La nozione di look-alike: la illeicità - Seconda Relazione

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La nozione di look-alike: la illeicità - Seconda Relazione
IL PROBLEMA DEI LOOK-ALIKE:
I GIUSTI LIMITI ALLA "LIBERTÀ DI IMITARE"
11 giugno 2003
Federica Santonocito
Lorenza Mosna
Avv. Ass. Franzosi Dal Negro Pensato Setti
Milano
IL LOOK-ALIKE: “SAILING TOO CLOSE TO THE WIND”
1.
La definizione di look-alike.
Nei paesi anglosassoni (in particolare negli Stati Uniti), il tema relativo all’imitazione di prodotti,
e/o di confezioni di prodotto, viene indicato col termine look-alike (o me too).
Look-alike indica la somiglianza di prodotti e/o di confezioni di prodotto per la loro immagine
esteriore. Per immagine si intende il rivestimento esteriore del prodotto (che può essere una scatola
o una bottiglia o altro contenitore o il prodotto stesso) comprensivo di tutto ciò che appare
visivamente all’esterno (colori, forme, scritte, disegni e/o figure).
Look-alike significa “sembra come”, “simile a”.
Si ha look-alike tutte le volte in cui l’impressione generale di un certo prodotto B fa sì che questo
venga considerato lo stesso di un prodotto più noto A (con un marchio più noto) attraverso la
adozione sul prodotto B di certe caratteristiche del confezionamento, che i consumatori
normalmente associano con quel determinato prodotto A. In buona sostanza, si ha look-alike tutte le
volte in cui due prodotti si assomigliano per le loro caratteristiche esteriori del modo di
presentazione (colori, scritte, figure, forme). Il prodotto meno noto che nel suo insieme richiama il
prodotto più noto risponde ad una precisa logica, e cioè: “the … subtle goal of look-alike packaging
is to hijack the reputation and the symbolism of the famous brand. To give two products a virtually
visual appearance is to imply a similarity of quality, taste or efficiency” 1 .
Per quello che qui interessa, si pensi ai prodotti di grandi catene distributive (Coop, Esselunga,
Despar, ecc.), c.d. “own brand product”. Tali prodotti presentano, talvolta, (spesso) confezioni
molto simili a quelle di marchi notori e solitamente vengono vendute ad un prezzo inferiore.
2.
La tutela contro il look-alike in Europa: gli orientamenti della giurisprudenza e della
dottrina.
Il fenomeno del look-alike trova un’adeguata considerazione giuridica più all’estero che in Italia.
In particolare, i giudici inglesi si sono occupati del fenomeno del look-alike. Qui di seguito
menzioniamo alcune decisioni tra le più interessanti.
Nel caso Spalding & Bros c. AW Gamage Ltd.2 , il Giudice precisò che in un’azione di passing off di
prodotti che si assomigliano per il marchio e l’immagine globale della confezione, è necessario
dimostrare, non solo la sussistenza di una confusione (oggettiva) tra i due prodotti, ma anche che il
consumatore è indotto a credere che i prodotti del convenuto (imitati) provengono dall’attore.
Occorre, dunque, la volontà di “copiare per ingannare”.
1
2
Dall’articolo Brand of logic, apparso sul quotidiano inglese The Times il 20 aprile 1994.
1915, 32 RPC 279, 284.
1
Nel caso JPF 3 , l’attore ebbe a promuovere un’azione di passing off a seguito dell’immissione sul
mercato delle sigarette “Raffles” vendute in una confezione nera con le scritte oro del tutto simile al
famoso pacchetto delle sigarette John Player Special.
Qui di seguito sono riportate entrambe le confezioni.
In quell’occasione, il giudice non concesse il provvedimento di inibitoria richiesto dal titolare del
marchio John Player Special; infatti, il giudice ritenne che gli elementi figurativi e denominativi
riprodotti sulla confezione delle sigarette John Player Special, non avessero sufficiente capacità
individualizzante. Infatti sul mercato venivano vendute sigarette in pacchetti di colore nero anche
se, tuttavia, al momento della causa, nessun altro marchio era così conosciuto come il marchio John
Player Special.
Esito positivo ha avuto, invece, l’azione promossa da Reckitt & Colman Products nel caso Jif
Lemon 4 . Il caso riguardava la confezione dell’attore per succo di limone, avente la forma e il colore
del limone. Il Giudice affermò che la particolare confezione adottata dall’attore fosse dotata di
carattere distintivo – distintività acquisita anche grazie all’uso decennale da parte del produttore.
Anche il caso Marmite 5 ha avuto esito positivo: il prodotto a marchio Sainsbury’s (nota catena di
distribuzione inglese) riproduceva la confezione dell’estratto di lievito Marmite, e pertanto ne fu
inibito l’uso.
Altro esempio di imitazione del packaging da parte di un “own brand product” si rinviene nel caso
Puffin 6 , in cui il giudice ha riconosciuto la contraffazione del marchio e della confezione di biscotti
3
Imperial Group plc & Another c. Philip Morris Ltd & Another, 1984 RPC 293.
Reckitt & Colman Products Ltd c. Borden Inc, 1990 RPC 341.
5
Beecham Group plc & Another c. J Sainsbury plc, 1987, inedita. Il giudice non ha concesso l’inibitoria poiché
mancava il pericolo in mora, non era stato dimostrato il rischio di associazione. La causa è poi stata abbandonata.
6
United Biscuits (UK) Ltd c. Asda Stores Ltd, 1997.
4
2
al cioccolato contrassegnati dal marchio “Penguin” da parte del marchio e della confezione Puffin
della ASDA (nota catena distributiva).
Significativi i seguenti casi di riproduzione di confezioni di note marche da parte dei supermercati
inglesi Sainsbury’s.
Interessante è, infine, il caso Red Bull 7 , in Australia, in cui il giudice ha ritenuto che la confezione
del concorrente (Limewire) fosse così simile all’originale slimline di Red Bull da ingenerare un
rischio di confusione tale che anche l’apposizione di un marchio completamente diverso non fosse
idonea ad escludere la responsabilità per concorrenza sleale. Per usare le parole del giudice
australiano “LIMEWIRE drinks were sailing too close to the wind”.
2.1 La dilution e la misappropriation
Così la dottrina e giurisprudenza straniera sopra ricordate, accanto all’azione di passing off, che
richiede presupposti molto rigorosi, ha elaborato altre possibili forme di tutela del packaging dei
prodotti, tra cui la cosiddetta azione di “dilution”. Il concetto di dilution viene identificato con la
perdita di distintività. Un autore americano ha definito la dilution (in relazione al marchio) come:
7
Sydneywide Distributors Pty Limited v. RED BULL Australia Pty Limited, PricewaterhouseCoopers Legal, 2002,
Winter Edition.
3
“Il continuo uso di un marchio simile a quello del titolare, che determina inevitabili conseguenze
negative sulla capacità distintiva del marchio del titolare e, se egli non si adopera per prevenire
tale uso, il suo marchio perderà interamente la sua capacità distintiva. Questo attacco differisce
notevolmente dal concetto di confusione. Questa confusione determina immediatamente un danno,
mentre la dilution porta inevitabilmente alla distruzione del valore pubblicitario del marchio” 8 .
Il concetto di dilution non è stato considerato allo stesso modo in tutti i Paesi. In particolare, la
teoria della dilution si è sviluppata negli Stati Uniti e, nella Comunità Europea, in Germania e Gran
Bretagna.
Negli Stati Uniti, i giudici hanno stabilito che per avere successo in un’azione di dilution occorre
che il titolare del marchio dimostri il cosiddetto “likelihood of injury” (rischio di danno) alla
reputazione commerciale e la perdita di distintività del cosiddetto “distinctive quality” del
marchio”. È stato detto, da più parti, che il concetto di “distinctive quality” riguarda i marchi con
una significativa reputazione, o marchi con un ben fondato secondary meaning.
In Europa, il concetto di dilution ha ricevuto una diversa interpretazione.
Per esempio, in Germania, la dilution è stata sviluppata per proteggere i marchi notori. Gli elementi
importanti che vengono tenuti in considerazione dalle Corti tedesche riguardano l’ambito in cui il
marchio è conosciuto; se esso viene usato seriamente ed effettivamente, ed il pubblico di
riferimento (sono state, per esempio, avviate con successo azioni di dilution dai titolari dei famosi
marchi 4711, Roll Royce e Whisky Dimple).
In Inghilterra, la teoria della dilution si è sviluppata molto più recentemente che negli Stati Uniti. Il
nuovo Trademark Act del 1994 è il primo statuto inglese che ha riconosciuto la dilution in pratica,
anche se non espressamente (la sezione 10 che riguarda la contraffazione del marchio e la sezione
10.3, disciplina l’ipotesi dell’uso di un marchio simile o identico su prodotti differenti che
costituisce contraffazione, se il marchio gode di reputazione nel Regno Unito, e l’uso del segno è
idoneo a determinare perdita di capacità distintiva o di reputazione al marchio).
Infine, tutti i Paesi che prevedono una legge di concorrenza sleale hanno previsto, come strumento
alternativo alla tutela delle azioni concernenti il look-alike dei prodotti, un’azione di concorrenza
sleale, in particolare per la cosiddetta “misappropriation”.
Il concetto di misappropriation sta ad indicare l’ipotesi in cui il produttore del prodotto che, per il
suo aspetto esteriore, assomiglia ad un prodotto più conosciuto, si sia appropriato dello sforzo
creativo del primo produttore. E ciò indipendentemente da un rischio di confusione tra i due
prodotti. Questa è l’impostazione tenuta anche dalle Corti francesi, per esempio in relazione alle
azioni di concorrenza sleale e di cosiddetto parassitismo (o imitazione servile) dove i Tribunali
guardano alle caratteristiche del packaging del prodotto, così come esso appare sul secondo
prodotto, al fine di stabilire se questo packaging trae origine dal primo, oppure no. A questo
proposito, ricordiamo il caso della “Classic Cola” che ottenne, con successo, una condanna in
Francia di un produttore di Cola in bottiglie simili alla più famosa Coca Cola.
3.
La tutela contro il look-alike in Italia
3.1
La confezione del prodotto: marchio o cos’altro?
La tutela della confezione di un prodotto induce ad alcune riflessioni. Occorre, prima di tutto,
stabilire se la confezione sia un segno oppure no.
Riterremmo che i giudici tendono troppo spesso a sottovalutare il ruolo della confezione del
prodotto. I magistrati danno maggiore importanza ai marchi apposti sulle confezioni, più che alla
confezione in sé, cioè intesa come un insieme di colori, di forme, di scritte, di immagini che
trasmettono messaggi importanti al consumatore. Nelle motivazioni dei giudici che si sono occupati
di imitazione di confezioni, il principio diffuso e generalizzato è quello di considerare la confezione
del prodotto come priva di capacità distintiva. Il giudice spesso ritiene che la confezione è un
insieme di simboli diffusi, banali, non individualizzanti, dunque non meritevoli di protezione.
Questa impostazione non è corretta. Stabilire se una confezione sia dotata di capacità distintiva, non
dipende assolutamente da ciò che è riprodotto sulla confezione, bensì da come questa immagine è
8
Callmann, The Law of Unfair Competition and Trademarks, 2nd edition 1950, 1643.
4
percepita dal pubblico dei consumatori. Non sono le singole parole o le singole immagini a
conferire un ruolo distintivo alla confezione del prodotto; è l’insieme di tali elementi che rende una
confezione un vero e proprio segno.
La capacità distintiva non va ricercata in una parola piuttosto che in un colore o in un’immagine; la
capacità distintiva è data da tutta la confezione, dalla sua immagine globale. Non possiamo
scomporre le immagini e le parole della confezione di un prodotto; non possiamo porci di fronte ad
una confezione con visione atomistica 9 . E allora, occorre cambiare l’impostazione.
La confezione, di per sé, ha un ruolo attrattivo e significativo per il consumatore, e per tale motivo
essa assume sempre più importanza, non solo per la comunicazione di un’azienda, bensì proprio nel
determinare la decisione all’acquisto del consumatore: una bella confezione (con disegni particolari
o con una forma originale) faciliterà la decisione 10 .
In un articolo pubblicato in Internet e riferito alla Fiera Pack-Mat di Bologna, tenutasi nel febbraio
2002, si legge 11 : “Forza del brand e personalità del prodotto trovano nel design la loro massima
espressione: ‘Pensiamo alla bottiglia della Coca Cola. Si potrebbe eliminare l’etichetta adesiva,
verniciare il vetro di bianco e quanto otterremo sarebbe comunque riconoscibile come bottiglia di
Coca Cola”.
Il prodotto si presenta con un insieme di caratteristiche, una delle quali (ma solo una delle tante) è il
marchio. La reazione del consumatore, in relazione al prodotto, dipende da quell’insieme di
caratteristiche non, invece, soltanto dal marchio. Tra queste caratteristiche, una delle più importanti
è proprio la confezione in cui è racchiuso il prodotto. Il marchio identifica nella mente del pubblico
un prodotto, separandolo dai prodotti concorrenti, utilizzabili per la soddisfazione dello stesso
bisogno. Ciò non può che avvenire, nella mente del pubblico, ricollegando i prodotti, così separati,
ad una fonte comune, ad un comune trattamento, ad una comune origine e, cioè, ad una comune
impresa da cui i prodotti provengono. Il marchio identifica i prodotti di un fabbricante o un
venditore, distinguendoli da quelli venduti o usati da altri.
Occorre, ora, chiarire che cosa sia il prodotto. I prodotti sono acquistati e consumati non solo per
quello che sono, ma anche per quello che essi significano per il consumatore.
L’aspetto che viene subito considerato è la sua struttura fisica. Nel processo che porta alla
soddisfazione del bisogno umano, si devono però tener presente molti altri aspetti, quali il
confezionamento, la garanzia, il colore, il modo di distribuzione, il marchio, l’immagine
dell’azienda, il prezzo, la pubblicità, ecc. Tutti questi aspetti hanno rilievo per far sì che un prodotto
sia un prodotto e non un altro. Quanto alla confezione del prodotto, essa possiede un’attitudine a
distinguere, attitudine dimostrata dall’uso. E così, indipendentemente dal marchio denominativo
apposto sulla confezione, il consumatore percepirà la provenienza di quel prodotto da una certa
fonte produttiva, anche per effetto del confezionamento. Si faccia un esempio semplicissimo. Si
pensi ad una confezione di biscotti caratterizzata da una particolare forma, colore e figure, che
riporta anche un marchio denominativo. Si pensi ad una confezione di biscotti Mulino Bianco: il
marchio denominativo è “Mulino Bianco”, mentre la confezione riporta anche un insieme di simboli
denominativi e/o figurativi. Per capire se la confezione possa essere idonea a distinguere quei
biscotti come provenienti da Barilla e non da altra fonte produttiva, immaginiamo la confezione
9
A questo proposito, correttamente, un magistrato napoletano, in una recente ordinanza dell’11 luglio 2000, ha detto:
“Quel che rileva (ed è sanzionabile se imitato pedissequamente) è l’assemblaggio, la composizione di tutti tali elementi
in una confezione: appunto il packaging”. Interessante anche il passaggio successivo nell’ordinanza: “In definitiva, e
nonostante la presenza di questo o di quell’elemento comune (ma mai di tutti contestualmente),la confezione Gran
Turchese non è mai confondibile con le altre; ad una grammatica comune, vale a dire gli elementi di partenza (tazza,
biscotti, ecc…) corrisponde una sintassi (composizione) differenziata e non confondibile”.
10
La rilevanza della confezione non è fenomeno ignoto al giudice nel campo del diritto industriale. Si pensi ai brevetti
per modello ornamentale: parte della giurisprudenza e della dottrina hanno affermato che l’originalità (in un brevetto
per modello ornamentale) deve essere intesa con quel “quantum di diversità della forma, oggetto di brevetto, dalle
forme preesistenti, che deve essere idonea ad essere percepita e presa in considerazione dal consumatore medio al
momento di decidere la convenienza dell’acquisto” (così VANZETTI, in questa rivista, 1994, parte I, 319). Questa
opinione è condivisa anche della Corte di Cassazione (Cass. 1995/484).
11
Tenutasi a Bologna dal 7 al 9 febbraio 2002. Il contributo è di Andrea Giollo, partner dello studio di design Giò Rossi
e Associati, www.pack-mat.com/packmat2002/
5
senza il marchio “Mulino Bianco”. Ebbene, il consumatore, in mezzo a molte altre confezioni di
biscotti, (in ipotesi, prive anch’esse di marchio) sarà in grado di riconoscere quella confezione come
proveniente da una specifica fonte produttiva. In altre parole, il consumatore riconoscerà la
confezione Mulino Bianco di Barilla anche se priva del marchio nominativo. In questo caso,
diciamo, allora, che la confezione di un prodotto diventa segno quando sia idonea a suscitare nella
mente del consumatore il collegamento tra il segno ed il prodotto. Per tale segno usiamo il termine
“marchio”.
3.2
I casi giurisprudenziali italiani di look-alike
In Italia non esiste una trattazione del look-alike.
Il fenomeno è disciplinato dalla giurisprudenza attraverso la fattispecie della concorrenza sleale per
imitazione servile (art. 2598 c.c. n. 1).
Le decisioni sono piuttosto rare. Tra queste merita attenzione la decisione del Tribunale di Verona12
(forse una delle prime), che ha riconosciuto confondibili due confezioni di dentifricio (di seguito
riprodotte).
Un’altra decisione è l’ordinanza del Tribunale di Napoli, 11 luglio 2000 (successivamente revocata
in sede di reclamo) 13 .
Il caso riguardava l’imitazione della nota confezione dei biscotti Gran Turchese di Colussi da parte
della società Elledì (qui di seguito sono riprodotte le due confezioni):
La decisione napoletana ha, per la prima volta, parlato di look-alike. Secondo il giudice che ha
esaminato la fattispecie, il look-alike non può essere disciplinato ricorrendo al punto 3 dell’art. 2598
c.c. in tema di concorrenza sleale (attività non conforme ai principi della correttezza professionale)
ma piuttosto in quella disciplinata al n. 1 della stessa norma (imitazione servile confusoria). In
particolare, è stato ritenuto che l’apposizione sulla confezione di un marchio denominativo
differente, non esclude il rischio di confusione per il consumatore, che vedendo una confezione
assolutamente simile in tutti i suoi elementi denominativi, figurativi e di colore, alla più nota
confezione di biscotti che egli, abitualmente, è solito comprare, sarà indotto a ritenere o che quella
confezione proviene da Colussi o che, quanto meno, tra quella confezione, che non proviene da
12
Tribunale di Verona, (ord.), 21 settembre 1992, caso Farmaceutici Dr. Ciccarelli S.p.A. contro Lidl Italia S.r.l.,
inedita. Per un breve commento si veda EIPR 1992, D-238.
13
Tribunale di Napoli, 13 settembre 2000.
6
Colussi, vi sia un collegamento all’azienda Colussi. Il magistrato napoletano ha, per la prima volta,
allora, introdotto un concetto di rischio di associazione in ambito di concorrenza sleale. E’ stata
riconosciuta, alla confezione, la qualifica di segno distintivo dell’azienda.
È ancora il Tribunale di Napoli 14 ad affermare la sussistenza della fattispecie di concorrenza sleale
in un caso di imitazione servile (della forma e) della confezione delle patatine Cipster della Saiwa
da parte di un produttore meno noto.
Di segno opposto il Tribunale di Bergamo 15 , che ha negato il rischio di confusione tra le confezioni
di grissini “Fagolosi” della Grissin Bon e “Amor di Pane” della società Oscar S.p.A.
Il Tribunale di Bergamo, peraltro seguendo un orientamento giurisprudenziale assai diffuso, ha
ritenuto che l’apposizione di marchi diversi sulle confezioni (da un lato “Fagolosi” e all’altro
“Amor di Pane”) fosse sufficiente ad escludere ogni rischio di confusione per il consumatore,
indipendentemente dal fatto che le due confezioni presentassero elementi tra loro molto simili.
Inoltre, nel caso specifico, il Tribunale ha ritenuto che la confezione “Fagolosi” non potesse essere
dotata di capacità distintiva, perché riproducente elementi, di per sé presi, privi di capacità
distintiva. L’errore in cui, a nostro avviso, è caduto il Tribunale, è stato quello di valutare la
confezione separando i singoli elementi, non tenendo conto dell’insieme degli stessi e della loro
combinazione. Anche la combinazione di elementi, di per sé noti, può essere idonea a distinguere
un certo prodotto in mezzo a tanti altri simili, quando il consumatore percepisca tale combinazione
come avente un significato.
3.3
La tutela della confezione del prodotto: legge marchi o concorrenza sleale?: un falso
problema.
La confezione di un prodotto è un marchio quando e se dotata di capacità distintiva. La confezione
del prodotto può essere un marchio registrato o marchio di fatto (quest’ultima è l’ipotesi più
frequente). Nel primo caso, non c’è dubbio che la confezione del prodotto dovrà essere trattata alla
stregua di tutti gli altri marchi tradizionali. In tal caso, troveranno applicazione i principi contenuti
nella legge marchi. Nel caso, invece, che la confezione non sia registrata come marchio, il problema
posto da dottrina e giurisprudenza è se il marchio di fatto debba essere protetto mediante il ricorso
ai principi della tutela della concorrenza sleale o, invece, mediante il ricorso alla tutela derivata, con
opportuni adattamenti, dalla disciplina del marchio registrato.
Ci sembra oramai acquisito che nella sostanza la questione non sia rilevante. In definitiva, la
violazione della norma sulla concorrenza sleale è sanzionata allo stesso modo della violazione delle
norme sul marchio registrato.
Piuttosto, occorre osservare che la fattispecie della concorrenza sleale non può essere fotografata in
forma tipica, statica, ed è, per così dire, “a geometria variabile”. Ciò che è considerato concorrenza
sleale oggi poteva non esserlo in passato e non lo sarà domani. La moralità del mercato cambia con
l’evolversi del tempo. Non solo cambiano i criteri di valutazione, ma anche i fatti che possono
14
15
Tribunale di Napoli, 28 settembre 2001, in Giur. Napoletana, 12, 2001, 444.
Tribunale di Bergamo, 27 novembre 1999, inedita.
7
essere considerati illeciti: la distanza che il secondo concorrente deve mantenere dal marchio di
fatto può variare nel tempo, e così anche la modalità degli atti lesivi e la loro natura. Diversamente,
in tema di marchi registrati, può variare la valutazione del Tribunale circa la maggiore o minore
vicinanza dell’imitazione al segno, ma l’imitazione, ci pare, rimane sempre quella. Pertanto, a
differenza della concorrenza sleale la violazione di marchio sarebbe “a geometria fissa”.
Per esempio, è proprio a proposito del marchio registrato che si possono nutrire dei dubbi sul punto
se il rischio di confusione comprende il rischio di associazione (rischio di associazione che
presuppone la confusione 16 oppure che non la presuppone 17 ). Questo perché la fattispecie è
tipizzata e, pertanto, ciò che deve essere valutato è solo la distanza tra il marchio registrato e il
marchio contraffattore. Per l’atto di concorrenza sleale, invece, possono anche essere diversi gli atti
di aggressione, ovvero le modalità con cui l’illecito è posto in essere.
4.
Il rischio di confusione in tema di concorrenza sleale.
Dal “passing off” alla tutela del “goodwill” alla repressione della slealtà
Dottrina e giurisprudenza individuano l’atto di concorrenza sleale in presenza di due requisiti:
i)
un livello, anche minimo, di novità nella realizzazione del soggetto passivo dell’atto;
ii)
la confusione creata dal soggetto attivo.
Qui interessa il punto sub ii).
Il concetto di confusione ha subito una profonda evoluzione nel tempo.
La prima costruzione si riferiva al concetto di confusione intesa nel senso di scambiabilità (il
consumatore acquista il prodotto A credendo che sia il prodotto B); il principio, secondo la
terminologia inglese, si chiama “passing off” o “palming off”. Da questa impostazione iniziale si
passa in seguito ad un concetto di confusione legato alla tutela dell’avviamento (“goodwill”). E
allora non si guarda tanto alla confusione, ma quanto alla necessità di tutelare l’avviamento creato e
quindi di evitare che i concorrenti “si approprino della messe di colui che ha seminato” 18 . Questo
indirizzo ha dato poi il via alla costruzione moderna dell’istituto come appunto basata soprattutto
sulla necessità di tutelare l’avviamento.
La riforma della Convenzione di Parigi, con la riformulazione dell’art. 10 bis, (testo adottato a
Stoccolma il 14 luglio 1967; il testo di Stoccolma è stato ratificato e reso esecutivo per l’Italia con
Legge 28 aprile 1976) introduce un elemento di tutela del consumatore: occorrerà allora guardare
non più o non solo alla scambiabilità tra prodotti e alla tutela dell’avviamento del produttore, ma
alla confusione (di qualunque tipo) che si crea nella mente del consumatore, alterando il processo
decisionale di quest’ultimo, al momento dell’acquisto del prodotto.
Recentemente, si è tornati, tuttavia, ad una valutazione della confusione più vicina alla concezione
originaria. E’ necessario valutare la slealtà del comportamento che deve essere vietato, tutelando il
lavoro dell’imprenditore e garantendo di conseguenza un regime concorrenziale basato sulla
correttezza e la lealtà 19 .
Ci sembra, allora, che si possa adottare una nozione unitaria del concetto di rischio di confusione.
Tale conclusione, da un lato rappresenta il naturale sviluppo dell’interpretazione attribuita al
concetto di rischio di confusione in materia di marchi, dall’altro è l’unica comunque utilizzabile in
16
Tale è l’orientamento della Corte di Giustizia, Caso C-251/95, Sabel BV v. Puma AG, in Dir. Ind. 1998, 2, 132; C-3997, 29 settembre 1998, Canon Kabushiki v. Metro Goldwyn Mayer Inc., in GADI 1999, 4038; C-342/97 Lloyd
Schuhfabrik Meyer & Co. GmbH v. Klijsen Handel BV, in GADI 1999, 4045.
17
Si tratta dell’orientamento di una parte di dottrina minoritaria, orientamento a cui aderiamo, secondo il quale il rischio
di associazione (concetto tipico del diritto del Benelux) deve essere inteso quale rischio indipendente dal rischio di
confusione sull’origine e più ampio di quest’ultimo. Cfr. M. FRANZOSI, Sulla funzione del marchio e sul rischio di
associazione, in Dir. ind. 1999, 138; GALLI, Il diritto transitorio dei marchi, Milano 1994; Funzione del marchio e
ampiezza della tutela, Milano, 1996; G CASABURI, Rischio di associazione: tutela avanzata del marchio, in Segni e
forme distintive, Giuffrè 2001; M. BOSSHARD, Rischio di associazione tra segni, ampiezza della tutela e funzione del
marchio nella recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Contratto e Impresa, 1999, pag. 1.
18
International New Service v. Associated Press, Corte Suprema Americana, 1918.
19
Cfr. Cass., 9 marzo 1998 n. 2578, in questa rivista 1998, II, 255; Cass., 28 maggio 1999 n. 5243, ivi 2000, I, 3.
8
tema di concorrenza sleale 20 . Tra l’altro, l’adozione di un concetto di rischio di confusione allargato
per i marchi e ristretto per le altre ipotesi confusorie, condurrebbe all’inaccettabile conseguenza di
attribuire una tutela maggiore per alcune delle fattispecie contemplate dalle citate norme e minore
per le altre. Non vi è nessuna preclusione di ordine normativo pratico per ritenere che il concetto di
rischio di associazione non sia applicabile anche in materia di concorrenza sleale. Al contrario, la
nozione di confondibilità concorrenziale è l’unica adeguata all’attuale economia di mercato e alla
connotazione che in essa assumono i prodotti: il prodotto non è soltanto quello contrassegnato da un
certo marchio; il prodotto è anche pubblicità, valore economico, confezionamento, design, slogan,
veicolo dell’immagine dell’imprenditore 21 . In tale contesto, l’imitazione del concorrente sarà
illecita, non solo qualora induca il consumatore in errore circa la provenienza del prodotto, ma
anche quando la stessa provochi nella sua mente un’associazione, al limite anche indiretta o
subliminale tra prodotto o servizio della prima impresa e servizio o prodotto dell’imitatore,
inducendolo a trasferire almeno una parte dell’immagine positiva che ha del primo (frutto di
investimento, lavoro, scelte di marketing, strategie pubblicitarie) al secondo.
4.1
Il rischio di associazione nell’ambito di imitazione delle confezioni di prodotti.
Il ruolo del consumatore
Il concetto del rischio di associazione in ambito concorrenziale acquista un valore particolare
proprio con riguardo all’imitazione di confezioni di prodotti. In presenza di due confezioni che si
assomigliano nei loro elementi esteriori, il consumatore sarà indotto a realizzare un collegamento,
eventualmente anche solo indiretto, tra i prodotti e le attività pubblicitarie poste in essere dal
prodotto cosiddetto originale e quelle del prodotto imitante 22 .
Il giudizio sul rischio di confusione, in tema di look-alike, richiede alcune considerazioni generali
sul consumatore.
Ogni marchio trasmette un significato, un messaggio. Il messaggio avrà un percettore. In tema di
marchi il percettore è il consumatore. La recente sentenza EUROCOOL del Tribunale di Primo
Grado della Corte Europea 23 ha stabilito che il carattere distintivo di un marchio deve essere
valutato non soltanto in relazione ai prodotti contrassegnati, ma altresì “rispetto alla percezione di
un pubblico cui ci si rivolge, che è costituito dal consumatore di tali prodotti o servizi”. Già la
Corte di Giustizia, nella recente sentenza Baby-Dry 24 , nel valutare la distintività del marchio, ha
invitato a mettersi “in the feet of the consumers” (in italiano diremmo “nei panni dei consumatori”).
Tale affermazione è altresì confermata nel passaggio successivo della sentenza della Corte europea
in cui si legge che la funzione distintiva del marchio verrà assicurata solo se “consentirà al
consumatore che acquista il prodotto o servizio indicato dal marchio, al momento di effettuare una
successiva acquisizione, la stessa scelta di acquisto, se l’esperienza risulti positiva, o un’altra, se
essa risulti negativa”. È nell’atto d’acquisto, dunque, che il marchio esplica la sua funzione. È nel
momento dell’acquisto che il marchio viene memorizzato dal consumatore. Del resto, sul momento
d’acquisto, insiste anche la sentenza TABS 25 dello stesso Tribunale di Primo Grado che, al
paragrafo 46, ribadisce che la funzione del marchio è soddisfatta se “il marchio richiesto consente
20
Il Tribunale di Napoli, con l’ordinanza dell’11 luglio 2000, nel caso Colussi, ha affermato che la nozione del rischio
di confusione secondo il significato mutuato dalla legge marchi è: “… generalizzabile, anche oltre la tutela dei marchi
d’impresa e viene ad integrare il significato normativo della nozione di confusione (lo si ribadisce, non meglio definita)
di cui all'art. 2598 c.c.”.
21
Cfr. G. CASABURI, Rischio di associazione: tutela avanzata del marchio, cit., pag. 103 ss.
22
Il Tribunale di Napoli, con l’ordinanza dell’11 luglio 2000, ha detto a questo proposito: “In altri termini, l’imitazione
comporta uno sviamento delle informazioni positive espresse dalla prima confezione e che sono acquisite da quella
dell’imitatore”.
23
Tribunale di Primo Grado, 27 febbraio 2002, T-34/00, Eurocool Logistic k GmbH vs. OHIM, caso EUROCOOL, par.
38. Nello stesso senso Decisione T-219/00, 27 febbraio 2002, Ellos AB vs. OHIM, caso ELLOS; decisione T-79/00, 27
febbraio 2002, Rewe Zentral AG. vs. OHIM, caso LITE e decisione T-106/00, 27 febbraio 2002, Streamserve Inc. vs.
OHIM, caso STREAMSERVE.
24
Corte di Giustizia CE, sentenza 20 settembre 2001, C-383/99, Plocter & Gumble vs. OHIM, Baby-Dry.
25
Tribunal di Primo Grado, T-30/00, 19 settembre 2001, Henkel KGaA vs. OHIM, caso TABS.
9
al pubblico cui ci si rivolge di distinguere i prodotti di cui trattasi da quelli aventi un’altra origine
commerciale al momento della decisione di effettuare un acquisto” 26 .
In tema di imitazione di confezione di prodotto, il rischio di confusione e/o il rischio di associazione
assumono una connotazione particolare. Si ha rischio di confusione, nel senso classico del termine,
quando il consumatore che vuole acquistare il prodotto A, acquista invece il prodotto B, perché
tratto in inganno dalla similitudine delle confezioni. Tuttavia, questa ipotesi è forse la meno
frequente. Normalmente, se anche le confezioni si assomigliano molto (nelle immagini, colori e
forme) esse, tuttavia, riportano marchi differenti. Per lo più, le imitazioni riguardano confezioni di
prodotti di largo consumo che abitualmente vengono vendute nei supermercati. E nei supermercati
le confezioni (che si tratti di confezioni di pasta o di confezioni di detersivi o altro) sono allineate
sugli scaffali le une accanto alle altre. Il consumatore che va al supermercato, normalmente si trova
di fronte ad un prodotto ad una distanza piuttosto ravvicinata. Spesso l’acquisto avviene sì
velocemente, ma in una posizione tale in cui il consumatore è in grado di distinguere che una
confezione non è uguale all’altra o che una confezione riporta un marchio differente dall’altro.
Difficilmente, chi vuole A prenderà B nella convinzione che sia A. Invece, succede una cosa
diversa. Il consumatore vuole acquistare A, vede il prodotto B che è assolutamente simile, nella
confezione, al prodotto A. Il consumatore sa che il prodotto B non è il prodotto A, tuttavia acquista
B perché pensa che tra l’azienda che produce B e l’azienda che produce A vi sia un qualche
collegamento; il consumatore penserà che forse B è una sottomarca di A e dunque B ha la stessa
qualità di A. Qui si verifica, allora, un rischio di associazione.
Cioè, si verifica:
i)
alterazione del processo decisionale del consumatore;
ii)
possibile sviamento di clientela;
iii)
danno per l’impresa che ha diritti sulla confezione.
L’errore, secondo noi, sta nel ritenere che un rischio di associazione tout court non crei confusione e
non meriti protezione. Non è così. La decisione di comprare B e non A determina, nella mente del
consumatore, alterazione decisionale al momento dell’acquisto.
4.2
L’imitazione della confezione è un atto sleale. L’applicazione dell’art. 2598 n. 3 c.c.
Il problema che vogliamo in conclusione affrontare e che speriamo possa rappresentare uno spunto
di riflessione, è il superamento della visione ristretta della imitazione della confezione dal solo
punto di vista della disciplina concorrenziale confusoria (art. 2598 n. 1 c.c.), ossia dal solo punto di
vista del rischio di inganno per il consumatore 27 .
L’imitazione della confezione non è un atto sleale solo perché l’imitazione crea confusione. Una
tale concezione, troppo spesso adottata dalla prassi giudiziale, finisce col negare tutela alla
confezione per il semplice fatto che in concreto la confusione pare non sussistere 28 . E non sussiste
per svariati motivi: perché i singoli elementi della confezione sono giudicati non distintivi oppure
non sono completamente identici, o ancora perché i canali distributivi sono diversi, oppure il
marchio apposto sulla confezione è diverso. Il consumatore, che, come dice la Corte di Giustizia,
oggi sempre più spesso è consumatore attento e informato, può sapere che i prodotti, pur
presentando una confezione simile e confondibile, provengono da due fonti produttive diverse.
Non c’è confusione, allora, non c’è concorrenza sleale? La conclusione è inaccettabile.
Si è perso di vista il fondamento logico, la ratio dell’istituto della concorrenza sleale, che è quello
di colpire il comportamento concorrenzialmente illecito, e non solo quello di proteggere
determinate ideazioni – la confezione del prodotto – o eliminare l’effetto confusorio in relazione al
consumatore.
26
Corte di Giustizia, decisione 16 luglio 1998, C-210/96; 6-Korn-Eier – Gut Springenheide; decisione 22 giugno 1999,
C-342/97, Lloyd.
27
In questo senso si era già espresso ROTONDI, Diritto Industriale, Padova, 1965, pag. 498 ss., il quale ha sostenuto che
è ammissibile l’imitazione servile senza la confusione dei prodotti. Tale atto sarebbe scorretto non tanto ai sensi dell’art.
2598 n. 1 c.c., ma dell’art. 2598 n. 3 c.c.
28
Non sussiste in termini di scambiabilità, mentre esiste pur sempre il collegamento associativo con la fonte produttiva.
10
Si dovrà, invece, guardare alla slealtà del comportamento in sé considerato.
Il rischio di confusione per il consumatore potrà anche essere escluso, ma ciò non deve escludere a
priori l’ulteriore valutazione se il comportamento di imitare la confezione altrui è sleale e deve
essere proibito. L’esigenza di tutelare il lavoro di un imprenditore – (studio e realizzazione di una
determinata confezione) che permetta al suo prodotto di distinguersi dagli altri – nasce dalla
necessità di assicurare che il regime concorrenziale del mercato si realizzi su basi di correttezza e
lealtà: “la legge, se deve evitare il perpetuarsi di un monopolio di sfruttamento oltre la fisiologica
durata di una privativa, non può tuttavia, in via di principio, consentire un vero e proprio storno
del frutto dell'altrui investimento. Siffatta soluzione finirebbe con l'essere essa anticoncorrenziale,
perché toglierebbe un presupposto della competizione nel mercato, che è la possibilità di
conquistare, secondo regole di correttezza commerciale, la clientela” 29 .
La dottrina straniera, in particolare quella tedesca 30 , ha affermato che la disciplina della
concorrenza sleale trova applicazione allorché si verifichino circostanze che permettono di ritenere
sleale la condotta dell’imitatore. Tali circostanze devono essere oggettive (il prodotto e/o la
confezione imitata devono essere innovative) e soggettive (il concorrente ha sfruttato direttamente
la prestazione altrui: “unmittelbare Leistungsübernahme”).
Un imprenditore che mette in commercio un nuovo prodotto o un prodotto con una nuova e
accattivante confezione non lo fa certo con l’intento di offrire ai propri concorrenti un esempio da
copiare. Gli altri imprenditori potranno sì prendere spunto dalla idee altrui ed elaborarle per creare
ancora qualcosa di nuovo e diverso. Ma nel momento in cui il concorrente utilizza quel prodotto per
riprodurlo esattamente, utilizza la prestazione altrui senza costi, senza fatica, senza lavoro.
L’illiceità, ancora una volta, non risiede nel risparmio di costi e fatica da parte del concorrente.
Questo risparmio è la conseguenza dell’atto sleale, ma non è la slealtà. L’illiceità risiede nella
volontà di utilizzare conoscenze produttive altrui al fine di fare concorrenza a colui che possiede tali
conoscenze 31 .
Negli esempi che abbiamo riportato all’inizio di questo articolo, le confezioni imitatrici
riproducevano – con variazioni minime ed insignificanti – forma, colore, figure e parole, talvolta
addirittura lo stesso numero degli elementi figurativi. Non si deve punire il concorrente per aver
utilizzato una medesima forma della confezione, o il medesimo colore, o un identico elemento
figurativo: si deve però punire il concorrente che utilizzi tutti gli elementi della confezione altrui in
modo identico al titolare della confezione imitata, al solo fine di acquisire direttamente il risultato
dello sforzo creativo di un concorrente: “Se gli affari vengono fatti per competere nel gioco del
commercio, allora anche le regole del gioco devono garantire che i concorrenti competano
lealmente” 32 .
Ovviamente, non qualsiasi imitazione di una confezione altrui potrà essere considerata
concorrenzialmente illecita, dovendosi pur sempre considerare l’imitare l’idea altrui, un incentivo al
continuo miglioramento 33 , tuttavia diviene illecita e rimproverabile qualora sia evidente l’intento
del terzo di creare confusione con i prodotti altrui (anche qualora la stessa confusione in concreto –
29
Cass., 9 marzo 1998 n. 2578, caso Lego System A/S c. Tyco Idustries Inc. e Arco Falc Srl, cit. Cass., 28 maggio 1999
n. 5243, cit.
30
Disciplina della concorrenza sleale secpndo il § 1 UWG. Cfr. TROLLER, Immaterialgüterrecht, II, Basel-Stuttgart
1971; BAUMBACH HEFERMEHL, Kommentar VWG, 1972, 1, par. 1, p. 338, 500.
31
Cfr. PERRET, La protetion des prestations en droit suisse, Basel, 1977, II, 250: “L’insieme dei concorrenti forma una
comunità dominata da rapporti di fiducia. Ora costituisce un inganno della fiducia il ‘surmoulage’ di un oggetto, la
reincisione di un disco, la fotocopia di un’edizione (a diritto d’autore scaduto) al fine di fare concorrenza a colui i cui
prodotti sono serviti da prototipo all’impresa parassita”. Cfr. FRANZOSI, La protezione del disegno industriale
(unmittelbare Leistungübernahme) quale base della protezione, in Contratto e Impresa, 1991, I, pag. 97 ss.
32
Cfr. H. BRETT, Unfair cpmpetition – not merely an accademic issue?, in EIPR, 1979.
33
Clark Boardman Callaghan, Trademarks and unfair competition, 3d ed., 1992-96, 5v., afferma “Il primo principio
della legge sulla concorrenza sleale è che qualsiasi cosa che non è protetta da una privativa industriale può essere
copiata. Infatti, copiare è uno degli elementi essenziale dell’intero sistema economico basato sulla libera concorrenza.
Così che l’atto di copiare, ben lontano dall’essere intrinsecamente sconveniente, è essenziale e deve essere lodato ed
incoraggiato, non condannato. Non c’è assolutamente nulla di legalmente o moralmente reprensibile in copiare
esattamente cose di pubblico dominio”.
11
confondibilità soggettiva - sia talvolta esclusa, nella prassi, dall’apposizione di un marchio
diverso 34 ).
L’imitazione della confezione altrui è anche, o solo, un atto illecito ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c.,
perché contrario ai principi di correttezza professionale.
5.
Conclusioni.
I precedenti in materia di imitazione delle confezioni, intese come veri e propri marchi, dotati di
capacità distintiva ed idonei ad attirare l’attenzione del consumatore e a trasmettere una serie di
informazioni relative alla fonte di provenienza sono ancora poco numerosi in Italia, nonostante che
il problema si presenti sempre più spesso a danno di famose aziende che vedono spuntare ogni
giorno una nuova confezione troppo simile alla loro 35 .
Il fenomeno non può non essere preso in attenta considerazione dai nostri giudici.
Il packaging di un prodotto, può e deve essere tutelato alla stregua di qualsiasi altro elemento
distintivo dell’azienda, contro l’imitazione altrui.
Il nostro sistema normativo fornisce gli strumenti adeguati. Occorre utilizzarli.
34
Se si ritiene che due confezioni seppur identiche o molto simili non determinino una confondibilità a causa del
marchio differente, tuttavia non è escluso che una parte rilevante di pubblico, pur ritenendo che i prodotti siano diversi,
possano pensare che vengano dalla stessa casa o di case collegate per legami economici, tecnici, commerciali.
35
La rarità delle decisioni in materia è spesso legata alla circostanza che i produttori di noti marchi, raramente
intraprendono azioni a tutela delle confezioni dei loro prodotti, per il fatto che si troverebbero a dover agire contro i loro
principali clienti (catene distributive) che adottano per i c.d. own brand products confezioni del tutto simili a quelle dei
principali branded products. Ciò ha consentito al fenomeno del look-alike di dilagare senza possibilità di contrasto dello
stesso.
12