Secondo incontro – Le donne nell`Antico

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Secondo incontro – Le donne nell`Antico
DIOCESI DI CONCORDIA – PORDENONE
UFFICIO SCUOLA
AGGIORNAMENTO PER INSEGNANTI
DI RELIGIONE CATTOLICA
INS. VIDUS ROSIN STEFANO
SECONDO INCONTRO
SPILIMBERGO – PORTOGRUARO (A.S. 2010 – 2011)
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EVA
Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto a lui corrispondente».
Allora il Signore Dio modellò dal terreno tutte le fiere della steppa e tutti i volatili del cielo e li condusse
all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato gli esseri viventi,
quello doveva essere il loro nome. E così l'uomo impose dei nomi a tutto il bestiame, a tutti i volatili del cielo
e a tutte le fiere della steppa; ma, per l'uomo, non -trovato un aiuto a lui corrispondente. Allora il Signore
Dio fece cadere un sonno profondo sull'uomo, che si addormentò, poi gli tolse una delle costole e richiuse la
carne al suo posto. Il Signore Dio costruì la costola, che aveva tolto all'uomo, formandone una donna. Poi
la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse: «Questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia carne!
Costei si chiamerà donna perché dall'uomo fu tratta». Per questo l'uomo abbandona suo padre e sua madre
e si attacca alla .a donna e i due diventano una sola carne. Ora ambedue erano nudi, l’uomo e la sua donna,
ma non sentivano mutua vergogna. Il serpente era la più astuta di tutte le fiere della steppa che il Signore
Dio aveva fatto, e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: "Non dovete mangiare di nessun albero del
giardino"?». La donna rispose al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare; ma
del frutto dell'albero che sta nella parte interna del giardino Dio detto: "Non ne dovete mangiare e non lo
dovete toccare, per non morirne"», Ma il serpente disse alla donna: <Voi non morirete affatto! Anzi! Dio sa
che nel giorno in cui voi ne mangerete, si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del
bene e del male». Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, seducente per gli occhi e
attraente per avere successo; perciò prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche a suo marito, che
era con lei, ed egli ne mangiò. Si aprirono allora gli occhi di ambedue e conobbero che erano nudi; perciò
cucirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture. Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio
allorché passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l'uomo fuggì con la moglie dalla presenza del
Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Allora il Signore Dio chiamò l'uomo e gli domandò: «Dove
sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino, e ho avuto paura, perché io sono nudo, e mi sono
nascosto». Riprese: «Chi ti ha indicato che eri nudo? Hai dunque mangiato dell'albero del quale ti avevo
comandato di non mangiare?». Rispose l'uomo: «La donna che tu hai messo vicino a me mi ha dato
dell'albero, e io ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Come hai fatto questo?». Rispose la donna:
«Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente: «Perché hai fatto
questo, maledetto sii tu fra tutto il bestiame: sul tuo ventre dovrai camminare e polvere dovrai mangiare per
tutti i giorni della tua vita. E io porrò una ostilità tra te e la donna e tra la tua stirpe e la sua stirpe: essa ti
schiaccerà la testa e tu la assalirai al tallone». Alla donna disse: «Moltiplicherò le tue sofferenze e le tue
gravidanze, con doglie dovrai partorire figliuoli. Verso tuo marito ti spingerà la tua passione, ma egli vorrà
dominare su te». E all'uomo disse: «Perché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero,
per il quale t'avevo comandato: "Non ne devi mangiare": Maledetto sia il suolo per causa tua! Con affanno
ne trarrai il nutrimento, per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi farà spuntare per te, mentre tu dovrai
mangiare le erbe della campagna. Con il sudore della tua faccia mangerai pane, finché tornerai alla terra,
perché da essa sei stato tratto, perché polvere sei e in polvere devi tornare!». L’uomo diede a sua moglie il
nome di Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi. (Genesi 2,18-25; 3,1-20)
Con sguardo meravigliato, Eva contemplava la creazione: attorno a lei tutto era perfetto. Scoprì la natura nel
suo splendore; l'aria che respirava era pura, senza alcuna traccia di inquinamento, e l'acqua che beveva era
cristallina. Tutti gli animali vivevano in pace. Il matrimonio di Eva era perfetto, la sua comunione con Dio e
con suo marito le generava una felicità quotidiana. Possedeva tutto ciò che ogni essere umano può
desiderare. La vita umana creata ad immagine di Dio aveva proprio in sé questa "immagine" impartita in
modo esclusivo agli esseri umani. Condividono così, anche se in modo imperfetto e finito, la natura di Dio,
ossia gli attributi - vita, personalità, verità, saggezza, amore, santità, giustizia - che Egli può comunicare, e
possono quindi avere comunione spirituale con Lui. Ma un giorno, nel giardino di Eden, udì una voce
domandarle: «Come! Dio vi ha detto di non mangiare da nessun albero del giardino?». Allora Eva si
domandò con un certo stupore: Come ha fatto a sfuggire alla mia attenzione la bellezza particolare di questo
albero piazzato nel mezzo del giardino? Perché la mia felicità sembra ad un tratto dipendere dal suo frutto?
Mangiare un frutto così desiderabile, non può che farmi del bene! Così la concupiscenza di Eva fu
risvegliata. Non si rese conto né della manovra della trappola preparata per lei, né che la Parola di Dio era
stata deformata e neppure che stava mettendo in dubbio l'amore di Dio. Satana è un mentitore fin
dall'inizio (Giovanni 8,44)
Eva non ha riconosciuto nel suo interlocutore la persona, mascherata, di satana. Bugiardo e padre della
menzogna fin dall'inizio, cerca ancora di divorare gli uomini. Infatti, invece di citare l'affermazione di Dio
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con precisione, vi ha sostituito le proprie parole. Questo modo di falsare la Parola di Dio avrebbe dovuto
risvegliare l'attenzione di Eva e incitarla a respingere i propositi di satana. Eva è stata creata con una volontà
capace di resistere alla tentazione; si è però lasciata andare su un terreno pericoloso. Eva avrebbe dovuto
rifiutarsi lasciarsi abusare dalle insinuazioni di satana. Era responsabile della sua scelta; purtroppo ha
ascoltato il diavolo e, peggio ancora, gli rispose scatenando l'inizio della caduta. Vediamo allora ad i tratti
fondamentali dell'incontro tra Eva e satana che rappresentano il piano presente in tutte le tentazioni... Satana
non ha cambiato tattica nel corso della storia! Mettiamo dunque a confronto le parole di Eva con gli ordini
autentici di Dio e con quelle del serpente.
ORDINE
(Genesi 2:16 - 17)
di
DIO
PAROLE
(Genesi 3:2-3)
di
EVA
PAROLE di SATANA
(Genesi 3:4-5)
1)"Come! Dio vi ha
1) Mangia pure di ogni
1) Del frutto degli alberi
detto di non mangiare di nessun
albero del giardino
del giardino ne possiamo mangiare
albero del giardino?"
2) Dio sa che nel giorno
2)
ma
del
frutto
2) ma dell'albero della
che ne mangerete, i vostri occhi si
dell'albero che è in mezzo al
conoscenza del bene e del male
apriranno e sarete come Dio,
giardino Dio ha detto: "Non ne
non ne mangiare;
avendo la conoscenza del bene e
mangiate e non lo toccate
del male.
3) nel giorno che ne
mangerai, certamente morrai
3) altrimenti morirete".
No, non morirete affatto.
Proprio come satana all'inizio, Eva dal canto suo deformò le parole di Dio; aggiunse: "...non lo toccate",
mentre Dio non aveva usato il termine "toccare". In più, minimizzò il giudizio pronunciato da Dio:
"...certamente morrai" con "... altrimenti morrete". La prima offensiva di satana ha avuto successo: Eva si è
prestata alla discussione. Subito dopo, il diavolo parla con maggiore audacia e con arroganza tratta Dio come
bugiardo, accusandoLo di abusare del Suo potere per frustrare la propria creatura limitandone la felicità.
Morire?... dice con candore. Ma no! Non morirete affatto, conoscerete al contrario una felicità non sperata:
sarete come Dio! Satana prosegue nell'offensiva e trascina Eva verso l'emancipazione e la disobbedienza. Ma
la resistenza di Eva ha iniziato a cedere nel momento in cui ha accettato di discutere con satana. Poi, va
avanti cogliendo il frutto tanto attraente, oggetto della concupiscenza. "La donna osservò che l'albero era
buono per nutrirsi, che era bello da vedere e che l'albero era desiderabile per acquistare conoscenza; prese
del frutto, ne mangiò e ne diede anche a suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò."
Eva osservò ed ecco le sue considerazioni:
UTILITA' MATERIALE: l'albero era buono per nutrirsi;
BELLEZZA: l'albero era bello da vedere;
POTENZIALITA' di acquistare conoscenza.
Queste considerazioni portano Eva a superare il limite, una volta che ha dato credito più alle parole del
serpente che a quelle di Dio, ha rimosso la barriera del castigo. Quando viene RIMOSSO IL PENSIERO
DEL CASTIGO, si può superare qualsiasi limite... L'evoluzione del male è ora senza controllo. Eva è presa
nella rete del bugiardo al punto da non poterne sfuggire. Mangiò il frutto e, in più, dopo essere stata sedotta,
trascinò a proprio turno il marito nella seduzione. Senza protestare, Adamo accettò il frutto che gli venne
offerto e lo mangiò. Nel racconto fatto da Mosè, autore della Genesi, Dio il sesto giorno creò l'uomo. Il sesto
giorno rappresenta l'apice della creazione, l'inizio dell'umanità. Dio stesso esprime la propria grande
soddisfazione per questo suo atto creatore. Sebbene l'uomo sia l'ultima creatura menzionata nel racconto
della creazione, egli non è frutto dell'evoluzione; egli fu creato. Attraverso la creazione dell'uomo e della
donna, l'opera di Dio fu completamente compiuta e meritò il riconoscimento "molto buono". Accanto ad
Adamo, Eva era associata da Dio, e secondo la propria specificità, al compimento del compito di popolare e
sottomettere la terra. Aveva una relazione unica con il suo compagno di condivisione e complementarietà.
Insieme, grazie alla loro costituzione fisica adeguata poterono realizzare l'ordine dato da Dio di moltiplicarsi.
La creazione di Eva dopo quella di Adamo non era un accomodamento al disegno di Dio.
Eva faceva parte del piano iniziale come era stato concepito per la persona di Adamo. Senza lui, Eva non
poteva vivere e Adamo non poteva fare a meno di lui. In qualità di marito e moglie, Adamo ed Eva
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costituivano una nuova cellula: la coppia, caratterizzata da una propria personalità. Al di là della semplice
unione di due individui, questa coppia costituiva una identità nuova in se stessa. Secondo i piani di Dio, i
coniugi sono chiamati a vivere in perfetta armonia, a formare un tutto, uniti con un legame d'amore e di
mutuo rispetto. Dopo la disobbedienza, Eva realizzò, non senza una grande amarezza, fino a che punto era
stata ingannata. Si espresse immediatamente nei rapporti con Adamo. Fino a quel momento, erano stati a
loro agio; stavano bene tra di loro, secondo il piano di Dio. Improvvisamente, si sono trovati intimiditi e
disarmati. La protezione della loro innocenza era sparita e trovavano un ostacolo alle loro relazioni libere e
chiare fino a quel momento. Cominciarono ad usare la dissimulazioni. Presero coscienza della loro nudità,
non solo l'uno di fronte all'altro, ma anche davanti a Dio. La loro purezza era scomparsa e la loro relazione
intima con Dio interrotta. Al posto di essere simili a Dio, come aveva promesso loro satana, ebbero paura di
Dio e lo sfuggirono. Allora Dio prende in mano questa situazione disastrosa. Prese l'iniziativa di andarli a
cercare. Con amore, li chiama e comincia facendo loro una domanda, ma senza accusarli. Dà loro la
possibilità di riconoscere il loro peccato, ma loro se la lasciarono sfuggire. Dio considera Adamo come
responsabile, perché era il capo famiglia, visto che, pur essendo presente, Adamo ha lascito Eva commettere
il peccato. In più, Adamo la rinnega dicendo: "La donna che mi hai messo accanto, mi ha dato il frutto
dell'albero". Quasi che Adamo rimproveri Dio di avergli dato Eva! Eva, dal canto suo, rifiutò la
responsabilità accusando il serpente. Però, se fosse stata onesta con se stesa, avrebbe dovuto riconoscere di
aver agito consapevole delle conseguenze. Satana l'aveva sedotta, è vero, ma lei aveva peccato
deliberatamente. Eva aveva mancato la possibilità che le si proponeva per dimostrare la capacità dell'essere
umano di obbedire a Dio volontariamente e con amore. Il giudizio di Dio che seguì rivelò le conseguenze
catastrofiche del suo atto. Oltre al magnifico giardino, anche tutta la terra fu maledetta. Eva, il capolavoro
della creazione e ultima maglia di una catena di felicità, con la sua disobbedienza ha rotto questa catena. E
non si trattava solo della propria felicità, ma anche quella di tutti gli esseri umani e di tutti gli animali che
sarebbero nati. La gioia della maternità sarebbe purtroppo stata mescolata alla sofferenza ed alla difficoltà.
Riassumendo i risultati furono disastrosi. La promessa di Satana di avere l'illuminazione divina non si
avverò, entrambi mangiarono ed ebbero sì la conoscenza del bene e del male, ma fu la loro rovina:
conobbero
il
disagio
l'uno
nei
confronti
dell'altro:
sfiducia
ed
alienazione.
avvertirono il disagio nei confronti di Dio: ebbero paura e si nascosero. Quello che aveva promesso Satana
non si avverò, perché non si raggiunge la conoscenza disobbedendo alla Parola di Dio, ma il timore di
Dio è il principio della sapienza (Proverbi 1,7) Gli effetti del peccato sono la punizione.
L'uomo e la donna avevano: vita, ed ora hanno la morte; piacere, ed ora dolore; abbondanza, ed ora una
stentata sussistenza procurata con fatica; perfetta comunione, ed ora alienazione e conflitto.
SARA
Venne una carestia nel paese, e Abram discese in Egitto per soggiornarvi, perché la carestia gravava sul
paese. Quando fu sul punto di entrare in Egitto, egli disse a Sarai, sua moglie: «Certo, tu sai che sei una
donna di aspetto avvenente. Quando gli Egiziani ti vedranno, diranno: "Costei è sua moglie!" e uccideranno
me, ma lasceranno te in vita. Di', dunque, te ne prego, che sei mia sorella, affinché mi facciano del bene per
causa tua e la mia vita sia salva in grazia tua». Difatti, quando Abram arrivò in Egitto, gli Egiziani videro
che la donna era molto avvenente. La osservarono gli ufficiali del faraone e ne fecero le lodi al faraone, e
così la donna fu presa e condotta nella casa del faraone. Intanto Abram fu trattato bene per causa di lei; e
gli furono dati greggi, armenti e asini, schiavi e schiave, asine e cammelli. Ma il Signore colpì il faraone e la
sua casa con grandi piaghe, per il fatto di Sarai, moglie di Abram. Allora il faraone chiamò Abram e gli
disse: "Che cosa mi hai fatto? Perché non mi hai indicato ch'era tua moglie? Perché hai detto: "Essa è mia
sorella!" in modo che io me la son presa per moglie? Ora eccoti tua moglie; prendila e vattene!». Il faraone
diede ordine a suo riguardo ad alcuni uomini, i quali lo accomiatarono con la moglie e tutti i suoi averi. Poi
il Signore apparve a Abramo alle querce di Mamre, mentr'egli sedeva all'ingresso della tenda, nell'ora della
canicola del giorno. Egli alzò gli occhi ed ecco: tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide,
corse loro incontro dall'ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, ti prego, se ho
trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo». Allora Abramo si affrettò nella
tenda da Sara, e disse: «Presto, prendi tre staia di fior di farina, impastala e fanne delle focacce!».
All'armento corse egli stesso, Abramo, prese un vitello, tenero e gustoso, lo diede al servo, il quale si affrettò
a prepararlo. Prese una bevanda di latte acido e latte fresco, insieme col vitello che aveva preparato, e li
depose davanti a loro; e così, mentr'egli stava in piedi presso di loro, sotto i'albero, quelli mangiarono. Poi
gli dissero: «Dov'è Sara, tua moglie?>}. Rispose: «Eccola, nella tenda!». Riprese: «Tornerò di sicuro da te,
fra un anno, e allora Sara, tua moglie, avrà un figliuolo». Intanto Sara stava ad ascoltare all'ingresso della
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tenda, rimanendo dietro di essa. (Or Abramo e Sara erano vecchi, avanzati negli anni; era cessato di
avvenire a Sara ciò che avviene regolarmente alle donne). Allora Sara rise dentro di sé, dicendo: «Proprio
adesso che sono vecchia dovrò provar piacere; anche il mio signore è vecchio». Ma il Signore disse ad
Abramo: «Perché mai ha riso Sara dicendo: "Davvero dovrò partorire, vecchia come sono?". C'è forse
qualche cosa che sia impossibile per il Signore? Al tempo fissato, ritornerò da te, fra un anno, e Sara avrà
un figlio!». Allora Sara negò dicendo: «Non ho riso!», perché ebbe paura; ma quello rispose: «Hai proprio
riso!». Poi il Signore visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso. Sara concepì e
partorì ad Abramo un figlio nella sua vecchiaia, al tempo che Dio gli aveva detto. Abramo pose nome Isacco
al figlio che gli era nato, che gli aveva partorito Sara. Poi Abramo circoncise suo figlio Isacco quando
questi ebbe otto giorni, secondo quanto Dio gli aveva comandato. Abramo aveva cento anni, quando gli
nacque il figlio Isacco. Allora Sara disse: «Un sorriso ha fatto Dio per me! Quanti lo sapranno rideranno di
me!». Poi disse: «Chi avrebbe mai detto ad Abramo: "Sara farà poppare dei bimbi?". Perché ho partorito
un figlio nella sua vecchiaia». (Genesi 12,10-20; 18,1-3.6-15; 21,1-7)
In te saranno benedette tutte le nazioni della terra» (Gen 12,3). Con queste parole Dio ha chiamato Abramo a
essere il primo depositario in terra della divina rivelazione. Infatti il primo colloquio di natura religiosa fra
un uomo e Dio avviene appunto tra Abramo e il Signore: «Farò grande il tuo popolo. Tu sarai una
benedizione». Dopo il conflitto fra Dio e Adamo, questa è la prima parola di pace che l'umanità, riassunta in
Abramo, ascolta. Con Abramo comincia il rapporto esplicito con Dio, quasi la prima liturgia di adorazione e
di ringraziamento, dopo quella embrionale, e interrotta dal delitto di Caino e Abele. Dio stabilisce che un
uomo conosca e faccia conoscere la sua legge; quella insita nella coscienza, insieme ad alcune illuminazioni
particolari che via via egli dà alla coscienza umana. In Abramo c'è il seme dell'umanità religiosamente attiva,
nella forma più consapevole, e anche drammatica. A lui sarà chiesto per obbedienza il sacrificio concreto di
Isacco, il suo figliolo. Ma a Dio basta la prova e la dedizione più totale. Si accontenta di sapere che Abramo
si fida di lui anche contro l'evidenza. Abramo è un vero uomo in determinato momento della storia, ed è
insieme, anche se qualche volta non ne rende pienamente conto, un simbolo, anzi un grappolo di simboli
religiosi. È carne e sangue, terra e tempo, come Adamo; ed è insieme anticipo, intuizione. Nella città di Ur
dei Caldei, nella valle di Mamre, davanti al cielo che spesso si spalanca per lui, tra greggi e la terra docile,
egli appare il patriarca di tutta l’umanità, il prototipo dei credenti di tutti i tempi e di tutte le esperienze
religiose autentiche. Eppure, anche Abramo, abituato ai colloqui con Dio a faccia a faccia, un giorno si
stupisce. Non si stupisce quando Dio gli fa giungere la benedizione di Melchisedech, re di Saler e sacerdote;
non si stupisce quando Dio lo fa padrone di terre e di pozzi di armenti e di mèssi. Si stupisce quando Dio gli
annunzia che avrà un figlio. Abramo ha già cento anni e Sara, sua moglie, ne ha novanta. più che
comprensibile che il suo stupore sia stato sincero e profondo:«Abramo si gettò bocconi per terra, e rise,
dicendo in cuor suo: Possibile che nasca un figlio a un uomo di cento anni e che Sara partorisca a novanta?».
Abramo ride dentro di sé. E Sara ride anche lei; è la meno adatta, dopo tanti anni di sterilità, a credere a
questo miracolo. Quando uno dei tre angeli che visitano Abramo rinnova la notizia della maternità della
donna, ella non può trattenersi dal ridere: «Sara, avendo ciò udito, rise dietro la porta della tenda. Infatti
ambedue erano vecchi, e molto in là con gli anni. Essa rise dentro di sé dicendo: Avvizzita come sono e col
mio signore già vecchio, penserò ancora al piacere?». Il Signore, secondo il testo del Genesi, si meraviglia a
sua volta di questa incredulità: «Perché mai Sara ha riso? Vi può essere una cosa difficile per Dio? AI tempo
fissato, fra un anno, di questi giorni, ritornerò, e Sara avrà già un figlio». Ma Sara, piena di paura, nega,
dicendo: «lo non ho riso». Il Signore però replica: «Niente affatto, tu hai riso». È una pagina umanissima,
arguta oltre che misteriosa e sublime. Con tiene senza dubbio il profilo del carattere di questa donna
meravigliosa e contraddittoria, fedele e gelosa, incredula e piena di slanci, istintiva e passionale, qualche
volta crudele, e tuttavia legata a Dio da un senso profondo di dedizione e ad Abramo da incrollabile fedeltà.
Era bellissima. Di lei non si può dire: «possiamo immaginarla molto bella». Bella era. Abramo stesso, per
due volte, ha dovuto imbastire una grossa menzogna per evitare la morte a causa della bellezza di Sara. Il
nome di lei significa "principessa". Ancora alle origini dei popoli, questa donna bella e ricca non aveva ciò
che appariva la ricchezza più necessaria e più vera: i figli con cui popolare la terra. Dio intanto rinnovava ad
Abramo le promesse che gli aveva fatto: «Moltiplicherò la tua discendenza come la polvere della terra: se
alcuno degli uomini può contare la polvere della terra, potrà contare anche i tuoi posteri ». Sara, che amava
davvero Abramo e ne vedeva la tristezza di uomo senza figli, si domandò a lungo come sarebbe stato
possibile che la parola di Dio si avverasse con suo marito già anziano e lei non più giovane, e soprattutto
steri le. Non aveva ancora udito la promessa del miracolo che avrebbe posto fine alla sua sterilità. Allora
decise di compiere un gesto di grande generosità: offrì ad Abramo, in moglie, l'egiziana Agar sua schiava.
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Abramo ebbe da Agar un figlio che fu chiamato Ismaele. Egli sarebbe stato il capostipite di quelli che oggi
sono i popoli di razza araba. D'altronde anche nella sua generosità Sara non perdeva di vista la possibilità di
salvare il salvabile: per legge, dal punto di vista della proprietà giuridica, il figlio di Agar apparteneva a lei,
non alla madre. Bella, dunque, gelosa, e non del tutto disinteressata. Passano gli anni. Sara non crede più al
miracolo. Ma è proprio il miracolo che Dio si è riservato, scommettendo su questa sterile per dimostrare che
soltanto lui è il padrone assoluto della vita. Sarai -secondo il nome della sua sterilità -diventa Sara, cioè muta
il proprio destino e il proprio significato. Dio lascia intatti i limiti e le ambiguità di situazioni che d'altronde
appaiono spesso assurdi soltanto a noi; gli basta inserirsi in quei limiti in quelle forzature per seminarvi
liberamente la profezia e la speranza di quel meglio che s'avvererà in Cristo. Sara, per san Paolo, è simbolo
della Chiesa, in contrasto con Agar è invece il simbolo della sinagoga, che è feconda prima della Chiesa, ma
poi esaurisce il suo compito e viene sostituita dalla Chiesa miracolosamente feconda. Alla nascita di Isacco
la felicità di Sara è al colmo. Eppure, proprio nella felicità, ella diventa più dura ed egoista. Avendo visto che
Ismaele figlio di Agar, già grandicello, robusto e manesco, prendeva in giro il piccolo Isacco, volle che
Abramo cacciasse ambedue, lui e sua madre nel deserto. Era felice, e ripeteva «Chi avrebbe creduto che
Abramo avrebbe sentito dire che Sara allatta un figlio partorito a lui già vecchio?>> Eppure non volle
deflettere. Con un otre d'acqua, un pane e nel cuore la fiducia nella promessa dell'anelo,' Agar affrontò il
deserto. Sara è rimasta sola, padrona contrastata nella «tribù» felice e ricca che fa capo ad Abramo. Isacco
cresce, è un bellissimo ragazzo, sta diventando un uomo; impara a pascolare i greggi, a coltivare i campi. Sua
madre gode i lunghi anni del tramonto come in un sogno. Ricorda certo le risate con cui aveva accolto la
promessa di Dio; ricorda il terrore provato in Egitto e in Gerar per colpa delle bugie di suo marito; ricorda
Agar, Ismaele taciturno, bruno e violento. Ricorda tutto e tutto rivive, ma tutto si assomma in Isacco, il frutto
della sua vita e della sua difficile speranza. Ora tutte le cose sono in pace. Dio l'ha perdonata, Abramo è
sereno; a Sara sembra di vivere fuori del tempo. Eppure, nemmeno per lei i dolori sono finiti. Dio chiede ad
Abramo di immolargli Isacco con le proprie mani. Il tanto atteso, il sospirato, la fierezza della loro vecchiaia,
dovrà essere sgozzato come un agnello sul «monte della visione», cioè proprio là dove Dio aveva garantito
ad Abramo che la sua gente si sarebbe moltiplicata come la sabbia del mare. Dio ha dato, Dio riprende.
Abramo non discute. Si rende conto che tutto è mistero, che egli vive come nell'ombra luminosa d'un futuro
che già in lui comincia. Non sa certo di anticipare il gesto del Padre che offrirà la vita del Figlio, sulla croce,
per la salvezza del mondo. Ma probabilmente Sara comprende ancora meno di Abramo. Lei sa solo che suo
figlio dovrà morire, e per mano di suo padre. Abramo è, in qualche modo, sacerdote. Sara è soltanto una
vecchia madre, già rugosa come un albero senza più foglie, che deve accettare di veder distrutta quella stessa
vita che Dio tante volte le ha promesso. È la prova della fede, per lei e per suo marito. Ma se Abramo è un
uomo di fede, il "primo vero uomo di fede" che la storia religiosa presenti all'umanità, Sara probabilmente, in
quel momento, non ha trovato nulla più duro di questo atto di fede. E mentre guarda a quel figlio ridente e
ignaro che parte per la propria immolazione come se andasse a giocare, Sara espia in quel distacco tutta la
sua gelosia, il suo orgoglio, la sua crudeltà di donna. Ha espiato ciò che aveva fatto soffrire ad Agar, a
Ismaele. Dio ha arricchito quel dolore di una dimensione di simbolo e di mistero, ma per Sara quell'ora è
stata soltanto lo strazio di una madre che vede partire il figlio verso la morte. Isacco è poi tornato felice. È
diventato un uomo; ha avuto una florida discendenza. Ora Sara può davvero ridere, ma soltanto di se stessa, e
con una serenità che non ha mai avuto prima. Ora può anche morire. Muore ad Ebron, all'età di
centoventisette anni. Abramo, che l'ama del grande sereno amore dei vecchi limpidi, le fa un funerale in
pompa magna; compra per lei un sepolcro nuovo al prezzo di «quattrocento sicli d'argento» e ve la depone.
La storia di una donna vera
Sara, la bella che ride, la "principessa" per eccellenza, la gelosa fedele: quanti scrittori sacri non hanno scritto
di lei? I simboli ricoprono la sua figura come l’edera una pianta. Giuseppe Flavio e san Girolamo si sono
occupati della sua storia; San Paolo, nella Lettera ai Galati parla incisivamente di lei come di prima
immagine della Chiesa e della figurazione dei diritti del Nuovo Testamento sull'Antico. Eppure Sara è
soprattutto donna. Una donna e una madre non sempre ha avuto il senso Dio, l'idea precisa di che cosa
esigeva da lei. E una donna di sangue e di carne, istintiva, passionale. La Chiesa, nelle benedizioni rituali che
vengono lette per la sposa nella Messa delle nozze cristiane, la menziona augurando a ogni moglie d'essere
«longeva e fedele come Sara». Centoventisette anni di vita sono un buon augurio. E circa la fedeltà nessuno
può dubitarne; semmai c'è da rammaricarsi che Sara sia andata spesso all'eccesso contrario, e abbia indotto il
marito a compiere qualche azione tutt'altro che raccomandabile. La sua è una storia personale e universale
nello stesso tempo. La sua "cronaca" è quanto mai attuale: drammi di gelosia, dolore per la sterilità, ansia per
il figlio condannato a morte, gravi rischi in paesi diversi, fra popoli ostili. Una storia che esteriormente
potrebbe apparire su qualsiasi rotocalco del nostro tempo: ma con un "più": che è Dio stesso che le parla.
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Una storia e una cronaca da leggere né da un punto di vista soltanto umano, magari scandalistico, né da un
punto di vista soltanto simbolico e divino. La storia esemplare di una vera donna piena di difetti e
ricchissima di virtù.
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Abramo e Sara, una coppia a cui Dio si rivela
La scena si svolge a Ebron, duemila anni prima di Cristo. (Genesi cap.18,9-15)
Sara ride, non perché è felice, ride per quello che ha sentito, che lei, donna di novanta anni avrà un
bambino.
Un figlio! Impossibile!
Sia Sara che il marito sono troppo vecchi per un bambino, è biologicamente impossibile che ella
possa portare alla luce un figlio nonostante abbiano aspettato tutti questi anni.
Dio stesso aveva loro promesso venticinque anni prima un figlio, ma la promessa non era stata
attuata.
Poteva esserci un errore? Sara ripensò a quegli anni...
In quel periodo abitavano in Ur, centro di cultura e di commercio nel sud della Mesopotamia, benché
non fosse più ricca e fiorente come un tempo, poteva ancora dare un’esistenza ricca ai suoi abitanti.
I suoi artigiani erano superati solo da quelli egiziani, le navi nel suo porto portavano merci
dall’oriente che erano scambiate col grano che cresceva in quelle zone.
Molti cittadini erano ricchi ed abitavano in case spaziose.
Sara ed Abramo avevano vissuto serenamente ad Ur per molti anni tra amici e parenti, ma un giorno
qualcosa cambiò la loro vita radicalmente.
Dio era apparso ad Abramo in modo glorioso, così glorioso che aveva rimosso ogni dubbio sulla sua
identità, questo era il vero Dio, non il dio luna che i padri d’Abramo avevano adorato.
Dio ordinò ad Abramo di lasciare quella regione e i propri parenti e di andare in un paese che Egli
(Dio) gli avrebbe indicato.
L’ordine gli era stato dato insieme con una promessa: “Ed io farò di te una grande nazione e ti
benedirò, renderò grande il tuo nome e tu sarai una benedizione. Sì Io benedirò coloro che ti
benedicono e maledirò quelli che ti maledicono, ed in te tutte le famiglie della terra saranno
benedetti.” Genesi 12:2-3.
Abramo ubbidì immediatamente. Sara dovette adattarsi alla decisione del marito, all’improvviso da
cittadini di una ricca città piena di confort essi divennero seminomadi.
Come succede a molte donne, per Sara non è stato facile lasciare la sua casa, i suoi cari ed affrontare
un futuro ignoto, ma aveva ubbidito a suo marito e aveva confidato in Dio che gli aveva parlato.
Per mesi essi viaggiarono, spostandosi lentamente a causa degli animali, finché giunsero a Heran,
900 Km a nord di Ur, rimasero lì per un po’ di tempo e per loro la vita fu più comoda, non lussuosa
com’era stata ad Ur ma sempre meglio che essere in viaggio.
Poi ripartirono, si fermarono di nuovo, stavolta un po’ più a Sud, nel paese dei Caldei e si stabilirono
a Haran, fu allora che il loro padre Terah, (infatti Sara era sorellastra d’Abramo, a quei tempi era
costume sposarsi nell’ambito famigliare), morì.
Con il decesso del padre e l’assenza dei parenti che erano rimasti a Heran, Sara si sentì ancora più
sola, solo Lot, il cugino, viaggiava con loro.
Nonostante le loro perdite due cose erano immutate: prima di tutto continuavano a credere nelle
promesse di Dio, pensavano che avrebbero potuto avere ancora un bambino nonostante l’età,
Abramo aveva 75 anni, lei 65.
In secondo luogo continuavano a vivere nel rispetto e nell’amore reciproco, non era facile.
Come Abramo, Sara aveva una forte personalità, aveva un certo caratterino, aveva fatto del suo
meglio per adattarsi al marito ed a ubbidirlo, è vero, ma aveva una testa sua e godeva di una certa
libertà interiore.
Spesso Sara rifletteva su queste cose ed era convinta di questo: che la sua relazione col marito era il
frutto dalla sua relazione con Dio.
La sua fiducia in Dio la faceva una donna fedele e forte, capace di affrontare una vita con coraggio e
vivere in armonia col marito.
Aveva ubbidito ad Abramo ed aveva dato a lui il primo posto nella sua vita, del resto Abramo la
rispettava, ascoltava i suoi consigli e la onorava della sua amicizia.
Erano amici ed amanti, insieme discutevano le cose che riguardavano la giornata.
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Dal momento che erano in comunione con Dio e in comunione fra loro, il loro matrimonio e la loro
vita spirituale crescevano di pari passo.
Sara messa in pericolo dal marito
Nel frattempo erano andati in Sichem dove Dio era apparso ad Abramo e di nuovo gli aveva detto:
“Tu avrai discendenti e io ti darò questa terra.”
Alla fine avevano raggiunto la loro destinazione e ancora speravano di avere il figlio promesso.
Per gratitudine Abramo costruì un altare a Dio, ma a causa di una gran carestia che era venuta nel
paese, si spostò verso Sud per poter trovare cibo per la sua famiglia e per gli animali.
Stavolta però aveva fatto tutto di sua volontà senza chiedere consiglio a Dio, andarono in Egitto, in
una direzione che a Dio non piaceva.
La vita non era stata facile in Egitto, perché Sara era bellissima e Abramo aveva temuto per la sua
vita, pensando che gli egiziani lo avrebbero ucciso per poterla avere.
Così Abramo le aveva detto: “per favore dì che sei mia sorella, così non cercheranno di uccidermi.”
Così per paura, Abramo aveva trovato rifugio in una bugia.
E’ vero che all’inizio delle loro peregrinazioni erano d’accordo di usare questa tattica, la loro
coscienza era stata zittita del fatto che in realtà non era una bugia.
Eppure era un uomo che aveva avuto fiducia in Dio per tanti anni!
Come Abramo aveva previsto, la sua bellezza era stata notata ed ella andò a finire nell’harem del
Faraone.
La paura d’Abramo di morire non solo aveva messo in pericolo l’incolumità di entrambi, poteva
insinuare in Sara dubbi e minare alla base il loro rapporto.
Ma Dio, in cui ella aveva fiducia, intervenne attraverso tormenti e grandi piaghe nella casa del
Faraone. Il re d’Egitto intuì che la causa di tutti i suoi mali era il matrimonio con Sara, la rese ad
Abramo sottolineando l’inganno in cui era caduto e lo scacciò in malo modo.
In seguito a ciò erano tornati al paese che Dio aveva promesso loro, portando con sé una giovane
schiava egiziana, Agar.
Una promessa divina non mantenuta?
Gli anni passavano, continuavano a passare senza il figlio promesso.
Abramo si stava domandando se per caso un figlio adottato sarebbe stato la soluzione voluta da Dio,
forse il figlio sarebbe Eliezer, l’uomo più importante del casato.
Ma questo non era il piano di Dio, il Signore aveva promesso che l’erede di Abramo sarebbe stato
concepito da Sara.
La promessa di un discendente rimaneva immutabile, era stata confermata da un patto.(Gn 15,18)
Benché Dio avesse ripetuto le sue promesse, era stato lento ad adempirle.
Sara sapeva per esperienza che vivere una vita di fede significava non solo soffocare il ragionamento
umano, ma essere anche molto paziente.
La fede e la pazienza vanno di pari passo e non possono essere comprate facilmente come della
merce, ma si imparano attraverso la difficile scuola della vita.
Perciò Abramo e Sara dovettero imparare che la fede è ancorata al solido terreno delle promesse di
Dio, non alle sabbie mobili delle possibilità umane.
Ma erano diventati impazienti e l’impazienza porta a commettere errori, così è stato per Abramo e
sua moglie.
Sara rendendosi conto del fatto che gli anni in cui poteva concepire figli erano passati, suggerì ad
Abramo di prendere come concubina Agar, la schiava che avevano portato dall’Egitto.
Ella si era adattata ai costumi dei tempi, dopo tutto queste cose succedevano frequentemente.
Ma quello che aveva fatto era sbagliato, perché mancava di fede. Aveva voluto vedere adempiuta la
promessa di Dio ad ogni costo e nel momento scelto da lei.
Il vero problema di Sara, naturalmente, non fu la mancanza di pazienza, ma il fatto di aver cercato
una soluzione da sola. Aveva voluto agire in prima persona e ora doveva pagarne le conseguenza.
Che cosa aveva spinto Abramo ad ascoltarla? Questo ancora non è chiaro, ma come Adamo prima di
lui, egli pagò le conseguenze dell’aver ascoltato il suggerimento della moglie.
Gli effetti furono evidenti quasi subito, l’impazienza aveva cominciato a dare i suoi frutti: la casa di
Abramo stava per essere rovinata dalla scontentezza e dalla mancanza di pace.
Agar quando si era accorta di essere incinta aveva preso un atteggiamento di disprezzo verso la sua
padrona, Sara si arrabbia e nonostante ammette di aver dato la serva al marito come concubina,
chiede l’intervento di Abramo.
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Perché si era allontanata da Dio? Perché Sara aveva dimenticato di fare un esame di coscienza e di
pentirsi?
Invece aveva accusato il marito dell’atteggiamento di Agar e se Dio non fosse intervenuto, la
giovane schiava sarebbe morta per colpa di Sara.
Sara si era degradata, aveva imparato che una persona potente ed istruita può esercitare in pieno il
suo potere, quando si allontana da Dio, ella voleva vincere sul tempo.
Sara: una donna che dubita
Ritorniamo alla scena di partenza ad Hebron: Abramo intanto aspettava ospiti, essi erano apparsi ad
un tratto dal nulla e stavano davanti ad Abramo, suo marito.
All’ora di pranzo Sara era rimasta in disparte, come era costume in oriente. Ad un certo momento
però la sua attenzione fu attratta dalle parole dei visitatori: “Dov’è tua moglie Sara?”
Allora aveva pensato:”Chi sono questi uomini? Come fanno a conoscere il mio nome? Che cosa
sanno ancora di me?”
Abramo aveva risposto:”E’ nella sua tenda”, poi ecco viene fatta una dichiarazione sorprendente:”
Io ritornerò da voi fra un anno e tua moglie Sara avrà concepito un figliolo.”
Gli ospiti erano ancora seduti con la schiena verso la tenda, Sara sentiva che non sarebbe stata
notata. Era sola con i suoi pensieri ed il suo cuore rideva di queste parole: “Quegli ospiti sono
persone ben educate, dei veri gentiluomini, perciò dimostrano la loro gratitudine per l’ospitalità
augurando ad Abramo un figlio.” pensava dentro di sé la donna.
Ma ad un tratto le sue riflessioni cessarono e, meravigliata sentì che i suoi pensieri venivano ripetuti
ad alta voce: “Perché Sara ride dicendo – Io non concepirò un figlio alla mia età?”
Le parole dell’ospite la gelarono. “C’è qualcosa di troppo difficile per l’Eterno?”
“L’Eterno!!” fu allora che Sara lo riconobbe, così come Abramo lo aveva già riconosciuto.
Il Signore era disceso dal cielo per parlare a lei per confermarle la promessa personalmente. Sara
rimase talmente colpita che negò la sua mancanza di fede e disse :”Io non ho riso” Egli le confermò
“Sì tu hai riso”
Perché il Signore non le aveva parlato direttamente? Forse perché era uso orientale parlare alla
donna per mezzo del marito, o voleva forse ricordare ad Abramo che egli come sua moglie aveva
messo in dubbio le parole di Dio per mancanza di fede? Non molto tempo prima Dio aveva
promesso e ripetuto la promessa di un figlio, ma anche Abramo aveva perduto la speranza di avere
un figlio da Sara.
Era soddisfatto di avere Ismaele il figlio della schiava Agar, ed aveva pregato che il Signore lo
accettasse come suo erede! Ma ora il Signore non aveva creduto sufficiente dire soltanto ad Abramo
che il tempo di attesa era ormai finito, era venuto personalmente a dirlo anche a Sara.
L’anno dopo nel periodo stabilito da Dio,il figlio nacque, il nome che Dio gli diede Isacco significa
“quello che ride”.
Finché sarebbero vissuti Isacco avrebbe ricordato ai suoi genitori il fatto che con la loro incredulità
avevano messo un punto interrogativo dietro al suo nome, mentre Dio lo aveva cambiato in punto
esclamativo.
Sara, una donna come noi
I risultati dell’errore di Sara nel permettere che Agar diventasse la concubina di Abrahamo furono
molto seri.
Poiché Ismaele aveva deriso Isacco alla sua festa di ringraziamento, Sara aveva pregato Abramo di
mandare via Agar e suo figlio.
Abramo provava dolore in cuor suo, perché amava anche l’altro figlio. Tuttavia Dio gli disse si
ascoltare Sara, così mandò via la donna col suo bambino. Come è scritto, Dio amò anche loro, ma ci
fu una distinta separazione fra le discendenza di Isacco da quella di Ismaele.
Sara visse altri 37 anni dopo la nascita di Isacco, così non vide la miseria e il contrasto tra i
discendenti dei due figli di Abramo.
Infatti gli arabi, discendenti di Ismaele, e i Giudei, discendenti di Isacco, sono stati e lo sono oggi
perenni nemici. Dopo molti secoli i problemi del Medio oriente aspettano ancora una soluzione. E’
triste constatare che per una azione d’impazienza da parte di Sara abbia avuto delle conseguenza così
durature! E’ triste anche che la sua memoria sia stata macchiata da questo fatto.
Tuttavia la prima donna presente nella galleria dei ritratti degli eroi della fede in Ebrei 11, è Sara.
E’ ricordata con onore per la fede che aveva e non per le sue mancanze. La sua fede magnificamente
illustrata dalla nascita di Isacco crebbe durante la sua lunga vita.
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La sua vita richiese molti sacrifici, dovette astenersi da molte cose che amava e voleva, sopportò
sacrifici e delusioni, tutto senza lamentarsi. Sara fu pronta ai cambiamenti di situazione, adattandosi
al marito. Per la sua ubbidienza ad Abramo, ella lo aiutò ad ubbidire a Dio.
Recenti studi dimostrano che le cattive emozioni possono rendere una persona ammalata, dicono che
le buone emozioni dalla serenità e dalla felicità danno bellezza fisica, buona salute e lunga vita.
Poteva essere questo il segreto della bellezza esteriore e della vitalità di Sara? Pietro loda Sara per la
sua bellezza interiore e fa un appello a tutte le donne di seguire il suo esempio, perché Sara è
veramente una principessa fra le donne.
AGAR
Sarai, la moglie di Abram, non gli aveva dato figli, ma aveva una schiava egiziana, di nome Agar. Sarai
disse ad Abram: «Ecco, il Signore mi ha impedito di partorire; deh, accostati alla mia schiava; forse da lei
potrò avere figli». Abram ascoltò la voce di Sarai. Così, Sarai, moglie di Abram, prese l'egiziana Agar, sua
schiava, al termine di dieci anni dal suo soggiorno nella terra di Canaan, e la diede in moglie ad Abram, suo
marito. Egli si accostò ad Agar, che restò incinta. Ma, quando essa si accorse di essere incinta, la sua
padrona non contò più nulla per lei. Allora Sarai disse ad Abram: «Il mio torto è a tuo carico! Sono stata io
a metterti in grembo la mia schiava, ma, da quando si è accorta di essere incinta, io non conto più niente per
lei. Il Signore sia giudice tra me e te!». Abram disse a Sarai: «Ecco, la tua schiava è in tuo potere; falle
quello che ti par bene». Sarai allora la maltrattò, sì che quella fuggì dalla sua presenza. La trovò l'angelo
del Signore presso una sorgente d'acqua, nel deserto, sulla strada di Sur, e le disse: «Agar, schiava di Sarai,
da dove vieni e dove vai?». Rispose: «Fuggo dalla presenza della mia padrona Sarai» Le disse l'angelo del
Signore: «Ritorna dalla tua padrona e sottomettiti al suo potere». Poi Agar partorì ad Abram un figlio, e
Abram chiamò Ismaele il figlio partoritogli da Agar. Abram aveva ottantasei anni quando Agar gli partorì
Ismaele. Poi il Signore visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso. Sara concepì e
partorì ad Abramo un figlio nella sua vecchiaia, nel tempo che Dio gli aveva detto. Abramo pose nome
Isacco al figlio che gli era nato, che gli aveva partorito Sara. Il bambino crebbe e fu slattato e Abramo fece
un grande banchetto il giorno in cui Isacco fu svezzato. Ma Sara vide che il figlio di Agar l'Egiziana, quello
che essa aveva partorito ad Abramo, derideva suo figlio Isacco. Disse allora ad Abramo: «Scaccia questa
serva e il figlio di lei, perché il figlio di questa serva non deve essere erede con mio figlio Isacco». La cosa
dispiacque assai ad Abramo, per causa del figlio suo. Ma Dio disse Abramo: «Non ti dispiaccia questo per il
fanciullo e la tua schiava; ascolta la voce di Sara in tutto quanto ti dice, perché è attraverso Isacco che tu
darai nome a una discendenza. Ma io farò diventare una grande nazione che il figlio della schiava, perché è
tua discendenza». Allora Abramo si levò di mattina presto, prese pane, un otre di acqua e li diede ad Agar,
la quale le mise tutto sopra le sue spalle; le consegnò pure il ragazzo e la cacciò. Essa partì, vagando per il
deserto di Bersabea, finché fu esaurita l'acqua dell'otre. Allora essa abbandonò il ragazzo sotto un arbusto e
andò a sedere di dirimpetto, alla distanza di un tiro d'arco, perché diceva: «Non voglio vedere quando il
ragazzo morrà!». E quand'essa si fu seduta dirimpetto, tenendosi lontana, egli alzò la sua voce e pianse. Ma
Dio udì la voce del ragazzo e un angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le disse: «Che hai tu, Agar? Non
temere, perché Dio ha ascoltato la voce del ragazzo là dove si trova. Alzati! Solleva il ragazzo e stringi con
la tua mano la sua, perché io ne farò una grande nazione!». Dio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo
d'acqua. Allora andò a riempire d'acqua l'otre e fece bere il ragazzo. Dio fu col ragazzo che crebbe, abitò
nel deserto e divenne un arciere. Egli abitò nel deserto di Paran e sua madre gli prese una moglie del paese
d'Egitto. (Genesi 16,1-9.15-16; 21,1-3.8-21)
La storia di Agar s'innesta in quella di Sara e di Abramo e la illumina negli aspetti più sconcertanti. Ma è
anche una storia a sé, piena di dolore e insieme di fierezza e di speranza: la storia attualissima di una donna
che in condizioni di inferiorità sociale assoluta ha saputo difendere la propria dignità, la propria creatura; la
storia di una donna che ha saputo strappare a Dio quel compenso che Dio è sempre felice di concedere agli
umili e ai perseguitati. Bruna, forse nerissima, coi riflessi blu dei veri egiziani originari, fiera nel fisico anche
se umiliata dalla condizione di servaggio, Agar fa da contrappunto drammatico a Sara, la "principessa", la
padrona assoluta che potrebbe disporre della sua vita, come infatti, a un certo momento, farà. Per molti anni,
sotto la ricca tenda d'Abramo, la tragedia pende positivamente dalla parte di Agar e negativamente dalla
parte di Sara. Agar ha un bel bambino, mentre Sara è sterile: a novant'anni il suo grembo non è fiorito,
umiliazione suprema per una donna di quel tempo e di quel paese. Tuttavia è stata proprio Sara a consegnare
Agar al marito Abramo perché da lei egli potesse avere figlio e riscattare in esso la propria solitudine di
uomo inutilmente ricco e potente, di patriarca senza stirpe. A prima vista, il gesto di Sara è un gesto di
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generosità e di comprensione. A giudicarlo col metro, oggi ci sarebbe da restare alquanto sbigottiti: sarebbe
come se una bellissima moglie sterile decidesse di dare al proprio marito, di sua spontanea volontà, la propria
cameriera. In realtà le cose, allora, avevano necessariamente -un altro peso morale. Sara non agisce soltanto
per generosità. Al suo orgoglio materno frustrato, ciò che più occorre è un figlio. Siccome non può partorirlo
lei, sa che legalmente le appartiene anche ogni eventuale figlio della schiava. La schiava, in quel tempo -e
molti millenni ancora -, è veramente una "cosa", e anche i suoi figli" sono "cose" che appartengono al
padrone e alla padrona. Perciò Sara pensa soprattutto alla propria utilità e al proprio prestigio: ciò che non le
è venuto dall'amore, le verrà dal diritto. Avrà comunque un figlio. Lei bianca avrà un figlio nero e selvaggio
ma non importa. Importa che, sotto quella tenda ricca, dove echeggiano soltanto grida di schiavi e attorno
alla quale pascolano a migliaia i pingui armenti, squillino anche le risate ristoratrici di un bambino.
D'altronde è certo ch'ella ama Abramo profondamente e al proprio orgoglio, nel decidere il gesto, unisce
anche un moto genuino di comprensione per lui. Non sa che con quel gesto metterà la bella schiava in
condizione di ridere di lei. Prima che lei rida incredula della promessa di Dio, Agar ride di lei, come tutte le
schiave che montano in superbia. Sara è una vera, una tipica donna, e aduna nel proprio cuore e nei propri
atti molte contraddizioni. Ma non le manca il senso dell'obiettività. Un giorno dice ad Abramo: «Ecco, il
Signore mi ha fatta sterile da non poter partorire Va' con la mia schiava, così almeno potrò aver da lei dei
figli>>. Abramo ci pensa su ben dieci anni; se Sara lo ama, egli non ama meno lei. Ha resistito a lungo,
prima d'accettarne l'offerta. Dopo dieci anni mentre l'albero della moglie continua a seccare senza speranza,
egli accetta l'offerta singolare. Appena Agar si sente incinta, disprezza immediatamente la padrona, ne
schernisce la generosità. Prima ancora che Ismaele sia nato, Agar è fiera di sé, sente d'aver finalmente
raggiunto la tappa più incredibile della propria vita di schiava: quella d'essere da più della padrona per il solo
fatto d'essere, a differenza di lei, feconda e madre. L'Antico Testamento, come tutte le storie dei popoli
antichi, è pieno di questi casi di schiave che insuperbiscono e finiscono col dominare le padrone; com'è piena
la storia d'ogni tempo di belle sguattere, di graziose cameriere che riescono a farsi sposare dal padrone, e
dopo non le tiene più nessuno. L'ordito della storia di questo "trio" biblico - Abramo, Sara, Agar -è, in realtà,
quello classico comune anche alla commedia borghese dell'Ottocento. Ma occorre tener conto che questa
umana e sgradevole storia è inserita nel libro di Dio, e dietro i fatti non sempre edificanti nessuno può
dimenticare che Dio, all'insaputa degli stessi protagonisti, trama la salvezza del mondo secondo il proprio
amore e la propria sapienza, e «scrive dritto su righe storte». Sara si lamenta immediatamente col marito
dell'impudenza provocatoria della schiava: «Tu mi fai torto; io ti ho messo fra le braccia la mia schiava, ed
essa, accorgendosi d'aver concepito, mi disprezza: il Signore giudichi fra me e te», Sara si riduce al livello di
Agar: eccole ambedue gelose l'una dell'altra, tese ormai a escludersi a qualunque costo. In una situazione del
genere è concepibile che la peggio toccasse alla schiava, a colei che anche per legge era priva di ogni diritto.
Abramo amava Sara; inoltre non poteva difendere giuridicamente Agar, nel contesto del diritto e delle
usanze del tempo. Con docile remissività, accetta subito di porsi contro la schiava. Risponde: «Ecco, la tua
schiava è in tuo potere: fa' di lei quello che ti piace». Non sappiamo con precisione cosa abbia fatto la bella
"principessa" alla schiava umiliata. Agar non doveva essere nuova alle reprimende della padrona, anche se,
con molta probabilità, esse succedevano a periodi di notevole benevolenza. Si sa semplicemente che Sara
deve aver trattato Agar più duramente di tutte le altre volte, se Agar non ha più potuto resistere a vivere con
lei: «Ma Agar, trattata duramente da Sara, se ne fuggì». Agar non sa che proprio con quell'umiliazione e con
quella fuga entra compiutamente nel misterioso disegno di Dio. Dio l'ama soprattutto adesso, quella povera
schiava esule, quella "cosa" da nulla che comunque ha saputo dare al padrone il figlio che la moglie non gli
ha mai saputo e potuto dare. I tempi patriarcali, i tempi dell'Antico Testamento, appaiono spesso crudeli,
impietosi; ma Dio, nonostante certe sue parole per noi sconcertanti e terribili, è sempre un Dio d'amore.
schiera sempre dalla parte dei perseguitati e degli umili. Anche se Agar ha peccato disprezzando la sua
padrona, Dio tiene soprattutto conto che ora ella è soltanto una povera schiava che fugge nel deserto.
L'angelo di Dio si fa incontro alla fuggitiva: «Agar, serva di Sara, dove vieni, dove vai?». Ella risponde:
«Fuggo dal cospetto di Sara, mia padrona>>. E l’angelo del Signore a lei: «Torna alla tua padrona e
sottomettiti». Quindi, a garantire che il suo ritorno non sarà ulteriore umiliazione, l'angelo le dice parole che
devono aver sciolto subito il cuore della fiera fuggitiva: «Io moltiplicherò grandemente la tua posterità che,
da quanto sarà numerosa, non potrà essere contata». E precisa: Ecco, tu concepirai e partorirai un figlio al
quale porrai nome Ismaele, perché il Signore ha ascoltato la tua afflizione. Egli sarà come un onagro, un
uomo feroce; le sue mani contro le mani di tutti, e le mani di tutti contro le mani di lui: egli pianterà le tende
in faccia a tutti i suoi fratelli». Agar è sicura, adesso, che Dio l'ha guardata con pietà. E torna ad Abramo.
Sara avrà capito? Sta di fatto che non viene cacciata, e partorisce ad Abramo il figlio tanto atteso. Ambedue
le donne sono state umiliate dalla vita, in diverso modo. Forse questo vivace bambino colmerà la loro
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solitudine. L'illusione e la speranza durano poco. Appena nasce Isacco, il sereno scompare, finché l'incidente
si verifica il giorno stesso in cui il piccolo Isacco viene svezzato. Abramo, per festeggiare il divezzamento,
ha indetto un grande convito. Davanti a tutta la gente, però, Ismaele, più grande e già «feroce», come l'angelo
stesso l'aveva definito prima che nascesse, si mette a prendere in giro il fratellastro più piccolo e debole. Sara
scatta di nuovo e chiede ad Abramo: «Caccia questa schiava e suo figlio, perché il figlio della schiava non
deve essere erede col mio figlio Isacco». A queste parole Abramo si sente infelice. Li ama ambedue, quegli
splendidi ragazzi: sono sangue del suo sangue; e così diversi fanno davvero allegria, e danno speranza alla
sua vecchiaia. Ma Sara non deflette. È Dio stesso che interviene a placare la coscienza di Abramo,
rivelandogli che dove la crudeltà di una donna semina l’ingiustizia, Egli stesso saprà seminare il riscatto e la
consolazione. Abramo ubbidisce a cuore stretto. Ecco Agar di nuovo nel deserto, sola con il suo ragazzo. Il
pane e l’acqua dell’otre finiscono presto. Il bambino ha fame e sete, forse morirà? È possibile che le
promesse di Dio non si compiano? Agar è un po’ l’immagine di tutte le madri torchiate dalla sventura, i cui
figli, pur innocenti, pagano più dei colpevoli. Agar non vuole veder morire Ismaele. Seduta nella sabbia
comincia a piangere e a lamentarsi. L’angelo chiama allora dal cielo una seconda volta la donna: <<Che fai
Agar? Non temere perché Dio ha ascoltato la voce del fanciullo. Alzati prendi tuo figlio per mano, perché io
farò di lui un grande popolo>>. Ella vide un pozzo . d’acqua, andò a riempire l’otre e diede da bere a
Ismaele. Dio fu con lui, ed egli crebbe ed abitò nel deserto di Paran e sua madre gli diede per moglie una
donna d’Egitto. Agar scompare così dalla scena biblica in una luce di tenerezza e consolazione. È il
momento in cui sua madre sa scomparire con discrezione. Le sue lacrime, la sua solitudine, la sua
umiliazione sono state ascoltate da Dio. Agar è l’immagine di quei perseguitati dalla giustizia che avranno in
eredità il Regno dei cieli. Molti millenni più tardi, la Madre di Gesù, cantando di gratitudine nel Magnificat,
riassumerà nella propria anche la gratitudine di Agar verso quel Dio che «esalta gli umili» e «riempie di beni
i poveri». Agar non è stata esente da difetti, come la sua padrona Sara. Ma ha offerto ed espiato duramente.
Tutto il suo destino di schiava si consuma nella vocazione del figlio. Ella è presenza profetica nella storia, in
quanto documenta che Dio non parteggia a priori per nessuno, che Dio non è razzista, che non fa crudeltà
gratuite, ma piuttosto concede a ogni popolo lo sviluppo secondo le sue origini e le sue prerogative. Se ha
stabilito di consegnare al popolo ebraico un delicatissimo deposito come quello dell'autentica rivelazione
religiosa, non per questo annienta o umilia gli altri popoli. La storia di Agar dimostra che il Signore
restituisce ai poveri, agli schiavi e agli umili, centuplicato spesso anche in questa vita come ha fatto col
giusto Giobbe -, tutto ciò che il sopruso e la sventura avevano loro tolto.
DEBORA
Anche dopo la morre di Eud gli Israeliti continuarono a compiere ciò che è male agli occhi del Signore, il
quale li abbandonò nelle mani di Iabin, re di Canaan che regnava in Azor, e in quelle del comandante del
suo esercito che si chiamava Sisara e risiedeva a Caroset-Goim. Gli Israeliti alzarono allora il loro grido al
Signore, perché Iabin, che aveva novecento carri da guerra di ferro, li opprimeva duramente da venti anni.
C'era Debora, una profetessa, moglie di Lappidòt, la quale in quel tempo era giudice in Israele. Se ne stava
seduta sotto la palma che porta il suo nome, fra Rama e Bete!, nella montagna di Efraim, e gli Israeliti
salivano a lei quando avevano bisogno di un giudizio. Un giorno essa mandò a chiamare Barak, figlio di
Abinoam, a Kedes di Neftali e gli disse: «Il Signore, Dio di Israele, ti ordina di andare ad arruolare sul
monte Tabor diecimila uomini delle tribù di Nefrali e di Zabulon e di porrarli con te; dice che condurrà
davanti a te, al fiume Kison, Sisara, comandante dell'esercito di Iabin, con i suoi carri e le sue truppe e li
darà nelle tue mani». Barak le disse: «Se verrai con me, ci andrò; ma se tu non verrai con me, io non mi
muoverò». Rispose Debora: «Vengo senz'altro, solo che la gloria dell'impresa alla quale ti accingi non sarà
tua perché il Signore darà Sisara nelle mani di una donna». E Debora si mosse e andò a Kedes con Barak.
Barak, radunata in Kedes la gente di Zabulon e di Neftali, mosse alla testa di diecimila uomini e Debora
andò con lui. Eber il Kenita si era separato dai Keniti, discendenti da Obab, suocero di Mosè: così era
arrivato a porre la sua tenda alla quercia di Saannaim, che è vicino a Kedes. Quando Sisara seppe che
Barak, figlio di Abinoam, era giunto sul monte Tabor, radunò tutti i suoi carri da guerra, novecento carri di
ferro e tutti i suoi uomini, e li guidò da Caroset-Goim al torrente Kison. Disse allora Debora a Barak:
«Avanti, che questo è il giorno in cui il Signore darà Sisara nelle tue mani; Egli marcia davanti a te». Barak
scese dal monte Tabor e i suoi diecimila uomini lo seguirono. Allora il Signore gettò nel terrore e travolse
Sisara, tutti i suoi carri e tutto il suo esercito, che fu massacrato davanti a Barak. Sisara scese dal carro e
continuò la sua fuga a piedi. Barak inseguì i carri da guerra e la fanteria fino a CarosetGoim: tutto
l'esercito di Sisara fu passato a fil di spada e non si salvò nessuno. Fuggendo a piedi, Sisara si diresse alla
tenda di Giaele, moglie di Eber il Kenita, perché c'era pace fra Iabin, re di ALar, e la casa di Eber il Kenita.
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Giaele uscì incontro a Sisara e gli disse: «Vieni, signore, vieni da me e non temere». Questi entrò nella
tenda di Giaele, che gli offrì di nasconderlo sotto un grosso panno. Sisara intanto chiedeva di dargli da bere
un po' d'acqua, perché aveva sete ed essa, aperto l'otre del latte, lo fece bere e lo coprì. Sisara le disse:
«Mettiti alla porta della tenda e se qualcuno verrà a domandarti se qui c'è un uomo, rispondi di no». Ma
Giaele, moglie di Eber, prese un piolo della tenda e, impugnato il martello, rientrò piano piano dove giaceva
Sisara: gli piantò nella tempia il piolo che si conficcò nel suolo. Su Sisara, che si era addormentato
profondamente, calarono le tenebre e morì. Ed ecco giungere Barak all'inseguimento di Sisara. Giaele gli
uscì incontro e gli disse: «Vieni, che ti faccio vedere l'uomo che stai cercando». Egli entrò nella tenda della
donna e vide Sisara che giaceva morto col piolo conficcato nelle tempie. Quel giorno Dio umiliò il re
cananeo Iabin davanti agli Israeliti. La mano degli Israeliti si fece sempre più pesante sopra di lui, finché
non lo annientarono del tutto. (Giudici 4,1-24)
Stupisce di trovare una donna alla guida del popolo eletto, una donna che assomma i ruoli di profetessa,
giudice e guerriera. Tale è Debora, la «madre di Israele». Una donna che indubbiamente non brilla per
riflesso di luce maschile, quale moglie o sorella di un uomo illustre. Semmai è lei che getta luce sugli
Israeliti, compreso il generale Barak, il «raggio» di sole. Il Libro dei Giudici introduce Debora, il cui nome
significa "ape", come la moglie di Lappidot. Ma del marito non sappiamo altro che il nome. Egli non ha un
particolare ruolo da giocare, mentre lei è una donna famosa prima ancora di prendere in mano le redini del
governo e diventare «madre di Israele», salvatrice della patria. È famosa anzitutto come profetessa e donna
saggia che giudica e dirime le controversie degli Israeliti. Debora anticipa Salomone: è la sapienza che
stabilisce la giustizia. È una donna ispirata, in un rapporto di particolare intimità con il Santo d'Israele: è la
«profetessa», bocca di Dio per il suo popolo. E gli Israeliti andavano numerosi a consultarla. Salivano sulle
montagne di Efraim, tra Rama e Bete. Essa li accoglieva all'aperto, seduta sotto una palma che portava il suo
nome: la palma di Debora. La palma, come è noto, è un albero carico di simbolismo; nell'antico Oriente era
anche un albero sacro, indicante la gloria di Dio. Le pareti e i battenti del Santo dei santi nel tempio di
Salomone erano ornati da bassorilievi che, in particolare, raffiguravano palme (1 Re 6,29-35). Ed ecco che in
prossimità del santuario di Betel, sotto la palma, Debora rivela la gloria di Dio. Quella che si manifesta nelle
trame complesse della storia come giustizia e liberazione degli oppressi. Sotto la palma di Debora la gloria di
Dio illumina la vita quotidiana.
Il coraggio di Debora
Debora è una profetessa audace che non teme il confronto con i potenti. Prende l'iniziativa di convocare
Barak e gli espone l'oracolo divino: dovrà arruolare diecimila uomini l'esercito nemico. Il generale tentenna,
paventa un eventuale fallimento, e avanza un'ardita richiesta: «Se verrai con me, ci andrò; ma se tu non
verrai con me, io non mi muoverò». Si accaparra così la possibilità di consultare Dio mediante la profetessa
anche durante la battaglia, e soprattutto conta sull'appoggio carismatico di Debora. Sarà lei a dare coraggio a
un esercito improvvisato che deve affrontare le truppe di Sisara e il poderoso armamentario (ben novecento
carri da guerra!) della potente città cananea di Azor. Debora accetta. Andrà con Barak alla battaglia. Ma
annuncia una conclusione sorprendente: la palma per l'uccisione di Sisara non andrà al generale, sarà gloria
di una donna. Ed eccola al fianco di 8arak sulla cima del monte Tabor, certa dell'intervento divino. È lei che
decide il giorno della battaglia. Il Signore uscirà davanti a 8arak come nell'esodo è uscito davanti al suo
popolo. E già canta la vittoria, la nostra profetessa, come Maria, sorella di Mosè, sulle rive del Mar Rosso:
«lo voglio cantare in onore del Signore, io scioglierò un canto al Signore, al Dio d'Israele... ». Sulle rive del
torrente Kison si è ripetuto il grande prodigio. Ancora una volta il Dio d'Israele ha capovolto le sorti: il
torrente Kison, come un tempo il Mar Rosso, ha travolto i potenti.
Dio ha trionfato
Debora si alza, ridesta in sé tutta la forza e l'ardore profetico e canta la mirabile vittoria che l'ha vista
protagonista. «Su via, su via, Debora: componi un canto!». Oltre i prodi d'Israele e il generale Barak, è Dio
stesso che ha mirabilmente trionfato. E c'è qualcosa d'inedito in questa vittoria, qualcosa che non ha
precedenti nella storia d'Israele: Dio ha agito per mano di donna! Con acuta finezza psicologica, Debora
chiude il suo cantico contrapponendo due donne: Giaele e la madre di Sisara. La prima è benedetta fra le
donne per aver giocato d'astuzia e di coraggio: si è premurata di accogliere nella sua tenda il generale nemico
e poi, durante il sonno, lo ha trafitto con un piolo e conficcato a terra. Ed ecco la madre di Sisara, intravista
dietro le cortine della finestra, in attesa impaziente, quasi presagendo il pericolo. Come mai il figlio ritarda?
Cercano di consolarla le damigelle: il ritardo è dovuto alla spartizione di un ricco bottino: una, due fanciulle
per guerriero, e vesti variopinte e ornamenti per il collo del vincitore! Non sanno, povere illuse, che in Israele
si è alzata una donna, si è alzata Debora. Si è alzata per risvegliare le coscienze assopite e ristabilire la
giustizia, per vincere il nemico e impedire che le donne d'Israele fossero ancora umiliate e spartite come
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bottino di guerra! Debora offre al suo popolo un miele tratto da molti fiori. Il dolce ricordo delle gesta
passate si fonde nel suo cantico con l'esperienza attuale della salvezza. È il miele della Terra promessa che
ape-Debora ha pazientemente elaborato sotto la sua palma.
DALILA
In seguito Sansone si innamorò di un'altra donna, che abitava nella valle di Sorek e si chiamava Dalila.
Allora i principi dei Filistei andarono dalla donna e le dissero: «Seducilo, per sapere quale sia il segreto
della sua grande forza e con quali mezzi potremo aver ragione di lui, per legarlo e ridurlo all'impotenza.
Noi ti daremo ciascuno mille e cento sicli d'argento». Allora Dalila disse a Sansone: «Ti prego, svelami
quale sia il segreto della tua grande forza e con quali mezzi potresti essere legato e ridotto all'impotenza».
Le rispose Sansone: «Se fossi legato con sette corde di nervo fresche, non ancora essiccate, perderei la mia
forza e sarei come un uomo qualsiasi». Subito i principi filistei inviarono a Dalila sette corde di nervo
fresche, non ancora essiccate, ed essa con quelle legò Sansone: nella stanza intanto c'era, pronta ai suoi
cenni, gente all'agguato. Poi essa gli gridò: «I Filistei ti assalgono, Sansone!». Ma egli distrusse i legami
come si volatilizza un filo di stoppa che senta il fuoco. E così il segreto della sua forza non fu svelato. Disse
Dalila a Sansone: «Ecco, ti sei preso giuoco di me, raccontandomi bugie; ora dimmi con che cosa potresti
essere legato». Egli le rispose: «Se davvero fossi legato con funi nuove, mai adoperate, perderei la mia forza
e sarei come un uomo qualsiasi». Subito Dalila prese delle funi nuove, lo legò e poi gli gridò: «I Filistei ti
assalgono, Sansone!». Intanto nella stanza c'era gente all'agguato. Ma egli distrusse le funi che legavano le
sue braccia come se fossero fìlo. Dalila disse a Sansone: «Ancora una volta ti sei preso giuoco di me
raccontandomi bugie: dimmi con che cosa potresti essere legato». Egli le rispose: «Se tu intrecciassi le sette
trecce della mia testa con l'ordito e le fissassi con il battente, perderei la mia forza e sarei come un uomo
qualsiasi». Fattolo addormentare, essa intrecciò le sette trecce della sua testa con 1'ordito e le fissò con il
battente; poi gli gridò: «I Filistei ti assalgono, Sansone!». Ma egli, svegliatosi dal sonno, strappò via
battente, traliccio e ordito. Dalila allora si rivolse a Sansone con queste parole: «Come puoi dire che mi
ami, se il tuo cuore è lontano da me? Questa è la terza volta che ti sei preso giuoco di me, col non volermi
dire in che cosa consista la tua grande forza». Essa lo soffocava con le sue parole e lo tediava tutti i giorni,
finché Sansone fu tanto angustiato da non poterne più. Allora le apri tutto il suo animo, dicendole: «Il rasoio
non si è mai posato sulla mia testa, perché io sono nazireo di Dio fin da quando ero nel seno di mia madre.
Se venissi rasato, la mia forza se ne andrebbe; mi indebolirei e diverrei come tutti gli altri uomini». Dalila
comprese che Sansone le aveva parlato sinceramente e mandò a chiamare i principi dei Filistei invitandoli,
questa volta, a venire essi stessi, perché Sansone le aveva aperto tutto il suo cuore. I principi dei Filistei la
raggiunsero, recando il danaro. Dalila fece addormentare Sansone sulle sue ginocchia: poi chiamò un uomo
a tagliargli le sette trecce. Così egli cominciò a indebolirsi e la forza se ne andò da lui. Allora Dalila gridò:
«I Filistei ti assalgono, Sansone!». Egli si svegliò dal sonno pensando che anche questa volta, come le altre,
si sarebbe liberato scuotendosi con forza. Ma non sapeva che il Signore si era allontanato da lui. I Filistei,
presolo e accecatolo, lo condussero a Gaza, dove lo tenevano legato con due catene di bronzo e gli facevano
girare la macina nella prigione. Intanto i capelli di Sansone avevano ricominciato a crescere come prima di
essere rasi. (Giudici 16,4-22)
Sansone e Dalila: sono due nomi destinati a evocare per sempre da una parte la forza fisica, dall'altra l'astuzia
e la bellezza ingannatrice. Sansone è stato "giudice" di Israele per vent'anni. Anche lui è vissuto in una
stagione morta, sia dal punto di vista morale che dal punto di vista politico. Il gigante famoso non ha infatti
difeso la sensibilità spirituale del suo popolo; ne ha difeso soltanto la sopravvivenza materiale. La sua lotta
con i Filistei non è mai stata una guerra vera e propria, ma piuttosto una guerriglia tessuta di colpi di astuzia
e di prestanza personale. La più evidente linea che risulta dalle avventure di Sansone è appunto quella della
forza fisica. Sembra che Jhwh abbia sfidato i nemici del suo popolo sul loro stesso terreno, quasi
rinunciando, per un momento, ad affermazioni più esplicitamente religiose. Anche Sansone, in definitiva, è
parola di Dio, ma una parola che si limita a far dire a Dio: «lo sono più forte di voi». Sansone è più forte di
Iefte, ma sembra meno selvaggio di lui. È una natura bruta; se non lo provocano, Sansone non assale mai per
primo. Tuttavia non è giusto vedere Sansone soltanto come un gigante forte nei muscoli. Egli i è anche
astuto, se non proprio sapiente. Non gli manca il gusto dei simboli e degli indovinelli, degli apologhi cifrati e
de" cruciverba tipici dell'Oriente. È vero che se non gli danno ragione ricorre più alle mani che alla logica,
ma non è affatto privo di logica. Si direbbe, tutto sommato, che egli cerchi, istintivamente, di accendere la
massa della propria forza con qualche scintilla di saggezza, anche se molto elementare e proverbistica. Jhwh
si è degnato di accettare quella enorme forza e quella semplice saggezza per difendere il proprio popolo in
un'ora di spaventosa decadenza. Non bisogna dimenticare che Sansone è un "nazireo", cioè un consacrato a
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Dio. I nazirei, che equivalevano in qualche modo agli anacoreti e ai monaci dell'era cristiana, non erano
esenti nemmeno da speciali obblighi che potrebbero corrispondere ai voti monastici. Come molti bambini
che hanno davanti a sé un compito previsto da Dio, anche Sansone nasce da una donna anche per parecchi
anni è rimasta sterile: «C'era un uomo di Zorea, della tribù di Dan, chiamato Manoach. Sua moglie era
sterile, non aveva avuto figli». Un giorno l'angelo annunzia ai due sposi che avranno un figlio. «Un anno
dopo, verso la stessa epoca, la donna generò un figlio e lo chiamò Sansone. Il bimbo diventò grande, Jhwh lo
benedisse e lo spirito di Jhwh cominciò a investirlo». Diventato un giovanotto, Sansone, passando per Timra,
adocchia una bella filistea e se ne innamora. Quando chiede ai suoi genitori di fare la rituale domanda ai
genitori di lei, secondo l'uso del tempo e del paese, padre e madre si scandalizzano che un Ebreo voglia
sposare una Filistea. Non sanno che il giovane, a sua stessa insaputa, è ispirato da Jhwh: «II padre e la madre
dissero: "Non ci sono donne tra le figlie dei tuoi fratelli e in tutto il tuo popolo, perché tu debba andare a
prendere moglie tra i Filistei incirconcisi?". Ma Sansone rispose al padre: "Prendimi quella, perché quella
piace ai miei occhi"». Il padre e la madre non sapevano che tutto ciò proveniva da Jhwh il quale cercava un
pretesto contro i Filistei che in quel tempo dominavano sugli Israeliti. E a questo punto che entrano in scena
quelle che sono le donnette di Sansone. Egli infatti avrà sempre a che fare con donne furbe e stupide nello
stesso tempo. Esse saranno lo stimolo alle sue gesta, per essere, alla fine, la sua rovina. Chi lo tradisce per
prima è proprio la moglie, che durante la festa di nozze svela agli ospiti la spiegazione di un enigma
strappata al marito. Dopo un litigio con la moglie, la devastazione del raccolto di grano dei Filistei e la morte
tra le fiamme della donna, uccisa per rappresaglia dagli stessi Filistei, Sansone a sua volta passa alla
vendetta: « Prese a menare colpi su colpi: che strage!». Poi si ritira in una grotta, a Etam. Questa volta gli
Israeliti stessi cercano di disfarsi di questo scomodo uomo, che procura loro tutte le rappresaglie filistee.
Scendono addirittura in tremila alla grotta di Etam e lo legano per consegnarlo ai Filistei. Se la sbrighi da
solo! Ma a lui basta che gli lascino la vita. Essi non sospettano nemmeno quale forza c'è in lui: <<Quando
arrivò a Lekhi e i Filistei già gli correvano contro con grida di trionfo, lo spirito di Jhwh piombò su Sansone,
e le corde che aveva sulle braccia diventarono come fili di lino bruciati dal fuoco, e i legami come se si
disfacessero nelle sue mani. Trovata una mascella d'asino, morto di fresco, stese la mano, la prese e con
quella abbatté mille uomini». A questo punto entra in scena l'ultima donna, Dalila, colei che lo farà
sconfiggere. Il gigante ha un debole per le donne, ma non manca mai, nei suoi trasporti, una vera esigenza
d'affetto. Solo che gli è sempre andata male. Dalila è la peggiore di tutte le donne che egli potesse incontrare.
(dei principi dei Filistei andarono dalla donna e le dissero: Seduci lo, per sapere quale sia il segreto della sua
grande forza e con quali mezzi potremmo aver ragione di lui, per legarlo e ridurlo all'impotenza. Noi ti
daremo ciascuno mille e cento sicli d'argento». Situazione classica: il forte tradito dalla donna venale. Ma
Sansone qualcosa intuisce anche questa volta; e, sicuro come tutti i forti, mescola la sfida alla propria forza
con la sicura beffa agli avversari. Le donne gli hanno sempre mentito: ora,sarà lui a mentire alla donna.
Dalila con molta ingenuità, chiede esplicitamente: “Dimmi un po’ donde proviene questa tua forza così
grande, e come bisognerebbe ingannarti, per domarti?». Probabilmente la donna sa toccare il punto debole
del gigante incapricciato di lei. Provoca lo sprezzo del pericolo, la sfida a ogni tentativo di cattura. Egli
precisa. sornione: “Se mi legassero con setti corde fresche di nervo, sarei fiacco come un uomo qualunque”.
Dalila passa subito le informazioni, lega lei stessa Sansone nel sonno e quindi gli grida: “Sansone, i Filistei ti
assalgono!». Egli rompe le corde di nervo come si rompe un filo di stoppa. La donna torna alla carica, sicura
che l'orgoglio dell'uomo, alla fine, dirà la verità. Ma Sansone la inganna ancora: “Se mi legassero ben bene
con corde nuove non ancora adoperate, diventerei debole come qualunque uomo». Dalila lo lega secondo la
prescrizione, e ripete la scenetta: «Sansone, i Filistei ti assalgono». Ma egli strappa le corde nuove dalle
braccia come un filo. Dalila tenta l'ultima carta. Sansone si diverte a inventare ricette fantasiose circa la
propria sconfitta: Se tu mi intrecciassi le sette trecce del capo con l'ordito e le fissassi con il battente,
diventerei debole come un uomo qualunque». Dalila ci prova, ma sempre con lo stesso risultato. Allora non
c'è che il tasto del vero amore: «Come puoi dire che mi ami, se il tuo cuore è lontano da me? Questa è la
terza volta che ti prendi gioco di me, invece di dirmi perché la tua forza è così grande». Sansone non è
cattivo. A sconfiggerlo sono un po' la noia, un po' la tenerezza per questa donna. Il suo stato d'animo è
descritto dalla Bibbia con termini di straordinaria efficacia: «Essa lo soffocava con le sue parole e lo tediava
tutti i giorni, finché Sansone fu tanto angustiato da non poterne più. Allora le aprì tutto il suo animo,
dicendole: <<il rasoio non si è mai posato sulla mia testa, perché io sono nazireo di Dio fin da quando ero nel
seno di mia madre. Se venissi rasato, la mia forza se ne andrebbe; mi indebolirei e diverrei come tutti gli altri
uomini"».Questa volta il gigante ha detto tutta la verità e ha fornito, anche, la spiegazione spirituale del suo
"miracolo" fisico: la sua forza dipende da un voto. Tra i "voti" del nazireo infatti oltre a non bere vino e
bevande fermentate e ad astenersi dalle carni proibite, c'era anche l'obbligo di non radersi i capelli. Questo
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era segno di totale dedizione a Jhwh. Da vera donna che non ama, Dalila sa che Sansone, per affetto se non
per amore, ha detto la verità: Jhwh, è andato tutto bene. Ora il nazireo è diventato come un uomo qualsiasi,
davvero uno sconfitto dalla donna. Questa volta i nemici non se lo lasciano sfuggire: «I Filistei, presolo e
accecatolo, lo condussero a Gaza, dove lo tenevano legato con due catene di bronzo e gli facevano girare la
macina nella prigione». Il gigante è diventato lo schiavo. Ora sono i suoi stessi nemici ad avvantaggiarsi
della forza avuta dalla natura per combattere contro di loro. I nemici fanno festa, cantano e danzano,
attribuendo al loro dio Dagon una simile vittoria: in un lungo duello in cui avevano avuto finora la peggio,
Dagon finalmente, secondo loro, ha sconfitto Jhwh. In realtà non si accorgono, nella confusione euforica
della vittoria, che sul capo di Sansone «i capelli avevano ricominciato a crescere». Dalila ha ultimato il suo
compito. Scompare nell'anonimato. Il caso l'ha posta a fianco d'uno su cui Dio aveva disegni che ella non
poteva capire. A lei è stato chiesto soltanto d'aiutare il suo popolo, d'ingannare il gigante. In questo Dalila ha
adempiuto con estrema diligenza il suo dovere. Vista dalla parte della storia d'Israele, tuttavia, non è che una
bella donna senza scrupoli. Forse avrà emesso un respiro di sollievo, una volta liquidata la faccenda della
cattura. Oppure c'era anche lei alla grande festa nel tempio di Dagon, il giorno che fu deciso di far fare al
gigante cieco e incatenato la parte del buffone da circo? In tal caso morì anche lei, con gli altri tremila,
quando, fulminea, scoppiò la tragedia. D'altronde, se morì Sansone, perché non avrebbe dovuto morire, fra
tanti, anche la causa della sua sconfitta definitiva? Egli si prese la rivincita nel modo più drammatico e
clamoroso. Nemmeno nella tragedia greca troviamo qualcosa di tanto solenne e terribile come la fine di
Sansone e dei Filistei: «Poiché il loro cuore era allegro, dissero: Chiamate Sansone, per divertirci un po'.
Allora Sansone fu fatto uscire dalla prigione, e faceva dei giochi». Nelle tenebre, il gigante vinto medita la
vendetta. A un certo punto, in mezzo al brusio di quelle migliaia di persone, egli tocca le due colonne
centrali che sostengono il tempio. Ha subito un'idea. Da buffone diventerà carnefice. Porrà fine al la sua vita
di schiavo, riscatterà la propria sconfitta, ucciderà quanti Filistei non ha mai ucciso in tutta la sua vita. Si
ricorda di Dio, e lo prega: «"Signore Dio, ricordati di me. Dammi forza ancora per questa volta, e in un colpo
solo mi vendicherò dei Filistei per i miei due occhi". Allora Sansone si mise a palpare le due colonne di
mezzo su cui poggiava il tempio, puntò contro di esse, su una con la destra, sull'altra con la sinistra, e gridò:
"Che io muoia insieme con i Filistei". Si curvò con tutta la forza, e il tempio rovinò addosso ai principi e a
tutta la gente che vi era dentro. Furono più i morti che egli causò con la sua morte di quanti aveva ucciso in
vita». Povero gigante, forte e cieco. Si vendicava della sconfitta, degli occhi perduti, delle persecuzioni
contro Israele. E, certamente, di tutte le donne astute che lo avevano ingannato proprio quand'era stato più
sincero.
NOEMI E RUT
Avvenne che nei giorni in cui governavano i Giudici, ci fu una carestia nella terra d'Israele e un uomo da
Betlemme di Giuda se ne andò ad abitare nei campi di Moab, insieme con la moglie e due suoi figli. Il nome
dell'uomo era Elimèlech e il nome della moglie Noemi; quello dei suoi due figli Maclon e Chilion, efratei da
Betlemme di Giuda. Essi se ne andarono nei campi di Moab e vi si stabilirono. Morì poi Elimèlech, marito di
Noemi, ed ella restò con i suoi due figli. Essi presero mogli moabite, di cui una si chiamava Orpa e l'altra
Rut. Dimorarono là circa dieci anni e poi morirono anche Maclon e Chilion e la donna rimase priva del
marito e dei suoi due figli. Allora ella partì insieme alle nuore, per tornare dai campi di Moab, perché aveva
sentito dire che il Signore aveva visitato il suo popolo, dandogli del pane. Noemi si allontanò dal luogo in
cui aveva dimorato e le due nuore erano con lei e si misero in viaggio per tornare nella terra di Giuda. Ma
Noemi disse alle due nuore: «Orsù, tornate ciascuna nella casa della vostra madre e sia benigno il Signore
con voi come voi lo siete state con i vostri morti e con me. Vi conceda il Signore di trovare pace ognuna
nella casa del proprio marito». Ma Rut rispose: «Non forzarmi a lasciarti e ad allontanarmi da te, perché
dove tu andrai, andrò anch'io e dove tu dimorerai anch'io dimorerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo
Dio sarà il mio Dio. Dove tu morirai, morrò anch'io e là sarò sepolta. Il Signore mi faccia questo e altro
ancora, se altra cosa che la morte separerà te da me e me da te». Noemi capì che Rut era risoluta a seguirla
e cessò di insistere. Partirono insieme fino a che vennero a Betlemme. Noemi aveva un parente di suo
marito, uomo eminente, della famiglia di Elimèlech, che si chiamava Booz. Rut, la Moabita, disse a Noemi:
«Lascia che vada a spigolare nei campi, seguendo coloro presso cui troverò grazia ai loro occhi». Noemi le
rispose: «Va, figlia mia». Essa andò ed entrò in un campo per spigolare dietro ai mietitori e le capitò per
caso di trovarsi nel campo che apparteneva a Booz, della famiglia di Elimèlech. Ecco che Booz venne da
Betlemme e disse ai mietitori: «Il Signore sia con voi»; essi risposero: «Ti benedica il Signore». Booz disse
inoltre al servo preposto ai mietitori: «Di chi è quella ragazza?». Il servo preposto ai mietitori rispose: «È
una ragazza moabita, che è tornata con Noemi dai campi di Moab. Ella ha detto: "Lasciami spigolare e
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raccogliere fra il grano, andando dietro ai mietitori"; è venuta ed è restata dal mattino fino a ora, senza
accordarsi nemmeno un piccolo riposo». Booz disse a Rut: «Ascolta, figlia mia: non andare a spigolare in
altri campi, non allontanarti da qui e così starai insieme alle mie serve». Rut si alzò per spigolare e Booz
dette quest'ordine ai suoi servi: «Lasciate1a spigolare anche in mezzo ai covoni e non mortificatela; anzi
lasciate cadere per essa delle spighe dai manipoli e abbandonatele, affinché essa possa l'accoglierle senza
che voi la rimproveriate». Noemi, sua suocera, disse a Rut: «Figlia mia, non devo io forse cercarti una
sistemazione, nella quale tu possa trovani bene? Orbene Booz, con le serve del quale sei stata, non è forse
nostro parente? Ecco, egli vaglia 1'orzo nell'aia questa sera. Tu lavati, ungiti, mettiti il mantello e scendi
nell'aia. Non farti vedere da lui fino a che non abbia finito di mangiare e di bere; e quando si sarà coricato,
osserva in quale luogo egli si sarà coricato, poi va', e scoprilo dai piedi e coricati tu stessa. Egli poi ti dirà
quello che devi fare». Rut le disse: «Farò tutto quello che mi hai detto». (Rut 1,1-9.16-19; 2,1-8.15-16; 3,1-5)
Una famiglia trasmigra dalla Giudea in un altro paese. Perché? Perché in Giudea c'è la carestia. Però la
famiglia è ricca. Come si verrà a sapere in seguito, possiede delle terre in Giudea. Non sarebbe dunque
costretta a emigrare, a meno che ciò rientri nei piani della salvezza. Dopo dieci anni solo la donna, "Noemi,
fa ritorno in patria. Suo marito e i due figli sono morti, e le ricchezze che aveva portato con sé sono disperse.
Così Noemi torna alla terra di Giuda, al suo clan. Porta con é una delle due giovani nuore, Rut. Noemi non
aveva voluto che l'accompagnassero tutte e due le nuore. Teme che quelle due giovani donne senza figli non
trovino marito, in Giudea, e che perciò debbano intristire in una squallida esistenza senza nozze e senza
prole. Essa vede la situazione come oggi la vedrebbe una donna che, venendo dall'Africa nera con due nuore
negre rimaste vedove e prive di sostanze, le introducesse in una famiglia europea borghese piena di
pregiudizi razziali Le due giovani donne lo sanno bene, ma non vogliono abbandonare la suocera, a cui sono
molto affezionate. Una delle due si lascia convincere e resta in terra straniera, cioè nella sua patria; l'altra
invece, Rut, pronuncia le parole poi divenute famose: «Dove andrai tu andrò anch'io, dove morirai tu morirò
anch'io... ». Che Rut, con quell'atto d'amore, si procurasse un radioso destino, non poteva immaginarlo né lei
né Noemi. Rut non solo sarà ricca e amata, ma diverrà anche un'antenata del Messia, nonostante il suo
sangue straniero e in opposizione alla legge ebraica. Noemi, insieme con la giovane Rut, torna nella natia
Betlemme. Tutta la città ne parla. È stata all'estero per dieci anni, e ora porta con sé una forestiera, e per di
più è anche povera. «Non chiamatemi più Noemi», dice, «Noemi significa Dolcezza, io invece sono Mara,
l'Amara». Ormai è così povera, lei un tempo tanto ricca, che Rut è costretta a spigolare l'orzo nei campi.
Risulta che il campo dove va a spigolare Rut appartiene a un parente di Noemi, Booz. Rut non lo sa, è Noemi
che viene a saperlo per prima e subito comincia a tessere la sua astuta tela. Si basa sulla legge secondo la
quale, se un uomo della tribù di Giuda muore senza lasciar figli tocca al suo parente più prossimo sposarne la
vedova. Sì, però Rut è di tutt'altra stirpe, è una Moabita, e sposare una straniera non è permesso. Legge
contro legge. Come andrà a finire? Noemi continua a ordire il suo piano. A poco a poco tutto s'incastra
perfettamente. Così dev'essere, è l'Onnipotente che lo vuole. Booz è un signore già anziano ricco e di buon
cuore, e s'innamora subito di Rut, la spigolatrice. Non immagina chi essa sarà: sarà il suo destino. Noemi
comincia ad agire. Booz deve sposare Rut. Come farà ad ottenerlo? Noemi procede nel modo più diretto.
Sembra quasi una mezzana. Fa vestire Rut del suo abito più bello e la manda di notte, lavata e profumata, da
Booz, che durante la mietitura dorme all'aria aperta per via dei ladri. «Coricati ai suoi piedi, quando lo vedrai
dormire», dice Noemi, «e lascia che le cose seguano il loro corso». Non le dice: Stenditi al suo fianco. Così
rovinerebbe tutto. Coricati ai suoi piedi, Rut. È un atto di umiltà, Booz ne sarà commosso. Booz sa già che
potrebbe essere tenuto a sposare Rut, ma esiste un altro parente più stretto che dovrebbe “riscattarla". Però
Booz ama Rut. Tuttavia le cose non sono così semplici un clan dove tutto è regolato dalla legge. Booz ci
tiene ad avere Rut, ma senza violare la legge. È già una violazione che il clan accolga in sé un’estranea. C'è
da supporre che l'amatissima Noemi ne abbia discusso con Booz. E Booz le obbedisce, così e le obbedisce
Rut. Perché Noemi è la più intelligente. E Noemi possiede ancora delle terre. Dice che vorrebbe venderle.
Ma, per così dire vuole mangiare la torta e insieme conservarla: la terra deve restare in famiglia. Apparterrà a
colui che sposerà . E questi sarà Booz. Però bisogna indurre l'altro parente con priorità di riscatto a rinunciare
sia all'acquisto della terra che alle nozze con Rut. Gli si pone una condizione: deve intestare la terra da
acquistare al nome del morto, del figlio di Noemi. Ma lui non vuole, cosa che Noemi ha certo previsto. Così
Booz ottiene la terra e la donna che ama. Un autentico happy end. E non finisce qui: Rut avrà anche un
figlio. Le donne che sono presenti alla nascita dicono a Noemi, non a Rut, la giovane madre: «Benedetto il
Signore, che oggi ti ha dato un consolatore della tua vecchiaia». E dicono anche: «È nato un figlio a Noemi».
Non è un po' mortificante, anzi molto, per la giovane madre? Chi l'ha fatto, il figlio: Noemi o Rut? Ma è
Noemi che se lo stringe al cuore e gli fa da "nutrice". Si fa forse sentire a Rut che è di sangue straniero e che
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la si tollera soltanto perché è la nuora di Noemi? Noemi non domina un po' troppo, non è troppo autoritaria?
E Rut troppo sottomessa? Ma, insomma, è così, e tutto finisce bene, Noemi ci ha saputo fare. Ha realizzato il
capolavoro, non solo di far accogliere stabilmente nel suo clan giudeo l'appartenente a un'altra stirpe, ma di
renderla anche, grazie al figlio da lei generato con Booz, la bisnonna di Davide, dalla cui stirpe nascerà il
Messia. Però, un tantino "mezzana" non si può negare che Noemi lo sia stata.
BETSABEA
All'inizio dell'anno successivo, nel tempo in cui i re vanno in guerra, Davide mandò Joab con i suoi servi e
tutto Israele a devastare il paese degli Ammoniti: essi posero l'assedio a Rabbà, mentre Davide stava a
Gerusalemme. Un pomeriggio Davide, alzatosi dal letto, passeggiava sulla terrazza della reggia, quando
vide dal!'alto della terrazza una donna che si lavava. La donna aveva un aspetto molto bello. Davide mandò
a prendere informazioni sulla donna e gli fu risposto: «È Betsabea, figlia di Eliàm, moglie di Uria l'Hittita».
Davide mandò dei messaggeri per prenderla. Ella andò da lui ed egli dormì con lei, che si era appena
purificata dalla sua impurità; poi fece ritorno a casa sua. La donna concepì e mandò a informare Davide:
«Sono incinta». Allora Davide ordinò a Joab: «Mandami Uria l'Hittita». Joab mandò Uria da Davide.
Quando Uria giunse da lui, Davide gli domandò notizie sullo stato di Joab, del popolo e della guerra. Poi
Davide disse a Uria: «Scendi a casa tua e lavati i piedi». Allora Uria uscì dalla casa del re seguito da una
porzione delle vivande del re. Ma Uria dormì all'ingresso della casa del re con tutti i servi del suo sovrano
senza scendere a casa sua. Ne informarono Davide dicendo: «Uria non è sceso a casa sua». Allora Davide
disse a Uria: «Non vieni da un viaggio? Perché non sei sceso a casa tua?». Uria rispose a Davide: «L’arca,
Israele e Giuda abitano sotto le tende; il mio signore Joab e i servi del mio signore bivaccano in campo
aperto, e io dovrei entrare nella mia casa per mangiare e bere e per dormire con mia moglie? Per te e per la
tua vita, non farò mai questa cosa!». Davide disse a Uria: «Rimani qui anche oggi e domani ti rimanderò».
Così Uria rimase quel giorno a Gerusalemme e il giorno successivo. Davide lo invitò a mangiare e a bere
insieme con lui e lo ubriacò. Ma la sera uscì a dormire nel suo giaciglio insieme con i servi del suo sovrano
e non discese a casa sua.L’indomani mattina Davide scrisse una lettera a Joab e la mandò per mano di
Uria. Nella lettera aveva scritto così: «Ponete Uria sul fronte della battaglia più dura, poi ritiratevi da lui,
perché sia colpito e muoia». Nel disporre la vigilanza alla città, Joab pose Uria nel luogo dove sapeva che
vi erano uomini valorosi. Gli abitanti della città fecero un'irruzione e attaccarono Joab, ci furono dei caduti
tra il popolo, tra i servi di Davide, e morì anche Uria l'Hittita. Joab mandò a informare Davide su tutte le
vicende della guerra. Dette quest'ordine al messaggero: «Quando avrai finito di esporre al re tutte le
vicende della guerra, dirai: È morto anche il tuo servo Uria l'Hittita!». Il messaggero partì e andò a riferire
a Davide tutto quello per cui Joab lo aveva inviato. Davide disse al messaggero: «Così dirai a Joab: "Non ti
sembri un gran danno quanto è accaduto, perché la spada divora ora questo ora quello; riprendi con più
lena la tua lotta contro la città, e distruggila!". Tu stesso fagli coraggio!». Quando la moglie di Uria udì che
suo marito Uria era morto, fece il lamento sul suo signore. Passato il lutto, Davide mandò a prenderla e
l'accolse nella sua casa: diventò sua moglie e gli partorì un figlio. Ma questa azione compiuta da Davide era
male agli occhi del Signore. Il Signore mandò a Davide Natan che, entrato da lui, disse: «C'erano due
uomini in una stessa città, uno ricco e uno povero: il ricco possedeva greggi e armenti in grande
abbondanza; il povero non aveva che una sola pecorella, piccolina, che aveva comprato; l'aveva nutrita ed
era cresciuta insieme con lui e con i suoi figli, mangiava dal suo piatto, beveva dal suo bicchiere e dormiva
sul suo seno: era per lui come una figlia. Un viandante giunse dall'uomo ricco; questi però non andò a
prendere del suo gregge e del suo armento per preparare all'ospite venuto da lui, ma prese la pecorella di
quel povero e la preparò per l'uomo venuto da lui».Davide arse d'ira contro quell'uomo e disse a Natan:
«Per la vita del Signore, l'uomo che ha fatto questo è certamente degno di morte! Pagherà quattro volte il
valore della pecora, per aver compiuto un tale misfatto e per non aver avuto compassione». Natan rispose a
Davide: «Sei tu quell'uomo! Così dice il Signore, Dio d'Israele: lo ti ho consacrato re su Israele e ti ho
strappato dalla mano di Saul. Ti ho consegnato la casa del tuo signore e le mogli del tuo signore nel tuo
seno, ti ho dato la casa d'Israele e di Giuda; e se è poco, ti aggiungerei altre cose. Perché, dunque, hai
disprezzato il Signore compiendo ciò che è male ai suoi occhi? Hai colpito con la spada Uria l'Hittita, ti sei
preso per moglie la sua moglie e l'hai ucciso con la spada dei figli di Ammon». (2 Samuele 11,1-19.2122.25-27; 12,1-9)
Che personaggio complesso è Betsabea. Ammalia; insieme, però, inquieta. All'inizio si prova molta simpatia.
Una solidarietà quasi istintiva scatta dentro non appena la conosci. Dalle prime parole che narrano di lei e
dalle vicende che si dipanano, si vede come ha il carattere della protagonista. Ma si coglie presto che essa ha
anche i tratti della vittima. A lungo Betsabea non dice nulla, non vengono ricordati cenni, parole, interventi.
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Per lei parlano la bellezza, che doveva essere davvero di grande fascino; la luce che promana dal suo corpo;
l'attrazione dei gesti anche usuali, semplici, come prendere il bagno; i tempi in cui vive. Questi ultimi non
certo di grande considerazione per la donna, la quale, anzi, veniva sostanzialmente tenuta in conto quasi di
schiava, senz'altro subordinata all'uomo e a un potere fatto passare come ineluttabile, un dato di natura. Però
qualcosa comincia impercettibilmente a cambiare a mano a mano che si sente parlare di lei e degli
avvenimenti che la vedono al centro. Succede quando si impara a conoscere Betsabea e la si segue nelle
vicende di corte, negli avvenimenti della sua vita; quando la si vede perseguire e raggiungere a uno a uno gli
obiettivi che s'era proposta; quando si sente quel che ha da dire e l'arte sottile delle argomentazioni che usa.
Allora, si avverte un senso di distanza salire dentro. Quella che appare come una donna giocata
dall'arroganza e sottomessa al volere di altri, come di Davide: in testa -alle condizioni sociali, a costumi, ci si
accorge che assume i comportamenti della persona che sa esercitare un potere. Dà, ma chiede in cambio.
Subisce, sapendo però porsi in una condizione di credito. Colei che nell'impianto narrativo e nella dinamica
dei personaggi era schiacciata dal destino, dalla forza e dai disegni d'altri, comincia a imparare le astuzie, a
esercitare le sottili arti del dominio. Non c'è manifestazione esterna di imperio e di comando, di
sopraffazione. La violenza, se così si può chiamarla, è di tipo psicologico. È l'allusività, l'intrigo di corte, la
pressione fatta di sottintesi, di parole calcolate, di persone sapientemente dirette. Alla fine è lei, Betsabea,
che comanda, che tira le fila, che promuove e annienta, che favorisce carriere e schiaccia potenziali avversari
o comunque rimuove possibili ostacoli sul suo cammino. La discreta moglie di un generale, che se ne stava
sul terrazzo di casa e che la voglia insaziabile di un re volle possedere, sfuma in un ricordo pallido, sbiadito,
lontano. Anche il castigo di Dio, che punisce con la morte del primo figlio quell'unione nata nel peccato, cioè
nella pulsione fuori da un'armonia e da un progetto, finisce sullo sfondo. Lo scenario che si impone è quello
lussureggiante di un'antica corte orientale. E Betsabea siede sul trono: è la regina madre. Tutti le sono
sottomessi, a incominciare dal figlio, Salomone, che la accoglie al suo fianco. Il gesto solenne, ieratico, quasi
sacro, esprime una condizione che sembra sovvertire propositi e valori: «Il re si prostrò davanti a lei». Certo,
l'antico comandamento imponeva di onorare il padre e la madre. Ma qui sembra fare capolino qualche cosa
di qualitativamente diverso rispetto al filiale riconoscimento verso chi ha dato la vita ha nutrito, ha allevato,
ha instillato i primi valori proseguendo nelle generazioni l'atto del Creatore. Betsabea siede alla destra di
Salomone. I due formano una coppia regale, ma innaturale all'evidenza: l'uno è il figlio e l'altra è la madre;
uno ha lo scettro e l'altra ha il comando. Una situazione ancora pericolosamente indistinta e confusa. Anche
se non necessariamente destinata a pregiudicare lo sviluppo umano e psicologico del figlio. Le vicende
successive dimostreranno come Salomone riuscirà a cavarsela. Eliminati i possibili concorrenti il re-figlio
compirà il primo, grande atto di differenziazione e di separazione nei confronti della madre Betsabea.
Prenderà una sposa, la figlia del Faraone, scelta che è sì importante atto politico, di alleanza. ma rappresenta
anche il desiderio di uscire fuori da quella corte che rischia di soffocare, di affrancarsi da un dominio di
Grande Madre, che aleggia. E, successivamente, nello stato tutto personale e libero dai condizionamenti
dell'Io ed esterni che è il sogno, Salomone riceverà la visita del Signore. Soltanto dal ritrovato rapporto con il
Padre, con la "P" maiuscola, non solo quindi quello di naturale e dell'esempio umano, Davide, potrà
incominciare a distinguere «il bene dal male», gli riuscirà ad apprendere l'arte del governare il suo popolo.
Entrato nello stato di sonno come ragazzo, e figlio di mamma, Salomone nascerà alla coscienza e diventerà
uomo adulto e consapevole, vedrà esaudito il proprio desiderio di diventare un «re saggio». Ma non si può
perdere di vista Betsabea. L'epilogo, cioè il ruolo conquistato di regina-madre, contrasta a tal punto con
l'esordio della protagonista da far nascere nell'immaginazione un interrogativo, che potrebbe anche portare a
pensieri magari stravaganti, ma che non possono venire respinti acriticamente, con leggerezza. L'alternativa,
o il dubbio, se si preferisce, può venire riassunta in questi termini. Se Betsabea è davvero la vittima, che
all'inizio ti tocca, ti colpisce, suscita emozione e simpatia per la debolezza, la resa inerme e ineluttabile alla
violenza di un re prepotente. Oppure che ruolo attivo può aver giocato sin dai primi momenti proprio lei, la
moglie di Uria l'Hittita, in quell'innocente e inconsapevole bagnarsi su i tetti, senza protezioni o schermature,
convinta di non essere veduta da nessuno, mostrando invece tutta la gioia del suo corpo bello, leggero, vivo,
vitale. Una libertà che di per sé, nel suo esprimersi, non autorizza nessuno, nemmeno chi detiene il massimo
del potere su tutti i sudditi, il re, a prendere iniziative o addirittura a finire nell'arbitrio, ma una libertà che c'è,
che si manifesta, che in qualche modo "strega" per la scioltezza, per l'assenza di soggezione, per l'attitudine
all'autonomia. Un agire senz'altro inconscio, quello di Betsabea, inconsapevole, non confessato neanche a se
stessa, anzi negato e recisamente respinto, con fierezza e sdegno, se qualcuno avesse mai potuto prospettarlo,
evidenziarlo, farglielo notare. Comunque un atteggiamento, un modo di porsi teso, in qualche maniera, ad
affermare sé, la propria bellezza, il fascino, corrispondendo, simmetricamente, ai desideri impuri di Davide;
alle facoltà umanamente più impulsive, piene di aggressività, del re; alle voglie smodate; alla supponenza
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tutta maschile che ogni cosa rischia di bruciare in un attimo e di sciupare per sempre. Può essere fantasioso,
ma non è arbitrario in questo quadro psicologico di rapporti, pensare al sottile e intrigante gioco del farsi
conquistare per poi conquistare, a propria volta, e sottoporre quindi al dominio. Sottomettersi per poi
soggiogare: anche questa è una dinamica che spesso si manifesta nel complesso sistema delle relazioni e nei
meandri della psiche. Nel caso di Betsabea e di Davide, a conferma della probabile incoscienza del disegno,
l'obiettivo finale si svela a poco a poco e giunge progressivamente a chiarezza: ottenere, a mo' di
conclusione, l'affermazione su tutti del proprio figlio, l'imposizione di Salomone. La rivalsa della vittima, si
potrebbe dire; la riparazione ad un sopruso; la restituzione sotto altra forma, e notevolmente accresciuto in
quantità e qualità, di ciò che fu indebitamente strappato; il tentativo di compensazione per una ferita acuta e
profonda, che, nella realtà, è un'illusione credere di poter anche solo lenire. Si sa quanto il figlio maschio,
soprattutto espresso sotto le sembianze eccezionali del figlio re, rappresenti, in molti esempi della mitologia
mediterranea, la prosecuzione del potere della madre. L'erede maschile, che esercita in maniera concreta,
materiale, forte un dominio, cui la donna formalmente non potrebbe attingere, per molteplici motivi:
convenzione; modelli culturali; acritica, eppure consolidata distribuzione di ruoli. Ma questo è il segreto di
un certo universo femminile: la donna stessa, che riesce a gestire il potere. Anche se pratica tale funzione in
maniera indiretta, senza appari re, attraverso il figlio. È la cultura del corpo, dell'elemento naturale,
biologico, della storia come generazioni che si susseguono, quella di cui Betsabea sembra impregnata.
Questa donna colloca la propria vicenda umana a un passaggio significativo nel lungo cammino di Israele,
uno dei tanti momenti di svolta nell'esperienza straordinaria di questo popolo, in particolare nei rapporti
complessi e vivificanti che esso ha avuto con il Signore. Ma Betsabea non è soltanto un personaggio
consegnato alla Scrittura e le sue vicissitudini non sono patrimonio esclusivo di un periodo specifico,
particolare. Betsabea è anche la metafora di un certo modo di essere donna, di sentirsi vivere, di relazionarsi,
di collocarsi nel mondo. Il fascino di Betsabea è stregante e inquietante, attrae e respinge. Ad esso non si può
comunque rimanere indifferenti. È un paradigma che continua a intrigare il vissuto collettivo con quel tanto
di concreto, quasi di materiale, che evoca d'acchito l'antico racconto, e con quel senso di quasi mistero con
cui il femminile tocca il maschile.
LA REGINA DI SABA
La regina di Saba, avendo udito parlare della fama di Salomone, venne per metterlo alla prova con enigmi.
Essa giunse a Gerusalemme con una numerosa scorta di cammelli che trasportavano aromi, oro in gran
quantità e pietre preziose. Presentatasi a Salomone, gli manifestò tutto quello che aveva nel cuore, ma
Salomone le chiarì tutti i suoi quesiti né ci fu cosa oscura che il re non sapesse spiegargliela. La regina di
Saba vide tutta la sapienza di Salomone, il palazzo ch'egli aveva costruito, i cibi della sua mensa,
i'abitazione dei suoi servi, il comportamento dei suoi ministri, le loro vesti, i suoi coppieri e gli olocausti che
offriva nel tempio del Signore; rimase senza fiato e disse al re: «Era dunque proprio vero quanto ho udito
nel mio paese riguardo alle tue opere e alla tua sapienza. Tuttavia non l'ho creduto, finché non sono venuta
e non ho visto con i miei occhi. Ma, ecco, non mi era stato riferito neppure la metà; la tua sapienza e la tua
prosperità superano quanto ho sentito dire. Felici le tue donne, felici questi tuoi servi che stanno di continuo
alla tua presenza e ascoltano la tua sapienza. Sia benedetto il Signore, tuo Dio, che ti ha mostrato il suo
favore ponendoti sul trono d'Israele! Perché il Signore, che ti ha costituito re per esercitare il diritto e la
giustizia, ama Israele per sempre». Poi essa diede al re centoventi talenti d'oro, grande quantità di aromi e
pietre preziose. Non giunsero mai più tanti aromi quanti la regina di Saba ne diede al re Salomone. Anche le
navi di Chiram, destinate al trasporto dell'oro di Ofir, portarono da Ofir legno di sandalo in grande quantità
e pietre preziose. Con il legno di sandalo il re fece oggetti per il tempio del Signore e il palazzo reale e
fabbricò cetre e arpe per i cantori. Non giunse mai più né si vide tanto legno di sandalo fino a oggi. Il re
Salomone diede alla regina di Saba tutto quello ch'ella desiderò e chiese, senza parlare di quello che le
diede con una munificenza degna di lui. Quindi essa riprese il cammino e se ne andò al suo paese assieme ai
suoi servi. (1Re 10,1-13)
Il regno di Salomone fu un'epoca di splendore. Il Faraone gli diede in sposa la propria figlia. Il re di Tiro,
Chiram, fu lieto di fornire il legname del Libano, cedri e cipressi, per la costruzione del tempio di
Gerusalemme e per la sua reggia. Egli beveva e mangiava in stoviglie d'oro. Ogni anno gli erano consegnati
seicentosessantasei talenti, senza contare ciò che gli veniva dai mercanti, dai re d'Arabia e dai governatori del
Paese. Possedeva una flotta, guidata da piloti fenici, che importava da Tarsis oro, argento, avorio, pavoni e
scimmie. Tutto ciò suscitò la meraviglia della regina dei Sabei, nella lontana Arabia Felice. Nella sua reggia,
a Saba, ella sentì le voci dei cortigiani che le avevano apprese dai mercanti e dai messi di Paesi lontani, sulla
magnificenze di Salomone. Senza parlare delle meraviglie del tempio dedicato al culto dell'unico Dio, del
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trono di avorio laminato d'oro, del fiume di ricchezze che arrivava nel palazzo reale. La sua mente fu
attraversata anche da un vago fantasma d'invidia, perché, da quello che diceva, sembrava di capire che la
capitale d'Israele fosse anche più ricca della sua. Era possibile? L'Arabia era famosa per le sue dovizie. Saba
traboccava d'oro, di pietre preziose, di legni pregiati, di incenso, di mirra, di profumi di ogni specie. Da tutti i
regni vicini, dall'Egitto, dalla Fenicia, dalla Persia, dalla Mesopotamia venivano i mercanti ad acquistare i
suoi prodotti. Perciò quel Paese era chiamato felice, e veniva citato nei canti dei poeti come il luogo della
ricchezza. La regina di Saba si chiese pure se Salomone fosse esperto in ogni ramo del sapere, come si
diceva. Ma v'era nel suo animo anche uno spazio, forse più ristretto, forse più misterioso, in cui ella
percepiva il ronzio di altre domande, più segrete, più riservate, più femminili, alonate da vaghe speranze,
tutte dominate dal fantasma di quel re sconosciuto. Fu proprio questo aspetto del suo interesse per Salomone
ad attivare la sua curiosità fino al punto che un giorno, guardandosi nei suoi specchi, ella si disse: «Voglio
vederlo!». Cominciò a preparare la partenza. Furono equipaggiati molti cavalli, cammelli, dromedari, perché
la strada da percorrere era lunga, e bisognava attraversare il deserto; perché le persone del seguito erano
numerose, e soprattutto perché la regina voleva abbagliare Salomone con propri doni. Furono caricate
magnifiche vesti, tappeti, stuoie, cuoi lavorati, i gioielli della regina e buona parte del suo guardaroba,
affidato alle sue ancelle.
La regina a Gerusalemme
Il corteo fu accolto splendidamente a Gerusalemme. I tempi di Salomone erano di pace, e i forestieri erano
ricevuti con una solennità che era in rapporto con le magnificenze del regno, perché in loro si vedevano
soltanto degli amici e dei rappresentanti di lontane civiltà, che venivano a rendere omaggio alla grandezza
del re. La regina fu subito ospitata negli appartamenti reali, e i suoi dignitari nelle adiacenze della reggia.
L'arguta sabea seppe nascondere, con raffinata sapienza orientale e squisita civetteria, i motivi più profondi
della sua visita, soprattutto quelli sui quali lei stessa si era interrogata a malapena, in quel luogo nascosto e
ronzante della sua anima. Fece intendere a Salomone che il suo viaggio, che pure era cominciato in contrade
così lontane, aveva come scopo soltanto di constatarne di persona le doti di cui parlavano tutti i viaggiatori e
i mercanti. Ma fin dal primo istante ammirò la prestanza fisica, il disegno dei muscoli che s'indovinava sotto
le sue vesti, i lineamenti statuari, la corta barba e i capelli riccioluti del re. E il ronzio della parte segreta della
sua anima si tradusse in un piacevole brivido, che l'attraversò dalla testa ai piedi. In lei la vena arguta diventò
più copiosa, e nel suo discorso cominciarono a fiorire quesiti ingegnosi, che si riferivano alla conoscenza dei
cieli e della terra, e che lei aveva appreso sin dall'infanzia dai sapienti caldei e dagli indovini che vivevano
alla corte di suo padre. Poneva a Salomone domande sapientemente mascherate, perché il suo discorso non
assumesse l'aspetto di un esame, ma sembrasse nient'altro che un dialogo tra regnanti, il cui intelletto era
adorno di ogni possibile conoscenza... Salomone non si accorse dell'astuzia di lei. Era troppo ingenuamente
preso dal piacere di mostrare le proprie conoscenze, e soprattutto da quello di ammirare le grazie della sua
ospite: il corallo umido delle sue labbra sempre in movimento, l'ebano dei suoi capelli, domati da sottili
treccioline, l'avorio della sua pelle, difesa con tutti gli accorgimenti dagli ardori del sole. Così Salomone si
lasciò esaminare senza aver avuto la più pallida idea di aver subito un esame, e rispose a tutte le curiosità
simulate della regina con parola affabile e rotonda. Quel sentimento di gara, ancora vivo in loro mentre
avveniva la cerimonia dello scambio dei doni, si era mutato lentamente in un senso di benessere e nella
letizia di sapersi nella pienezza dei propri anni, di sentirsi incastonati come pietre preziose in una cornice
così fastosa e dorata. Quando la regina volle vedere le meraviglie della reggia e del tempio, Salomone in
persona le fece da guida, e le offrì il proprio braccio allorché si trattava di salire o di scendere gradini. La
regina dei Sabei, nel volto e nella parola, ammirava ogni cosa. Ammirò i cibi delle mense, le livree dei servi,
i rivestimenti preziosi della reggia. Quando scese la notte, e stava per ritirarsi nelle stanze a lei assegnate,
non seppe trattenersi dal dire che la sapienza e le opere di Salomone sorpassavano la fama di ciò che lei ne
aveva udito. Beate le sue donne e fortunati i suoi servi, che gli stavano sempre davanti, e potevano sentire e
trarre frutto da tutto ciò che udivano da lui! E lode al Dio che gli aveva dato tutti quei doni, e che,
evidentemente, era più grande di tutti gli dèi e di tutte le dee dell'Oriente. Il re chinò il capo confuso, e nella
sua mente si definì un disegno che era nato in lui da quando se l'era vista davanti. Nel cuore della notte, dopo
un sonno deliziosamente turbato, si levò dal letto a baldacchino e andò alla porta di lei, mentre le guardie
fingevano di non vederlo, o di credere che fosse un fantasma che scivolava nell'ombra.
Dopo che egli fu inghiottito dalla stanza di lei, cominciarono delle ore sontuose e mielate, in cui egli si
dimenticò di essere un re e lei una regina. «Resta con me», le disse Salomone, mentre nel suo pensiero
andava prendendo forma un lungo canto amoroso. «Non tornare nel tuo Paese...». Per lei avrebbe trascurato
l'egiziana né si sarebbe più ricordato delle principesse e delle numerosissime concubine.
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Salomone vorrebbe trattenerla
Taceva la regina dei Sabei, sorrideva, e gli chiudeva le labbra con i suoi baci. Pareva che acconsentisse, e che
Saba e le sue bianche terrazze le fossero cadute dal cuore. Tutte le notti davano segni che si fosse
dimenticata di essere ciò che era, e solo allo spuntare del giorno, quando al battito delle sue mani accorreva
lo sciame sussurrante delle sue ancelle, solo allora in lei si svegliava la regina. Ma quando sbucò l'alba del
trentesimo giorno, lei cominciò a dar ordini ai dignitari del seguito e ai servi perché preparassero la partenza,
mentre Salomone spiava ogni cosa di lontano, chinando il capo come si fa di fronte a eventi ineluttabili.
«Almeno scegli ciò che vuoi, prima di partire. Tutto ciò che esiste dentro la reggia è stato fatto per te. Voglio
almeno che i miei doni ti rinnovino il mio ricordo, quando sarai di nuovo nel tuo Paese», le disse alla fine,
con una strana risonanza nella voce, come se parlasse dal fondo di una caverna. E la regina, senza parlare,
indicò alle ancelle che cosa desiderava portare con sè. Quando la carovana partì, Salomone salì sulla torre
più alta della reggia, e stette a guardarla finché l'ultimo cammello si confuse con la linea dell'orizzonte.
SUSANNA
A Babilonia viveva un uomo che si chiamava Ioakìm. Egli sposò una donna di nome Susanna, figlia di
Chelkìa, molto bella e timorata del Signore. I suoi genitori erano giusti e avevano educato la loro figlia
secondo la legge di Mosè. Ioakìm era molto ricco e possedeva un giardino attiguo alla sua casa; presso di
lui si riunivano i Giudei, perché era il più ragguardevole di tutti. In quell'anno erano stati designati giudici
due anziani del popolo: erano di quelli di cui il Signore ha detto: «È uscita l'empietà da Babilonia da parte
dei giudici anziani, che solo all'apparenza governano il popolo». Essi frequentavano la casa di Ioakìm e tutti
coloro che avevano qualche causa venivano da loro. Quando poi il popolo sul mezzogiorno si ritirava,
Susanna usciva per passeggiare nel giardino di suo marito. I due anziani la vedevano ogni giorno quando
usciva a passeggiare e furono presi dalla passione per lei. Essi persero la testa e abbassarono gli occhi in
modo da non veder più il cielo e da non ricordarsi più dei suoi giusti giudizi. Ambedue erano dunque presi
di lei, ma non si comunicavano l'un l'altro il proprio affanno, perché avevano vergogna a manifestare il loro
desiderio di accoppiarsi con lei, ma ogni giorno spiavano libidinosamente l'occasione di vederla. Una volta
dissero l'un l'altro: «Andiamo a casa, che è ora del pranzo!». E usciti, si separarono. Ma tornati sui loro
passi, si ritrovarono allo stesso posto e cercando di spiegarsene il motivo confessarono la propria passione.
Allora di comune accordo fissarono il momento quando avrebbero potuto trovarla sola. Or avvenne che,
mentre attendevano un giorno opportuno, Susanna entrò come al solito, con due sole fanciulle, desiderando
di fare il bagno nel giardino, perché faceva caldo. Ora, quando le fanciulle furono partite, i due vecchi
sbucarono fuori, corsero da lei e dissero: «Ecco, le porte del giardino sono chiuse, nessuno ci vede e noi ti
desideriamo. Acconsenti dunque e datti a noi. Altrimenti noi testimonieremo contro di te che con te c'era un
giovane e che per questo hai fatto uscire le fanciulle». Susanna sospirò e disse: «Per me non c'è scampo da
nessuna parte! Ma per me è preferibile cadere nelle vostre mani piuttosto che peccare davanti al Signore!».
Susanna gridò a voce alta, ma gridarono anche i due vecchi contro di lei; poi uno andò di corsa ad aprire le
porte del giardino. Quando i vecchi ebbero raccontato la loro storia, i familiari rimasero molto addolorati,
perché mai era stata raccontata una cosa del genere riguardo a Susanna. Il giorno seguente, quando il
popolo si radunò in casa di suo marito Ioakìm, vennero anche i due vecchi, fermi nell'iniquo proposito
contro Susanna per mandarla a morre. Alzatisi in mezzo al popolo, posero le mani sopra la sua testa, mentre
ella, piangendo, volse lo sguardo verso il cielo, poiché il suo cuore aveva fiducia nel Signore. I vecchi
dissero: «Mentre passeggiavamo soli nel giardino, costei entrò con due ancelle, poi chiuse le porte, dopo
aver fatto uscire le fanciulle. Allora si avvicinò a lei un giovane, che era nascosto e si adagiò accanto a lei.
Di questo noi siamo testimoni!». L'assemblea credette loro, perché erano anziani del popolo e giudici e la
condannarono a morte. Ma Susanna gridò a gran voce e disse: «Dio eterno, che conosci quello che è
nascosto e sai tutte le cose prima che avvengano, tu sai che costoro hanno testimoniato il falso contro di
me!». Il Signore intese la sua voce. E mentre costei veniva condotta via per essere uccisa, Dio suscitò il
santo spirito di un giovanetto, di nome Daniele, che a gran voce gridò: «Siete così stolti, figli d'Israele?
Senza aver istruito il processo e senza aver conosciuto la verità, avete condannato una figlia d'Israele!
Tornate al luogo del giudizio! Essi infatti hanno testimoniato il falso contro costei!».
Allora tutto il popolo in fretta tornò indietro. Daniele disse loro: «Teneteli molto distanti l'uno dall'altro e io
li interrogherò!». Quando furono separati l'uno dall'altro, ne chiamò uno e gli disse: «o uomo invecchiato
nel male, se hai visto costei, di': Sotto quale albero li hai visti discorrere insieme?». Quello rispose: «Sotto
un'acacia!». Dopo averlo rimandato indietro, ordinò di far venire l'altro. Gli disse: «Stirpe di Canaan e non
di Giuda, la bellezza ti ha traviato e la passione ha pervertito il tuo cuore. Così facevate alle figlie d'Israele
ed esse per paura avevano rapporti con voi. Ma una figlia di Giuda non ha subito la vostra iniquità. Or
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dunque, dimmi: Sotto quale albero li hai sorpresi a discorrere insieme?». Egli rispose: «Sotto un pruno!».
Daniele raggiunse: «Anche tu hai mentito contro la tua stessa testa!». Allora tutta l'assemblea alzò un grido
e benedisse Dio che salva coloro che confidano in lui. Poi si rivolsero verso i due vecchi, perché Daniele li
aveva convinti dalla loro stessa bocca di aver testimoniato il falso, e fecero loro quello che essi avevano
ordinato contro il prossimo. Per eseguire la legge di Mosè li uccisero e così in quel giorno fu salvato sangue
innocente. (Daniele 13,1-15.19-25.27-28.34-38.41-4648.50-52.54.56-62)
Susanna è la bellezza, la chiude in sé come un fiore il suo profumo, è il giglio, di cui porta il nome, che odora
in purità, ma ciò che emana da lei può accecare e bruciare. Come donna bella è prima oggetto del desiderio
maschile, e perciò contrattata, ricattata, accusata, condannata; come persona bella e pura è capace di ispirare
alla purezza di Daniele il dono della profezia e Daniele -soggetto di moralità e di umana dignità -la strappa
alla calunnia e alla morte. Daniele innocente, Daniele fanciullo, Daniele poeta: non è chi non veda la
consequenzialità di questi tre modi di essere; la bellezza accende da sempre e per sempre il fanciullino che è
nascosto nel cuore del poeta. Ma la bellezza di Susanna è anche esca per un fuoco che non è spirituale e
nasce nel grembo dell'inferno; lo ignora Susanna che è stata allevata per la maternità, perché sia di un uomo
solo che genererà dal suo grembo la famiglia di cui lei sarà l'unica e rispettata colonna. Siamo in una società
di tipo patriarcale e contadino, crudele contro la donna, perché il solo sospetto di adulterio - l'imposizione
della mano sul capo è la traduzione in accusa di un sospetto, non la prova di una flagranza -è sufficiente a
darle la morte. La più feroce, per lapidazione. Susanna ha dalla sua, contro i due vecchi, solo la bellezza e
l'innocenza. Essa è davvero il giglio del campo cui provvede il Signore secondo le parole del Vangelo. Non
ha malizia, né difesa: proclama la sua innocenza e niente altro: «Ecco io muoio», dice, e già ha accettato la
sua sorte, come prima aveva accettato di essere moglie onorata e madre sacra. Sensualmente viva negli occhi
di chi la desidera, non in sé, la sua bellezza turba gli altri, non lei: la Bibbia dice che «era molto graziosa e
bella d'aspetto», non altro, mentre insiste sull'ansia dei due vecchi di vederla, di vederla ancora, di svelarla,
che è l'ultimo modo di vederla nel momento della calunnia, con gli occhi della fantasia, fra braccia maschili.
Susanna subisce stupro a ogni sguardo dei due vecchi; la sua uccisione decretata violentando la verità, ma
sempre in nome della legge, è la morte che segue spesso alla violenza carnale. Psicologicamente sottile, nella
pagina biblica, è il cedere all'abiezione dei due vecchi, che patiscono lussuria: prima non osano rivelarsi l'un
l'altro per vergogna, così, come tengono bassi gli occhi perché il cielo non li rimproveri con la sua luce. Poi,
di fronte al caso che fa chiaro a entrambi il segreto del cuore e del sesso, la vergogna cede il posto all'audacia
dell'azione: si pecca in due, la vergogna dell'uno copre quella dell'altro, si uniscono le due volontà stravolte
in funzione del male, per compierlo fino in fondo. La progressione al delitto è perfetta, nella pagina biblica,
di estrema sapienza psicologica e di un'arditezza inconsueta: cupidigia singola, cupidigia rispecchiata in
un'altra simile a sé e da essa raddoppiata, progetto comune per soddisfarle entrambe. E l'uno sarà testimone
all'altro, del desiderio e del suo appagamento, poiché entrambi useranno Susanna: è il momento del maggiore
avvilimento dei due uomini e insieme della degradazione della donna nelle loro menti di padroni assoluti.
Susanna non è che uno strumento, non esiste come creatura; domina. l'episodio la cupidigia maschile c
insaziata dà l'ultimo guizzo come serpe ferito, quando i due chiedono a Susanna di svelarsi e inventano la sua
unione con l'ignoto giovane quasi che le voglie accese e frustrate: trovino una loro livida soddisfazione
nell'immaginazione eccitata. Stupisce che tanta menzogna possa esistere in due giudici, ma non bisogna
dimenticare che storicamente l'episodio si inserisce durante o subito dopo l'esilio d Babilonia: siamo perciò
in una piccola colonia ebraica in terra straniera, dove il rispetto della tradizione più arduo nella comunità
assediata da tutt'altri costumi, che col tempo finiranno per relegare in una sorta di mito quelli della piccola
patria perduta. Di essa e della sua legge i due cattivi giudici si ricordano solo per castigare il non consumato
adulterio di Susanna, con una crudeltà su cui dovette meditare l'autore della Lettera scarlatta e che trova il
suo facile bersaglio nella donna giovane e bella, e perciò originariamente dannabile e dannata. La Bibbia, che
ci fa vedere Susanna attraverso gli occhi imbestialiti dei due persecutori, pare insistere su un particolare
motivo di abiezione: la vecchiaia: «O uomo invecchiato nel male», grida Daniele al primo dei due che
chiama a giudizio. Se il peccato di cui si è reso colpevole è orrido, lo è doppiamente perché se n'è macchiato
da vecchio. Daniele accusa i due giudici non soltanto per l'episodio singolo, ma per aver esercitato male
anche prima la loro funzione: essi sono stati e sono ciechi di luce intellettuale ed etica perché «arsi di
passione». Non è un caso che l'arte -dal Veronese al Tintoretto, da Rembrandt a Pinturicchio -si sia
impadronita dell'episodio privilegiando il momento della contemplazione di Susanna da parte dei due vecchi:
non la virtù della donna, non il subire calunnia, non il suo essere ispiratrice di Daniele, innocente con
innocente, ma il suo suscitare passione in occhi corrotti è stato il ripetuto tema della rappresentazione.
L'episodio è centrato su Susanna, ma nel senso di una luce che illumina i protagonisti della scena: è la
bellezza di lei che campeggia, ma come una forza naturale, quieta e inconsapevole; i due vecchi invece
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sanno, e il dramma è il loro, di desiderio, di frustrazione, di cinismo, e di ferocia: una vecchiaia malvissuta
accanto alla giovane e candida bellezza di Susanna. Sono loro i protagonisti della pagina biblica, non lei. Che
tuttavia, proprio con la sua accettazione umile e fedelmente intrepida della legge di Jhwh, diventerà per il suo
popolo, come altre donne nella storia di Israele, un ammonimento a non smarrire la memoria dei padri, un
segnale di riscatto dall'imbarbarimento.
GIUDITTA
Giuditta, rimasta vedova, viveva nella sua casa da tre anni e quattro mesi. Era bella d'aspetto e molto
avvenente a vederla e suo marito Manasse le aveva lasciato oro e argento, servi e ancelle, bestiame e
terreni. Non c'era nessuno che potesse dir male sul suo conto, perché temeva grandemente Dio. Ella dunque
venne a conoscenza delle esasperate parole che il popolo aveva rivolto ai capi, perché s'erano scoraggiati
per la penuria d'acqua e venne pure a conoscere come Ozia avesse giurato loro di consegnare la città agli
Assiri dopo cinque giorni. Allora mandò a chiamare Cabri e Carmi, gli anziani della sua città. Giunti che
furono presso di lei, disse loro: «Ascoltatemi! Compirò un'azione che passerà di generazione in generazione
ai figli del nostro popolo. Questa notte voi vi troverete alla porta della città e io uscirò con la mia ancella ed
entro i giorni, dopo i quali voi avete promesso di consegnare la città ai nostri nemici, il Signore per mano
mia visiterà Israele. Voi però non andate indagando sulla mia impresa, non vi dirò nulla, fino a quando non
sarà compiuto ciò che ho in mente di fare». Giuditta poi porse alla sua ancella un otre di vino e un orciuolo
d'olio, riempì una bisaccia di grano tostato, di fichi secchi e di pani puri e, fatto un involto di tutti questi
recipienti, glieli affidò. Marciando diritte nella valle, si imbatterono nelle sentinelle avanzate degli Assiri, le
quali la presero e la interrogarono: «Di che gente sei, da dove vieni e dove vai?». Essa rispose: «Sono figlia
degli Ebrei e fuggo dal loro cospetto, perché stanno per essere consegnati a voi, per essere divorati. Voglio
recarmi alla presenza di Oloferne, comandante in capo del vostro esercito, per rivolgergli delle parole di
verità; gli indicherò la via per la quale potrà passare e rendersi padrone di tutta la montagna, senza perdere
neppure uno dei suoi uomini né un alito di vita». Quando Giuditta si trovò alla presenza di lui e dei suoi
aiutanti, tutti rimasero stupiti della bellezza del suo volto. Ella si prostrò con la faccia a terra per adorarlo,
ma i servi di lui la fecero alzare. Allora Oloferne ordinò di introdurla dove era riposta la sua argenteria e
ingiunse altresì di preparare a lei da mangiare dei propri cibi e da bere del suo vino. Ma Giuditta rispose:
«Non mangerò di quei cibi, perché non ne risulti un'occasione di caduta, ma mi saranno serviti i cibi che ho
portato con me... Per la tua vita, o mio signore, la tua serva non consumerà le provviste che ho con me,
prima che il Signore non compia per mano mia ciò che ha stabilito». Gli ufficiali di Oloferne la condussero
nella tenda ed essa dormì fino alla mezzanotte; verso la vigilia del mattino si alzò e mandò a dire a Olofeme:
«Dia ordine il mio signore che si permetta alla tua serva di uscire per fare orazione». Oloferne comandò
alle guardie del corpo di non impedirla. Essa rimase nell'accampamento tre giorni, nottetempo usciva nella
valle di Betulia e si lavava, nella zona dell'accampamento alla sorgente d'acqua. Era il quarto giorno
Oloferne offrì un banchetto ai soli suoi servi senza invitare nessuno dei funzionari. E disse a Bagoa, l'eunuco
preposto a tutte le sue cose: «Va' e persuadi la donna ebrea, che è presso di te, di venire con noi e di
mangiare e bere insieme a noi». Quando si fece tardi, i suoi servi si affrettarono a ritirarsi. Bagoa chiuse la
tenda dall'esterno e allontanò dalla vista del suo signore le guardie, che se ne andarono ai loro giacigli;
tutti infatti erano estenuati a causa della eccessiva durata del banchetto. Giuditta rimase sola nella tenda e
Oloferne era sprofondato sul suo letto, annegato nel vino. Giuditta aveva detto alla sua ancella di stare fuori
della camera e di attendere la sua uscita secondo la sua abitudine giornaliera; aveva detto, infatti, che
sarebbe uscita per la preghiera; anche a Bagoa aveva parlato in questi termini. Tutti si erano allontanati
dalla loro presenza e nessuno, né grande né piccolo, era rimasto nella camera. Giuditta staccò la scimitarra
di lui e avvicinatasi al letto afferrò la testa di Oloferne per la chioma e disse: «Dammi forza, o Signore, Dio
d'Israele, in questo giorno», e con tutta la sua forza lo colpì per due volte al collo e ne staccò la testa. Poi
uscì e consegnò la testa di Oloferne alla sua ancella, la quale la mise nella bisaccia dei viveri. Poi ambedue
uscirono insieme secondo la consuetudine per fare la preghiera. Attraversato 1'accampamento, fecero il giro
della valle, e asceso il monte di Betulia pervennero alle porre della città. Da lontano Giuditta gridò alle
sentinelle delle porte: «Aprite, aprite subito la porta! Lodate Dio, Dio che non ha ritirato la sua
misericordia dalla casa d'Israele, ma in questa notte ha colpito i nostri nemici per mano mia». (Giuditta
8.4.7-10.32-34; 10,5.11-13.23; 12,1-7.10-13; 13,1-14)
Un anziano di Betulia. Io so una cosa sola: che qui a Betulia moriamo di fame, crepiamo di sete. E sono
trentaquattro giorni! Per che cosa? Crediamo forse di vincere, di liberarci o di essere liberati? Si può essere
più folli di così? Oloferne e le sue armate hanno espugnato tutte le città che hanno loro opposto resistenza,
sterminandone poi gli abitanti con atrocità inaudite. Dopo simili inizi, altri popoli, altre comunità hanno fatto
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l'unica cosa sensata: si sono arresi a questo irresistibile condottiero. Ma noi no: la piccola Betulia vuoi
tenergli testa. E infatti, ecco come siamo ridotti. Una massa di disperati a cui si crepa la lingua, s'incolla la
schiena col ventre, e molti di noi si sono già svenati, altri sono diventati cannibali. Il nostro capo Ozia ci
chiede altri cinque giorni di pazienza. Cinque giorni di sofferenza inutile, quando si sa che comunque ci
arrenderemo. Ma almeno si vede la fine di questi inutili strazi. Si cominciano a contare questi cinque giorni
sulle dita, quando ti salta fuori una gran dama, Giuditta, figlia di Merari, vedova del povero Manasse (morto,
beato lui, d'un colpo di sole nel suo letto), e per prima cosa fa ai nostri maggiorenti una terribile sgridata.
Come ci permettiamo di dubitare di Dio, di porgli dei termini? Dio vuole passarci al crogiolo, e avanti di
questo passo. lo l'avrei rimandata a casa sua, e in malo modo. Ma non basta. Il buon Ozia (quante volte
buono?) china la testa, le dà mille ragioni. Lei allora prende coraggio e chiede di accordarle piena fiducia,
perché la nostra tremenda situazione la risolverà lei, Giuditta, con l'aiuto dell'Altissimo. Le hanno chiuso la
bocca almeno adesso, magari compatendola perché fame sete e paura devono averle sconvolto il cervello?
Neanche per sogno. Non le chiedono nemmeno che cosa ha in mente e la lasciano libera di fare e disfare
quello che vuole. Ora io dico: siamo giunti a questo? Sono le donne, sono le poveri vedove esaltate, adesso, a
comandare qui tra noi? Quello che non sanno fare i vecchi saggi, né realizzar i nostri guerrieri, dev'essere
demandato a donnette dalla mente sconvolta? Da una parte Oloferne e i suoi innumerevoli guerrieri irti di
ferro dall'altra noi quattro poveracci tremanti e ridotti allo stremo, fiducia solo in una creatura dai capelli
lunghi e dal raziocinio corto? Voleva castigarci di qualche colpa. Ah, Betulia, città che confidi in una donna!
Tempi orribili, i nostri, non solo di sterminio, ma di decadenza morale! Meritiamo di essere cancellati dalla
faccia del mondo!
Bagoa, soldato di Oloferne. È qui da un paio di giorni, e quasi non pensiamo più alla guerra. Ne abbiamo
viste di donne, in tutti regni che il mio signore Oloferne ha attraversato con noi, mettendoli a ferro e fuoco o
accettandone la sudditanza. Bianche e nere, minute come formiche e opulente come cavalle, donne che
t'ispiravano tenerezza e donne che ti facevano mettere mano alla frusta. Ma questa Giudea, questa Giuditta, è
diversa: assomiglia solo a se stessa. È arrivata in mezzo a un fitto drappello di soldati nostri che pareva una
scheggia d'oro in un grumo di terra. Alta, ben fatta, i capelli lunghissimi spartiti sulla fronte, gli occhi pieni
di luce, un passo da regina. E quel diadema, quei gioielli, quelle vesti. Ne abbiamo visti di molto più ricchi,
ma portati da lei parevano un’irradiazione della sua persona. La serva che si portava appresso metteva ancora
più in risalto la sua bellezza. Pensammo tutti che valeva la pena conquistare un popolo che aveva tali donne.
Anche il mio signore, Oloferne, come la vide rimase abbagliato e la trattò con un certo rispetto. Così da
quando è arrivata la bella ebrea vive tra noi come in casa sua.
L’ancella di Giuditta. Sono venuta via. Ero assordata dalle grida, dai balli, dalla confusione. Sembra che
Betullia sia caduta e che i nemici ne facciano strage, tanto è il tumulto per le strade. Invece festeggiamo la
più incredibile delle vittorie. Posso dirtelo, Signore, che non c’ho mai veramente creduto? Possibile, mi
dicevo, che la mia padrona riesca ad annientare un eserciti come quello, che faceva male agli occhi vedere il
brillio delle sue migliaia di lance al sole? E quell'Oloferne, con quegli occhi cattivi, quel sorriso da
torturatore, quella voce che gelava il sangue. Che cosa andavamo a fare, i mezzo a quella gente, se non a
cercare la nostra rovina? Ma non ho fatto domande. La mia signora è sacra, per me. Ma ieri sera, quando la
ornai e la profumai per quella festa di guerre mi vennero le lacrime. «Abbi fiducia», mi mormorò lei senza
togli gli occhi dallo specchio, «non succederà nulla. E sarà anzi la salvezza del nostro popolo». Poi mi fece:
una carezza, come si fa coi bambini e andò nella tenda di quel bruto. Non le avevo mai visto gli occhi così
luccicanti, mai sentito il fiato così caldo. Sembrava ubriaca. Ma come camminava eretta! «La vedrò
ancora?», mi chiesi, guardandola allontanarsi. Dio sa come ho trascorso le ore seguenti, ascoltando le risa e i
canti sguaiati di quei soldatacci nella tenda illuminata, mentre la notte intorno era tutta in pace. Mi ero
appisolata, per disperazione e stanchezza, quando a un tratto mi sentii scrollare. Avevo davanti la mia
padrona, che mi dava qualcosa da tenere. «Metti nella sporta», mi sussurrò. Obbedii. In un panno di seta c'era
un oggetto pesante, caldo, che mi dava ribrezzo a toccarlo. Lo misi nel canestro e seguii la padrona, su verso
Betulia. Quando mi guardai una mano, passando accanto alla torcia di un soldato, vidi che sgocciolava di
sangue, e per poco non lanciai un grido. Ma seppi frenarmi. Ci lasciarono passare, come sempre, con
ossequio. E arrivammo alle porte di Betulia. «Che cosa hai fatto, padrona?», chiesi a Giuditta quando riuscii
a spiccicar parola. «Quello che andava fatto», mi rispose lei. «Ma ora taci, bisogna completare l'opera, e la
vittoria sarà nostra». L'opera è stata completata: i nemici, visto il loro condottiero senza testa nella tenda in
cui aveva gozzovigliato ubriacandosi, sono fuggiti di fronte ai nostri guerrieri come uno sciame di zanzare.
Ora siamo liberi, la città non è più assediata, siamo scesi a far bottino nelle tende degli Assiri. A Giuditta
hanno dato il meglio, i tesori stessi di Oloferne. La mia padrona è un'eroina, Dio si è manifestato in lei. Ma io
ho tanta paura. Ha ucciso davvero, di sua mano, quel terribile Oloferne? E possibile? Lei, una donna debole,
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fragile più di ogni altra... Adesso mi sembra di avere di fronte una creatura nuova, che mi mette sgomento.
Un arcangelo? Una leonessa? O un uragano che stronca e schianta? Si può discorrere con un uragano?
Pettinarlo, profumarlo, informarlo dei pettegolezzi di Betulia? Oh Signore, come fai diverse le tue creature,
quando le tocchi col tuo fuoco! Per noi, così piccoli, è come entrare -già da vivi -nel regno della morte.
ESTER
A Susa c'era un Giudeo chiamato Mardocheo, figlio di Giairo, figlio di Simei, figlio di Kis, della tribù di
Beniamino, che era stato deportato da Gerusalemme con il popolo, fatto prigioniero insieme con il re di
Giuda, Ieconia, ridotto in schiavitù da Nabucodònosor, re di Babilonia. Egli era il tutore di Hadàssa, cioè
Ester, figlia di un suo zio, priva di padre e di madre. La ragazza era graziosa di forme e di bell'aspetto, e
quando suo padre e sua madre morirono, egli la prese con sé come se fosse stata sua figlia. Ester fu
condotta dal re Assuero nella sua reggia nel decimo mese, cioè nel mese di Tebet, nell'anno settimo del suo
regno. Il re amò Ester più di tutte le altre donne ed ella fu gradita e favoreggiata da lui più di tutte le altre
vergini. Egli pose sul suo capo la corona regale e la fece regnare al posto di Vasti. Qualche tempo dopo il re
promosse Aman, figlio di Hammedàta, agaghita, lo elevò in dignità e fece porre il suo seggio più alto di
quelli dei prìncipi che stavano con lui. Tutti i ministri del re, addetti alla porta del re, si inchinavano e si
prostravano davanti ad Arnan, perché così aveva ordinato il re; ma Mardocheo non si inchinava né si
prostrava. Aman vide che Mardocheo non si inchinava né si prostrava davanti a lui e fu pieno d'ira. Sdegnò
di alzare la mano sul solo Mardocheo, perché gli avevano riferito a quale popolo egli appartenesse, e quindi
cercò di sterminare tutti i Giudei che si trovavano in tutto il regno di Assuero. Fu gettato il Pur, cioè fu
tirato a sorte il giorno e il mese per sterminare in una giornata la stirpe di Mardocheo; e la sorte cadde sul
quattordicesimo giorno del dodicesimo mese, il mese di Adar. Mardocheo seppe tutto quello che era stato
fatto e si stracciò le vesti, si coprì di sacco e di cenere e llscì per la città emettendo lamenti profondi e
amari. Arrivò fino dirimpetto alla porta del re, perché non era permesso entrare nella porta del re vestiti di
sacco. Vennero anche le serve di Ester e i suoi eunuchi e la misero al corrente. La regina fu presa da grande
angoscia. Chiamò Atàch, uno degli eunuchi del re che la serviva, ordinandogli di andare da Mardocheo per
sapere che cosa succedeva e Mardocheo lo informò di tutto quello che era successo e della somma di denaro
che Aman aveva detto di versare nei tesori del re, in cambio dello sterminio dei Giudei; gli dette anche la
copia del testo di sterminio che era stata promulgata a Susa, perché la mostrasse a Ester, e le ingiungesse di
andare dal re per implorarlo e chiedergli grazia per il suo popolo. La regina Ester pregò il Signore Dio
d'Israele: «Signore mio, dammi coraggio, o Re degli dèi e dominatore di ogni signoria. Da' un linguaggio
armonioso nella mia bocca, quando sarò di fronte al leone, e volgi il suo cuore all'odio di chi ci perseguita,
verso la rovina sua e di coloro che sono d'accordo con lui. Salvaci con la tua mano, e aiuta me, che sono
sola e non ho nulla all'infuori di te, Signore». Il terzo giorno Ester si tolse le vesti umili e si rivestì di quelli
sontuosi. Alzato il viso, che la sua maestà rendeva fiammeggiante, al culmine della collera la guardò. La
regina cadde, e nel venir meno, il suo colore cambiò ed ella si piegò sul capo dell'ancella che la precedeva.
Ma Dio cambiò lo spirito del re, inclinandolo alla dolcezza. Sconvolto, balzò dal trono, la prese nelle
braccia fino a che rinvenne, le rivolse parole di pace e le disse: «Che hai, Ester? lo sono tuo fratello. Sta' di
buon animo: non morrai! Il nostro ordine è solo per la gente comune. Avvicinati». Alzato il suo scettro
d'oro, lo pose sul collo di Ester, 1'abbracciò e le disse: «Che cosa c'è, regina Ester? Quale richiesta hai da
farmi? lo ti darò fino alla metà del mio regno». Ester rispose: «Se sembrerà bene al re, venga il re e Aman,
oggi, al banchetto che ho preparato per lui». Il re disse: «Affrettatevi a cercare Aman, per fare quello che ha
detto Ester». Il re e Aman vennero al banchetto che aveva preparato Ester. Mentre beveva, il re disse ad
Ester: «Qual è la tua richiesta? Ti sarà concessa! Qual è il tuo desiderio? Fino alla metà del mio regno ti
sarà concesso!». La regina Ester rispose: «Se ho trovato grazia agli occhi del re e se al re sembrerà bene,
mi sia concessa la mia vita per la mia domanda, e quella del mio popolo per la mia richiesta. Perché siamo
stati venduti, io e il mio popolo, per essere sterminati, uccisi e distrutti... Il persecutore e nemico è questo
perfido Aman». Carbonà, uno degli eunuchi, disse al re: «Ecco, c'è il patibolo che _-Aman aveva preparato
per Mardocheo, quello che ha parlato nell'interesse del re; è rizzato nella casa di Aman, alto cinquanta
cubiti». Il re disse:"Aman si impicchi su di esso». Impiccarono così Aman sul patibolo che aveva preparato
per Mardocheo e l'ira del re si placò. (Ester 2,5-7.16-17; 3,1-2,5-7; 4,1-8. 17k-17t; 5,1-6; 7.3-69-10)
La storia di Ester è altamente drammatica. E, come un dramma, ha personaggi tipici: Assuero, il sovrano
orientale; Aman, il nemico irriducibile degli ebrei; Mardocheo, il patriota furbo e devoto; Ester, la fanciulla
dolce e delicata che incanta tutti con la propria grazia e spinge il proprio amor di patria fino all'eroismo. I
commentatori del libro fanno osservare che anche il linguaggio del racconto è sonante e colorito. Si tratta di
una triste storia, che gronda sangue anche se, con l'aiuto di Dio, è finita in bellezza; una storia
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d'antisemitismo come ce ne sono sempre state. Il popolo di Dio, costretto a difendersi con una coesione
particolare e un attaccamento profondo fra tutti i suoi membri per resistere agli urti delle vicende più amare e
alle tentazioni dell'idolatria, è stato spesso guardato come un pericolo pubblico, se non addirittura come un
nemico dell'umanità. Il Libro di Ester racconta avvenimenti esemplari in tal senso. Da essi risulta ancora una
volta come Dio solo sappia e possa, in certi casi, difendere il suo popolo da soprusi e aggressioni; e anche
stavolta lo strumento è la fragile donna. Nell'anno 597 avanti Cristo, Assuero fece deportare in Susa le
influenti famiglie del regno di Giuda. Mardocheo, un giudeo diventato funzionario della corte come molti
altri, sognò cose strane e sanguinose che poi, con riflessione e pazienza scoprì significare un attentato
prossimo contro il suo sovrano. Spiò due eunuchi, e venne a conoscenza tutta la macchinazione che si
preparava. Li denunciò al re, e l'attentato fu sventato. Il re stesso annotò negli annali -una specie di diario
politico -quanto era avvenuto, e il merito di Mardocheo. Poi altre cose lo distrassero, e dimenticò di premiare
il salvatore. Era un re che ci teneva mostrare la propria ricchezza: non sarebbe stato, diversamente, un
sovrano orientale di classe. Dopo primo banchetto riservato ai dignitari e durato circa centottanta giorni in
cui furono mostrate le favolose ricchezze della corte, Assuero offrì un altro convito a tutto il popolo della
cittadella di Susa. Il banchetto durò otto giorni. Tutti potevano mangiare e bere a volontà; nessuno era
criticato o sforzato. Vasti, la regina, non volle essere da meno, e dette un banchetto per le donne della reggia.
Scoppiò un incidente per il capriccio di Vasti che, richiesta dal re stesso di mostrarsi ai generali in tutto il suo
fulgore di bellezza e di ricchezza, non ne volle sapere. Assuero s'infuriò. Spodestò di colpo la capricciosa; e
gli ufficiali e i cortigiani si affannarono a cercare per tutto l'impero una fanciulla più bella della regina, con
cui consolare il re. Mardocheo aveva allora il compito di educare la giovane figlia di suo zio, di nome Ester,
orfana di padre e di madre. Era molto bella. Mardocheo ne parlò al capo del gineceo del sovrano. Questi
l’accettò subito, iniziando la sua educazione per la corte, con massaggi, profumi, acconciature speciali. Le
assegnò sette fanciulle e le preparò uno dei più begli appartamenti della reggia. Egli non sapeva che si
trattava di una giovane ebrea, perché Ester non aveva detto nulla, dietro consiglio di Mardocheo. Si trattava,
purtroppo, di fungere da vera e propria concubina del re. In quel tempo la cosa, per una ragazza assai bella,
era più che normale, e nessuno trovava a ridire. Se Mardocheo decide di mettere in quelle condizioni la
giovanissima parente, deve fiutare che Ester potrà essere in ogni circostanza una buona pedina presso il re,
adatta a stornare repressioni e disgrazie dal suo popolo. Ester è infatti tanto bella che possiede tutti i numeri
per diventare la "favorita" di Assuero. Passano comunque dodici mesi di complicatissima iniziazione, prima
che Ester venga presentata al re. Assuero si compiace della straordinaria bellezza della fanciulla e pose sul
suo capo la corona regale e la fece regnare al posto di Vasti. Per festeggiare l’intronizzazione di Ester,
Assuero indusse un grande banchetto. Fu in questa circostanza che Mardocheo parlò al re dei due eunuchi
che vennero giustiziati. In questo periodo Aman viene nominato sovrintendente del re. Quando lui passava
Mardocheo si rifiutava di inchinarsi; per questo Aman, cieco d’ira, cercò di sterminare tutti gli ebrei, facendo
emanare al re un editto che ordinava lo sterminio del popolo ebraico. Il popolo cominciò a pregare e a
digiunare. Ester, avvertita dalle sue ancelle, «fu presa da grande angoscia». Fece svolgere un'inchiesta
personale da un suo uomo di fiducia, e comprese che toccava a lei agire. Avrebbe dovuto recarsi subito dal
re; ma anche la regina, in quel tempo e in quel paese, non poteva presentarsi al cospetto del sovrano se non
chiamata da lui: diversamente, per chiunque, c'era, automatica, la pena di morte. Ester sa che non può
tardare, altrimenti l'editto assurdo segnerà la fine di tutti gli ebrei. Mardocheo fa capire alla regina che Dio
l'ha portata fin sul trono per la salvezza del suo popolo. Ester comprese e decise di sfidare ogni pericolo.
Chiese ai suoi di pregare. Pregò anche lei, con cuore confidente e trepidante: «Cercò rifugio nel Signore, in
preda all'angoscia della morte». Dopo la preghiera, Ester indice un banchetto e fa in modo d'invitare anche
Assuero e Aman. Accettano ambedue. Aman approfitta dell'euforia conviviale per dettagliare il progetto di
far impalare vivo Mardocheo. Non immagina che ad ascoltarlo, impassibile per i cosmetici regali, ma col
cuore in tumulto, sta proprio un'Ebrea: una donna che sa, ormai, cosa le tocca fare. La notte dopo il
banchetto, Assuero non riuscì a prendere sonno. Per ingannare le lunghe ore notturne, si dette a rileggere gli
annali e il diario del proprio regno. Gli occhi gli caddero sulla vicenda di Mardocheo, che due volte gli aveva
salvato la vita e che non risultava essere stato mai premiato. Il re sentì rimorso. Il mattino successivo, dopo
che dai suoi stessi consiglieri ebbe la conferma che Mardocheo era rimasto negletto, ecco presentarsi al re
Aman. Veniva a proporre di impiccare Mardocheo -reo di non avergli fatto la riverenza -a un palo alto
venticinque metri. Il re giudicò che nessuno più di un cortigiano esperto come Aman potesse dirgli come
risarcire il suo salvatore. Gli domandò a bruciapelo: «Che cosa si può fare per un uomo che si desidera
onorare?». Aman era convinto che il re pensasse a lui, e si diffuse, col cuore gonfio di gioia, in dettagli
festosi: «Bisogna che porti le vesti regali che indossa lo stesso re; cavalchi sul cavallo del re; gli sia posta in
capo una corona regale... Si gridi dinanzi a lui: Ecco come è trattato l'uomo che il re desidera onorare».
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Aman non si aspetta la terribile doccia fredda: «Prendi subito le vesti e il cavallo come hai detto» esclamò il
re «e fa' così a Mardocheo, il giudeo che siede alla porta del re. Non trascurare nessuna delle parole che hai
detto». Aman intuisce la fine, ma cerca ancora di correre ai ripari. Sennonché Ester brucia le tappe:
organizza un secondo banchetto e invita ancora il re e Aman, che accettano. Questa è la volta in cui la donna
rischia tutto, anche la vita. Certo è stata confortata dalla prova di gratitudine del re per un suo benefattore
come Mardocheo, anche se questi è un giudeo. Ma da un re non si può mai sapere con precisione che cosa
bisogna aspettarsi. Assuero (colui che le storie profane chiamano Serse) è più un intenditore di donne che un
sovrano illuminato. E, in tal caso, anche le donne hanno sempre da temere. Ester si fa coraggio. Il re «anche
il secondo giorno disse a Ester, mentre si beveva il vino: "Qual è la tua domanda, regina Ester? lo te la
concederò! Qual è la tua richiesta? Fin alla metà del mio regno ti sarà concessa!». Proprio come nelle belle
fiabe non vere, dove alla grazioso. principessa viene promesso e garantito tutto. Sarà davvero superiore
l'amore per una regina all'odio per gli Ebrei? È il grande momento. Ester deve ora sfoderare tutta la sua
diplomazia: la diplomazia della semplicità, della bellezza, del dolore ~ della solidarietà col proprio popolo.
«La regina Ester rispose: "Se ho trovato grazia agli occhi del re, e se sembrerà bene, mi sia concessa la mia
vita per la mia domanda, e quella del mio popolo per la mia richiesta. Perché siamo stati venduti, io e il mio
popolo, per essere sterminati, uccisi e distrutti"». Assuero cade dalle nuvole, naturalmente: «Il re domandò:
Chi è costui?». Ester non ha più paura, e va sino in fondo: «Ester rispose: "Il persecutore e nemico è questo
perfido Aman"». Il re fugge in giardino a meditare sul da farsi. Aman, rimasto solo con Ester, si prostra sul
divano di lei per chiedere grazia, ma in quel momento il re torna, e vedendolo in quell'atteggiamento crede
che egli stia insidiando la regina. Un velo viene gettato sulla faccia di Aman, segno che la sua morte è decisa.
Un cortigiano consiglia di appenderlo allo stesso palo preparato per Mardocheo. Il consiglio è accettato.
Giustizia è fatta. Si tratta di una giustizia molto brutale, ma è in carattere coi tempi; nessuno, allora, se ne
scandalizzava. Ester ha certo il merito principale di tutto. Il re lo sa, e vuoi farsi perdonare da lei. Secondo
l'uso del tempo, a lei viene data la casa del giustiziato Aman. Anche Mardocheo viene chiamato a corte.
Ester ha confessato che il vero ideatore della salvezza del popolo ebraico è lui. Ad Assuero basta comunque
che quell'uomo gli abbia procurato la donna più bella che egli abbia mai potuto esibire di fronte ai suoi
dignitari. Ester è l'orgoglio del re. Questi diventa tenero e condiscendente con gli Ebrei più di quanto non
fosse stato prima duro e implacabile. Potenza del fascino femminile! Meno male che ogni tanto la Bibbia
trasmette storie esemplari in cui -come in quelle di Giuditta e di Ester -tale fascino serve a tutto un popolo, e
si articola nel coraggio e nel sacrificio. Ester non si accontenta, comunque, di vaghe promesse. Conosce il re,
la sua distrazione, la sua fatuità: chiede la revoca ufficiale e legale dell'editto contro i Giudei. Assuero strafà:
concede agli Ebrei di potersi radunare e organizzare liberamente in tutto l'impero; inoltre concede loro
addirittura il diritto di rappresaglia, cioè il diritto di «sterminare, uccidere, annientare, donne e fanciulli
compresi, ogni moltitudine di popolo e di provincia che si fosse scagliata contro di essi, e il diritto di
depredarne i beni». «Esposta in ogni luogo questa lettera (conclude il contro editto), lasciate che i Giudei con
libertà si valgano della loro legislazione e prestate loro aiuto affinché riescano a respingere coloro che li
volessero assalire... Dio, infatti, che è sovrano di tutte le cose, invece dello sterminio della nazione eletta, ha
reso loro questa gioia». Mardocheo ha trovato il trionfo nella luce e nella bontà di Ester, che, del resto, deve
a lui la corona e la sovranità. Come molti grandi della storia, Ester si presenta come una figura molto umile,
un'orfana ebrea vissuta durante la deportazione di Israele. In quattro anni la sua posizione cambia
radicalmente ed Ester raggiunge il massimo del livello sociale: diventa la regina di una grande potenza
mondiale, un ruolo che riesce a vivere saggiamente. Il racconto che troviamo nella Bibbia è ambientato al
tempo delle guerre tra i persiani ed i greci nel palazzo suntuoso dell'impero persiano al tempo di Serse I (486
- 465 a.C.). Arazzi di cotone finissimo, bianchi e viola, stavano sospesi, con cordoni di bisso e di porpora, ad
anelli d'argento e a colonne di marmo. C'erano divani d'oro e d'argento sopra un pavimento di porfido, di
marmo bianco, di madreperla e di pietre nere. Si offriva da bere in vasi d'oro di svariate forme, e il vino alla
corte era abbondante, grazie alla liberalità del re. Tutto questo viene descritto nel libro di Ester 1,6-7. Grande
è l'importanza data a questa donna: il suo nome viene citato nella Bibbia ben 55 volte. Il nome di nessun'altra
donna è ripetuto così spesso. Soltanto Sara si avvicina; il suo nome appare come Sara 35 volte e come Sarai
16, . La regina che ha preceduto Ester si chiamava Vasti, una bella donna nobile che ha avuto l'audacia di
contraddire un ordine irragionevole del marito. Durante una lunga festa nella quale aveva bevuto molto, il re
Assuero ordinò a sette eunuchi di convocare la regina Vasti davanti a lui per far sfoggia di fronte ai principi
della sua bellezza. Vasti rifiutò e il re ne fu irritatissimo... l'ira divampò in lui. Ma proprio il rifiuto di Vasti
ha permesso l'entrata di Ester nella storia. La ragazza (allevata dal cugino Mardoccheo, un Beniaminita,
addetto alle porte del palazzo del re) viene notata per la sua bellezza e condotta con le altre giovani vergini di
bell'aspetto nell'harem del re, come aspirante al posto della regina Vasti. Tra tutte le ragazze radunate a Susa,
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probabilmente solo Adassa (nome ebraico di Ester) non adorava gli idoli. Istruita come una figlia da
Mardoccheo probabilmente aveva conosciuto da lui le verità riguardanti l'Iddio Altissimo, l'Eterno. Una
volta davanti al re, Assuero amò Ester più di tutte le altre donne. La ragazza trovò grazia e favore agli occhi
di lui più di tutte le altre vergini. Egli le pose in testa la corona reale e la fece regina al posto di
Vasti. Divenuta regina, il suo nome è stato cambiato da Adassa, (il mirto) in Ester (la stella). E ben presto ha
svolto un ruolo non comune nelle vite della sua gente, minacciata dalla distruzione. Ester si è dedicata, non al
piacere, alle comodità ed ai lussi del più suntuoso palazzo del tempo, ma alle aspirazioni, alle speranze ed
alle ambizioni della sua gente. Quando Ester è diventata regina, il re Assuero ignorava che fossa giudea, per
lei fa una grande festa e sgrava di tasse i popoli dominati. Tutto questo perché è stato attratto dall'amabilità e
dalla bellezza di Ester. Pensando a lei, possiamo supporre che in questo palazzo magnifico si muovesse con
dignità e splendore, portando abiti d'oro, gioielli di ogni sorta che spiccavano tra i suoi capelli e accanto agli
occhi raggianti dalla meraviglia per ciò che le stava capitando. Possiamo immaginare che presto ha
ipotizzato di essere stata posta a tale condizione non a caso, ma per un grande scopo. La regina Ester ha
guadagnato il favore della gente che la circondava, per:
• la sua saggezza,
• l'autocontrollo e
• la capacità pensare ad altri prima che a se stessa.
Nel frattempo Ester scopre che Aman, il favorito del marito, odia la sua gente. Da scrittori ebrei moderni
Aman è stato descritto come un tipico Hitler, pieno di odio al punto da ordire un diabolico piano per
distruggere tutto un popolo solo per orgoglio ed ambizione personale. Di fronte alla malvagità di Aman si
oppone ed agisce il coraggioso di Ester, pronta a difendere la sua gente anche a costo della propria vita.
Ester è afflitta per lo scontro in corso tra lo Mardoccheo e Aman, ma si rende però conto che deve agire
subito e con saggezza. Un messaggio da parte del cugino la mette infatti di fronte alla sua responsabilità:
"Infatti se oggi tu taci, soccorso e liberazione sorgeranno per i Giudei da qualche altra parte; ma tu e la casa
di tuo padre perirete; e chi sa se non sei diventata regina appunto per un tempo come questo?" (Ester 4:I4).
Ester è risoluta: donna saggia e prudente, digiuna per tre giorni e coinvolge in questo non solo le sue serve,
ma anche tutto il popolo ebreo che si trova nella città di Susa. Di fronte alla distruzione tutto il popolo
digiuna e, senz'altro anche se non è scritto, prega. Poi, Ester si prepara ad andare da suo marito per
adoperarsi per la sua gente. Se il re, un uomo molto volubile, fosse stato di buon umore, ce l'avrebbe fatta,
sennò, avrebbe potuto perdere oltre alla causa anche la sua stessa vita. Mentre Ester si preparata a comparire
davanti al re, fa la dichiarazione più coraggiosa mai fatta da una donna nella Bibbia: "Se io debbo perire,
che io perisca! " (Ester 4:16), L'Eterno ricompensa l'abnegazione e l'ubbidienza. Tutto è nelle Sue mani; il
piano di salvezza e la forza di compierlo viene solo da Lui. Ester è una donna coraggiosa, ferma ma
soprattutto possiede una fede sincera e una dedizione alla causa della sua gente. Leggete la continuazione
della storia che trovate nella Bibbia... vale la pena scoprire come Dio agirà in risposta alla decisione di
Ester!
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