I delitti di corruzione: approdi giurisprudenziali e prospettive di

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I delitti di corruzione: approdi giurisprudenziali e prospettive di riforma
A cura di Letizia Valentina Lo Giudice
Sommario: 1. Concussione e induzione indebita a dare o promettere utilità. 2. Corruzione per
l’esercizio della funzione/ corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio. 3. Corruzione in
atti giudiziari. 4. Traffico di influenze illecite. 5. Conclusioni.
Obiettivo del presente lavoro è fornire una breve panoramica dell’attuale assetto normativo e
giurisprudenziale dei reati contro la Pubblica Amministrazione a seguito della riforma attuata con
legge 190/12, anche con riferimento alle annunciate modifiche ai delitti di corruzione da parte del
Governo.
È da osservare, anzitutto, che la riforma dei reati contro la P.A. del novembre 2012
rappresenta il frutto, da parte dell’Italia, dell’adempimento ad obblighi di derivazione
sovranazionale che troppo a lungo erano rimasti inesitati. In particolare, si fa riferimento in ordine
cronologico alla Convenzione OCSE del 1997 (ratificata nel 2000), alla Convenzione di Strasburgo
del 1999 (ratificata nel 2012) stipulata in seno al Consiglio d’Europa, alla Convenzione Onu
sottoscritta a Merida nel 2003 (ratificata nel 2009).
Tali strumenti pattizi sono stati adottati dagli Stati Parte con il precipuo obiettivo di favorire un
contrasto multilivello a fenomeni di natura corruttiva aventi implicazioni transfrontaliere, al fine di
impedire che la realizzazione di condotte penalmente rilevanti nel territorio di paesi stranieri
potesse determinare l’impunità dei soggetti agenti.
Dall’adesione alle convenzioni su menzionate discende anche l’introduzione, nel nostro
ordinamento, dell’art. 346 bis c.p., relativo al traffico di influenze illecite, istituto secolare nelle
tradizioni giuridiche degli altri stati europei che sanziona le condotte prodromiche alla realizzazione
di fatti corruttivi anticipando significativamente la tutela dei beni giuridici coinvolti, cui, tuttavia,
l’Italia era rimasta a lungo legislativamente indifferente.
Alla complessa stratificazione convenzionale dell’ultimo decennio si affianca, poi, il lavoro
svolto da gruppi internazionali aventi la funzione di monitorare lo stato di avanzamento delle
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normative anticorruzione all’interno dei paesi aderenti ai sistemi di riferimento. Si segnalano il
WGB (Working Group on Bribery) in ambito OCSE, ed il GRECO (Groupe d’Etats contre la
Corruption) per quanto attiene al Consiglio d’Europa.
Recentemente sono stati resi noti i rapporti internazionali elaborati da tali gruppi di lavoro con
riferimento all’assetto della normativa italiana a seguito della riforma 20121.
Le valutazioni, sebbene provvisorie, appaiono positive. In particolare, il c.d. spacchettamento della
concussione e la creazione della fattispecie di induzione indebita di cui al 319 quater c.p., staccata
dalla costola della concussione per costrizione prevista all’art. 317 c.p., hanno incontrato il plauso
dei working groups con riferimento alla introdotta punibilità del privato “persuaso” a dare o
promettere indebitamente. Alla stessa stregua viene valutato in termini soddisfacenti l’innalzamento
delle soglie edittali previste per tali delitti e il conseguente aumento dei termini di prescrizione degli
stessi.
Viceversa, le modifiche del 2012 alle ipotesi di corruzione e istigazione alla corruzione nei
confronti di funzionari stranieri e dell’Unione Europea, di cui all’art. 322 bis c.p., sono apparse
insufficienti perché non idonee a coprire in modo esaustivo la punibilità di una numerosa serie di
soggetti ricoprenti cariche pubbliche di particolare incidenza nella prassi (ad esempio, sebbene sia
stata inserita la punibilità dei giudici e degli agenti della Corte penale internazionale per fatti di
corruzione, permane l’impossibilità di punire la corruzione passiva di pubblici ufficiali stranieri,
membri di assemblee pubbliche straniere, o ancora giurati extraeuropei e arbitri). Sempre riguardo
all’art. 322 bis c.p. i rapporti internazionali hanno evidenziato come sia necessario un ulteriore
sforzo da parte dell’Italia al fine di rendere le sanzioni realmente effettive, proporzionate e
dissuasive.
Quanto all’assetto generale, sebbene molti sforzi siano stati compiuti, il GRECO2 e il WGB3
evidenziano come si renda ancora necessario procedere ad una generale riforma dell’istituto della
prescrizione, e ad un intervento strutturale volto a ridurre l’eccessiva durata dei processi.
1
Per una disamina più approfondita dei rapporti GRECO e WGB si rinvia a MONTANARI, Dove eravamo rimasti? La
riforma dei delitti di corruzione al vaglio delle Organizzazioni internazionali, in Diritto Penale Contemporaneo, 9
ottobre 2014.
2
Third Evaluation Round. Compliance Report on Italy. “Incriminations & Transparency of Party Funding”, 20 giugno
2014.
3
Italy: Follow-up to the phase 3 Report & Reccomandations, 20 maggio 2014.
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Muovendo da tali valutazioni, occorre fare un passo indietro e procedere al rapido esame
dell’attuale situazione normativa italiana attraverso una sintetica analisi dei reati contro la pubblica
amministrazione nello scenario post-riforma.
1. Concussione e induzione indebita a dare o promettere utilità
Come su detto, la legge 190/12 ha determinato la scissione della fattispecie di concussione in due
differenti ipotesi: la concussione per costrizione, rimasta nell’art. 317 c.p., e l’induzione indebita a
dare o promettere utilità, confluita nel nuovo art. 319 quater.
L’individuazione di una linea di confine tra le due fattispecie è stata, a lungo, oggetto di accesi
dibattiti, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. Per tale motivo, in questa sede, ci si limiterà a
recepire le soluzioni finora adottate in sede di legittimità e ad evidenziare i nodi critici ancora non
risolti.
Prima del novembre 2012 la concussione era unitariamente disciplinata all’art. 317 c.p. che
puniva tanto il pubblico ufficiale quanto l’incaricato di pubblico servizio che, abusando dei poteri o
delle qualità, costringevano o inducevano taluno a dare o promettere denaro o altra utilità. La pena
era della reclusione da quattro a dodici anni.
A seguito della riforma, l’art. 317 c.p. è stato spogliato tanto delle condotte induttive quanto
della punibilità dell’incaricato di pubblico servizio che oggi non risponde più a tale titolo. La pena è
stata aumentata nel minimo e si prevede la reclusione da sei a dodici anni.
Il 319 quater c.p., di nuova creazione, dispone invece che “salvo che il fatto costituisca più grave
reato – concussione per costrizione ex art. 317 c.p. – il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico
servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o promettere
indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto
anni”.
Il secondo comma punisce il privato che dà o promette indebitamente denaro o altra utilità
con la reclusione fino a tre anni. Secondo le valutazioni operate nei citati rapporti degli organismi
internazionali, tale ultimo profilo rappresenta, senz’altro, l’elemento di maggior pregio introdotto
dalla riforma. Ciò si spiega ancor più considerando che, in epoca antecedente al 2012, si registrava
l’impossibilità di punire soggetti privati (ad es. imprenditori) che recatisi all’estero venivano indotti
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a corrispondere somme di denaro od altre regalie a funzionari stranieri, nell’ottica di conseguire
indebite agevolazioni. In quello scenario, le norme sulla corruzione internazionale non potevano
operare poiché esse miravano (e mirano) a punire il solo privato che effettuasse la dazione, non
anche il funzionario; dal momento che normalmente in sede difensiva il privato adduceva di essere
stato indotto, la qualificazione del fatto, in termini di concussione, ne determinava la non punibilità
in quanto vittima. Si rileva che nell’originaria versione del disegno di legge di riforma ai delitti di
corruzione, non ancora approvato nel testo definitivo, era stata prevista l’abrogazione di tale
secondo comma. Fortunatamente pare che tale proposito abbia incontrato numerose resistenze: la
punibilità del privato, rimarrà, e si spera anche a lungo, all’interno del sistema.
Nella citata migrazione verso il 319 quater c.p. il legislatore ha inteso omettere la fattispecie
di induzione indebita dal novero dei reati che importano l’interdizione perpetua dai pubblici uffici
ex art. 317 bis c.p.. Nondimeno, si ritiene che possano senz’altro trovare applicazione le norme di
parte generale sull’interdizione temporanea di cui agli articoli 29 e seguenti del codice penale. A
conferma di ciò, in occasione della nota pronuncia sul caso Maldera4 anche le Sezioni Unite hanno
ritenuto che, pur nell’impossibilità di configurare l’applicabilità del 317 bis c.p. ai casi di cui all’art.
319 quater, non nominativamente contemplati, sulla base del presupposto che il reato di induzione
indebita presenta il medesimo elemento oggettivo degli altri delitti contro la P.A., ossia l’abuso dei
poteri, si ritengano applicabili le norme di cui agli articoli 29 e seguenti.
Quanto alle questioni di diritto intertemporale derivate dal c.d. spacchettamento della
concussione, le Sezioni Unite del marzo 2014 hanno optato per l’adesione allo schema dell’art. 2
comma 4 c.p., ravvisando piena continuità normativa tra le condotte induttive del vecchio art. 317
c.p. e le nuove di cui al 319 quater, con conseguente applicazione della disciplina più favorevole al
reo.
Riguardo tale soluzione, in dottrina sono emersi rilievi critici sulla scorta della considerazione che,
avendo le Sezioni Unite incentrato la distinzione tra costrizione ed induzione sulla condotta del
privato (che nel secondo caso agirebbe per conseguire un vantaggio indebito), ed essendo il 319
quater una fattispecie a concorso necessario, si sia inciso direttamente sulla descrizione del fatto
tipico, mutandone la fisionomia e determinando la nascita di una nuova tipologia delittuosa.
Secondo tale dottrina, dall’introduzione della punibilità del privato deriverebbe un mutamento del
reato unitariamente considerato, con conseguente qualificazione del fenomeno intertemporale in
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Sez. Unite 14 marzo 2014 n. 12228
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termini di abolitio criminis e non già di successione di leggi5. In realtà, parrebbe più convincente
optare per la disciplina dell’art. 2 comma 4 c.p., dal momento che la struttura del fatto oggetto di
incriminazione non ha subito alcuna modificazione, che la condotta di induzione rimane
caratterizzata dall’adesione del privato agli intenti del soggetto qualificato, e che l’introduzione
dell’elemento specializzante di cui al secondo comma del 319 quater c.p. si colloca nella sfera della
punibilità e, dunque, a detta della Suprema Corte, fuori dalla struttura tipica del reato.
Unici corollari che derivano dalla successione di leggi nel tempo sono: l’impossibilità di
punire i privati indotti per fatti anteriori al novembre 2012, perché si tratterebbe di nuova
incriminazione e la necessità, negli stessi contesti di estrinsecazione temporale delle condotte, di
riqualificare giuridicamente l’imputazione di quegli incaricati di pubblico servizio puniti ex art. 317
c.p. che adesso risponderanno a titolo di tentata estorsione ovvero estorsione consumata, aggravata
dalla qualifica soggettiva6. Tuttavia, si fa osservare che il disegno di legge per la riforma dei delitti
di corruzione, all’esame del Senato, prevede la reintroduzione della punibilità dell’incaricato di
pubblico servizio all’interno dell’art. 317 c.p. Ciò porrà fine, ove qualche dubbio fosse mai sorto,
alle incertezze sul trattamento sanzionatorio di tale categoria di soggetti qualificati.
Venendo ora alla distinzione tra costrizione ed induzione, è utile far riferimento agli orientamenti
invalsi sia in giurisprudenza che in dottrina a seguito della riforma, alla luce delle considerazioni
svolte poi dalle Sezioni Unite nella sentenza Maldera.
Tre le principali tesi elaborate: la prima, poggiava la distinzione sul quantum di pressione
psicologica esercitata dal pubblico agente sul privato ravvisando la costrizione in ipotesi di
pressione perentoria ed irresistibile, l’induzione nella presenza di più ampi margini di
autodeterminazione per l’extraneus7; la seconda, incentrata sul concetto di male giusto/ingiusto, per
cui si sarebbe avuta costrizione nel caso di prospettazione al privato di un male contra ius ed
induzione nell’ipotesi di un male non in contrasto con la legge (ad es. applicazione di sanzioni
effettivamente contestabili sulla base di irregolarità accertate)8; la terza, come summa delle due
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Per una riflessione critica sul punto, si rinvia a BALBI, Sulle differenze tra i delitti di concussione e di induzione
indebita a dare o promettere utilità, in Diritto Penale Contemporaneo, 16 settembre 2014.
6
L’estorsione di cui all’art. 629 c.p. è delitto contro il patrimonio ed anche reato di evento che si consuma al verificarsi
di un pregiudizio patrimoniale nella sfera della vittima. Pertanto, fattispecie di concussione consumata potranno
confluire in ipotesi di estorsione nella forma tentata, poiché difetta il requisito dell’ingiusto profitto con altrui danno.
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Si veda Cass. 12 giugno 2013, n. 28431, Cass. 3093/2013, Cass. 10891/13.
8
Si veda Cass. 13047/2013, Cass. 26285/13, Cass. 29338/13.
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precedenti teorie, coniugava l’elemento quantitativo relativo all’intensità della pressione psicologica
e la presenza di un danno ingiusto (costrizione) o vantaggio indebito (induzione) in capo al privato9.
Appare evidente sin da subito il rischio intrinseco alla qualificazione, all’interno di una fattispecie
piuttosto che in un’altra, operata sulla base di un concetto tanto evanescente quale la “pressione
psicologica”, difficilmente delineabile sul piano probatorio e variamente determinato a seconda del
carattere più o meno impressionabile del privato.
Premesso tale quadro teorico, le valutazioni cui è giunta la Suprema Corte nella sentenza
12228/14 possono essere riassunte in alcuni passaggi che si vengono subito a spiegare.
Secondo le Sezioni Unite, la caratteristica comune dei reati di concussione per costrizione ed
induzione indebita è rappresentata dall’elemento oggettivo dell’abuso della qualità o dei poteri. I
beni giuridici tutelati sono differenti, in quanto il 317 c.p. contempla un reato plurioffensivo che
lede tanto buon andamento e imparzialità della P.A. quanto la libertà di autodeterminazione del
privato; di contro, il 319 quater c.p. tutela solo imparzialità e buon andamento, poiché il privato non
è vittima ma correo. Il criterio quantitativo fondato sulla pressione psicologica è utile ma va rivisto
in chiave di maggiore determinatezza e concretezza.
Quanto alla definizione del concetto di costrizione, questo va assimilato alle condotte di
violenza o minaccia10, tali da incidere sulla libertà di autodeterminazione del privato, non
lasciandogli margini di scelta. Secondo tale ricostruzione, il pubblico ufficiale, esercitando il metus
publicae potestatis, agirebbe prospettando alla vittima un danno contra ius. Il privato agirebbe,
dunque nella prospettiva di non aggravare la propria posizione personale (certat de damno vitando).
L’induzione si determinerebbe sul più tenue valore condizionante del metus esercitato
dall’agente, sui più ampi margini decisionali lasciati al privato e sull’assenza di minaccia.
Persuasione del privato che stavolta agisce allettato dall’indebito vantaggio offertogli dal pubblico
ufficiale (certat de lucro captando). Vengono espunte da tale fattispecie le condotte ingannatorie, in
cui la vittima effettua la dazione perché indotta in errore circa la sua doverosità11. In queste ipotesi
9
Si veda Cass. 11944/13, Cass. 20428/13.
Si tratterebbe in questo caso di minaccia-mezzo, intesa come prospettazione di un male ingiusto. Ipotesi differente
dalla minaccia-fine di cui al 612 c.p. intesa, invece, come minaccia che abbia ad oggetto un male ingiusto. Malgrado
questa differenza ontologica tra le due tipologie di minaccia or ora descritte, la Suprema Corte ha inteso operare
un’assimilazione concettuale tra le due forme, in modo da fornire un appiglio definitorio ai fini dell’individuazione
delle condotte costrittive.
11
Il codice Zanardelli distingueva tra concussione costrittiva e concussione a carattere fraudolento. Sul punto
PAGLIARO, PARODI GIUSINO, Principi di Diritto penale. Parte speciale, vol. I, Milano, 2008, p. 147.
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il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio risponderanno di truffa aggravata ex art. 640
c.p. in combinato disposto con l’art. 61 n. 9 c.p..
Per usare le parole della Suprema Corte in un’altra recente pronuncia “il delitto di induzione
indebita, di cui all’art. 319 quater c.p., è caratterizzato, sotto il profilo oggettivo, da una condotta
di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio,
che lascia al destinatario un margine significativo di autodeterminazione e si coniuga con il
perseguimento di un indebito vantaggio per lo stesso, distinguendosi da quello di concussione, il
quale si configura quando la condotta del pubblico ufficiale limita radicalmente la libertà di
autodeterminazione del soggetto passivo”12.
Stanti queste differenze tracciate, la Corte puntualizza che, in ogni caso, il criterio discretivo
del danno ingiusto/vantaggio indebito dovrà essere applicato valutando caso per caso, avuto
riguardo alla specificità della vicenda, del complesso dei beni giuridici coinvolti e dei “principi e
valori che governano lo specifico settore di disciplina”.
Difatti, a ben vedere, tali criteri “non scritti”, che sembrano essere stati costruiti come elementi
essenziali di fattispecie, possono facilmente entrare in crisi al prospettarsi di situazioni ambigue in
cui non sia facile comprendere se nel privato abbia prevalso l’intento di evitare un danno ingiusto
ovvero quello di conseguire un vantaggio indebito13. In casi del genere, la punibilità del pubblico
ufficiale finirebbe per essere pericolosamente rimessa all’esito dei dissidi interiori scatenatisi nel
privato ed alla conseguente decisione dello stesso, nel senso di patire il danno o mirare al vantaggio
non dovuto. Una differenza di non poco conto in termini sanzionatori.
Quanto al confine con altre fattispecie delittuose: le Sezioni Unite distinguono la
concussione (art. art. 317 c.p.) dalla corruzione (articoli 318 – 319 c.p.) sulla base dell’assenza di un
rapporto paritario tra i due soggetti che invece è riscontrabile nelle condotte corruttive, fondate sulla
sinallagmaticità. Analogo discrimen viene tracciato rispetto all’induzione, nella quale si registra
ugualmente quello stato di pressione psicologica, seppure resistibile, che manca nella corruzione
(fondata sul pactum sceleris).
12
Si veda Cass. 5496/14, il caso riguardava una fattispecie in cui la Corte ha qualificato a norma dell’art. 319 quater
c.p. la condotta di un ispettore del lavoro dell’ASL che, nel corso di una verifica presso un autolavaggio, aveva
prospettato al titolare dell’esercizio di risolvere i problemi derivanti dalle irregolarità riscontrate in cambio della
dazione di denaro ed altre utilità.
13
Il perseguimento dell’indebito vantaggio finirebbe per trasformare la fattispecie induttiva in un reato caratterizzato
dal dolo specifico del privato. Elemento di cui non v’è traccia nella disposizione di cui all’art.. 319 quater c.p..
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Riguardo alla differenza tra induzione indebita nella forma tentata (il privato non accetta) ed
istigazione alla corruzione ex art. 322 c.p., la Corte ha ribadito come quest’ultima fattispecie si
inserisca sempre nell’ottica dell’instaurazione di un rapporto paritetico tra i soggetti coinvolti
“diretto al mercimonio dei pubblici poteri”. Difatti, mentre l’induzione indebita “presuppone che il
funzionario pubblico, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, ponga potenzialmente il suo
interlocutore in uno stato di soggezione, avanzando una richiesta perentoria, ripetuta, più
insistente e con più elevato grado di pressione psicologica”, l’istigazione alla corruzione ha ad
oggetto una “mera sollecitazione, che si concretizza nella proposta di un semplice scambio di
favori”. Il confine, tra le due fattispecie, poggia su un dato quantitativo: nell’induzione, l’abuso si
coniuga alla pressione psicologica; nell’istigazione alla corruzione si realizza una semplice
sollecitazione14.
Infine, con riguardo a tali delitti, il progetto di riforma all’esame del Senato contempla un
inasprimento delle pene, con la reclusione da quattro a dieci anni per le ipotesi di cui all’art. 319
quater c.p. e da otto a quattordici anni per quelle di cui all’art. 317 c.p. Dall’esame degli
emendamenti emerge anche l’intenzione di introdurre una circostanza aggravante per i casi di
concussione per costrizione in cui, a porre in essere le condotte, siano un giudice o un pubblico
ministero. Per tali soggetti, la pena prevista dal primo comma sarebbe aumentata fino alla metà ed a
questa sarebbe sempre affiancata l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Iniziativa sicuramente
interessante a parere di chi scrive, specie per il particolare disvalore che le condotte concussive
arrivano a raggiungere se perpetrate all’interno dell’attività giudiziaria e, più in generale per la
considerazione che l’introduzione di una circostanza aggravante in tal senso andrebbe ad
incastonarsi perfettamente nello spirito di politica criminale che anima la repressione legislativa dei
fatti corruttivi da un ventennio a questa parte.
2. Corruzione per l’esercizio della funzione/ corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio
Prima della legge 190/12, gli articoli 318 e 319 c.p. disciplinavano rispettivamente: la “corruzione
per un atto d’ufficio”, c.d. corruzione impropria, con la reclusione da sei mesi a tre anni nella
formula antecedente, e la reclusione fino ad un anno per la corruzione susseguente; e la “corruzione
per un atto contrario ai doveri d’ufficio”, c.d. corruzione propria, punita egualmente, a prescindere
dal fatto che fosse antecedente o susseguente, con la reclusione da due a cinque anni.
14
Si veda anche GATTA, Dalle Sezioni Unite il criterio per distinguere concussione e ‘induzione indebita’: minaccia di
un danno ingiusto vs. prospettazione di un vantaggio indebito, in Diritto Penale Contemporaneo, 17 marzo 2014.
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Tali norme sanzionavano il pubblico ufficiale che ricevesse la promessa o la dazione di denaro o
altre utilità non dovute al fine di compiere un atto del proprio ufficio o per averlo già compiuto (art.
318 c.p.), ovvero per compiere, ritardare o avere omesso o ritardato un atto del suo ufficio o,
ancora, per compiere o aver compiuto un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.).
Il rapporto tra le fattispecie poggiava sulla contrarietà o meno dell’atto del pubblico ufficiale ai
doveri d’ufficio, la pena era graduata in base all’intensità della lesione ai beni giuridici tutelati.
Sebbene in dottrina e giurisprudenza non si sia trovata una soluzione univoca circa l’individuazione
dei beni oggetto di tutela nei reati di corruzione, poiché essi appaiono molteplici15, per ragioni di
semplificazione potremmo prendere in considerazione buon andamento e imparzialità dell’azione
amministrativa, che nella corruzione propria venivano pienamente intaccati dalla condotta
dell’agente; viceversa, nella corruzione impropria, essendo l’atto conforme ai doveri d’ufficio, ad
essere leso era solo il bene giuridico dell’imparzialità. Tanto la corruzione impropria quanto la
corruzione propria erano strutturate nella forma antecedente in termini di dolo specifico, evincibile
dall’inciso “per compiere un atto”, e dolo generico nella forma susseguente. Nella corruzione
propria dolo specifico avente ad oggetto l’atto contrario, e nella forma susseguente dolo generico
come presupposto del reato (l’atto contrario già compiuto).
L’aggancio dell’accordo corruttivo tra privato e pubblico ufficiale all’atto d’ufficio svolgeva
una funzione garantistica poiché delineava in modo oggettivo il confine entro cui si potesse
rispondere a titolo di corruzione. Tuttavia, sebbene si fosse partiti da un’interpretazione molto
stretta del concetto di atto d’ufficio (negli anni ’60 si tendeva ad identificare lo stesso con uno
specifico atto), le esigenze della prassi applicativa portarono alla luce l’esistenza di una serie di
ipotesi in cui, ad essere oggetto del mercimonio, non fosse uno specifico atto, bensì l’intera
funzione amministrativa svolta dal pubblico agente. Basti pensare che, nel periodo delle inchieste di
Mani pulite, emerse la tendenza di taluni imprenditori a mettere al libro paga pubblici funzionari o
politici al fine di ottenere da questi future agevolazioni amministrative. La giurisprudenza ha
ragionato in termini particolarmente afflittivi, ritenendo che in ipotesi simili, aventi ad oggetto la
compravendita dell’intera funzione del pubblico agente, si avesse un disvalore di gran lunga
superiore alle ipotesi in cui oggetto del mercimonio fosse uno specifico atto. Pertanto si
configuravano, e si configurano tutt’oggi, tali condotte in termini di corruzione propria ex art. 319
c.p.16.
15
Si pensi ad esempio al prestigio della P.A., all’interesse a che l’ufficio non sia utilizzato a fini privati, alla tendenziale
gratuità dell’azione amministrativa, all’economia pubblica, alla concorrenza tra imprese.
16
Per un’applicazione recente di tale impostazione, si veda Cass. 9883/14.
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Assai discussa e controversa era anche la questione relativa all’individuazione del momento
consumativo di tali reati. Ci si chiedeva se fosse sufficiente la promessa o se invece fosse necessaria
anche la dazione. La risposta a tale quesito aveva, naturalmente, delle ricadute di particolare rilievo,
specie sul regime di prescrizione di tali reati.
Sebbene dalla lettura delle disposizioni emergesse come l’elemento di fattispecie fosse l’accordo, il
pactum intercorso tra il privato ed il pubblico agente, la giurisprudenza accolse la ricostruzione
operata da una parte della dottrina17circa la configurabilità di un’impostazione a “duplice schema”.
Si distingueva tra perfezione, come integrazione di tutti gli elementi di fattispecie; e consumazione,
rappresentata dal raggiungimento della massima soglia di gravità nella lesione ai beni giuridici. Nel
caso in cui all’accordo fosse seguita la dazione, il momento consumativo sarebbe stato identificato
con quest’ultima (in caso di dazioni plurime, la prescrizione sarebbe decorsa dall’ultima dazione).
Se alla promessa ed accettazione non fosse seguita alcuna dazione, allora il reato sarebbe stato
integrato al momento del patto18.
A seguito della riforma, l’art. 318 c.p. rubricato “corruzione per l’esercizio della funzione”,
dispone: “il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente
riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la
reclusione da uno a cinque anni”. La pena è stata aumentata ed è scomparso il riferimento all’atto
d’ufficio.
Il successivo art. 319 c.p. ha mantenuto inalterata la vecchia rubrica di “corruzione per un atto
contrario ai doveri d’ufficio”, e dispone la punibilità, in termini sia antecedenti che susseguenti, del
pubblico ufficiale che agisca in violazione dei propri doveri d’ufficio. A differenza della corruzione
impropria, qui l’aggancio garantistico alla nozione di atto permane all’interno della fattispecie. La
pena edittale è aumentata, la reclusione è da quattro ad otto anni.
Il rapporto tra le due norme è valutato in termini di maggiore o minore intensità della lesione ai beni
tutelati, dal contenitore omnibus del 318 c.p. vengono sganciate solo le condotte che riguardino il
compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio, ex art. 319 c.p.. Si ragiona in termini di progressività
nell’offesa ai beni giuridici, partendo dal solo pericolo di lesione dei beni buon andamento e
imparzialità tramite l’accordo, avente ad oggetto l’esercizio della funzione del pubblico ufficiale
che, tuttavia, non vede sullo sfondo alcun atto specifico del soggetto qualificato, per arrivare
17
18
MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale, 2013, Cedam.
Si veda Cass. 3811/97.
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all’ipotesi più grave del compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio. Trattasi di reati a concorso
necessario con struttura bilaterale, compatibili con il concorso eventuale di soggetti terzi.
Dopo la novella del 2012 la giurisprudenza ha chiarito il rapporto tra le due fattispecie di cui
agli articoli 318 e 319 c.p. affermando che la legge 190/12 “non ha proceduto ad alcuna abolitio
criminis, neanche parziale, delle condotte previste dalla precedente formulazione ed ha, invece,
determinato un’estensione dell’area di punibilità, configurando una fattispecie di onnicomprensiva
monetizzazione del munus pubblico, sganciata da una logica di formale sinallagma”19.
Dalla nuova formulazione dell’art. 318 c.p., qualche dubbio poteva sorgere, già a partire dalla
rubrica, circa la punibilità dei fatti di corruzione impropria susseguente. L’espressione “per
l’esercizio della funzione” poteva prestarsi ad un’interpretazione in chiave finalistica della
disposizione e, quindi, ad una proiezione in senso futuro del divieto. Tuttavia dall’analisi
sistematica delle norme, con riferimento anche all’introdotta punibilità del privato indotto e con
riferimento al dato letterale (non si dice “per l’esercizio futuro delle funzioni”), pare legittimo poter
concludere nel senso di un’affermazione della punibilità della corruzione impropria, anche in
termini susseguenti.
Del resto, la ratio della riforma poggia anche sulla necessità di affermare il concetto che, in nessun
caso, un pubblico ufficiale dovrà essere retribuito per l’esercizio della propria funzione. A
prescindere dalla natura conforme o difforme degli atti che andrà a porre in essere.
Per completezza espositiva, si rende necessario qualche breve cenno riguardo alla fattispecie di
istigazione alla corruzione di cui all’art. 322 c.p.. Invero, il dato che emerge con più evidenza
riguarda la circostanza che i quattro commi della norma in esame sembrino più descrivere delle
ipotesi di corruzione (attiva o passiva, propria o impropria) nella forma tentata piuttosto che di
“istigazione” strictu sensu. Si potrebbe comunque giungere alla punibilità di tali ipotesi non
consumate attraverso l’innesto dell’art. 56 c.p. sulle fattispecie di parte speciale. Tuttavia, la
risposta sanzionatoria sarebbe più tenue. La spiegazione si fonda, evidentemente, sulla scelta
politico-criminale di reprimere con forza qualsiasi tentativo di mercificazione della funzione
amministrativa. Tanto è vero che la riserva mentale in capo all’agente non ha alcuna rilevanza ai
fini della punibilità20, il reato è di mera condotta e per la consumazione non occorre che la promessa
o la sollecitazione siano recepite dalla controparte21.
19
Così, Cass. 19189/13.
Sul punto, Trib. Firenze, uff. g.i.p., 12.07.2012, Red. Giuffré 13.
21
Si veda Cass. 5518/92.
20
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Quanto al confine con la fattispecie di cui all’art. 319 quater, si rinvia alle considerazioni svolte
nella superiore narrativa.
3. Corruzione in atti giudiziari
Prima del 1990 costituiva un’aggravante della corruzione propria, si costruiva come reato di evento
avente ad oggetto l’ingiusta condanna di una parte processuale. Con la riforma attuata con legge
86/90 venne inserito nel codice penale l’art. 319 ter che cessò di essere reato di evento e divenne,
altresì, fattispecie autonoma di reato, anche se tale ultima qualificazione restò a lungo controversa
tanto in dottrina quanto in giurisprudenza.
Invero, le ragioni che lasciano propendere per la natura autonoma di tale reato sono svariate: la
rubrica della norma “corruzione in atti giudiziari”; l’intento espresso dal legislatore nel corso dei
lavori preparatori; la previsione di circostanze aggravanti all’interno della disposizione (stante
l’impossibilità di configurare l’esistenza di un’aggravante dell’aggravante); la formulazione
dell’elemento soggettivo in termini di dolo specifico (il soggetto agisce per favorire o danneggiare
una parte processuale)22.
Il 319 ter c.p. fu inserito per punire le condotte corruttive perpetrate nell’ambito
dell’amministrazione della giustizia, aventi ad oggetto il mercimonio di un atto giudiziario e
connotate dalla finalità specifica di danneggiare o favorire la parte di un processo civile, penale o
amministrativo. La pena base fu da subito superiore rispetto a quella comminata nelle ipotesi base
di cui agli articoli 318 e 319 c.p.. Inoltre, si decise di punire allo stesso modo le condotte di
corruzione propria e impropria equiparandole nel trattamento sanzionatorio, in modo diverso
rispetto agli articoli 318 e 319 c.p. in cui vi è, invece, una graduazione della pena in base al
differente grado di disvalore assunto da ciascuna ipotesi. Ciò per l’assoluta impossibilità di tollerare
l’esistenza di fenomeni corruttivi nell’ambito dell’esercizio dell’attività giudiziaria.
Con la riforma del 2012, la modifica che ha investito l’art. 319 ter ha riguardato il regime
sanzionatorio: le pene di cui al primo comma sono ora della reclusione da quattro a dieci anni
(prima da tre a otto), alla prima ipotesi del secondo comma la reclusione è da cinque a dodici anni
(il minimo era quattro), mentre la seconda ipotesi di cui al secondo comma ha mantenuto la pena
inalterata (da sei a venti anni).
22
In questi termini, Cass. 24349/12.
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Incidentalmente si fa osservare che nel disegno di legge in tema di contrasto alla corruzione
all’esame del Senato, è previsto l’aumento delle pene edittali per il reato di corruzione propria, con
un tetto che va dai sei ai dieci anni. In tal modo, i reati di cui al primo comma dell’art. 319 ter,
connotati dal maggior disvalore dell’aver intrapreso una compravendita avente ad oggetto la
funzione giudiziaria al fine di danneggiare o favorire una parte, saranno puniti in maniera meno
grave rispetto alle ipotesi “semplici” di corruzione. A questo punto, vien da dire che sarà più
conveniente, per gli aspiranti corruttori, assicurarsi di operare nell’ambito della giustizia piuttosto
che scendere a patti con pubblici ufficiali deputati alla funzione amministrativa.
Con riferimento ai soggetti attivi, il codice non fa menzione dell’incaricato di pubblico
servizio, poiché difficilmente potrebbe figurare tra i soggetti in grado di incidere sull’andamento di
un processo. Senza alcun dubbio saranno soggetti attivi il giudice, il pubblico ministero, il
cancelliere, l’ufficiale giudiziario, il perito e il testimone.
Con riguardo a quest’ultimo, si ritiene che, nel momento in cui il testimone presti il proprio
giuramento assuma la qualifica di pubblico ufficiale ex art. 357 c.p. in relazione all’attestazione di
fatti relativi al procedimento in corso, con la conseguenza che certamente potrà incidere sullo
stesso23. Sempre a tal proposito, si rileva come le condotte che abbiano ad oggetto l’offerta e la
promessa di denaro o altra utilità ad un soggetto chiamato a rendere testimonianza nell’ambito di un
dato processo, rientrano anche nella fattispecie di intralcio alla giustizia di cui all’art. 377 c.p..
L’applicazione di questa norma o dell’art. 319 ter dipenderà dalla condotta dell’agente: se il
testimone accetterà l’offerta o la promessa risponderà a titolo di corruzione in atti giudiziari (es.
caso Mills), se non accetterà risponderà a titolo di intralcio alla giustizia.
Incidentalmente si fa osservare che la fattispecie di cui all’art. 377 c.p. è stata, recentemente, al
centro di un acceso dibattito, sfociato poi in una pronuncia delle Sezioni Unite, con riferimento alla
punibilità dei consulenti tecnici del pubblico ministero24. La soluzione prospettata in sede di
23
Sul punto, Cass. 223566/03.
L’incertezza originava dal mancato coordinamento tra la norma di cui all’art. 377 c.p. di nuova formulazione e l’art.
373 c.p. “falsa perizia o interpretazione”, non adeguato al regime processuale di tipo accusatorio introdotto dalla
riforma del codice di procedura penale, avvenuta nell’ormai lontano 1988. La mancata previsione del consulente tecnico
del pubblico ministero tra i soggetti attivi incriminati dall’art. 373 c.p., richiamato invece dal novellato art. 377 c.p.,
determinava l’impossibilità di punire tali figure sulla base della citata norma, se non nelle ipotesi in cui fossero sentite
direttamente dal giudice o dal pubblico ministero o dal difensore. In tal caso il soggetto sarebbe stato, si, punibile, ma in
applicazione degli articoli 371 bis, 371 ter e 372 c.p., e non della norma relativa all’intralcio alla giustizia. Più nel
dettaglio, l’art. 377 c.p. punisce chiunque offra/prometta denaro o altra utilità ai soggetti elencati nella norma, tra cui la
persona chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, al fine di indurli a commettere uno dei
reati di cui agli articoli 371 bis, 371 ter, 372 e 373 c.p. Malgrado tale richiamo, il consulente tecnico del pubblico
ministero non rientra tra i soggetti attivi descritti dall’art. 373 c.p., che punisce il perito o l’interprete nominato
24
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rimessione, relativa al caso in cui a tale soggetto fosse richiesto di formulare valutazioni tecnicoscientifiche, ossia esprimere giudizi non assoggettabili al criterio del “vero o non”, si poneva nel
senso che questi non avrebbe potuto rispondere di falsa testimonianza ex art. 372 c.p., ma sarebbe,
semmai, incorso nei reati di istigazione alla corruzione ex art. 322 c.p., ovvero corruzione in atti
giudiziari (art. 319 ter c.p.). Tale opzione ermeneutica poneva, tuttavia, notevoli problemi in termini
di disparità del trattamento sanzionatorio tra le norme relative ai reati contro la pubblica
amministrazione e quelle inerenti all’amministrazione della giustizia. Sollevata questione di
legittimità costituzionale, il Giudice delle leggi, con sentenza n. 163/14 la dichiarava infondata,
rimettendo la soluzione del caso alla Suprema Corte. Con sentenza n. 51824 del 2014 le Sezioni
Unite concludevano nel senso di ritenere configurabile la responsabilità del consulente tecnico del
pubblico ministero ex art. 377 c.p.25, non solo in relazione alle ipotesi di cui all’art. 371 bis ma
anche per i casi previsti dall’art. 372 c.p., poiché tale soggetto va equiparato al testimone anche
quando formuli giudizi o valutazioni tecnico-scientifiche.
Stante questo quadro normativo, qualora l’offerta non sia accettata ovvero sia accettata ma la falsità
non venga posta in essere, il privato risponderà ex art. 377 c.p.; viceversa, nel caso in cui l’offerta
sia accettata e a questa segua il compimento di un atto (ad es. perizia) idoneo a favorire o
danneggiare una parte processuale, si avrà l’applicazione dell’art. 319 ter, corruzione in atti
giudiziari.
Quanto all’avvocato in sede di investigazioni difensive, si ritiene che questi abbia poteri di
natura certificativa, idonei ad incidere sullo svolgimento di un processo, pertanto risponderà del
reato in questione ove abbia agito con lo scopo di favorire o danneggiare una parte.
Negli stessi termini la giurisprudenza ha ritenuto punibili anche medici attestanti false condizioni di
salute di detenuti affidati alle loro cure26, in particolare, assegnando natura “essenzialmente
peritale” alle certificazioni mediche, inserite nella sequenza concatenata di atti prodromici alle
statuizioni del giudice in merito al regime detentivo dell’imputato. Così, rispondono anche il
curatore fallimentare e il giudice delegato ai fallimenti.
dall’autorità giudiziaria, pertanto, si è a lungo ritenuto che questi potesse rispondere solo a diverso titolo.
Nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite del 27 giugno 2013 la Suprema Corte evidenziava come tale
costruzione potesse validamente operare solo nell’ipotesi in cui il perito, chiamato dal giudice a rendere testimonianza,
rilasciasse dichiarazioni relative all’esame di dati o notizie certi, suscettibili di un giudizio in termini di falsità o verità,
ma non anche nelle ipotesi in cui questo compisse valutazioni sul fatto derivanti dal suo personale apprezzamento.
25
Sulla base dell’assunto che, quando il consulente operi una valutazione tecnico-scientifica questa sia comunque resa
avvalendosi dell’ausilio di criteri o parametri valutativi tecnicamente o normativamente indiscussi, assoggettabili,
dunque, al giudizio di falsità/verità. Si veda punto 6, Sez. Unite sentenza 25.10.14 – 12.12.14, n. 51824.
26
Sul punto, diffusamente, si veda Cass. 19143/09.
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Quanto all’elemento oggettivo, la condotta incriminata si fonda sul compimento di un atto
giudiziario. La nozione di atto giudiziario è stata variamente interpretata nel corso degli anni.
Appare fuor di dubbio che l’atto debba rientrare strettamente nell’ambito dei poteri del soggetto che
lo ha compiuto e che debba essere idoneo ad incidere sulle sorti del processo nell’ambito del quale
viene ad esistenza. Dato il novero di soggetti attivi che la giurisprudenza ha, di volta in volta,
individuato, non si potrà concludere nel senso di identificare l’atto giudiziario con l’espressione
pura dello ius dicere. Dovrà essere attribuito allo stesso un significato più ampio: atto giudiziario e
non atto giudiziale (come del resto emerge anche dalla rubrica dell’art. 319 ter). Secondo la
Suprema Corte, l’atto compiuto deve essere “funzionale ad un procedimento giudiziario e porsi
quale strumento per arrecare un favore o un danno nei confronti di una delle parti di un processo
civile, penale o amministrativo”27. Inoltre, non è necessario che l’atto posto in essere dal pubblico
ufficiale in cambio di un vantaggio indebito sia illegittimo, poiché rileva solo che esso sia contrario
ai doveri d’ufficio e che confluisca “in un atto giudiziario destinato ad incidere negativamente sulla
sfera giuridica di un terzo”28.
Quanto alla questione relativa alla punibilità della corruzione in atti giudiziari nella forma
susseguente (remunerazione per un atto già compiuto), la giurisprudenza ha assunto posizioni
oscillanti.
Secondo un orientamento più risalente, la fattispecie di cui al 319 ter “si caratterizza per essere
diretta ad un risultato e non è compatibile con l’interesse già soddisfatto su cui è modulato lo
schema della corruzione susseguente, perché la disposizione normativa richiede che il fatto sia
commesso per favorire o danneggiare una parte, sicché resta fuori dall’area della tipicità la mera
remunerazione di atti già compiuti”29.
Secondo le Sezioni Unite del 2010, nel noto caso Mills, il fine di favorire o danneggiare taluno
nell’ambito di un processo, non potrebbe riferirsi ad una sola parte della condotta, quella relativa al
compimento dell’atto, quando quest’ultima, ai fini della configurabilità della fattispecie, va
considerata unitariamente all’accordo corruttivo30. La Corte ha, dunque, affermato la piena
punibilità della fattispecie di corruzione in atti giudiziari susseguente, evidenziando come vada
punito in ogni caso qualsiasi accordo tra il privato ed il pubblico ufficiale che vada a incidere sulle
sorti di un processo penale. Compresa la ratio di tale impostazione, sarebbe comunque opportuno,
27
Così, Cass. 36323/09.
Si veda Cass. 24349/12.
29
Si veda, Cass. 33435/06.
30
Sul punto, Sez.Unite 15208/10.
28
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de iure condendo, riflettere sulla legittimità di una configurazione della punibilità di tali fenomeni
in chiave susseguente, specie quando la contrarietà dell’atto ai doveri d’ufficio non sia ravvisabile,
stante la necessità di tenere in debito conto il principio di offensività.
Infine, con riguardo all’elemento soggettivo, è richiesto il dolo specifico del soggetto che
intenda favorire o danneggiare una parte processuale. Tale soggetto normalmente è il privato,
mentre, perché l’elemento soggettivo si configuri in capo al pubblico ufficiale è sufficiente che
questi sia consapevole della finalità perseguita dal privato. Tale dolo specifico, soprattutto in capo
al pubblico ufficiale, costituisce l’elemento specializzante che distingue la fattispecie di cui al 319
ter rispetto all’art. 319 c.p. e giustifica il più severo trattamento sanzionatorio. Cosa avverrà a
seguito della riforma prossima ventura, è cosa che andrà valutata carte alla mano.
4. Traffico di influenze illecite
Indubbiamente, l’introduzione di tale fattispecie nel novero dei reati contro la Pubblica
Amministrazione, di cui al vigente codice penale, rappresenta la novità più significativa della
riforma 2012.
L’art. 346 bis, strutturato in cinque commi, sanziona le condotte di intermediazione illecita
poste in essere da un soggetto, sia esso qualificato o meno (nel primo caso la pena è aumentata in
base al disposto del terzo comma), che indebitamente si faccia dare o promettere denaro o altro
vantaggio patrimoniale da un terzo, al fine di sfruttare le proprie relazioni esistenti con un pubblico
ufficiale (o incaricato di pubblico servizio) ed ottenere da questo il compimento di un atto contrario
ai doveri d’ufficio ovvero l’omissione o il ritardo di un atto dovuto. La pena è della reclusione da
uno a tre anni e si applica anche al soggetto che indebitamente dà o promette denaro o altro
vantaggio patrimoniale.
Il quarto comma contiene un’altra aggravante ad effetto comune, inerente alla commissione di fatti
di intermediazione illecita posti in essere in relazione all’esercizio di attività giudiziarie. La
formulazione di tale comma sembra abbracciare delle ipotesi più ampie rispetto a quelle di cui al
319 ter c.p. poiché non vi è il riferimento ad uno specifico atto giudiziario né l’ulteriore finalità di
favorire o danneggiare una parte all’interno di un processo.
Il quinto comma prevede, invece, la riduzione della pena fino ad un terzo per i casi di particolare
tenuità.
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Le ragioni che hanno portato all’introduzione di tale norma all’interno del codice penale, nel
Capo II relativo ai delitti dei privati contro la Pubblica Amministrazione, e in rapporto di immediata
successione topografica rispetto al millantato credito (art. 346 c.p.), sono da rintracciare nelle
istanze sovranazionali a lungo ignorate dal legislatore italiano, nelle vicende giudiziarie che hanno
evidenziato l’insufficienza del sistema penale italiano in ipotesi particolarmente complesse (caso
Imi-Sir) e, più in generale in ragioni di ordine comparatistico. Difatti, la stragrande maggioranza dei
paesi europei prevede tale fattispecie all’interno delle proprie normative da ben oltre un secolo.
A titolo esemplificativo, il 4 luglio 1889 venne inserito nel Code Pénal francese il trafic
d’influence, modificato poi nel 1943 e disciplinato oggi all’art. 433-231 così come modificato con
legge 1117/13.
Sempre nel 1889 fu emanato in Gran Bretagna il Public bodies Corrupt Practices Act comprensivo
di una previsione espressa in tema di traffico di influenza (influence peddling), attualmente è in
vigore, dall’1 luglio 2011, il Bribery Act contenente una più compiuta definizione del reato in
oggetto. Il Código Penal spagnolo del 1995 prevede, un capitolo denominato “del trafico de
influencias” contemplando ben tre fattispecie, dall’art. 428 all’art. 43132, e punendo il traffico di
31
Art. 433-2 Code Pénal “Est puni de cinq ans d'emprisonnement et d'une amende de 500 000 €, dont le montant peut
être porté au double du produit tiré de l'infraction, le fait, par quiconque, de solliciter ou d'agréer, à tout moment,
directement ou indirectement, des offres, des promesses, des dons, des présents ou des avantages quelconques, pour luimême ou pour autrui, pour abuser ou avoir abusé (forma antecedente e susseguente) de son influence réelle ou
supposée (non si fa distinzione tra influenza reale o “millantata”) en vue de faire obtenir d'une autorité ou d'une
administration publique des distinctions, des emplois, des marchés ou toute autre décision favorable.
Est puni des mêmes peines le fait de céder aux sollicitations prévues au premier alinéa ou de proposer, sans droit, à
tout moment, directement ou indirectement, des offres, des promesses, des dons, des présents ou des avantages
quelconques à une personne, pour elle-même ou pour autrui, pour qu'elle abuse ou parce qu'elle a abusé de son
influence réelle ou supposée en vue de faire obtenir d'une autorité ou d'une administration publique des distinctions,
des emplois, des marchés ou toute autre décision favorable”.
32
Art. 428 “El funcionario público o autoridad que influyere en otro funcionario público o autoridad prevaliéndose del
ejercicio de las facultades de su cargo o de cualquier otra situación derivada de su relación personal o jerárquica con
éste o con otro funcionario o autoridad para conseguir una resolución que le pueda generar directa o indirectamente
un beneficio económico para sí o para un tercero, incurrirá en las penas de prisión de seis meses a dos años, multa del
tanto al duplo del beneficio perseguido u obtenido e inhabilitación especial para empleo o cargo público por tiempo de
tres a seis años. Si obtuviere el beneficio perseguido, estas penas se impondrán en su mitad superior”.
Art. 429 “El particular que influyere en un funcionario público o autoridad prevaliéndose de cualquier situación
derivada de su relación personal con éste o con otro funcionario público o autoridad para conseguir una resolución
que le pueda generar directa o indirectamente un beneficio económico para sí o para un tercero, será castigado con las
penas de prisión de seis meses a dos años y multa del tanto al duplo del beneficio perseguido u obtenido. Si obtuviere el
beneficio perseguido, estas penas se impondrán en su mitad superior”.
Art. 430 “Los que, ofreciéndose a realizar las conductas descritas en los artículos anteriores, solicitaren de terceros
dádivas, presentes o cualquier otra remuneración, o aceptaren ofrecimiento o promesa, serán castigados con la pena
de prisión de seis meses a un año.
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influenze illecite sia nella forma antecedente che in quella susseguente (come avviene anche in
Francia).
I gruppi di lavoro gravitanti nell’orbita della Convenzione Onu di Merida del 2003 e della
Convenzione del Consiglio d’Europa in tema di lotta alla corruzione, in particolare con riferimento
alla trasposizione dell’art. 12 di quest’ultima, avevano sollecitato l’Italia ad intervenire
efficacemente sul contrasto a condotte di intermediazione illecita, rilevando come la disposizione di
cui all’art. 346 c.p. “millantato credito” non fosse sufficiente a reprimere fenomeni in cui
l’influenza veniva effettivamente esercitata. A seguito della riforma 2012, la valutazione operata dal
GRECO, appare positiva. Residuano solo alcuni punti critici con riferimento alla compatibilità della
nuova norma con le prescrizioni dell’art. 12 della Convenzione di Strasburgo: il 346 bis copre
unicamente le ipotesi in cui l’influenza esercitanda o esercitata sia esistente (a differenza della
venditio fumi33), inoltre non è stata introdotta la punibilità dell’offerta di denaro o altro vantaggio
patrimoniale34.
Venendo all’esame della fattispecie, questa si pone in un’ottica di anticipazione della tutela
ai beni giuridici buon andamento ed imparzialità con riguardo a condotte prodromiche rispetto a
fatti propriamente corruttivi. Non a caso, l’incipit della norma specifica come essa si applichi “fuori
dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319 ter”, in tal modo chiarendo la sua natura
sussidiaria rispetto a reati connotati da maggiore gravità. Non vi è menzione del 318 c.p., poiché
l’atto sul quale il soggetto agente intenda influire dovrà essere contrario ai doveri d’ufficio e
l’introduzione della punibilità anche del pericolo di corruzione impropria comporterebbe una
notevole frizione con il principio di offensività.
Il primo comma prevede due ipotesi distinte: una di mediazione remunerata, in cui la
retribuzione o la semplice promessa sono dirette al mediatore per la sua attività illecita nei confronti
Cuando de acuerdo con lo establecido en el artículo 31 bis de este Código una persona jurídica sea responsable de los
delitos recogidos en este Capítulo, se le impondrá la pena de multa de seis meses a dos años”. Art. 431 “En todos los
casos previstos en este capítulo y en el anterior, las dádivas, presentes o regalos caerán en decomiso”.
33
La c.d. venditio fumi, trae la propria denominazione da una vicenda avvenuta nella Roma dell’età imperiale. Si narra
che nel 228 d. C., un tale Vetronio Turino vantasse di poter esercitare la propria influenza sull’allora imperatore
Alessandro Severo, ricevendo compensi in cambio di asserite intercessioni nei confronti dello stesso per far ottenere
favori a soggetti privati. Scoperto e accusato dallo stesso imperatore, Vetronio fu condannato a morte. La sua
esecuzione si caratterizzò per le particolari modalità di realizzazione: questi fu legato ad un palo e attorno furono riposte
foglie umide e legna verde che, una volta accese, soffocarono il millantatore con il fumo. Le ultime parole di Vetronio
furono “fumo punitur qui fumo vendit!”. Da qui l’origine del nome. Vicenda riportata da LAMPIRIDIO in Vita di
Alessandro Severo, A.A. V. V. Storia Augusta, p. 480.
34
Third Evaluation Round. Compliance Report on Italy. “Incriminations & Transparency of Party Funding”, 20
giugno 2014.
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del pubblico ufficiale; l’altra, di mediazione gratuita, in cui la dazione o promessa sono destinate al
pubblico ufficiale, senza che nulla sia dato al mediatore.
É escluso il concetto di “altre utilità”, e questo comporta la notevole restrizione dell’ambito
di applicazione della norma, limitata dalla necessaria patrimonialità di promesse e dazioni.
Quanto al momento consumativo, si ritiene che anche tale reato rientri tra quelli c.d. a
duplice schema, pertanto si avrà consumazione al momento della promessa nell’ipotesi in cui a
questa non segua la dazione, viceversa ove la dazione vi fosse, la consumazione andrà identificata
con quella35.
Si tratta di un reato comune, l’intermediario può essere chiunque; a struttura commissiva e
complessa; in cui lo scopo di lucro rappresenta l’elemento a cui agganciare il disvalore della
fattispecie; le condotte sono alternative, e l’evento materiale si intendere realizzato al momento
della promessa o della dazione, il soggetto attivo indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri,
per remunerare la propria mediazione illecita ovvero il pubblico agente, perché quest’ultimo compia
od ometta o ritardi un determinato atto. Il riferimento operato dalla norma relativamente al
compimento di un atto amministrativo, e non alla funzione amministrativa, circoscrive l’ambito di
applicazione della disposizione.
Trattandosi di reato a concorso necessario e a struttura trilaterale, il privato soggiace alla
stessa pena dell’intermediario. È anche reato a dolo generico, l’elemento soggettivo deve insistere
sull’illiceità speciale di cui all’avverbio “indebitamente” che copre la condotta del trafficante che
voglia influire sull’azione del pubblico ufficiale prefigurandosi l’idoneità della mediazione a
produrre i risultati voluti dal privato. L’effettiva realizzazione della mediazione resta fuori dagli
elementi costitutivi del reato, pertanto la circostanza che il mediatore accettasse il compenso con
riserva mentale, senza la reale intenzione di svolgere la mediazione, non avrebbe rilevanza.
Il soggetto che si vuole colpire principalmente è colui il quale sfrutti le proprie relazioni con un
soggetto qualificato per influire negativamente sull’esercizio dell’attività amministrativa.
La circostanza che si sia optato per la non menzione dell’art. 318 c.p. all’interno della
clausola di sussidiarietà espressa dell’art. 346 bis, trova fondamento nella necessità di garantire che
le attività di lobbying, considerate lecite e rivolte al compimento di atti conformi a legge, siano
escluse dall’area del punibile. Senz’altro, si renderebbe opportuno un intervento legislativo anche su
questo versante, al fine di regolare i confini entro cui l’interlocuzione con i pubblici agenti vada
35
PISA, Il “nuovo” delitto di traffico di influenze, in Dir. pen. proc., 2013, supp. n. 8.
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ritenuta lecita, e di adeguarsi alle normative in vigore negli altri stati occidentali che prevedono da
tempo leggi in tal senso.
Un altro elemento di rilievo è rappresentato dalla necessità che l’influenza esercitata
dall’intermediario sia reale, effettiva. In altre parole, il traffico assume penale rilevanza solo quando
si trasforma in una compravendita della posizione, idonea a mettere in pericolo in beni giuridici
tutelati. Prendendo le mosse da questo aspetto è anche possibile tracciare una differenza rispetto al
reato di millantato credito di cui al precedente art. 346 c.p. Difatti, elemento caratterizzante il
millantato credito è proprio la “venditio fumi”, che si identifica nella condotta di vantare una
relazione personale (in realtà inesistente) con il pubblico ufficiale, asserendo di poter influire
sull’operato di questo. Tale ultima fattispecie mira a tutelare il prestigio della pubblica
amministrazione da condotte che possono inficiarne il buon nome e l’immagine; di contro, l’art. 346
bis c.p. è volto ad evitare che possano registrarsi distorsioni della pubblica funzione, e tutela dal
reale pericolo di lesioni i beni giuridici buon andamento ed imparzialità. Malgrado tale differenza in
termini di offensività tra le due fattispecie, il millantato credito viene punito in modo più severo
rispetto al traffico di influenze illecite.
Difatti, l’art. 346 c.p. prevede la pena della reclusione da uno a cinque anni e la multa da € 309 a €
2.065 per l’ipotesi di cui al primo comma, relativa alla remunerazione del venditore di fumo per la
sua intercessione con il pubblico ufficiale nei confronti del quale vanterebbe un credito; la pena
aumenta, da due anni a sei più la multa da € 516 a € 3.098 nell’ipotesi più grave in cui il soggetto
attivo riceva, faccia dare o promettere denaro o altra utilità con il pretesto di dover “comprare” o
remunerare un pubblico agente ovvero un impiegato.
Il traffico di influenze illecite, prevede invece la sola pena della reclusione da uno a tre anni per le
ipotesi base di cui al primo comma, e l’aumento fino ad un terzo della pena in presenza delle
circostanze aggravanti. La ratio di tale differenza, dal punto di vista sanzionatorio, si fonda sulla
plurioffensività del reato di millantato credito, che lede, con modalità ingannatorie, tanto la
posizione giuridica del privato quanto quella della pubblica amministrazione.
Tuttavia, si fa osservare come una soluzione di tal tipo appaia poco convincente, specie in
considerazione del fatto che i beni giuridici buon andamento ed imparzialità rivestano
un’importanza maggiore rispetto al prestigio della pubblica amministrazione, tutelato dalla norma
che punisce il millantato credito. Inoltre, mentre in quest’ultima fattispecie non si registra alcun
vulnus per il pubblico ufficiale, che resta estraneo alla vicenda, nel traffico di influenze illecite
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questi entra in relazione con il mediatore e può essere da questi, o dal privato, remunerato, per porre
in essere delle condotte contrarie ai doveri d’ufficio.
L’ambito oggettivo della fattispecie di millantato credito si configura in termini più ampi, poiché
non vi è una limitazione in termini patrimonialistici delle prestazioni richieste al privato al fine di
portare a compimento la mediazione: il legislatore ha inteso riferirsi alla corresponsione anche di
“altre utilità”, abbracciando ipotesi che resterebbero fuori dall’ambito del traffico di influenze
illecite di cui al successivo art. 346 bis c.p.
Inoltre, nel reato di millantato credito il privato e la pubblica amministrazione sono vittime; nel
traffico di influenze illecite il privato concorre, e risponde negli stessi termini, nel fatto del
mediatore. L’unica persona offesa contemplata dall’art. 346 bis è la pubblica amministrazione.
Ciò che ha determinato la cogente necessità di introdurre una norma che punisse il trading in
influence come delitto prodromico rispetto ai più gravi fatti di corruzione, è stato, senz’altro, il
riscontrato limite di operatività accordato al reato di millantato credito, con riferimento alla sua
applicabilità alle sole ipotesi in cui l’influenza fosse solo asserita e non esistente. Sotto la vigenza
della precedente disciplina, si assisteva al paradosso per cui colui che chiedeva di essere remunerato
per intercedere con un pubblico ufficiale sulla base di un’influenza inesistente, veniva punito;
viceversa, il soggetto che effettivamente potesse sfruttare una relazione esistente non andava
incontro a punibilità, salvo il caso che commettesse reati più gravi.
Parte della dottrina, discostandosi dal dettato normativo, aveva tentato di attribuire all’art. 346 c.p.
una portata più ampia, riferendolo anche alle ipotesi in cui la relazione, tra soggetto agente e
pubblico ufficiale fosse effettivamente sussistente36. Ma tali soluzioni non risultavano comunque
soddisfacenti.
Quanto al confine con altre tipologie delittuose, il traffico di influenze illecite si distingue
per il grado di lesione che si realizza nei confronti dei beni giuridici, dalla soglia più bassa del
semplice pericolo, alla lesione effettiva: se l’intermediario offrisse dazioni al pubblico ufficiale e
questi le accettasse, si avrebbe corruzione; se il pubblico ufficiale rifiutasse, si avrebbe istigazione
alla corruzione.
Altro elemento di discrimen poggia sul fatto che, nel reato di cui all’art. 346 bis c.p., il prezzo della
mediazione non è diretto a remunerare il pubblico agente; se così fosse si integrerebbero tutti gli
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Si veda ROMANO, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei privati. Le qualifiche pubblicistiche,
Milano, 2008.
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elementi della corruzione ed il mediatore risponderebbe a titolo di concorso nel reato di cui all’art.
319 c.p.
Conclusioni
All’esito di questa, seppur sommaria e non esaustiva, panoramica sulle principali novità della
riforma 2012 in tema di reati contro la pubblica amministrazione, sembra si possa affermare che
l’operato del legislatore si sia collocato ad uno step più avanzato dell’azione di contrasto ai
fenomeni corruttivi. Malgrado questo passo in avanti, residuano delle zone d’ombra e delle
incertezze applicative che, si spera, verranno sanate in occasione dell’annunciata riforma ad opera
del Governo.
Il disegno di legge n. 19 presentato nel marzo 2013, ancora all’esame del Senato, prevede
l’inasprimento del trattamento sanzionatorio per alcuni dei delitti contro la Pubblica
Amministrazione contemplati dal codice penale.
In particolare, in ottemperanza alle prescrizioni promananti dalle sedi sovranazionali, si prevede la
modifica dell’art. 161 c.p., con riferimento al regime della prescrizione, inserendo al secondo
comma la previsione dei reati di cui agli articoli 314, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321,
322, 322 bis tra quelli per cui l’interruzione può comportare l’aumento fino alla metà del tempo
necessario per prescrivere.
Ancora, si intende innalzare il tetto edittale della corruzione propria, attualmente assestato sulla
pena della reclusione da quattro a otto anni, per portarlo da sei a dieci anni; analogamente,
induzione indebita, dall’attuale quadro sanzionatorio che prevede la reclusione da tre a otto anni,
alla reclusione da quattro a dieci anni. L’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) che prevede una pena da uno
a quattro anni sarebbe modificato solo nel massimo, con un aumento a cinque anni. Negli stessi
termini si prevede la modifica dell’art. 346 bis, elevando il massimo edittale a cinque anni.
Riguardo all’aumento di pena riferito alle ipotesi di corruzione propria (art. 319 c.p.), si rileva che
tale modifica, se non accompagnata da una corrispondente rimodulazione delle sanzioni previste per
altri reati più gravi, potrebbe comportare qualche problema di coordinazione con altre norme, specie
in termini di graduazione della risposta sanzionatoria in relazione alla progressività della lesione ai
beni giuridici che ciascuna fattispecie mira ad evitare. Ad esempio, se il dettato dell’art. 319 ter c.p.
(corruzione in atti giudiziari) dovesse restare immutato, come appare da una prima lettura dei testi
provvisori finora diramati, si avrebbe una irragionevole disparità di trattamento con applicazione di
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un regime sanzionatorio più afflittivo per il reato base di corruzione propria e, di contro, trattamento
più favorevole per quei soggetti che realizzassero condotte corruttive nell’ambito del più delicato
settore dell’amministrazione della giustizia, cui da sempre il legislatore ha accordato, invece,
maggiore tutela.
Inoltre, al 323 bis, relativo alle circostanze attenuanti, si intende inserire un secondo comma di cui
si riporta integralmente il testo: "per i delitti previsti dagli articoli 318, 319, 319-ter, 319-quater,
320, 321, 322 e 322-bis, per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l'attività delittuosa
fosse portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l'individuazione degli
altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite, la pena è diminuita
da un terzo alla metà". In poche parole, si prevede un incentivo in termini di sconto di pena per
coloro i quali collaborino con l’autorità giudiziaria al fine di assicurare l’emersione di tali fenomeni
corruttivi.
Oggetto del disegno di legge in commento, è anche l’introduzione dell’art. 322 quater, rubricato
“riparazione pecuniaria”, in base al quale la condanna per tali reati dovrà essere sempre
accompagnata dalla previsione dell’intera restituzione di quanto indebitamente ricevuto dal
pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, a titolo di riparazione nei confronti
dell’amministrazione di appartenenza, ovvero dell’amministrazione della giustizia nei casi di cui
all’art. 319 ter, fatto salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno. A far pendant con questa nuova
norma, risulta agli atti un emendamento governativo che importa la modifica dell’art. 444 c.p.p. con
la previsione dell’inciso “nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319,
319-ter, 319- quater e 322-bis l'ammissibilità della richiesta di cui al comma 1 è subordinata alla
restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato”. Con riferimento a tali ultimi profili
evidenziati, si osserva come la previsione di una subordinazione della concessione di forme
alternative di definizione del processo alla restituzione di tutto l’indebito, possa senz’altro
considerarsi elemento positivo ed incentivante, ma ci si chiede fino a che punto tale condizione
potrà concretamente realizzarsi ed in quale misura, una previsione simile, non determinerà una
disparità di trattamento rispetto al regime processuale dei delitti contro il patrimonio, nei confronti
dei quali non sembra essere stata annunciata alcuna modifica.
Infine, si prevede la riforma dell’art. 12 sexies della legge 356/92 con riguardo ai casi di confisca
allargata. La previsione è stata estesa in blocco ai delitti di cui agli articoli 314, 316, 316-bis, 316ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 322, 322-bis del codice penale. La particolarità
dell’emendamento governativo in oggetto, si fonda sulla manifestata volontà di estendere la
confisca anche agli eredi o aventi causa del soggetto condannato con sentenza passata in
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giudicato37. È ragionevole pronosticare che l’estensione di tale pena accessoria a persone diverse
dall’imputato si presterà a creare qualche problema di compatibilità con il principio di personalità
della responsabilità penale, di cui all’art. 27 Cost. primo comma.
L’intento futuro del legislatore appare condivisibile quanto ai risultati che mira a perseguire:
recuperare quanto indebitamente percepito mercificando la funzione pubblica, evitando che il
verificarsi di fatti impeditivi a tale recupero (la morte del reo) possano vanificare la restitutio in
integrum degli indebiti e mantenere in circolazione il frutto di attività illecite. Tuttavia sarà
opportuno strutturare tale forma di confisca in modo che questa strida il meno possibile con il
principio costituzionale della personalità della responsabilità penale, poiché, viceversa, un istituto di
tale tipo godrà di una vita assai breve.
Non resta che attendere l’approvazione di un testo definitivo per poter svolgere delle valutazioni più
concrete, nella speranza che taluni dei nodi irrisolti della riforma 2012 possano, stavolta, trovare
soluzione.
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La proposta riguarda l’inserzione del comma 4-septies, in base al quale “in caso di morte del soggetto nei cui
confronti è stata disposta la confisca con sentenza di condanna passata in giudicato, il relativo procedimento inizia o
prosegue, a norma dell'articolo 666 del codice di procedura penale, nei confronti degli eredi o comunque degli aventi
causa”.
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