lucida follia - WritingsHome

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“Insieme di riflessioni da un letto
d’ospedale. I pensieri sono espressi a
raffica e l'inquietudine del
personaggio viene raffigurata con una
scrittura inconsueta, in cui non si va
mai a capo dopo il punto (sempre se
quest’ultimo è inserito). Il
protagonista, nella fretta di
manifestare la sua tempesta di
emozioni, è quasi sempre incoerente e
a tratti incomprensibile: si allontana
dalla massa per poi diventare il primo
schiavo dell’amore.”
LUCIDA FOLLIA
Eccomi in ospedale. L'infermiere rimuove la bustina con dentro la merda
che mi stanno iniettando nelle vene per sostituirla con una nuova di
zecca. Questa roba dev'essere davvero forte perché non riesco a ricordare
un cazzo di quello che mi è successo. Il tipo mi guarda come se fosse in
questo luogo così orribile e così tranquillo per colpa mia, quindi non gli
chiedo nulla. Mi sorride in modo unico. Cerco di sforzarmi per ricordare
ma sono stanco, allora allungo un braccio sul tavolino accanto a me,
prendo le fotografie, le guardo e mi addormento.
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«Thed! Thed!»
Apro lentamente gli occhi e vedo il mio vicino di casa, un uomo sui
quarant'anni che incontro più o meno tre, quattro volte a settimana, e con
il quale non sono mai andato oltre il saluto. «Come stai Thed?» mi fa con
aria perplessa e voce rauca. Lo guardo, apro leggermente la bocca per
inspirare e muovo la testa a destra e a sinistra. «Tranquillo, non è stata
colpa tua» mi dice per calmarmi. Si vede che almeno lui sa cosa è
successo. Non ho la forza di parlare. Il mio vicino mi sorride come il tizio
nelle reception degli hotel; o anche come ti sorride quel fottuto
infermiere.
Vanno via entrambi, allora prendo le fotografie. Rimango lì a fissarne una,
poi comincio a strapparla, la getto via e richiudo gli occhi, trovando
serenità in questo bel posto.
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Eccomi in auto. Non faccio caso al modello, ma noto che la strada che
percorro ha il manto rosso e la segnaletica è posta al contrario, ovvero
l'indicazione stradale è quasi interamente sottoterra. Martha è lì, la vedo
in lontananza, in piedi, che mi fa dei gesti strani. Sto per investirla, sto per
sentire il forte impatto che si produce in questi casi. Lei morirà
sicuramente e forse morirò anch'io. O forse no. Il quesito stupra la mia
mente per circa cinque o sei secondi, perché poi sfioro Martha, mi sveglio
e il dubbio svanisce. L'infermiere mi guarda: è altissimo e il soffitto è nero.
Sto sudando mentre lui mi sorride, come ti sorride quella puttana che ti
serve nei fast food o come i presentatori televisivi; sorride come il mio
vicino di casa. Provo a ignorare lui e questo luogo funereo, voltandomi
verso le fotografie.
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Sono solo in questa confortevole stanza d'ospedale. Mi giro e vedo che
accanto alle fotografie c'è il referto medico. Dopo averlo letto capisco
tutto: Ho subìto un forte trauma, dovuto al mortale incidente di cui siamo
stati vittime io e la mia attuale fidanzata dopo un brutale scontro ad un
incrocio con un'altra auto rossa come la nostra e con gli anabbaglianti
spenti perché erano visibili solo le luci di posizione quindi io e la mia
attuale ragazza siamo innocenti e l'altro è colpevole e lo scontro è costato
la vita a quest'uomo e alla mia attuale ragazza infatti i due sono morti sul
colpo mentre io sono stato in coma per circa un giorno per poi svegliarmi
con una frattura della clavicola sinistra un trauma cranico e un trauma
cervicale.
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«Thed, se i tuoi genitori fossero vivi sarebbero qui giorno e notte,
sperando in una pronta guarigione» afferma l'infermiere mentre mi
prepara i medicinali. «Vuoi che ti accenda il televisore?» mi chiede
sorridendo, come sorridono quei pervertiti che cercano di scoparsi una
ragazza e per farlo acconsentono a qualsiasi cazzata lei dica, sorridendo
appunto, ma pensando già a dove portarla e in che posizione farsela.
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Mi chiamo Thed Dood. Mio padre era olandese, mia madre filippina, io
sono qui per miracolo. Ho appena ricordato che poco prima dell'incidente
stavo litigando con la mia attuale ragazza, da poco diventata la mia attuale
ex ragazza visto che è morta. Chissà se l'hanno già seppellita. Ci
conoscevamo e frequentavamo da circa un anno. Lei era davvero bella:
aveva labbra soffici, occhi accattivanti, ma soprattutto un bel timbro di
voce e un bel culo. I primi sei mesi la nebbia era molto fitta. Poi si sa,
svanisce e cominci a vedere il triste paesaggio, ed è lì che vedi anche te
stesso e il tuo amore infinito. Tutto sta negli occhi. Ed ecco che prendo due
fotografie e le strappo entrambe, senza guardare quali siano.
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La signora Atwood è venuta a trovarmi. Si siede e mi prende la mano, poi
comincia a piangere e non riesce a parlare. La signora Atwood è la madre
della mia attuale ex ragazza e in questo momento pochi riescono a
immaginare cosa stia provando. Non ho le forze necessarie per consolarla
o almeno per dirle una delle solite cazzate che la mediocre massa recita in
tragici eventi come questo. La signora Atwood è davvero una bella donna.
Ho spesso immaginato di scoparmela. Vorrei tanto dirle che è inutile
piangere e che è inutile credere di vivere, di manifestare emozioni del
genere. La signora Atwood però, è davvero una persona in gamba, merita
qualche mia parola: «Cosa credeva? Che in una terra in cui si è obbligati a
nascere, venisse data a qualcuno la possibilità di scegliere se morire
oppure no?». Solo dopo aver pronunciato queste parole mi sono reso
conto che non erano nemmeno paragonabili alle cazzate della mediocre
massa, nel senso che era molto meglio pronunciare queste ultime. La
signora Atwood mi accarezza il volto spostandomi dei capelli, poi va via.
Mentre esce le guardo il culo e penso a quello della figlia che marcisce
sottoterra, come la segnaletica stradale del mio incubo.
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L'infermiere oggi sembra volersi prendere gioco di me e mi guarda in
modo spavaldo. Conosco tante persone ma nessuno abbastanza amico da
venire a farmi una visita in questo posto così silenzioso e quieto. E con
questo? Tu non mi capisci, caro infermiere, e pensi che la vita sia fatta
solo di pane, lavoro, sesso e amici che passano a trovarti in ospedale per
“rendere grazie a Dio”. Tu, caro infermiere, ti senti tranquillo in questo
luogo e guardi fuori dalla finestra con i tuoi disgraziati occhi. Tu, caro
infermiere, essere dotato soltanto di stupida coscienza e coerenza, anziché
sorridermi e cercare di prendermi in giro, comincia a chiederti perché sei
qui, di fronte a me. Tu, caro infermiere, sei un bugiardo privo d'amore e ti
permetti di vivere la vita, ma soprattutto di farlo in un modo così misero,
che se tu morissi, io verrei a farti una visita in obitorio per “rendere
grazie a Dio”.
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Mi chiamo Thed Dood, ho ventinove anni. Oggi il mio corpo prova un
forte dolore, non dovuto all'incidente ma causato dalla perdita di una
persona a cui ero molto legato e che credo di amare. Le cose peggiori che
prova qualcuno che crede di vivere sono proprio quelle per cui vale la
pena credere di vivere. Il mio stomaco continua a lamentarsi cercando
invano di opporre resistenza alla polvere d'amore e solitudine che il mio
cervello gli soffia contro. Nell'auto distrutta c'erano delle mie fotografie,
che ora sono qui con me, in questo luogo così poco artistico. Sono
fotografie di quando avevo circa cinque anni, scattate o da mia madre o
da mio padre, nelle quali oltre a me sono immortalati o mia madre o mio
padre. Una famiglia media, con un salario medio, una salute media; una
felicità nella media e un bambino medio, con un amore immenso.
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E' il mio ultimo giorno qui in ospedale. C'è una bambina accanto al mio
letto. Forse è la figlia di qualche altro paziente. E' sorridente e felice. Non
si rende conto dello spaventoso posto in cui siamo capitati. Mi viene
vicino e mi mostra un libro di storia: «Ecco quello che studio per domani».
Accenno un sorriso. E' un essere tenero, insignificante, puro e stupido;
quasi provo invidia nei suoi confronti. Le regalo tutte le mie foto, o
almeno quelle che sono rimaste intatte dopo questi giorni, e le dico di non
credere né in Babbo Natale né alle cazzate che sono state scritte in quel
libro. Mi guarda male. Poi entra una donna anziana. Anche lei mi guarda
in modo strano, ma è del tutto diverso. Prende la mano della bambina e le
dice: «Non disturbare il signore, Maria, lascialo riposare. Vieni con me,
salutiamo il nonno e andiamo via». Le rispondo: «Non ho bisogno di
riposare, anzi oggi è il mio ultimo giorno, poi tornerò a casa mia con i
miei tanti amici e la mia futura ragazza. Sa, la mia ex ragazza è morta,
quindi adesso dovrò darmi da fare per trovarne subito un'altra visto che
ho quasi trent'anni ed è giunto il momento di fare una figlia bella come
Sua nipote». Continua a scrutarmi in modo atipico, poi annuisce e si
allontana. E' un essere tenero, insignificante, violentato e stupido. Mi
addormento senza fotografie.
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Sono solo. Tra un po' verrà un medico a chiamarmi e potrò andare via da
qui. Spero di non vedere quel coglione dell'infermiere e di trascorrere
questi ultimi minuti in tranquillità. Potrò tornare a guardare il mondo,
fare quello che facevo, essere chi ero. Questa possibilità mi disturba e il
mio corpo ne risente. Perché lei doveva morire in un incidente d'auto?
Nemmeno le piacevano le auto. Mi alzo e chiudo la porta della stanza, poi
metto una sedia davanti, bloccando la maniglia. Non voglio andarmene da
qui. Apro la finestra e mi accorgo che c'è un giardino con dei fiori molto
particolari e gialli. I fiori mi piacciono molto più di quello che c'è
dall'altra parte della porta. Ho fallito. Il mio corpo ha fallito perché sta
morendo di solitudine e la mia mente ha fallito perché sa bene che questa
solitudine non è certo dovuta a me. Mi rifiuto di uscire da quella porta e
se proprio devo abbandonare questo posto lo farò uscendo dalla finestra.
Mi appoggio sul davanzale e mi rendo conto che il nostro diverbio aveva
preso una piega sbagliata. In principio parlavamo del volere o no un
bambino, ma poi tutto è degenerato e io ero così incazzato che non ho
dato importanza al resto, quindi non ho visto l'auto. Adesso tutto ciò che
vedo è me stesso e il mio amore è troppo grande per tacere e rimanere
intrappolato in un corpo, in una vita.
Saverio Quaranta