La luna e la fortuna

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La luna e la fortuna
La luna e la fortuna
Ci vogliono anni per raggiungere un equilibrio. Prima studi, poi trovi un lavoro, ti
arrampichi tra le mille difficoltà della tua vita sentimentale e poi … poi in un momento tutto
cambia. Basta una telefonata a trasformare la tua vita e così niente nuvole e pioggia, niente più
strade affollate di Milano, niente metropolitana, niente risotto precotto in congelatore, ma sole, tanti
ricordi e una maestosa Etna sullo sfondo.
Mi ero trasferito a Milano per conseguire una laurea in lingue e mi ero stabilito in un
appartamento non lontano dalla stazione metropolitana di Porta Romana. Era un pertugio non
grande, che poteva assicurare a stento solo lo spazio vitale necessario per una persona. I miei
genitori avevano abitato a lungo in Lombardia per motivi di lavoro, avevano scelto di lasciare la
loro terra di origine per un nuovo modello di vita. Non volevano occuparsi delle attività familiari
legate all’agricoltura, ma dedicarsi a lampanti carriere burocratiche. Dopo la loro morte prematura
in un tragico incidente io, ancora bambino, era tornato dai nonni, ma dopo il diploma avevo
ripercorso le orme dei miei genitori, trasferendomi a Milano. Conseguita la laurea, passavo i miei
giorni a lavorare in una ditta con un contratto a tempo indeterminato. Tutto era monotono e la vita
sembrava scorrere con una regolarità molto stabile e rigida, finché un giorno il mio telefono
squillò.
Era l’ultima persona da cui mi aspettavo una telefonata. La vecchia zia Carmela,
un’ottantenne siciliana che mi aveva accudito durante l’infanzia, singhiozzava e mi disse :
”Salvatore! Salvatore!” e il resto, parole in dialetto sconnesse, si confuse tra sussulti e singhiozzi.
Capii lo stesso cosa era accaduto. Decisi di andare in Sicilia. Erano anni che non vi facevo ritorno.
D’altronde, per un evento così grave non potevo sottrarmi. Atterrai all’aeroporto di Catania e mi
avviai, alla guida di un’auto a noleggio, verso il mio passato. Entrai nella mia vecchia casa. Quanti
ricordi! Quante cose erano accadute in quella casa, in quel giardino, in quelle stanze … Mi
avvicinai alle scale. Trovai in lacrime zia Carmela. Non disse nulla. Il vecchio soggiorno si
presentava con una bara al centro della stanza. Attorno ad essa sconosciuti piangevano o
tentennavano il capo in segno di grande sconforto. Parenti? Amici di mio nonno? Non riuscii a
trattenere le lacrime. Zia Carmela iniziò a spiegare: “Un infarto … era da tempo che soffriva di
problemi al cuore.”. Rimasi in silenzio. In seguito continuò dicendo: “ Devi rimanere qua. Come
farà il nostro agrumeto ad andare avanti?”. In effetti non avevo pensato alla vecchia proprietà di
famiglia. Era un appezzamento molto esteso, curato ed amministrato da mio nonno. Venderlo
sarebbe stato uno scandalo per tutta la famiglia. Iniziò così a stravolgersi la mia vita.
Sapendo che la mia sosta in Sicilia sarebbe continuata ancora per molto, decisi di utilizzare
tutte le mie ferie. Mi stabilii nella vecchia casa dei miei genitori e dopo i funerali iniziai ad
informarmi sull’agrumeto. Erano rimasti solo pochi lavoratori, che non avrebbero saputo dove
andarsene, e l’agrumeto era in pessime condizioni. Ero estremamente confuso. Un giorno, preso
dallo stress e dalla tensione che comportava questa decisione, mi svegliai la mattina presto, scesi le
scale esterne della casa padronale e iniziai a passeggiare tra gli alberi di agrumi. In quel momento
affioravano molti ricordi, mi sembrava quasi di rivivere alcuni momenti. Mi venne in mente la mia
infanzia nel paesino. Mi divertivo a correre e a giocare sotto i limoni, poi mi riposavo sotto un
imponente albero di arance per ripararmi dal sole. Passavo le mie giornate con serenità, come se
quell’agrumeto fosse il paradiso. Mi ricordai il nonno Giovanni, che aiutava i braccianti a svolgere i
consueti lavori agricoli, come la potatura degli alberi. Sentivo ancora le sue parole: “luna crescente
per far crescere gli alberi, luna calante per sfoltire la chioma”. Osservava la luna per pianificare la
potatura. Camminavo tra i terrazzamenti, le rasule. I muri erano a secco, le pietre laviche intagliate
si sorreggevano l’una con l’altra come per magia. Una tecnica escogitata dai nostri avi per
insediarsi lungo i pendii del vulcano. Mentre camminavo incontrai persino il mio rifugio segreto,
dove mi nascondevo dopo aver teso uno scherzo ai contadini. I ricordi diventavano sempre più
nitidi e tali da sembrare storiche fotografie. Dopo un po’ mi accorsi che si era fatto veramente tardi,
perciò decisi di andare via. Mentre stavo per uscire, si presentarono di fronte all’enorme cancello
una decina di persone. Una di loro, un tale con la barba folta e con gli occhiali, si fece avanti e
iniziò a dire:” Signor Torrisi”. Alcuni avevano un viso vagamente familiare, altri non li avevo mai
visti. Risposi con un gesto del capo, che voleva essere una sorta di saluto. Il vecchio signore con la
barba allora continuò dicendo: “Noi siamo i contadini di suo nonno. La sua morte per noi è un
grande dolore. Deve sapere che in questo periodo trovare un lavoro non è molto semplice”. Il
vecchio tossì e ricominciò a parlare con tono diverso .“La prego non abbandoni questo agrumeto, è
tutto per noi!”. C’era molta tristezza negli occhi di quell’uomo, ma non potevo promettergli niente.
Riuscii solo a dire: “ Vedremo…” Tornai a casa, pranzai con zia Carmela e continuai a passeggiare
in paese, cercando di trarre qualche conclusione sul da farsi. Dovevo affrontare la questione, perciò
decisi di chiedere un appuntamento al commercialista di mio nonno.
Arrivato il fatidico giorno, mi recai nel suo studio. Era una sorta di open space luminoso.
Sulla parete più lunga tre quadri, che incorniciavano titoli di studio, sovrastavano una lussuosa
scrivania che, in certi punti, era rivestita in cuoio nero. Lungo la parete laterale le postazioni delle
segretarie, in materiale trasparente su cui troneggiavano monitor sottilissimi. Era tutto molto
elegante, ma sembrava tutto estremamente falso. L’uomo, seduto davanti alla scrivania, poteva aver
all’incirca una cinquantina di anni. Portava una giacca blu con delle sottili strisce nere e una
cravatta grigia, che sembrava abbinarsi alle venature del marmo del pavimento della stanza.
Portava un paio di occhiali abbastanza giovanili per la sua età, che, però, non lo rendevano affatto
una persona giovane. Si alzò e mi diede una stretta di mano molto energica, che forse voleva essere
convincente. Iniziò a dire:“ Le porgo le mie più sentite condoglianze. Comprendo la situazione in
cui si trova. Ho avviato le pratiche per la dichiarazione di successione della proprietà. Se non ha
grosse disponibilità economiche le consiglierei di vendere la proprietà. Sarebbe necessario, infatti,
stravolgere tutta la conduzione. Servono ingenti somme. Da anni si registrano solo perdite. Suo
nonno si è ridotto praticamente sul lastrico nel tentativo di far fruttare la terra. La sua proprietà ha
un suo valore, lei è l’unico erede e probabilmente una somma di denaro le servirebbe a Milano …
Potrei aiutarla ad individuare dei possibili acquirenti. Certo lei sa bene che la crisi ha minato
notevolmente il mercato delle compravendite. Deve avanzare richieste ragionevoli…”.
Continuammo a parlare per un tempo che non saprei definire.
Nei giorni seguenti i dubbi mi tormentavano. Dovevo prendere una decisione. Incominciai
a passeggiare per l’agrumeto ogni giorno, spinto da non saprei dire quale bisogno di contatto con la
terra. Ogni sera stavo fuori dalla mia vecchia casa, cercando di prendere una decisione. Così una
sera mentre, come al solito, passeggiavo per l’agrumeto in compagnia dei ricordi, che
continuavano ad affiorare sempre più velocemente, inciampai su un rastrello e iniziai ad imprecare.
In seguito osservai l’oggetto e notai che non si trattava di un rastrello, ma del bastone biforcuto che
mio nonno usava come se fosse un rastrello. Mi ricordai che lo usava per raccogliere le arance, che
cadevano dagli alberi. Facevamo a gara a chi raccoglieva più arance. Usava anche il rastrello per
raccogliere i rami e le foglie che sfoltiva dagli alberi. Diceva sempre : “Luna crescente per far
crescere gli alberi, luna calante per sfoltire la chioma”. Osservai la luna pensando a lui. E se la luna
non indicasse solo la crescita degli alberi, ma una crescita in generale? Era una follia, ma gli alberi
del nonno crescevano sempre bene con questo metodo. E se la luna poteva anche far crescere i miei
profitti dell’agrumeto? Guardai in cielo: la luna era crescente. Presi una decisione: sarei tornato sui
miei passi, avrei invertito il percorso di mio padre e, ripercorrendo a ritroso il tragitto che aveva
portato i miei genitori dalla campagna alla città, avrei investito nel terreno di famiglia.
Ora sono qui, nel vecchio paesino della mia famiglia, famoso per essere il proprietario
dell’agriturismo “EtnAgrumi”, tra i più amati dai turisti. Esporto in tutto il mondo un liquore a base
di agrumi, che ha avuto subito un grande successo nel mercato dei prodotti tipici. La mia
conoscenza delle lingue straniere mi è stata molto d’aiuto. Ho trovato anche l’amore e ora ho due
figli. Se fossi tornato a Milano, tra le nuvole scure di pioggia, tra il risotto precongelato, tra le mille
difficoltà del mio noiosissimo lavoro d’ufficio, non avrei mai potuto raccontarvi questa storia. Mio
nonno diceva sempre:“ Cangiannu luna si cangia furtuna!”
Massimo Musumeci
Scuola secondaria di 1° grado-classe III C
Terzo Istituto Comprensivo- Giarre
La gita al maniero
Caterina non poteva essere definita “una ragazza di dodici anni con uno spirito avventuroso”. Aveva passato metà dell’estate sdraiata su un divano, e l’altra metà a leggere libri.
Lei non voleva andare al grest; erano stati i suoi genitori a costringerla. Caterina non poteva neanche essere definita “una ragazza di dodici anni così attraente da far cadere i ragazzi
ai suoi piedi”. Carina, sì, lo era, ma non bella come sua sorella Elena. Caterina aveva i capelli rossi, con una lunga treccia che le cadeva disordinata sulle spalle. Gli occhi erano verde smeraldo ed era letteralmente cosparsa di lentiggini. Le piaceva andarsene in giro con
una semplice camicia e un paio di jeans e non si metteva mai quelle fastidiose minigonne
che portavano le altre ragazze. Le detestava. Il grest, per lei, era una vera e propria tortura;
non le piacevano neanche le gite con gli altri ragazzi. All’inizio aveva considerato quella al
castello di Nelson, nella contea di Bronte, brutta, senza neanche un briciolo di interesse,
come le altre. Ma si sbagliava. Si sbagliava eccome!
Sul pullman che l’aveva portata al maniero c’era l’inferno. Mentre percorrevano le tortuose strade di campagna che da Bronte salivano al castello, tutti i suoi compagni urlavano, si facevano dispetti, ballavano, si lanciavano oggetti mentre l’anziana signora Harrison
che fungeva da guida si sgolava a più non posso per farli stare zitti. La povera Caterina veniva sballottata qua e là, le orecchie stonate senza pietà dagli stupidi ragazzi del suo gruppo…Cercava di concentrarsi sul magnifico paesaggio che le scorreva davanti: la vetta nera
e fumante dell’Etna l’affascinava e, tra i tronchi delle pinete che si scorgevano sulle sue
pendici, immaginava schiere di elfi e folletti rincorrersi l’un l’altro.
Quando, alla fine, si fermarono nell’ampio parco davanti all’antico maniero, si precipitò
fuori dall’autobus e andò a nascondersi dietro un cespuglio, per evitare di essere travolta
dai compagni che la prendevano in giro per la sua aria sognante. Intanto Caterina pensava:
“Eccomi di nuovo ad una stupida gita dove non succede mai niente d’interessante!”
Quando la baldoria diminuì, Caterina sbirciò da sopra il cespuglio. I suoi compagni stavano percorrendo la stretta stradina che conduceva al castello, mentre la signora Harrison
raccomandava instancabilmente di fare silenzio e stare in fila. “Raccomandazioni al vento,”
pensò Caterina “quelli sono silenziosi e ordinati come un branco di bisonti imbestialiti!”.
Lasciò passare qualche altro minuto e infine decise di uscire dal suo nascondiglio. Fece di
corsa tutta la stradina per evitare di rimanere indietro e non potere entrare senza il gruppo.
Arrivò col fiatone e intanto le sue compagne facevano stupide critiche su come era vestita:
-Secondo te quella è una camicia nuova?-
-No, sarà sempre la solita!-Quando si deciderà a mettersi una gonna?-Credo che non se le metterà mai, una gonna!Caterina ascoltava, ma non replicava. Maledicendo silenziosamente le compagne, attraversò l’arcata del portone principale dell’edificio. All’interno il maniero era proprio come
se l’era immaginato, tutto grigio, con due grandi scale che partivano dal fondo della sala.
Da un lato c’era un enorme camino che immaginò scoppiettante nelle lunghe serate invernali e dall’altro lato c’era un grande quadro del vecchio proprietario del castello: Sir Horatio Nelson, il vincitore di Napoleone a Trafalgar. Mentre la signora Harrison spiegava, con
il suo accento inglese, delle imprese del grande Comandante, la ragazza pensava: “Lo sapevo fin dall’inizio che sarebbe stato noioso!”. Ascoltando distrattamente l’anziana guida parlare della bella Lady Emma Hamilton, amante di Nelson, con il naso all’insù e l’aria trasognata, andò a sbattere contro qualcosa. Dapprima pensò che fosse una statua a causa del
viso pallidissimo, i capelli grigi, l’immobilità e lo sguardo impassibile, ma era invece un
maggiordomo in carne ed ossa. Un vero e proprio maggiordomo d’altri tempi.
- Oh, mi scusi, non l’avevo vista!- si scusò Caterina - Stavo ammirando… ehm… la magnificenza di questo castello!- Sono lieto che le piaccia, signorina…- e si interruppe, perché non sapeva il suo nome.
- Caterina. Mi chiamo Caterina.- rispose allora la ragazza.
-…Caterina,- proseguì l’uomo, tenendo sempre lo sguardo impassibile - ma temo che
non possiamo rimanere a parlare, - aggiunse - le mie mansioni mi aspettano.
Così dicendo, girò sui tacchi e se ne andò su per una piccola scala laterale che fino a
quel momento Caterina non aveva notato.
“Non so perchè, ma quell’uomo non mi convince! Ah, no, proprio non mi convince!”
pensò Caterina. Così, di nascosto, lo seguì.
Dopo aver salito parecchi faticosi gradini, Caterina si imbattè in uno strano bivio. Una
scala scendeva, un’altra saliva.
La ragazza era stanca ed emozionata e non riusciva a pensare bene, ma dedusse che, se
il maggiordomo aveva salito tutte quelle scale, non aveva senso che, di punto in bianco,
fosse ridisceso.
Così, decise di continuare a salire.
L’aria era umida e le pareti presentavano i segni del tempo. Caterina continuò a salire le
scale finchè fu costretta a fermarsi: davanti a lei c’era una porta di legno massiccio che
sembrava molto robusta, ma appena provò a scostarla, si aprì con estrema facilità e con un
macabro cigolìo. La giovane entrò nella stanza che si rivelò essere la soffitta polverosa del
maniero. Appoggiata alla parete c’era una credenza di legno di quercia scheggiata e sbilenca, dove erano posate strane boccette e recipienti dalla forma bizzarra coperti di ragnatele.
Caterina non se ne curò molto e, ritenendo che il maggiordomo non fosse passato di lì, stava per uscire… quando la sua attenzione fu attratta da un baule: un baule antico di chissà
quanti anni, che sembrava avere qualcosa di speciale. La ragazza, che aveva letto abbastanza libri per sapere che un baule non si doveva ignorare, si avvicinò incuriosita. Era di legno tarlato con delle piastre di metallo arrugginito e stranamente non era ricoperto di ragnatele come le altre cose all’interno della stanza. Dopo aver faticosamente sollevato il pesante coperchio, scoprì con delusione che conteneva vestiti. Caterina, perplessa, frugò tra
essi sperando di trovare qualcosa di speciale, ma trovava solo vestiti, vestiti e vestiti. Improvvisamente si fermò. Tra i tanti indumenti ne aveva notato uno in particolare: un antico
abito da sposa. “Che bello! E’ davvero magnifico!” sussurrò ammirata. Doveva essere appartenuto a Lady Emma, l’amante di Sir Nelson, riflettè. Allora la tentazione fu troppo forte; lo indossò sopra la camicia e si guardò in uno specchio polveroso posto lì vicino. Con
quel sontuoso abito addosso, si vide persino bella come sua sorella Elena. Soddisfatta, stava per toglierselo quando scoprì che in fondo al mucchio di vestiti c’era davvero qualcosa
di anomalo. Caterina, come posseduta, prese tutti gli indumenti e li scaraventò fuori, finchè non si trovò faccia a faccia con una grande piastra quadrata di ferro che in realtà era il
coperchio di una botola; lo sollevò e scoprì all’interno una stretta scala che si perdeva
nell’oscurità. La ragazza era indecisa se avventurarsi o meno in quel tunnel oscuro e stava
per richiudere il baule quando un improvviso cigolìo della porta la fece trasilire. Non volendo essere scoperta a curiosare in luoghi non autorizzati prese in fretta la sua decisione e
si precipitò giù nel buio più totale.
Quando i suoi occhi si furono abituati a quell’oscurità, Caterina vide in lontananza una
luce. Pur essendo fioca, le ridiede la speranza di uscire da quel posto opprimente. La ragazza scese quelle che le parsero un infinità di gradini e quando arrivò in fondo cominciò a
correre, mentre dentro di lei la speranza cresceva, cresceva, cresceva… i suoi capelli erano
pieni di ragnatele, il suo viso era sporchissimo, ma la luce si avvicinava… Mentre correva,
qualcosa di sottile, che doveva pendere dal soffitto, l’avvolse; Caterina non sapeva cosa
fosse, ma, presa dal panico, corse ancora più velocemente. Sbattè contro qualcosa; qualcosa di duro, che cedette sotto il suo peso. La ragazza fu avvolta dalla luce e da grida di terro-
re. Di chi erano? Come in seguito seppe, quelle urla erano emesse dai suoi compagni. Caterina, infatti, era ricomparsa da un passaggio segreto proprio nel salone principale, tutta
sporca di polvere e ragnatele, col vestito da sposa e un velo bianco che la copriva. Era quel
velo che l’aveva avvolta, durante la sua corsa al buio. I suoi compagni, che stavano ancora
effettuando la visita, appena videro quel misterioso essere, la scambiarono per lo spettro di
Lady Emma e scapparono urlando da quel posto che credettero maledetto. Perfino la signora Harrison si spaventò a morte. La povera ragazza, sfinita dalla terribile esperienza, si accasciò al suolo, svenuta.
Si risvegliò all’ospedale, dove i suoi genitori la osservavano preoccupati e non davano
tregua al medico:
-Come sta?-E’ ferita?-Cosa è successo esattamente?-Esigiamo una spiegazione!-Per favore, calmatevi, vostra figlia è in perfetta salute, ha avuto solo uno svenimento
da stress, tutto qui!- li rassicurò il dottore - ed è solo merito suo se adesso potremo dire
che il castello di Nelson è infestato dal fantasma della famosa Lady Hamilton. Sapete
quanti turisti!
Dopo tre giorni, Caterina tornò finalmente a casa. I suoi genitori avevano deciso di non
mandarla più al grest, considerandolo “troppo pericoloso”. Così, la ragazza potè finalmente
godersi un’estate rilassante sul divano e senza altre pazze avventure, che vedevano proprio
lei come protagonista.
FINE
***
NOTA STORICA
Il generale inglese Horatio Nelson, che ho nominato in questo racconto, è esistito davvero e, oltre ad avere sconfitto Napoleone nella battaglia di Trafalgar, era il proprietario del
castello di Bronte, in Sicilia, dove si svolgono le avventure di Caterina. Anche Lady Emma
è un personaggio molto conosciuto; era l’amante di Horatio Nelson, però era già sposata
con un vecchio signore, Sir William Hamilton. Ella, dopo la morte del marito e dell’amante, si mise a bere e a giocare d’azzardo, e finì in prigione per debiti, dalla quale uscì grazie
all’aiuto di un certo Alderman Smith. Emma, per sfuggire ai suoi creditori, scappò in Francia, dove morì, nel 1815, vicino a Calais.
Aurelio Garozzo