Massimo Pallini - Le relazioni Industriali in Italia

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Massimo Pallini - Le relazioni Industriali in Italia
MASSIMO PALLINI
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO
LE RELAZIONI INDUSTRIALI IN ITALIA:
VERSO UN SISTEMA DI CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
FORTEMENTE DECENETRATO ?
SOMMARIO: . – 1. Il trend globale verso il decentramento contrattuale. 2.- Gli (insuperabili)
problemi del decentramento contrattuale “organizzato” in un sistema di relazioni industriali
“disorganizzato”: a) per quanto attiene ai rapporti tra contratti collettivi di diverso livello. 3.
continua: b) per quanto attiene alla selezione dei soggetti contraenti. 4. continua – c) per quanto
attiene alla determinazione della retribuzione. 5. E' tempo per una legge !
1. - Il trend globale verso il decentramento contrattuale.
E' noto che negli USA e nel Regno Unito il livello più rilevante di contrattazione collettiva è sin
dagli anni ‘80 quello aziendale. Più recentemente, però, anche nei paesi dell’Europa continentale,
tradizionalmente caratterizzati da una contrattazione collettiva nazionale per settori, si assiste ad un
progressivo spostamento dell’asse della negoziazione verso il livello aziendale. Questo trend ha
subito una brusca accelerazione negli ultimi anni di crisi finanziaria anche a seguito delle pressioni
esercitate sia dalla Troika sia dalla Commissione Europea in tal senso (Jacobs 2014, 171 ss.).
Secondo il mainstreaming del pensiero economico questo processo di decentramento contrattuale
è effetto naturale e inevitabile del passaggio da mercati nazionali e chiusi ad un mercato sempre più
globale ed integrato, governato – almeno tendenzialmente – dalla libera concorrenza e dalla libera
circolazione di merci, servizi, capitali e persone. Nel contesto globale la contrattazione collettiva
nazionale di settore incontra insormontabili difficoltà ad esercitare in modo efficiente le sue
tradizionali funzioni macroeconomiche di redistribuzione della ricchezza nazionale prodotta tra le
diversi classi sociali, di salvaguardia del potere di acquisto delle retribuzioni attraverso il controllo
delle spinte inflazionistiche con la moderazione salariale, di sostegno della domanda interna di beni
e servizi attraverso la determinazioni di salari minimi superiori a quelli che risulterebbe
naturalmente dalle dinamiche del mercato del lavoro. Oggi, infatti, il capitale può più agevolmente
sottrarsi alle pressioni del contropotere sindacale delocalizzando gli impianti di produzione o
semplicemente investendo in attività ubicate in altri paesi in cui siano garantiti costi di produzione
inferiori o imposizione fiscale più favorevole o servizi e infrastrutture a supporto dell’attività
d’impresa più efficienti od insieme tutte o più di tali comodities. L’inflazione è divenuta persino
desiderabile in una certa misura per la sua capacità di stimolare la propensione all’acquisto dei
consumatori e comunque, almeno nei paesi dell’area euro, gli effetti sulla moneta non sono più
governabili dal singolo Stato. Il sostegno della domanda interna non si traduce necessariamente in
un sostegno alle imprese ubicate nel territorio nazionale potendo invece dirigersi all’acquisto di
beni e servizi prodotti da imprese ubicate all’estero e semplicemente distribuiti nel territorio
nazionale, destinando a queste imprese produttrici la gran parte del valore aggiunto del bene o del
servizio venduto (Banca d’Italia 2015).
Al contrario la negoziazione al livello aziendale può meglio della contrattazione nazionale
dettare una regolazione delle condizioni di impiego della forza lavoro che soddisfi perfettamente le
specifiche esigenze organizzative e/o produttive della singola impresa, contribuendo in modo più
efficace e mirato ad incrementarne produttività, competitività e, conseguentemente, redditività
(Commissione UE 2011). Il sindacato e i lavoratori sono chiamati a giocare un ruolo da partners
piuttosto che da controparti dell’azienda, cooperativo piuttosto che conflittuale; se si vince la
1
scommessa della competitività, i lavoratori dovrebbero riuscire ad ottenere quale contropartita non
solo stabilità e continuità dei loro rapporti di lavoro, ma anche una quota significativa di
compartecipazione agli utili prodotti dall’impresa in cui sono impiegati.
Al contempo sono evidenti i rischi con cui il sindacato è inevitabilmente chiamato a confrontarsi
in un sistema di contrattazione collettiva fortemente decentrata: a) nelle imprese di piccole e medie
dimensioni, dove generalmente il tasso di sindacalizzazione del personale è più ridotto, la
rappresentanza sindacale in sede aziendale può non avere di per sé la forza contrattuale sufficiente
per negoziare una retribuzione minima accettabile e una partecipazione agli utili significativa; b)
può persino assistersi alla trasposizione in misura rilevante del rischio d’impresa sui lavoratori
costretti a misurarsi in una corsa al ribasso delle condizioni di retribuzione e d’impiego per
garantire una sufficiente redditività alla loro impresa attraverso la compressione del costo della
forza lavoro piuttosto che attraverso la quantità e qualità della produzione di beni e servizi.
D’altronde la funzione storica della contrattazione nazionale di settore e persino dello stesso diritto
del lavoro è stata quella di dettare labour standards inderogabili dalla volontà negoziale individuale
del lavoratore così da precludere la possibilità dell’innescarsi di una tale race to the bottom (Jacobs
2014). Ora però nel contesto globale gli standards sono differenziati tra i competitors di uno stesso
mercato di beni o servizi e non si ravvisano fonti regolative né a livello internazionale né tantomeno
a livello europeo in grado di dettare in modo imperativo ed esigibile nuove condizioni inderogabili
di lavoro (Schmitt 2014, 195; Bruun 2014, 243).
La via percorsa dagli Stati europei continentali per governare la contrapposizione tra gli obiettivi
di competitività d’impresa e quelli di salvaguardia di trattamenti minimi uniformi tra i lavoratori nei
settori produttivi nazionali è stata quella del c.d. decentramento “organizzato”, attribuendo il potere
di deroga del contratto nazionale di settore od anche della legge limitatamente a specifiche materie
e soltanto a soggetti sindacali e datoriali dotati di una elevata rappresentatività nei settori produttivi
a livello “sovra-aziendale”.
Anche in Italia è stata progressivamente intrapresa questa strada.
Le parti sociali hanno stipulato degli accordi regolativi dei rapporti tra i diversi livelli di
contrattazione che hanno legittimato la contrattazione aziendale ad intervenire dapprima solo sulle
materie delegate dalla contrattazione collettiva di settore (Protocollo 1993), poi su quelle non
disciplinate dalla contrattazione nazionale pur in assenza di una espressa delega (principio del ne
bis in idem secondo l’Accordo interconfederale del 2009), infine anche in deroga rispetto alle
previsioni della contrattazione nazionale ad opera delle rappresentanze aziendali aderenti alle
confederazioni più rappresentative o delle rappresentanze sindacali elette nell’azienda (Accordi
interconfederali 2011, 2013 e Testo Unico del 2014).
Anche il legislatore è andato immettendo dosi sempre più massicce di “disponibilità” del diritto
del lavoro: rimettendo la possibilità di derogare limiti (soggettivi, oggettivi o quantitativi) dettati
dalla legge per ricorrere ai contratti cc.dd. “flessibili” (contratto a termine, somministrazione, part
time con clausole elastiche e flessibili, job sharing, job on call, etc.) dapprima ai contratti collettivi
di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative (legge n. 196/97, c.d. Pacchetto
Treu), poi solo in parte ai contratti aziendali stipulati dalle rappresentanze aziendali di quest’ultime
(d.lgs. n. 368/2001, d.lgs. n. 276/2003 cd. Legge Biagi), e più recentemente attribuendo a questi
contratti aziendali il potere di derogare sia la contrattazione nazionale sia la legge in una quantità di
materie1 tanto estesa da ricomprendere quasi totalmente le condizioni di regolazione del rapporto di
lavoro, con il solo limite del rispetto delle norme costituzionali, dell’ordinamento europeo e dei
trattati internazionali (art. 8 Legge n. 148/2011).
Questo è l’ultimo lascito del Governo Berlusconi adottato nell'autunno del 2011 nel disperato
tentativo di non cadere soddisfacendo una precisa richiesta in tal senso contenuta nella famosa
lettera indirizzatagli da Trichet e Draghi nell’estate dello stesso anno. I sindacati più rappresentativi,
in particolare la CGIL, hanno fermamente contrastato l’utilizzo di questa norma rifiutandosi di
1
Inserisci le materie
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sottoscrivere accordi aziendali derogatori in virtù di questa o, laddove costretti a farlo per evitare
licenziamenti collettivi o delocalizzazioni, hanno evitato di formulare negli accordi espliciti rinvii a
questa norma (Imberti 2013).
Il Governo Renzi, attualmente in carica, non ha abrogato l’art. 8 della legge n. 148/2011, che è a
tutt’oggi pienamente vigente, ma vi ha affiancato una norma che appare ritornare alla tecnica della
delega selettiva da parte della legge ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più
rappresentative al fine di derogare la disciplina di legge in materia di rapporti c.d. flessibili. A tal
fine la delega viene ora operata indistintamente ai contratti collettivi di qualsiasi livello: nazionale,
territoriale o aziendale, ponendoli tutti sullo stesso piano senza alcun rapporto gerarchico tra essi
(art. 51 D.lgs. n. 81/2015).
2.-
Gli (insuperabili) problemi del decentramento contrattuale “organizzato” in un
sistema di relazioni industriali “disorganizzato”: a) per quanto attiene ai
rapporti tra contratti collettivi di diverso livello.
Nonostante gli sforzi regolativi del legislatore e delle parti sociali è veramente ardito
definire al momento il sistema italiano di relazioni industriali come un sistema “organizzato” tra
diversi soggetti di rappresentanza collettiva e diversi ambiti contrattuali a livello nazionale,
territoriale e aziendale. Sembra piuttosto che il caos regni sovrano.
L'art. 39 della Costituzione Italiana al comma 1 riconosce incondizionatamente la libertà
della organizzazione sindacale. I commi successivi, però, dettano dei requisiti che le organizzazioni
sindacali debbono osservare per essere legittimati a stipulare contratti collettivi con efficacia c.d.
erga omnes, vincolante per tutti i lavoratori e le imprese appartenenti alle “categorie” alle quali il
contratto si riferisce: a tal fine i sindacati debbono a) essere registrati con personalità giuridica e
statuto con un ordinamento interno democratico; b) partecipare ad un organismo negoziale unitario
in proporzione dei loro iscritti e ciò necessariamente comporta l'attivazione di procedure
pubblicistiche di verifica e di certificazione della consistenza degli iscritti di ciascun sindacato che
intende partecipare a questa negoziazione.
A causa dell'originaria avversione delle organizzazioni sindacali più rappresentative di
sottoporsi a controlli da parte dell'Amministrazione pubblica in merito alla democraticità dei loro
statuti e alla effettiva consistenza dei loro iscritti, questa seconda parte dell'art. 39 Cost. non ha mai
trovato attuazione in una legge ordinaria attuativa. Secondo l'orientamento della Corte Cost. (****)
ciò non significa che i commi 2-4 dell'art. 39 siano privi di qualsiasi efficacia, ma che tale efficacia
sia solo “impeditiva”, precludendo l'adozione da parte del legislatore ordinario di diversi sistemi per
attribuire efficacia erga omnes ai contratti collettivi.
Per tale motivo i contratti collettivi di qualsiasi livello stipulati in Italia sono utt'oggi
contratti di diritto privato, definiti appunto di “diritto comune”, obbligatori soltanto sul piano
negoziale inter volentes, cioè tra le parti che li hanno sottoscritti: associazioni datoriali, sindacati e
gli iscritti di entrambi in virtù della procura di rappresentanza che quest'ultimi conferiscono alle
rispettive associazioni in ragione dell'iscrizione. Trattandosi di contratti di diritto privato, non esiste
neppure nessun criterio legale di gerarchia o di coordinamento che regoli i rapporti tra i contratti
collettivi di diverso livello, così che i conflitti regolativi tra gli stessi vengono risolti dalla
giurisprudenza o facendo ricorso al criterio cronologico, secondo cui prevale il più recente, o al
criterio quantomai incerto ed opinabile di c.d. “specialità”, secondo cui prevale il contratto più
vicino alla materia oggetto di regolazione (ad es. in materia di organizzazione dei turni di lavoro è
ritenuto prevalente il contratto aziendale anche se anteriore al contratto di settore).
Come già accennato, le parti sociali hanno tentato di governare il rapporto tra i contratti
collettivi di diverso livello adottando una serie di Accordi interconfederali, di cui l'ultimo è il T.U.
del 10 gennaio 2014 che sostanzialmente riafferma la prevalenza gerarchica del contratto nazionale
di categoria e ne prevede la derogabilità da parte del contratto aziendale ma soltanto con le modalità
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e per le materie dettate dallo stesso contratto nazionale. Il limite strutturale di questi Accordi, seppur
sottoscritti dalle confederazioni sindacali e datoriali più rappresentative, è che anch'essi hanno una
natura squisitamente contrattuale e, dunque, sono in grado di obbligare soltanto le parti firmatarie
e i soggetti (collettivi e individuali) da queste rappresentati.
In questo contesto la vicenda FIAT, poi trasformatesi in FCA, ha disvelato all'opinione
pubblica italiana quello che era già noto agli esperti da molto tempo: che il “decentramento”
contrattuale può essere perseguito da un'azienda in modo radicale ed efficace semplicemente
uscendo da ogni associazione datoriale, sottraendosi così agli impegni contrattuali da quest'ultima
assunti nei confronti delle organizzazioni sindacali e tornando completamente libera di stipulare un
proprio contratto aziendale con il sindacato o la coalizione sindacale disponibile a sottoscriverlo,
indipendentemente dal grado di rappresentatività dei lavoratori interessati. La FIAT volendo
derogare alla disciplina del contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici in materia di turni e di
orario di lavoro e non volendo neppur esser vincolata dai criteri di governo dei rapporti tra contratti
collettivi stabiliti dai vigenti accordi interconfederali ha creato due nuove società, cui ha ceduto le
sue aziende, non aderenti a nessuna associazione datoriale e successivamente ha disdettato la sua
adesione a Confindustria, la maggiore confederazione di rappresentanza delle imprese industriali.
In realtà nulla di così nuovo o stravolgente: da anni le piccole e medie imprese del nord est
fuoriescono in numero sempre più crescente dalle associazioni di categoria datoriale per sottrarsi
all'ambito di applicazione del contratto nazionale di settore ed il tasso di iscritti alle associazioni
datoriali è andato calando considerevolmente, tant'è che Federmeccanica, l'associazione più
rappresentativa delle imprese del settore metalmeccanico, sta valutando di modificare il suo statuto
e consentire l'adesione anche alle imprese che decidano di non applicare il contratto collettivo
sottoscritto dalla stessa associazione, esattamente come già avvenuto in Germania con
l'introduzione delle clausole di opting out dal contratto di settore (Brändle, Heinbach, 2010).
3.
continua: b) per quanto attiene alla selezione dei soggetti contraenti.
L'inattuazione dell'art. 39 Cost. lascia orfano il sistema italiano anche di una disciplina
legale per selezionare i soggetti sindacali e datoriali legittimati alla contrattazione collettiva ai
diversi livelli. Poiché il diritto di contrattare trova al momento legittimazione costituzionale nella
sola libertà di associazione sindacale, qualsiasi soggetto di rappresentanza, anche uno sparuto
gruppo di lavoratori spontaneamente costituitosi per l'occasione, può condurre trattative e stipulare
contratti per nome e per conto dei suoi rappresentati, sempre che la controparte datoriale sia
disponibile ed abbia interesse a trattare con tale soggetto.
Nella versione originaria l'art. 19 dello Statuto dei lavoratori (Legge n. 300/70) non
selezionava il soggetto legittimato alla negoziazione in sede aziendale (di seguito RSA), ma
intendeva promuovere la costituzione di rappresentanze aziendali legate alle “confederazioni
maggiormente rappresentative sul piano nazionale” o comunque ad associazioni firmatarie di
contratti collettivi “nazionali o provinciali”. Tale coordinamento con le associazioni sindacali
nazionali è saltato all'esito del referendum popolare dell'11.6.1995 (D.P.R. 28.7.1995 n. 312) ha
comportato la completa abrogazione nel testo originario dell'art. 19 del primo requisito legittimante
la costituzione di RSA (adesione alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano
nazionale), ed ha parzialmente modificato il secondo requisito, eliminando il riferimento ai contratti
collettivi “nazionali o provinciali”, così che ora la sottoscrizione di un contratto collettivo di
qualsiasi livello, anche aziendale, legittima il sindacato firmatario alla costituzione di RSA.
L'attuale testo dell'art. 19 recita, infatti, “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere
costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito delle associazioni
sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva”.
Nell’immediatezza del referendum vi è stato chi – secondo un’analisi di indubbia coerenza –
ha affermato che si sia sostanzialmente fatto un balzo all’indietro nel tempo alla disciplina delle
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relazioni industriali fondate esclusivamente sulla “logica propria dell’ordinamento intersindacale”,
il quale trae la sua capacità autoregolativa dal reciproco riconoscimento che si attribuiscono le parti
rappresentative di interessi configgenti2. Sarebbe stato quindi divelto alle radici tutto l’impianto
statutario: l’art. 19 St.lav. non assolverebbe più ad alcuna funzione promozionale, ma
disciplinerebbe soltanto alcuni diritti delle organizzazioni sindacali conseguenti a tale
accreditamento ad opera della parte datoriale. E d’altronde anche altri autori, che non condividono
la radicalità di tali conclusioni, hanno comunque rilevato un “vizio di circolarità”3 o di “tautologia”
della norma, che ora si limiterebbe ad attribuire dei diritti a chi è già in grado di ottenerli
contrattualmente, così che “la legislazione di sostegno non sostiene più nessuno, o, al massimo,
sostiene chi già si è messo in piedi”4.
La Corte Cost. per ben tre volte aveva affermato la compatibilità con la Costituzione di una
tale formulazione dell'art. 19 (sent. n.1/94, che ha ritenuto ammissibile il quesito referendario; sent.
nn. 244/96 e 345/96). La Consulta in queste pronunce aveva ritenuto infondata l'accusa mossa
all'art. 19 di attribuire di fatto al datore di lavoro un “potere di accreditamento” della propria
controparte sindacale. L'aver sottoscritto un contratto collettivo applicato in azienda sarebbe stato
eletto dal legislatore quale indicatore esclusivo della capacità rappresentativa di un sindacato;
garantire a questo sindacato dei diritti aggiuntivi non contrasterebbe né con l'art. 39 Cost., non
comprimendo in nessun modo la libertà sindacale degli altri sindacati non firmatari, né con l'art. 3
Cost. perché il criterio selettivo adottato dal legislatore nell'attribuzione di questi diritti sarebbe del
tutto ragionevole in quanto ancorato alla sottoscrizione del contratto applicato quale elemento
rilevatore della “effettività dell'azione sindacale” del sindacato firmatario. Sebbene nell'ordinamento
italiano il datore non sia soggetto ad alcun obbligo né di contrattare né tantopiù di sottoscrivere un
contratto e possa, dunque, discrezionalmente decidere con quale organizzazione sindacale
sottoscrivere o meno un accordo, tuttavia lo stesso datore di lavoro avrebbe interesse a stipulare
accordi con controparti sindacali che raccolgono un consenso diffuso tra i lavoratori cui quegli
accordi vengono applicati, altrimenti la tenuta di quanto convenuto sarebbe esposta al rischio di
esser inficiata da proteste e contestazioni degli stessi lavoratori. Al riguardo nella pronuncia n.
244/96 si legge che il criterio della sottoscrizione di un contratto collettivo, “… esteso però
all’intera gamma della contrattazione collettiva, si giustifica, in linea storico-sociologica e quindi
di razionalità pratica, per la corrispondenza, di tale criterio allo strumento di misurazione della
forza di un sindacato, e di riflesso della sua rappresentatività, tipicamente proprio
dell’ordinamento sindacale”. A ben vedere, quindi, la Corte non era giunta a ritenere che l’art. 19
attribuisse al datore di lavoro un potere discrezionale di accreditamento dell’interlocutore sindacale,
bensì che la norma avesse una finalità “definitoria”, si limitasse cioè a prevedere che ad una
circostanza oggettiva e preesistente - la maggiore rappresentatività che si esprime con la
sottoscrizione di un contratto collettivo applicato in azienda - consegua l’attribuzione dei diritti “di
sostegno” all’organizzazione sindacale firmataria. Sempre nella sentenza n. 244/96 il Giudice
costituzionale precisava, infatti, che soddisfa il requisito di cui all’art. 19 non già la sottoscrizione
di un accordo qualsiasi, bensì di un “… contratto normativo che regoli in modo organico i rapporti
di lavoro,(non in tutti i loro aspetti ma ) almeno per un settore o un istituto importante della loro
disciplina”.
Il conflitto tra la FIAT e il maggior sindacato dei lavoratori metalmeccanici, la FIOM
(aderente alla confederazione CGIL) ha però reso evidente a tutti che nell'attuale contesto “storicosociologico” l'aver sottoscritto un contratto applicato nell'azienda non costituisce più di per sé prova
della maggiore rappresentatività di quel sindacato. Tant'è che la FIOM, pur essendo sicuramente il
sindacato con il maggior numero di iscritti, non avendo però aderito al contratto aziendale stipulato
2
S. LIEBMAN, Forme di rappresentanza degli interessi organizzati e relazioni industriali in azienda, DRI, 1996, 1,
8.
3 U. CARABELLI, Le r.s.a. dopo il referendum, tra vincoli comunitari e prospettive di partecipazione, DRI, 1996,
I,23
4 G. GIUGNI, La rappresentanza sindacale dopo il referendum, DLRI, 1995, 3, 367.
5
dalla FIAT con gli altri sindacati del settore (UILM e FIM), è stata esclusa dalla possibilità di
costituire RSA negli stabilimenti FIAT e dal godere dei diritti di cui al titolo III dello Statuto dei
Lavoratori (diritti di assemblea e referendum, permessi, retribuiti e non, aspettative, fruizione di
bacheche e locali negli stabilimenti, divieto di trasferimento dei dirigenti delle RSA senza il nulla
osta del sindacato).
La Corte Cost. chiamata nuovamente a valutare la compatibilità con il disposto
costituzionale dell'art. 19 St.lav. in occasione di questa contrapposizione tra FIAT e FIOM è giunta
da ultimo ad un risultato inverso rispetto alle passate pronunce sopra ricordate. Nella sentenza n.
231/2013 il Giudice delle leggi ha rilevato che, alla luce del nuovo contesto delle relazioni
industriali realizzatosi, “... nel momento in cui viene meno alla sua funzione di selezione dei
soggetti in ragione della loro rappresentatività e, per una sorta di eterogenesi dei fini, si trasforma
invece in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello
aziendale o comunque significativamente rappresentativo, sì da non potersene giustificare la stessa
esclusione dalle trattative, il criterio della sottoscrizione dell’accordo applicato in azienda viene
inevitabilmente in collisione con i precetti di cui agli artt. 2, 3 e 39 Cost.”. La Consulta, con una
pronuncia c.d. additiva, ha pertanto dichiarato incostituzionale l'art. 19 dello St.lav. nella parte in cui
non prevede che un sindacato possa costituire una RSA anche quando, pur non avendo firmato il
contratto collettivo applicato nell’azienda, abbiano comunque attivato partecipato alla negoziazione
dello stesso contratto quale rappresentante dei lavoratori dell’azienda.
Questa pronuncia ha dettato un criterio selettivo idoneo a risolvere la specifica controversia
tra FIAT e FIOM, legittimando quest'ultima – almeno temporaneamente – alla costituzione di RSA
in quella azienda pur non aderendo al nuovo contratto aziendale, ma tale criterio risulta chiaramente
inadeguato ad essere eletto ad indice rilevatore della maggiore rappresentatività di un sindacato
nella generalità dei casi. Il sistema italiano, infatti, non conosce un obbligo dell'azienda a trattare
neppure con il sindacato più rappresentativo; pertanto così come ieri il datore di lavoro era libero di
sottoscrivere il contratto con gli interlocutori che preferisse, domani sarà egualmente libero di non
invitare neppure al tavolo negoziale i sindacati non graditi, facendo così venir meno anche il nuovo
requisito legittimante per la costituzione di RSA indicato dalla Corte Cost.. D'altronde la stessa
Corte è ben conscia e ne dà espressamente atto che la interpretazione dell'art. 19 Cost. adottata nella
sentenza n. 231/2013 è in grado di renderlo compatibile con il disposto costituzionale unicamente
con riguardo alla questione sollevata, non potendo divenire un criterio di selezione del soggetto
sindacale maggiormente rappresentativo in contesti aziendali in cui non si raggiunga un accordo o
neppure si apra una negoziazione per volontà aziendale. E' quindi la Corte a sollecitare il legislatore
ad intervenire con una legge ordinaria, prospettando persino le strade alternative tutte percorribili in
sintonia con il dettato costituzionale: a) selezionare i sindacati legittimati a costituire RSA in
ragione dell'effettivo, b) introdurre un obbligo a trattare con i sindacati che superino una
determinata soglia di sbarramento, c) far rinvio generale al sistema contrattuale e non al singolo
contratto collettivo applicato nell’unità produttiva, d) istituire rappresentanze sindacali nei luoghi di
lavoro direttamente elette dai lavoratori.
Questo sollecito della Corte Cost. ad un intervento della legge per disciplinare il sistema di
rappresentanza sindacale non ha però vinto la tradizionale ritrosia delle organizzazioni sindacali
confederali verso una soluzione legislativa. Esse hanno infatti da ultimo tentato di mettere
autonomamente a punto una disciplina di fonte contrattuale che sia in grado di misurare la
rappresentatività sindacale, selezionare i soggetti contrattuali e governare i rapporti tra i diversi
livelli di contrattazione. Il 10 gennaio 2014 è stato sottoscritto da Confindustria, CGIL, CISL e UIL
un nuovo accordo interconfederale, la cui ambizione di essere sostitutivo rispetto alla legge emerge
chiaramente dalla sua denominazione come Testo Unico, definizione che generalmente viene
utilizzata per le leggi che intervengono a riordinare una materia riguardo alla quale si sono
stratificati nel tempo diversi interventi legislativi. Ed in effetti anche il T.U. interconfederale del
2014 ha come obiettivo quello di reintervenire razionalizzando e rendendola più efficiente la
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regolazione di fonte contrattuale delle relazioni industriali che si è prodotta partendo dal Protocollo
del 1993, passando per gli accordi interconfederali del 2011 e del 2013.
Si prevede un meccanismo di misurazione della rappresentatività dei sindacati su base
nazionale in relazione all'ambito di applicazione del contratto nazionale di settore: attraverso il
servizio telematico di versamenti dei contributi previdenziali all'INPS – Istituto della Previdenza
sociale – l'azienda deve indicare il contratto nazionale di settore che applica e le deleghe di
pagamento di contributi sindacali conferiti dai lavoratori in favore di ciascun sindacato. Nelle
aziende poi vengono raccolti i voti che ogni sindacato ha ricevuto nel contesto aziendale in
occasione dell'elezione di una rappresentanza sindacale unitaria (RSU), cui possono partecipare tutti
i sindacati a condizione di accettare la regolazione del suo funzionamento e di rinunciare a
costituire proprie RSA. Questi voti vengono raccolti (da un soggetto pubblico, il CNEL) su base
nazionale in relazione alle aziende che applicano il medesimo contratto collettivo di settore. Si
misura poi la rappresentatività di ogni sindacato facendo la media tra il dato associativo (la
percentuale di deleghe ottenute in rapporto alla totalità dei lavoratori iscritti ad un sindacato) e il
dato elettorale (la percentuale di voti ottenuti in rapporto alla totalità dei votanti alle elezioni delle
RSU nelle aziende cui trova applicazione il medesimo contratto nazionale). Per essere ammesso al
tavolo delle trattative un sindacato deve aver ottenuto almeno il 5% come dato medio e le
piattaforme di negoziazione e i contratti collettivi si intendono approvati e vincolanti per tutti i
soggetti aderenti al medesimo contratto nazionale di settore (aziende, sindacati, lavoratori) se sono
approvati da una coalizione di organizzazioni sindacali che raggiunga il 50% + 1 della media tra
dato associativo e dato elettorale. Le parti hanno convenuto che, secondo l'indicazione della
sentenza n. 231/2013 della Corte Cost., il requisito del 5% di rappresentanza, legittimando alla
partecipazione alla negoziazione, perfeziona la condizione per il riconoscimento dei diritti sindacali
ai sensi dell’art. 19 dello St.lav..
Alle elezioni delle RSU in azienda, come detto, possono partecipare tutte le organizzazioni
sindacali a condizione che accettino espressamente, formalmente ed integralmente i contenuti del
presente accordo, dell’Accodo Interconfederale del 28 giugno 2011 e del Protocollo del 31 maggio
2013 e, se non firmatarie di quegli accordi, presentino una lista corredata da un numero di firme di
lavoratori dipendenti dall'unità produttiva pari al 5% degli aventi diritto al voto nelle aziende con
oltre 60 dipendenti; nelle aziende di dimensione compresa fra 16 e 59 dipendenti la lista deve
essere corredata da almeno tre firme di lavoratori. Ciascun candidato può presentarsi in una sola
lista. Se un componente della RSU cambia sindacato di appartenenza decade dalla carica e viene
sostituito con il primo dei non eletti della lista di originaria appartenenza. Le RSU assumono le
decisioni a maggioranza dei membri.
Il T.U. del 2014 aspirerebbe a dotare i contratti aziendali di una efficacia almeno
tendenzialmente generalizzata; si prevede infatti che gli accordi conclusi nel rispetto delle
procedure convenute “... sono efficaci ed esigibili per l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici
nonché pienamente esigibili per tutte le organizzazioni aderenti alle parti firmatarie della presente
intesa”. Si prevede che anche laddove non si siano costituite RSU i contratti aziendali esplicano pari
efficacia se approvati dalle RSA che risultino destinatarie della maggioranza delle deleghe relative
ai contributi sindacali conferite dai lavoratori dell’azienda. I contratti aziendali così approvati dalle
RSA debbono essere sottoposti al voto dei lavoratori se lo richiede un sindacato aderente ad una
delle Confederazioni sindacali firmatarie del T.U. o almeno il 30% dei lavoratori dell’impresa. Per
la validità della consultazione è necessaria la partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto al
voto. L’intesa è respinta con il voto espresso dalla maggioranza semplice dei votanti.
E' di tutta evidenza però che il T.U. Si confronta con un limite strutturale insuperabile per
riuscire realmente a vincolare tutti i lavoratori impiegati in una azienda: quello di essere una fonte
contrattuale incapace di produrre effetti giuridici nei confronti di quei soggetti che non vi hanno
aderito in alcun modo o perché non iscritti a nessun sindacato o perché iscritti a sindacati che non
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hanno partecipato alle elezioni delle RSU, né hanno accettato le condizioni dettate dagli accordi
interconfederali.
Per quanto attiene la articolazione del sistema di contrattazione collettiva il T.U. ripropone la
centralità del contratto nazionale di settore quale strumento volto a garantire la certezza dei
trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore in tutto il territorio
nazionale. Viene riconosciuta la possibilità dei contratti aziendali di derogare al contratto nazionale
ma sempre “nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi nazionali di
lavoro”. Ove tali condizioni non siano ancora definite dal contratto collettivo nazionale di lavoro
applicato nell’azienda, le RSA soltanto “d’intesa con le relative organizzazioni sindacali
territoriali di categoria espressione delle Confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo
interconfederale o che comunque tali accordi abbiano formalmente accettato” possono stipulare
contratti aziendali in deroga alle disposizioni del contratto nazionale che disciplinano la
“prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro” per far fronte a situazioni di crisi o
per agevolare investimenti significativi per favorire lo sviluppo dell’impresa.
4. continua – c) per quanto attiene alla determinazione della retribuzione.
Per quanto le maggiori associazioni sindacali e datoriali aspirino a costruire un sistema di
regolazione contrattuale “organizzato” questi sforzi rischiano di venir vanificati dalla concorrenza
di contratti collettivi stipulati per i medesimi settori da diverse organizzazioni seppur meno
rappresentative su base nazionale.
Come chiarito, infatti, in mancanza di una legge sulla rappresentanza ai fini della
negoziazione collettiva nessuna associazione o coalizione di associazioni può vantare, sia sul fronte
datoriale sia su quello sindacale, un monopolio della contrattazione collettiva a nessun livello,
neppure al livello aziendale. Non esiste nessun strumento per attribuire efficacia erga omnes ad un
contratto collettivo o per selezionare un unico soggetto legittimato a contrarre un contratto
collettivo dotato di una tale efficacia in un ambito di riferimento.
In primo luogo lo stesso ambito di riferimento per effettuare questa misurazione di
rappresentatività è indefinito e al momento indefinibile. Secondo l'orientamento assolutamente
prevalente nella dottrina e nelle giurisprudenza la nozione “categoria” cui fa riferimento l'art. 39
Cost., che dovrebbe definire gli ambiti di applicazione di un contratto, non è dettata dalla legge;
come si suol dire la categoria non preesiste al contratto collettivo, ma è ogni contratto a creare la
propria “categoria” nel disciplinare il suo ambio di applicazione. Si può quindi ben dire che vi sono
tante categorie quanti sono i contratti collettivi stipulati, e chiaramente in seno ad ogni specifica
“categoria” contrattuale i soggetti che hanno sottoscritto il contratto collettivo risultano
generalmente i più rappresentativi. E' di tutta evidenza come, se l'ambito di misurazione della
rappresentatività di un soggetto non è predeterminato rispetto alla definizione dell'ambito di
applicazione del contratto collettivo, sia praticamente impossibile operare in modo affidabile tale
misurazione. Questa impossibilità rende la nozione di “associazioni maggiormente
rappresentative” o quella, successivamente adottata dal legislatore per cercare di essere più
selettivo, di “associazioni comparativamente maggiormente rappresentative” fa affidamento per
operare la misurazione della rappresentatività di questi soggetti su un dato storico-sociologico e non
certo matematico.
Il legislatore ha utilizzato queste nozioni per selezionare i sindacati legittimati a derogare o
integrare il disposto della legge, in particolare per quanto attiene alla disciplina ed alle condizioni di
utilizzabilità dei contratti cc.dd. flessibili o degli istituti di flessibilità del contratto standard di
lavoro subordinato a tempo indeterminato. Anche da ultimo nel Jobs Act si attribuisce questo
potere ai “contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati
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dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria” (art.
51 d.lgs. n. 81/2015). Come si vede, la comparazione della rappresentatività dei sindacati viene
operato “sul piano nazionale” non consente di definire in modo sufficientemente preciso e –
soprattutto - invariabile l'ambito di misurazione. Inoltre il fatto che si faccia riferimento ai contratti
collettivi stipulati “da” e non “dalle” associazioni sindacali comparativamente più rappresentative
non consente di sciogliere il dubbio con cui da tempo si confronta la dottrina se ci si richieda
l'adesione di tutte le associazioni sindacali considerate maggiormente rappresentative, se sia
sufficiente l'adesione di alcune di queste ed, in tal caso, se le associazioni firmatarie debbano essere
la maggioranza tra quelle considerate maggiormente rappresentative od invece rappresentare la
maggioranza dei lavoratori dell'ambito in cui il contratto collettivo trova applicazione.
Questi problemi d'altronde non hanno trovato soluzione neppure nei criteri dettati dall'art. 8
della legge n. 148/2011 per selezionare i contratti collettivi aziendali e territoriali legittimati a
derogare anche in pejus non solo i contratti nazionali, ma persino numerosissime materie del diritto
del lavoro5, incontrando il solo limite del rispetto dei principi costituzionali, dell'ordinamento
europeo e dei trattati internazionali. Questa norma precisa che tali accordi derogatori esplicano una
efficacia obbligatoria nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere “...
sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali
operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti …
sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali”. Sebbene la
norma affermi espressamente l'applicabilità del criterio maggioritario, si è astenuta tuttavia dal
predisporre le condizioni per la sua operatività: non ha individuato il metro di misurazione, né ha
precluso interpretazioni strumentali secondo cui tali requisito debba essere valutato in rapporto al
numero di associazioni sindacali o di RSA che sottoscrivono il contratto, in luogo che al numero dei
lavoratori rappresentati, come sembrerebbe democraticamente più appropriato.
Tale incertezza ha incentivato il nascere di numerose associazioni sindacali che stipulano
contratti collettivi nazionali ma con ambiti applicativi molto ristretti sul piano soggettivo (ad es. il
contratto collettivo delle aziende della logistica con meno di 15 dipendenti) in relazione ai quali le
stesse possono vantare una qualche rappresentatività. Alcune volte si tratta persino di sindacati gialli
costituiti ad hoc per consentire alle aziende aderenti di beneficiare delle deroghe alle previsioni di
legge rimesse ai contratti collettivi. Non è un caso che negli anni della crisi finanziaria il numero di
contratti collettivi nazionali (già elevatissimo) si sia quasi raddoppiato passando da 400 a 700.
Applicando questi contratti collettivi, denominati “pirati”, le aziende si sottraggono all'applicazione
dei contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali che aderiscono alle confederazioni
considerate storicamente più rappresentative (CGIL, CISL, UIL) senza però privarsi dei margini di
flessibilità regolativa che la legge rimette alla contrattazione collettiva, che perderebbero decidendo
di non applicare nessun contratto collettivo. Oltretutto le previsioni dei contratti collettivi che
regolano istituti dei contratti individuali di lavoro in virtù del rinvio della legge sono considerate
dalla giurisprudenza vincolanti per tutti i lavoratori impiegati nelle aziende che li applicano, anche
5 “la regolazione delle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento:
a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie;
b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale;
c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e
ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro;
d) alla disciplina dell'orario di lavoro;
e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e
continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze
del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio, il licenziamento della
lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall'inizio del periodo di gravidanza
fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino, il licenziamento
causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della
lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento”.
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se non iscritti ai sindacati firmatari, perché rispondono a finalità gestionali che debbono esser
necessariamente regolate in modo uniforme nella stessa azienda. Secondo una fortunata costruzione
teorica (M. D'Antona, 1999) questa efficacia obbligatoria di fatto erga omnes deriverebbe dal rinvio
della legge al contratto collettivo e non già dal vincolo contrattuale, ciò ne salverebbe la
compatibilità con l'art. 39 Cost..
Ma l'attacco ferale che i contratti pirata muovono alla centralità della contrattazione
collettiva nazionale delle associazioni sindacali aderenti alle confederazioni più rappresentative si
ravvisa nella concorrenza che i primi esercitano nei confronti dei secondi nel contendere il ruolo di
parametri di determinazione della retribuzione minima per tutte le aziende di un settore a norma
dell'art. 36 Cost.. Questa norma costituzionale prevede che “Il lavoratore ha diritto ad una
retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad
assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”. La giurisprudenza ritiene tale diritto
direttamente esigibili dal lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro e, pertanto, in assenza
della determinazione di una retribuzione minima per legge, i Giudici hanno storicamente ravvisato
nei contratti collettivi nazionali stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative il parametro
fattuale di riferimento per determinare la retribuzione minima. Le previsioni di determinazione della
retribuzione-base di questi contratti collettivi, dunque, finiscono per assumere una efficacia
sostanzialmente erga omnes in quanto tutti i datori di lavoro operanti nel settore che costituisce
l'ambito di applicazione del contratto collettivo, anche se non vi aderiscono, sono comunque
obbligati a rispettare la retribuzione minima dettata dallo stesso contratto. Si tratta pur sempre di un
parametro per dare applicazione al diritto sancito dall'art. 39 Cost. e non già l'imposizione per legge
a tutte le aziende del settore di applicare il relativo contratto collettivo nazionale; ciò consente in
teoria ai Giudici di ritenere giustificata la previsione da parte di contratti territoriali e aziendali di
una retribuzione in misura inferiore rispetto a quella prevista dal contratto nazionale in ragione del
più basso costo della vita in alcune aree del paese, in particolare nel meridione, ma nella pratica tali
scostamenti sono stati considerati rispettosi dell'art. 36 Cost. in rarissimi casi e soltanto se di entità
assai ridotta.
Ora però i contratti pirata, vantando una presunta maggior rappresentività dei sindacati
stipulanti nei loro specifici e circoscritti ambiti di applicazione, insidiano pericolosamente il
monopolio di tale funzione attribuita ai contratti collettivi nazionali stipulati dalle associazioni che
aderiscono alle maggiori confederazioni. Così si spiega questo proliferare di nuovi contratti
collettivi nazionali stipulati da nuove sigle sindacali negli ultimi anni.
La Confederazioni considerate storicamente più rappresentative (CGIL, CISL, UIL) cercano
di difendere in ogni modo questa funzione dei contratti collettivi nazionali stipulati dalle loro
associazioni sindacali di settore nel determinare la retribuzione minima applicabile proprio in
ragione della efficacia ultra partes che la stessa di fatto esplicando segnando la retribuzione
inderogabile da qualsiasi azienda e lavoratore nel settore riferimento e precludendo una concorrenza
a ribasso rispetto a tale soglia minima. Non a caso nella proposta unitaria recentemente avanzata (14
gennaio 2016) da CGIL, CISL e UIL per una riforma del sistema di relazioni industriali viene
ribadita la centralità del contratto nazionale come fonte di determinazione della retribuzione minima
inderogabile che, in una nuova politica rivendicativa e non più di moderazione salariale, dovrebbe
essere determinata in base ad indicatori che tengano conto sia delle dinamiche macroeconomiche,
non soltanto riferite all'inflazione, sia della crescita economica e degli andamenti settoriali.
D'altronde rispettose di questa funzione dei contratti collettivi nazionali stipulati dalle
maggiori confederazioni sindacali sono state sia l'art. 8 della legge n. 148/2011, non prevedendo la
retribuzione tra le materie derogabili dal contratto aziendale o territoriale, sia da ultimo la legge
delega n. 183 del 2014, nel conferire la delega al Governo Renzi per determinare per legge il salario
minimo limitandone l'applicabilità ai soli settori in cui non trovi applicazione la contrattazione
nazionale, lasciando così intendere che per questi settori i contratti collettivi nazionali avrebbero
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continuato a costituire il parametro di riferimento per la determinazione della retribuzione minima
inderogabile.
5. - E' tempo per una legge !
L’attuazione della delega legislativa al Governo prevista dalla legge n. 183/2014 non
avrebbe consentito di modificare la situazione attuale, limitandosi a sostituire la fonte – da
giurisprudenziale a legale - dell’efficacia erga omnes attribuita ai minimi retributivi dettati dai
contratti collettivi nazionali di lavoro. Maturata la consapevolezza di ciò, il Governo ha deciso di
non avvalersi di questa delega del Parlamento e ha lasciato scadere i termini.
Paradossalmente proprio le maggiori Confederazioni sindacali che avevano tanto avversato
la legge delega al momento della sua approvazione, ora nella loro proposta congiunta del gennaio
2016 per la riforma del sistema di relazioni industriali italiane invocano l’adozione di una misura
sostanzialmente analoga: garantire l’obbligatorietà universale del rispetto dei minimi retributivi
previsti dai contratti collettivi nazionali di settore attribuendo loro per legge efficacia erga omnes
dando attuazione all’art. 39 Cost.
Ma anche la proposta di legge che è stata recentemente avanzata da un gruppo di autorevoli
giuslavoristi di diversi orientamenti politico-culturali (denominato “Freccia Rossa” come il treno ad
alta velocità che percorre l’Italia dal Nord al Sud) non sarebbe realmente risolutiva dei problemi
strutturali che abbiamo segnalato nei paragrafi precedenti. Si propone, infatti, di trasporre in legge
la regolazione contrattuale convenuta dalle confederazioni sindacali e datoriali maggiormente
rappresentative con l’Accordo del gennaio 2014, il cd. Testo Unico. In questa proposta, però,
l’efficacia erga omnes attribuita ai contratti collettivi nazionali di settore opererebbe soltanto in
seno alle aziende che aderiscono ed applicano (volontariamente) questi contratti o in via diretta o in
virtù del mandato conferito alle associazioni datoriali cui aderiscono. Sostanzialmente l’ambito di
applicazione del contratto nazionale sarebbe soggettivamente coincidente con le aziende che lo
applicano. Pertanto una efficacia erga omnes così caratterizzata risolverebbe soltanto il problema
dell’obbligatorietà del contratto nazionale anche per i lavoratori dissenzienti iscritti a sindacati non
firmatari o non iscritti a nessun sindacato, ma non sarebbe in grado di imporre un tale obbligo anche
alle aziende che, pur svolgendo il medesimo tipo di attività, non applicano nessun contratto
collettivo nazionale o ne applicano uno diverso sottoscritto da altre associazioni sindacali.
Oltretutto queste proposte rafforzano tutte l’identificazione del salario minimo ex art. 36
Cost. con i minimi retributivi dettati dai contratti collettivi nazionali di settore in modo uniforme (e
di fatto inderogabile dalla contrattazione territoriale e aziendale per le ragioni sopra esposte) per
tutta l’Italia. Un tale meccanismo di determinazione della retribuzione minima non si confronta in
alcun modo con la realtà Italiana che è profondamente diversa tra il Nord e il Sud per capacità
produttiva e, conseguentemente, per costo della vita e capacità d’acquisto delle retribuzioni. Così i
minimi retributivi previsti dai contratti collettivi risultano troppo bassi nelle regioni del Nord e
troppo elevati nelle regioni del Sud, incentivando in quest’ultime il ricorso al lavoro irregolare o
non dichiarato da parte di tante imprese proprio per sottrarsi all’applicazione di minimi retributivi
che, sommati alla contribuzione previdenziale a carico dell’impresa, sono giudicati insostenibili nei
contesti territoriali meno sviluppati. Inoltre l’uniformità del costo del lavoro disincentiva
investimenti in attività produttive nelle regioni meridionali che soffrono di insufficienza di
infrastrutture, di inadeguatezza dei servizi pubblici all’impresa, di pervasività nell’economia della
criminalità organizzata. Anche laddove non ci si rifugia nell’economia sommersa o nel lavoro
irregolare non residuano in ogni caso risorse economiche per una contrattazione aziendale volta ad
incentivare e premiare impegno e produttività. I dati (Bank of Italy 2015) ci dicono, infatti, che
questo tipo di contrattazione aziendale è quasi totalmente assente nelle regioni del Sud.
Al contrario nelle regioni del Nord i minimi retributivi previsti dai contratti nazionali di
settore sono agevolmente sostenibili dalle imprese, ma incidono negativamente sulla struttura della
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retribuzione che risulta in larga parte composta da componenti fisse, retribuzione prevista dal
contratto collettivo e da trattamenti aggiuntivi negoziati individualmente con il lavoratore, c.d.
superminimi, lasciando uno spazio assai ridotto per l’introduzione di incentivi retributivi legati al
merito collettivo e individuale e/o ai risultati della propria impresa.
Il Governo sin dal 2008 (legge n. 12/2008), con un sospensione nel 2015, sta insistentemente
cercando di incentivare le aziende e i sindacati a comprimere le componenti fisse della retribuzione
per incrementare quelle premiali assoggettando quest’ultime ad una aliquota di tassazione più
favorevole (10 % in luogo del 23 % per il reddito da 0 a 15.000 euro, 27% da 15.001 a 28.000 euro,
38 % da 28.001 a 55.000 euro, 41% da 55.001 a 75.000 euro, 43% sopra i 75.000 euro). Tale
agevolazione fiscale è condizionata alla previsione di sistemi di valutazione delle performance
aziendali, individuali e/o collettive, basate su indici oggettivi e misurabili di incremento della
produttività, anche se poi il Governo negli anni di crisi sotto la pressione delle parti sociali ha
ampliato l’applicabilità di tale agevolazione anche ad ipotesi la cui incidenza sulla produttività
aziendale è assai difficilmente verificabile, ricomprendendovi anche le retribuzioni premiali previste
da accordi collettivi aziendali volti alla a) ridefinizione degli orari e della loro distribuzione con
modalità flessibili; b) introduzione di una distribuzione flessibile delle ferie; c) adozione di misure
per l’impiego delle nuove tecnologie informatiche; d) attivazione di misure e programmi destinati
alla fungibilità delle mansioni ed alla integrazione delle competenze). Ciononostante i risultati sono
stati insoddisfacenti, rimanendo estremamente ridotta sia la quota di retribuzione condizionata a
performance aziendali o individuali, sia il numero di aziende in cui sono stati stipulati questo tipo di
contratti. La legge di stabilità 2016 (Legge n. 208/2015), dopo la sospensione del 2015, ha
comunque reintrodotto per il 2016 questa aliquota fiscale agevolata del 10% per la retribuzione
premiale sino ad un importo di € 2000 (o € 2500 in caso di coinvolgimento paritetico dei lavoratori
nell’organizzazione del lavoro) per i lavoratori con un reddito sino a € 50.000.
Appare evidente che se realmente si intende promuovere una contrattazione decentrata
anche per la determinazione dei trattamenti retributivi dei lavoratori in modo sostenibile alla luce
degli squilibri che si registrano nelle diverse aree del Paese, l’unica soluzione sia abbandonare il
sistema di determinazione della retribuzione minima in misura coincidente alla retribuzione dettata
dai contratti collettivi nazionali di settori quale parametro di riferimento ex art. 36 Cost. ed adottare
una legge che rimetta al Governo la determinazione del salario minimo orario. Questo salario
dovrebbe essere determinato in misura differenziata per regione e per aree metropolitane in
relazione al diverso costo della vita e alla diversa capacità di acquisto della moneta e modificato
ogni triennio secondo le variazioni di questi.
Una tale opzione regolativa non sarebbe affatto preclusa dal principio di parità di
trattamento dei cittadini dinanzi alla legge dettato dall’art. 3 Cost. giacché secondo la costante
lettura di questo principio adottata dalla giurisprudenza costituzionale esso consente (se non
impone) di trattare in modo ragionevolmente differenziato situazioni diverse, appunto tale
condizione ricorre in questo caso.
Tutto al più potrebbe sorgere un problema di compatibilità con il disposto dell’art. 36 Cost.
ove il salario minimo legale fosse determinato in modo indifferenziato per tutte le categorie di
lavoratori considerato che la norma costituzionale garantisce non solo la “sufficienza” della
retribuzione, ma anche la proporzionalità della stessa in rapporto sia alla quantità sia alla “qualità”
del lavoro prestato. La perfetta sintonia con questa previsione potrebbe, però, esser agevolmente
assicurata dettando per legge salari minimi differenziati a secondo delle categorie legale dei
lavoratori a norma dell’art. 2095 c.c.: una retribuzione oraria minima per dirigenti e quadri, una per
gli impiegati, ed infine un’altra differenziata per gli operai.
Il salario legale dovrebbe essere determinato in un importo inferiore a quello corrispondente
agli attuali minimi retributivi, ad es. in un importo mediano tra quello spagnolo e quello spagnolo
(intorno ai 6,5 euro l’ora al Nord, e 5,5 euro al Sud), così da consentire alle aziende di liberare avere
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la disponibilità di significative risorse da destinare alla contrattazione aziendale per la retribuzione
premiale.
Indubbiamente - è questa la critica (fondata) che i sindacati muovono alla proposta di
adozione di un salario minimo legale scollegato dalla contrattazione collettiva nazionale di settore –
i sindacati rischierebbero di perdere potere negoziale essendo costretti a comprimere le loro
rivendicazioni retributive in sede di contrattazione nazionale e a non discostarle significativamente
dal minimo legale per evitare il rischio di veder uscire gran parte delle aziende dall’ambito di
applicazione del contratto collettivo nazionale. Recuperare nella contrattazione aziendale quanto
perduto in sede nazionale, anche accettando di scommettere sulle performance aziendali, sarebbe
assai difficile nelle piccole e medie aziende, in gran parte di stampo familiare, che caratterizzano il
tessuto produttivo italiano e tra le quali non è certo diffusa la propensione alla contrattazione
aziendale. E’ indiscutibile che per queste realtà il minimo retributivo contrattato collettivamente con
efficacia di fatto erga omnes per tutto il settore in sede nazionale, godendo indirettamente della
capacità di pressione dei lavoratori alle dipendenze delle aziende di più grandi dimensioni, produca
un effetto di “trascinamento” per i lavoratori delle piccole imprese.
Per evitare questo depontenziamento della contrattazione collettiva e il pericolo di un
rilevante restringimento del suo ambito di applicazione, la legge potrebbe prevedere che laddove in
un’azienda, con persona giuridica a responsabilità limitata, non trovi applicazione nessun istituto
retributivo disciplinato da un contratto aziendale troverebbe applicazione di default una
partecipazione percentuale alla EBITDA (Earnings Before Interest, Taxes, Depreciation and
Amortization) (ad es. il 10 %) da suddiversi tra i lavoratori in misura eguale. Una misura legislativa
di questo tenore non costituirebbe nessun intollerabile attacco al diritto costituzionale di proprietà
privata o di libertà d’impresa, ma troverebbe la sua legittimazione nel secondo comma dello stesso
art. 41 Cost., nonché nell’art. 46 Cost, secondo i quali rispettivamente “l’iniziativa economica …
non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale” e “la Repubblica riconosce il diritto dei
lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”,
previsione rimasta sino ad oggi lettera morta. D’altronde la disciplina di default dovrebbe trovare
applicazione solo nei confronti delle aziende gestite da soggetti con personalità giuridica a
responsabilità limitata proprio quale misura compensativa del beneficio della limitazione della
responsabilità patrimoniale verso i terzi che la legge garantisce ai detentori di azioni e quote degli
stessi soggetti. Inoltre questo diritto alla partecipazione dei ricavi dell’impresa dovrebbe essere
tutelato da un rafforzamento dei diritti di consultazione, informazione e accesso alla
documentazione contabile aziendale da parte delle RSU.
In ogni caso per incentivare tutti gli attori a contrattare la retribuzione premiale e non fare
passivamente affidamento sull’applicazione della disciplina di default, l’attuale agevolazione fiscale
dovrebbe essere mantenuta esclusivamente se si stipula un contratto collettivo al riguardo in sede
aziendale.
Non mi sembra che la stessa misura di default risulterebbe parimenti efficace se fosse
prevista non dal legge, ma semplicemente dal contratto collettivo di categoria, sempreché si
raggiunga un accordo delle parti stipulanti in tal senso. Se a questa previsione non venisse
contestualmente accompagnata dall’attribuzione della efficacia erga omnes del contratto nazionale
nei confronti di tutte le aziende del settore, aderenti o meno alle associazioni datoriali firmatarie,
questa misura produrrebbe un effetto moltiplicatore dell’incentivo delle aziende a sottrarsi
all’ambito di applicazione del contratto collettivo nazionale di settore fuoriuscendo dalle
associazioni firmatarie, in modo da poter applicare soltanto il salario minimo legale ed esser
totalmente libere di decidere se e come negoziare una retribuzione premiale in sede aziendale.
In un sistema di relazioni industriali disciplinato come sopra prospettato l’efficacia erga
omnes dei contratti collettivi di settori potrebbe esser prevista per legge limitandola alle sole
aziende che danno applicazione al contratto senza doversi impegnare in azzardati tentativi di
disegnare per legge l’ambito di applicazione del contratto tornando a “categorie” di stampo
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corporativo (Siotto 2016). Il fatto che, come già segnalato, ciò risolverebbe soltanto il problema
della obbligatorietà del contratto anche per i lavoratori dissenzienti o silenti impiegati in quelle
stesse aziende non comporterebbe più un problema insostenibile sul lato della competizione tra
associazioni datoriali nella determinazione della retribuzione minima ex art. 36 Cost. perché
interverrebbe la soglia inderogabile del salario minimo legale. Per impedire una tale competizione
da parte di contratti “pirati” quanto all’esercizio di poteri di deroga rispetto alla legge o di poteri
regolativi rimessi dalla legge alla contrattazione nazionale potrebbe ben prevedersi che a tal fine si
intendano per confederazioni comparativamente maggiormente rappresentative sul piano nazionale
quelle che singolarmente o cumulativamente raccolgono almeno il 33% della media tra dato
associativo e dato elettorale tra tutti i lavoratori attivi in tutti i settori, come mi sembra proponga –
se ho ben compreso – anche il gruppo di giuslavoristi “Freccia Rossa”. Per la raccolta dei dati dei
voti e degli iscritti ottenuti da ogni sindacato si può ben far riferimento al sistema disciplinato dal
T.U. del 2014, trasponendolo in una legge.
Per quanto invece attiene alla efficacia della contrattazione aziendale dovrebbe prevedersi
che essa abbia efficacia erga omnes e possa derogare sia la legge sia il contratto nazionale a
condizione che si approvata dalla maggioranza dei componenti delle RSU. Queste dovrebbero
obbligatoriamente essere nominate su base elettiva in ogni azienda con più di 15 dipendenti sulla
base di liste presentati da sindacati registrati, che abbiano uno statuto democratico, e che dimostrino
di operare attivamente almeno in 4 regioni, così da limitare il rischio di sindacati gialli organizzati
e/o sostenuti su base aziendale o territoriale dagli stessi datori di lavoro. Questo pericolo potrebbe
essere ulteriormente circoscritto qualificando una tale condotta non solo come antisindacale ma
anche come reato penale e sanzionandola con una pena economica sufficientemente deterrente.
Anche in questo caso quanto alle modalità di svolgimento delle elezioni delle RSU potrebbe essere
semplicemente trasposta in legge la disciplina prevista dal T.U. del 2014, eliminando però la
possibilità di costituire RSA a norma dell’art. 19 St. Lav. in alternativa alle RSU per non creare
inutili differenziazioni e uniformare la disciplina in tutti i contesti.
Questa disciplina risulterebbe a mio avviso compatibile con il disegno dell’art. 39 Cost. non
già perché il contratto aziendale dovrebbe collocarsi al di fuori dell’ambito del suo ambito di
applicazione, come sostiene una nutrita schiera di giuslavoristi (ad es. gli stessi del gruppo
Frecciarossa), essendo deboli gli elementi testuali che confortano nel senso di una tale esclusione
(L. Zoppoli 2015), quanto perché far riferimento al dato elettorale, ma rimettendo soltanto ai
sindacati registrati la possibilità di proporre candidature, non tradirebbe la norma costituzionale che
pur misura la rappresentatività dell’organismo unitario di rappresentanza in relazione al numero
degli iscritti di ciascun sindacato partecipante. Nel modo proposto non si segna una cesura tra
sindacato e i suoi iscritti perché questi al momento del voto possono confermare la loro fiducia alla
loro associazione di rappresentanza, ma si consente di esprimere la propria voce anche agli altri
lavoratori che pur non aderendo a nessuna organizzazione sindacale saranno poi vincolati dai
contratti collettivi sottoscritti dalla RSU. Si aggiunge dunque una possibilità di voice che rafforza il
criterio maggioritario che costituisce il “nucleo duro” dell’art. 39 Cost.6 e non lo snatura.
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M. D'ANTONA, Il quarto comma dell'art. 39 della Costituzione oggi, DLRI, 1998, 4, 688 ss.
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