Vattene e non tornare mai più.» Belinda aveva

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Vattene e non tornare mai più.» Belinda aveva
STRALCIO DA: UN TERREMOTO A BORGO PROPIZIO (SALANI) DI LOREDANA LIMONE
«Vattene e non tornare mai più.»
Belinda aveva pronunciato quelle parole con voce ferma e decisa, bassa.
Era reciproco, dunque.
Perché, sì, anche Francesco aveva voglia di andarsene e non tornare mai più. Roteò il
capo: tutt’intorno qua e là, sulle piastrelle bianche, era dipinta la faccia di una mucchetta
con il campanaccio arancione, che a volte sembrava tinnire davvero appeso al collo, e la
lingua rossa che faceva capolino da un lato; su una bordura di greche rettangolari erano
raffigurate altre due mucche di profilo, screziate di blu, con le code verso l’alto e un sole
giallo al centro. Quelle mucche, le aveva disegnate Belinda quando frequentava l’asilo, ed
erano tenerissime. Più sopra, dove non vi erano mattonelle, un arcipelago di nuvole bianche
dipinte si stagliavano su uno sfondo cilestrino, e così era anche il soffitto. In quel negozio
sembrava sempre di essere dentro un libro di fiabe, ma lui non aveva più voglia di raccontarsele. Guardò la latteria come se fosse la prima volta che la vedeva, anzi l’ultima.
Belinda aveva acceso il jukebox a bassissimo volume, prima delle nove non era consentito, anche se, influenzati da Letizia, ormai tutti ascoltavano con piacere il Gran Musicante a
ogni ora.
Le note di certe canzoni stonate iniziarono a danzare sulle punte.
Ci sono momenti nella vita in cui ci si chiede se non si stia facendo un errore colossale e
momenti in cui è stato già deciso tutto: Francesco sapeva bene che momento fosse.
Voltò le spalle e le sentì curve, pesanti sotto i cocci d’amore che portava via, consapevole
del fatto che lei non lo avrebbe fermato; sicuro che avrebbe raccolto quelli che inavvertitamente fossero scivolati a terra e li avrebbe buttati in pattumiera. Guardò la vetrina che Belinda recingeva con una tenda di pizzo color crema, e i piccoli gioielli, ovvero le grandi delizie che esponeva. Oltre il vetro, vide alzarsi la saracinesca della fioraia Violacciocca, e
l’avvizzita donna portare fuori due piante dai fiori blu. Un gatto bigio, acciambellato sul
davanzale di una finestra, alzò la testa e la riabbassò, serafico. Francesco annusò il profumo
di Belinda, anzi no, lei era lontana, dietro il bancone, e faceva dei rumori confusi, nervosi.
Era della vaniglia, il profumo che respirò, e sentire la pelle di lei morbida e setosa sotto le
mani stringendo i pugni fu appena un’illusione.
♪ Ricordi quante serate passate così... ♫
Forse se si fosse girato di nuovo e avesse agganciato i suoi occhi nocciola, se ne avesse artigliato le striature dorate…
Ma non lo fece.
♪ Canzoni d’amore che fanno ancora bene al cuore... ♫
Forse se avesse trovato una banalità da dire, se avesse indugiato fino all’arrivo di Letizia…
Non fece neanche questo.
Uscì.
Lo scooter era a terra, sdraiato sul fianco, lì dove lo aveva lasciato, bordò come di sangue
già rappreso, un pesce ferito a morte che non si dibatteva più e aspettava la fine. Gli fece
pena, avrebbe voluto prenderlo in braccio e cullarlo, consolarlo: lo tirò su con una forza che
non sentiva nelle braccia ormai molli, disossate.
Dora stava sistemando le riviste su un espositore esterno. Lo chiamò, lui non rispose. Gli si
avvicinò.
«Arturo è bloccato a letto con la schiena, stamattina ho dovuto aprire io. Ieri sera, però,
per uscire e andare chissà dove stava benissimo. Uff! Sono appena le otto e mezzo e mi
sento già così stanca che me ne andrei a casa» si lamentò.
Si lamentava sempre di Arturo, colui che aveva il privilegio di esserle marito. Francesco
annuì.
«Anzi, me ne scapperei… chissà dove!»
Francesco sapeva che Dora era infelice.
«Con Princess.»
E che era felice solo con il suo cane, un toy terrier che le somigliava in maniera impressionante. Anzi, era una proiezione della padrona. O viceversa. La fronte piatta e il muso allungato, gli occhi rotondi, piccoli e scuri, il collo lungo, le mascelle pronunciate, i denti a
forbice, i peli/capelli lisci e neri, confermavano il proverbio secondo cui chi si assomiglia, si
piglia.
Francesco annuì di nuovo, muto.
«Come va?»
Dora non sapeva che Francesco fosse infelice.
«È finita» mormorò lui, indicando con il mento la latteria.
Adesso Dora lo sapeva, e scosse il capo. Desolata, rientrò nell’edicola dopo avergli dato
un buffetto sulla spalla. Lo conosceva fin da piccolo.
Fu con gli occhi dell’anima che Francesco guardò l’insegna, Fatti Mandare dalla
Mamma, più intensamente che poté, per fissarsela in quell’angolo dove le cose restano indimenticate e indimenticabili. Chissà dove.
Era finita così la storia di un amore di miele e di spine.
Il vento iniziò a mugghiare, le nubi si sfilacciarono. Francesco salì sullo scooter, mise in
moto e si allontanò dalla piazza del Municipio, dalla latteria, dalla ragazza che amava, dai
sogni infranti.
Fu in quel momento che la terra tremò.