Son Domenico Abate e il rito dei serpari[...] - Pro

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Son Domenico Abate e il rito dei serpari[...] - Pro
 La tradizione
San Domenico e i serpenti, San Domenico con i serpenti, un connubio possibile, anzi
inscindibile per Cocullo.
Da tempo immemorabile, ogni primo giovedì di maggio, a mezzogiorno in punto, si ripete
immutato un evento il cui significato va ben oltre la semplice apparenza: il gesto di porre
delle serpi intorno alla statua di un santo esprime la soluzione della eterna opposizione tra il
mondo naturale con tutte le sue insidie e il mondo umano costretto a difendersi per
sopravvivere.
San Domenico in tale circostanza incarna la figura eroica capace di conciliare i due mondi.
San Domenico rappresenta una tipica figura del mondo medioevale: nacque nel 951 a
Colfornaro, nei pressi di Foligno, e morì il 22 gennaio del 1031 a Sora, come risulta dai
cronisti cassinesi, in particolare da Leone Ostiense.
Visse nell’atmosfera della spiritualità monastica benedettina, dedito alla fondazione di eremi
e di conventi in Abruzzo e nel Lazio come risulta dalle due “Vitae” antiche, uniche fonti
storicamente attendibili, quella di Alberico di Montecassino e quella di Giovanni, diretto
discepolo del Santo.
San Domenico è, comunque una figura complessa che, al di là di una scarna agiografia di
carattere ecclesiastico, si modifica, nel corso dei secoli, trasformandosi in un punto di
riferimento molto forte per le popolazioni pastorali dell’Italia centrale.
Diversi sono i patronati attribuiti a San Domenico e si diversificano in base alle aree cultuali
con riferimento ai pericoli che minacciano le popolazioni locali: la difesa contro la febbre e la
tempesta, nel basso Lazio; la difesa contro le odontalgie, le morsicature di serpenti, cani
idrofobi e lupi nell’Abruzzo centrale.
A Cocullo, dove il santo passò intorno all’anno mille, i patronati si riferiscono sia agli esseri
umani che agli animali domestici. Esistono due reliquie donate direttamente dal frate
benedettino: un dente molare ed il ferro della sua mula.
Il primo, conservato in un reliquiario, viene baciato o posto sulla parte del corpo da guarire. Il
secondo viene usato per “mercare” o solo toccare gli animali, in particolare le morre di
pecore, per preservarli dai pericoli che la particolare natura dei luoghi rende più aspri e
frequenti.
La Festa
L’annuncio dell’inizio della festa è dato dall’arrivo delle compagnie di pellegrini provenienti
da quei luoghi dove il culto del Santo è più profondo: Lazio, Molise e Campania. E’ un
momento di alta tensione umana: contadini per norma etica delle culture rurali poco avvezzi
al pianto hanno, in questo lento avanzare, il volto commosso. Donne di antica bellezza,
braccianti, ragazzi, costiuitscono la testimonianza più viva dei significati attuali del rito tra i
quali, appunto, quello del recupero della identità sociale e antropologica smarrita. Avanzano
cantando inni devozionali: il canto di entrata in chiesa e il canto di partenza, quest’ultimo
eseguito camminando a ritroso, secondo l’etichetta di omaggio del suddito che mai deve
volgere il volto dal Signore. All’interno della chiesa, mentre l’altare maggiore è il luogo delle
liturgie ecclesiastiche legate alla devozione a San Domenico, in altri luoghi si svolgono dei
rituali dal contenuto fortemente simbolico: si tira, con i denti, la corda di una campanella per
preservarsi dal mal di denti; si preleva la terra, un tempo spazzatura della chiesa, posta in una
piccola grotta dietro la nicchia del Santo, per usi apotropaici: sparsa sui campi o intorno alle
abitazioni, essa tiene lontani i pericoli di ogni genere, sciolta nell’acqua e bevuta, combatte la
febbre. La piazza principale è il luogo dove sostano i serpari i quali, in attesa della
processione, esibiscono orgogliosamente i vari tipi di serpi che sono riusciti a catturare. E’
questo un momento durante il quale antichi timori, ingiustificate avversioni e oscure paure
nei confronti dei rettili, pian piano si sciolgono fino al punto che, seppure con qualche residuo
di ritrosia, ci si lascia convincere al contatto con una serpe, quasi per soddisfare la necessità
di un rapporto più profondo con il mondo soprannaturale che questi animali rappresentano. A
mezzogiorno inizia la processione: il Santo, portato a braccia da quattro persone, esce dalla
chiesa e là, sul sagrato, atteso con ansia fremente dai serpari, ancora una volta ricorda a tutti
di essere lui il vero dominatore dei serpenti. Ai lati della statua due ragazze in costume
tradizionale, portano sulla testa i canestri contenenti cinque pani sacri, i cosiddetti
“ciambellani”, che, in ricordo di un miracolo compiuto dal Santo, verranno offerti, per antico
diritto, ai portatori del simulacro e dello stendardo. La processione passa in mezzo alle
vecchie case e qui, nel suo compiersi, il rito ricalca arcaici modelli costituendo l’esempio
residuo di un mondo antico paneuropeo: a Santiago di Compostela, in Spagna, fatta centro
delle pietà peregrinanti di tutta Europa, si maneggiavano i serpenti. A Marcopulos, nell’isola
di Cefalonia, nel giorno dell’Assunzione della Beata Vergine, il 15 agosto, le serpi entravano
in chiesa. Le vergini greche salivano sull’Eretteo, sull’Acropoli, e nutrivano le serpi sacre
con il latte. Storie e metafore nell’ambiguità dei segni attribuiti ai serpenti, ora custodi di
fecondità, ora nemici.
La figura di San Domenico Abate
La figura di San Domenico Abate
(da “S.Domenico Abate Protettore di Cocullo” del Sac. Adolfo Angelucci)
L'anno 951 nacque a Foligno un bambino dal dottore in Legge Giovanni e da Apa o Ampa,
come dicono alcuni autori, sotto il pontificato di Agapito II, regnando l'Imperatore Ottone I.
I genitori iniziarono il loro bambino, cui fu imposto il nome di Domenico, alla vita di pietà di
cui erano ripieni i loro generosi cuori e, affinché tale vita non solo non andasse perduta, ma
fosse sempre più sviluppata nel loro bambino, lo affidarono ai monaci di San benedetto, che,
nel monastero della SS. Trinità, alla periferia di Foligno, vivevano nella perfetta osservanza.
Il santo ragazzo doveva forgiarsi negli studi e nel santo timore di Dio.
In tale Monastero San Domenico trovò terreno adatto per coltivarsi all'alto destino di santità
cui Dio lo chiamava e per il solerte ed amoroso magistero di quei monaci e per la ferma e
decisa volontà dimostrata dal fanciullo santo.
In poco tempo si distinse tra i suoi compagni per lo studio, disciplina, pietà mettendo in
mostra le sue elette virtù e la piena illibatezza dei suoi costumi.
Egli aveva detto al Signore: “Mostrami il cammino della mia vita nel quale io possa viaggiare
tranquillo e giungere fino a te”. E questa grazia gli fu concessa dal Signore. Aspirando a vita
più perfetta e santa, si staccò dalla sua famiglia e dalla terra natia nella quale non mise più
piede pur avendo vissuto per più di 80 anni.
Decise di ritirarsi, quindi, in un monastero dello stesso Ordine, nella Sabina, in un luogo
detto S. Ammone o la Pietra del Demonio. I superiori, acconsentendo anche ai pii
desideri del giovane San Domenico, lo rivestirono del santo abito religioso per mano del
santo Abate Dionisio, nell'anno 974, quando San Domenico aveva 23 anni.
Terminato l'anno di noviziato, con sua più grande gioia e con edificazione di tutti, emise con
gran fervore i voti religiosi di povertà, castità ed obbedienza.
I suoi superiori non tardarono a dargli un tangibile riconoscimento della sua santità e lo
ammisero agli ordini sacri. Questo fatto chiamò San Domenico ad un maggiore impegno di
perfezione e di santità. Intorno all'anno 980 i superiori lo destinarono al Monastero di Monte
Cassino ove visse fra l'edificazione di quei santi monaci, con grande obbedienza verso l'Abate
Aligerno. E' difficile poter descrivere la profonda soddisfazione di San Domenico per questo
suo trasferimento. Ma più di tutto ne gioì per la possibilità che gli veniva offerta di prostrasi a
baciare l'urna che racchiude le spoglie mortali del gran Patriarca e fondatore dell'Ordine: San
Benedetto.
Fu proprio in quel monastero, situato su un monte, che San Domenico potè sentirsi
maggiormente vicino al Signore, slanciandosi ancora di più verso le cime della santità.
Nonostante le continue asprezze della Regola, il lavoro ed i persistenti digiuni che
logoravano il suo corpo, era sempre piacevole, affabile, ammirato da tutti per l'alto esempio
di ogni virtù alle quali spronava anche gli altri generosamente.
Per poter vivere ancor più di penitenza e di solitudine, chiese ed ottenne dall'Abate Aligerno
di trasferirsi sulla cima di un monte della Sabina, presso la terra di Scandriglia, dove però,
scopertasi la sua straordinaria santità, il popolo cominciò a dar luogo ad un ininterrotto e
sempre più crescente pellegrinaggio, dopo aver, con soddisfazione immensa, constatato che
San Domenico era dispensatore delle grazie di Dio.
Cominciava ad avverarsi quella grande opera di intermediario tra l'uomo e Dio, che poi lo
avrebbe fatto definire uno dei più prodigiosi taumaturghi.
Dietro le insistenze del marchese Uberto, padrone di molte terre della Sabina, e col permesso
di papa Giovanni XV e dei suoi superiori, costruì un monastero presso Scandriglia, vestendo
molte anime generose dello stesso suo abito e lasciò loro alla obbedienza di Costanzo,
benedettino di rara bontà e virtù.
San Domenico portò con sé fra Giovanni, monaco di santità riconosciuta, sul monte Pizzi. In
questa zona costruì una chiesa in onore della SS. Purità e due piccoli eremitari ove si viveva
una sola vita, quella della santità.
I fedeli, a loro spese, pregarono San Domenico di costruire altri due monasteri, uno vicino al
monte Pizzi, e l'altro presso il fiume Aventino. Lasciati i monaci di provata virtù, andò
lontano da tutti per vivere in incognito e fuggire gli applausi del mondo.
Nel suo cammino giunse nella terra di Valva, allora provincia dell'Abruzzo, nella Diocesi di
Sulmona. Dopo aver girato per trovare un luogo che gli assicurasse solitudine e
raccoglimento, si fermò a Prato Cardoso, una zona presso Castel di Sangro, ove fondò una
chiesa ed un monastero: quello di San Pietro Avellana. In seguito si trasferì in altra zona, nei
pressi di Villalago e fondò una chiesa chiamata San Pietro del lago. San Domenico, intanto,
si ritirò in una grotta non molto distante dalla chiesa. Il Signore lo compensò con molte
visioni singolari che rivelò ad un suo confidente, ma sotto sigillo fino alla sua morte.
Dopo sei anni di permanenza in quella grotta, fu fatto oggetto di persecuzione da parte di
alcuni eretici e nemici del nome cristiano, per invidia e gelosia dei numerosissimi miracoli da
lui operati.
Così, portando con sé una mula, partì alla volta di Cocullo inseguito dagli eretici, che erano
intenzionati ad ucciderlo. Ma il Santo interpose tra sè e gli inseguitori la presenza di un orso,
impedendo loro l'inseguimento per qualche tempo. Si imbattè in un contadino che seminava
fave e lo pregò, nel caso che alcuni uomini armati fossero passati di lì, di dire che lo aveva
visto passare mentre egli seminava le fave, e si nascose nella capanna del contadino. Ma
quando gli inseguitori sentirono dal contadino che un frate era passato di là mentre seminava
le fave e accortisi che esse erano già cresciute e fiorite, rinunciarono ai loro cattivi propositi.
A metà strada tra Cocullo ed Anversa degli Abruzzi incontrò poi una povera donna che
andava al mulino per macinare un sacchetto di grano. San Domenico ne chiese un po' per la
sua mula. La povera vecchia non se lo fece dire due volte. Ma la sua meraviglia fu grande nel
vedere che, al mulino, con un solo sacchetto riempì, grazie al miracolo di San Domenico, ben
due grandi sacchi di farina.
Quindi san Domenico arrivò a Cocullo, soggetto al potere temporale di Celano. Secondo
Strabone e Filippo Cruerio, questo paese era la fine del Lazio. All'ingresso del paese il santo
si incontrò con molta povera gente che, gridando, rincorreva un lupo affamato che portava tra
le mascelle il corpo di un bambino nato da poco e sottratto alla madre. Commosso dalle
lacrime della povera donna, San Domenico comandò al lupo che lasciasse il corpicino. E
subito il lupo, dimentico della sua ferocia, rilasciò il bambino senza alcun danno e lo restituì
alla mamma.
Quella gente dormiva in rozze capanne o all'aperto. Frequenti erano i casi di persone
morsicate da serpenti e da vipere di cui la zona era piena, com'è piena tutt'ora. San
Domenico operò molti miracoli liberando poveri disgraziati che erano stati morsi dalle vipere
o da cani rabbiosi. Liberò alcune donne che, dormendo in aperta campagna, avevano avuto il
latte materno succhiato dalle serpi ed a qualcuna erano addirittura penetrate nello stomaco.
Durante la permanenza a Cocullo fece rimettere il ferro alla mula dal maniscalco locale il
quale, trattandosi di un forestiero, sperava di spuntare un prezzo superiore al normale.
Quando si trattò del pagamento, alla richiesta di un prezzo impossibile, il Santo ordinò alla
mula di restituire il ferro. Con una scrollata di zampe, il ferro si schiodò miracolosamente. I
locali lo conservarono e tutt'ora lo si può ammirare nel santuario dedicato al Santo.
Ma san Domenico doveva lasciare Cocullo perchè aveva da portare a termine altri
programmi. Figurarsi le rimostranze dei cocullesi quando lo seppero. Ma, vista la ferma
determinazione del santo, lo pregarono di lasciare loro qualcosa che li proteggesse contro
animali rabbiosi, velenosi o pericolosi. San Domenico si commosse e, portata la mano alla
bocca, estrasse un dente molare e lo donò loro. Dente che si conserva, in monumento
nazionale, con degna venerazione nella chiesa a lui dedicata. I cocullesi accompagnarono san
Domenico fino al territorio di Roma ove stette per tre anni, in una caverna presso il castello di
Trisulti, ove fu nutrito da un angelo. Per incarico divino, diede inizio alla costruzione di
numerosi monasteri e chiese, tra cui quello di Sora dove riposano le sue spoglie mortali.
San Domenico morì il 22 Gennaio 1031 all'età di 80 anni e mezzo. Oltre al santo dente ed al
ferro della mula, anche un ossetto del corpo di San Domenico è conservato nel Santuario
consacrato al Signore e dedicato al Santo l’11 Settembre 1746 dal Vescovo di Valva e
Sulmona mons. Pietrantonio Corsignani.
In questo santuario Dio glorifica il suo servo con assidui miracoli a pro dei devoti che
continuamente vi accorrono per essere preservati o liberati dalla rabbia, veleni e dolori di
denti. Chiunque sia venuto in passato o venga ora al santuario di San Domenico è stato o è
esaudito. Tutti fanno toccare dal santo dente laccetti, corone, pane, cereali per gli animali.
Dice una cronistoria: “Non solamente nel regno di Napoli, ma nello stato papale, nella
Lombardia ed in altri stati o regni lontani si stima felice chi tiene qualche devozione legata al
santo dente. Né deve tacersi, a gloria di Dio e del santo, che in tutto il territorio di Cocullo,
benchè vi si rinvengano animali velenosi (serpi, vipere, aspidi ed ogni altra specie) pure sono
così familiari come puossi vedere il primo Giovedì di Maggio che quei cittadini
domesticamente li trattano, ci scherzano, ponendoli eziandio in bocca, senza nessun
nocumento”.
Molti i miracoli registrati nel tempo.
Anni fa, in Giuliano di Roma, fu spacciato latte di una mucca morsicata da un cane rabbioso.
Si era nel cuore dell'inverno e Cocullo era sotto una pesante sferza di bufera di neve. Si
videro arrivare questi giulianesi con tutti i treni e con auto. Vi era quasi tutto il paese,
compreso i bambini, i vecchi e persino i paralitici ai quali furono amministrati i santi
sacramenti della penitenza e dell'Eucarestia entro le auto e la sala d'aspetto della stazione
ferroviaria, non potendo recarsi di persona al Santuario.
Per grazia di Dio e per intercessione di san Domenico, nonché per la grande fede di quella
gente, nessuno riportò danni per aver bevuto quel latte.
Qualche anno fa, cacciatori di Sora, portavano sei cani per farli toccare dal ferro della mula di
san Domenico, avendo lottato con cani rabidi in battute di caccia. Partiti con una macchina da
Sora, furono indotti più volte a tornare indietro pr il grande strepito che i cani facevano entro
la macchina, durante il viaggio. Ma appena la macchina, giunta sul Roccione, si trovò
Cocullo di fronte, quelle povere bestie si calmarono e zittirono da far rimanere meravigliati
gli stessi padroni che scesero tranquillamente fino al santuario.
Quattro anni or sono, il giovane cocullese Caiazzo Delfino, che si trovava nella selva di
Cocullo per alcuni lavori, fu morsicato da un aspide ad un piede. Il ricorso alla medicina, ma,
più di tutto la sua grande fiducia in san Domenico, lo hanno salvato da sicura morte.
In tanti anni della mia permanenza in questa parrocchia, ho visto migliaia di persone
morsicate da vipere e serpenti in genere; morsicate da cani rabbiosi, da gatti e da somari. Ho
passato per migliaia di volte la reliquia del santo dente sulle miserie umane. Ma quello che mi
ha sempre colpito è stata la grande devozione, la grande fiducia, la profonda religiosità di
questi esseri umani che, oltre al tocco della reliquia santa, hanno portato sempre con sé,
tornando a casa, anche quello di Cristo Eucarestia.
Origine storica della processione dei serpari
Origine storica della processione dei serpari
(da “S.Domenico Abate Protettore di Cocullo” del Sac. Adolfo Angelucci)
Cocullo costituiva, per la potenza di Roma, l’ultimo baluardo militare del Lazio come si
legge nello storico Strabone. Quindi il paese, con le zone limitrofe, era sede dei servizi
logistici dell’esercito romano impegnato per la conquista di Corfinium. Naturalmente, con la loro prolungata permanenza, i romani introdussero, fra i locali, i loro
usi, costumi e tradizioni pagane. Una di queste tradizioni consisteva appunto nell’offrire ai
primi tepori primaverili, alla Dea Angizia, un omaggio di serpenti vivi come rito
propiziatorio. Tale usanza è rimasta radicata tra i cocullesi anche nel periodo in cui venne
S.Domenico.
Dopo i molteplici miracoli e portenti straordinari operati dal Santo nel liberare i cocullesi
dalle morsicature di vipere e serpenti velenosi, nel far uscire dallo stomaco delle persone
serpenti che vi erano penetrati, quella usanza pagana fu trasformata dai cocullesi in un rito di
religioso omaggio cattolico a S.Domenico come atto di filiale gratitudine al Santo che
tangibilmente e praticamente si era dimostrato, al contrario della muta ed inerme Dea
Angizia, liberatore dalle tristi conseguenze del veleno dei serpenti.
La Chiesa Cattolica che non disdegna di venerare S.Antonio che a Rimini parla ai pesci a
dispetto della sordità spirituale umana, e un S.Francesco che conversa dolcemente e
affabilmente con gli uccelli, conviene anche San Domenico che, proteggendo dai morsi dei
serpenti, aiuta a liberare le anime dagli assalti del serpente infernale, eterno nemico di Dio e
dell’uomo.
Da centinaia e centinaia di anni quell’omaggio viene ripetuto in Cocullo ogni primo giovedì
di Maggio, quando, all’uscita della Statua dal Santuario per la Processione, i Serpari si
stringono attorno a S.Domenico per offrirgli i numerosi serpenti catturati nelle zone
circostanti il paese.
Ormai la fama di questa antichissima tradizione ha sorpassato i confini dell’Italia perché i
moderni mezzi di comunicazione hanno fatto conoscere a tutti ed in tutti i continenti la
simpatica tradizione religioso – folkloristica che onora tanto la Chiesa e l’Abruzzo, e che
ogni primo giovedì di maggio richiama a Cocullo migliaia di pellegrini e forestieri da ogni
parte del mondo; senza ricordare i numerosi altri che durante l’anno ininterrottamente
vengono a Cocullo per ottenere grazie da S.Domenico oppure per ringraziarLo di quelle che
hanno già ottenute.
La cattura delle serpi
La cattura delle serpi
Appena dopo il disgelo, quando il tepore primaverile comincia a scaldare la terra, vuol dire
che è tempo di andare per serpi.
“... Fermati, serpe, perchè devi servire per la festa di San Domenico!” intimava Simone ad un
ofide che gi attraversava la strada un giorno del mese di Aprile del 1768.
Leggendo questo episodio riportato in un libello dell'epoca, si può avere l'impressione che sia
molto facile catturare i serpenti. In realtà così non è. La maggior parte delle volte, infatti,
dopo aver battuto palmo a palmo la campagna, si rischia di ritornare a mani vuote.
“... Non fa sosta alle soglie. Passa. E' frate del vento. Poco parla. Sa il fiato suo tenere.
Piomba. Ha branca di nibbio, vista lunga. Piccol segno gli basta. Perchè triemi il filo d'erba
capisce”.
Questo è il serparo descritto da Gabriele D'Annunzio nella tragedia “La fiaccola sotto il
moggio”. Un personaggio mitico che deriva la sua arte, ereditariamente, da un'antica stirpe
originata dal figlio di Circe. Quei Marsi, il cui nome vuol dire “maneggiatori di serpenti”,
come riferiva Plinio il Vecchio, erano muniti di poteri magici tali da guarire i morsicati dai
rettili con il solo toccamento.
Non attendibile, eppure frequente, è l'accostamento del serparo alla dea Angizia, divinità
marsa e latina, venerata nella vicina Luco dei Marsi. Ma l'interpretazione che connette il
nome di Angizia a quello di anguis, nome latino di serpente, è etimologicamente errata in
quanto è più corretto associare la radice del nome della dea ai tempi stretti del periodo
primaverile, quando le scorte della precedente stagione sono terminate e non è ancora
assicurato il nuovo raccolto.
Per meglio comprendere la storia dei serpari è necessario risalire alla figura del “ciarallo”, il
personaggio che compare nella elaborazione tardo medioevale.
Chi era costui? Era una figura sacrale di diffusione europea, ma più radicata nell'Italia
meridionale, che derivava il suo potere da trasmissione ereditaria o da iniziazione, e che
esercitava proprie tecniche segrete di cattura e di maneggiamento degli ofidi e,
parallelamente, di cura e immunizzazione.
I serpari di oggi conservano dei loro antichi predecessori le stesse tecniche, ma il ruolo
sacrale e professionale proprio del “ciarallo” si è mutato in una forma di devozione laica e di
partecipazione al rito che è, appunto, riappropriazione delle radici, in una forma di rinnovato
rispetto per la natura.