Liber - Mensa Italia

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Liber - Mensa Italia
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Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2005
Fermata
d'autobus
di Adriano Muzzi
S
tava lì, come tutte le mattine, rac
chiusa, a “doppia mandata”, nel
suo cappotto marrone, con un
cappello di lana e una sciarpa rossa
che facevano intravedere solo il nasino e gli splendidi occhi.
Il freddo e la nebbia non m’impedivano di godere a quella vista, e trovare il
calore necessario per sopportare l’attesa della corriera, che arrivava sempre troppo presto.
Erano anni che stava lì. Erano anni che
la guardavo e la desideravo senza riuscire a dire una parola, a farle un sorriso, un gesto.
Ogni giorno, uscendo dalla mia piccola casa, speravo che Lei fosse lì, che
stesse bene.
M
olti di Voi prediligono i gialli, i misteri; Liber non ne offre molti,
anche se vorrebbe, lo spazio c’è. Perché non tentare
d’inviarne qualcuno?
Possiamo dire che finora abbiamo a malincuore respinto pochissimo
materiale. Vuol dire che la stoffa dello scrittore, nel Mensa c’è.
Così come speriamo di verificare ancora una volta, se ce ne fosse
bisogno, con il Concorso Letterario*.
Buona lettura
Loredana Bua
[email protected]
* Al momento in cui si scrive questo editoriale è giunto un buon numero di
proposte, ma ancora manca qualche giorno alla scadenza; vi terremo informati circa l’evoluzione dell’iniziativa su Memento e Mensa News.
Il periodo peggiore era quando andava in ferie. Ora sapevo quando e per
quanto, e cercavo di fare coincidere le
mie con le sue, ma non sempre era
stato possibile.
Poi passava il suo autobus e tutto finiva, tutto diventava grigio e freddo. Il
mio passava dopo, ma io, ovviamente, arrivavo sempre molto in
anticipo. Il sonno in meno era un
sacrificio piacevole e necessario,
sempre di più.
Ma ora basta! Avevo deciso: dovevo prendere coraggio e dire
qualcosa per conoscerla o almeno provarci. Certo, c’era il rischio
di un rifiuto che avrebbe affossato ancora di più la mia vita inutile, ma dovevo provare.
Ci pensai parecchio, alla fine decisi e
scelsi la cosa più banale (ma semplice!): le avrei chiesto l’ora e poi … e poi
si vedrà, speriamo bene.
Quella mattina lasciai a casa il mio
Omega e m’incamminai, tremando,
alla fermata. Non tremavo per il freddo.
Lei era lì, come sempre. Immutabile,
bellissima, come una statua greca.
Mi sedetti sulla panchina scarabocchiata, mi rialzai, mi risedetti.
Era il momento, adesso o mai più! La
guardai e …
Lei disse, con occhi dolcissimi: “Scusi
mi sa dire che ore sono?”
Quel giorno non avevo l’orologio, ma
sono sicuro che il tempo si fermò.
Per l’eternità.
!
Gustav Klimt
Il bacio
Galleria Liber
l’Altra Copertina
“Mare”, di Katia Giannini
M
atura composizione dell’autrice, “Mare” festeggia e celebra i colori di un
tramonto sul mare, dove l’atmosfera di un vago temporale si mescola alla
sfolgorante bellezza dei colori del sole che tramonta, riflessi in un cielo a tratti ancora
azzurro. Ma le onde del mare sembrano seppellire la terra, non una spiaggia ma un
angolo di terra dove l’ignara edera verdeggia sovrana, lambita nella parte opposta
da una zona d’acqua che la conchiude in un abbraccio liquido.
Loredana Bua
Galleria Liber
è uno spazio espositivo aperto alle vostre creazioni artistiche.
Se volete, inviate a [email protected] le foto in formato gif o jpg.
Saranno pubblicate (in 4ª di copertina) e commentate.
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Montcraftid
di Gabriele Soranzo
L
a sua era un’arte. O meglio: lui
era un artista. Ed oggi, in que
st’istante, la sua arte aveva la
più completa realizzazione, o meglio
era lui stesso a realizzarsi. Aveva pazientato ventitré anni ma era come se
tutto questo tempo lo avesse vissuto
un’altra persona, un altro essere che
serviva solamente da riempitivo e da
supporto per l’artista che vi era in lui.
Ma era veramente un artista? All’inizio
della sua carriera molti lo deridevano
per questa pomposa definizione che
amava ed obbligava a darsi, ma alla
fine tutti quanti si dovettero ricredere:
la sua era veramente un’arte. Aveva
iniziato fin da piccolo, ma mai per
scherzo o per svago e sempre perché
ci credeva, sentiva che quello era il suo
destino e nulla e nessuno avrebbe
potuto impedirgli di tentare di raggiungere il suo obiettivo: la perfezione. Da
bambino questo termine gli era sembrato banale, quasi ovvio, ma appena raggiunta l’età della ‘comprensione’ qualche dubbio lo assalì e gli fece
vacillare le fanciullesche certezze che
tanta serenità e appagamento portano ai loro fortunati possessori. Partì dal
chiedersi se la perfezione esistesse,
passò dal mistero di Dio non trascurando l’angoscia del diavolo e arrivò
pure a cercare dei perché ma per fortuna la sua arte lo sorresse sempre in
una dritta via già tracciata e sicura dai
pericolosi sbandamenti che assalgono
le persone prive di carattere, le persone prive di una meta, le persone mediocri, in tre sole parole: i non artisti.
Capì che lo scopo della sua vita non
era di porsi domande né di dare risposte, ma era quello di contribuire alla
bellezza e all’armonia del mondo. E ci
riuscì. Oggi finalmente era arrivato il
gran giorno. Dicono che un istante prima di morire una persona è in grado
di vedere tutta la sua vita come in
un’immensa ed interminabile moviola,
ma questo lui non poteva sapere se
era vero perché oggi era un giorno
dedicato alla vita, al trionfo, alla perfezione, e pur tuttavia in quell’istante
vedeva nella sua mente, ad occhi chiusi, tutti gli anni già passati (a dir la verità, gli era sembrato di assistere anche a spezzoni di quelli futuri, ma que4
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sto è un altro discorso). Vedeva suo
padre, anche lui artista sebbene d’altra arte, ma che come suo nonno non
riuscì mai a raggiungere quello che lui
in questo momento si apprestava a
conquistare: la perfezione. I suoi progenitori erano stati valenti rappresentanti del mondo della cultura, chi come
pittore, chi come scultore, chi come
compositore e se il lettore avesse la curiosità di percorrere l’albero genealogico della famiglia del protagonista del
nostro racconto è improbabile non incontri qualche persona a lui conosciuta ed apprezzata, se non altro per semplici reminescenze scolastiche. Ma tutti quanti avevano fallito. Coscientemente e giudiziosamente, ma avevano fallito. Nessuno di loro era riuscito a creare quell’opera ultima, quell’opera che
da sola vale tutta una carriera, la propria opera che possa essere riconosciuta come tale da chiunque e senza dubbio alcuno di trovarsi di fronte ad un
capolavoro: erano stati tutti quanto dei
semplici manovali dell’eccellenza. Nemmeno la sua strada del resto fu facile e
per raggiungerla aveva dovuto pazientare ventitré anni. Ventitré anni in cui
non aveva ritenuto opportuno dedicare nemmeno qualche minuto nella sua
arte tanto era impegnato ad attendere
ed a creare le condizioni affinché il suo
capolavoro fosse compiuto.
Lui era un parolaio e le sue opere erano le parole.
Ma non parole qualsiasi, no, questo
no. Le sue parole erano particolari e
proprio dalla loro particolarità ricevevano forza e bellezza: erano parole inventate. E le inventava lui. O meglio.
Nessuno le conosceva, nessuno le
aveva mai pensate, nessuno le aveva
mai possedute (eh sì, perché la maggioranza delle persone pensa che le
parole si imparino, invece si possiedono), ma che esistevano. Non si sapeva dove, e neanche il nostro parolaio
lo sapeva, ma esistevano. Potevano
essere nell’incoscienza di qualcuno,
potevano stare nello sguardo di un
fanciullo, potevano stare nella bellezza di un orizzonte, potevano stare all’interno dell’orrore di un lager, nelle viscere di un moribondo abbandonato
anche dalla speranza, oppure nell’immensità dello spazio come nelle miriadi di anfratti subatomici che formano
tutto l’esistente. Nessuno sapeva dove
stavano queste parole e nessuno le
aveva mai sentite nominare, fatto sta
che quando il nostro parolaio le scopriva e le divulgava tutti quanti si rendevano conto che quelle parole in fondo al loro animo erano conosciute. E
apprezzate. E desiderate. Certo, all’inizio non era stato facile. Le prime parole scoperte dal nostro parolaio erano
accattivanti, intriganti, ammirate, ma
per la loro comprensione avevano bisogno di un contesto ben preciso, ed
il paradossale di questo contesto era
che il più delle volte questo contesto
doveva essere letterario. E questo era
motivo di grande pena per il loro scopritore. Un po’ come se un pittore potesse vedere glorificate le proprie opere solamente se messe a raffronto con
i quadri di altri pittori. Un confronto che
risulta essere un affronto. Un quadro,
un vero quadro, deve piacere per quello che è, non per la sua differenza con
altri quadri esistenti. Come nell’amore:
quando si ama veramente non si confronta, si gode. Guai all’innamorato che
dice alla sua amata: ti amo più di ogni
altra cosa. Egli non ama, egli classifica. Capitava quindi che si rivolgessero a lui le persone più disparate, i poeti
ad esempio che riuscivano a tessere le
parole già esistenti in magistrali modi
ma che a volte avevano bisogno di
qualcosa di più, di qualcosa di diverso, di una parola nuova appunto. E
questa parola, che da sola ai più non
avrebbe ancora detto molto, nel momento in cui era inserita nella poesia,
come per incanto acquistava un valore ed un significato immediato. Ovviamente anche gli scrittori si rivolgevano
a lui, ma anche professionisti meno
romantici si avvalevano con reciproca
soddisfazione delle opere del parolaio:
ad esempio politici, giornalisti, pubblicitari. E proprio perché inserita in contesti così specifici, essa si riappropriava del suo significato senza ulteriore
spiegazione alcuna. Ma quello che egli
voleva era qualcosa di più. Egli voleva inventare una parola che riuscisse
a rappresentare il tema a lui così caro,
la perfezione, senza bisogno di questi
supporti esterni, senza l’aiuto di maestranze e committenti vari che incastonassero la sua opera all’interno del loro
lavoro. Egli voleva una parola che per
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Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2005
chiunque significasse: perfezione. Punto. Ma fino a ventitré anni fa non c’era
riuscito. E questo avrebbe potuto anche sopportarlo, in fin dei conti era la
stessa sorte avuta da tanti suoi predecessori e la tanto decantata coscienza
dei propri limiti a volte può tornare utile per un quieto vivere. Tutto questo
però se ventitré anni fa non fosse successo l’evento che cambiò la sua vita:
trovò la via della perfezione ma capì
anche che in quel momento gli era preclusa e fu con orrore che stabilì che
era lui stesso a precludersela: Montcraftid. Era questa la parola che gli mancava, la parola che a lui diceva: Perfezione! Ma agli altri non diceva ancora
nulla. Era come se avesse avuto la
fortuna di aprire una finestra su quei
luoghi così inaccessibili dove risiedono le parole ancora da inventare ed
avesse visto che al concetto di perfezione si legava indissolubilmente questa parola, ma che questo legame dovesse essere ancora esplicitato. Pensò
anche di avvalersi dell’aiuto di qualche
suo amico poeta o scrittore e chiedere
a costoro di costruirgli una poesia o
un racconto che rendesse esplicito questo legame tra perfezione e Montcraftid, ma ben presto si rese conto che
stavolta l’artifizio non sarebbe stato
sufficiente. Troppa era la distanza tra
la parola e il concetto affinché altre
parole fossero in grado di spiegarla.
Pensò allora di inserirla in un quadro,
in una canzone, in uno slogan, ma
anche questi tentativi risultarono vani
ancora prima che fossero attuati. No.
La soluzione, se mai ce ne era una,
stava da qualche altra parte. Lui lo
sapeva bene, lo aveva capito subito,
aveva vissuto con questa convinzione: per poter sognare bisogna conoscere la realtà, non viceversa. Non era
ancora venuto il momento che permettesse a chiunque di capire, o meglio di
vivere, il legame tra la parola e il concetto, Montcraftid e perfezione. E non
potendo cambiare il concetto, ma nemmeno la parola (sarebbe stato come
chiedere ad un compositore di sostituire una nota con un’altra, perché così
il brano sarebbe diventato più appetibile. Forse questo sarebbe successo,
forse no, ma sicuramente non sarebbe stato quello che il compositore voleva che fosse), decise altrimenti. Montcraftid, Montcraftid, Montcraftid … ormai questa parola lo assaliva anche
di notte, di giorno diventava poi un
incubo. Nella sua nazione, nella sua
città, nel suo studio, sulla sua scrivania, su di un suo foglio vergato con
una sua penna, con le sue idee, stava
scritta la più bella parola che avesse
mai inventato, la migliore, eppur tuttavia non poteva ancora pubblicarla in
quanto troppo distante dal comune
sentire. L’artista si rese conto che nessun’ altra sua opera avrebbe avuto più
senso, perché non esistendo in tutto
l’universo due cose uguali era inutile
cercare qualcosa che già conosceva e
quasi già aveva, ma non poteva ancora raggiungere. Abbandonò quindi
l’attività pratica della sua arte, uscì dal
suo dorato isolamento e si immerse nel
mondo comune, nel mondo pratico,
nel mondo degli altri. Ma non dimenticò mai la sua parola quasi perfetta. Si
trovò un lavoro come correttore di bozze presso un quotidiano, allargò la sua
cerchia di amici (la qual cosa gli risultò
abbastanza facile visto che prima era
un punto senza dimensioni), incontrò
la donna della sua vita che ben presto
sposò, ed infine ebbe un figlio. Fu
come un’illuminazione. Trasferì il suo
amore per la perfezione al figlio e questi lo ricambiò scegliendo anch’egli la
propria arte, un’arte che della perfezione ne fa il suo vessillo e la sua meta: la
matematica. Il padre gli insegnò non
tanto le formule, le regole e le attinenze
con il mondo teorico e pratico (a questo ci pensarono i valenti professori a
cui la giovane mente si affidò per quel
passaggio fondamentale dell’arte chiamato studio e impegno), ma in compenso gli spiegò la bellezza della realtà, dell’esistente, della mancanza totale di ipocrisia e mistificazione, della
perfezione. E quando il figlio ventitreenne, finora emerito sconosciuto se
non nella stretta cerchia degli atenei e
dei fisici teorici, venne insignito del premio Nobel a seguito del suo fondamentale contributo alla creazione del modello matematico che spiega tuttora la
struttura fisica dell’universo, nessuno
dei presenti alla prestigiosa cerimonia
si riuscì a spiegare due cose: la risata
liberatoria ed un po’ folle di suo padre
e quel nome così strano per una persona di qualsiasi paese: Montcraftid.
Katia Giannini
ter-graphic, sovrapponendo varie fotografie – che non verso espressioni accademiche, tradizionali – disegno, pittura.
Se si dovesse descrivere in una sola frase,
direbbe: “sono disperatamente bisognosa
di conoscere”.
spron battente a Scienze delle Comunicazioni. Non si contano più le sue partecipazioni ai concorsi di fantascienza e i riconoscimenti ricevuti: riempiremmo delle pagine di Liber! Su alcuni Liber, ha pubblicato il
racconto breve Buon compleanno! e il suo
il suo racconto fantastico “Mosé DVD” ed
altri racconti.
Katia Giannini vive a Grosseto dal 1969,
anno di nascita. Insegnante ed educatrice
d’infanzia, si dedica a numerose attività ed
interessi che spaziano dall’arte alla letteratura sino alle scienze.
Le grandi passioni della vita che le occupano gran parte della giornata sono la matematica e l’insegnamento.
Ama ascoltare la musica ed ama moltissimo il teatro, non solo come spettatrice: ha
pensato più volte di iscriversi ad un corso
di recitazione.
Vorrebbe impegnarsi come “volontaria del
sorriso” e spera che prima o poi anche a
Grosseto possa nascere in pediatria una
“politica del sorriso” e vestendosi da clown,
perché no, poter portare allegria a bambini
che ne necessitano veramente.
Propende in modo più marcato verso
espressioni artistiche alternative - compu-
Adriano Muzzi
Nato nel 1966, Adriano Muzzi vive a Roma,
dove lavora presso una società di telecomunicazioni. Appassionato di fantascienza
– Asimov, Ridley Scott -, ha frequentato la
scuola di scrittura creativa Omero di Roma.
E’ stato insignito di una segnalazione al Premio Omelas 2001 per il racconto “La consegna”; è stato finalista al Premio Fantabassiano “Douglas Adams”2002 con il racconto “Dipendence Day”. Attualmente finalista
al Concorso Galassia e al Concorso F.
Brown, è recentemente diventato papà di
una bellissima bambina e supera esami a
!
Gabriele Soranzo
Gabriele Soranzo è nato a nel 1967 a Trieste e lavora come Imprenditore di una piccola softwarehouseDiplomato in Ragioneria, ama la lettura ed il gioco, inteso come il
porre su un piano di privilegio l’aspetto ludico e giocoso della vita stessa. Sul Commensale ha già pubblicato il suo racconto
L’uomo che non voleva volare. Ha presentato un suo racconto in quattro parti, intitolato Nessun urlo. Qui, un’altra sua creazione.
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Dal diario di
un medico: il mio
piccolo andrea
di Cecilia Deni
H
o cominciato a lavorare da me
dico nel 1985. Sostituivo un col
lega che aveva ed ha l’ambulatorio abbastanza vicino a casa mia e
che abita a cinquanta metri da me. Era,
ed è, un uomo organizzato, preciso,
attento pianificatore. Ogni anno tra febbraio e marzo mi telefonava e mi dettava il suo piano ferie. Qualche giorno
prima della sostituzione lo andavo a
trovare in studio e mi passava le consegne: c’è questo così, per quello
aspetto il tal esame, quest’altro è da
tenere sotto controllo per via di una
terapia nuova, questi sono quelli con
la morfina, eccetera.
Allora pochi medici usavano la morfina. Quando ci conoscemmo per la prima volta, tra le domande che mi fece
ci fu: hai già fatto delle sostituzioni? Io
ne avevo fatta una, di due giorni, perciò potei rispondere si a testa alta, sicura di non mentire. La seconda domanda fu: hai il ricettario giallo, quello
per gli oppioidi? Non l’avevo, ma risposi con sicurezza “non c’è problema”.
Finito il colloquio mi precipitai all’Ordine per farmelo consegnare.
Ora divago un po’, ma sono debitrice
al collega per questo. In un momento
storico nel quale il medico con la morfina in borsa correva rischi sia da parte
dei tossici che da parte della legge,
Francesco mi mise di fronte alle necessità dei pazienti prima di tutto. Non
c’era lo sciroppo di morfina, allora, solo
le fiale, da fare ogni sei ore, e cominciava appena ad esserci la formulazione per bocca a lento rilascio, in compresse, impraticabile se il malato aveva problemi di disfagia. Ma i pazienti
di Francesco morivano senza dolore,
o almeno con un dolore accettabile. E
lui portava in borsa il cloridrato di morfina, la pentazocina ed anche il naloxone, sempre; così, con davanti un
esempio di pratica e coraggiosa naturalezza, mi è parso semplice ed ovvio
fare altrettanto. Non ho ancora mai
usato il naloxone, rinnovo la fiala quando scade, ma la morfina e la pentazo-
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Raffaello, Madonna della seggiola
cina mi sono state utilissime; ricordo
una volta in montagna, di domenica,
e la locale farmacia di turno aveva solo
due fiale di morfina ed erano scadute,
l’ospedale l’aveva, ma non poteva cederla per nessun motivo, la mia era
l’unica disponibile nel raggio di cinquanta chilometri ed è stata a malapena sufficiente a coprire le ultime venti
ore di vita di una paziente terminale.
Anche oggi. Oggi che l’uso degli oppioidi è facilitato ed incoraggiato, che
ci sono ricettari semplificati e nessun
rischio di colpevolizzazione per il medico che se li porta dietro, mi capita la
richiesta di un collega di studio: ce l’hai
una fiala? Oppure lumi su come stabilire il dosaggio, su come passare da
un farmaco all’altro: pensare che in
realtà è facilissimo, manca l’abitudine
a considerarlo tale.
Fine della digressione.
Francesco aveva tra i suoi pazienti una
famiglia con un bambino di allora sette - otto anni, che la madre aveva preferito far seguire da lui anziché lasciarlo con il pediatra. Emofilico. Un bambino bello ed intelligente. Nel giro di qualche anno aveva preso a venire personalmente a farsi fare le ricette e le richieste: aveva l’aria seria, uno sguardo diretto ed attento, cresceva sotto i
miei occhi da un anno all’altro, noi donne, e mamme, siamo particolarmente
sensibili a queste gratificazioni della
vita, mi sentivo orgogliosa di contribuire per la mia parte a questa piccola
vittoria sulla sfiga, rivedere Andrea era
particolarmente gratificante.
Nel maggio dell’89 non lo fu più. Andrea aveva l’AIDS.
Sento gente dire menate su questa
malattia, li sento dire che sarebbe un’invenzione, che il virus non sarebbe pericoloso, che i medici avrebbero ingigantito, falsato, demonizzato o che so
io, vorrei che fossero venuti con me a
casa di questo mio bambino.
Venite, avanti, seguitemi!
Saliamo al secondo piano di una palazzina anni cinquanta, senza ascensore, con i gradini di graniglia grigia ed
i pianerottoli di quelle mattonelle esagonali di cotto, lucidate a cera, Oltre la
massiccia porta di castagno, un corridoio col pavimento in palladiana. La
cameretta di Andrea è la seconda porta a sinistra. Il letto è sistemato sotto
una struttura a ponte, carica di libri,
pupazzi, giochi. Uno stereo è sempre
acceso. Andrea non parla più da alcuni mesi. Il virus ha colpito la sostanza
bianca del cervello, una leucoencefalite, a volte capita. Piano piano ha perso la capacità di muoversi, di alzarsi,
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Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2005
camminare, parlare. I medici, mi dice
suo padre, sostengono che non ci sente più, che è diventato sordo, ma si
sbagliano. Ci sente benissimo, e capisce benissimo, anche. Mi guarda fisso, capisco che mi sta avvertendo.
Ch’io badi a quel che dico, ho davanti
un bambino intelligente, non un vegetale. La madre ha pochi anni più di me,
è sciupata, non piange, ha una specie
di sorriso lieve sul volto, ma si stringe
le mani una con l’altra, così forte da
sbiancarsi le dita.
Mi avvicino, poso la borsa, saluto Andrea, ciao, gli dico. Comincio a visitarlo, è febbricitante, sudato. Inequivocabilmente reperisco i segni di un esteso
focolaio broncopolmonare, a destra.
Come al solito, si potrebbe dire. Ne fa
uno dopo l’altro. Lo visito delicatamente, gli accarezzo la fronte, non porto i
guanti, anche se la madre me li ha indicati, sul ripiano, entrando. Mentre lo
adagio sui cuscini gli poso un bacio
sulla fronte, vergognandomi, un po’.
Andrea mi guarda, apre la bocca e dice
“Ao”
Sua madre esclama sorpresa “oh”. Mi
tira da parte e dice: l’ha salutata, ha
sentito? Erano giorni che non parlava,
e le ha detto ciao! Lo ripete al marito,
un po’ allegra, un po’ agitata, come se
fosse la notizia dell’anno. L’ha salutata, ha capito chi è, l’ha riconosciuta,
ha parlato!
Ci sediamo in cucina, faccio rapporto,
spiego, ricetto un antibiotico, nuovo,
una cefalosporina orale. La mamma mi
saluta, accompagnala tu, dice al marito, io torno da Andrea.
Siamo sulla porta, il padre di Andrea
esce sul pianerottolo con me, le chiavi
in mano, se la chiude alle spalle. Questo Suprax, mi dice, è un antibiotico,
ho capito bene?
Si, dico, si.
Serve a curare la broncopolmonite anche stavolta, è così?.
Si, è così.
Ho parlato con gli specialisti, nell’ultimo ricovero, ho firmato la cartella e me
lo sono portato a casa. Ho fatto loro
molte domande ed ho ascoltato le risposte, ma le voglio fare anche a lei.
Va bene, faccia.
I farmaci che gli diamo, sono antibiotici, cortisonici, vitamine, altra roba: ce
n’è uno che curi la malattia, che contrasti il virus? O solo i sintomi?
Solo i sintomi, dico. (Allora non c’erano ancora i farmaci antiretrovirali, praticamente non c’era quasi niente).
Con questo antibiotico gli passa la febbre, respira meglio, si riprende un po’,
esatto?
Si, esatto.
Cosa succede se non glielo do?
Muore di broncopolmonite.
E se glielo do?
Guarisce dalla broncopolmonite.
Per un altro paio di settimane, giusto?
Fino alla prossima, è così?
Si, fino alla prossima.
Quando gli daremo ancora del Suprax
o che so io?
Si, antibiotico, ossigeno, cose così.
Finché non muore lo stesso, giusto?
Si, dico, si.
Solo che sopravviverà e soffrirà un’altra manciata di mesi, un giorno dopo
l’altro, eh?
Annuisco. Forse non mesi, aggiungo.
Lei non lo sa cosa vuol dire vederlo
soffrire, anzi vederli soffrire, perché mia
moglie è forse lei che soffre di più.
Andrea sputa sangue, tossisce, non
respira, sua madre si consuma dal
dolore senza sanguinare, ma è lacerata dalla consapevolezza e dall’impotenza.
Lo vedo, dico, lo vedo anch’io.
Ora lei mi consegna questa ricetta, io
sono qui, con la ricetta in mano, cosa
pensa lei se adesso la metto sul quel
ripiano e lascio che si copra di polvere? O se la butto nel rusco, o se la strappo qui di fronte a lei?
E’ suo figlio, la decisione su cosa per
lui è il meglio le appartiene, appartiene
a lei e a sua moglie.
Lasci stare mia moglie, non voglio caricarla di un altro peso. Qui siamo io e
lei. Cosa farà lei se io decido di non
curarlo più?
Lo guardo negli occhi, come non ho
osato fare negli ultimi minuti. Vuole
sapere se lo denuncerò? Se lo disapproverò? Ho le lacrime agli occhi e lui
adesso le vede.
Pregherò, dico, è tutto quel che mi rimane da fare.
Ci stringiamo la mano, ci salutiamo
senza altre parole. E’ stato detto tutto.
Sapete, il mio secondo figlio si chiama
Andrea.
!
Sig
Accademia Alighieri
D
edicato alla lingua italiana,
alle opere in prosa e in
poesia.
E’ già uscita la prima “lezione”
di scrittura creativa, ovviamente
disponibile per chiunque la
desideri.
Oltre a suggerimenti vari,
contiene anche una serie di
“esercizi” adatti per sfogare le
nostre velleità artistiche.
Per informazioni e per iscriversi
alla mailing list scrivere alla
coordinatrice Loredana Bua
([email protected]).
Ricordiamo ai Lettori che i primi 9
numeri di Liber sono disponibili
nell’area riservata del sito mensa.it
nella sezione download.
Cecilia Deni
Medico di famiglia con un migliaio di
pazienti sparsi prevalentemente tra
Lavino ed il Reno, Cecilia Deni è nata
in Sardegna nel 1957. Cresciuta tra il
Sarrabus ed il Campidano, ha frequentato a Cagliari il liceo classico ed il biennio di Medicina. Trasferitasi a Bologna, vi ha conseguito la laurea nel
1984, insieme ad una specializzazione in Medicina dello Sport, un’abilitazione in psicoterapia che però non utilizza, il biennio di formazione in Medicina Generale e un particolare genere
di Master in comunicazione. Sposata a
un bolognese, ha due figli, che definisce “i grandi amori della mia vita”.
Si dichiara lettrice accanita, compulsiva, e molto istintiva: dalla narrativa di
genere, soprattutto FS, a quella per ragazzi, saggistica, fumetti, classici, poesia, teatro, umoristica, di tutto un bel
po’.
Tranne il tedesco, ha imparato i fondamenti delle principali lingue europee –
francese più che bene, poi inglese e
spagnolo – e dice di aver viaggiato
poco per cronica mancanza di denaro.
Ama ascoltare musica, andare a teatro, fare lavori manuali, soprattutto ricamo e falegnameria; si definisce cuoca passabile ma appassionata. Eclettica come spesso molti Soci del Mensa,
si interessa di cure palliative, tanatologia, bioetica.
Infine, dice di sé: “Sono irrimediabilmente e piacevolmente golosa e grassa.”
Leggeremo un’altra pagina dei suoi ricordi professionali.
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