientemente
esteso” di persone che sono unite da qualcosa di “sostanziale” – reddito, religione, cultura, ecc. –
possiamo pensare, con McCormick, che il populismo sia la forma più completa di democrazia, in
quanto esso è attento appunto a rappresentare il popolo nella sua totalità, come massa unita da
un’equivalenza valoriale che, anche se non interpreta esattamente tutte le sue parti, le unisce in
un’omogeneità superiore alle parti stesse (questa è l’idea di populismo come processo di
costruzione dell’unità egemonica del popolo che ci ha proposto Ernesto Laclau). Ora, in questo
caso, la qualità del populismo dipende da “che cosa” viene usato come termine di equivalenza
che unisce le varie componenti di un popolo: se è la condizione economica dei meno abbienti,
allora il populismo prenderà l’aspetto di una politica di giustizia sociale e di lotta per
l’eguaglianza, mentre se è l’identità culturale, etnica e religiosa a costruire l’egemonia popolare,
allora sarà più probabile che il potere populista prenda forme inquietanti di nazionalismo e
razzismo. Ecco allora che la distinzione di McCormick e quella di Del Savio e Mameli si
sovrappongono: gli uni e gli altri proponendo un’interpretazione di populismo che si identifica
con la parte meno negativa di quel che può unificare una massa. Ma con quale criterio viene
deciso il “buono” e il “cattivo” populismo se è il contesto a dettare la definizione? Ovvero come
uscire dal contingentismo se la dimensione sociologica prende il sopravvento su quella giuridica
e delle procedure?
Come si può intuire, la differenza tra le due possibilità – populismo di destra o di sinistra,
populismo solidaristico e esclusionario – è soltanto ideologica: dipende cioè dalla narrativa o
retorica che viene adottata. Dipende per esempio dal fatto che la destra europea razzista e
populista oppure la sinistra europea solidarista e populista abbiano o non abbiano leader capaci; e
dipende poi, secondo Del Savio e Mameli, dalle decisione prese dai governi o, come nel caso
europeo, dall’Unione Europea, poiché se queste decisioni sono punitive per i molti c’è da
aspettarsi che questi ultimi si mobilitino in forme populiste e giustamente reclamino politiche di
giustizia sociale. La prima delle due possibilità è connaturata alla lotta politica nelle democrazie
elettorali e soprattutto alla politica plebiscitaria con la quale i leader sono incoronati dalle masse.
La seconda è decisamente priva di evidenza: non è per nulla scontato che una politica
inegualitaria generi politiche populiste di sinistra. Come insegna la storia antica e recente, i pochi
che dovrebbero pagare di più in proporzione a quel che pagano i molti, non se ne stanno con le
mani in mano e dovendo cercare il consenso della maggioranza a politiche che sono in effetti
contro gli interessi della maggioranza, non tardano a creare delle ideologie populiste che
unificano il discorso e le masse intorno a temi altrettanto populisti ma capaci di neutralizzare le
politiche redistributive: useranno, per esempio, il classico argomento della lotta contro gli
immigrati, i comunisti e gli zingari (facendo delle minorante capri espiatori di problemi la cui
causa è economica). Insomma dire che il populismo dipende dal contesto nel quale si sviluppa, e
che quindi può essere di destra o di sinistra, non aiuta a capire che cosa esso sia né a giudicarlo
alla luce di criteri normativi democratici.
Il populismo nasce all’interno della cornice della democrazia costituzionale, un’arena politica
fondata sulle elezioni, il pluripartitismo e la regola di maggioranza (ovvero la libertà di poter
propagandare le proprie idee senza rischio della propria sicurezza e per conquistare consenso). Il
populismo può sorgere solo in questa cornice di libertà politica e civile, non dove non c’è
democrazia (a meno che non si voglia rubricare come populista tutto quel che accade
nell’universo politico, quindi anche i movimenti di rivolta, le rivoluzioni e le ribellioni). Proprio
per evitare il rischio onnivoro che un termine impreciso contiene, quel che si dovrebbe tentare di
fare è capire: a) se, una volta acquistato il potere di prendere decisioni, la maggioranza populista
rispetterà le regole che le hanno permesso di vincere ovvero se vorrà accettare il rischio di
perdere; b) se si asterrà dall’usare il sistema statale per favorire la sua parte contro l’opposizione
sconfitta così da crearsi le condizioni per una rielezione assicurata; c) se non gestirà le nomine
delle cariche dello Stato favorendo solo la sua parte; d) se non riscriverà la costituzione allo
scopo di restare al potere più a lungo; e) se non userà il potere fuori dalle regole e contro i limiti
stabiliti dalla costituzione. Siccome il populismo è critico della democrazia costituzionale e
rappresentativa, mettere in conto che potrebbe operare in modo non legittimo è quanto meno
doveroso.
Quindi delle due l’una: o il governo retto da una maggioranza populista non opererà contro le
regole costituzionali e allora questo non sarà altro che un nuovo governo, un caso cioè di
normalità o politica ordinaria; oppure il governo populista cambierà la connotazione del regime
costituzionale, dando luogo a una dittatura o una forma autocratica di regime. In questo secondo
caso, chiamarlo populismo sarebbe inappropriato, perché si tratterebbe di una dittatura o
autocrazia. L’uso delle regole da parte di un partito populista che ha conquistato la maggioranza
è un elemento di giudizio molto importante proprio perché il populismo (di destra o di sinistra,
solidaristico o esclusionario) si afferma criticando la struttura del sistema politico
rappresentativo e costituzionale. Come ha scritto Benjamin Arditi, esso è la periferia estrema del
regime democratico, oltre la quale c’è un altro regime, quello per esempio dittatoriale. Ecco
dunque un importante tassello interpretativo: il populismo è un possibile modo di essere della
politica praticata in una democrazia rappresentativa, un modo di interpretare il “popolo”, di
unificare le varie esigenze interne a un popolo plurale intorno a un tema comune: questa è
l’azione di un movimento populista che opera e continua a operare dentro le regole
democratiche.
Ma se questa interpretazione ha un senso, allora non è per nulla chiaro come facciamo a
distinguere questo processo di normalità politica da altri processi e movimenti peculiari alla
normale dialettica politica democratica. Un esempio: anche i partiti socialisti e comunisti
occidentali del Secondo dopo guerra conducevano una politica di unificazione dei vari interessi
esistenti nel popolo per unirli intorno a un interesse comune: questa fu, per esempio, la politica
dell’alleanza nazionale lanciata da Palmiro Togliatti (e che ha ispirato Laclau nella sua
teorizzazione della costruzione egemonica populista); eppure sarebbe sbagliato sostenere che il
Partito Comunista fosse un partito populista. Evidentemente questo processo politico di
unificazione del popolo non è sufficiente a denotare il populismo, a meno che tutta la politica
democratica non sia intesa come populista (questa è l’identificazione che propone Laclau, per il
quale infatti populismo, politica e democrazia diventano una sola cosa). Ma questa equivalenza
di termini è fallace proprio perché azzera le differenze nell’intento di spiegarle. Quindi
identificare il populismo con la normalità della lotta ideologica in una democrazia non aggiunge
nulla alla nostra conoscenza e non ci dice ancora che cosa sia il populismo.
Il populismo deve essere qualche cosa di diverso dalla politica democratica e dalla democrazia
(ovvero dalla pratica ideologica normale di unificazione degli interessi di un popolo) e quindi
dalla costruzione del consenso politico in vista di conquistare la maggioranza. A meno che non
usiamo la parola populismo per descrivere la realtà effettuale, ma in questo caso tutto può essere
incluso: populismi di destra o di sinistra, solidaristi o identitario, e così via. Se vogliamo
elevarci dal discorso ideologico e cercare di capire un fenomeno politico allora dobbiamo cercare
per quanto è possibile di estrarre dalle varie esperienze quelle specificità e costanti che ci
consentono di dare un senso alla categoria “populismo”. Partendo da questa premessa ho cercato
altrove di distinguere tra movimento popolare e populismo e per fare questo ho cercato di
individuare alcune coordinate di orientamento (relative al populismo come potere, ovvero che
aspira allo Stato): unificazione del popolo sotto un leader; trasformazione ideologica del conflitto
in polarizzazione e quindi semplificazione della pluralità di interessi in opposizione binaria
(“noi”/”loro”); e poi, quando e se il partito populista diventa partito di governo, se usa le risorse
dello Stato per avvantaggiare la propria parte a danno dell’opposizione, quindi violando la
divisione dei poteri (messa a repentaglio dell’autonomia del giudiziario) e dei diritti di libertà.
Si può quindi sostenere che il populismo vada oltre la “potenzialità democratica” dei movimenti.
Tutti i movimenti possono o non possono avere potenzialità democratiche, e in questo senso il
concetto di “potenzialità” è troppo lasco. Altrettanto insoddisfacente è appellarsi alla famosa
espressione che Durkheim usò per il socialismo, ovvero il populismo come “grido di dolore”
delle società democratiche rappresentative. In quanto “grido di dolore” il populismo non ci dice
nulla su quale sia la ragione del dolore, né ci consegna una diagnosi, quindi non ci dice quale
debba essere il movimento per correggere quel dolore. Il “grido” è un'indicazione della
sofferenza, niente altro. E infatti, vi è una componente di dolore (come insoddisfazione e
scontento) nel moto socialista come in quello populista, eppure sarebbe improprio dire che
socialismo e populismo sono uguali in quanto gridi di dolore. A chi spetta la diagnostica e la
cura? Diagnostica e cura mettono in moto competenze e azioni che sono esterne al “grido di
dolore” e rispetto alle quali il popolo gioca il ruolo non dell’attore ma del paziente che consente
ai leader di fare la diagnosi e di intraprendere la cura. Allora, perché criticare la democrazia
elettorale di espropriare il popolo della sua voce se lo stesso appello al popolo del populismo
lascia tanta latitudine di delega ai leader o ai tecnici dell’ideologia sulla diagnosi e la cura? Se il
popolo grida, esso ha comunque bisogno di qualcuno che interpreti le sue grida. Per questo,
viene il dubbio che la differenza tra populismi non sia altro che una differenza tra leader e le loro
rispettive ideologie. È lo stesso McCormick che alimenta questo dubbio quando ci ricorda con
buoni argomenti che la storia delle democrazie ha registrato demagoghi amici del popolo e
demagoghi tiranni: dunque, la differenza tra populismo buono e populismo cattivo sta nella
leadership, nel capo che rappresenta il “grido di dolore” del popolo paziente.
Abbiamo aggiunto così un importante tassello alla nostra conoscenza del fenomeno populista: il
bisogno di un leader che unifichi o dia il senso ideologico di ciò che unisce il popolo. Senza
questa leadership, senza l’apice cesarista (quella che ho altrove chiamato correzione monoarchica della democrazia) il movimento populista resta un movimento popolare come ce ne sono,
e giustamente, tanti in un regime democratico: Occupy Wall Street o il movimento degli
“indignados” sono casi di movimenti popolari di denuncia e di protesta ma non movimenti
populisti. Occupy Wall Street rifiutò anzi ogni rappresentanza per mezzo di un leader e volle
essere solo un’espressione di critica pubblica nel nome di un valore, quello dell’eguaglianza, che
le società democratiche pretendono di incorporare. Chiamare questo tipo di movimenti
“populisti” è sbagliato per la semplice ragione che, in questo caso, tutto sarebbe populista in
democrazia. E allora che senso avrebbe usare il termine? Il fatto è che il populismo non presume
solo e semplicemente l’esistenza di una massa di poveri o disoccupati; non basta il “grido di
dolore” per denotarlo; esso presuppone un leader, e una macchina che produca un’ideologia che
dia a quel grido un’unità rappresentativa finalizzata a uno scopo: la conquista del consenso per
raggiungere il governo e prendere decisioni.
Vediamo dunque di capire perché il populismo è molto di più di un movimento popolare e
perché ha senso temerlo. A questo fine torniamo al “grido di dolore” di un popolo che soffre.
Dice McCormick: “Durkheim disse una volta che il socialismo è il grido di dolore della società
moderna. Il populismo è il grido di dolore delle moderne democrazie rappresentative. Il
populismo è inevitabile nei regimi politici che aderiscono formalmente ai principi democratici
ma di fatto escludono il popolo dal governo”. Ecco dunque: il populismo non ha come punto
fondante questioni di redistribuzione economica o di giustizia sociale, ma questioni di gestione
del potere politico: è dunque una contestazione radicale alla democrazia rappresentativa in vista
di una gestione diretta del governo da parte del popolo. Il quale se è economicamente oppresso
dai pochi è perché non prende decisioni direttamente ma attraverso quei pochi che elegge.
Quindi: il populismo si manifesta quando il popolo come entità sovrana c’è già e chiede che la
sua autorità sia esercitata in maniera non indiretta. Per McCormick dunque populismo si
identifica con la democrazia diretta (ovvero assemblea aperta a tutti i cittadini; lotteria per
selezionare i magistrati; tribunali composti da cittadini comuni) in un contesto in cui questa non
c’è più. Siccome nel nostro tempo questa forma di governo non può essere attuata come
nell’Atene classica, è stata adottata la rappresentanza la quale, come Carl Schmitt e poi Bernard
Manin hanno sostenuto (entrambi seguendo Montesquieu), è sinonimo di governo “aristocratico”
o “oligarchico” ovvero dei pochi, in quanto fondato sulle elezioni. In sostanza, ci dice
McCormick, in una democrazia rappresentativa è fatale che sorga il populismo: il quale “è l’altra
faccia della medaglia della normalità politica nelle repubbliche elettorali”. Ecco che siamo
tornati a quanto sosteneva anche Laclau: il populismo si indentifica con la politica e con la
democrazia nei governi rappresentativi. Delle due l’una: o la politica è ordinaria routine (politica
dei pochi con il consenso dei molti) oppure è l’opposto e cioè populista (politica dei molti contri
i pochi, con o senza il loro consenso visto che i molti hanno la maggioranza comunque).
Ora, se la politica ordinaria opera secondo le norme formali (che garantiscono “l’uguaglianza
politica formale” senza doverla tradurre in “eguaglianza socio-economica”), il sistema non ha
scossoni. Ma quando la questione economica si fa pressante (il “grido di dolore”), allora
l’uguaglianza formale (come la democrazia rappresentativa che si regge su di essa) mostra i suoi
limiti. A questo punto, al popolo non resta che impossessarsi del potere per riportare equilibrio
tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale. Ciò che non è chiaro – e McCormick non
aiuta a chiarire – è come si possa giungere a questo riequilibrio senza decisioni che limitano
l’uguaglianza formale, ovvero senza violare i principi costituzionali e usare mezzi eccezionali
per giungere alla realizzazione del fine desiderato (uguaglianza sostanziale). Ma a questo punto,
la democrazia populista sarebbe un’uscita dalla democrazia costituzionale: mezzi e fini si
separerebbero e con lo scopo di raggiungere il fine buono (uguaglianza sostanziale) il mezzo
(violazione della legge) viene ad essere giustificato. Che sia Marx o Schmitt l’ispiratore di
questa visione, è evidente che il populismo diventa a questo punto esterno alla democrazia
costituzionale; non una forma politica interna alla democrazia, ma una trasformazione del regime
da sistema nel quale gli attori politici prendono decisioni con la regola di maggioranza a sistema
che dichiara essere il governo della maggioranza contro la minoranza (per ragioni “buone” come
l’eguaglianza sostanziale). Il confine della democrazia è a questo punto oltrepassato. In
conclusione, possiamo dire che o il populismo non è altro che un movimento politico popolare,
sacrosanto movimento di protesta (Del Savio e Mameli), per cui non è chiaro perché chiamarlo
populismo; oppure è più di un movimento (McCormick) e in effetti una estrema tensione della
democrazia rappresentativa verso una soluzione che rischia un’uscita dall’ordine costituzionale.
L’autore
Nadia Urbinati: Kyriakos Tsakopoulos Professor of Political Theory and Hellenic Studies,
Columbia University; tra i suoi libri: Disfigured Democracy (Harvard University Press, 2014); si
veda: http://polisci.columbia.edu/people/profile/114