fondazione antonio uckmar

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fondazione antonio uckmar
FONDAZIONE ANTONIO UCKMAR
I “Venerdì di Diritto e Pratica Tributaria”
Macerata 29-30 giugno 2012
L’abuso del diritto: tra “diritto” e “abuso”
Atti preparatori:
Addis F., Adonnino P., Altieri E., Amatucci A., Basilavecchia M.,
Carinci A., Comelli A., Corasaniti G., Corrado Oliva C., de’Capitani di
Vimercate P., Di Pietro A., Fox T., Glendi C., La Rosa S., Mereu A.,
Pistone P., Prosperi F., Rescigno P., Salvini L., Sgubbi F., Stizza P.,
Tesauro F., Uckmar V.
L’ABUSO DEL DIRITTO: TRA DIRITTO E ABUSO
Il divieto di abuso del diritto in materia tributaria, prepotentemente salito
alle luci della ribalta con le note sentenze della Suprema Corte a Sezioni
Unite del 2008, da alcuni anni è il principale terreno di scontro, e di
acceso dibattito, tra giurisprudenza e dottrina.
Ha origini comunitarie, ma si è radicato nell’ordinamento nazionale
creandosi un appiglio nell’art. 53 della Costituzione.
E’ “di moda”, è probabilmente “abusato” dall’Amministrazione, sovverte
gli schemi del diritto processuale, anche valendosi del principio della
prevalenza del diritto comunitario, e si sta sottilmente facendo strada
anche nel diritto penale tributario, sia pure limitatamente alle fattispecie
elusive di cui all’art. 37 bis d.p.r. n. 600 del 1973. Delicati sono inoltre i
profili sanzionatori della violazione del divieto di abuso.
Da tempo si attende il doveroso intervento del legislatore, più volte
preannunciato.
Diritto e Pratica Tributaria ha deciso di organizzare un “venerdì” (e
sabato) per approfondire il tema, invitando tutte le parti di questo vivace
e attualissimo dibattito.
PROGRAMMA
29 GIUGNO 2012
ore 08.30
Registrazione dei partecipanti
ore 09.30
Indirizzi di saluto
Prof. Luigi Lacchè – Magnifico Rettore Università di Macerata
Dott. Pietro Marcolini – Assessore Regione Marche
Dott. Gennaro Pieralisi – Confindustria
Avv. Stefano Massimiliano Ghio – Presidente Consiglio dell’Ordine Avvocati
di Macerata
Dott. Umberto Massei – Presidente ODCEC Macerata-Camerino
Prof. Victor Uckmar – Presidente Fondazione Antonio Uckmar
ore 10.00
Prof. Franco Gallo - moderatore
Prof. Pietro Rescigno – Relazione introduttiva
Prof. Fabio Addis – “L’abuso del diritto tra diritto civile e tributario”
Prof. Pasquale Pistone - “L’abuso del diritto nella giurisprudenza tributaria
della Corte di Giustizia dell’Unione Europea”
Prof. Francesco Tesauro – “L’abuso nel diritto tributario italiano”
ore 13.00 - Buffet
ore 14.30 – ripresa dei lavori
Prof. Ubaldo Perfetti - moderatore
Prof. Francesco Prosperi – “L’abuso del diritto nella fiscalità vista da un
civilista”
Prof. Adriano Di Pietro – “Abuso del diritto in materia tributaria: profili
comparati”
Avv. Thomas Fox – “L’abuso del diritto nell’ordinamento tedesco – Il caso della
normativa anti treaty shopping”
Dott. Enrico Altieri – “La codificazione del principio dell’abuso del diritto in
campo fiscale”
Prof. Salvatore La Rosa – “Abuso del diritto ed elusione fiscale: differenze e
interferenze”
Prof. Andrea Amatucci – “La funzione anti-abuso dell’interpretazione del
diritto tributario”
Avv. Paolo de’Capitani di Vimercate – “La spettanza del credito per le
imposte estere e la indeducibilità dei manufactured payments in una decisione
della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia a cavallo tra elusione
ed evasione tributaria”
Prof. Giuseppe Corasaniti - “L’interpretazione degli atti e l’elusione fiscale nel
sistema dell’imposta di registro”
Coffee break
Prof. Cesare Glendi – “L’abuso dei rilievi d’ufficio della Suprema Corte di
Cassazione”
Prof. Alberto Comelli – “L’abuso del processo, con particolare riferimento al
processo tributario”
Avv. Caterina Corrado Oliva – “L’abuso del diritto tra onere di allegazione e
onere della prova”
Dott. Paolo Stizza - “L’obbligo del contraddittorio in caso di contestazione di
operazioni abusive ”
30 GIUGNO 2012
ore 09.00
Prof. Alberto Febbrajo – moderatore
Prof. Filippo Sgubbi – Relazione sui profili penali
Prof. Livia Salvini - “A margine della sentenza Dolce&Gabbana: la costituzione
di parte civile dell’A.F.”
Avv. Alessandra Mereu - “Abuso del diritto ed elusione fiscale: rilevanza
penale o mera mancanza di una explicatio terminorum?”
Prof. Massimo Basilavecchia - “Presupposti ed effetti della sanzionabilità
dell’elusione”
Prof. Andrea Carinci – “Elusione tributaria, abuso del diritto e applicazione
delle sanzioni amministrative”
ore 13.00
chiusura dei lavori
*****
INDICE
INDICE ................................................................................................... Pag. 7
Prof. Fabio Addis “L’abuso del diritto tra diritto civile e tributario”.......... » 9
Prof. Pietro Adonnino “Abusi della contestazione dell’abuso del
diritto della U.E”........................................................................................ » 17
Enrico Altieri “La codificazione del principio dell’abuso del diritto
in campo fiscale” ........................................................................................ » 27
Prof. Andrea Amatucci “La funzione anti-abuso dell’interpretazione
del diritto tributario”.................................................................................. » 37
Prof. Massimo Basilavecchia “Presupposti ed effetti della
sanzionabilità dell’elusione” ...................................................................... » 49
Prof. Andrea Carinci “Elusione tributaria, abuso del diritto e
applicazione delle sanzioni amministrative” .............................................. » 55
Prof. Alberto Comelli “L’abuso del processo, con particolare
riferimento al processo tributario” ............................................................ » 63
Prof. Giuseppe Corasaniti “L’interpretazione degli atti e l’elusione
fiscale nel sistema dell’imposta di registro” .............................................. » 89
Avv. Caterina Corrado Oliva “L’abuso del diritto tra onere di
allegazione e onere della prova” ............................................................. » 111
Avv. Paolo de’Capitani di Vimercate “La spettanza del credito per
le imposte estere e la indeducibilità dei manufactured payments in
una decisione della Commissione tributaria provinciale di Reggio
Emilia a cavallo tra elusione ed evasione tributaria”.............................. » 125
Prof. Adriano Di Pietro “Abuso del diritto in materia tributaria:
profili comparati”..................................................................................... » 147
Avv. Thomas Fox “L’abuso del diritto nell’ordinamento tedesco – Il
caso della normativa anti treaty shopping” ............................................ » 149
Prof. Cesare Glendi “L’abuso dei rilievi d’ufficio della Suprema
Corte di Cassazione”................................................................................ » 159
Prof. Salvatore La Rosa “Abuso del diritto ed elusione fiscale:
differenze e interferenze” ..................................................................... Pag. 161
Avv. Alessandra Mereu “Abuso del diritto ed elusione fiscale:
rilevanza penale o mera mancanza di una explicatio terminorum?” .......» 169
Prof. Pasquale Pistone “L’abuso del diritto nella giurisprudenza
della Corte di Giustizia” ...........................................................................» 203
Prof. Francesco Prosperi “L’abuso del diritto nella fiscalità vista da
un civilista” ............................................................................................... » 229
Prof. Pietro Rescigno “L'abuso del diritto (1965)”...................................» 243
Prof. Pietro Rescigno “L'abuso del diritto (Una significativa
rimeditazione delle Sezioni Unite)” .......................................................... » 245
Prof.ssa Livia Salvini “A margine della sentenza Dolce&Gabbana:
la costituzione di parte civile dell’Amministrazione Finanziaria” ...........» 251
Prof. Filippo Sgubbi “Relazione sui profili penali” ...................................»265
Avv. Paolo Stizza “L’obbligo del contraddittorio in caso di
contestazione di operazioni abusive”........................................................ » 267
Prof. Francesco Tesauro “L’abuso nel diritto tributario italiano” ...........» 279
Prof. Fabio Addis
Professore Università di Brescia
L’abuso del diritto tra diritto civile e tributario
SOMMARIO: 1 Premessa - 2 Abuso e rimedi nel diritto civile - 3 L’avvento
dell’abuso nel diritto tributario - 4 Intermezzo di sintesi - 5 Abuso e controllo
degli atti di autonomia privata - 6 Abuso e ingiustificato risparmio fiscale.
1 Premessa
Per quanto i rapporti tra diritto civile e tributario, su larghissime aree delle
relative discipline, siano strutturalmente biunivoci, ancorché non simmetrici,
l’abuso del diritto – specie in considerazione dei più recenti sviluppi che è
dato registrare in entrambi i plessi normativi considerati – consente
certamente un utile confronto, al quale queste brevi riflessioni sono rivolte
nel tentativo di stigmatizzare taluni elementi del ragionamento giuridico che
caratterizza il pensiero della giurisprudenza pratica e teorica e così anche la
sostanza dei problemi che in tal modo sono affrontati e per tal via risolti.
Innanzitutto, però, al discorso credo possa giovare la definizione del contesto
storico in cui queste vicende trovano ora svolgimento perché le categorie
giuridiche – come si sa – vivono un’esistenza fortemente condizionata dai
tempi e dai luoghi e questi oggi per noi si riassumono in una parola: Europa.
Propongo dunque – in via di premessa – di adottare una chiave di lettura che
possa collocare il tema proprio all’interno di questo quadro.
2 Abuso e rimedi nel diritto civile
Il diritto di matrice europea ha già profondamente modificato il diritto civile
nazionale e non sembra peraltro che tale forza propulsiva vada spegnendosi.
Dal versante della tutela delle condizioni che possano garantire un corretto
funzionamento del mercato concorrenziale, come anche dal suo rovescio,
vale a dire la tutela del consumatore, ci sono pervenute innovazioni che
vanno gradualmente assestandosi nel sistema ordinamentale e nella coscienza
degli interpreti. I contenuti sono importanti e molteplici ma piuttosto che ad
essi – individuati nella ricca serie di sfaccettature dei congegni tecnici che li
connotano – sembra qui più opportuno rivolgere lo sguardo ad un problema
di metodo.
Non saprei dire se si possa parlare di una svolta metodologica oppure solo di
una linea di tendenza normativa incoraggiata o esaltata da un buon numero di
studiosi – invero in continuo aumento – ma le parole chiave sono chiare e
ormai ricorrenti: «perdita della fattispecie» e dunque «rimedi».
Il diritto di matrice europea ha convinto molti che la stessa tradizionale
formalizzazione degli interessi giuridicamente rilevanti attraverso la categoria
basilare, di pandettistica ascendenza, del diritto soggettivo non risponda più
ad un modello nomopoietico assoluto e indefettibile, che anzi lascia sempre
L’ABUSO DEL DIRITTO TRA DIRITTO CIVILE E TRIBUTARIO
più spesso il posto ad una costruzione di regole operative – per così dire – a
posteriori, proprio perché la fattispecie attributiva del diritto nelle norme è
solo accennata o manca affatto. Al contrario, il bisogno di tutela che emerge
in relazione a siffatti interessi si raccorda a strumenti variabili e graduabili,
fortemente orientati a prospettive di valutazione che tengono conto di criteri
come l’adeguatezza, la proporzionalità, la ragionevolezza, di cui il rimedio
non potrebbe dirsi solo permeato perché, in realtà, le linee guida della
risposta in termini rimediali si colgono nella logica del massimo
avvicinamento dell’interesse alla sua concreta possibilità di soddisfazione in
termini di semplicità, rapidità, economicità e soprattutto effettività.
Basterebbe richiamare la disciplina in tema di vendita di beni di consumo.
A tal stregua, ben si comprende dove vada a parare questo ordine di
riflessioni: un sistema normativo organizzato nella prospettiva rimediale non
ha più molto a che spartire con la categoria del divieto dell’abuso del diritto
semplicemente perché il diritto di cui si possa abusare sbiadisce, perdendo
consistenza e smarrendo una reale capacità connotativa di singole situazioni
giuridiche soggettive, la cui destrutturazione teorico-operativa comporta lo
spostamento del punto di rilevanza ermeneutica – per dirla con Emilio Betti –
verso la soddisfazione, nei termini anzidetti, dell’interesse non realizzato.
In sintesi e con qualche approssimazione icastica potrebbe pure affermarsi
che se la teoria dell’abuso guarda al comportamento dell’autore dell’atto che
si assume abusivo, quella del rimedio si appunta sulla valutazione delle
«condizioni di ammissibilità» della reazione del soggetto che lamenti la
lesione del suo interesse.
Anche se la prospettiva rimediale non dovesse convincere, rimarrebbe pur
sempre vero che il diritto di matrice europea non ha offerto al diritto civile
una significativa spinta per una rinnovata o rinvigorita teorica del divieto
dell’abuso del diritto. Tanto ciò è vero che le fortune di questa categoria sono
da rinvenirsi proprio e soltanto nelle più recenti elaborazioni della
giurisprudenza domestica, specie con la fondamentale decisione del 2009: il
c.d. «caso Renault», sul quale, a breve, avremo modo di tornare.
3 L’avvento dell’abuso nel diritto tributario
Ben diverso è quanto accaduto nel diritto tributario: fino a pochi anni fa
sembrava che il muro eretto contro l’affermazione del principio dell’abuso
del diritto non potesse essere abbattuto almeno fino a quando una diversa
scelta, espressamente operata dal legislatore, non avesse portato ad evidenza
normativa una generale regola antielusiva: sicché la teorica dell’abuso
sembrava destinata a rimanere rinchiusa negli stretti e invalicabili confini
dell’art. 37 bis, d.p.r. 29.9.1973, n. 600, e ciò perché il suo ambito applicativo
non poteva sfuggire ai limiti ricavabili dal suo 3° co., che individua con
incedere tassativo le operazioni assoggettabili al disposto normativo. In ogni
caso, poi, la disposizione vale solo per il settore delle imposte sui redditi.
10
L’ABUSO DEL DIRITTO TRA DIRITTO CIVILE E TRIBUTARIO
Qualche cosa di importante era accaduto nel 2005 con le tre sentenze della
Suprema Corte in tema di dividend washing e dividend stripping ma il
paradigma concettuale al quale si fece ricorso in quell’occasione non era il
divieto dell’abuso del diritto. Ad essere chiamate in gioco – in funzione
antielusiva – furono le classiche categorie civilistiche della causa illecita e
della frode alla legge e fintanto che ci si serve di esse è chiaro che dell’abuso
del diritto non v’è bisogno. Ma fu una stagione di breve durata. L’idea che si
fosse in tal modo operata una svolta si rivelò ben presto effimera, travolta,
come fu, già nel 2006, dal repentino avvento della giurisprudenza europea in
tema di abuso del diritto. Poi seguita, completata e infine consolidata, tra il
2006 e l’oggi, da quella della nostra Suprema Corte.
Nel diritto tributario, dunque, il processo di europeizzazione, attraverso la
Corte di Giustizia, ha spalancato le porte ad una teorica dell’abuso come
strumento di contrasto all’elusione che vediamo espandersi ogni giorno di più
con pervasiva capacità di penetrazione.
4 Intermezzo di sintesi
A questo riguardo sembra dunque che si possa fondatamente affermare che
Europa significa cose ben diverse quanto ad abuso del diritto nel campo del
diritto civile e tributario: chiusura degli spazi applicativi o, al più, persistenza
di una situazione sostanzialmente inalterata nel primo; affermazione diretta e
su vasta scala del principio nel secondo, il quale sembra aver perso ogni
remora, accettando così anch’esso la possibilità di una scomparsa della
fattispecie o – il che non è troppo diverso – di un ricorso ad una fattispecie
dai contenuti così ampli e generali che della più tradizionale e meticolosa
descrizione della fattispecie alla quale eravamo abituati conserva ben poco.
Si badi bene però: se ci si accosta al problema nei termini proposti, emerge
chiaramente un elemento differenziale ma anche un tratto comune: la
differenza riguarda le sorti della teorica dell’abuso tra diritto civile e
tributario sulla scorta del diritto europeo: misere e regressive in un caso,
magnifiche e progressive – per così dire – nell’altro.
Ma occorre guardare anche alla sostanza delle cose squarciando il velo delle
sovrastrutture categoriali e così è possibile apprezzare il tratto comune: in un
caso come nell’altro il diritto europeo ha comportato l’adozione di tecniche
regolative e/o valutative meno ancorate alla precisa tipizzazione della
fattispecie e, per converso, maggiormente attente a cogliere il profilo
funzionale degli atti posti in essere dai privati nell’esercizio dell’autonomia
negoziale.
Si tratta allora di vedere quali conseguenze ciò abbia provocato.
5 Abuso e controllo degli atti di autonomia privata
Si è già accennato al fatto che nel diritto civile la teorica dell’abuso ha
ricevuto nuova linfa non dal diritto europeo ma da un’evoluzione interna alla
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L’ABUSO DEL DIRITTO TRA DIRITTO CIVILE E TRIBUTARIO
giurisprudenza nazionale. D’altra parte, per quanto ampia sia stata l’influenza
del diritto di matrice europea, nel diritto civile vasti settori non ne sono
toccati affatto o ne hanno subito un’influenza marginale.
Limito in questa sede, per forza di cose, i riferimenti a quanto mi pare
maggiormente significativo ed emblematico.
Nel 2007 la Suprema Corte (Cass., S.U., 15 novembre 2007, n. 23726) ha
stabilito che non è consentito al creditore di una determinata somma di
denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il
credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o
scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto
dell’obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con
unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in
contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare
il rapporto tra le parti non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche
nell’eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con
il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la
parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della
pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento
offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale.
Questa decisione porta subito in primo piano uno dei temi più controversi e
dibattuti della figura teorica dell’abuso, della quale sovente si lamenta una
non chiara distinzione concettuale dalla buona fede quale criterio relazionale
di apprezzamento delle reciproche condotte poste in essere dai soggetti di un
rapporto giuridico. Se la buona fede, in senso oggettivo, fonda una regola di
correttezza dell’agire negoziale che ha come punto di riferimento essenziale
il rispetto dovuto alla preservazione degli interessi di controparte, allora la
figura dell’abuso può guadagnare autonomia solo se serve a far emergere una
diversa sfera problematica dell’esercizio di un diritto soggettivo. Qui infatti le
modalità della richiesta giudiziale del creditore, per affrancarsi dalla
prospettiva di valutazione offerta dal canone di buona fede, devono venire in
considerazione sotto il profilo di uno sviamento finalistico del potere
spettante al soggetto a cui l’atto è riferibile. Sicché l’abuso sta in una sorta di
esercizio del diritto deviato dalla ratio per la quale il diritto stesso è
attribuito, in guisa che possa affermarsi che mediante l’atto di esercizio del
diritto non vengano conseguite utilità conformi all’interesse tutelato.
Questa decisione ha avuto un impatto applicativo indubbiamente notevole
anche se i suoi risvolti applicativi possono apprezzarsi innanzitutto sul piano
processuale della stessa proponibilità delle plurime azioni frazionate.
Ma è del 2009, come si è detto, la decisione della Suprema Corte che – per
ricchezza argomentativa e generalità degli assunti prospettati – costituisce ora
la pietra miliare della teorica dell’abuso nel nostro ordinamento.
Cass., 18.9.2009, n. 20106 ha infatti stabilito che si ha abuso del diritto
quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo
eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e
buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della
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L’ABUSO DEL DIRITTO TRA DIRITTO CIVILE E TRIBUTARIO
controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori
rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti. Ricorrendo
tali presupposti, è consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare
inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto,
oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento
del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere
dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca
un’ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore,
giacché ciò che è censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale,
ma l’abuso di esso.
Appare chiaro, innanzitutto, che nonostante lo sforzo argomentativo profuso,
i giudici di legittimità non sono riusciti ad approdare con assoluto rigore ad
acquisire e tener fermi saldi criteri distintivi tra buona fede e abuso del diritto
ed infatti su questo versante si sono concentrate molte critiche dei numerosi
annotatori di questa decisione, che peraltro non brilla neanche per la
rispondenza a verità dell’«excursus giurisprudenziale» che la Suprema Corte
pretende di porre a fondamento delle proprie tesi, le quali, se si procede con
media attenzione ai dovuti riscontri, sono invero più smentite che corroborate
da tali richiami. Ma in questa sede conviene concentrare il discorso sugli
aspetti maggiormente funzionali al ragionamento che si sta cercando di
portare avanti.
La Suprema Corte, in realtà, ha dovuto prendere posizione su una questione
che, assunta nella sua valenza più generale, acquista rilievo preminente per
ogni ramo dell’ordinamento nel quale vengano in considerazione valutazioni
in ordine alle scelte compiute dai privati nell’esercizio della propria
autonomia negoziale. In definitiva, il discorso impinge proprio il fondamento
e il limite della libertà delle determinazioni economico-giuridiche anche
quando esse – formalmente – si svolgano all’interno di una cornice
attributiva astrattamente legittimante. I giudici di merito avevano ritenuto che
la valida pattuizione di un recesso ad nutum non consentisse di sottoporre il
relativo atto di esercizio ad un sindacato giurisdizionale volto ad indagare le
ragioni poste a fondamento della scelta di valersi del diritto di recedere.
Diversamente si opererebbe un’indebita invasione nelle scelte di merito,
economico-strategiche, che competono esclusivamente ai privati tanto che
siffatta ingerenza del giudice assumerebbe connotazioni politiche che
trascendono le funzioni della magistratura.
In ultima analisi, non si fatica a scorgere il vero punctum dolens dell’intera
vicenda: un conflitto interno alla magistratura in ordine all’esercizio della
propria funzione. La replica della Suprema Corte è che tale potere di
controllo non risponde ad un’indebita ingerenza politica nella sfera di
competenza riservata al privato bensì di una doverosa e non eludibile
esigenza di verifica della rispondenza di ogni diritto, potere, facoltà alle
ragioni che ne giustificano il riconoscimento giuridico, il quale non esaurisce
la sua funzione nel momento in cui provvede a stabilire le condizioni di
validità che garantiscono la costituzione della situazione giuridica nella sua
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L’ABUSO DEL DIRITTO TRA DIRITTO CIVILE E TRIBUTARIO
astratta configurazione potenziale ma accompagna tutti i comportamenti che
la traducono in atto in guisa che solo una valutazione a posteriori, allargata a
tutte le circostanze del caso, restituiscano un significato complessivo
giuridicamente apprezzabile. Solo a tal stregua risulterà possibile stabilire se
la «cornice attributiva del diritto» corrisponde ad un esercizio corretto che di
esso il privato abbia fatto, a nulla rilevando, dunque, la preventiva
tipizzazione dello schema formale di cui il soggetto si sia servito. Il possibile
sviamento in cui l’abuso consiste presuppone infatti la titolarità della
situazione soggettiva e risulta rilevabile alla luce di un complesso
circostanziale che per essere adeguatamente apprezzabile non può che fare
riferimento a termini di raffronto esterni all’atto visto che formalmente, in
apparenza, esso, come i suoi effetti, corrisponde alla fonte che lo legittima.
Potrebbe dirsi, pertanto, che il controllo giudiziale condotto in base al
paradigma dell’abuso spezza il nesso fonte-atto-effetto mettendone in
discussione l’automatismo fondato sulla sola ricorrenza degli elementi
ricavabili dalla fattispecie originaria – costruita a priori – e dà così luogo alla
costruzione di una seconda fattispecie arricchita di tutti gli elementi resi
rilevanti da un processo di selezione che non può procedere –
retrospettivamente – se non attraverso il confronto dell’atto con altri atti del
medesimo tipo. In tal modo lo scopo perseguito dall’autore dell’atto, al di là
di ogni sua possibile connotazione psicologistica, andrà incontro ad un
processo di normalizzazione e oggettivazione che lo rendano comparabile, in
termini di liceità o abusività, con un modello di atto che non è più quello
astrattamente concepibile in relazione alla fonte che lo prevede ma con un
modello che si modifica e si specifica in relazione alle singolari e concrete
dinamiche della vicenda giuridica della quale entra a far parte. Perdita della
fattispecie, se si tiene ad usare questa espressione, significa, più propriamente
lo smarrimento indotto da uno schema di ragionamento che privilegia non
tanto la previsione di un fatto che potrà accadere, stabilendo in anticipo le
conseguenze che ne deriveranno, ma descrizione di un fatto che è accaduto,
nella irripetibile individualità e complessità del suo accadere, al fine di
stabilire se gli effetti divisati dalla fattispecie originaria possano realmente
prodursi così come essa li aveva organizzati o se, pur così realizzandosi, tali
effetti non comportino anche conseguenze illecite, produttive di danno
ingiusto, che, pur non alterando l’effetto conseguito, espongano l’autore
dell’atto da cui esse derivano ad una obbligazione risarcitoria in vario modo
commisurabile alla lesione subita dal soggetto contro cui opera l’atto sviato
dalla sua funzione.
6 Abuso e ingiustificato risparmio fiscale
Diversamente da quanto accaduto nel diritto civile, l’avvento della teorica
dell’abuso nel diritto tributario è strettamente dipendente dal diritto europeo e
non si fatica a individuarne con certezza la data di nascita: il 21.2.2006 la
Corte di Giustizia, nella sentenza Halifax, ha stabilito che il formale rispetto
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L’ABUSO DEL DIRITTO TRA DIRITTO CIVILE E TRIBUTARIO
delle condizioni previste dalle disposizioni della Sesta Direttiva e della
legislazione nazionale che la traspone non legittimano il soggetto passivo
IVA a detrarre l’imposta assolta a monte quando vengono poste in essere
operazioni che procurano un vantaggio fiscale la cui concessione è contraria
all’obiettivo perseguito da quelle disposizioni ed hanno essenzialmente lo
scopo di ottenere un vantaggio fiscale.
Come ben sappiamo, si è così realizzato l’innesco di una sorta di reazione a
catena nella quale il secondo tempo della partita ha visto entrare in campo in
modo davvero decisivo la nostra Suprema Corte.
L’estensione di questa nuova teorica dell’abuso, infatti, non poteva trovare
adeguato fondamento nei principi stabiliti nel Trattato CE quando
l’estensione fosse portata sul piano della fiscalità diretta.
In tema di tributi non armonizzati occorreva dunque un fondamento diverso,
in difetto del quale, nell’aprile del 2008, la Suprema Corte era andata
incontro a critiche decise e decisive. Occorreva pertanto una reazione forte,
adeguata e – se possibile – conclusiva.
Sul finire del 2008 le Sezioni Unite hanno trovato la base normativa che
avrebbe potuto essere invocata sin dall’inizio, ben prima della sentenza
Halifax, e in modo pervasivo ed indistinto per tutti i rami della fiscalità. Ciò
che ha costituito la via di uscita dal problema avrebbe infatti potuto
rappresentarne la chiave di soluzione originaria e generale, senza dover
attendere che fosse la giurisprudenza europea ad accendere la miccia.
Aver reso operativamente fruibile a tal fine l’art. 53 Cost. non è stata una
scelta coraggiosa ma ritardata perché i principi costituzionali di capacità
contributiva e di progressività dell’imposizione esprimono in sé una regola
incontestabilmente precisa e non bisognosa di concretizzazioni ulteriori per
legittimare il disconoscimento dei vantaggi ottenuti mediante operazioni
elusive.
Si può dubitare, tuttavia, che la Suprema Corte abbia in tal modo operato un
definitivo sganciamento dalla disciplina civilistica, come afferma il mio
amico e collega di Facoltà Giuseppe Corasaniti: il futuro non si può
ipotecare! Guardare infatti alla inopponibilità degli effetti fiscali degli atti
elusivi non significa per ciò stesso escludere la patologia, in senso civilistico,
degli atti in questione. Essa, al contrario, costituisce il presupposto implicito
del disconoscimento.
L’atto elusivo potrà pure essere riguardato da prospettive differenti ma
rimane comunque e sempre il medesimo atto e, se il suo scopo (che, nella
sostanza, equivale a dire la sua ragione pratica) unico, essenziale o prevalente
che dir si voglia corrisponde ad un risultato dall’ordinamento non consentito,
al civilista risulta non facile spiegare – foss’anche ai suoi studenti di
Istituzioni di diritto privato – perché quell’atto dovrebbe essere considerato
valido.
In realtà – e qui concludo – la sensazione di fondo è che tutta la vicenda della
teorica dell’abuso del diritto nel campo tributario muova da un
allontanamento da una prospettiva unitaria dell’ordinamento giuridico che,
15
L’ABUSO DEL DIRITTO TRA DIRITTO CIVILE E TRIBUTARIO
inducendo scissioni innaturali e artificiose tra diritto civile e tributario, ha
finito col precludere il ricorso a categorie note e consolidate del diritto civile,
costringendo così i nostri amici tributaristi a mettere a punto, sia pure
attraverso percorsi faticosi e non lineari, strumenti forse ugualmente efficaci
ma probabilmente non necessari.
16
Prof. Pietro Adonnino
Professore Università di Roma
Abusi della contestazione dell’abuso del diritto della U.E.
Un contributo a questo convegno, dagli orizzonti assai ampi ma dalle finalità
ben precise nella ricerca della demarcazione tra diritto e abuso, può essere
quello dell’analisi di come si manifesta nel settore tributario il contrasto
all’abuso del diritto previsto dall’ordinamento U.E.
1
Il tema dell’AD in campo tributario e, quindi, della demarcazione tra diritto e
abuso, rileva in relazione ai modi in cui i contribuenti si comportano nella
valutazione e nella conseguente attuazione di quanto normativamente
previsto, ma riguarda anche i comportamenti dell’Amministrazione e della
giurisprudenza nel contestare l’abuso del diritto in relazione a concrete
fattispecie poste in essere dai contribuenti.
Il tema si iscrive nella incertezza della sua definizione e della sua concreta
possibilità di incidere sulla legalità di rapporti giuridici, dovuta all’origine
non già normativa ma di derivazione normativa per quel che riguarda il
principio come elaborato dalla giurisprudenza nell’ordinamento italiano.
Per quanto riguarda l’ordinamento della U.E., l’abuso del diritto trae origine
da enunciazioni di principio previste dai Trattati, da riferimenti specifici
previsti da direttive, e da elaborazioni giurisprudenziali che ne delimitano
l’area dei rapporti giuridici che può influenzare, si iscrive nei rapporti tra
ordinamento della U.E. ed ordinamenti degli Stati membri, ed è condizionato,
nelle trasposizioni applicative nell’ambito dei singoli ordinamenti nazionali,
da precise statuizioni procedurali.
2
La natura e la portata dell’AD come strutturato nell’ordinamento della U.E. è
quindi diverso da quello da ultimo emerso nell’ordinamento italiano.
Quest’ultimo esercita una funzione di supplenza, anche in assenza di norme
specifiche, per contestare operazioni mancanti di caratteristiche idonee a
legittimarle.
Quello europeo riguarda anche settori diversi da quello tributario ed è più
articolato in quanto è previsto quale principio generale nei trattati, con
riferimento a diritti e libertà, enunciato in direttive ed interpretato e chiarito
nei suoi limiti dalla elaborazione giurisprudenziale. Differisce da quello
nazionale in quanto non esercita alcuna funzione di supplenza di norme
nazionali mentre ne condiziona la legittimità e quindi ha un ruolo del tutto
particolare nell’esercizio da parte dell’Amministrazione del contrasto che può
ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E.
manifestarsi quale abuso ed altera il corretto funzionamento dei rapporti tra
ordinamento comunitario e ordinamento nazionale.
Il principio contenuto nell’ordinamento della U.E. non è di diretta
applicazione ma è fondamentalmente criterio di verifica della legittimità di
norme degli ordinamenti nazionali che lo prevedono e quanto alla
trasposizione, anche applicativa, nei singoli ordinamenti richiede valutazioni
e confronti costituenti un vero e proprio filtro.
3
La preoccupazione di assicurare corretti flussi di entrate tributarie denota da
tempo la tendenza da parte della giurisprudenza e, di seguito da parte
dell’Amministrazione, in assenza di invocati necessari interventi del
legislatore, di interpretare singole fattispecie costituenti presupposti di
imposizione in una visuale di contrasto a possibili comportamenti illegittimi
che, apprezzabili nelle sue finalità, spesso fuoriescono dai confini della
corretta interpretazione, evidenziando una esasperata strumentalizzazione.
Egualmente per quel che riguarda la trasposizione delle previsioni
dell’ordinamento della U.E. nell’ordinamento nazionale, sia in relazione al
prelievo tributario concernente transazioni intracomunitarie che per quanto
riguarda l’uniformità di regolamentazione concernenti transazioni che si
esauriscono all’interno dei singoli ordinamenti nazionali, l’Amministrazione
tende a fuoriuscire dai confini della corretta interpretazione del diritto e della
giurisprudenza
comunitari
evidenziando
altrettante
esasperate
strumentalizzazioni, comportanti abuso.
Si manifesta, quindi, in tutta la sua attualità il tema del convegno.
4
L’AD previsto dall’ordinamento della U.E., di possibile contestazione ai
contribuenti, è più limitato di quello elaborato nell’ordinamento nazionale e,
soprattutto, è condizionato dalla interferenza dell’ordinamento comunitario
sugli ordinamenti nazionali ed è regolato da norme e principi, valutati dalla
giurisprudenza.
L’abuso da parte dell’Amministrazione del principio comunitario si
manifesta con la sua non corretta invocazione, oltre i limiti che gli sono
propri, sulla base di affermazioni generiche non aventi alcun contenuto di
giuridicità, senza considerazione dei ricordati condizionamenti e si manifesta
in modo del tutto particolare quando utilizza il principio comunitario in
funzione di supplenza di norme nazionali, non idonee alla contestazione, non
considerandone i limiti e le complesse norme che regolano i rapporti tra
ordinamenti comunitari ed ordinamenti nazionali come elaborate dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia.
L’abuso è manifesto quando la contestazione della violazione di norme
nazionali è puramente formale ma è il riferimento al principio dell’AD di
18
ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E.
natura europea la vera ragione giuridica della contestazione, in assenza del
quale la stessa non avrebbe potuto essere rilevata.
L’abuso da parte dell’Amministrazione del principio, se convalidato da
successiva giurisprudenza, pregiudica i rapporti tra ordinamenti e potrebbe
portare, in ultima analisi, anche a procedimenti di infrazione.
5
Per meglio comprendere la dinamica dell’abuso in relazione a principi e
procedure violati può essere utile percorrere una concreta esperienza
professionale, contestualizzando considerazioni di quadro in una attività
accertativa concreta, nella quale possono individuarsi ambedue gli aspetti di
abuso ricordati, quello della assoluta non conoscenza o comunque non
considerazione delle norme e delle procedure che regolano la materia e quello
della supplenza di norme nazionali non idonee a fondare la contestazione.
Con avvisi di accertamento è stato negato il diritto alla detrazione dell’IVA
ed alla deduzione delle quote di ammortamento ai fini IRAP e IRES in
relazione ad una transazione di compravendita immobiliare nell’ambito di
una operazione di leasing. È stata contestata la violazione dell’art. 19 c. 1
DPR 633/72 nel primo caso e dell’art. 102 c. 7 e 109 TUIR nel secondo caso.
Quanto ai presupposti di fatto non è stata rilevata alcuna violazione diretta di
quanto previsto dai ricordati articoli. Per l’art. 19 c.1 la detrazione dell’IVA è
condizionata dal riferimento a beni e servizi importati o acquistati
nell’esercizio dell’impresa; per l’art. 107 c.2 la deduzione delle quote di
ammortamento è limitata nella misura risultante dal piano di ammortamento
finanziario; per l’art. 109 la deduzione è subordinata alla imputazione al
conto economico relativo all’esercizio di competenza. Tutti i previsti
condizionamenti e limiti sono risultati rispettati nel caso di specie. Sotto il
profilo delle norme indicate, detrazione e deduzioni non avrebbero potuto
essere contestate.
Per legittimare la contestazione, l’Amministrazione ha invocato la sentenza
della Corte di Giustizia 6/7/06, cause riunite C-439/04 e c-440/04 Kittel, dalla
quale ha tratto l’espressione di un obbligo per il giudice nazionale di negare
la detrazione ad un soggetto passivo per il quale “risulti acclarato, sulla base
di elementi obiettivi, che egli sapesse o avrebbe dovuto sapere di partecipare,
con il proprio acquisto, ad una operazione che si iscriveva in una frode
all’imposta sul valore aggiunto.
La sentenza Kittel è stata adottata a seguito di un rinvio pregiudiziale
proposto nell’ambito di un contenzioso nazionale ed ha avuto ad oggetto
l’interpretazione di una norma (l’art. 17) della VI direttiva IVA; si tratta,
quindi, di una sentenza interpretativa.
19
ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E.
6
La Fonte primaria del principio europeo di contrasto dell’abuso di diritto si fa
risalire, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2000
(2 dicembre 2009), al novellato art. 54 Trattato U.E. che riproduce quanto
previsto dall’art. 17 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
L’abuso del diritto è concepito quale divieto di interpretare alcuna
disposizione del Trattato nel senso di esercitare una attività o compiere un
atto che miri a distruggere diritti o libertà riconosciute dal Trattato stesso o ad
imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste.
L’abuso del diritto così concepito non può quindi prescindere dai diritti e
dalle libertà riconosciute dal Trattato stesso.
Si tratta di un principio generale che necessita, di per sé, di ulteriori
articolazioni per divenire in una qualche misura imperativo.
Il Trattato U.E. enuncia, dalla costituzione della Comunità, le 4 libertà
fondamentali su cui si basa, libera circolazione di beni, persone – in
particolare diritto di stabilimento per professionisti e imprese –, capitali e
servizi. Sono quelle che non possono comunque essere violate, in
assoluto, anche in settori la cui competenza normativa è attribuita agli
Stati, quale quello dei tributi non armonizzati. Eventuali norme che
violassero le libertà costituirebbero abuso del diritto, come emerge
chiaramente dalle sentenze della Corte Europea casi C-373/97 e C367/96 (norma danese), C-206/94 (norma tedesca), C-167/01 (norma
olandese).
Previsioni anti-abuso sono contenute nelle direttive, sia come richiesta
agli Stati di inserirle nelle legislazioni interne, sia come legittimazione di
iniziative legislative in tal senso da parte dei singoli Stati.
La fonte più frequente del contrasto all’abuso del diritto
nell’ordinamento della U.E. è l’elaborazione giurisprudenziale da parte
della Corte di Giustizia, che viene di norma invocata e che, se non
correttamente letta, è a sua volta fonte di abuso del contrasto all’abuso
del diritto.
I limiti, le procedure di trasposizione nell’ordinamento nazionale e la vis
espansiva della giurisprudenza condizionata dalle procedure, sono
elementi dai quali non si può prescindere per valutare la correttezza
dell’uso del principio quale base giuridica di contestazioni di violazione
di norme.
7
Il principio dell’AD europeo, di cui si discute, è dunque tratto
dall’interpretazione di una norma contenuta in una direttiva.
La direttiva obbliga in primo luogo lo Stato cui si rivolge ad adottare misure
di esecuzione. Solo nell’eventualità che rimanga inattuata spiega effetti diretti
che consistono esclusivamente nel riconoscere agli individui la facoltà di
20
ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E.
invocare le previsioni della direttiva stessa nei confronti dello Stato
inadempiente al fine di conseguirne posizioni soggettive di vantaggio.
La direttiva non produce obblighi a carico di soggetti individuali non essendo
questi destinatari della stessa. La Corte di Giustizia, Grande Sezione, nella
sentenza 17/7/08 in cause riunite da C-152/07 a C-154/07 Arcor ha statuito
che “secondo una giurisprudenza costante una direttiva non può, di per sé,
creare obblighi a carico dei singoli ma solo diritti” (par. 35).
In base a tale chiara statuizione sono da valutarsi le pronunzie della Corte
Europea in tema di detrazione IVA.
Anche la sentenza Kittel, come le altre che si sono pronunziate sulla
medesima materia, ha rilevato che l’art. 4 della VI Direttiva stabilisce un
diritto soggettivo alla detrazione dell’imposta a favore del soggetto passivo.
Tale diritto, determinato nel suo contenuto dal legislatore nazionale, è stato
verificato quanto alla sua portata. Ed è stato osservato che osta ad una norma
di diritto nazionale secondo cui l’annullamento del contratto di vendita per
effetto di una disposizione di diritto civile che sanziona tale contratto con la
nullità assoluta in quanto contrario all’ordine pubblico per una causa illecita
perseguita dall’alienante, comporta per tale soggetto passivo, la perdita del
diritto alla detrazione (si tratta della questione rimessa alla Corte da un
giudice belga, che ha dato ingresso alla sentenza Kittel).
La Corte ha però anche precisato che la VI Direttiva non intende conferire un
diritto alla detrazione a favore del singolo quando “risulti acclarato, alla luce
di elementi obiettivi, che la cessione è stata effettuata nei confronti di un
soggetto passivo che sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare con
l’acquisto ad una operazione che si iscriveva in una frode all’IVA”.
La corretta trasposizione del contenuto del diritto nell’ambito
dell’ordinamento nazionale deve quindi far seguito ad una norma che
preveda che i singoli non possono avvalersi del diritto soggettivo alla
detrazione nelle ricordate circostanze e che, in quanto tale, non contrasti con
il rilevante diritto comunitario.
È sulle basi di una simile previsione normativa che il giudice nazionale può
negare il diritto ed è questa norma a costituire fondamento giuridico della sua
decisione.
Il fondamento non può essere rinvenuto nella VI Direttiva che si limita ad
imporre agli Stati membri di concedere ai singoli un diritto alla detrazione
limitabile nella sua portata oggettiva.
Lo Stato italiano non ha esercitato tale facoltà o, comunque, non ha attuato
tale obbligo in quanto con l’art. 19 c. 1 ha riconosciuto un diritto alla
detrazione non ulteriormente qualificato.
8
In ogni caso è necessario determinare i limiti di applicazione delle statuizioni
della sentenza, delimitarne quindi la vis espansiva in base al carattere
verticale della dottrina degli effetti diretti.
21
ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E.
La sentenza Kittel è una sentenza interpretativa. Principio fondamentale di
teoria del diritto è quello che una sentenza interpretativa può allargare o
restringere la portata soggettiva ovvero oggettiva di un atto ma non può
conferire all’atto interpretato effetti maggiori di quelli che sono propri della
natura dell’atto medesimo.
L’interpretazione di una disposizione da parte della Corte Europea spiega
effetti nell’ambito dell’ordinamento nazionale limitatamente alla fattispecie
rispetto alla quale è stata adottata ovvero anche a fattispecie diverse che siano
però strutturalmente e funzionalmente analoghe alla prima.
Si tratta di un principio generale di teoria dell’interpretazione.
Se ne trae, a contrario, cognizione che l’interpretazione della Corte non si
estende a fattispecie apparentemente analoghe ma non dotate di quel nesso di
fungibilità funzionale e strutturale con la fattispecie in relazione alla quale
l’interpretazione è stata fornita.
La Corte ha indicato ai giudici nazionali la necessità di limitare la portata
applicativa di un principio interpretativo stabilito in una precedente sentenza
alle circostanze specifiche del caso in riferimento al quale era stato
pronunziato, in tutte le sentenze relative a casi in cui la questione era stata
espressamente sollevata (fra le tante 30/4/96 Bestuur van de Sociale
Verzekeringsbank, causa C-308/93, e 12/2/08 causa C-2/06 Kempter).
9
Avendo manifestato, nel caso in esame, di non avere alcuna cognizione
specialistica dell’ordinamento della U.E., l’Amministrazione non ha
provveduto ad individuare in relazione a quale fattispecie relativa alla
detrazione IVA si fosse pronunziata l’invocata sentenza Kittel, una delle tante
nelle quali è stato qualificato l’abuso del diritto in relazione ad una fattispecie
specifica.
L’applicabilità della dottrina dell’abuso del diritto alla detrazione IVA era
stata affermata dalla Corte nella sentenza della Grande Sezione del 21/2/06 in
causa C-255/00, Halifax. La statuizione era stata piuttosto drastica “I singoli
non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente delle norme
comunitarie”.
Ha provveduto l’Avvocato Generale a rilevare che il principio, così
enunciato, in forma generale e ridondante, di per sé non può chiarire se un
diritto derivante da una specifica disposizione comunitaria sia stato esercitato
in maniera abusiva. Ed ha precisato che perché il principio diventi operativo
occorrono una dottrina o un criterio più puntuali, indicandone i presupposti
ed i limiti.
La sentenza Kittel ha pronunziato in termini di una fattispecie qualificabile
“frode carosello”, alla quale fa specifico riferimento, limitando di
conseguenza l’efficacia della statuizione a tale fattispecie ovvero a fattispecie
analoghe purché dotate, come ricordato, di nesso di fungibilità funzionale e
strutturalecon la frode carosello, le cui caratteristiche erano state descritte
22
ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E.
dettagliatamente nelle sentenze precedentemente riunite C-354/03, C-355/03
e C-484/03 Optigen (par. 13).
Non può essere messo in dubbio che la formula “sapeva o avrebbe dovuto
sapere” non costituisce una formula generica applicabile a qualsivoglia caso
in cui il giudice nazionale possa presumere la conoscenza del soggetto
coinvolto in una operazione diretta ed effettuare una frode all’IVA. Tale
formula è riferibile esclusivamente, stante alla sentenza Kittel, alla fattispecie
concreta definibile frode carosello.
La Cassazione in alcune sentenze (tra le altre 1364/2011) ha riferito il
principio della conoscenza all’art. 19 c. 1 DPR 633/72; ha valutato le
operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti quali elementi
qualificanti della frode carosello, aggiungendo (n. 1953/2011) che il
meccanismo della operazione e gli scopi che la stessa si propone fanno
presumere la piena conoscenza della frode e la conseguente partecipazione
all’accordo simulatorio del beneficiario, con la conseguente indetraibilità
dell’IVA.
Il riferimento può trovare spiegazione nella mancanza, in siffatta situazione,
del requisito di operazione compiuta nell’esercizio di impresa.
A maggior ragione si convalida la limitazione dell’utilizzo del principio alla
frode carosello.
Le caratteristiche delle operazioni considerate nel contenzioso cui qui si fa
riferimento nessun nesso di fungibilità funzionale-strutturale hanno con la
frode carosello; la stessa Amministrazione non l’ha ritenuta tale ed anzi ha
lasciato intendere di non ritenerla tale.
10
L’uso strumentale dell’abuso del diritto come riferibile al diritto comunitario,
quindi il suo abuso, è evidenziato in modo ancor più lampante quando si
consideri che la sentenza Kittel, che ha pronunziato in tema di IVA, è stata
indiscriminatamente evocata anche per legittimare le contestazioni in tema di
IRAP ed IRES, tributi diretti, quindi non armonizzati.
La giustificazione la si trova in frasi generiche e dalla nessuna rilevanza
giuridica quali quella che qualifica il riferimento alla medesima sentenza C439/04, C-440/04 quale paradigmatica di una costante attenzione rivolta alla
corretta applicazione da parte dei contribuenti e degli Stati nazionali dei
diritti derivanti dalle fonti comunitarie; ovvero che la pronunzia (della Corte
Europea nella ricordata sentenza) non è che la conferma dell’orientamento
espresso dalla Corte per il quale gli interessati non possono avvalersi
abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario; ovvero ancora che
si tratta di principi ricavabili dalla interpretazione delle norme della direttiva
applicabile erga omnes.
È fin troppo evidente la confusione tra imposte armonizzate (IVA) ed
imposte non armonizzate (IRAP e IRES) per la quale una statuizione in sede
di interpretazione della VI diretta IVA dovrebbe esprimere efficacia anche ai
23
ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E.
fini delle imposte dirette non armonizzate, ed è, quindi, troppo evidente
l’abuso da parte dell’Amministrazione.
Il tema dell’abuso del diritto quale ipotesi di principio fondamentale del
diritto comunitario limitato alle imposte armonizzate ovvero esteso quale
abuso di libertà fondamentali anche alle imposte non armonizzate è stato
posto dalla Cassazione con l’ordinanza 22309 del 3/11/2010 con cui ha
chiesto alla Corte Europea di pronunziarsi in via pregiudiziale in questioni di
interpretazione del diritto comunitario e, tra l’altro, anche in quello enunciato,
facendo un preciso riferimento alle sentenze in causa C-255/02 e C-425/06
Halifax e Part Service, peraltro limitatamente alla imposizione di fatti
economici transnazionali quale l’acquisto di diritti di godimento da parte di
una società in azioni di un’altra società avente sede in un altro Stato membro
o in un altro Stato terzo.
La Cassazione, quindi, non si è nemmeno posta il problema che l’AD possa
costituire principio del diritto comunitario in materia di tributi non
armonizzati, tranne, eventualmente, che si tratti di imposte aventi per oggetto
fatti economici transnazionali.
La Corte Europea con la sentenza 29/3/2012 nel caso C-417/2010 al punto 32
è stata chiarissima statuendo che “nel diritto dell’Unione non esiste alcun
principio generale dal quale discende un obbligo per gli Stati membri di
lottare contro le pratiche abusive nel settore della fiscalità diretta”.
L’Amministrazione, come visto, ha fondato un accertamento avente ad
oggetto tributi diretti su di un preteso principio generale di diritto europeo di
AD, desunto peraltro da una sentenza della Corte Europea in tema di IVA,
che non esiste.
In questo caso la strumentalizzazione, e quindi l’abuso dell’utilizzo di un
principio di contrasto all’abuso del diritto, è assolutamente manifesta.
11
Dalle ricordate esperienze possono trarsi tre considerazioni. Una prima
riguarda il fatto che un principio dell’ordinamento della U.E. di contrasto
all’abuso del diritto non può indiscriminatamente essere invocato in
interventi accertativi dell’ordinamento nazionale per supplire alla mancanza
di idonei strumenti normativi.
Una seconda riguarda il fatto che quand’anche possono esservi validi motivi
per l’utilizzo del principio questi non possono prescindere dalla verifica della
natura e dei limiti di utilizzabilità del principio stesso.
La terza riguarda il fatto che non esiste nell’ordinamento della U.E. un
principio di abuso del diritto per quel che riguarda i tributi non armonizzati,
del quale quindi non è possibile contestare la violazione.
In tutte le ricordate statuizioni, ove non correttamente interpretate, si avrebbe
abuso del principio di contrasto all’AD come espresso nell’ordinamento della
U.E., con questo interferendo sulla corretta interdipendenza tra i due
ordinamenti.
24
ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E.
L’abuso da parte dell’Amministrazione, ed eventualmente della
giurisprudenza che dovesse validarla, del contrasto a situazioni di abuso del
diritto supererebbe i confini dell’ordinamento giuridico nazionale e
costituirebbe violazione del diritto della U.E. con ogni possibile conseguenza.
25
Enrico Altieri
Già presidente della Sezione tributaria della Corte di Cassazione
La codificazione del principio dell’abuso del diritto in campo
fiscale
1 Premessa
La scelta di dare veste normativa scritta alle clausole generali anti –elusione
nel contesto dei diversi ordinamenti costituisce oggetto, da diversi decenni,
di un acceso dibattito mondiale.
In Italia, dopo tentativi senza esito dei tempi recenti, suscitati dalle pronunce
della Cassazione, si è aperto un importante ( e stavolta, sembra, decisivo )
spiraglio a favore di tale scelta col recente disegno di legge – delega
governativo in materia fiscale, il quale contiene, all’art. 6, una dettagliata
disciplina in tema di operazioni abusive. Occorrerà, quindi, attendere le
concrete scelte del Governo nell’adozione dei decreti delegati.
Come è avvenuto in altri Paesi, tale scelta viene vivacemente contestata da
più parti, particolarmente perché la stessa porterebbe un blocco al contrasto
della pianificazione fiscale aggressiva, soprattutto quando la stessa avviene
all’interno dei grandi gruppi d’imprese. Prima di esaminare la norma del
progetto ci pare opportuno ricordare la disciplina vigente in alcuni Paesi,
anche con riferimento all’esistenza di specifiche norme scritte.
2 L’esperienza tedesca
Ci sembra che presenti un particolare interesse, anche perché - come posso
personalmente testimoniare, quale componente del collegio della Sezione
tributaria nelle prime pronunce in materia - ha influito sulla definizione di
abuso elaborata dalla Cassazione, la formulazione del § 42, comma 2,
della legge generale tributaria ( Abgabeordnung ) tedesca, la quale, nel testo
del 1977, prevedeva che «Liegt ein Missbrauch vor, so entsteht der
Steueranspruch so, wie er bei einer den wirtschaftlichen Vorgängen
angemessenen rechtlichen Gestaltung entsteht» (Se è presente un abuso,
sussiste la pretesa tributaria come se esistesse una forma giuridica adeguata
all’operazione economica). La recente modifica del § 42 non recepiva un
progetto di legge ministeriale del 2008, secondo cui si considerava abusiva
l’operazione, da cui conseguiva un vantaggio fiscale, soltanto per il carattere
non usuale della forma giuridica impiegata ( «ungewöhnliche Gestaltung» ).
Il nuovo testo manteneva, quindi, la precedente definizione «forme non
adeguate all’operazione economica», recependo, però, il progetto nella parte
in cui addossava al contribuente l’onere della prova dell’esistenza di ragioni
extrafiscali.
LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO
FISCALE
Si riporta il testo vigente:
§ 42 Missbrauch von rechtlichen Gestaltungsmöglichkeiten
(1) Durch Missbrauch von Gestaltungsmöglichkeiten des Rechts kann das
Steuergesetz nicht umgangen werden. Ist der Tatbestand einer Regelung in
einem
Einzelsteuergesetz
erfüllt,
die
der
Verhinderung
von
Steuerumgehungen dient, so bestimmen sich die Rechtsfolgen nach jener
Vorschrift. Anderenfalls entsteht der Steueranspruch beim Vorliegen eines
Missbrauchs im Sinne des Absatzes 2 so, wie er bei einer den
wirtschaftlichen Vorgängen angemessenen rechtlichen Gestaltung entsteht.
(2) Ein Missbrauch liegt vor, wenn eine unangemessene rechtliche
Gestaltung gewählt wird, die beim Steuerpflichtigen oder einem Dritten im
Vergleich zu einer angemessenen Gestaltung zu einem gesetzlich nicht
vorgesehenen Steuervorteil führt. Dies gilt nicht, wenn der Steuerpflichtige
für die gewählte Gestaltung außersteuerliche Gründe nachweist, die nach
dem Gesamtbild der Verhältnisse beachtlich sind.
§42 Abuso di possibili forme giuridiche
(1) La legge fiscale non può essere aggirata attraverso abuso di possibili
forme giuridiche. Se si realizza la fattispecie di una disciplina in una singola
legge tributaria, gli effetti giuridici devono essere determinati secondo tale
disposizione. Negli altri casi la pretesa fiscale, nel caso della presenza di un
abuso ai sensi del comma 2, sussiste come quella derivante da una forma
giuridica appropriata all’operazione economica.
( E’ presente un abuso se viene scelta una forma giuridica inappropriata, la
quale comporta, per il contribuente o un terzo, a differenza di una forma
appropriata, ad un vantaggio fiscale legislativamente non previsto. Ciò non
vale quando il debitore dà la prova di ragioni extra – fiscali per la forma
scelta, che siano desumibili dall’intero quadro dei rapporti).
3 La «economic substance doctrine» negli U.S.A.
Il richiamo, contenuto nella sentenza della Sezione tributaria 1372/ 11, alla
economic substance doctrine e alla sua recente codificazione, apre un
orizzonte sull’esperienza degli USA, la quale offre interessanti spunti anche
per l’ordinamento europeo ed italiano 1.
La economic substance doctrine è di origine giurisprudenziale. Il leading
case è considerato la sentenza della U.S. Supreme Court Gregoring v.
Helvering ( n. 293 U.S. 465 del 1935 ), concernente l’acquisto dell’intero
1
L’utilità è stata già colta da molti Autori: si veda Prebble, Z. e J., Comparing the
General Anti – Avoidance Rule of Income Tax Law with the Civil Law Doctrine of
Abuse of Law, Bulletin for International Taxation, aprile 2008, pag. 151; Lampreave,
Las doctrinas judiciales norteamericanas de anti – abuso fiscal ( con especial
consideración a la reciente codificación de la doctrina sobre la sustancia económica
) y la doctrina sobre los acuerdos artificiales aplicable en la Unión Europea ( anti –
tax avoidance doctrines in the US and the EU ), Westlawes, 2011, n.21, pag. 1; la
stessa, An Assessment of the Anti – Tax Avoidance Doctrines in the United States and
the European Union, Bulletin for International Taxation, marzo 2012, pag. 153.
28
LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO
FISCALE
capitale di una società, incorporata da altra società che deteneva un’altra
partecipazione, con immediata liquidazione di entrambi i cespiti e percezione
dell’importo della liquidazione. Secondo l’amministrazione finanziaria
federale ( Income Revenue Service, IRS ), le operazioni avevano il solo scopo
di evitare la tassazione sui dividendi.
Il giudice di primo grado aveva accolto il ricorso della contribuente; il
Second Circuit Court of Appeals2 accoglieva il ricorso dell’IRS e tale
decisione veniva confermata dalla U.S. Supreme Court. Interessante è anche,
nella prospettiva di una codificazione del principio, quale sollecitata da
diverse iniziative legislative, il dibattito che ha preceduto la riforma, nel
quale si erano pronunciati in senso negativo, oltre che autorevoli scrittori 3, lo
stesso Income Revenue Service e perfino organizzazioni professionali, quali
l’American Institute of Certified Public Accountants in un documento del
2009. Anche dopo la codificazione del principio, avvenuta nel 2010, non
sono mancate voci critiche autorevoli, e raccomandazioni ad uso cauto dello
strumento: particolarmente interessanti le osservazioni della New York State
Bar Association, nel suo Report on codification of the economic substance
doctrine del 5 gennaio 2011.
4 L’affermazione del principio dell’abuso del diritto in giurisprudenza:
ricerca della sua matrice nelle diverse aree impositive e nelle diverse
tipologie di operazioni elusive
L’attenzione data ai primi casi ( dividend washing e dividend stripping )4 in
cui la Cassazione si era posta il problema dell’individuazione di una clausola
generale antielusiva appare oggi, sinceramente, sproporzionata, anche perché
trascurava il vero e rilevante campo in cui l’impiego dello strumento
dell’abuso del diritto deve essere guidato da regole certe.
Infatti, dopo l’introduzione del principio in giurisprudenza si è assistito ad un
ricorso spesso non adeguatamente motivato alla figura, anche in casi nei quali
la scelta – in ossequio ai principi costituzionali e comunitari ( libertà
d’impresa, diritto di stabilimento e di libera circolazione dei capitali ) – non
2
E’ rimasta famosa l’opinione espressa dal giudice Hand il quale, pur ritenendo la
fondatezza dell’appello dell’IRS, premetteva: « Anyone may so arrange his affairs
that the taxes shall be as low as possible; he is not bound to choose that pattern which
will best pay the treasury; there is not even a patriotic duty to increase one’s taxes »
3
Di particolare interesse, Ventry, D. jr, Save the economic substance doctrine from
Congress, Tax Notes, 2008, , pag 31.; Vanderwolk, Codification of the Economic
Substance Doctrine: if we can’t stop it, let’s improve it, Tax Notes. 2009, agosto, pag.
547
4
Sentenze n.20398 e 22932 del 2005, nelle quali la Corte, pur cogliendo dalla
giurisprudenza comunitaria lo sforzo diretto ad enunciare un principio di contrasto
all’abuso del diritto, non aveva ricavato tale principio dalle sentenze della Corte di
Giustizia e, seguendo l’indicazione dell’Avvocato Generale nella causa Halifax ( non
ancora definita ), aveva utilizzato la categoria civilistica della nullità per mancanza in
concreto della causa negoziale.
29
LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO
FISCALE
può ritenersi sindacabile, come la scelta di una forma societaria
esclusivamente per ragioni fiscali.
Il campo degno di attenzione non è costituito dalle operazioni finanziarie,
ma dalle ristrutturazioni societarie.
Questa esigenza è stata avvertita anche dalla giurisprudenza della Cassazione.
Pur prendendo atto della giurisprudenza delle Sezioni Unite, le quali
traggono la fonte del principio da quello di capacità contributiva di cui all’
art. 53 della Costituzione, posso rendere una diretta testimonianza, come
estensore
delle prime sentenze, che l’ispirazione è derivata dalla
giurisprudenza comunitaria, (oltre che, come si è detto, dall’esperienza
giuridica tedesca)5. Tale approccio sistematico si è dimostrato di grande
utilità, anche perché si evitavano fuorvianti commistioni con l’istituto
dell’abuso del diritto elaborato in campo civilistico.
Non è questa l’occasione per esaminare la regola affermata dalle Sezioni
Unite, della cui correttezza non sono, peraltro, pienamente convinto.
Probabilmente va ricercata una spiegazione sistematica di carattere interno:
il diritto di impiegare una forma giuridica lecita o addirittura prevista
dall’ordinamento comporta, come suo limite essenziale, il divieto di
impiegarla al di fuori della vicenda economica che le è propria, come è
avvenuto per la figura del c.d. «abuso» del processo6. Mi sembra
illuminante l’antico dibattito tedesco tra la «Aussentheorie» e la
«Innentheorie»7, è cioè se l’abuso di forme giuridiche desse luogo alla
creazione di nuove fattispecie impositive (con necessità, quindi, di
un’espressa previsione legislativa), o se si trattasse di una mera implicazione
interna della forma giuridica scelta.
5 Le operazioni di riorganizzazione societaria
La tassazione delle operazioni di riorganizzazione societaria è stata oggetto
soltanto in tempi recenti di pronunce giurisprudenziali di legittimità, mentre
l’area privilegiata dell’abuso, e delle relative sentenze, era costituita dalle
operazioni finanziarie e dal frazionamento artificioso di forme giuridiche 8.
Mi sembra opportuno richiamare la sentenza n. 1372 / 11, nella quale la
Cassazione affermava che il trasferimento di un ramo d’azienda, volto a
rendere più efficiente la presenza sul mercato di un operatore farmaceutico in
5
Le prime edizioni della Abgabeordnung, risalenti al secondo decennio degli anni
XX, prevedevano l’abuso di « forme giuridiche del
diritto civile ( Missbrauch von
Formen und Gestaltungsmöglichkeiten des bürgerlichen Rechts )». V. Hensel,
Steuerrecht, Springer, Berlino, 1933, pagg. 98 – 100.
6
Sezioni Unite, sentenza n. 23726 / 07.
7
Per una sintesi si rimanda a Lusga, Die Verhinderung von Steuerumgehungen bei
Unternehmensumstrukturierungen, Verlag Dr. Kovač, Amburgo, 2006, pagg. 29 -32
8
Sul frazionamento artificioso presenta particolare interesse la sentenza della Sezione
tributaria 25374 / 98, Part Service, e la decisione della Corte di Giustizia ( causa C –
425 / 06 ) sul rinvio pregiudiziale proposto dalla Cassazione nello stesso
procedimento.
30
LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO
FISCALE
uno specifico settore, una volta non contestate le ragioni dell’operazione, non
poteva essere considerato abusivo soltanto perché con lo stesso si verificava
un trasferimento dei debiti, trasferimento che non si sarebbe verificato se,
invece del trasferimento del ramo d’azienda, si fosse dato luogo ad una
fusione ( con conseguente neutralità fiscale dell’operazione ). La sentenza
conteneva anche un richiamo all’ordinamento statunitense nel quale si
codificava la c.d. « economic substance doctrine», la quale ricorre quando
coesistano due condizioni, una oggettiva ( l’operazione deve avere un
contenuto economico diverso dal risparmio fiscale ) e uno soggettivo ( deve
esistere un serio intento di profitto, business purpose). Secondo la Corte, una
seria finalità di riorganizzazione sociale, soprattutto nell’ambito di un gruppo
d’imprese, esclude la natura abusiva dell’operazione, anche in mancanza di
prospettive d’incremento reddituale in tempi brevi. Si tratta di una regola che,
pur avendo matrice interna, riecheggia chiaramente i principi della
giurisprudenza comunitaria, e particolarmente il dettato del già richiamato
articolo della direttiva sulle fusioni. La sentenza ha fornito alcune
precisazioni su principi già enunciati in precedenti pronunce, e non
costituisce affatto, come sostenuto da alcuni 9, un révirement della precedente
giurisprudenza. tanto più che la decisione si pone nel solco del diritto
comunitario. Secondo l’art. 11, n. 1, lett. a), della direttiva sulle fusioni (
90/434/CEE ), come interpretato dalla Corte di Giustizia, da ultimo nella
sentenza del 10 novembre 2011 in causa C – 126 / 10, Foggia – Sociedade
Gestora de Participaçoes Sociales SA . Secretario de Estrado dos Asuntos
Fiscales ) le ragioni economiche che rendono opponibile un’operazione di
fusione all’Amministrazione Finanziaria ( ai fini di beneficiare del regime
fiscale agevolativo previsto dalla direttiva ) possono consistere anche nella
ristrutturazione o la razionalizzazione delle attività delle società partecipanti
all’operazione10
In materia di riorganizzazione societaria si richiamano, fra le più recenti, le
sentenze della Sezione tributaria n. 21782 e 25537 del 2011 e n. 7393 del
2012.
6 La codificazione del principio dell’abuso del diritto
Sull’opportunità di una codificazione della regola esiste ormai un dibattito
mondiale, il quale dovrebbe essere seguito da un legislatore accorto, anche
per opportune scelte di campo. Si è constatata, infatti, un’ assenza di rigore
negli interventi degli uffici finanziari, i quali sono giunti ad utilizzare lo
strumento in ipotesi in cui la scelta dell’imprenditore deve essere libera,
quale la scelta di una forma societaria anziché di un’altra, scelta che è
limitata soltanto dai principi costituzionali in tema di libertà d’impresa, e dal
9
Si veda l’articolo su “ Il Sole 24 Ore “ 22 gennaio 2011, Frenata sull’abuso del
diritto.
10
Tali ragioni, come avverte la sentenza Foggia, non possono esaurirsi nel mero
risparmio di costi derivanti dalla soppressione di un soggetto.
31
LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO
FISCALE
rispetto delle libertà fondamentali garantite dal Trattato sull’Unione Europea,
in particolare dal diritto di stabilimento, il quale garantisce, fra l’altro, una
piena libertà di organizzare le forme giuridiche di impresa. Mi sembra
opportuno richiamare, in proposito, anche se non riguardante il campo
fiscale, la sentenza Centros,11 secondo cui può essere scelta la sede di una
società in uno Stato membro anche per usufruire di una diritto societario più
favorevole ( nella specie, il regime di anonimato azionario ), anche se in tale
Stato la società non eserciti attività produttiva. Devo ricordare, comunque,
che l’applicazione del principio in materia fiscale non è stata da tutti
riconosciuta.
Mi pare, a questo punto, opportuno ricordare che negli USA è stato
codificato il principio della Economic Substance Doctrine, anche qui
risolvendosi un acceso e pluriennale dibattito tra sostenitori e oppositori della
codificazione Le relative norme, che si riportano testualmente in nota 12sono
contenute nella riforma sanitaria ( Health Care and Education Reconciliation
Act of 2010 ), la cui Sezione 1409 ha introdotto una nuova sezione ( 7701 )
nell’U.S. Code. Si veda anche la relazione esplicativa del 21 marzo 2010
del Joint Committee on Taxation del Senato e della Camera dei
Rappresentanti, riuniti in Congress.13 Il punto più significativo della riforma
è costituito dalla necessaria presenza dei due presupposti ai fini della
riconoscibilità dell’operazione ai fini fiscali: si richiede, infatti, non soltanto
l’esistenza di una oggettiva sostanza economica, consistente in una
significativa (meaningful) modifica della situazione economica
dell’operatore, ma anche un fine di profitto (business purpose). Sulla
necessaria compresenza delle due condizioni (two – prong test) vi era stato
un lungo contrasto in giurisprudenza, contrasto che aveva costituito uno dei
principali motivi della codificazione.
11
Sentenza 9 marzo 1999, C – 212 / 97.
(A) ECONOMIC SUBSTANCE DOCTRINE. – The term “ economic substance
doctrine” means the common law doctrine under wich tax benefits under subtitle A
with respect to a transaction are not allowable if the transaction does not have
economic substance or lacks a business purpose’s
CLARIFICATION OF ECONOMIC SUBSTANCE DOTCTRINE
(1) GENERAL RULES
(A) IN GENERAL. In any case in which a court determines that the economic
substance doctrine is relevant for purposes of this title to a transaction ( or series of
transactions) shall have economic substance only if the requirements of this paragraph
are met.
(B) DEFINITION OF ECONOMIC SUBSTANCE. For purposes of sub- paragraph
(i) IN GENERAL. – A transaction has economic substance only if –
(I) the transaction changes a meaningful way ( apart from Federal tax effects ) the
taxpayer’s economic position, and
(II) subject to clause ( iii ), the tax- payers has a substantial purpose ( other than
a Federal tax purpose ) for entering into a such transaction.
(D) TRANSACTION. – The term “transaction” includes a series of transactions.
13
Technical explanation of the revenue provisions of the “Reconcilation Act of 2010,
as amended, in combination with the “ Patient protection and affordable Care Act”.
12
32
LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO
FISCALE
La richiamata sentenza 1372 / 11 aveva richiamato la soluzione legislativa
U.S.A., proprio per significare, in armonia con la giurisprudenza comunitaria,
che le operazioni di riorganizzazione, per non essere considerate abusive,
non dovevano comportare una previsione di profitto.
Sarebbe opportuno che amministrazione finanziaria e giurisprudenza - così
come avviene in altri Paesi – forniscano più precise indicazioni per una
tipologia di operazioni immuni da rilievi sotto il profilo dell’abuso.
Ci pare di particolare interesse ricordare che negli USA, al fine di rendere
più agevole l’applicazione della nuova norma e in considerazione
dell’applicazione non sempre univoca che ne avevano fatto le Corti, l’IRS ha
emanato una serie di atti interpretativi che contengono una tipologia di
operazioni elusive14.
7 L’applicazione delle regole comunitarie in materia di abuso del
diritto ai tributi non armonizzati
Per quanto riguarda i contributi non armonizzati, in relazione a situazioni
meramente interne, si deve riconoscere che la posizione delle Sezioni Unite
14
Si veda, fra tutti, la direttiva dell’IRS del 15 luglio 2011 ( Guidance for Examiners
and Managers on the Economic Substance Doctrine and related penalties ).Il punto 2
contiene l’indicazione di alcuni elementi rivelatori della natura elusiva di
un’operazione:
- Transaction is promoted/ developed/administrated by tax department or outsiders
advisors
- Transaction is highly structured
- Transaction includes unnecessary steps
- Transaction is not at arm’s length with unrelated third parties
- Transaction creates no meaningful economic change on a present value basis ( pretax)
- Taxpayer’s potential for gain or loss is artificially limited
- Transaction accelerates a loss or duplicates a deduction
- Transaction generates a deduction that is not matched by an equivalent economic
loss or expense ( including artificial creation or increase in basis of an asset)
- Transaction holds offsetting positions that largely reduce or eliminate the economic
risk of the transaction
- Transaction involves a tax-indifferent counterparty that recognises substantial
income
- Transaction results in separation of income recognition from a related deduction
either between different taxpayers or between the same taxpayer in different tax
years
- Transaction has no credible business purpose apart from federal tax benefits
- Transaction has no meaningful potential for profit apart from federal tax benefits
- Transaction has no significant risk of loss
- Tax benefit is artificially generated by the transaction
- Transaction is pre-packaged
- Transaction is outside the taxpaywer’s ordinary business operations.
33
LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO
FISCALE
circa la possibilità di applicazione d’ufficio, anche nel giudizio di cassazione,
del principio necessiterebbe di un più articolato supporto sistematico 14.
E’ in tale prospettiva che si muoveva l’evoluzione del diritto comunitario. Mi
limiterò a richiamare la comunicazione della Commissione in materia di
abuso del diritto nell’imposizione diretta14 e la proposta della Commissione
di una direttiva del Consiglio ( COM ( 2011 ) 121 del 16 marzo 2011 ) sulla
base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società, la quale
contiene un’ apposita norma generale anti – abusi ( art. 80 ), la quale si
riferisce alle « operazioni artificiali svolte con l’esclusivo intento di eludere
l’imposizione».
Si deve far riferimento, a questo punto, all’ordinanza di rinvio pregiudiziale
della Corte di Cassazione 4 agosto 2010,n. 18055, avente ad oggetto un caso
di dividend stripping ( usufrutto di azioni costituito a da società non residenti
a favore di società residenti, al fine di sottrarsi al regime impositivo dei
dividendi spettanti a non residenti ), per il quale la società aveva dichiarato di
volersi avvalere della misura di definizione agevolata ( pagamento del 5%
dell’imposta richiesta ) dei giudizi pendenti dinanzi alla Corte di Cassazione,
nei quali il contribuente aveva ottenuto le due pronunce di merito favorevoli,
di cui al d.l. 25 marzo 2010,n. 40, convertito con la legge n. 73 del 2010.
Nell’ordinanza di rinvio, prendendosi atto dell’orientamento della
giurisprudenza di legittimità circa la matrice non comunitaria della clausola
antielusione in materia di imposte non armonizzate, si erano interrogati i
Giudici comunitari sulla violazione, da parte di tale misura, dei principi del
mercato unico e degli aiuti di Stato, nel caso di una pressoché totale rinuncia
al contrasto a operazioni abusive.
La Corte di Giustizia, nella recentissima sentenza del 29 marzo 2012 ( causa
C - 417 / 10 ), ha ritenuto, però, l’esclusiva competenza degli Stati membri
in materia d’imposizione diretta, salvo il rispetto dei principi generali e dei
diritti fondamentali del diritto comunitario, che nella specie non ha
considerato violati. In particolare, la Corte ha escluso l’esistenza di un aiuto
di Stato, disattendendo sul punto le conclusioni della Commissione.
La sentenza
costituisce una chiara inversione di tendenza rispetto alla
sempre maggior diffusione di General Anti Avoidance Rules su scala
mondiale. Tale inversione viene attualmente considerata come frutto del
principio di unanimità in materia tributaria, freno a tentativi di
armonizzazione della fiscalità diretta. Dalla stessa sentenza deriva,
ovviamente, un sostegno sistematico alla già citata giurisprudenza delle
Sezioni Unite sulla matrice non comunitaria del principio dell’abuso del
diritto in materia di tributi non armonizzati.
8 La proposta di legge Leo del 18 giugno 2009
Prendendo atto delle pronunce della Cassazione che avevano applicato i
principi affermati dalla Corte di Giustizia nelle sentenze 21 febbraio 2006 in
causa C – 255/02, Halifax, e 21 febbraio 2008 in causa C- 405/06, Part
Service ( la seconda su rinvio pregiudiziale della Sezione tributaria della
34
LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO
FISCALE
Cassazione ), introducendo nel nostro ordinamento, in difetto di previsione
legislativa, un generalizzato divieto di operazioni elusive, la proposta
evidenzia la necessità di distinguere tra il legittimo risparmio d’imposta e
l’elusione fiscale. Il progetto modifica, quindi, parzialmente la formula
dell’art. 37 – bis del D.P.R. 22 settembre 1973, n. 600, nel senso che possono
essere disconosciuti dall’amministrazione finanziaria solo quei
comportamenti «diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti
dall’ordinamento tributario », nei quali « il contribuente fa un uso distorto
degli strumenti negoziali messi a sua disposizione dal sistema ». E’ evidente
che si adotta, in tal modo, la via indicata dalla giurisprudenza della
Cassazione, la quale si è richiamata al concetto di « abuso di forme
giuridiche », impiegato dal legislatore tedesco nella Abgabeordnung ( legge
generale tributaria ) del 1925 ( §5 ).
Il progetto, peraltro, contiene il divieto di applicazione
d’ufficio. Tale
divieto, però, porrebbe problemi di contrasto col diritto dell’UE, nelle
materie in cui esiste una competenza degli organi comunitari,oltre a costituire
un’anomalia rispetto ad altre materie d’interesse generale. Senza considerare
che, per quanto concerne i tributi non armonizzati, resterebbe comunque
possibile il ricorso alternativo a regimi civilistici d’invalidità ( quali la nullità
per simulazione, frode alla legge, mancanza di causa ), per i quali sarebbe
discriminatorio adottare, in campo tributario, una disciplina diversa da quella
generale della rilevabilità d’ufficio di cui all’art. 1421 cod.civ., operante
anche nel giudizio di cassazione.
9 Il disegno di legge- delega governativo sul sistema fiscale 17 aprile
2012
Il disegno di legge contiene una apposita norma ( l’art. 6 ), recante il titolo «
Disciplina dell’abuso del diritto ed elusione fiscale». Il testo riprende –
talvolta testualmente, diversi passi ricavati dalla giurisprudenza della
Cassazione, e particolarmente dalla citata sentenza n. 1372 / 11, quali: la
definizione di operazioni abusive per la presenza di prevalenti ragioni di
risparmio fiscale; il divieto di considerare abusive operazioni di
ristrutturazioni societaria, volte a conseguire una migliore gestione e pur non
aventi un fine di immediata redditività; la distribuzione dell’onere della prova
tra amministrazione finanziaria ( cui incombe la dimostrazione del carattere
anomalo della forma giuridica ) e contribuente ( cui incombe l’onere di
provare il reale e prevalente contenuto economico dell’operazione, diverso
dal risparmio fiscale ). Nulla viene stabilito circa limitazioni processuali
all’applicazione del principio.
La norma contiene, inoltre, il divieto di prevedere sanzioni penali per
condotte ritenute abusive, risolvendo, così un contrasto di giurisprudenza,
anche di legittimità.
Occorrerà, a questo punto, interrogarsi quale sarà la concreta disciplina
contenuta nei decreti delegati. Come è costantemente avvenuto, diverse voci
critiche si sono levate contro la norma anti – abuso della legge delega,
35
LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO
FISCALE
giungendosi ad affermare che la stessa costituirebbe addirittura una sorta di
sanatoria di operazioni abusive precedenti. Pur dovendosi, ovviamente,
attendere l’emanazione dei decreti delegati, a me non pare che la norma
contenga qualcosa di diverso, e di più restrittivo, di quanto enunciato nelle
sentenze della Corte di Cassazione, soprattutto in tema di operazioni
societarie straordinarie. Fra l’altro essa non contiene - a differenza dei
precedenti progetti di legge - alcun divieto di applicazione d’ufficio del
principio, introducendo soltanto regole ( peraltro già ricavabili dal sistema )
in tema di motivazione e di garanzie del contraddittorio.
Si è censurata, infine, la scelta di non considerare rilevante l’abuso del diritto
ai fini penali, dimenticandosi che la Cassazione aveva già affermato 15
l’inutilizzabilità di tale strumento, non tanto perché incompatibile col
principio di legalità in materia penale, ma perché avente natura di
presunzione legale.
15
III Sezione penale, sent. 14486/ 09
36
Prof. Andrea Amatucci
Professore emerito Università Federico II di Napoli
La funzione anti-abuso dell’interpretazione del diritto
tributario
1
Il contribuente talvolta intende evitare che nasca l’obbligazione tributaria,
garantendosi il conseguimento dello stesso fine economico che era
razionalmente perseguibile attraverso il verificarsi della situazione prevista
dalla legge tributaria.
Egli in tali casi è indotto a violare indirettamente la legge con un
comportamento elusivo costruendo, con raggiri ed artifizi e con procedimenti
complessi, una situazione alternativa alla fattispecie che permetta di
conseguire lo stesso obiettivo economico. La situazione alternativa non è
sempre insolita, ma è talvolta inusuale.
Attraverso l’elusione1 (Steuerumgehung) il contribuente sostituisce la
fattispecie legislativa con una situazione alternativa per ottenere il medesimo
risultato.
La tipologia del comportamento consente di individuare l’incongruenza delle
finalità perseguite attraverso esso con i principi del sistema. Si evita la nascita
dell’obbligazione tributaria, sottraendo dalla fattispecie una manifestazione di
capacità contributiva altrimenti rientrante.
1
V. in particolare K.D. DRÜEN, Unternehmerfreiheit und Steuerumgehung, in Steuer
und Wirtschaft, 2008, 154.
Cfr. in generale P. PISTONE, Abuso di diritto ed elusione fiscale, Padova, 1995; S.
FIORENTINO, L’elusione tributaria, Napoli, 1996; J. C. VALENCIA MÁRQUEZ, Le
riorganizzazioni d’impresa negli USA come tipico strumento elusivo, in Gli aspetti
fiscali dell’impresa (da me diretto), in Trattato di Diritto commerciale (diretto da
BUONOCORE), Torino, 2003, 98; M. BASILAVECCHIA, Norma antielusione e,
«relatività» nelle operazioni imponibili IVA, in Corr. trib., 2006, 1466; M. L. DEL
FEDERICO, Elusione e illecito tributario, in Corr. trib., 2006, 3110; F.
MOSCHETTI, «Abusiva captazione» di norme fiscali di favore ed «anticorpi»
civilistici in uno «Stato sociale di diritto», in Atti del convegno A.N.T.I., Elusione
fiscale: la nullità civilistica come strumento generale antielusivo. Riflessioni a
margine dei recenti orientamenti della Cassazione civile, 15 settembre 2006,
Padova; R. CORDEIRO GUERRA, Non applicabilità delle sanzioni amministrative
per la violazione del divieto di abuso del diritto, in Corr. trib., 2009, 774; A.
FEDELE, Assetti negoziali e “forme d’impresa” tra opponibilità simulazione e
riqualificazione, in Riv. dir. trib., 2010, 1123; K.TIPKE – J. LANG, Steuerrecht, 20a
ed., Köln, 2010, 163; G. FRANSONI, Abuso di diritto, elusione e simulazione:
rapporti e distinzioni, in Corr. trib., 2011, 19;
LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO
Il soggetto sfrutta con artifizi e raggiri le smagliature del sistema tributario
evitando di incorrere nell’illecito. L’elemento intenzionale che guida
inevitabilmente il comportamento presenta diverse gradazioni che vanno
dalla malizia alla frode. Infine sono carenti la violazione della legge e
pertanto l’illecito tributario.
Certamente il concetto di elusione non può assumere una valenza generale,
in quanto esso costituisce un obiettivo, mentre gli strumenti sono costruiti dai
contribuenti quali manifestazioni di abuso del diritto2 (Missbrauch von
rechtlichen Verhaltensmöglichkeiten).
Gli strumenti volti a realizzare l’elusione sono in continua evoluzione,
poiché nel momento in cui ciascuno di essi è oggetto di norme che
contengono clausole antiabuso, particolari, i contribuenti ne creano altre che
sfuggono a tali previsioni normative.
Al contrario le clausole generali consentono di cogliere qualsiasi pratica
elusiva. In tal senso è ininterrotto il procedimento attraverso il quale, appena
2
AA.VV., Spannungsfeld zwischen Missbrauchsbekämpfung und Standortsicherung,
in Internationales Steuerrecht (diretto da HAARMANN), Köln, 1998; M.H. LAMPE,
Missbrauchsvorbehalte in völkerrechtlichen Abkommen am Beispiel der
Doppelbesteuerungsabkommen, Berlin/München, 2006; P. MERKS, Tax Evasion, Tax
Avoidance and Tax Planning, Intertax, 2006, 271; A. LOVISOLO, Il principio di
matrice comunitaria dell’abuso del diritto entra nell’ordinamento giuridico italiano:
norma antielusiva di chiusura o clausola generale antialusiva? L’evoluzione della
giurisprudenza della Suprema Corte, in Dir. prat. trib., 2007, II, 735; P. PISTONE,
L’elusione fiscale come abuso del diritto: certezza giuridica oltre le imprecisioni
terminologiche della Corte di giustizia Europea in tema di Iva, in Riv. dir. trib.,
2007, IV, 17; P. LOCHER, Rechtsmissbrauchsüberlegungen im Recht der direkten
Steuern der Schweiz, ASA, 2007, 675. Lit. zum intenationalen Steuerrecht in Fußnote
15/zum Europarecht in Fußnote 16; L. CARPENTIERI, L’ordinamento tributario
tra abuso e incertezza del diritto, in Riv. dir. trib., 2008, I, 1053; F. TESAURO,
Divieto di abuso del diritto (fiscale) e vincolo da giudicato esterno incompatibile
con il diritto comunitario, in Giur. it., 2008, 1029; G. ZIZZO, L’abuso dell’abuso
del diritto, in GT – Riv. giur. trib., 2008, 465; M. BEGHIN, L’elusione fiscale tra
presupposti applicativi, esimenti, abuso del diritto ed «esercizi di stile», in Riv.dir.
trib., 2008, II, 343; D. STEVANATO, Trasformazione in s.r.l. agricola ed elusione
tributaria: è davvero aggirato lo spirito della legge?, in Corr. trib., 2008, 1719; V.
FICARI, Elusione ed abuso
del diritto comunitario
tra <<diritto>>
giurisprudenziale e certezza normativa in Boll.trib., 2008, 1773; F. MOSCHETTI,
Avvisaglie di supplenza del giudiziario al legislativo nelle sentenze delle Sezioni
Unite in tema di utilizzo abusivo di norme fiscali di favore, in GT – Riv. giur. trib.,
2009, 197; F. AMATUCCI, L’abuso del diritto nell’ordinamento tributario
nazionale, in Corr. giur., 2009, 553 e D. STEVANATO, Abuso del diritto ed
elusione tributaria, anno zero, in Dialoghi trib., 2009, 255; S. LA ROSA, Elusione e
antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, 790.
38
LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO
è emanata una norma contenente una clausola antiabuso particolare che
reprima una pratica di abuso, immediatamente nasce un altro comportamento
abusivo in sostituzione che sfugge all’efficacia debellante di quella norma.
Come le pratiche elusive, qualche virus è fortemente inibito da un farmaco.
Tuttavia dopo prolungato trattamento con tale farmaco insorgono
occasionalmente mutanti farmacoresistenti che non sono inibiti neppure da
concentrazioni maggiori del farmaco. Tali ceppi non rispondono all’azione
inibitrice di questo composto, perché essi, ad esempio, penetrano
rapidamente nel profondo dell’organo malato diventando così insensibili al
farmaco che opera alla superficie.
Come osservano Tipke e Lang3, negli USA la lotta all’elusione è in tal senso
sostenuta dalla substance over form doctrine.
2
La Corte di Giustizia dell’UE, con la sentenza del 21 febbraio 2006, ha
dedotto dall’ordinamento giuridico comunitario una clausola generale
antiabuso del diritto tributario, secondo la quale non sono consentite
operazioni, pur volute e valide, che perseguono essenzialmente lo scopo di
procurare un vantaggio fiscale, in contrasto con gli obiettivi perseguiti dalle
disposizioni formalmente applicate.
La Corte sostiene perciò che l’abuso implica una connessione tra il
risparmio e lo sviamento rispetto alle finalità delle norme da un lato e tra il
concetto di abuso con il concetto nazionale di elusione: in ambedue i casi il
vantaggio fiscale si pone in contrasto con le norme eluse.
L’abuso non genera però una frizione tra l’applicazione
della legge
secondo la lettera e la sua applicazione in funzione dello scopo, procurando
un vantaggio fiscale contrario allo scopo. L’interpretazione letterale è infatti
un momento del procedimento ermeneutico.
E’ stata pertanto
prodotta una norma
comunitaria
attraverso
l’interpretazione.
La clausola generale comunitaria antiabuso, introdotta automaticamente in
tutti gli ordinamenti giuridici tributari dei Paesi membri dell’UE, è destinata
ad essere interpretata ad opera della giurisprudenza e della dottrina per
essere pienamente compresa nella sua essenza.
La Corte di Cassazione, con le sentenze del 29 settembre 2006 n. 21221, del
4 aprile 2008 n. 8779 e del 21 aprile 2008 n. 10257, interpretando la
giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE, ha ribadito che l’abuso del
diritto sussiste nel caso in cui le operazioni volute e valide mirano
“essenzialmente” a realizzare un vantaggio fiscale ed ha aggiunto che esse
conseguentemente tendono anche a conseguire scopi economici, i quali,
attraverso l’analisi della fattispecie, risultano marginali o teorici, insufficienti
perciò a giustificare il negozio stipulato.
3
Steuerrecht, 20ª ed., Köln, 2010, p. 163.
39
LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO
Anche se gli schemi contrattuali sono anomali, le essenziali e pratiche ragioni
economiche, infatti, possono giustificare l’aggiramento di obblighi e
divieti.
Ha rilevato la Corte di Cassazione che si prescinde dall’ accertamento della
simulazione o di operazioni fraudolenti (sviamento rispetto ai fini delle
norme). L’operazione deve essere valutata per le sue ragioni economiche,
che, se marginali e teoriche, rendono chiaro il primato del risparmio
fiscale.
Il principio dell’abuso prescinde da specifici aggiramenti di norme tributarie
e di sviamento rispetto allo scopo normativo; bisogna concentrarsi sulla
ricerca della validità delle ragioni economiche.
La Corte di Cassazione, con la sentenza del 2006 n. 21221, aveva
evidenziato l’esigenza di individuare una clausola generale antielusiva per
colmare le lacune dell’ordinamento interno e, con la sentenza n. 10257/2008,
ha osservato che le norme antielusive costituiscono non un’eccezione alla
regola, bensì un sintomo dell’esistenza della regola.
Pertanto la giurisprudenza della Corte di Cassazione lascia intendere che la
clausola generale antiabuso, configurata dalla Corte di Giustizia, pone
accanto alla condizione esplicita del risparmio di imposta quella implicita
delle valide ragioni economiche per potersi configurare l’abuso del diritto
tributario.
La Corte di Cassazione tuttavia, nelle più recenti sentenze, invita ad un
comportamento prudente.
3
Il “risparmio di imposta” assume anche un altro significato, che è l’unico
attribuito da diversi decenni dalla dottrina, oltre quello esaminato, conferito
più recentemente dalla giurisprudenza richiamata.
Ai sensi dell’art. 41 Cost., l’iniziativa economica privata è libera, ma non
può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno
alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana. Il che significa che tale
ordine normativo-sociale concorre alla qualificazione di atti e comportamenti,
pur assunti secondo i principi che nel nostro sistema caratterizzano la libertà
negoziale.
Il risparmio è il diritto di scelta: bisogna stabilire se c’è contrasto tra forma e
sostanza.
La politica tributaria economica giustifica quelle leggi che tutelano l’interesse
al risparmio di imposta.
Sussiste il fine del beneficio, anche se la legge consente un risparmio
indirettamente.
Il diritto “abusato” in materia tributaria è il diritto alla libertà economica che
crea danno allo Stato e benefici al contribuente. E’ abuso anche di diritto
soggettivo.
40
LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO
Il contribuente sceglie la forma più opportuna in sede di lecita
pianificazione fiscale.
Johanna Hey4 afferma che la certezza della pianificazione tributaria da parte
del contribuente e la certezza degli atti dell’amministrazione finanziaria
costituiscono valori fondamentali dell’ordinamento.
Il confine da delineare è tra aggressiva pianificazione fiscale e libertà di
scelta delle forme giuridiche.
Si rischia di violare l’art. 41 cost. e la visione unitaria, delle entrate e delle
spese garantite dalla “legge di stabilità” annuale. Se c’è la sostanza
economica, c’è la libertà che può essere invocata dal contribuente insieme
alla tutela dell’affidamento.
La legge può mirare a favorire o non volere che il contribuente costruisca una
situazione alternativa alla fattispecie legislativa per conseguire lo stesso fine
economico.
La legge, se favorisce il «risparmio d’imposta» (Steuermeidung, tax saving),
che è la posizione in cui si colloca ogni soggetto il quale è in una situazione
non presa in considerazione da alcuna legge tributaria (tax non compliance),
intende disincentivare il comportamento coincidente con la fattispecie
legislativa.
Questo caso, si verifica ad esempio, per le leggi che istituiscono imposte
ambientali e che collegano la nascita dell’obbligazione al verificarsi di un
determinato comportamento inquinante. La capacità contributiva che
legittima la legge tributaria non è più la potenzialità economica del
contribuente, ma la sua idoneità ad inquinare. La legge tributaria incide sulla
libertà di iniziativa o di attività economica senza ricorrere a strumenti
coattivi, in quanto consente al contribuente di operare una scelta tra due
comportamenti disincentivando quello inquinante. Egli è titolare del diritto di
scelta del comportamento inquinante con il fine di realizzare lo stesso
risultato economico, determinando la nascita dell’obbligazione tributaria; il
tributo rappresenta il risarcimento del danno che la collettività subisce per
l’effetto dell’inquinamento. La legge tributaria in tal senso incide sul calcolo
di convenienza economica che è alla base della scelta della produzione
industriale.
La Cassazione, con la sentenza n. 10383 del 12 maggio 2011, distingue il
“beneficio fiscale indebito” dall’agevolazione. Il beneficio fiscale è
concesso dal legislatore consapevolmente nel caso di agevolazione e la
finalità è la contropartita incentivante, che non è contra ius.
Quindi, il beneficio fiscale, quale condizione dell’abuso del diritto, insieme
alle valide ragioni economiche deve consistere in un vantaggio fiscale non
voluto dal legislatore.
L’elusione assolve un ruolo residuale, in quanto copre integralmente lo
spazio che separa il risparmio di imposta dall’evasione. È questo un tertium
genus che è particolarmente intenso e si articola in una serie indefinita di
4
Steuerplanungssicherheit als Rechtsproblem, Köln, 2002, 743.
41
LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO
specie non ancora sufficientemente esaminate dalla dottrina e dalla
giurisprudenza.
Quindi la linea di demarcazione fra lecito risparmio di imposta e l’elusione
non è stabile e definita ma è il risultato della combinazione di due elementi:
la metodologia interpretativa ed il livello di evoluzione del singolo
ordinamento giuridico. Il concetto di elusione è pertanto relativo a ciascun
ordinamento tributario.
Sarebbe opportuno, al fine di evitare confusione, continuare a definire il
risparmio di imposta soltanto quello lecito.
4
E’ interessante stabilire se in altro ramo del nostro ordinamento esiste una
clausola generale antiabuso operante anche nel diritto tributario.
Il contribuente è libero nell’utilizzare principi e norme che tutelano i propri
interessi, ma anche questa libertà incontra i limiti di legge e degli altri ordini
normativi che concorrono alla individuazione ed alla qualificazione di atti e
comportamenti.
Si consideri che l’abuso nel diritto civile è del diritto soggettivo, mentre nel
diritto tributario è del diritto oggettivo (le norme).
La Corte di Cassazione, con le citate sentenze a sezioni unite del dicembre
2008, ha abbandonato la “via civilistica” che è stata percorsa nel 2005 e che
sosteneva la caducazione degli effetti di diritto civile dei negozi, senza causa
o in frode alla legge.
La causa giuridica è la ragione giuridico-economica del contratto. Il
matrimonio tra diritto ed economia è stato celebrato nei Trattati di diritto
civile dell’800.
Considerando il negozio atipico, vale la limitazione dell’art. 1322, II co., cc.
nel senso che esso è valido, purchè diretto “a realizzare interessi meritevoli
di tutela secondo l’ordinamento giuridico”.
Tale ordine normativo-sociale concorre alla qualificazione di atti e
comportamenti, pur assunti secondo i principi che nel nostro sistema
caratterizzano la libertà negoziale. Le parti possono determinare il contenuto
del contratto nei limiti imposti dalla legge, ai sensi del primo comma
dell’art. 1322 cc.
L’abuso del diritto, nella logica civilistica, si realizza allorchè, attraverso
libertà garantite, si mira ad un risultato vietato o al pregiudizio di interessi
di terzi.
Si realizza una prevaricazione arbitraria dei rapporti civili, senza che susciti
l’interesse
a tenere tali comportamenti, ma nell’intento di eludere
l’applicazione della norma per ottenere un vantaggio proprio.
Si manifesta un difetto di causa, in quanto lo scopo unico è questo tipo di
“vantaggio”.
La nullità del contratto è strumentale al disconoscimento degli effetti
civilistici.
42
LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO
Sulla patologia dello schema negoziale si fonda la causa atipica. Il contratto
atipico crea un “vantaggio”. Esso è nullo perché non c’è causa
relativamente alla funzione economico-sociale. L’art. 1324 cc. stabilisce
che, salvo disposizioni di leggi diverse, le norme che regolano i contratti si
osservano, in quanto compatibili, “per gli atti unilaterali” tra vivi aventi
contenuti patrimoniali, perciò riguardo non solo al contratto, ma anche all’
“atto”. La nullità dell’atto è grave per l’effetto esterno delle sentenze.
Schema atipico si presenta nel diritto civile e nel diritto tributario. Nel diritto
tributario però è operazione atipica non rispondente a schemi predeterminati,
per vantaggi giustificabili o meno.
L’abuso del diritto civilistico sarebbe recepibile dal diritto tributario, in
quanto, allorchè lo schema contrattuale è senza causa, cioè senza ragione
economica. Pertanto
lo scopo del vantaggio fiscale perseguito dal
contribuente rende nullo lo schema contrattuale.
Conseguentemente avrebbe effetto tra le parti il contratto dissimulato.
Per riconoscere l’abuso del diritto, è necessario un beneficio.
In virtù dell’art. 1344 cc, la causa è illecita, in quanto è contraria a nome
imperative. E’ stabilito dalla sentenza della Corte della Cassazione n. 20816
del 2005 che non è applicabile l’art. 1344 cc., il quale richiede norme
imperative (precettive o proibitive), tra cui non rientrano le norme
tributarie che delineano
presupposto d’ imposta. Ma tale
norma è
espressione
della potestà tributaria
ed il conseguente atto
dell’amministrazione.
è impositivo.
Al secondo comma dell’art. 2729 cc. è stabilito che le presunzioni non si
possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni.
Ciò accade relativamente al processo tributario. Ma è da escludere che l’art.
2729 cc. si estenda a tale processo, attraverso il problema delle qualificazioni
che è componente essenziale della metodologia dell’interpretazione delle
leggi tributarie e che va logicamente in tal caso risolto a favore del primato
del diritto tributario per non limitare il libero convincimento del Giudice.
Il negozio simulato è senza causa e non produce effetto tra le parti ex art.
1414 cc, primo comma.
Alla luce del secondo comma, se le parti hanno voluto un contratto diverso
da quello apparente, ha effetto tra esse il contratto dissimulato, purchè ne
sussistono i requisiti di sostanza e di forma. La causa illecita è il beneficio
non dovuto.
La norma tributaria è imperativa e limita l’autonoma privata. La Corte di
Cassazione, con le sentenze a sezioni unite del 23 dicembre 2008 nn.
30054, 30055 e 30057, ha affermato che nell’ordinamento esiste un
principio antielusione non scritto.
L’art. 2729 cc, primo comma, afferma che le presunzioni non stabilite dalla
legge sono lasciate alla prudenza del Giudice, il quale non deve ammettere
che presunzioni gravi, precise e concordanti.
La simulazione presuppone un negozio inefficace tra le parti.
43
LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO
L’abuso richiede operazioni non simulate, ma volute e valide, anche se per
produrre un vantaggio.
5
Attraverso la soluzione del problema delle qualificazioni, le norme
civilistiche avrebbero potuto già fornire un valido sostegno alla tesi
dell’esistenza di una clausola generale antiabuso operante in tale branca
giuridica.
L’ostacolo a tale concezione è rappresentato, però, dall’art. 37 bis del d.p.r.
600 del 29 settembre 1973, contenente le disposizioni antielusive. Tale
articolo stabilisce
al primo comma
che sono inopponibili
all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti ed i negozi, anche collegati tra
loro, privi di valide ragioni economiche, dirette ad aggirare obblighi o divieti
previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o
rimborsi, altrimenti
indebiti.
Al secondo comma, prevede che
l’amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari conseguiti
mediante gli atti, i fatti ed i negozi di cui al primo comma, applicando le
imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte
dovute per effetto del comportamento inopponibile all’aministrazione. Al
terzo comma sono indicate le specifiche operazioni che devono essere
utilizzate affinchè si applichino le disposizioni del primo e secondo comma.
Pertanto, prevalendo le norme tributarie su quelle civilistiche, la clausola
generale antiabuso, desumibile dalle seconde, soccomberebbe di fronte alle
clausole particolari previste dalle prime.
Esiste il divieto di utilizzazione delle norme agevolative per fini diversi da
quelli per cui sono state emanate, in quanto norme eccezionali non
interpretabili analogicamente
ai sensi dell’art. 14 delle disposizioni
preliminari
al
codice
civile.
Ma l’art. 37 bis del DPR n.600/1973, che prevede le clausole particolari
antiabuso, deve essere disapplicato in conseguenza all’adattamento
dell’ordinamento nazionale al principio comunitario che contiene la clausola
generale antiabuso.
Ne consegue la liberalizzazione della clausola generale civilistica antiabuso,
per effetto della disapplicazione dell’art. 37 bis. Ma la clausola civilistica
soccombe nuovamente per effetto della norma comunitaria, insieme all’art.
37 bis.
Con la sentenza n. 23633 del 15 settembre 2008, la Corte di Cassazione,
infatti, afferma correttamente che tale principio è una norma di diritto
comunitario, che impone la disapplicazione delle norme interne con esso
eventualmente contrastanti.
Il divieto di abuso del diritto, di natura comunitaria, non si estende alle
imposte non armonizzate, quali le dirette, perché l’oggetto è di competenza
del legislatore nazionale. La stessa Corte di Cassazione a sezioni unite, con
44
LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO
le sentenze del 23 dicembre 2008 n. 30055, 30056 e 30057, ha abbandonato
il principio secondo cui anche le imposte dirette rientrano nell’oggetto del
divieto comunitario.
L’estensione alle imposte dirette è stabilita dall’art. 6 dello schema di
disegno di legge delega recante disposizioni per la revisione del sistema
fiscale.
Opportunamente lo Stato italiano, con tale art. 6, tende ad estendere la
clausola generale comunitaria anche alle imposte dirette.
6
Con la sentenza n. 25374 del 2008, la Corte di Cassazione afferma che si
deve approfondire la doverosa ricerca dell’obiettivo economico perseguito,
in quanto spetta al Giudice la “qualificazione giuridica” dei fatti e dei
comportamenti negoziali che devono essere interpretati correttamente con i
principi del sistema tributario per ricevere protezione garantita dal formale
ossequio delle leggi.
La Corte di Cassazione, con le sentenze del 15 settembre 2008 n. 23633 e
del 21 novembre 2008 n. 27646, ha ribadito che il concetto di abuso del
diritto, elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, costituisce un “canone
interpretativo del sistema”.
E’ interessante esaminare la dottrina tedesca che ha studiato per decenni la
clausola generale antiabuso, prevista dal § 42, modificato nel 2008 5,
dell’Abgabenordnung. La rielaborazione di tale articolo non è però
approfondita a livello dogmatico e terminologico.
Osservano Tipke e Lang6 che il modo di considerazione economica
(wirtschaftliche
Betrachtungsweise)
sorto nel 1919 con il
Reichsabgabenordnung, evidenzia la divergenza tra economia, situazione
giuridica e comportamento economico del contribuente. Gli illustri autori
tedeschi sottolineano che il § 42 AO tende ad attuare il fine di una legge
5
D. GOSCH, § 42 AO- Anwendungsbereich und Regelungsreichweite, Harzburger
Protokoll 1999, Köln, 2000, 225; S. SIEKER, Umgehungsgeschäfte, Typische
Strukturen und Mechanismen ihrer Bekämpfung, Tübingen, 2001; W. GASSNER,
Das allgemeine und das besondere Umgehungsproblem im Steuerrecht, in Festschrift
für H.W. KRUSE, Köln, 2001, 183; U. CLAUSEN, Struktur und Rechtsfolgen des §
42 AO, Der Betrieb, 2003, 1589; K.-D. DRÜEN, in Tipke/Kruse, AO, §42; C.
GLORIUS-ROSE, Gestaltungsmissbrauch und Steuerberatung, Berlin, 2005; H.
HAHN, §42 und Steuerkultur, Deutsche Steuer Zeitung, 2005, 183; H. HAHN
“Gestaltungsmissbrauch” i.S.d. §42 AO, Deutsche Steuer Zeitung, 2006, 431;
P.FISCHER,
Aktuelle
Entwicklungstendenzen
zum
Missbrauch
von
Gestaltungsmöglichkeiten des Bürgerlichen Rechts, Steuer & Wirtschaft
International, 2006, 444; F. J. HAAS, Der Missbrauchstatbestand des §42 AO, in
Festschrift für A. Raupach, Köln, 2006, 13; K.-D. DRÜEN, Unternehmerfreiheit u.
Steuerumgehung, Steuer und Wirtschaft, 2008, 154. Lit. zu §42 AO i. d. F. des
Jahressteuergesetz, 2008 in Fußnote n.13.
6
Steuerrecht, 20ª ed, Köln, 2010, 159.
45
LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO
tributaria e che bisogna innanzitutto contrastare l’aggiramento fiscale
attraverso l’interpretazione teleologica ed il perfezionamento giuridico in
modo da colmare le lacune della legge. In rami diversi dal diritto tributario,
precisano gli Autori, mancano clausole generali antielusive, così che si fa
fronte all’elusione in sede di applicazione del diritto. Essi notano che
l’elusione tributaria all’estero è combattuta anche senza una norma
antielusiva. Per esempio in USA si interviene con la dottrina giuridica della
sostanza economica, anche definita sostanza o forma, attraverso la dottrina
della sostanza contro la forma.
Hariton7 analizza la concezione teoretica interna del Bundesgericht.
La dottrina della sostanza economica è uno strumento giurisdizionale per
individuare il vero fine del legislatore.
Pertanto si discute sulla questione controversa diretta a stabilire se il § 42
AO può favorire in genere il significato attraverso il metodo teleologico
della interpretazione della legge tributaria. Il metodo, nell’ambito
dell’applicazione del § 42 AO, è stabilito attraverso la portata della
consentita attività diretta a colmare le lacune. Il legislatore, con il novellato §
42 AO, ha garantito maggiormente la certezza e l’uniformità del diritto
tributario.
In seguito al § 42 I, 1, AO, la legge tributaria non può essere elusa
attraverso l’abuso di possibilità di costruzione giuridica. Con il § 42, II, 1,
AO è ostacolato l’abuso del diritto quando è realizzata un’ “inadeguata”
costruzione giuridica.
Il Giudice deve valutare con il metodo wirtschaftliche Betrachtungsweise,
se gli effetti economici delle operazioni prevalgono su quelli fiscali; in tal
caso, vanno riconosciuti gli effetti fiscali.
L’interprete fa emergere, attraverso la ricostruzione antielusiva, la realtà
economica che il legislatore ha già considerato, elaborando la norma
tributaria elusa.
L’interpretazione consente la piena conoscenza della norma tributaria e,
perciò, anche di quella nota di concretezza e di funzionalità che si
comprende, soltanto valutando esaurientemente nell’ambito delle finalità
normative il significato economico che si cela dietro una fattispecie del diritto
civile contenuta nella norma tributaria.
Rientra nel compito preliminare dell’interprete stabilire se la norma intenda
accogliere integralmente la fattispecie normativa ed, in caso negativo,
individuare le modifiche cui viene sottoposta per effetto della rilevanza del
suo contenuto economico.
Il contribuente ha interesse a blindare gli atti negoziali entro solide
motivazioni economiche.
7
When and How Should The Economic Substance Doctrine Be Applied? in Taw
Law Review, vol. 60, 2006, p. 29.
46
LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO
Spetta al Giudice la qualificazione giuridica dei fatti e dei comportamenti
negoziali da interpretare correttamente con i principi dell’ordinamento
giuridico tributario per garantire la tutela legislativa.
Egli interviene, ricercando nell’ordinamento nazionale i mezzi per contrastare
tali fenomeni, in modo da conformare l’inopponibilità all’Amministrazione
Finanziaria delle operazioni abusive compiute.
La Cassazione nel 2009, con le sentenze 8481 e 8487, conferma il filone
dell’interpretazione costituzionalmente orientata.
Se l’interpretazione analogica–funzionale8 risolve la questione, estendendo
la fattispecie tributaria della legge elusa a fattispecie analoghe utilizzabili per
eluderla, scatta il canone interpretativo europeo.
I Giudici comunitari hanno applicato l’analogia legis nella duplice accezione
di analogia strutturale e teleologico-funzionale, per cui la clausola antiabuso
del diritto è realmente un principio interpretativo generale.
Non può esistere discrezionalità del Giudice, ma solo la sua valutazione
prudente della prova.
Si delimiti la fattispecie ed il legislatore le scelga sulla base del contenuto
economico.
7
E’ certamente utile considerare le altre fondamentali esperienze scientifiche
relativamente alla metodologia dell’interpretazione economica del diritto
tributario, indispensabile per verificare se nel caso concreto esiste l’abuso
del diritto.
Negli anni ’60 del secolo ventesimo si svolgeva negli Stati Uniti la fase
delle origini dell’Economic Analysis of Law attraverso gli apporti, con
specifici riferimenti al diritto tributario, di Ronald H. Coase 9 della Chicago
Law School e di Guido Calabresi10 della Yale Law School. Richard A.
Posner11 della Chicago Law School, con riguardo in particolare al diritto
tributario, e lo stesso Calabresi diedero vita negli anni ’70 alla fase
dell’espansione dell’Economic Analysis of Law. La fase della maturazione e
del consolidamento dell’Economic Analysis of Law fu introdotta agli inizi
degli anni ‘80 da David Friedman12 della Chicago Law School; la fase postChicago, eliminando la contrapposizione tra la Chicago Law School e la
Yale Law School, evidenzia il metodo più raffinato della ricerca dei fini
economici e sociali, in base al quale è più agevolata la conoscenza del
contenuto del diritto. I caratteri fondamentali dell’Economic Analysis of
8
M. BASILAVECCHIA, Surrogati interpretativi in difetto di norma antielusiva? in
GT – Riv. giur. trib., 2009, 601.
9
The Firm, the Market and the Law, University of Chicago, 1988.
10
The cost of Accidients, Yale University, 1970.
11
Economic Analysis of Law, Boston, 1973 e (VI ed), New York, 2003.
12
Progressive Law and Economics. And the Administrative Law, Yale Law Journal,
1998.
47
LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO
Law erano stati anticipati già nei primi decenni del secolo ventesimo, con
riferimento al diritto finanziario in generale ed al diritto tributario oltre che
dalla dottrina e legislazione tedesca, anche dalla concezione integralista della
Scuola pavese13 e dalla visione sostanziale della Scuola napoletana 14.
L’Economic Analysis of Law presenta elementi comuni anche con il
realismo, sorto negli Stati Uniti egualmente nei primi decenni del secolo
ventesimo e fondato sul presupposto della possibile esistenza di più
significati
del testo normativo
e sulla componente creativa
dell’interpretazione, condivisa attualmente da qualificata dottrina europea;
sorge l’esigenza di contenere entro precisi limiti tale metodologia per
conoscere, attraverso l’individuazione dei fini economici e sociali della legge
tributaria, il vero significato del testo. L’Economic Analysis of Law indica,
quali criteri di scelta del reale significato del testo legislativo, l’efficienza,
che aumenta il benessere collettivo, e la giustizia redistributiva, che ripartisce
tale benessere. Il diritto tributario, in virtù della scienza delle finanze e nel
contesto del diritto finanziario, persegue finalità di giustizia redistributiva,
con minor perdita di
efficienza, rispetto agli altri rami del diritto;
l’Economic Analysis of Law post-Chicago, depurata degli aspetti irrilevanti
a tal fine ed integrata dai risultati ai quali è pervenuta attualmente la
dottrina europea in circa un secolo di ricerche, fornisce all’interprete della
legge tributaria gli strumenti necessari, specialmente al livello extragiuridico,
per individuare tra più significati quello corretto, in quanto meglio realizza
la giustizia redistributiva e l’efficienza, valori costituzionalmente garantiti 15.
La metodologia rigorosa dell’interpretazione permette di comprendere se il
beneficio fiscale ottenuto dal contribuente, sottraendosi al presupposto di
imposta, consiste in un risparmio di imposta, cioè voluto dalla legge per
determinate finalità economiche pubbliche. L’interprete in seguito riesce, in
caso di risultato negativo, a capire se esistono valide ragioni economiche che
giustifichino il comportamento del contribuente. Se anche quest’analisi
conduce ad un risultato negativo, l’interprete deve dichiarare verificatosi
l’abuso del diritto tributario e scatta la clausola generale di fonte comunitaria.
13
G. MELIS, Sull’interpretazione antielusiva in Benvenuto Griziotti e sul rapporto
con la Scuola tedesca del primo dopoguerra: alcune riflessioni, in Riv. dir. trib.,
2008, I, 413 ss.
14
Cfr. M. A. PLAZAS VEGA, Il diritto della finanza pubblica e il diritto tributario,
Napoli, Jovene, 2009, 269.
15
Per una visione più ampia cfr. A. AMATUCCI, La cuestión metodológica entre los
teóricos viejos y nuevos y la autonomía científica del derecho tributario, in Revista
española de Derecho Financiero, 2005, 765; Konzepte der Besteuerung in Italien und
in Deutschland, in Steuer und Wirtschaft, 2007, 285; Il contributo dell’Economic
Analysis of Law alla metodologia del diritto tributario, in Riv. dir. trib. internaz.,
2009, 25; Der Beitrag der Economic Analysis of Law zur Methodologie des
Steuerrechts in Festschrift für Joachim Lang, Köln, 2011, 939.
48
Prof. Massimo Basilavecchia
Professore Università di Teramo
Presupposti ed effetti della sanzionabilità dell’elusione
Come è noto, due recenti sentenze della Corte di Cassazione, l’una dovuta
alla sezione tributaria1, l’altra alla cassazione penale 2, hanno sancito, sia pure
sulla base di una ricostruzione non coincidente, la sanzionabilità dei
comportamenti elusivi, sia sotto il profilo della sanzione amministrativa, sia
sotto quello tributario.
Può dirsi ora sufficientemente delineato un quadro interpretativo omogeneo,
anche se basato su motivazioni non identiche, che definisce il quadro delle
responsabilità dei soggetti che sono coinvolti in programmi finalizzati ad un
indebito risparmio d’imposta, nel contempo privi di adeguate ragioni
economiche. E’ del resto un quadro conforme all’ipotesi ricostruttiva
avanzata da autorevolissima dottrina 3, in tempi non sospetti (e cioè quando il
tourbillon giurisprudenziale su elusione e abuso non ancora compariva
all’orizzonte), quadro dotato di una sua razionalità sia sotto il profilo
giuridico, sia sotto quello delle valutazioni, più ampie, di politica del diritto.
Esso assicura certamente un deterrente fondamentale: ma, va detto subito,
non per questo appare condivisibile. La critica, che chi scrive aveva proposto
sin dal 20054, investe sia l’aspetto punitivo in senso stretto, perché non vi è
dubbio che la soluzione accolta priva di ogni graduazione la valutazione di
comportamenti che hanno diversa consistenza, e nel contempo sembra
1
Cfr. Cass., 30 novembre 2011, n. 25537, in Corriere tributario n. 2/2012, pag. 107,
con commento di F. Dami, «La condotta elusiva deve essere sanzionata pur nel
rispetto dei principi generali». A tale scritto si rinvia per un’analisi dei precedenti che
avevano visto talora la stessa Suprema Corte su posizione diversa; tra questi,
particolare rilievo aveva avuto il tentativo – certamente fragile - di riconoscere
l’obiettiva incertezza delle norme come esimente di diffusa applicazione a proposito
di comportamenti elusivi.
2
Sez. II pen., Sent. 28 febbraio 2012, n. 7739 in C.T. n. 14/2012, pag. 1074, con
commento di P. Corso, «Una elusiva sentenza della Corte di cassazione sulla
rilevanza penale dell’elusione». Una critica radicale si deve a E. De Mita, Condotte
elusive, il “granchio” della cassazione, in ilsole24ore 11 marzo 2012. La sentenza è
stata invece condivisa da M. Miccinesi, La legge diventa più che mai necessaria, in
ilsole24ore 29 febbraio 2012.
3
F. Gallo, «Rilevanza penale dell’elusione tributaria», in Rass. trib., 2001.
4
M. Basilavecchia, Funzione di accertamento tributario e funzione repressiva: i nuovo
equilibri, in Dir.prat.trib. 2005, I, 3ss.; e poi in Norma antielusione e “relatività” delle
operazioni imponibili IVA, in Corr.trib. 2006, 1466; e infine in Elusione e abuso del
diritto: una integrazione possibile, in GT Riv. Giur.trib. 2008, 741. Argomentazioni
analoghe sono state espresse anche da altri autori, anche se a conclusione di percorsi
autonomi, si veda lo scritto di DAMI citato alla nota precedente.
PRESUPPOSTI ED EFFETTI DELLA SANZIONABILITÀ DELL’ELUSIONE
muovere verso una direzione diversa da quella indicata dal legislatore del
1999-2000; sia l’aspetto più propriamente tributario, nella misura in cui lo
studioso della materia non può non avvertire perplessità nella sostanziale
assimilazione operata dalla Cassazione tra elusione ed evasione.
1 I presupposti normativi
Nella sentenza della Cassazione penale, la tesi della sanzionabilità è fondata
su due dati normativi, l’art. 1 del d.lgs. 74/2000, che riconduce l’illecito alla
dichiarazione di un’imposta minore di quella effettivamente dovuta, e l’art.
16 dello stesso decreto, che stabilisce l’esimente collegata all’avvenuta
conformazione del contribuente al parere reso dal (poi soppresso) Comitato
per l’applicazione della norma antielusiva.
Quanto all’art. 16, non menziona espressamente i comportamenti elusivi, ma
va ragionevolmente riferito a ipotesi di vera e propria frode, nelle quali la
coincidenza tra assetti negoziali e realtà effettiva viene meno, proprio perché
quello che si intende rappresentare al Fisco è un fatto imponibile con
caratteristiche diverse da quelle reali (molti casi di esterovestizione, ad
esempio, possono rientrare in quest’area, così come tutte quelle ipotesi nelle
quali non più di elusione si tratta, ma di simulazione in senso proprio: ed in
questo senso andrebbe analizzata e approfondita la comune sorte che la
sentenza assegna sia all’art. 37, terzo comma, che all’art. 37-bis del D.P.R. n.
600/1973, e andrebbe compreso perché il riferimento ad abuso ed elusione
sostituisce spesso una più piana qualificazione dei comportamenti in termini
di frode e di simulazione).
La sentenza della sezione tributaria impiega anche lo stesso art. 37-bis, nella
parte in cui, disciplinando la riscossione provvisoria in tempi attenuati, allude
alla iscrivibilità delle sanzioni. In realtà, ad un esame obiettivo del comma 6
dell’art. 37-bis, si nota che la parola sanzioni compare nella parte di testo
esplicativa dei contenuti e della rubrica dell’art. 68 d.lgs. 546/92, in
applicazione del principio di trasparenza delle citazioni normative in testi di
legge, che impone, ex art. 2 comma 3 statuto dei diritti del contribuente,
l’enunciazione del contenuto del provvedimento di legge cui si fa richiamo. Il
dato testuale, in questo caso, appare irrilevante.
Il tenore letterale dell’art.1 d.lgs. 74/2000 – così come quello dell’art. 1 d.lgs.
471/97, sulle sanzioni amministrative - è però inidoneo, da solo, a sorreggere
la tesi della punibilità: è vero infatti che la disposizione lascia intendere che
ci può essere reato ogni volta che viene accertata una maggiore imposta, ma,
sempre sul piano letterale, si può osservare che tale differenziale è
considerato rilevante se “evaso” (e non se oggetto di elusione).
2 I contenuti dell’obbligo di dichiarazione e la natura della disposizione
antielusiva
Il presupposto dell’illecito richiede dunque un passaggio logico ulteriore,
quello di stabilire che il contribuente abbia l’obbligo di dichiarare
l’imponibile e l’imposta senza considerare gli atti e i comportamenti
qualificabili come elusione. Nella logica della sentenza, per di più, la nozione
50
PRESUPPOSTI ED EFFETTI DELLA SANZIONABILITÀ DELL’ELUSIONE
di elusione che può costituire reato è ricondotta alle fattispecie espressamente
contemplate dall’art. 37-bis d.p.r. 600/73, il che permette di precisare che in
sede di dichiarazione il contribuente dovrebbe, secondo tale impostazione,
tenere conto della sola inopponibilità al fisco di una serie di atti e
comportamenti previsti dalla norma (quasi)generale antielusiva. Diverso,
come noto, l’approccio della sezione tributaria, che non sembra distinguere e
individuare sorti diverse per elusione e abuso.
Ma se l’inopponibilità non costituisce oggetto di un giudizio ex post,
formulato in sede di accertamento, ma deve essere considerata e applicata già
dal contribuente in sede di dichiarazione, ciò vuol dire che la norma dell’art.
37-bis ha valenza sostanziale, cioè contribuisce a definire i criteri di selezione
e di qualificazione del fatto imponibile, in funzione integrativa dapprima
delle norme che regolano i singoli tributi ai quali si ritenga applicabile la
disposizione, successivamente delle stesse norme che presiedono alla
redazione e alla presentazione della dichiarazione.
Questa qualificazione della norma antielusiva è sempre apparsa a chi scrive
da respingere.
A parte l’indubbio dato testuale, e la collocazione certo non arbitraria della
norma tra quelle attributive di poteri all’Amministrazione finanziaria, non è
condivisibile l’idea che allo stesso contribuente che ha scelto delle soluzioni
negoziali trasparenti e palesi (destinate a restare pienamente efficaci verso i
terzi) venga chiesto di rinnegarle in sede di adempimenti fiscali: il
superamento della soglia di tollerabilità della pianificazione fiscale può allora
costituire oggetto di rettifica ex post da parte del Fisco, e con il recupero della
maggiore imposta viene trovato un equilibrio che, pur essendo già molto
gravoso per il contribuente, non postula un irragionevole obbligo dichiarativo
avulso dagli effetti giuridici degli atti posti in essere.
Come potrebbe, d’altra parte, il contribuente, compiere il giudizio di
mancanza di valide ragioni economiche, che è giudizio che per sua natura
postula un’alterità tra il soggetto che ha compiuto le scelte negoziali e quello
che le valuta, al fine di considerare inapplicabili assetti che, a tutti gli altri
fini e in particolare nelle implicazioni civilistiche, restano perfettamente
validi verso i terzi diversi dal fisco? Si chiede forse di dichiarare in sede
fiscale, dunque pubblicamente, che vi sono atti rilevanti verso i terzi che non
hanno giustificazione, non sono sorretti da un interesse meritevole di tutela?
La cd. pianificazione fiscale è, in una certa misura, insopprimibile, e alla
disciplina legislativa - compresa quella che prevede le sanzioni - certo
compete di contenerla in limiti accettabili. Il compito del Fisco, in tale
contesto, dovrebbe essere quello di individuare casi nei quali alcune azioni
ispirate da pianificazione fiscale non possono essere tollerate, perché
arrecano un sostanziale vulnus all’art. 53 Cost.; ma, se quelle azioni sono
state effettuate in piena trasparenza, il recupero dell’imposta e degli interessi
appare più che adeguato a ripristinare un equilibrio, soprattutto se l’azione
del Fisco (e della giurisprudenza, che si è fatta negli ultimi anni, attraverso il
rilievo d’ufficio dell’abuso, promotrice concorrente del contrasto
all’elusione) non è limitata a casi eccezionali, ma diventa un vero e proprio
51
PRESUPPOSTI ED EFFETTI DELLA SANZIONABILITÀ DELL’ELUSIONE
metro di giudizio, ex post, della generalità dei comportamenti dei
contribuenti.
3 Gli effetti
all’evasione
della
giurisprudenza:
omologazione
dell’elusione
Non vi è dubbio che traendo le conseguenze logiche da tale orientamento
giurisprudenziale, si perda sostanzialmente ogni differenza tra comportamenti
elusivi ed evasione, e si finisca con il considerare meritevoli di una stessa
sanzione sia i primi che la seconda.
Vi è infatti una ragione, se, concettualmente e didatticamente, evasione ed
elusione sono stati sempre considerati su piani distinti; a differenza della
prima, infatti, la seconda si avvale di comportamenti non solo del tutto
espliciti e trasparenti, ma dotati altresì di piena rilevanza sotto il profilo
civilistico e, in generale, nei confronti di terzi, anche se soggetti pubblici5.
Ma soprattutto, mentre l’evasione ha un suo substrato oggettivo che,
ancorché accertato su presunzioni, consente comunque di accertare
l’inadempimento di obblighi fiscali precisamente individuati, l’elusione è
basata su apprezzamenti soggettivi, sulla ricostruzione degli intenti
effettivamente perseguiti, e soprattutto presuppone un giudizio, delicatissimo
e fortemente opinabile, circa la corretta tassazione che quel contribuente
avrebbe dovuto subire, senza i comportamenti elusivi. Le norme tributarie
non sono peraltro rivolte a comportamenti tenuti nel passato, ma disciplinano
forme di prelievo destinate ad applicarsi nel futuro, senza poter presupporre
che la totalità dei contribuenti lasci invariate le proprie situazioni fiscali per
«accogliere» la nuova tassazione in arrivo. Ipotizzare che vi sia una strada
obbligata per assoggettare ad imposta determinate situazioni, e che vi sia un
gettito obbligato preventivabile da ciascun contribuente, trascura la libertà
contrattuale e la funzione stessa delle norme tributarie, che indirizzano i
comportamenti dei contribuenti anche a fini di politica economica,
contemplando la possibilità di fisiologici tentativi di attenuazione del
prelievo fiscale e prevedendo generalmente una serie di antidoti preventivi
(in particolare, le norme antielusive specifiche, introdotte «immaginando» le
forme di elusione più prevedibili).
4 Un’ipotesi
Fermo restando che, pur nel rispetto di tutte le esigenze equitative
apprezzabili in merito, la sanzionabilità degli atti elusivi appare da evitare,
soprattutto in un contesto in cui i tradizionali metodi di accertamento sono
sostituiti, praeter legem, dal ricorso a concetti indeterminati e atipici, e una
notevole massa di avvisi di accertamento menziona l’abuso e l’elusione quale
insuperabile atout motivazionale, senza tener conto che un giudizio così
labile dovrebbe essere limitato a casi eccezionali, una prospettiva punitiva più
5
Si veda da ultimo l’interessante dialogo Troyer-Stevanato – RL, Profili penali
dell’elusione: conferme sull’irrilevanza penale dell’elusione, in Dialoghi tribut., 2012,
19.
52
PRESUPPOSTI ED EFFETTI DELLA SANZIONABILITÀ DELL’ELUSIONE
corretta potrebbe essere impostata recuperando, quanto meno in questi casi,
la vecchia idea della punibilità dei comportamenti prodromici, che ispirò la
normativa nota come manette agli evasori (d.l. 429/1982).
Occorrerebbe individuare l’illecito nella predisposizione di assetti finalizzati
esclusivamente al conseguimento di vantaggi fiscali indebiti, sganciando la
punibilità dalla dichiarazione e identificando il reato nello stravolgimento
della libertà negoziale a fini di indebito risparmio, costruendo delle soglie
sulla base di elementi diversi dall’imposta o dagli imponibili sottratti a
imposizione. Il reato potrebbe essere a metà strada tra un reato tributario e un
reato contro le libertà economiche, o, con maggiore difficoltà, di truffa ai
danni dello stato. La definizione normativa non dovrebbe rendere possibile
una punibilità generalizzata di tutte quelle forme di occultamento di
imponibile non riconducibili al’evasione e qualificate, nella prassi, e in
chiave semplificatoria, come elusione / abuso.
53
.
Prof. Andrea Carinci
Professore Università di Bologna
Elusione tributaria, abuso del diritto e applicazione delle
sanzioni amministrative
1 Introduzione: i termini del problema
Il tema che mi è stato affidato e che sarà oggetto delle considerazioni che
seguono è indubbiamente un tema “caldo”, di cui si è discusso diffusamente
ed in modo autorevole, ma su cui non sembrano ancora raggiunti risultati
sufficientemente univoci e consolidati.
Il tema può essere sintetizzato nell’interrogativo se i due fenomeni del
contrasto all’elusione e della sanzionabilità dell’elusione (ossia
dell’applicazione di sanzioni amministrative o penali in occasione del
disvelamento di pratiche elusive) si pongano in un rapporto di
consequenzialità necessaria o meno. Se, in altri termini, il contrasto
all’elusione implichi naturalmente anche l’irrogazione di sanzioni, ovvero,
per ragioni ordinamentali e/o sistematiche, lo escluda, esaurendosi
(dovendosi esaurire) nel solo recupero dell’imposta elusa.
Per evidenti ragioni di sintesi, si deve dare qui per acquisita la definizione di
elusione. Parimenti per acquisito si deve dare l’assunto, da cui bisogna
prendere le mosse, secondo cui l’elusione rappresenta un fenomeno riprovato
dall’ordinamento. Un fenomeno, in particolare, cui l’ordinamento reagisce
con strumenti diversi, per presupposti, modalità di funzionamento e
conseguenze, ma con l’obiettivo comune di disinnescare e contrastare il
comportamento reputato elusivo.
Come noto, gli strumenti tradizionalmente impiegati nel contrasto
all’elusione fiscale sono: (i) le misure volte a contrastare specifici
comportamenti individuati e tipizzati; (ii) le misure sprovviste di una
tipizzazione del comportamento contrastato, ma incentrate sulla
predeterminazione di parametri di elusività (risparmio indebito; assenza di
valide ragioni economiche ecc.) e con ambiti di operatività più o meno
generalizzati; (iii) i principi generali.
Ebbene, ai fini che qui interessano, va subito evidenziato che l’attenzione
deve essere riservata alle ultime due modalità di contrasto all’elusione.
Questo perché il comportamento elusivo oggetto di specifica censura - a ben
vedere - si risolve nella violazione della relativa norma diretta a prevenirlo:
sicché qui un problema di sanzionabilità dell’elusione, a rigore, neppure si
pone, posto che si tratta semmai di sanzionare, non l’aggiramento di una
norma, quanto la violazione di una previsione diretta a prevenire un dato
comportamento.
ELUSIONE TRIBUTARIA, ABUSO DEL DIRITTO E APPLICAZIONE DELLE SANZIONI
AMMINISTRATIVE
Negli altri due casi, invece, la mancata tipizzazione del comportamento non
consentito solleva l’interrogativo se la reazione dell’ordinamento si debba
esaurire nella sola applicazione dell’imposta che s’intendeva eludere, ovvero
possa/debba portare con sé anche le sanzioni ordinariamente previste per
contrastare i fenomeni di sottrazione di materia imponibile.
La ragione dell’interrogativo è presto detta. Tralasciando la questione
dell’illecito penale, oggetto di altre relazioni, e quindi concentrando
l’attenzione alle sole sanzioni amministrative 1, si osserva che la fattispecie
sanzionatoria, usualmente evocata trattando di elusione fiscale, è l’art. 1, co.
2, del D.Lgs. n. 471/97, ai sensi del quale “se nella dichiarazione è indicato,
ai fini delle singole imposte, un reddito imponibile inferiore a quello
accertato o, comunque, un’imposta inferiore a quella dovuta […], si applica
la sanzione amministrativa del cento al duecento per cento della maggior
imposta […]”. Si tratta, con ogni evidenza, di una fattispecie a condotta
libera, dove per l’applicazione della sanzione è (appare) sufficiente una
differenza meramente quantitativa tra dichiarato ed accertato. Il
comportamento sanzionato è, infatti, la sola omessa dichiarazione del
maggior imponibile accertato, senza che assuma valore alcuno la circostanza
che tale imponibile sia stato accertato disvelando comportamenti evasivi
(condotti in violazione di norme specifiche) piuttosto che elusivi (che quindi
abbiano aggirato l’applicazione di una data norma, senza però violarla
apertamente).
Ragionando in questo modo, però, bisogna poi allora dare atto che la reazione
ordinamentale per l’elusione e per l’evasione è sostanzialmente la medesima.
Il che, tuttavia, non appare né razionale né proporzionato, trattandosi di
vicende intrinsecamente differenti e con un disvalore sicuramente diverso,
indubitabilmente maggiore per l’evasione rispetto all’elusione, in aperta
violazione dell’art. 3 della Costituzione.
Per tali ragioni la risposta all’interrogativo non può reputarsi soddisfatta dalla
sola lettura del dato positivo riportato. Occorre, invece, tentare un approccio
sistematico, per verificare se, in concreto, la reazione dell’ordinamento
all’elusione realmente possa (ovvero debba) essere ulteriore rispetto al solo
recupero dell’imposta elusa.
2 Elusione ed abuso del diritto
Nonostante una tendenziale (soprattutto ad opera della giurisprudenza) idea
di fungibilità tra i due “strumenti” di contrasto al fenomeno elusione,
rappresentati dalla clausola antielusiva di portata generale di cui all’art. 37bis del D.P.R. n. 600/73 e dal principio dell’abuso del diritto, appare
largamente prevalente l’idea che, proprio sul tema delle sanzioni, s’imponga
una differenziazione tra i predetti strumenti.
1
Questo anche se – va detto – la conformazione afflittiva delle sanzioni
amministrative, quale si evince dai DD.Lgs. n. 471, 472 e 473 del 1997, rende in larga
misura paralleli i ragionamenti per i due sistemi sanzionatori.
56
ELUSIONE TRIBUTARIA, ABUSO DEL DIRITTO E APPLICAZIONE DELLE SANZIONI
AMMINISTRATIVE
Si ritiene, in particolare, che la matrice giurisprudenziale del principio anti
abuso e, quindi, la mancanza di un fondamento normativo per tale strumento
di contrasto all’elusione, determini, quale naturale conseguenza,
l’inapplicabilità di ogni tipo di sanzione, stante l’assenza di qualsivoglia
tipizzazione normativa del comportamento suscettibile di essere censurato e
sanzionato. L’applicazione della clausola dell’abuso del diritto, proprio
perché non positivizzata, non consentirebbe insomma di soddisfare quei
parametri di tassatività e di determinatezza che, in ossequio all’art. 25 della
Costituzione, debbono invece sussistere per consentire di punire, anche in via
amministrativa, un dato comportamento. Dal momento che le condotte che
possono comportare l’applicazione della predetta clausola sono
assolutamente indeterminate, ne consegue l’incompatibilità di ogni pretesa
sanzionatoria ulteriore rispetto al mero recupero delle imposte eluse.
Questa soluzione, del resto, è stata prospettata già nella nota sentenza Halifax
(CGE del 21 febbraio 2006, causa C-255/02), dove si è testualmente
affermato che “la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo
non deve condurre a una sanzione, per la quale sarebbe necessario un
fondamento normativo chiaro e univoco, bensì e semplicemente a un obbligo
di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni dell’Iva assolta a monte”
(punto 93). Ciò a dire proprio che l’applicazione del principio del’abuso del
diritto può portare solamente al recupero dell’imposta elusa, ma non pure alla
comminazione di sanzioni, per le quali occorre invece una base normativa
puntuale e determinata, idonea a specificare in termini chiari ed univoci il
comportamento riprovato.
In termini non dissimili si è di recente pronunciata anche la Suprema Corte di
Cassazione, con la sentenza n. 25537 del 30 novembre 2011, dove ha
riconosciuto che il principio di legalità, che informa il sistema sanzionatorio
tributario anche amministrativo, “porta ad escludere che una sanzione
amministrativa in materia tributaria possa essere applicata a fronte della
violazione non di una precisa disposizione di legge ma di un principio
generale, quale quello antielusivo ritenuto immanente al sistema”.
Si affaccia, per questa via, la conclusione di una sostanziale ed irriducibile
incompatibilità tra abuso del diritto e sanzioni tributarie. Con la conseguenza
che il contrasto all’elusione fiscale, attuato mediante lo strumento dell’abuso
del diritto, è destinato ad esaurirsi nel solo recupero dell’imposta elusa, senza
anche la comminazione di ulteriori sanzioni.
Al contempo però, simile conclusione lascia aperto il quesito con riguardo
all’altro strumento di contrasto all’elusione, integrato dalla clausola generale
di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/73. Perché qui, in effetti, una
tipizzazione, ancorché sommaria, dei comportamenti suscettibili di censura è
compiuta in via normativa, sicché – a tacer d’altro - è configurabile quel
“fondamento normativo chiaro ed univoco” evocato dalla Corte di Giustizia
nel citato caso Halifax.
57
ELUSIONE TRIBUTARIA, ABUSO DEL DIRITTO E APPLICAZIONE DELLE SANZIONI
AMMINISTRATIVE
3 Sanzioni ed art. 37-bis del D.P.R. n. 600/73: le opinioni in campo
Il tema dell’irrogabilità delle sanzioni, a seguito e per l’effetto
dell’applicazione della norma generale antielusiva di cui all’art. 37-bis del
D.P.R. n. 600/73, è stato tradizionalmente affrontato e risolto in ragione
dell’opzione preferita circa la natura della norma predetta.
Ad avviso di coloro che avversano l’applicazione delle sanzioni, l’art. 37-bis
rappresenterebbe una norma di natura meramente procedurale, diretta alla
sola amministrazione finanziaria e volta a disciplinare l’esercizio di un
peculiare potere della stessa. In questo senso militerebbe, in particolare, la
collocazione della norma de qua all’interno del D.P.R. n. 600/73 dedicato
all’accertamento, in luogo del Tuir, come pure la previsione di un peculiare
procedimento in contraddittorio in cui l’Amministrazione non solo
“disconosce i vantaggi tributari” ma, soprattutto, applica “le imposte
determinate in base alle disposizioni eluse”. Corollario di una simile
ricostruzione è riconoscere quale presupposto per l’applicazione dell’art. 37bis l’intervento dell’amministrazione finanziaria e, parallelamente, negare in
capo al contribuente l’obbligo di dare spontanea applicazione all’art. 37-bis,
in sede di compilazione della propria dichiarazione. Con l’ulteriore
conseguenza, evidentemente, di non poter sanzionare il contribuente per non
avere tenuto conto dell’art. 37-bis in sede di predisposizione della
dichiarazione. Del resto, viene fatto notare, nel testo dell’articolo in oggetto
manca ogni previsione riferita all’irrogazione delle sanzioni 2.
In questo senso, si sono pronunciate numerose commissioni di merito.
La soluzione opposta, che propende per l’applicazione delle sanzioni, ragiona
invece assegnando alla norma in commento natura sostanziale. Di norma,
cioè, che non disciplina tanto un potere dell’amministrazione finanziaria,
quanto e prima individua i corretti termini del dovere di contribuzione, ossia
la misura della manifestazione di capacità contributiva colta dalla specifica
imposta. Ragione per cui anche il contribuente ne sarebbe il destinatario e,
proprio perché tale, sarebbe tenuto a darne applicazione in sede di
compilazione della dichiarazione dei redditi3. Con l’inevitabile conseguenza
di dover subire, in caso di omissione, l’applicazione delle sanzioni per
infedele dichiarazione.
2
Il comma 6, inibendo la riscossione fino alla sentenza di primo grado, si riferisce, in
effetti, alla sola maggiore imposta e agli interessi, trascurando le sanzioni. Si può
replicare, però, che le sanzioni sono già riscuotibili, per regola generale, solo dopo la
sentenza di primo grado (art. 19, D.Lgs. n. 472/97), sicché non vi era alcuna esigenza
di farne espressa menzione nel testo del comma citato.
3
Ad avviso di una terza soluzione (Falsitta), infine, l’art. 37-bis andrebbe letto come
norma sull’interpretazione; come norma, in particolare, volta a consentire
all’amministrazione finanziaria di applicare, per analogia, alla fattispecie elusiva le
norme eluse. Ai fini che qui occupano, in ogni caso, anche per questa tesi le sanzioni
non sarebbero applicabili, posto che l’analogia esclude, per definizione, la possibilità
di soddisfare i principi di tassatività e di legalità, che debbono informare il sistema
sanzionatorio.
58
ELUSIONE TRIBUTARIA, ABUSO DEL DIRITTO E APPLICAZIONE DELLE SANZIONI
AMMINISTRATIVE
Va però osservato che, anche chi riconosce all’art. 37-bis natura sostanziale
e, per questa via, conclude per la sanzionabilità del contribuente il quale, in
sede di dichiarazione non ne abbia dato applicazione, riconosce la possibilità
di verificare, caso per caso, la sussistenza di un’obiettiva condizione di
incertezza, ex art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 472/97. L’intenzione, con ogni
evidenza, è quella di modulare, in termini equitativi, la portata della
sanzionabilità dell’elusione, per riservarla, in linea di principio, ai soli
comportamenti più smaccatamente e sfacciatamente elusivi e per lasciare
invece esenti da responsabilità quei casi effettivamente dubbi ed incerti.
Di questo avviso appare la giurisprudenza della Suprema Corte 4.
4
(segue) l’art. 37-bis quale norma sulle fonti e l’irriducibilità logicaconcettuale di sanzioni ulteriori all’applicazione del tributo nel caso
di elusione
Alla stregua di quanto visto, si evince che l’applicabilità o meno delle
sanzioni in virtù dell’impiego dell’art. 37-bis consegue ad un’opzione
qualificatoria in merito alla natura della predetta norma, come formale ovvero
sostanziale.
Per ragioni diverse, tuttavia, nessuna delle due opzioni appare soddisfacente.
Più di recente, si è affacciata in dottrina (La Rosa) una lettura dell’art. 37-bis
in parte differente da quelle testé esaminate, che sembra offrire un
inquadramento nuovo ma chiaro e convincente, soprattutto in un quadro
sistematico, della disposizione in oggetto.
Ad avviso di tale dottrina, in particolare, l’art. 37-bis integrerebbe una
“norma sulle norme”. Una norma cioè che, abilitando l’Amministrazione
finanziaria a non applicare talune norme e ad applicarne altre, consentirebbe
di derogare al sistema delle fonti normative ed ai criteri di interpretazione e di
applicazione delle stesse: di non applicare, in sostanza, le norme che
andrebbero applicate in ragione della sussumibilità nella rispettiva fattispecie
astratta della fattispecie concreta, per applicare invece norme ulteriori, la cui
ratio ma non la fattispecie appare soddisfatta nel caso concreto.
Concepita come “norma sulle norme”, la previsione in oggetto si porrebbe
peraltro in termini tendenzialmente speculari con la previsione contenuta al
comma 8 del medesimo art. 37-bis, dove, come noto, è disciplinato il cd.
interpello disapplicativo, ossia il potere per l’amministrazione finanziaria, su
istanza del contribuente, di disapplicare specifiche norme dirette a contrastare
comportamenti elusivi. E in entrambi i casi, in effetti, è contemplata la
possibilità di non applicare le norme di legge che, secondo i canoni
ermeneutici correnti (art. 12 delle preleggi), lo dovrebbero essere.
Sennonché, inquadrata in questi termini, ossia come norma che abilita una
deroga al sistema delle fonti normative e dei canoni di loro interpretazione ed
applicazione, è chiaro che non si può porre un problema di sanzioni. Quello
che viene in considerazione è, a ben vedere, un potere affatto speciale,
4
Così Cass. n. 25537/2011, cit.
59
ELUSIONE TRIBUTARIA, ABUSO DEL DIRITTO E APPLICAZIONE DELLE SANZIONI
AMMINISTRATIVE
necessariamente da riservare alla sola amministrazione finanziaria (come del
resto accade con il comma 8 del medesimo articolo 37-bis) e,
conseguentemente, sottratto al singolo contribuente. Questi, difatti, non può
reputarsi legittimato a non applicare determinate norme di legge per
applicarne altre, in ragione peraltro di parametri metagiuridici come “indebiti
vantaggi”, “aggiramento delle norme”, “assenza di valide ragioni
economiche”. Non legittimato ma, evidentemente, neppure costretto, con la
conseguenza che l’applicazione dell’art. 37-bis potrà comportare il solo
recupero della maggiore imposta, non pure delle sanzioni.
Né vale replicare che l’applicazione dell’art. 37-bis a cura del contribuente
costituisce, in realtà, una conclusione necessitata dall’art. 53 della
Costituzione: che, in altre parole, l’osservanza della ratio della norma
impositiva, e quindi la disapplicazione dei canoni di applicazione delle leggi,
rappresenterebbe un obbligo imposto per assicurare il corretto concorso alle
pubbliche spese in ragione della reale capacità contributiva.
Va osservato, difatti, che l’elusione fiscale non sembra avere niente a che fare
con l’art. 53 della Costituzione: l’elusione non è un problema di giusto
riparto, se non indirettamente, quanto di credibilità e tenuta del sistema.
L’ordinamento contrasta l’elusione non perché non può tollerare che le
smagliature nella rete di norme impositive sia utilizzata per sfuggire
all’imposizione, posto che, se questa finalità non è esclusiva o prevalente, il
comportamento è perfettamente legittimo e tollerato. Ciò per dire che non vi
è un rifiuto a priori del comportamento oggettivamente idoneo ad eludere
l’applicazione di una norma impositiva, posto che, per restare oggetto di
censura, occorre che sia sprovvisto di ragioni giustificative ulteriori rispetto
al risparmio d’imposta.
Sicché, sono le ragioni economiche ulteriori ad integrare il parametro che
determina la legittimità/illegittimità di un dato comportamento ai fini della
disciplina antielusiva.
Ebbene, le ragioni economiche (la loro sussistenza e sufficienza) ben possono
integrare un indice di meritevolezza o meno di un comportamento, ai fini di
una valutazione in termini legittimità/illegittimità dello stesso. Riesce
difficile invece conciliare la rilevanza di tale indice con il riparto delle spese
pubbliche, ossia ad intenderlo quale indice di capacità contributiva: non si
comprende, infatti, come e perché lo stesso comportamento possa ritenersi
idoneo a fondare il concorso alle pubbliche spese in ragione del fatto di
essere accompagnato o meno da valide ragioni economiche.
Riceve così ulteriore conferma la conclusione sopra esposta, che induce a
leggere la disciplina antielusiva come attribuzione di un potere speciale
all’amministrazione finanziaria diretto a contrastare comportamenti ritenuti
riprovevoli dall’ordinamento. Comportamenti che sono reputati riprovevoli
non in termini assoluti, bensì relativi, ossia solo se ed in quanto sprovvisti di
ragioni ulteriori, diverse e prevalenti, da quelle integrate dal desiderio di
risparmiare le imposte. Quando, in altre parole, non hanno altra
giustificazione che quella di approfittare delle smagliature del sistema.
Ragione per cui il sistema predispone strumenti di contrasto.
60
ELUSIONE TRIBUTARIA, ABUSO DEL DIRITTO E APPLICAZIONE DELLE SANZIONI
AMMINISTRATIVE
Consegue da ciò, la presa d’atto di una naturale inconciliabilità dello
strumento antielusivo con l’applicazione delle sanzioni per infedele
dichiarazione, dal momento che, trattandosi di un potere speciale accordato
all’amministrazione, non è configurabile alcun obbligo dichiarativo
inadempiuto in capo al contribuente.
Le sanzioni amministrative tributarie appaiono pensate per punire la
sottrazione di materia imponibile, laddove il contrasto all’elusione si
configura, sostanzialmente, come reazione dell’ordinamento a comportamenti
che ne mettono in discussione la completezza, coerenza e funzionalità. Per
tale ragione si è portati a ritenere che la reazione e quindi la sanzione
dell’ordinamento all’elusione debba essere la sola applicazione delle norme
impositive eluse, in luogo di quelle che, in conformità con la gerarchia delle
fonti ed i canoni di applicazione delle leggi, andrebbero applicate al caso
concreto.
Nota bibliografica
Attardi C., Elusione fiscale, abuso del diritto e sanzioni tributarie, in Il fisco,
2011, p. 212.
Circ. n. 13/IR del 6 febbraio 2010 dell’Istituto di ricerca dei dottori
commercialisti e degli esperti contabili.
Corasaniti G., Contrasto all’elusione e all’abuso del diritto nell’ordinamento
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Corrado L. R., Elusione tributaria, abuso del diritto (comunitario) e
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Del Federico L., Elusione e illecito tributario, in Corr. trib., 2006, 3110.
Falsitta G., Natura delle disposizioni contenenti "norme per l’interpretazione
di norme" e l’art. 37 bis sull’interpretazione analogica o antielusiva, in Riv.
dir. trib., 2010, I, p. 519.
Fransoni G., Efficacia e impugnabilità degli interpelli fiscali con particolare
riguardo all’interpello disapplicativo, in AA.VV. (a cura di G. Maisto)
Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, p. 77.
La Rosa S., Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto,
in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 785.
Marcheselli A., Elusione, buona fede e principi del diritto punitivo, in Rass.
trib., 2009, p. 401.
Mastroiacovo V., L’economicità delle valide ragioni (note minime margine
della recente evoluzione del principio dell’abuso del diritto), in Riv. dir. trib.,
2010, I, p. 449.
Screpanti S., Elusione fiscale, abuso del diritto e applicabilità delle sanzioni
amministrative, in Rass. trib., 2011, p. 413.
61
Prof. Alberto Comelli
Professore Università di Parma
L’abuso del processo, con particolare
riferimento al processo tributario
Sommario: 1. Premesse sull’abuso del processo, quale “tema sempre più
ricco di sfaccettature”, al fine di circoscrivere precisamente l’indagine. – 2.
L’abuso del diritto, l’abuso del processo ed il loro nesso di collegamento
ontologico, tra le situazioni giuridiche soggettive e la loro proiezione
(eventuale) nella dimensione processuale. – 3. L’abuso del processo civile,
gli artt. 88 e 96 c.p.c. e la recente esperienza giurisprudenziale sulla
valorizzazione della regola della correttezza e buona fede, sul giusto processo
e sulla sua incompatibilità con l’irragionevole durata dello stesso. – 4.
L’abuso del processo nella sentenza delle sezioni unite penali della Suprema
Corte n. 155/2012, quale uso distorto del diritto di agire o di reagire in
giudizio, ovvero in termini di frode alla funzione. – 5. Due importanti
sentenze del Consiglio di Stato, depositate nel 2012, sul generale divieto di
abuso di ogni posizione soggettiva, che permea sia le condotte sostanziali, sia
i comportamenti processuali di esercizio del diritto. – 6. L’abuso del processo
tributario: due fattispecie in relazione alle quali è intervenuto il legislatore
mediante la mini-riforma del processo in termini alla fine dell’anno 2005. 7.
– (Segue): gli artt. 88 e 96 c.p.c., la giurisprudenza delle sezioni unite civili
della Suprema Corte sull’abuso processuale ed alcune fattispecie concrete di
abuso calibrate sul processo tributario. 8. – Osservazioni conclusive: la figura
dell’abuso del processo investe trasversalmente tutte e tre le giurisdizioni
domestiche, ma si specifica e si adatta in modo largamente diverso e calibrato
all’interno di ciascuna di esse. Dubbi sull’efficacia dell’art. 96, 3° co., c.p.c.
al fine di arginare e scoraggiare l’abuso del processo tributario.
1 Premesse sull’abuso del processo, quale “tema sempre più ricco di
sfaccettature”, al fine di circoscrivere precisamente l’indagine
È opportuno formulare alcune indispensabili premesse metodologiche per
circoscrivere precisamente e puntualmente il tema che formerà l’oggetto della
presente indagine. L’abuso processuale sarà approfondito particolarmente in
relazione al processo civile (1) ed a quello tributario, senza trascurare,
(1) Con rifermento al XXVIII convegno nazionale della Associazione italiana fra gli
studiosi del processo civile, tenutosi ad Urbino il 23 e 24 settembre 2011, sul tema
“l’abuso del processo”, risultano pubblicate, al momento, le relazioni di M.
TARUFFO, L’abuso del processo: profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012,
117 ss. e di G. SCARSELLI, Sul c.d. abuso del processo, in
www.studiolegalescarselli.com, oltre al volume, che trae occasione dalla relazione
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
tuttavia, la giurisprudenza più recente con riferimento al processo penale ed a
quello amministrativo. Sarà in questo modo possibile il tentativo di fornire un
originale contributo che tenga nella dovuta considerazione i tre plessi
giurisdizionali nei quali si articola il nostro ordinamento giuridico, vale a dire
la giurisdizione ordinaria, quella amministrativa e quella tributaria, ciascuna
caratterizzata da una immanente parità e autonomia nei confronti delle altre,
con pieno rispetto dei propri percorsi evolutivi e distinte ratione materiae,
per le quali manca solamente, secondo una ulteriore prospettiva evolutiva, la
piena e definitiva consacrazione a livello costituzionale ( 2).
Si tratta, a quanto consta, del primo contributo sul versante tributari stico ( 3),
mentre saranno segnalati (alcuni tra i) numerosi approfondimenti sull’abuso
processuale da parte degli studiosi del processo civile ai quali, di volta in
volta, sarà opportuno fare riferimento.
Sotto altro profilo, la presente indagine sarà limitata alle sole ipotesi di abuso
posto in essere dalle parti e dai loro difensori, pur non potendo negarsi a
priori che anche il giudice possa commettere abusi ( 4). Inoltre, sarà affrontato
il tema dell’abuso in modo da ricomprendere sia il concetto di abuso del
processo, vale a dire di abuso della tutela giurisdizionale tout court, sia quello
di abuso nel processo, inteso come abuso realizzato mediante il compimento
di specifici atti che rientrano nella vicenda processuale (5).
Viceversa, non saranno esaminati e resteranno, per così dire, “sullo sfondo” i
profili deontologici che sono collegati alle scelte processuali degli avvocati
svolta, di M. F. GHIRGA, Abuso del processo e sanzioni, Milano, 2012, passim. V.
anche L. P. COMOGLIO, Abuso del processo e garanzie costituzionali, in Riv. dir.
proc., 2008, 319 ss.; l’ampio lavoro, con un’approfondita indagine storica, di F.
CORDOPATRI, L’abuso del processo, vol. I e II, Padova, 2000, passim; A. DONDI,
Abuso del processo (diritto processuale civile), Enc. dir., Annali, III, 2010, 1 ss.; ID.,
A. GIUSSANI, Appunti sul problema dell’abuso del processo civile nella prospettiva
de iure condendo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 193 ss. Inoltre, cfr. M. IAPPELLI,
Nuove forme di abuso del processo: il procedimento cautelare, in Giur. merito, 2009,
sez. II, 1271 ss.
(2) Cfr. C. GLENDI, Verso l’unità della giurisdizione tributaria, in L’evoluzione
dell’ordinamento tributario italiano, Atti del convegno di Genova, 2-3- luglio 1999, I
settanta anni di “Diritto e pratica tributaria”, coordinati da V. UCKMAR, Padova,
2000, 634, il quale auspica l’esplicita consacrazione, a livello costituzionale,
dell’autonomo assetto ordinamentale del giudice tributario.
(3) Se si eccettua l’approfondito lavoro di C. SCALINCI, Abuso del diritto e abuso del
processo in materia fiscale, in L’abuso del diritto, del processo e nel processo, suppl.
a Giur. merito, n. 12/2007, 119 ss.
(4) La stessa considerazione è svolta da M. F. GHIRGA, Abuso del processo e
sanzioni, cit., 29, la quale esattamente osserva che l’abuso da parte del giudice delle
prerogative processuali sconfina nell’esame dell’ordinamento giudiziario e della
disciplina della responsabilità del magistrato, che attualmente forma oggetto di
proposte di riforma.
(5) La distinzione è stata operata da M. TARUFFO, L’abuso del processo, cit., loc.
cit., 117 e 118.
64
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
(6) e saranno evitate, altresì, valutazioni di tipo etico. Inoltre, non sarà
possibile approfondire, in questa ricerca, la giurisprudenza sovranazionale e,
segnatamente, della Corte europea dei diritti dell’uomo ( 7) e della Corte di
giustizia europea.
Non è superfluo osservare, in sede di completamento delle premesse, che il
tema dell’abuso processuale ( 8) negli ultimi due decenni ha formato oggetto
di una crescente attenzione da parte degli studiosi del processo (soprattutto,
di quello civile, ma anche di quello penale), mentre la giurisprudenza ha
applicato e chiarito tale concetto in numerose sentenze, facendo emergere una
notevole varietà di ipotesi nelle quali l’abuso in questione può essere
applicato e calibrato sul caso concreto prospettato dalle parti. Come è stato
esattamente osservato (9), si tratta di “un tema sempre più ricco di
sfaccettature e di diverse prospettive di indagine”.
Tutto questo rende, se possibile, ancora più urgente una riflessione sul
versante del processo tributario. Difatti, in questo settore, l’attenzione della
dottrina si è rivolta esclusivamente all’elaborazione del concetto di abuso del
diritto e non anche a quella dell’abuso del processo, pur essendo questo
profilo di grande interesse scientifico. In tale ambito, forse, si è discusso
troppo di abuso del diritto e troppo poco di abuso del processo, con tutti i
relativi corollari ed è giunto il momento di tentare di affrontare il tema con
maggiore equilibrio.
Procedendo con ordine, sarà opportuna una breve e preliminare ricognizione
del nesso di collegamento tra l’abuso del diritto e l’abuso processuale,
suscettibile di giustificare questa relazione nel contesto di un convegno
dedicato, come si evince dal titolo, all’abuso del diritto e non anche (almeno
a prima vista) a quello del processo. Successivamente, alla luce della dottrina
processualcivilistica e dei principali arresti giurisprudenziali, sarà finalmente
possibile un approfondimento della problematica che ne occupa nella
(6) Cfr. per tutti U. PERFETTI, Abuso del diritto, abuso del processo, deontologia, in
Rass. forense, 2008, I, 831 ss.; G. SALVI, Abuso del processo e deontologia dei
soggetti processuali, in Cass. pen., 2005, 9094 ss. F. CORDOPATRI, L’abuso del
processo, II, cit., 91, rileva che vi sono regole che possono avere anche carattere
deontologico, ad esempio quelle “attinenti ai modi di comportamento professionale”.
(7) Con particolare riferimento alla giurisprudenza che si è formata, in materia di
condizioni di ricevibilità, sull’art. 35, p. 3 (a) della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, alla luce della quale è da ritenere abusivo e, quindi, irricevibile il ricorso
da parte della Corte europea, quando la condotta o l’obiettivo del ricorrente sono
manifestamente contrari alla finalità per la quale il diritto di ricorrere è riconosciuto
(cfr., ad esempio, l’arresto Petrovic c. Serbia del 18 ottobre 2011, ric. n. 56551/11,
laddove l’abuso, ai sensi dell’art. 35, p. 3 della Convenzione, viene inteso come
esercizio dannoso di un diritto, per scopi diversi da quelli per i quali è previsto).
(8) E partendo dallo scritto ormai piuttosto risalente nel tempo di G. DE STEFANO,
Note sull’abuso del processo, in Riv. dir. proc., 1964, 582 ss. P. CALAMANDREI, Il
processo come giuoco, ivi, 1950, I, 32 s., accenna all’abuso del processo e affema che
può essere così denominato “per qualche somiglianza colla figura dell’abuso del
diritto”.
(9) Da M. F. GHIRGA, Abuso del processo, cit., 1.
65
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
prospettiva del processo tributario. Questo segmento della ricerca, peraltro,
consentirà di evidenziare due interventi del legislatore che hanno introdotto
modifiche al testo del d.lgs. n. 546/1992 nell’ottica di eliminare possibili
abusi, nonché altre fattispecie in cui può essere individuato l’abuso
processuale, alla luce della più recente esperienza giurisprudenziale.
Infine, si cercherà di rispondere alla seguente suggestiva domanda in
apicibus: l’abuso del processo tributario può essere distintamente definito
rispetto all’abuso processuale in generale (ovvero al concetto di abuso negli
altri plessi giurisdizionali), oppure ne costituisce una specificazione, mutatis
mutandis, in considerazione del peculiare rito che lo caratterizza?
2 L’abuso del diritto, l’abuso del processo ed il loro nesso di
collegamento ontologico, tra le situazioni giuridiche soggettive e la
loro proiezione (eventuale) nella dimensione processuale
Alcune sintetiche considerazioni sono opportune intorno al collegamento tra i
concetti di abuso del diritto (10) e di abuso del processo, senza alcuna pretesa
di esaustività. In primis, l’abuso del diritto (11) e l’abuso processuale sono
figure ictu oculi ontologicamente connesse ma non sono perfettamente
coincidenti e non devono essere confuse. L’inesistenza di una netta
(10) Sottolinea esattamente M.F. GHIRGA, Abuso del processo e sanzioni, cit., 5, nota
1, che il tema dell’abuso del diritto “risente della nozione di diritto soggettivo che si
adotta”. Forse, si potrebbe superare (o, quanto meno, aggirare) questo problema
ipotizzando di allargare il concetto all’abuso di situazioni giuridiche soggettive.
(11) Dall’ampio studio monografico di F. CORDOPATRI, L’abuso del processo, II,
cit., 85 s., emerge una grande attenzione per i fermenti dottrinari maturati nell’ambito
della dottrina civilistica, in relazione alla quale l’Autore afferma che “l’abuso del
diritto mostra inequivoci segni di rinascita” rispetto al passato, caratterizzato da un
“più o meno marcato ostracismo”. Aggiunge il Cordopatri (a pag. 89) che “sul piano
teorico, si suole eleggere a parametro ricostruttivo della nozione di abuso del diritto il
difetto di interesse unito all’intenzione di nuocere, oppure la modalità anomala e
scorretta dell’esercizio del diritto, cioè la valutazione della faute o della contrarietà
alla buona fede oggettiva, o, ancora, il bilanciamento degli interessi; o, infine, la
deviazione del potere dallo scopo istituzionale”. E ancora afferma: “dunque, la
nozione di abuso del diritto può teoricamente collegarsi con il concetto di esercizio
distorsivo del diritto o con il concetto della correttezza e della buona fede in senso
oggettivo” (pag. 92). Quale corollario, l’abuso del diritto dovrebbe essere apprezzato
non in termini di un atteggiamento soggettivo, ma piuttosto come figura emergente a
livello oggettivo. Essa è intimamente correlata al concetto di responsabilità, laddove si
afferma, a pag. 90, che “l’abuso del diritto, già sin dalla costruzione della nozione o,
se si vuole, sin dal disegno dei profili della fattispecie, non deve né può perder
d’occhio il rapporto che lo lega alla responsabilità. In questo senso, l’elezione del
punto di snodo dell’abuso nella distorsione dell’esercizio del diritto o, piuttosto,
nell’apprezzamento del conflitto interindividuale, meglio, nel bilanciamento degli
interessi ha la sua inevitabile ricaduta sulla raccordabilità, o meno, dell’abuso con la
responsabilità”.
66
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
separazione concettuale, vale a dire di un diaframma impenetrabile ( 12),
scaturisce, a mio parere, da due ordini di considerazioni.
Innanzitutto, non sussiste una contrapposizione tra diritto e processo, ma
semmai una continuità ontologica, collegata alla proiezione sul versante
processuale della tutela delle situazioni giuridiche soggettive. Non vi è una
cesura tra l’aspetto sostanziale, inteso in senso ampio, e la relativa tutela
giurisdizionale, essendo la realtà giudiziale una dimensione che scaturisce
dall’esigenza (costituzionalmente preservata) di garantire una piena e
completa realizzazione di tale diritto e delle sue prerogative soggettive. Se vi
è un ontologico nesso di collegamento tra diritto e processo, non può negarsi
che tale collegamento immanente può estendersi anche alle figure di abuso
del diritto (13) e di abuso del processo, a meno che l’abuso sia diversamente
configurabile se riferito al rapporto materiale, anziché alla fenomenologia
processuale, ma così non è.
La nozione di abuso, difatti, e così passo al secondo ordine di considerazioni,
sembra costituire, pur con tutta la prudenza necessaria, un concetto in larga
misura unitario e onnicomprensivo, il quale si atteggia e si specifica in modo
inevitabilmente differente se riferito e parametrato alla sfera dell’aspetto
sostanziale, anziché alla tutela giurisdizionale in quanto tale ed alle singole
vicende del processo. Secondo questa ipotesi ricostruttiva, l’elemento
dell’abuso diventerebbe il minimo comune denominatore o, se si vuole, il
“ponte” a livello concettuale suscettibile di unire i due tipi di abuso in
questione. Si potrebbe forse sostenere che l’abuso del diritto e l’abuso del
processo sarebbero inquadrabili come due species dello stesso genus,
costituito dalla figura dell’abuso tout court.
Trattasi di un percorso di ricerca nuovo e originale, sul versante tributario,
rispetto alle indagini che sono state fino ad ora dedicate al tema dell’abuso
del diritto, con una serie di contributi sicuramente apprezzabili ed
approfonditi (anche sul piano comparatistico, con particolare riferimento agli
ordinamenti tedesco e francese) e, nella maggior parte dei casi, di alto profilo
scientifico. Ma la stretta connessione e le interrelazioni che sussistono tra
l’abuso del diritto e l’abuso del processo (segnatamente, di quello tributario)
sono rimaste in larga misura nell’ombra, pur essendo, invece, un percorso di
ricerca che sembra evidenziare spunti ricostruttivi non poco significativi, con
inevitabili riflessi sul versante della teoria generale dell’abuso del processo.
La presente indagine, che non si occupa specificamente dell’abuso del diritto,
ma nemmeno può ignorare quest’ultimo sic et simpliciter, per quanto sopra
sostenuto, proseguirà con l’esame del concetto di abuso del processo
(12) Secondo la diversa ricostruzione proposta da M. F. GHIRGA, Abuso del processo
e sanzioni, cit., 5 s., il tema dell’abuso del processo discende da quello dell’abuso del
diritto, quale “applicazione della categoria civilistica alla realtà giudiziale nella sua
espressione di prerogative soggettive che nell’ambito della stessa si realizzano”.
(13) Tale concetto non va confuso con altre figure contermini, quali, ad esempio,
l’eccesso del diritto, laddove “la deviazione dal contenuto porta l’abuso a confondersi
inevitabilmente con l’eccesso del diritto”: F. CORDOPATRI, L’abuso del processo,
II, cit., 92.
67
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
tributario, dopo aver evidenziato alcune sintetiche considerazioni in tema di
abuso sul versante del processo civile ed alla luce di alcune recenti pronunce
sia delle sezioni unite penali della Suprema Corte, sia del Consiglio di Stato.
3 L’abuso del processo civile, gli artt. 88 e 96 c.p.c. e la recente
esperienza giurisprudenziale sulla valorizzazione della regola della
correttezza e buona fede, sul giusto processo e sulla sua
incompatibilità con l’irragionevole durata dello stesso
In assenza di norme contenute nel c.p.c. italiano che espressamente si
applichino all’abuso processuale, è pur sempre necessario identificare i
possibili parametri normativi nel codice di rito civile. Innanzitutto, si
consideri il disposto dell’art. 88, il quale, come noto, impone alle parti ed ai
loro difensori di “comportarsi in giudizio con lealtà e probità” ( 14), vale a dire
che non è sufficiente un comportamento legalmente valido, occorrendo un
quid pluris costituito dall’agire in modo corretto e onesto (15), valutabile in
senso positivo sul piano morale (16), fatta “salva la difficoltà di stabilire di
quale morale si tratti, e quando questa entri in gioco” (17).
Un altro importante referente normativo è costituito dall’art. 96 c.p.c., norma
speciale rispetto al precetto generale contenuto nell’art. 2043 c.c. ( 18), che al
(14) Cfr. G. SCARSELLI, Lealtà e probità nel compimento degli atti processuali, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 91 ss.
(15) Cfr. per tutti E. ZUCCONI GALLI FONSECA, Commento sub art. 88, in
Commentario breve al codice di procedura civile, a cura di F. CARPI, M. TARUFFO,
Padova, 2012, 335 ss.
(16) Per una interessante applicazione del principio di lealtà e di probità processuale,
di cui all’art. 88 c.p.c., laddove la Suprema Corte ha ritenuto di non concedere un
termine per effettuare la notificazione (in precedenza omessa) dell’impugnazione a
una parte totalmente vittoriosa, nell’ipotesi in cui l’impugnazione medesima sia
dichiarata inammissibile ovvero improcedibile, v. Cass., sez. un., 3 novembre 2008, n.
26373, in Riv. dir. proc., 2009, 1684 ss. e nota di L. P. COMOGLIO, Abuso dei diritti
di difesa e durata ragionevole del processo: un nuovo parametro per i poteri direttivi
del giudice? In questo arresto, la S.C. sottolinea che, in considerazione dei poteri di
direzione del procedimento attribuiti al giudice dagli artt. 175, 1° co. e 127, 1° e 2° co.
c.p.c., il principio della ragionevole durata del processo impone “al giudice di evitare
ed impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello
stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio
di energie processuali e formalità da ritenere superflue perché non giustificate dalla
struttura dialettica del processo” o dall’effettività del contraddittorio e dei diritti di
difesa “partecipativa”, che sono attribuiti su base paritaria per effetto delle garanzie
del giusto processo a tutti i soggetti “nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato
ad esplicare i suoi effetti”.
(17) La locuzione è di M. TARUFFO, L’abuso del processo, cit., loc. cit., 121.
(18) In tal senso, cfr. P. NAPPI, Commento sub art. 96, in Codice di procedura civile
commentato, dir. da C. CONSOLO, tomo I, Milano, 2010, 1060. L’Autore sottolinea
che l’art. 96, rispetto all’art. 2043 c.c., contempla le particolari ipotesi di illecito che
abbiano rapporto con la qualità di parte del processo. La specialità della norma è
sottolineata anche da D. VOLPINO, L. M. PALIERO, Commento sub art. 96, in
68
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
1° co. disciplina la fattispecie della parte soccombente che agisce o resiste in
giudizio con mala fede o colpa grave, suscettibile di essere condannata, su
istanza dell’altra parte, al risarcimento dei danni che sono liquidati, anche
d’ufficio, nella sentenza (19). Il successivo 3° co., introdotto dall’art. 45, 12°
co., della l. n. 69/2009, ha arricchito in modo generalizzato ( 20) le
conseguenze dell’illecito processuale di una nuova sanzione e prevede, in
modo singolare e non poco discutibile, un potere del giudice molto ampio e,
forse, discrezionale o arbitrario, di sanzionare anche d’ufficio comportamenti
non precisamente individuati, mediante la condanna della “parte soccombente
al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente
determinata” (21), senza indicare un limite massimo alla condanna e
Commentario breve al codice di procedura civile, a cura di F. CARPI, M. TARUFFO,
cit., 366, in relazione alle diverse ipotesi che possono integrare un illecito processuale.
(19) Non osta all’accoglimento della domanda di risarcimento dei danni da lite
temeraria l’omessa deduzione e dimostrazione dello specifico danno subito dalla parte
vittoriosa, il quale è costituito dagli oneri di ogni genere che questa abbia dovuto
affrontare per essere stata costretta a contrastare l’ingiustificata iniziativa
dell’avversario e dai disagi affrontati per effetto di tale iniziativa. Conseguentemente,
il risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. va inteso in senso non poco ampio,
comprensivo del danno sia patrimoniale, sia non patrimoniale.
(20) “In ogni caso” (con cui esordisce l’art. 96, 3° co. c.p.c.) si estrinseca in una
“formula generica e generale” che “è a dir poco inopportuna”: così P. NAPPI,
Commento sub art. 96, cit., 1074.
(21) Sottolinea C. GLENDI, Nuove disposizioni generali del codice di procedura civile
e processo tributario, in Corr. trib., 2010, 2569, che l’art. 96, 3° co. c.p.c. non
dovrebbe avere una funzione risarcitoria o indennitaria, laddove sembra prevalere “un
profilo punitivo, di cui peraltro verrebbe a fruire la parte vittoriosa, quale premio per
aver cooperato a far emergere una situazione giudicata meritevole di sanzione”, ma
restano sfumati ed incerti i relativi presupposti, non essendo chiaro se sono i
medesimi dei primi due commi dell’art. 96 ovvero anche altri. Aggiunge poi l’Autore,
in senso pienamente condivisibile, che è sconcertante “l’apparente carenza di limiti
quantitativi all’esercizio di un potere ancorato al labile ed enigmatico parametro
dell’equità, salvo il solo connotato della soccombenza”. Anche M. TARUFFO,
L’abuso del processo, cit., loc. cit., 123, critica tale disposizione e sottolinea che la
condanna ha per oggetto il pagamento di somme indeterminate, equitativamente
determinate dal giudice in virtù di “una sorta di potere discrezionale assoluto”. Ai
sensi della sentenza del Tribunale di Prato 6 novembre 2009, in Foro it., 2010, I,
2229, 2232 ss., con nota di G. SCARSELLI, Il nuovo art. 96, 3° comma, c.p.c.:
consigli per l’uso, manifesta un abuso del processo l’ipotesi in cui l’esercizio di
un’azione convenzionale sia congegnato in modo da essere eccedente e deviato
rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale formalmente perseguito ed è orientato ad
ottenere un ingiustificato allungamento dei tempi processuali in violazione del
principio del giusto processo (nella specie, in un giudizio ordinario di opposizione a
decreto ingiuntivo, il Tribunale ha ritenuto di applicare l’art. 96, 3° co. c.p.c. quale
sanzione civile a carico del soccombente, suscettibile di evitare che il processo venga
instaurato senza ragioni, laddove la vicenda che forma l’oggetto del giudizio
evidenzia il pretestuoso ricorso alla giustizia, in termini sia di opposizione meramente
dilatoria, sia di condotte processuali correlate e finalizzate unicamente ad ostacolare la
realizzazione del diritto del creditore, appunto mediante l’abuso del processo).
69
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
nemmeno la necessaria valutazione sulla colpa grave o la mala fede nell’aver
proposto la domanda giudiziale o nell’avervi resistito ( 22).
Mancano, tuttavia, dati normativi più precisi, essendo gli artt. 88 e 96 da soli
del tutto insufficienti (o, se si vuole, non poco ambigui) al fine di ricavare la
nozione di abuso del processo, nel settore del processo civile (23). Al
contrario, nel code de procédure civile francese, vi è un precetto, vale a dire
l’art. 32-1 (24), che si riferisce espressamente alla parte che agisce in giudizio
in modo dilatorio o abusivo, la quale può essere condannata ad pagamento di
un importo fino ad un massimo di 3.000,00 euro. In questa norma, peraltro,
non viene definito l’abuso processuale, ma vi sono i presupposti per
formulare alcune riflessioni sull’azione giudiziale posta in essere in modo
abusivo o dilatorio, laddove tale abuso viene represso con una sanzione a
carico di chi l’ha commesso e non con l’invalidità di atti ( 25).
Sul versante italiano, è particolarmente utile fare riferimento all’esperienza
giurisprudenziale di legittimità. Con riferimento alla parcellizzazione in
plurime e distinte domande di un unico credito pecuniario, la “coraggiosa”
pronuncia delle sezioni unite della Suprema Corte n. 23726/2007 ( 26), ha
(22) Sembra che la condanna possa essere pronunciata, anche d’ufficio, senza
l’allegazione e la prova della parte vittoriosa di aver subito un pregiudizio dal
comportamento della controparte, che abbia indebitamente abusato degli strumenti del
processo.
(23) Afferma Trib. minorenni Milano, decr. 4 marzo 2011, che lo strumento offerto
dall’art. 96, 3° co., c.p.c. è suscettibile di sanzionare comportamenti che denotano un
uso pretestuoso o disfunzionale del processo, in danno delle parti in causa e di ogni
cittadino che abbia domandato la tutela delle proprie posizioni giuridiche all’Autorità
Giudiziaria. Tale articolo è, nella specie, un efficace strumento per garantire la tutela
dell’effettività delle relazioni parentali ad opera dello Stato italiano, come richiesta
dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia
europea, laddove la resistente aveva richiesto reiteratamente l’affidamento esclusivo
della minore senza fornire elementi a sostegno della sua domanda, in tal modo
limitando fortemente il libero esplicarsi del diritto del ricorrente ad allevare la figlia.
(24) Secondo cui: “celui qui agit en justice de manière dilatoire ou abusive peut être
condamné à une amende civile d’un maximum de 3 000 euros, sans préjudice des
dommages-intérêts qui seraient réclamés”.
(25) Cfr. M. F. GHIRGA, Abuso del processo e sanzioni, cit., 2, nota 2.
(26) La pronuncia è stata depositata il 15 novembre 2007. Cfr. i commenti di M. DE
CRISTOFARO, Infrazionabilità del credito tra buona fede processuale e limiti
oggettivi del giudicato, in Riv. dir. civ., 2008, II, 335 ss., il quale sottolinea che
l’arresto in questione è coraggioso se non altro perché rovescia un precedente
intervento delle stesse sezioni unite del 2000; T. DALLA MASSARA, La domanda
frazionata e il suo contrasto con i principi di buona fede e correttezza: il
«ripensamento» delle sezioni unite, ivi, 2008, II, 345 ss. Si veda anche P.
RESCIGNO, L’abuso del diritto (una significativa rimeditazione delle Sezioni Unite),
in Corr. giur., 2008, 745 ss., che definisce il credito frammentato dal titolare in una
pluralità di domande come un fenomeno di non frequente verificazione, ma nemmeno
eccezionale.
70
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
ribaltato l’orientamento della precedente sentenza n. 108/2000 ( 27), la quale
aveva affermativamente statuito sul tema della frazionabilità della tutela
giudiziaria del credito, mediante la richiesta di un adempimento parziale da
parte del creditore, con riserva di azione per il residuo. La Suprema Corte ha
rimeditato la conclusione raggiunta con riferimento al duplice profilo, da un
lato, della ragionevole durata del procedimento e, dall’altro lato, del giusto
processo (28). In tale prospettiva, quest’ultimo non sarebbe giusto (in
relazione alla risposta alla domanda della parte) qualora il suo risultato finale
scaturisse da un abuso processuale per effetto dell’“esercizio dell’azione in
forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che
segna il limite, oltreché la ragione dell’attribuzione, al suo titolare, della
potestas agendi” (29).
Aggiungono ancora le sezioni unite che è da ritenere costituzionalizzato il
canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in relazione al dovere
inderogabile di solidarietà ex art. 2 Cost., il quale attribuisce a tale canone
“forza normativa e ricchezza di contenuti”, anche in relazione agli obblighi di
protezione della persona e delle cose della controparte, quale espressione
dell’interesse del partner negoziale. Il criterio della buona fede, quale
garanzia del giusto equilibrio tra gli opposti interessi, va considerato come un
punto fermo in ogni fase successiva a quella dell’elaborazione dello statuto
negoziale (anche in sede modificativa o integrativa) e, dunque, anche nella
proiezione giudiziale e non tollera alterazioni in danno del debitore (30).
Se fosse consentita la frazionabilità giudiziale (contestuale o sequenziale)
dell’unitario credito, il creditore sarebbe facoltizzato a scegliere di adire un
giudice inferiore (vale a dire il giudice di pace, più celere nella definizione
delle controversie) rispetto a quello che sarebbe competente a conoscere
dell’intero credito (il tribunale), senza considerare il non poco significativo
aggravio di spese e l’onere di proporre molteplici opposizioni da parte del
debitore a fronte delle reiterate e molteplici iniziative giudiziarie intraprese
dal creditore. La forzata disarticolazione, da parte del creditore, dell’unità
sostanziale del rapporto (31) viola il fondamentale dovere di correttezza e
buona fede e, poiché realizzata mediante l’accesso alla tutela giurisdizionale,
(27) Depositata il 10 aprile 2000, in Giur. it., 2001, 1143 ss., con note di A.
CARRATTA, S. MINETOLA, A. RONCO, Ammissibilità della domanda giudiziale
«frazionata» in più processi?
(28) Di vero e proprio “incubo della ragionevole durata” parla G. VERDE, Il processo
sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. dir. proc., 2011, 505, il quale non si
considera un estimatore del nuovo conio dell’art. 111 Cost., di cui non apprezza
l’inizio del testo con una iperbolica allitterazione. M. TARUFFO, L’abuso del
processo, cit., loc. cit., 126, afferma che “la realtà della giustizia civile in Italia
continua ad essere molto lontana dal principio della ragionevole durata” ed è
un’illusione che la ripetuta invocazione retorica di questo principio possa cambiare le
cose, in assenza di riforme veramente incisive.
(29) Nello stesso senso, v. Trib. Roma, sez. 2, 12 gennaio 2010.
(30) In tal senso, v. anche Trib. Milano, sez. V, 8 marzo 2010.
(31) In relazione alla fase patologica della coazione all’adempimento.
71
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
si estrinseca in abuso del processo (ostativo all’esame della domanda), non in
sintonia, anzi, in contrasto, coi principi del giusto processo e della
ragionevole durata dello stesso (32). Conclusivamente, l’arresto in questione
individua l’abuso nella condotta del creditore suscettibile di aggravare la
posizione del debitore in assenza di una utilità valutabile come degna di
essere perseguita e tutelata dall’ordinamento ( 33).
Sotto altro profilo, l’abuso della strumentazione processuale è stato
individuato dalla Suprema Corte con riferimento alla proposizione della
domanda di riconoscimento dell’equa riparazione per la violazione dei
termini di ragionevole durata del processo (34). Più precisamente, la Corte di
legittimità ha esaminato l’ipotesi nella quale i ricorrenti che erano parti di una
stessa procedura innanzi al T.A.R. del Lazio, pur avendo presentato
un’identica domanda (35), avevano proposto dieci distinti ricorsi alla Corte
d’appello (successivamente da questa riuniti) in funzione del riconoscimento
dell’equo indennizzo per l’eccessiva durata del processo ( 36), con il patrocinio
del medesimo difensore, pur essendo la domanda basata sul medesimo
presupposto giuridico e fattuale.
Nel solco tracciato dall’arresto n. 23726/2007, la Suprema Corte sottolinea
che la condotta sopra rappresentata configura un abuso dello “strumento
processuale”, laddove l’evento causativo del danno e giustificativo della
pretesa è identico, così come è unico il soggetto che ne deve rispondere,
mentre sono plurimi i soli danneggiati, i quali hanno agito unitariamente nel
processo presupposto, manifestando una carenza di interesse ad un esercizio
diversificato della potestas agendi in sede di richiesta dell’indennizzo, per di
più con un unico patrocinio legale. Tale condotta, peraltro, contrasta, da un
lato, “con l’inderogabile dovere di solidarietà sociale che osta all’esercizio di
un diritto con modalità tali da arrecare un danno ad altri soggetti che non sia
inevitabile conseguenza di un interesse degno di tutela dell’agente” e,
dall’altro lato, “con il principio costituzionalizzato del giusto processo, inteso
come processo di ragionevole durata”, laddove la proliferazione non
(32) Sottolinea con riferimento all’arresto n. 23726/2007, P. RESCIGNO, L’abuso del
diritto, cit., loc. cit., 745, che, se il problema della parcellizzazione o frazionamento
della pretesa creditoria viene riferito al credito nel suo aspetto sostanziale, si verifica
un abuso del diritto, mentre se si attribuisce rilevanza alla strumentazione processuale
al fine di esercitare la pretesa, si può parlare di abuso del processo. In questa
prospettiva, secondo l’Autore, “sempre si conferma la stretta connessione dei due
profili, del rapporto materiale e dell’azione in giudizio, nell’antica e tormentata
questione dell’abuso”.
(33) In senso sintonico rispetto alla pronuncia n. 23726/2007, v. Cass. 27 gennaio
2010, n. 1706; Cass. 11 giugno 2008, n. 15476, sulla quale cfr. il commento di B.
VERONESE, L’improponibilità della domanda frazionata: rigetto in rito o nel
merito?, in Obbl. e contr., 2009, 813 ss.
(34) Trattasi dell’ordinanza 3 maggio 2010, n. 10634, in Corr. giur., 2011, 369 s., con
nota di C. FIN, Una coraggiosa pronuncia della Corte di legittimità: l’onere delle
spese come rimedio contro un uso scorretto dello strumento processuale.
(35) Segnatamente, in materia di adeguamento triennale dell’indennità giudiziaria.
(36) Ai sensi della legge n. 89/2001.
72
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
necessaria dei procedimenti non può che determinare un generale
allungamento dei tempi processuali, con un effetto gravemente negativo
sull’organizzazione giudiziaria (37).
Alla luce di tale giurisprudenza, l’abuso processuale contrasta con la
valorizzazione del principio della correttezza e della buona fede, che
scaturisce non tanto (o non solo) dall’art. 88 c.p.c., bensì dall’applicazione
del parametro costituzionale dell’inderogabile dovere di solidarietà, ex art. 2
Cost. Parallelamente, trova applicazione il principio del giusto processo,
anch’esso costituzionalizzato, che esclude lo svolgimento della vicenda
processuale, in qualche misura, abusivo (quanto all’accesso alla tutela
giurisdizionale, ovvero al compimento o, all’opposto, al non compimento di
determinati atti processuali), laddove determina in re ipsa una irragionevole
durata del processo (38). Sotto questo profilo, l’abuso del processo causa un
danno all’erario per effetto dell’allungamento del tempo generale nella
trattazione dei processi e dell’insorgenza dell’obbligo di versamento
dell’indennizzo previsto dalla legge n. 89/2001, oltre ad un danno diretto al
litigante (39).
Ma se è così, si ritiene quanto meno discutibile l’efficacia dell’art. 96, 3° co.,
c.p.c. (40) ad arginare il fenomeno dell’abuso processuale, se non altro per la
sua formulazione troppo generica e l’assenza di parametri cui commisurare la
condanna al pagamento di una somma, anche d’ufficio ( 41). In altre parole, se
(37) L’arresto in questione conclude nel senso che l’affermata sussistenza dell’abuso
della strumentazione processuale postula l’eliminazione, per quanto possibile, degli
effetti distorsivi dell’abuso medesimo e, nella fattispecie, “la valutazione dell’onere
delle spese come se unico fosse stato il procedimento fin dall’origine”.
(38) Si pensi, ad esempio, ad un ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, in
assenza di alcun dubbio in merito alla devoluzione della giurisdizione, al solo fine di
guadagnare tempo e, forse, beneficiare in un secondo momento dell’indennizzo ex
lege n. 89/2001 per l’eccessiva durata del processo. E, ancora, si consideri un’azione
esperita davanti ad un giudice senza dubbio sfornito di giurisdizione, al solo fine di
attivare la circolarità dell’azione, in virtù della translatio actionis (o iurisdictionis),
recentemente introdotta dall’art. 59 della legge n. 69/2009, a scopo meramente
dilatorio, fatto salvo l’indennizzo ai sensi della legge n. 89/2009.
(39) In questo senso, cfr. Trib. Varese, sez. I, 21 gennaio 2011.
(40) Cfr. Trib. Varese 22 gennaio 2011, n. 98, in Resp. civ. e prev., 2011, II, 2574 ss.,
con nota di E. MORANO CINQUE, L’abuso del processo come forma di stalking
giudiziario: è lite temeraria, in relazione ad un giudizio di opposizione a decreto
ingiuntivo tra due società i cui rappresentanti legali erano marito e moglie in fase di
separazione giudiziale, nell’alveo di una serie di procedimenti intentati tra le
medesime parti nell’arco di due anni giudiziari, a seguito della separazione, con un
discutibile trasferimento nel contesto giudiziario del terreno di scontro personale. Tale
situazione fattuale, secondo la pronuncia del Tribunale, giustifica la condanna
dell’opponente, ai sensi dell’art. 96, 3° co., c.p.c., in presenza di un elemento
soggettivo di rimproverabilità (colpa).
(41) Prima che fosse aggiunto il 3° co. all’art. 96 c.p.c. ad opera dell’art. 45, 12° co.,
della legge n. 69/2009, osserva R. GIORDANO, Responsabilità delle parti per le
spese ed i danni e abuso del processo, in L’abuso del diritto, del processo e nel
processo, cit., 43 ss., 49, che la responsabilità per lite temeraria non è uno strumento
73
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
considerata atomisticamente, la norma di cui si discute non sarà da sola
affatto sufficiente, in assenza di altre misure (certamente diverse e ulteriori
rispetto alla generale previsione del dovere di lealtà e probità), nella
prospettiva di contrastare l’abuso del (e/o nel) processo.
4 L’abuso del processo nella sentenza delle sezioni unite penali della
Suprema Corte n. 155/2012, quale uso distorto del diritto di agire o di
reagire in giudizio, ovvero in termini di frode alla funzione
Pur senza poter approfondire la tematica dell’abuso del processo, con
specifico riferimento al processo penale (42), è opportuno segnalare quanto
affermato, per quanto qui interessa, dalla recente sentenza delle sezioni unite
penali della Corte di cassazione n. 155/2012 (43). Essa muove dalla
considerazione secondo cui l’avvicendamento di difensori realizzato a
chiusura del dibattimento è stato piuttosto singolare, laddove nel corso del
giudizio di primo grado si erano succeduti ben otto difensori, compreso
quello che era tornato ad assistere uno degli imputati in appello e in
Cassazione. A tacer d’altro, le rinunzie depositate erano identiche nel
riferirne la ragione alla scarsità di tempo, ma i difensori sostituiti e quelli
nominati (con richieste di termini a difesa dei nuovi difensori) non erano mai
comparsi e non risultava accettazione delle nomine fatte in udienza, con
l’effetto di “ascoltare e riascoltare” l’imputato “che chiedeva di rendere
spontanee dichiarazioni, e acquisire sue ulteriori memorie”.
Se anche i profili fattuali evidenziati nella sentenza n. 155/2012 sono più
complessi di quelli sopra tratteggiati, essi danno prima facie un’idea del loro
svolgimento in senso dinamico e delle ragioni per le quali la Suprema Corte
si è occupata della tematica che ne occupa. Alla luce delle specifiche vicende
processuali, (anche) l’avvicendamento dei difensori è stato realizzato in
modo reiterato e non giustificato da alcuna reale esigenza difensiva, col solo
fine di dilatare i tempi processuali, il cui effetto finale è stato quello della
declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione. Realizza un abuso del
processo il numero esagerato di iniziative difensive, ancorché in astratto
ciascuna espressione di una legittima facoltà qualora, come nella specie, sono
sufficiente al fine di sanzionare le condotte di abuso realizzate dalle parti all’interno
del processo, espressive di slealtà nei confronti della controparte ed idonee a influire
sulla durata dello stesso. Tale responsabilità non è uno strumento suscettibile di
sanzionare l’utilizzazione abusiva di mezzi processuali posta in essere dalla parte
vittoriosa.
(42) Si veda comunque, senza alcuna pretesa di esaustività, E. M. CATALANO, Verso
le colonne d’Ercole dell’abuso del processo: strategie e ruolo del pubblico ministero,
in L’abuso del diritto, del processo e nel processo, cit., 54 ss., 63, secondo cui “la
nozione di abuso del processo trova le sue manifestazioni più tipiche sul terreno
dell’accezione emotiva del termine abuso, che evoca l’idea di un espediente
irreprensibile, ovvero di un atto perfetto e lecito, eppure contrario ai postulati della
lealtà e della correttezza processuale”.
(43) La pregevole sentenza è stata depositata il 10 gennaio 2012 ed il punto di essa cui
si intende fare riferimento è il n. 15.
74
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
in concreto del tutto prive di fondamento e di scopo conforme alle ragioni per
le quali tali facoltà sono riconosciute.
Più in generale, l’arresto in esame qualifica come “abuso degli strumenti
difensivi del processo penale” quelli attivati non al fine di ottenere garanzie
processuali effettive o realmente più ampie, o comunque migliori possibilità
di difesa, bensì al solo scopo di “una reiterazione tendenzialmente infinita
delle attività processuali”. Nella prospettiva di meglio chiarire quando sia
consentito “qualificare abusiva una qualsivoglia strategia processuale, civile
o penale”, l’arresto in esame sottolinea un importante principio generale.
Difatti, aggiunge la Suprema Corte, “è ormai oramai acquisita una nozione
minima comune dell’abuso del processo che riposa sull’altrettanto
consolidata e risalente nozione generale dell’abuso del diritto, riconducibile
al paradigma dell’utilizzazione per finalità oggettivamente non già solo
diverse ma collidenti («pregiudizievoli») rispetto all’interesse in funzione del
quale il diritto è riconosciuto”. La prospettiva è quella di dotare
l’ordinamento di misure, per così dire, di autotutela, nell’ottica di evitare che
i diritti da esso garantiti possano essere esercitati o realizzati, anche per
effetto di un intervento giurisdizionale, in maniera abusiva, vale a dire
eccessiva e distorta. Ne consegue che l’esigenza di individuare precisi limiti
agli abusi non è limitata ai rapporti sostanziali, ma si estende anche alle
vicende processuali, trascende le connotazioni peculiari dei vari sistemi e
caratterizza non solamente gli ordinamenti processuali interni, bensì anche
quelli sovrannazionali (44). La soluzione concreta, a livello normativo o
interpretativo, “è nel senso che l’uso distorto del diritto di agire o reagire in
giudizio, rivolto alla realizzazione di un vantaggio contrario allo scopo per
cui il diritto stesso è riconosciuto, non ammette tutela”.
In considerazione di quanto precede, l’abuso del processo può essere definito
come “un vizio, per sviamento, della funzione; ovvero, secondo una più
efficace definizione riferita in genere all’esercizio di diritti potestativi”, quale
“frode alla funzione” (45). L’arresto in questione, pertanto, si segnala per
l’acuta ricostruzione in apicibus della figura dell’abuso processuale, nel
senso ut supra precisato e per i riferimenti alla pertinente giurisprudenza
delle sezioni unite civili della Suprema Corte ( 46), della Corte europea dei
diritti dell’uomo e della Corte europea di giustizia.
(44) Con particolare riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e alla
giurisprudenza della Corte europea di giustizia.
(45) La sentenza delle sezioni unite penali conclude, sul punto, affermando che
realizza uno sviamento o una frode alla funzione l’imputato che abusi dei diritti,
ovvero delle facoltà, che l’ordinamento astrattamente gli riconosce e “non ha titolo
per invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà
effettivamente perseguiti”.
(46) Con particolare riferimento alla sentenza n. 23726/2007, già citata nel testo.
75
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
5 Due importanti sentenze del Consiglio di Stato, depositate nel 2012,
sul generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, che permea
sia le condotte sostanziali, sia i comportamenti processuali di
esercizio del diritto
L’indagine in corso può essere utilmente estesa a due pronunce del Consiglio
di Stato recentemente depositate (47). Nella sentenza n. 656/2012 (48), si
esamina la tematica della eventuale legittimità della sollevazione
dell’eccezione di difetto di giurisdizione in sede di appello, proposta dalla
parte che aveva adito la stessa giurisdizione con l’atto introduttivo del primo
grado, al termine del quale il T.A.R. aveva respinto il ricorso proposto. La
citata sentenza reputa che la risposta non possa essere che negativa e cita in
proposito alcune sentenze dello stesso giudice nel solco delle quali il
Collegio ritiene di collocarsi (49), giungendo a ritenere inammissibile la
censura di difetto di giurisdizione sollevata dall’appellante. Per quanto qui
interessa, l’arresto in esame afferma la sussistenza “del principio generale che
vieta, anche in sede processuale, ogni condotta integrante abuso del diritto,
quale è da ritenersi, a guisa di figura paradigmatica, il venire contra factum
proprium dettato da ragioni meramente opportunistiche”.
Alla luce della sentenza delle sezioni unite civili della Suprema Corte n.
23726/2007, sopra citata, e della decisione dell’adunanza plenaria del
Consiglio di Stato n. 3/2011 (50), vige “un generale divieto di abuso di ogni
(47) Più in generale, senza pretesa di esaustività, cfr. C. E. GALLO, L’abuso del
processo nel giudizio amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2008, 1005 ss. Secondo
questo contributo, gli elementi essenziali dell’abuso del processo (il cui concetto è
nato sulla scorta delle riflessioni sull’abuso del diritto) sono da individuare nel
comportamento volontario di un soggetto del processo, titolare di un diritto o di un
potere, utilizzato in modo non adeguato rispetto al fine suo proprio, nella prospettiva
di perseguire interessi diversi, la cui realizzazione nuoce al corretto funzionamento
del processo. Peraltro, l’abuso del processo è indipendente dall’esito del giudizio,
laddove può abusare sia la parte che risulta soccombente, sia quella che risulta
vittoriosa: ciò che rileva in entrambi i casi è l’uso non corretto di un determinato
istituto. L’ Autore sottolinea, con un certo stupore, che il concetto di abuso del
processo è rimasto sconosciuto agli studiosi del processo amministrativo, i quali non
solo non lo hanno mai utilizzato, ma non ne hanno ipotizzato financo l’utilizzabilità.
V. anche G. TULUMELLO, Brevi note su abuso del diritto e processo
amministrativo, in L’abuso del diritto, del processo e nel processo, cit., 104 ss.
(48) Trattasi della sentenza depositata il 7 febbraio 2012.
(49) Anche in considerazione dell’art. 9 del d.lgs. n. 104/2010 (codice del processo
amministrativo), in relazione al difetto di giurisdizione.
(50) Depositata il 23 marzo 2011, in Corr. giur., 2011, 979 ss., con nota di F. G.
SCOCA, Risarcimento del danno e comportamento del danneggiato da
provvedimento amministrativo. Afferma questa decisione, in sintonia con quanto
statuito dalla Suprema Corte in proposito, che il divieto di tenere condotte contrarie
alla buona fede ha un ancoraggio costituzionale, in virtù dell’art. 2 Cost. e costituisce
un canone di valutazione anche delle condotte processuali, operando nella fisiologia
come nella fase patologica del rapporto obbligatorio. Cfr. anche L. PENASA, Infine
una risolutiva parola dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato sull’onere del
76
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
posizione soggettiva, divieto che, ai sensi dell’art. 2 Cost. e dell’art. 1175
c.c., permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di
esercizio del diritto” (51). In questa prospettiva, il divieto di abuso del diritto
trova applicazione anche nella dimensione processuale ed implica “che ogni
soggetto di diritto non può esercitare un’azione con modalità tali da implicare
un aggravio della sfera della controparte” (52).
Questa sentenza, peraltro, non afferma la sussistenza di un mero nesso di
collegamento del concetto di abuso nei rapporti sostanziali e nella proiezione
processuale, ma compie un passo in avanti, laddove giunge ad affermare che
“il divieto di abuso del diritto diviene anche abuso del processo”, come se si
trattasse di una identità ontologica. Essa afferma, poi, che la figura dell’abuso
del processo si estrinseca nell’“esercizio improprio, sul piano funzionale e
modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti
strategie di difesa” (53).
La successiva sentenza, resa in forma semplificata, del Consiglio di Stato n.
1209/2012 (54), si riferisce ad un contesto fattuale del tutto diverso, relativo
ad un concorso indetto dalla Guardia di finanza per il reclutamento di 952
allievi finanzieri, ove il ricorrente innanzi al T.A.R. del Lazio aveva superato
le prove scritte ma era stato giudicato non idoneo alla prova sulle capacità
psicoattitudinali. In sede di accoglimento della domanda di sospensione del
relativo provvedimento, il T.A.R. aveva prescritto di sottoporre ad una nuova
valutazione il ricorrente, il quale, pur senza essere sottoposto a tale
reiterazione dell’accertamento attitudinale ( 55), veniva ammesso con riserva
cittadino di impugnare l’atto amministrativo fonte di un danno ingiusto, in Resp. civ.
e prev., 2012, 165 ss.
(51) Peraltro, secondo l’arresto del Consiglio di Stato n. 656/2012, gli elementi
costitutivi dell’abuso del diritto sarebbero i seguenti: “1) la titolarità di un diritto
soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel
diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente
predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente
rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità
censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la
circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione
ingiustificata tra il beneficio del titolare ed il sacrificio cui è soggetta la controparte”.
(52) Nello stesso senso, cfr. T.A.R. Calabria, Catanzaro, 6 maggio 2011, n. 654,
secondo cui “il divieto di abuso del diritto va inteso anche come divieto di abuso del
processo e, pertanto, il creditore deve evitare di esercitare un’azione con modalità tali
da impedire un aggravio della sfera del debitore”.
(53) In coerenza con la suddetta elaborazione della figura dell’abuso, il Consiglio di
Stato ha ritenuto che sussistono gli estremi per integrare un abuso del processo,
nell’ipotesi di contestazione della giurisdizione da parte del soggetto che aveva adito
tale giurisdizione mediante la presentazione del ricorso introduttivo e, se pur
soccombente nel merito, sia risultata vittoriosa sulla questione della giurisdizione in
virtù di una pronuncia esplicita, ovvero di una statuizione implicita.
(54) Depositata il 2 marzo 2012.
(55) Conseguentemente, l’Amministrazione disattendeva l’ordinanza del T.A.R. del
Lazio, laddove non provvedeva a reiterare l’accertamento attitudinale dell’aspirante
allievo.
77
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
al corso e proseguiva l’iter concorsuale, superava gli esami conclusivi,
prestava giuramento e veniva immesso in ruolo.
Il Consiglio di Stato respinge l’appello proposto dall’Amministrazione e
osserva, al riguardo, che quest’ultima avrebbe dovuto rinnovare il giudizio
sulle capacità psicoattitudinali dell’appellato, in ottemperanza all’ordinanza
del T.A.R. Non avendo espletato tale rinnovazione, l’Amministrazione ha
posto in essere un comportamento contraddittorio, in violazione del divieto
generale di venire contra factum proprium. Peraltro, anche questo arresto
richiama, in senso pienamente sintonico, i principi enunciati dall’Adunanza
generale nella pronuncia n. 3/2011, sopra richiamata e osserva che sussiste
“un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva”, applicabile anche
sul versante processuale, laddove la parte esercita in modo funzionalmente
improprio il potere discrezionale di individuare le strategie difensive più
opportune (56).
6 L’abuso del processo tributario: due fattispecie in relazione alle quali
è intervenuto il legislatore mediante la mini-riforma del processo in
termini alla fine dell’anno 2005
Va segnalato un abuso che era largamente praticato fino all’abrogazione
dell’art. 7, 3° co. del d.lgs. n. 546/1992 ad opera dell’art. 3 bis, 5° co.,
inserito nella legge di conversione n. 248/2005 del d.l. n. 203/2005 (57).
Difatti, la norma abrogata consentiva alle commissioni tributarie “di ordinare
alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della
controversia”, con una formulazione suscettibile di individuare un ampio
potere istruttorio a favore del giudice (laddove era precisamente statuito che
“è sempre data alle commissioni tributarie facoltà”) (58). Tuttavia, in non
pochi casi, tale potere era concretamente utilizzato dal giudice per acquisire
al processo documenti che l’amministrazione finanziaria aveva omesso di
produrre tempestivamente, pur essendo tale documentazione rilevante e
(56) Quale corollario, secondo la sentenza n. 1209/2012, la condotta
dell’Amministrazione non è stata, nella specie, conforme a correttezza e buona fede e
la pretesa che essa deduce è stata giudicata non meritevole di tutela, con conseguente
rigetto dell’appello.
(57) Nel senso che l’art. 7, 3° co. del d.lgs. n. 564/1992 aveva sostanzialmente recepito
il disposto del previgente art. 36, 3° co., del d.p.r. n. 636/1972, pur con due differenze
non poco significative, cfr. A. COMELLI, Commento sub art. 7, in Commentario
breve alle leggi del processo tributario, a cura di C. CONSOLO, C. GLENDI,
Padova, III ed., in corso di pubblicazione, cui si rinvia per le ampie citazioni
bibliografiche e per le considerazioni sul problematico riferimento all’art. 210 c.p.c.,
ivi comprese le conseguenze dell’inottemperanza all’ordine di esibizione.
(58) La formulazione dell’art. 7, 3° co. era caratterizzata da “estrema vaghezza”
secondo Corte cost. 19 marzo 2007, n. 109, in GT, 2007, 745 ss con nota di F.
BATISTONI FERRARA, La prova nel processo tributario: riflessioni alla luce delle
più recenti manifestazioni giurisprudenziali. Con questa pronuncia la Consulta ha
dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, 1° co., del
d.lgs. n. 546/1992, sollevata in relazione agli artt. 3 e 24 Cost.
78
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
financo indispensabile al fine di dimostrare uno o più fatti e di emettere la
sentenza.
Il potere in questione consentiva di rimediare, in sede istruttoria, alle strategie
difensive carenti e/o lacunose espletate dall’amministrazione finanziaria e
legittimava un intervento del giudice a favore di quest’ultima consentendole,
sia pure tardivamente, di produrre in giudizio documenti “necessari per la
decisione della controversia”, in esito ad un’ordinanza istruttoria.
Quest’ultima, peraltro, da un lato, incideva sulla durata del processo, senza
una convincente ragione perché questa dilatazione fosse giustificata e,
dall’altro lato (e soprattutto) consentiva all’ufficio tributario di depositare
documenti quando, altrimenti, sarebbe stato precluso l’esercizio di tale
potere, in quanto già consumato. L’ordinanza istruttoria in esame, pertanto,
sarebbe intervenuta “in zona c.d. Cesarini”, vale dire pochi istanti prima del
passaggio in decisione della controversia, con grave menomazione del
principio dell’imparzialità e della terzietà del giudice, in un assetto
ordinamentale che espressamente riconosce e promuove il valore
costituzionale del “giusto processo” (59), verso il quale orientare
l’inquadramento dei poteri del giudice e delle parti, in una posizione di
effettiva parità. In altre parole, il principio del “giusto processo” non tollera
l’esercizio del potere del giudice, che in fondo favoriva largamente una parte
del processo (di regola, quella pubblica) che si era dimostrata inerte, se non
proprio negligente, violando la parità delle armi processuali, che è
espressione del canone del giusto processo, sia pure al fine di confezionare
una sentenza per la quale era ritenuto rilevante e necessario (vale a dire
indispensabile) il deposito dei documenti (60).
L’intervento del legislatore che, con la mini-riforma della fine dell’anno
2005, ha abrogato l’art. 7, 3° co., ut supra precisamente citato, va inquadrato
opportunamente in questa prospettiva di riequilibrio tra le parti, in sede di
istruzione probatoria e, più in generale, tra i soggetti del processo ( 61).
Un’altra modifica legislativa che è opportuno segnalare attiene all’art. 53, 2°
co., 2° periodo del d.lgs. n. 546/1992, aggiunto dall’art. 3 bis, 7° co. inserito
nella legge di conversione n. 248/2005 del d.l. n. 203/2005. Tale disposizione
(59) Cfr. F. GALLO, Quale modello processuale per il giudizio tributario?, in Rass.
trib., 2011, 11 ss., 12; A. PODDIGHE, Giusto processo e processo tributario, Milano,
2010, passim.
(60) Afferma correttamente Cass. 28 marzo 2012, n. 5020, che era inammissibile
l’istanza mediante la quale l’ufficio tributario sollecitava l’esercizio dei poteri
istruttori officiosi, di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 546/1992, al fine di acquisire gli
allegati alla dichiarazione dei redditi del contribuente, sia perché essi erano già in
possesso dell’amministrazione finanziaria che aveva formulato la domanda, sia per la
violazione dell’art. 6 dello Statuto del contribuente (sia per altri profili, non rilevanti
in questa sede). Nello stesso senso, cfr. Cass. 30 dicembre 2010, n. 26392.
(61) L’accentuazione della terzietà del giudice è sottolineata anche da Corte cost. 19
marzo 2007, n. 109, cit., laddove il giudice è chiamato in primis a verificare la
legittimità del provvedimento amministrativo sul versante della congruità della sua
motivazione, in rapporto agli elementi di fatto sui quali esso si fonda ed alla prova
degli stessi.
79
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
prevede l’onere in capo all’appellante, qualora l’appello non sia notificato a
mezzo dell’ufficiale giudiziario, di depositare “a pena d’inammissibilità”
copia dello stesso presso l’ufficio di segreteria della commissione tributaria
provinciale che ha pronunciato la sentenza impugnata ( 62).
Qualora la notificazione dell’appello sia eseguita mediante ufficiale
giudiziario, quest’ultimo fornisce la tempestiva notizia della proposizione
dell’appello all’ufficio di segreteria della commissione tributaria provinciale
che ha confezionato l’impugnata sentenza, ai sensi dell’art. 123 disp. att.
c.p.c., norma applicabile al processo tributario in virtù del generale modulo di
raccordo di cui all’art. 1, 2° co. del d.lgs. n. 546/1992 ( 63). Se, per la scelta
insindacabile operata dall’appellante, la notificazione dell’appello non
avviene per il tramite dell’ufficiale giudiziario e viene espletata direttamente
dalla parte a mezzo del servizio postale, ovvero mediante consegna dell’atto
(64), l’art. 53, 2° co., 2° periodo del d.lgs. in questione risponde all’esigenza
di impedire, o quanto meno ridurre, il rischio del rilascio di erronee
attestazioni di passaggio in giudicato della sentenza della commissione
tributaria provinciale impugnata innanzi al giudice di secondo grado ( 65).
In assenza di questa norma, sarebbe astrattamente possibile che l’appellato
possa strumentalmente produrre, innanzi alla commissione tributaria
regionale, la sentenza impugnata con l’attestazione del suo passaggio in
giudicato, erronea in quanto l’ufficio di segreteria della commissione che ha
confezionato e depositato quest’ultima non avrebbe potuto conoscere in alcun
modo l’avvenuta impugnazione. Peraltro, non è a tal fine sufficiente a
scongiurare il rischio dell’erronea attestazione del passaggio in giudicato
della sentenza la richiesta del fascicolo del processo da parte della segreteria
(62) Entro il termine perentorio che si identifica con quello di trenta giorni, stabilito
per la costituzione in giudizio dell’appellante, in virtù del combinato disposto dell’art.
22, 1° co, richiamato dall’art. 53, 2° co., primo periodo del d.lgs. n. 546/1992: così,
tra le tante, la recentissima sentenza della Suprema Corte 23 marzo 2012, n. 4679.
(63) La ratio costituita dalla tempestiva ed opportuna informativa della segreteria del
giudice di primo grado dell’appello notificato senza il tramite dell’ufficiale
giudiziario, in tal modo impedendo l’erronea attestazione del passaggio in giudicato
della sentenza della commissione tributaria provinciale, è condivisa da Cass. 23 marzo
2012, n. 4679.
(64) Ai sensi dell’art. 16, 3° co. del d.lgs. n. 546/1992, sul quale cfr., per tutti, M.
BRUZZONE, Notificazioni e comunicazioni degli atti tributari, Padova, 2006,
passim.
(65) La Corte costituzionale ha recentemente dichiarato la manifesta infondatezza delle
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 53, 2° co., 2° periodo del d.lgs. n.
546/1992 con ordinanza 15 aprile 2011, n. 141, in Giur. cost., 2011, 1811 ss., con
riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. Peraltro, questa ordinanza si colloca nel solco
tracciato da altre pronunce della Consulta, vale a dire la sentenza 20 gennaio 2011, n.
17, ivi, 2011, 154 ss.; l’ordinanza 11 febbraio 2010, n. 43 e la sentenza 4 dicembre
2009, n. 321, in GT, 2010, 473 ss., con nota di F. PISTOLESI, L’inammissibilità
dell’appello per mancato o tardivo deposito della copia in primo grado non contrasta
con l’indirizzo di svalutazione dei vizi formali, alla luce delle quali analoghe questioni
erano state dichiarate non fondate.
80
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
della commissione regionale nei confronti della segreteria della commissione
provinciale, in virtù dell’art. 53, 3° co del d.lgs. n. 546/1992 ( 66).
Tale modifica, introdotta come quella in precedenza evidenziata, dalla miniriforma del processo tributario alla fine dell’anno 2005, ha eliminato o
comunque fortemente ridotto il margine di rischio di un utilizzo strumentale
e, quindi, abusivo, della richiesta alla segreteria della commissione
provinciale e della produzione in giudizio innanzi alla commissione regionale
presso la quale pende il giudizio d’appello, della sentenza impugnata munita
della erronea attestazione del suo passaggio in giudicato.
7
(Segue): gli artt. 88 e 96 c.p.c., la giurisprudenza delle sezioni unite
civili della Suprema Corte sull’abuso processuale ed alcune
fattispecie concrete di abuso calibrate sul processo tributario
In virtù dei principi generali, nonché del modulo di raccordo tra le
disposizioni di cui al d.lgs. n. 546/1992 e le norme del c.p.c., di cui all’art. 1,
2° co. di questo d.lgs., sono applicabili in materia di processo tributario gli
artt. 88 e 96 del codice di rito civile (67). La domanda di risarcimento del
danno da responsabilità processuale aggravata, peraltro, può essere proposta
esclusivamente nel medesimo giudizio dal cui esito si deduce l’insorgenza di
tale responsabilità e del danno, sia perché nessun giudice può giudicare la
temerarietà processuale meglio di quello che decide sulla domanda che si
assume temeraria, sia in quanto la valutazione del presupposto della
responsabilità processuale è così strettamente collegata con la decisione di
merito da comportare la possibilità, se fosse condotta separatamente, di un
contrasto di giudicati.
Come già anticipato, il richiamo a queste due disposizioni non è suscettibile
di fondare, con sufficienti margini di chiarezza, l’elaborazione della figura di
abuso del processo, segnatamente con riferimento al processo tributario.
Pertanto, occorrerà ragionare in termini necessariamente più ampi, pur
partendo dal dato positivo costituito dal combinato disposto degli artt. 88 e
96 c.p.c. (68).
(66) Nello stesso senso, cfr. Corte cost. 15 aprile 2011, n. 141, cit. e 11 febbraio 2010,
n. 43, cit.
(67) A. CHIZZINI, I rapporti tra codice di procedura civile e processo tributario, in Il
processo tributario, a cura di F. TESAURO, Torino, 1998, 17, afferma l’applicabilità
del dovere di lealtà e probità in virtù dei principi generali e non tanto per il rinvio
contemplato dall’art. 1, 2° co. del d.lgs. n. 546/1992. Con rifermento alla
responsabilità aggravata, lo stesso Autore ne ammette l’applicabilità nel processo
tributario, “pur con qualche dubbio”. È favorevole all’applicabilità al processo
tributario dell’art. 96 c.p.c., come novellato dalla l. n. 69/2009, in virtù di “una visione
sistematica e conforme ai principi del sistema di tutela giudiziale”, P. SANDULLI,
Sull’applicabilità dell’articolo 96 c.p.c. al rito tributario, in Riv. dir. proc., 2011, 646
ss., 651.
(68) Comm. trib. reg. Puglia 12 aprile 2010, n. 36, in GT, 2010, 1008 ss., con nota di
G. A. GALEANO, G. A .F. FERRI, Risarcimento del danno da lite temeraria ex art.
96 c.p.c. nel giudizio tributario, applica il disposto dell’art. 96 c.p.c. e accoglie la
81
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
A tal proposito, possono essere ricavati elementi utili dalla giurisprudenza
delle sezioni unite civili della Suprema Corte, la quale è stata in precedenza
già sottolineata. Difatti, essa sembra avere rilevanza non solamente sotto il
profilo del rito civile, al quale prioritariamente (ed esplicitamente) si riferisce
in punto di frazionamento giudiziale, contestuale o sequenziale, di un credito
unitario, ma anche ai fini del processo tributario, essendo i principi ivi
richiamati di generale applicazione (69). Pur trattandosi di un percorso di
ricerca originale e meritevole di ulteriori approfondimenti e riscontri, questa
trasversalità è suscettibile di fondare un travaso di principi che si rendono
applicabili ad entrambe le giurisdizioni, fatte salve le specificità che
inevitabilmente caratterizzano ciascuna di esse.
I principi espressi nella sentenza delle sezioni unite civili n. 23726/2007
possono essere considerati non poco significativi ai fini della presente
indagine. Difatti, la Suprema Corte sembra sottolineare con vigore
l’importanza, se non proprio la centralità, di due regole, alla luce delle quali
dev’essere inquadrata la tematica dell’abuso del processo, vale a dire, da un
lato, la valorizzazione del principio di correttezza e di buona fede (oggettiva),
quale specificazione in sede processuale degli “doveri inderogabili di
solidarietà”, in virtù dell’art. 2 della Carta costituzionale e, dall’altro lato, il
canone del giusto processo (oltre all’obiettivo della sua “ragionevole
durata”), previsto, come noto, dal novellato art. 111 Cost.
La coerente e precisa applicazione delle suddette regole subirebbe un
pregiudizio grave se fosse ammessa, in tutto o anche solo in parte, l’esercizio
dell’azione giudiziale “in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela
dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione
dell’attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi” (70). Accanto
domanda di risarcimento del danno in presenza di un “comportamento di natura
dilatoria e defatigante per il contribuente” che rivela, nella specie, in capo all’ente
impositore “una mancanza assoluta di avvedutezza e di una sia pur minima
consapevolezza della legittimità o meno del proprio agire e delle conseguenze che i
propri atti andavano a determinare in termini di un abuso del proprio potere, e perciò
esercitato in modo evidentemente illecito”. La commissione accoglie la domanda con
riferimento al danno morale conseguente all’accertata inesistenza del diritto a chiedere
l’iscrizione ipotecaria sul patrimonio del contribuente, condotta che ha prodotto
“disagi psicologici”.
(69) Afferma P. NAPPI, Commento sub art. 96, cit., 1077 s., che si delinea, nella
giurisprudenza di legittimità, la figura dell’abuso processuale come esercizio del
potere da parte di chi, pur essendone titolare legittimo, lo utilizza per fini diversi da
quelli per i quali tale potere viene riconosciuto dalla legge. Quale conseguenza,
l’abuso in esame finisce per consistere nella promozione di una lite, ovvero nella
resistenza ad essa, da parte di chi è legittimato ad agire o resistere, ma per scopi
ulteriori e diversi da quelli tipici.
(70) In senso sintonico, cfr. Cass. 18 settembre 2009, n. 20085: i fatti esaminati in
questo arresto si riferivano all’appello proposto da un ufficio tributario dopo la
scadenza del termine breve d’impugnazione, decorso dalla data della notifica della
sentenza eseguita presso l’ufficio tributario costituito nel giudizio di primo grado e
diverso da quello che aveva proposto l’appello. Al riguardo, la Suprema Corte
82
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
all’abuso della tutela giurisdizionale nel suo complesso, non vi sono
ragionevoli motivazioni per escludere l’applicazione delle suddette regole, in
ogni stato e grado del giudizio, anche all’abuso commesso attraverso il
compimento di specifici atti che rientrano nella vicenda processuale, alla luce
della duplice accezione di abuso processuale indicata retro nel primo
paragrafo.
I suddetti canoni costituzionali unitamente, si ritiene, all’art. 24 Cost. ed ai
rispettivi corollari specificativi, sembrano fondare, ai fini non limitati al
processo civile, ma anche nell’alveo del processo tributario, l’esigenza
costituzionalizzata del divieto di utilizzo improprio e strumentale sia
dell’accesso alla tutela giurisdizionale, sia della strumentazione processuale
nel corso dello svolgimento dinamico della vicenda giudiziale. Dev’essere
evitato l’inutile e infruttuoso dispendio di energie processuali, ovvero di
formalità superflue, laddove non giustificate dalla struttura dialettica del
processo, con particolare ma non esclusivo riferimento al rispetto del
principio del contraddittorio, di cui all’art. 101 c.p.c., all’effettiva garanzia
della difesa, ex art. 24 Cost., alla meritevolezza della tutela e al diritto alla
partecipazione al processo in condizioni di parità, in virtù dell’art. 111 Cost.,
da parte “dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad
esplicare i suoi effetti” (così Cass., sez. un., n. 26373/2008).
Conseguentemente, il concetto di abuso del processo (civile o tributario), non
solo può essere positivamente enucleato pur in assenza di una norma che
espressamente lo contempli nel testo del c.p.c. e/o del d.lgs. n. 546/1992, ma
poggia le proprie solide basi in alcuni parametri costituzionali in funzione dei
quali esso si specifica. L’abuso in questione può essere precisamente
individuato a contrariis, laddove esso è contrario ai “doveri inderogabili di
solidarietà”, al canone del giusto processo, nonché, se del caso, alla sua
ragionevole durata.
Quale che sia la definizione di abuso del processo, esso non può risolversi in
una irragionevole compressione dei diritti delle parti e, d’altro canto, spetta al
giudice il potere di valutare, caso per caso, se il comportamento adottato da
una parte sia o meno abusivo, laddove mancano criteri precisi e uniformi che
sottolinea l’inesistenza di rilevanza giuridica esterna processuale del mutamento, con
atto amministrativo di organizzazione, della ripartizione di competenza territoriale
degli uffici tributari, in relazione al principio di buona fede oggettiva del contribuente,
regolativo del processo tributario. Conseguentemente, “la notificazione eseguita nei
confronti dell’ufficio tributario non competente a seguito dell’atto di riorganizzazione,
non può considerarsi inefficace, e non consente, quindi, all’ufficio competente”, il
quale non era stato parte del giudizio di primo grado, di preporre l’appello oltre il
termine breve di impugnazione. Difatti, se anche si volesse prescindere dal principio
della tutela del legittimo affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che
permea tutti i rapporti di diritto pubblico e trova la sua base costituzionale nell’art. 3
Cost., “altrimenti si darebbe vita ad un processo ingiusto in quanto conseguente ad un
atto unilaterale di una delle parti, con abuso del diritto di difesa per l’esercizio
dell’azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse
sostanziale, che segna il limite, oltre che la ragione, dell’attribuzione al suo titolare
della potestas agendi”. Nello stesso senso, v. Cass. 5 febbraio 2009, n. 2740.
83
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
indichino il perimetro concettuale di tale valutazione (71), anche alla luce
dell’art. 96, 3° co., c.p.c., la cui formulazione, come già evidenziato, è non
poco discutibile (72).
Sotto altro profilo, non ogni comportamento che può produrre effetti dilatori
sul procedimento può essere qualificato come abuso o come atto compiuto in
malafede. Per tale ragione, non può ritenersi abusiva la presentazione di una
istanza di accertamento con adesione, dopo la notifica dell’avviso di
accertamento (ovvero dell’atto c.d. “impoesattivo”), al solo fine di
beneficiare della sospensione per novanta giorni del termine per impugnare
l’atto stesso innanzi al giudice tributario (73). In tal caso, il contribuente si
serve di un’istanza che gli è consentito di presentare (anche se fosse convinto,
per ipotesi, che l’accertamento con adesione non sarà perfezionato) e non
sembra che commetta un abuso, in quanto persegue in modi legittimi e non in
mala fede un suo interesse e l’effetto dilatorio è limitato ad un
ragionevolmente breve intervallo temporale (vale a dire, novanta giorni).
A titolo meramente esemplificativo, sembra possedere i requisiti per un
inquadramento in termini di abuso ( 74) l’espletamento di un’istruttoria
amministrativa endoprocedimentale, da parte dell’ufficio impositore,
incompleta o gravemente carente, cui segue la notificazione dell’atto
impositivo (o “impoesattivo”), l’impugnazione da parte del contribuente e la
costituzione in giudizio dell’ufficio medesimo, suscettibile di ribaltare sul
giudice tributario la ricerca e l’acquisizione della prova (o di ulteriori prove)
dell’evasione, per effetto dell’espletamento dei poteri istruttori dal giudice,
nonostante l’abrogazione dell’art. 7, 3° co., del d.lgs. n. 546/1992 e sia pure
“nei limiti dei fatti dedotti dalle parti” (così il 1° co. dell’art. 7).
(71) In senso pienamente sintonico, cfr. M. TARUFFO, L’abuso del processo, cit., loc.
cit., 127 s.
(72) D. VOLPINO, L. M. PALIERO, Commento sub art. 96, cit., 369, 371,
sottolineano che l’innesto dell’art. 96, 3° co. è stato operato dal legislatore della
riforma in virtù della constatata esigenza di potenziare la tutela contro l’abuso del
diritto, inteso come fenomeno suscettibile di ricomprendere diversi comportamenti
percepiti dall’ordinamento come riprovevoli e che si estendono dall’abuso del
processo alla violazione dei doveri di cui all’art. 88 c.p.c. In questa prospettiva,
trattasi di un nuovo strumento di deterrenza contro le condotte abusive, il quale
sarebbe collocato con coerenza sistematica accanto all’altro deterrente tipico, vale a
dire la tutela risarcitoria. La formulazione dell’art. 96, 3° co., peraltro, sarebbe
volutamente generica, al fine di non vincolare il giudice nella valutazione di situazioni
che ben possono essere eterogenee e sarebbero difficilmente determinabili
aprioristicamente.
(73) Ai sensi degli artt. 6, 3° co. e 12, 2° co., del d.lgs. n. 218/1997.
(74) Si consideri l’espletamento da parte del giudice tributario di poteri istruttori a lui
estranei, vale a dire non spettanti ai sensi dell’art. 7, 1° e 2° co., del d. lgs. n.
546/1992, ma di competenza dell’ufficio impositore, quali poteri amministrativi. In
questa ipotesi, non si tratta di abuso del processo, laddove si può abusare di un potere
di cui si è titolari, mentre non si può abusare di un potere di cui non si è titolari,
spettante ad un altro soggetto e, in tal caso, sembra realizzarsi una usurpazione e,
segnatamente, di un potere di cui è titolare un diverso soggetto.
84
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
A prescindere da tale fattispecie, si pensi al ricorso avverso la cartella di
pagamento ed all’impugnazione della correlativa iscrizione a ruolo con la
notifica sia all’ufficio tributario che ha effettuato tale iscrizione a ruolo, sia
all’agente della riscossione che ha notificato la cartella. Il contribuente si
costituisce in giudizio in due diversi momenti, purché entro trenta giorni dalla
proposizione del ricorso, confidando nella omessa riunione dei due
procedimenti da parte della commissione tributaria provinciale adita, al solo
fine di ottenere due sentenze, di cui almeno una favorevole al contribuente
(con autorità di cosa giudicata), precedute da una duplice richiesta di
sospensione cautelare, per la quale sarebbe sufficiente anche un solo
accoglimento, al fine di paralizzare, sia pure temporaneamente, l’azione
esecutiva (75).
Le fattispecie sopra tratteggiate sono tutt’altro che frequenti ma non possono
essere considerate del tutto improbabili o, peggio, mere ipotesi di scuola,
come la pratica dimostra. Il concetto di abuso del processo tributario,
peraltro, è suscettibile di essere individuato anche in altri casi, essendo quelli
descritti solo una esemplificazione al fine di testare nel concreto i primi
risultati della ricerca fin qui svolta.
8 Osservazioni conclusive: la figura dell’abuso del processo investe
trasversalmente tutte e tre le giurisdizioni domestiche, ma si specifica
e si adatta in modo largamente diverso e calibrato all’interno di
ciascuna di esse. Dubbi sull’efficacia dell’art. 96, 3° co., c.p.c. al fine
di arginare e scoraggiare l’abuso del processo tributario
Al termine dell’indagine, è opportuno sottolineare alcune considerazioni
conclusive, pur con la consapevolezza che il percorso di ricerca sull’abuso
del processo, almeno sul versante tributario, necessita di ulteriori e meditati
approfondimenti.
In linea di principio, le molteplici ipotesi di abuso processuale, come emerge
dall’esperienza giurisprudenziale, anche di legittimità, sul punto, autorizzano
a formulare un concetto di abuso del processo, nonostante le conclusioni
forse più prudenti e, in vario modo, aperte alle quali giunge in parte qua
Taruffo (76). Secondo questo Autore, la nozione di abuso è “vaga a sfuggente
al punto che rimane lecito il dubbio intorno a se essa esista davvero in
qualche area dell’ordinamento, o non valga invece la pena di occuparsi solo
delle fattispecie normativamente previste, si chiamino esse abuso, mala fede,
colpa grave, o in qualunque altro modo”.
È senza dubbio condivisibile la difficoltà di definire precisamente il
perimetro concettuale dell’abuso, ma la casistica esaminata dalla
giurisprudenza fa emergere in modo chiaro l’utilizzo, pur in presenza di una
(75) Sembra potersi considerare un abuso, inoltre, l’impugnazione del diniego di
autotutela al solo fine di contestare, anche solo indirettamente, quasi “in punta di
penna”, l’atto impositivo in precedenza ritualmente notificato al contribuente e da
quest’ultimo non tempestivamente impugnato.
(76) Cfr. M. TARUFFO, L’abuso del processo, cit., loc. cit., 139.
85
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
condotta formalmente conforme al paradigma normativo, strumentale e
distorto della potestas agendi, ovvero di atti all’interno delle singole vicende
processuali, che violano il principio di buona fede oggettiva e correttezza,
affermato in numerose sentenze delle sezioni unite civili della Suprema Corte
quale espressione, anche nella sua dimensione processuale, “dei doveri
inderogabili di solidarietà”, di cui all’art. 2 Cost. ( 77). Senza considerare
l’ulteriore e concorrente profilo che caratterizza l’abuso quale concetto che si
pone in contrasto col principio costituzionalizzato del giusto processo e,
segnatamente, della sua necessaria durata ragionevole (78).
Queste osservazioni sono estensibili in modo trasversale e generalizzato a
tutte le tre giurisdizioni, vale a dire a quella ordinaria, quella amministrativa e
quella tributaria. Sembra sussistere, quindi, un concetto di abuso del processo
che presenta alcuni tratti comuni con riferimento alle tre giurisdizioni, ma che
assume delle inevitabili specificazioni ed adattamenti all’interno delle singole
giurisdizioni (79), in funzione della diversa struttura e dell’oggetto del
processo.
Nel paragrafo precedente sono stati individuati alcuni casi che possono
verificarsi solamente con riferimento al processo tributario e non anche in
relazione alle altre due giurisdizioni. Questo assunto conferma ulteriormente
che, nonostante possa essere individuato, pur con tutte le difficoltà teoriche,
un concetto tendenzialmente unitario di abuso del processo, esso si manifesta
non poco frequentemente in modo diverso nelle singole giurisdizioni, come è
stato dimostrato nel precedente paragrafo in relazione al processo tributario.
È stato sottolineato in dottrina (80) che “paradossalmente il riconoscimento
circa la scontata impossibilità di ridurre il fenomeno dell’abuso ad un
problema di adeguatezza delle norme processuali si accompagna alla ricerca
di strumenti legislativi di reazione all’abuso del processo”, orientando le
strategie delle parti verso comportamenti nel corso del processo non solo
giuridicamente (e formalmente) legittimi, ma anche corretti.
Sotto il profilo delle conseguenze e dei rimedi, si può in breve sottolineare
che il giudice tributario dovrà di volta in volta valutare e apprezzare la
sussistenza e la gravità dell’abuso e si regolerà di conseguenza, se del caso, in
virtù dell’art. 96 c.p.c., in presenza di responsabilità aggravata. In particolare,
il giudice tributario potrà applicare il (per molti aspetti) criticabile art. 96, 3°
(77) Sul versante tributario, i suddetti principi sono stati espressamente applicati da
Cass. 5 febbraio 2009, n. 2740. La precedente sentenza della Suprema Corte 20 luglio
2007, n. 16120, afferma il “principio di corretta utilizzazione del processo”, il quale
“non vuole che il processo sia utilizzato solo per effetti dilatori o abusivi”.
(78) Sottolinea C. SCALINCI, Abuso del diritto e abuso del processo in materia
fiscale, cit., 121, che l’abuso del processo “è, essenzialmente, frutto dell’elaborazione
giurisprudenziale e dogmatica”.
(79) Come, peraltro, avviene in relazione ad altre tematiche ad ampio raggio, quali, ad
esempio, l’effettività e la meritevolezza della tutela giurisdizionale richiesta.
(80) Cfr. E. M. CATALANO, Verso le colonne d’Ercole dell’abuso del processo, cit.,
loc. cit., 63.
86
L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO
co., c.p.c. e condannare la parte soccombente sanzionandola, anche d’ufficio,
con un ampio potere di determinazione in via equitativa della somma (81).
Non sembra, tuttavia, che questa norma sia sufficiente al fine di arginare e
scoraggiare il fenomeno patologico dell’abuso del processo tributario,
specialmente se la condanna al risarcimento dei danni di cui al 1° co. per lite
temeraria e la condanna al pagamento di una ulteriore somma determinata in
via equitativa, di cui al 3° co., dovessero essere meramente simboliche ( 82).
Questa pragmatica conclusione, tuttavia, non scalfisce l’assunto secondo cui
l’applicazione delle norme sulla “responsabilità aggravata” al processo
tributario potrà, in qualche misura, contribuire a ridurre e contrastare abusi
processuali nei rapporti tra uffici tributari e contribuenti, rafforzando la tutela
della parte che ha subito direttamente gli effetti pregiudizievoli di iniziative
distorte, eccessive o temerarie, ovvero di strategie processuali meramente
dilatorie, pretestuose o del tutto infondate.
Ma, allo stato attuale della giurisprudenza, sarebbe forse un errore
sopravvalutare i risultati pratici ai quali darà luogo l’applicazione delle
disposizioni in tema di responsabilità processuale aggravata, con specifico
riferimento al processo tributario.
(81) Cfr. N. SANTI DI PAOLA, Condannata Equitalia per lite temeraria ex art. 96,
comma 3, c.p.c., in Il civilista, n. 3/2011, 11 ss.
(82) Afferma C. E. GALLO, L’abuso del processo nel giudizio amministrativo, cit.,
loc. cit., 1014 ss., che la repressione dell’abuso del processo dev’essere perseguita con
una pluralità di mezzi. In altre parole, il mezzo più ordinario è la condanna alle spese
o la compensazione delle spese di causa, in secondo luogo, soccorre lo strumento
processuale vero e proprio, laddove il giudice ha la possibilità, intervenendo nel
giudizio, di reprimere, se non addirittura di vanificare immediatamente il
comportamento abusivo. Infine, il terzo mezzo va individuato nella disciplina
deontologica e, soprattutto, nella disciplina deontologica degli avvocati.
87
Prof. Giuseppe Corasaniti
Professore Università di Brescia
L’interpretazione degli atti e l’elusione fiscale nel sistema
dell’imposta di registro
SOMMARIO: 1 I termini della questione - 2 Breve sintesi delle contrapposte
posizioni giurisprudenziali in punto di interpretazione ed applicazione
dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986 - 3 La (corretta) lettura interpretativa
dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986 e le ragioni sistematiche alla base della
stessa - 3.1 Sulla natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro e sulla
conseguente irrilevanza di elementi extratestuali nella sua applicazione - 4
Sull’(in)applicabilità del principio del cd. “divieto di abuso del diritto” quale
strumento di contrasto dell’elusione anche nell’ambito dell’imposta di
registro - 5 Conclusioni
1 I termini della questione
E’ sufficiente un rapido esame della più recente giurisprudenza 1 per rendersi
conto i) dello stato di “confusione” e di “incertezza” che sussiste, nell’ambito
dell’imposta di registro, in merito all’individuazione dell’esatta natura e
funzione della disposizione di cui all’art. 20, d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131, cui
una parte di tale giurisprudenza, in specie quella di legittimità 2, attribuisce –
1
Nell’ambito della giurisprudenza di merito, a conferma di quanto sopra, si
segnalano, a titolo meramente esemplificativo, due pronunce diametralmente
contrapposte: la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia,
sez. 1°, del 9 ottobre 2009, n. 190 e la sentenza della Commissione tributaria di II
grado di Bolzano, sez. 2°, del 20 maggio 2009, n. 36, entrambe in Dir. Prat. Trib.,
2010, 565 ss., con mio commento, L’art. 20 del T.U. dell’imposta di registro e gli
strumenti di contrasto all’elusione: brevi spunti ricostruttivi a margine di due
contrastanti pronunce della giurisprudenza di merito. Sempre nell’ambito della
giurisprudenza di merito cfr., tra le altre, Comm. Trib. Reg. dell’Emilia Romagna, n.
34/10/06 del 17 gennaio 2007 (in banca dati Fisconline).
2
Più recentemente si veda Cass., 30 giugno 2011, n. 14367 (in banca dati Fisconline).
In precedenza, tra le altre, cfr. Cass. 23 novembre 2001, n. 14900, in Giur. Imposte,
2002, 624; Cass. 25 febbraio 2002, n. 2713, in Foro it., 2002, I, c. 3424, con nota di S.
Di Paola; Cass. 7 luglio 2003, n. 10660. In dottrina, tra i primi commenti a queste
sentenze cfr. F. Marchetti, La riqualificazione dell’atto soggetto a tassazione ad
opera dell’Ufficio del registro: l’interpretazione dell’art. 20 d.p.R. n. 131/1986, in
Boll. trib., 2002, 738; S. Donatelli, La rilevanza degli elementi extratestuali ai fini
dell’interpretazione dei contratti nell’imposta di registro, in Rass. trib., 2002, 1341;
F. Pedrotti, Conferimento di ramo d’azienda e successiva cessione di quote attribuite
al soggetto conferente: regime tributario indiretto, in Boll. trib. 2003, 1314. Ed
inoltre, riferimenti alla funzione antielusiva del disposto di cui all’art. 20, d.p.r. n. 131
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
in modo non condivisibile – valenza di norma antielusiva e, più in generale,
ii) dello stato di “confusione” e di “incertezza” che sussiste in merito
all’individuazione di idonei strumenti di contrasto a possibili fenomeni
elusivi3 che potrebbero interessare (anche) questo settore impositivo.
E’ noto come la “questione” de qua sia sorta con specifico riferimento alle
operazioni di conferimento in società di immobili ovvero di aziende 4,
(eventualmente) gravati da finanziamenti ipotecari accollati alla società
conferitaria e seguite, a breve distanza temporale, dalla cessione a terzi della
totalità delle partecipazioni sociali, trattandosi di fattispecie negoziali, queste
ultime, ritenute potenzialmente elusive della più onerosa disciplina
del 1986 sono contenuti anche in Cass. 31 agosto 2007, n. 18374; Cass., 4 aprile 2008,
n. 8772; Cass. 4 maggio 2007, n. 10273; Cass. 7 luglio 2003, n. 10660 (tutte in banca
dati Fisconline). Prima di questi arresti giurisprudenziali, la stessa Suprema Corte di
cassazione aveva invece aderito alla diversa (e corretta) tesi interpretativa (qui
sostenuta) secondo cui il sistema applicativo dell’imposta di registro deve ritenersi
incentrato esclusivamente sull’esegesi dell’atto sottoposto a registrazione, a nulla
rilevando eventuali elementi intenzionali extratestuali non emergenti da tale atto ma
desunti aliunde (in questi termini cfr. Cass. 17 dicembre 1988 n. 6902; Cass. 29
marzo 1983 n. 2239; tutte in banca dati Big-online).
3
Per un pregevole inquadramento, in termini generali, del fenomeno giuridico della
elusione fiscale si rinvia a S. La Rosa, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle
fonti del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, 785 ss., secondo cui l’elusione e l’antielusione
fiscale rappresentano due facce di una stessa medaglia, consentendo “di dire, cioè, che
i comportamenti elusivi in realtà assumono tale connotazione giuridica solo come
conseguenza degli interventi antielusivi che mirano a contrastarli; di osservare, in altri
termini, che la nozione giuridicamente rilevante dell’elusione fiscale dipende sempre
dalle norme che regolano l’antielusione; e a monte di tutto, di affermare la necessità
che all’esame dei problemi di natura disciplinare suscitati dalle norme sull’elusione
fiscale, vengano anteposte delle riflessioni di carattere generale proprio sugli astratti
profili teorico-sistematici dei rapporti tra l’elusione e l’antielusione”.
4
Si ricorda che con specifico riferimento all’ipotesi di conferimento d’azienda e
successiva cessione delle partecipazioni sociali, l’art. 176, 3° co., T.U. delle imposte
sui redditi, approvato con d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917 (d’ora in avanti Tuir),
esclude espressamente qualsiasi profilo di elusività di tale operazione, la quale non
rileva ai fini dell’art. 37 bis, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 (norma antielusiva di più
ampia portata nel settore dell’imposizione reddituale). E’ dunque evidente la
contraddittorietà di un “sistema di imposizione” in base al quale la stessa operazione
negoziale (conferimento d’azienda seguito dalla cessione delle partecipazioni sociali)
viene espressamente qualificata come non elusiva ai fini delle imposte sui redditi,
laddove, invece, verrebbe qualificata, dall’Amministrazione finanziaria e da una parte
della giurisprudenza, come elusiva ai fini dell’imposta di registro. Questa
contraddittorietà emerge in tutti i suoi profili di criticità nella sentenza della Comm.
trib. prov. di Firenze, sez. XX, 5 novembre 2007, n. 150 (in banca dati Big-online).
Orbene, è fuor di dubbio come tutto ciò non faccia altro che determinare una
situazione di incertezza e confusione tra gli operatori.
90
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
impositiva applicabile alla (diversa) operazione negoziale di cessione
dell’immobile ovvero dell’azienda5.
Difatti, in tali ipotesi l’Amministrazione finanziaria (in sede di contestazione)
e parte della giurisprudenza (in sede di decisione delle relative controversie
giudiziarie), tendono a dare rilevanza, ai fini della determinazione
dell’imposta di registro dovuta, all’“effetto economico finale”, rappresentato
dalla cessione, all’acquirente delle partecipazioni, del bene immobile o
dell’azienda conferita, censurando il carattere elusivo del ricorso allo schema
del conferimento seguito da cessione della partecipazione e, pertanto,
assoggettando l’operazione de qua all’imposta di registro dovuta per la
cessione dell’immobile o dell’azienda, al lordo di qualunque passività 6.
In particolare, secondo le pronunce citate, tale ricostruzione troverebbe
fondamento proprio nell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 19867, ai sensi del quale
l’imposta, prescindendo dal titolo o dalla forma apparente, deve essere
applicata tenendo conto dell’intrinseca natura e degli effetti giuridici degli
atti.
Secondo questo orientamento interpretativo, infatti, tale norma consentirebbe
di determinare l’imposta dovuta in ragione della “causa reale”
dell’operazione
economica
complessivamente
realizzata,
dunque
prescindendo dal nomen iuris attribuito all’atto, ovvero dagli elementi
5
Difatti, ai sensi dell’art. 50, d.p.r. n. 131 del 1986, in tali ipotesi la base imponibile
dell’atto di conferimento è determinata al netto delle passività e degli oneri accollati
alla società, possibilità questa che non si riscontra, invece, all’interno dell’art. 43 del
medesimo decreto per gli atti a titolo oneroso in generale. Ed in ogni caso, nella
specifica ipotesi di conferimento di azienda, anche in assenza di eventuali passività
accollate alla società conferitaria a seguito dell’atto di conferimento, il carico fiscale
previsto per tale atto, così come quello previsto per un’eventuale successiva cessione
delle partecipazioni, è di gran lunga inferiore rispetto a quello previsto per la (diversa)
fattispecie negoziale della cessione d’azienda.
6
Peraltro, con riferimento alle contestazioni de quibus, un ulteriore profilo di criticità,
sino ad ora trascurato, è quello relativo alla corretta individuazione dei soggetti
destinatari dei relativi avvisi di liquidazione della maggiore imposta di registro in tal
modo asseritamente dovuta. Difatti, assoggettando l’intera operazione negoziale di
conferimento e successiva cessione delle partecipazioni all’imposta di registro dovuta
per la cessione dell’immobile o dell’azienda, a questo punto l’avviso di liquidazione
dovrebbe – correttamente – essere intestato e notificato ai “veri debitori” dell’imposta,
cioè “gli acquirenti dell’immobile o dell’azienda”, ossia ai successivi cessionari della
partecipazione sociale e non già alla società conferitaria. In questi termini si è
espressa la Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, Sez. 1, 27 gennaio 2010, n. 18, la
quale ha accolto il ricorso della società conferitaria per carenza di legittimazione
passiva della stessa. Sul tema si rinvia alle condivisibili osservazioni di C. Glendi, in
commento alla citata sentenza di merito (cfr. Rassegna di giurisprudenza, Nota alla
Comm. trib. prov. di Raggio Emilia, Sez. 1, 27 gennaio 2010, n. 18, in Corr. trib.
2010, 650 – 651).
7
In commento alla norma in esame cfr. A. Uricchio, Commento all’art. 20 T.U., in
D’Amati, La nuova disciplina dell’imposta di registro, Torino, 1989, 180.
91
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
emergenti dall’”assetto cartolare”, dando invece rilevanza ad un presunto
“intento negoziale oggettivamente unico” 8 perseguito dalle parti, ricostruito
sulla base (anche e soprattutto) di elementi extratestuali rispetto all’atto
sottoposto a registrazione.
Sennonché, sulla (il)legittimità di una tale interpretazione sono stati sollevati
molteplici dubbi dalla più autorevole dottrina9, che, con approccio esegetico,
ha dimostrato come il valore attribuito dalla Suprema Corte di cassazione
all’art. 20 risulti incoerente rispetto all’evoluzione normativa di tale
disposizione10.
2 Breve sintesi delle contrapposte posizioni giurisprudenziali in punto
di interpretazione ed applicazione dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986
Le contrapposte letture interpretative in punto di applicazione del citato art.
20, d.p.r. n. 131 del 1986, possono benissimo riassumersi esaminando, a
titolo esemplificativo, il contenuto di due sentenze di merito che, in ragione
della netta contrapposizione delle soluzioni giuridiche su cui si fondano, sono
perfettamente in grado di descrivere il quadro di profonda incertezza e
confusione che connota l’applicazione della citata disposizione.
Difatti, da un lato, può segnalarsi la sentenza del 20 maggio 2009, n. 36 11 con
cui la Commissione tributaria di II grado di Bolzano, qualificando l’imposta
di registro come una “imposta d’atto” e, per l’effetto, disconoscendo qualsiasi
rilevanza, nella relativa disciplina, ad eventi successivi all’atto registrato ed
extratestuali, sembrerebbe condividere12 le critiche – sulle cui ragioni
8
In questi termini, per una decisa critica del predetto approccio interpretativo della
giurisprudenza si veda il Notariato, Studio n. 95/2003/T, Imposta di registro. Elusione
fiscale e riqualificazione degli atti, in www.notariato.it.
9
Si veda, funditus, G. Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra l’abuso del
<<diritto>> e l’abuso del potere, retro, 2008, 1067 ss.; G. Zizzo, Sull’elusività del
conferimento di azienda seguito dalla cessione della partecipazione (nota a Comm.
trib. prov. di Firenze, sez. XX, 5 novembre 2007, n. 150, in Giust. Trib., 2008, 277;
M. Beghin, L’abuso del diritto nella indefettibile prospettiva del <<vantaggio
fiscale>>, in Corr. trib., 2009, 2325 ss.; E. Della Valle, L’elusione nella circolazione
indiretta del complesso aziendale, in Rass. Trib., 2009, 375 ss.; G. Stancati,
Riqualificazione negoziale e abuso della clausola antielusiva nell’imposta di registro,
in Corr. trib., 2008, 1685 ss. Sia consentito, inoltre, il rinvio al mio, Sui profili
“elusivi” dei conferimenti societari nell’imposta di registro, in Obbligazioni e
Contratti, n. 5 del 2007, 433 ss., Id., Profili tributari dei conferimenti in natura e
degli apporti in società, Padova, 2008, 468 ss.
10
Ha definito “antistorica” questa ricostruzione interpretativa G. Stancati,
Riqualificazione negoziale e abuso della clausola antielusiva nell’imposta di registro,
op. cit., 1687.
11
Già citata in precedenza.
12
Peraltro, la sentenza de qua pronunciata dalla Commissione tributaria di II grado di
Bolzano merita di essere segnalata anche per ulteriori aspetti di interesse, diversi da
92
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
sistematiche si tornerà a breve – sollevate dalla citata dottrina con riferimento
al predetto orientamento della Suprema Corte di cassazione volto alla
valorizzazione dell’art. 20 come norma antielusiva 13.
In questo caso la fattispecie negoziale controversa riguardava un atto di
conferimento di terreni agricoli in una società in accomandata semplice,
relativamente ai quali il soggetto conferente aveva in precedenza contratto un
finanziamento ipotecario, poi accollato alla società conferitaria in sede di
conferimento, senza, tuttavia, che ciò avesse comportato alcuna liberazione,
ad opera della Banca creditrice, del debitore originario/soggetto conferente
dagli obblighi derivanti dal predetto contratto di mutuo. Peraltro, nella
fattispecie in esame sembrerebbe non esserci stata neppure alcuna successiva
cessione delle partecipazioni sociali14.
quello qui esaminato. Il riferimento, in particolare, è alla (condivisibile) statuizione
relativa all’inapplicabilità nella specie della proroga dei termini prevista dall’art. 11,
1° co., l. 27 dicembre 2002, n. 289. Difatti, da un’attenta lettura della citata
disposizione emerge come la definizione agevolata fosse consentita soltanto con
esclusivo riferimento: i) ai valori dichiarati dalle parti passibili di rettifica di maggior
valore ex art. 52, 1° co., d.p.r. n. 131 del 1986 (art. 11, 1° co., l. n. 289 del 2002); ii)
nonché, alla definizione delle violazioni relative alle agevolazioni tributarie (art. 11,
comma 1-bis, l. n. 289 del 2002). Tale norma non permetteva, pertanto, di poter
accedere alla definizione agevolata anche con riferimento all’ipotesi di accertamento
di una maggior imposta, qualificabile quale imposta complementare “residuale”, sulla
base di una asserita “riqualificazione” (ai sensi dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986)
dell’atto da sottoporre a registrazione. Al tempo stesso viene anche chiarito come il
termine decadenziale dell’azione accertatrice dell’Amministrazione finanziaria, nel
caso di recuperi a tassazione fondati sul citato art. 20, debba essere individuato in
quello di tre anni decorrenti dalla registrazione dell’atto, ex art. 76, co. 2, lett. a), d.p.r.
n. 131 del 1986 e non già in quello di due anni dal pagamento dell’imposta
proporzionale di cui al co. 1-bis del medesimo articolo. Peraltro, in tal senso si è
espressa anche la Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia nell’altra
sentenza qui in commento, in cui viene anche chiarito come il predetto termine di tre
anni decorra dalla registrazione del (secondo) contratto di cessione delle
partecipazioni sociali e non già dalla registrazione del (primo) atto di conferimento.
13
In senso conforme alla sentenza della Commissione tributaria di II grado di Bolzano
qui commentata, nell’ambito della giurisprudenza di merito si veda, tra le altre,
Comm. Trib. prov. di Treviso, n. 41 del 2009, in Corr. trib., n. 29 del 2009, con
commento di M. Beghin, L’abuso del diritto nella indefettibile prospettiva del
<<vantaggio fiscale>>, 2325.
14
Con specifico riferimento ad una fattispecie analoga a quella oggetto della sentenza
qui commentata, in cui all’atto di conferimento non è seguita la successiva cessione
delle partecipazioni, la Commissione tributaria di primo grado di Bolzano, sent. n.
125/1/2007, del 27 dicembre 2007, decidendo sulla pretesa tributaria di assimilare il
conferimento di un bene gravato da ipoteca, iscritta a garanzia di un mutuo, ad
un'alienazione con corrispettivo in denaro in base all'art. 20 del d.p.r. n. 131 del 1986,
ha affermato che, nel caso in cui il socio conferisce l’immobile gravato da mutuo
ipotecario alla società, in assenza di trasferimento delle quote sociali, non si
93
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
Ebbene, l’Ufficio, sfruttando l’opzione interpretativa dell’art. 20, d.p.r. n. 131
del 1986 fatta propria dall’orientamento giurisprudenziale prima richiamato,
aveva contestato un’asserita elusività della fattispecie negoziale in esame,
poiché, attraverso l’uso legittimo di più figure contrattuali, sarebbe stata
realizzata nei fatti una cessione di immobili, con un indebito risparmio
dell’imposta di registro. In altri termini, le parti avrebbero simulato un
conferimento in società di beni immobili ipotecati, dissimulando una cessione
di immobili, al solo scopo di ridurre la base imponibile da assoggettare ad
imposta di registro15. Ma - come detto - questa ricostruzione è stata smentita
dal Giudice d’appello, ritenendo non corretta la predetta lettura interpretativa
del citato art. 20 sulla base delle argomentazioni di cui si dirà a breve.
In senso diametralmente opposto, sempre nell’ambito della giurisprudenza di
merito, può segnalarsi la sentenza n. 190 del 9 ottobre 2009 con cui la
Commissione tributaria di Reggio Emilia – anche qui con riferimento ad
un’analoga fattispecie di conferimento di terreno agricolo gravato da mutuo
ipotecario, seguito (questa volta) dalla cessione delle partecipazioni sociali sembrerebbe invece allinearsi al predetto orientamento della Suprema Corte
di cassazione, riconoscendo, quindi, una funzione antielusiva alla
disposizione di cui al citato art. 20, T.U. dell’imposta di registro.
configurano gli effetti tipici della compravendita dell’immobile. Il socio «rimane
titolare, attraverso il vincolo societario, della disponibilità del bene conferito, che
costituisce il mezzo attraverso il quale esercita i poteri di ordinaria e straordinaria
amministrazione in nome e per conto della società. Infatti, ex art. 2313 c.c., il
patrimonio della società e quello personale del socio accomandatario garantiscono
l’adempimento delle obbligazioni assunte dalla società. In altre parole, non è presente
l’ultimo anello della catena, consistente nella cessione di quote da parte del
conferente, per la realizzazione della fattispecie a formazione progressiva della
compravendita». Le conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito sono
assolutamente condivisibili, in quanto alla controversia in oggetto non sono
applicabili i principi di diritto statuiti dalla Corte di Cassazione nella sentenza
14900/2001.
15
A tal riguardo, la sentenza della Commissione tributaria di II grado di Bolzano, qui
commentata, affronta e risolve in modo condivisibile anche un’altra problematica di
notevole interesse, quella relativa alla corretta determinazione della base imponibile in
caso di registrazione di atti di conferimento con accollo di passività alla società
conferitaria. Difatti, in forza del disposto di cui al citato art. 50, del T.U. dell’imposta
di registro, al valore intrinseco del bene conferito vanno sottratte le passività e gli
oneri accollati alle società. Tuttavia gli Uffici sempre più spesso tendono a contestare
la “deduzione” dalla base imponibile delle passività accollate alla società conferitaria
in assenza della prova della loro “inerenza”. Ebbene sul punto il Giudice d’appello
nella sentenza in commento ha chiarito che “quanto all’argomento dell’assenza di
prova che il finanziamento assunto dalla N. fosse destinato al potenziamento degli
immobili conferiti, va osservato che l’art. 50 DPR 131/1986 consente la deduzione dal
valore del bene delle passività inerenti alla sola condizione che questi vengano
accollati alla società conferitaria, come in effetti è avvenuto”.
94
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
Difatti, pur non dichiarandolo esplicitamente, è evidente il riferimento a tale
norma laddove si afferma che “è di questa Sezione (oltre che di migliore
giurisprudenza di legittimità) la tesi secondo la quale laddove il testo unico
dell'imposta di registro stabilisce che il prelievo tributario è applicato sulla
base dell'intrinseca natura dell'atto, si ritiene che l'interprete - avuto
riguardo ai canoni ermeneutici di cui all'art. 1362 e seguenti del codice
civile - deve individuare l'esatta regolamentazione degli interessi perseguiti
dai contraenti anche per il tramite di negozi collegati e pattuizioni non
contestuali”.
Tuttavia, in quest’ultima sentenza il Giudice di merito, dopo aver
implicitamente riconosciuto al citato art. 20 una funzione antielusiva,
trattandosi di una norma che consentirebbe di tassare non già in ragione degli
effetti giuridici dell’atto sottoposto a registrazione, bensì in ragione
dell’”effetto economico unico” perseguito dalle parti e ricostruito anche sulla
base di vicende negoziali successive ed elementi extratestuali, sembrerebbe
comunque voler superare tale problematica (se non addirittura prescinderne)
e risolvere la controversia mediante l’applicazione del principio antielusivo
del “divieto dell’abuso del diritto”, di recente elaborazione
giurisprudenziale16.
Difatti, nell’iter motivazionale della sentenza in commento si legge che
“l'atto contestato è tipico esempio dell'abuso del diritto”, in quanto “il
Collegio ritiene che l'operazione di cui all'atto contestato, oltre allo scopo di
ottenere vantaggi fiscali, persegue diversi obiettivi, di natura commerciale,
finanziaria, contabile e integra gli estremi del comportamento abusivo in
quanto la finalità elusiva si pone come elemento predominante e assorbente
della transazione, tenuto conto sia della volontà delle parti implicate che del
contesto fattuale e giuridico in cui la transazione stessa viene posta in
essere; tenuto altresì conto della tempistica delle diverse operazioni fra loro
collegate”.
Da ultimo, viene inoltre chiarito come la prova del carattere “abusivo” del
comportamento tenuto dalle parti (id est della prevalenza dello scopo di
ottenere vantaggi fiscali) incomba sull’Amministrazione finanziaria, onere
probatorio questo che nella fattispecie ivi esaminata, secondo il Giudice di
merito, sarebbe stato pienamente assolto.
E’ quindi evidente come le due sentenze in commento siano perfettamente in
grado di rappresentare e “sintetizzare” i diversi e contrapposti orientamenti
attualmente esistenti in merito alla natura ed alla funzione dell’art. 20, T.U.
dell’imposta di registro, quale potenziale strumento di contrasto di possibili
fenomeni elusivi nell’ambito dell’imposta di registro.
16
Si veda, da ultimo, Cass., SS.UU., 23 dicembre 2008, n. 30055, in Dir. prat. trib.,
2009, II, 213 ss., con mio commento, Sul generale divieto di abuso del diritto
nell’ordinamento tributario, cui si rinvia per gli ulteriori riferimenti giurisprudenziali
e dottrinari sull’argomento.
95
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
Orbene, anticipando in parte le conclusioni, è anche evidente come delle due
sentenze qui esaminate, sia senza dubbio da condividere quella pronunciata
dalla Commissione tributaria di II grado di Bolzano (sebbene non conforme
al più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità); difatti
quest’ultima dimostra di accogliere e recepire nella soluzione ivi adotta tutti i
principali profili di criticità sollevati in dottrina con riferimento
all’orientamento giurisprudenziale prima citato, diretto, invece, a riconoscere
natura di norma antielusiva alla disposizione di cui all’art. 20, d.p.r. n. 131
del 1986.
3 La (corretta) lettura interpretativa dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986
e le ragioni sistematiche alla base della stessa
La Commissione tributaria di II grado di Bolzano nella sentenza poco sopra
ricordata, con un conciso ma ben articolato iter motivazionale, ha respinto la
tesi dell’Ufficio, ribadendo l’infondatezza della lettura interpretativa dell’art.
20, d.p.r. n. 131 del 1986, da quest’ultimo sostenuta, secondo cui
nell’interpretazione degli atti sottoposti a registrazione si dovrebbe dare
rilevanza agli effetti economici prodotti e non già agli effetti giuridici.
Ed in verità un approccio interpretativo di tal genere – come già ricordato – è
stato in più occasioni criticato da una parte della giurisprudenza di merito
(prima citata) e dalla più risalente giurisprudenza di legittimità17, nonché (e
con più forza) in modo unanime dalla dottrina, per tutte le seguenti ragioni.
L’art. 20, in effetti, per un verso costituisce la duplicazione dell’art. 19 della
legge di registro precedente, per l’altro rappresenta una specificazione
dell’art. 8 del r.d. n. 3269 del 1923, il quale, con analogo intento, richiedeva
che l’interpretazione di un atto, ai fini della registrazione, tenesse conto dei
suoi effetti18, senza distinguere quelli economici da quelli più marcatamente
giuridici19.
17
Per i relativi riferimenti giurisprudenziali si rinvia alle prime note.
L’art. 8 del R.D. n. 3269/1923 prevedeva: «Le tasse sono applicate secondo
l’intrinseca natura e gli effetti degli atti o dei trasferimenti, se anche non vi
corrisponda il titolo o la forma apparente.
Un atto che, per la sua natura e per i suoi effetti, secondo le norme stabilite nell’art. 4
risulti soggetto a tassa progressiva, proporzionale o graduale, ma non si trovi
nominativamente indicato nella tariffa, è soggetto alla tassa stabilita dalla tariffa per
l’atto col quale per la sua natura e per i suoi effetti ha maggiore analogia». Per
l’autorevole studioso D. Jarach, l’art. 8, comma 2, riproduceva sostanzialmente il
contenuto dell’art. 10 del Reichsabgabenordnung (RAO), nella versione del 1934, e
dell’art. 6 del Steueranpassungsgesezt, che nell’ordinamento germanico dell’epoca
contrastavano l’abuso delle forme negoziali poste in essere dai contribuenti per evitare
o ridurre l’imposta. Cfr. D. Jarach, Principi per l’applicazione delle tasse di registro,
Padova, 1937, 61. Sulla base di tale prospettazione auterovole dottrina giunge alla
conclusione che l’art. 8 della legge di registro del 1923 può essere definito come fonte
di una clausola antielusiva di portata generale nel sistema tributario italiano e non solo
18
96
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
La scelta dei legislatori successivi di specificare il carattere giuridico di tali
effetti ha risolto il dibattito dottrinale sollevato in precedenza, adottando le
indicazioni dei giuristi più autorevoli20, sebbene debba anche darsi conto del
fatto che in passato non è mancato chi21, in dottrina, abbia sostenuto che “nel
quadro del procedimento di ermeneutica volto ad individuare, attraverso la
qualificazione giuridica delle situazioni negoziali oggetto di imposizione, gli
effetti che da esse conseguono sul piano giuridico (e non su quello
meramente economico), è ben possibile il riscontro del fenomeno dei negozi
collegati e indiretti, che si realizza quando le parti adottano uno o più negozi
tipici, allo scopo di conseguire, mediante una voluta deviazione della causa
dei negozi stessi, un effetto giuridico che, pur non essendo connaturale agli
schemi adottati, è tuttavia da questi ultimi consentito e prodotto”. Peraltro,
secondo quest’ultima impostazione dottrinale, “questa possibilità di indagine
non” sarebbe “preclusa in via assoluta dalla connotazione propria
dell’imposta di registro, che è imposta d’atto, in quanto l’esatta
qualificazione del negozio giuridico da tassare rende spesso indispensabile la
detta indagine, precipuamente al fine di sventare frodi alle leggi
finanziarie”22.
Su queste premesse, condividendo l’impostazione dottrinale prevalente, e
fermo restando che per effetti giuridici sono da intendersi quelli civilistici 23,
non v’è dubbio che, sulla base della norma attuale, l’Amministrazione
finanziaria può certamente prescindere dal nomen iuris attribuito all’atto dalle
parti, ma, nell’esercizio di tale potere di accertamento 24, dovrà limitarsi alla
per l’ordinamento dell’imposta di registro o dell’imposta sui trasferimenti di
ricchezza. Cfr. G. Falsitta, L’influenza dell’opera di Albert Hensel sulla dottrina
tributaristica italiana e le origini dell’interpretazione antielusiva della norma
tributaria, in Riv. dir. trib., 2007, 602-604.
19
Per una ricostruzione dell’evoluzione storica della citata disposizione si veda G.
Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra l’abuso del <<diritto>> e l’abuso
del potere, op. cit., 1077 ss.
20
Cfr. A. Uckmar, La legge del registro, (ed. del 1958), vol. I, 191 ss.; A. Berliri, Le
leggi di registro, Milano, 1961, 141 ss. In senso contrario, D. Jarach, Principi per
l’applicazione delle tasse di registro, op. cit.; Id., La considerazione del contenuto
economico nell’interpretazione delle leggi di imposta, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1937, 54
ss.; Id., Metodo e risultati nello studio delle imposte di registro, in retro, 1938, 93 ss.
Per una ricostruzione del dibattito dottrinale cfr. ora G. Marongiu, op. ult. cit. loc.; G.
Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova 2003, 244 ss.
21
Il riferimento è in specie a D. Jarach, I contratti a gradino e l’imposta, in Riv. Dir.
fin. sc. fin., 1982, 86, in commento a Cass., sez. I, 9 maggio 1979, n. 2658.
22
In questi termini sempre D. Jarach, op. ult. cit., 86 – 87.
23
Sui rapporti tra diritto tributario e diritto civile cfr. E. De Mita, Diritto tributario e
diritto civile: profili costituzionali, in Riv. dir. trib., 1995, 154.
24
Sulle indicazioni ministeriali più recenti in tema di poteri di accertamento per le
imposte di registro, ipotecarie e catastali si veda Agenzia delle Entrate, circ. 6
febbraio 2007, n. 6 (in banca dati Fisconline).
97
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
riqualificazione giuridica dell’atto, senza poter attribuire rilievo alle vicende
economiche eventualmente sottese al medesimo o a qualunque altro elemento
che sia esterno rispetto all’atto registrato 25.
In tal modo l’Ufficio dovrà, quindi, limitarsi ad individuare solo la natura
giuridica del contratto, superando l’eventuale classificazione giuridica
inesatta o falsa effettuata dai contribuenti allo scopo di conseguire un
illegittimo risparmio fiscale (ad esempio, quella che le parti qualificano come
conferimento di azienda, potrebbe essere “riqualificata” dall’Ufficio, ai sensi
di tale norma, in base agli elementi risultanti dallo stesso atto, come
conferimento di complesso immobiliare, superando così il nomen iuris
erroneamente dato dalle parti beni immobili)
Ne deriva, dunque, che la giurisprudenza che ha esaminato fattispecie
asseritamente elusive di conferimento seguito da cessione delle
partecipazioni sociali, si sia spinta oltre questo limite, attribuendo al citato
art. 20 una portata diversa e più ampia rispetto alle intenzioni del legislatore,
affidando a tale disposizione il ruolo (che non le è proprio) di norma generale
antielusiva nel contesto delle disposizioni dell’imposta di registro 26.
25
L’ufficio provvederà ad individuare la natura giuridica del contratto, superando
l’eventuale classificazione giuridica inesatta o falsa effettuata dai contribuenti allo
scopo di conseguire un illegittimo risparmio fiscale, ma non potrà andare oltre. Cfr. G.
Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra l’abuso del <<diritto>> e l’abuso
del potere, op. cit., 1082 ss.; S. Fiorentino, Riflessione sui rapporti tra qualificazione
delle attività private e accertamento tributario, in Rass. trib., 1999, 1066; D.
Stevanato, Cessione frazionata dell’azienda e imposta di registro: simulazione o
riqualificazione del contratto?, in Riv. giur. trib., 1999, 758 ss.; G. Melis,
L’interpretazione nel diritto tributario, op. cit., 263 ss. (ivi, alla nota 267, la
distinzione tra accertamento della simulazione e riqualificazione), e 293 ss. In
giurisprudenza cfr. Comm. trib. centr. 10 maggio 1989 n. 3208, in Società, 1989, 997;
Cass. 28 luglio 2000 n. 9944, in Corr. trib., 2001, 125, ed in Riv. dir. fin., 2001, II, 16.
Sui limiti alla riqualificazione v. V. Uckmar-R. Dominici, Registro (imposta di), in
Digesto discipline privatistiche, sez. comm., XII, Torino 1999, 260 ss.; B. Santamaria,
Registro (imposte di), in op. cit., 542 ss.; C. Ferrari, Registro (imposta di), in Enc.
giur. Treccani, XXVI, Roma 1991, 9; Melis, op. cit., 293 ss. In giurisprudenza cfr.,
Comm. trib. centr. 26 settembre 1991 n. 6324, in Corr. trib., 1991, 3749; Comm. trib.
II grado Bolzano 31 luglio 1998, in Il fisco, 1999, 11059; Comm. trib. centr. 9 aprile
1992 n. 2736, in Il fisco, 1999, 11059; Comm. trib. reg. Venezia 1 ottobre 1998 n. 181
(tutte in banca dati Fisconline).
26
Cfr. Cass. n. 14900 del 2001, prima citata, secondo cui «anche se non potrà
prescindersi dall’interpretazione della volontà negoziale secondo i canoni generali (...)
nella individuazione della materia imponibile dovrà darsi preminenza assoluta alla
causa reale sull’assetto cartolare, con conseguente tangibilità, sul piano fiscale, delle
forme negoziali. La funzione antielusiva (...) sottesa alla disposizione in esame,
emerge dunque con chiarezza, mentre l’insistito richiamo alla autonomia contrattuale
ed alla rilevanza degli effetti giuridici dei singoli negozi (e non anche di quelli
“economici”, riferiti alla fattispecie globale), restando necessariamente circoscritto
alla regolamentazione formale degli interessi delle parti, finirebbe per sovvertire gli
98
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
Tale affermazione non può tuttavia essere condivisa, sia per tutte le ragioni
poco sopra indicate, sia perché, comunque, la dottrina tributaristica 27 ritiene
pacificamente che non esista una norma con finalità antielusive all’interno
del T.U. dell’imposta di registro; né l’art. 37-bis, d.p.r. n. 600 del 1973, può
supplire a tal fine, rappresentando una disposizione relativa a fattispecie
specifiche e valevole solo per le imposte sui redditi.
A tale ultimo riguardo occorre anche sottolineare come l’applicabilità
nell’ambito dell’imposta di registro di quest’ultima disposizione antielusiva
(art. 37-bis, d.p.r. n. 600 del 1973) sia controversa alla luce del nuovo
disposto di cui all’art. 53-bis, d.p.r. n. 131 del 1986, introdotto dall’art. 35,
co. 24, lett. a), d.l. 4 luglio 2006, n. 223 (conv. con modificazioni nella l. 4
agosto 2006, n. 248), mediante il quale sono stati estesi anche alle imposte di
registro, ipotecaria e catastale “le attribuzioni e i poteri di cui agli articoli 31
e seguenti”, d.p.r. n. 600 del 1973.
Ebbene, questo rinvio “generico”, in linea di principio, potrebbe essere inteso
come comprensivo anche del citato art. 37-bis; tuttavia, sul punto si ritiene di
condividere l’opinione contraria manifestata in dottrina 28.
enunciati criteri impositivi» e «in tema di imposta di registro, la prevalenza che l’art.
20 del d.p.R. n. 131/1986 attribuisce, ai fini dell’interpretazione degli atti registrati,
alla natura intrinseca ed agli effetti giuridici degli stessi sul loro titolo e sulla loro
forma apparente, vincola l’interprete a privilegiare il dato giuridico reale rispetto ai
dati formalmente enunciati – anche frazionatamente – in uno o più atti, e perciò il
risultato di un comportamento sostanzialmente unitario rispetto ai risultati parziali e
strumentali di una molteplicità di comportamenti formali. Ne consegue che una
pluralità di negozi strutturalmente e funzionalmente collegati alfine di produrre un
unico effetto giuridico finale, vanno considerati, ai fini dell’imposta di registro, come
un fenomeno unitario, anche in conformità al principio costituzionale di capacità
contributiva». Per una decisa critica di tale approccio interpretativo si veda, per tutti,
G. Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra l’abuso del <<diritto>> e
l’abuso del potere, op. cit., 1077 ss.
27
Cfr., per tutti, G. Marongiu, op. ult. cit., 1084 ss.; G. Melis, L’interpretazione nel
diritto tributario, 299, il quale, in particolare, osserva come l’art. 20 T.U. sia una
disposizione sull’interpretazione e qualificazione dei negozi, e non possa esserle
quindi assegnata la stessa funzione dell’art. 37-bis del d.p.R. n. 600 del 1973.
28
Si veda per tutti M. Basilavecchia, I nuovi poteri di controllo dell’amministrazione
finanziaria nelle imposte di registro, ipotecaria e catastale, Studio n. 68-2007/T del
Consiglio nazionale del Notariato, consultabile sul sito www.notariato.it. In senso
conforme si veda anche A. Tommasini, Elusione ed abuso del diritto nel sistema
dell’imposta di registro, in Corr. trib., n. 14 del 2012, 1033; F. Gallo, Rilevanza
penale dell’elusione, in Rass. trib., 2001, 321 ss., spec. 326 s., il quale è peraltro
critico sul punto, affermando che «l’aver dimostrato che l’art. 37bis è una norma
sostanziale che obbliga il contribuente a tenere un certo comportamento e la cui
violazione rende applicabili le sanzioni amministrative e penali non significa che il
giudizio sul sistema che ne consegue sia positivo»; L. Del Federico, Elusione e illecito
tributario, in Corr. trib., 2006, 3110 ss., che parla di sanzionabilità della c.d.
99
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
Difatti, secondo autorevole dottrina29 l’inapplicabilità in materia di imposta
di registro, ipotecaria e catastale dell’art. 37-bis, d.p.r. n. 600 del 1973,
deriverebbe dalla prevalente qualificazione30 della stessa come “una norma
sostanziale, che va applicata già dal contribuente, vietandogli l’utilizzo
fiscale di atti e comportamenti elusivi (…). In tale logica, la collocazione
sistematica della disposizione recede, nella gamma dei criteri interpretativi:
sia pure collocata nel seno dei poteri degli uffici, la disposizione sarebbe in
realtà integrativa del sistema sostanziale delle imposte sui redditi, del TUIR,
stabilendo precisi obblighi (o meglio, divieti) a carico del contribuente.”
Ebbene, prosegue la citata dottrina, “tale ricostruzione, discutibilissima ma
nettamente prevalente, impedisce di coinvolgere la disposizione stessa nel
processo di ampliamento dei poteri in sede di accertamento delle imposte
indirette, perché essa non avrebbe – soltanto – la funzione di regolare un
potere, o un’attribuzione, dell’ufficio; e per poter transitare nel sistema delle
imposte indirette avrebbe avuto bisogno di una norma che la inserisse nel
contesto delle regole sostanziali (…)”.
A tal riguardo, in via incidentale, occorre ricordare che il riconoscimento –
non da tutti condiviso in dottrina 31 - della natura di norma sostanziale all’art.
“elusione codificata”, cioè quella a fronte della quale esiste una noma di contrasto
(come l’art. 37-bis).
29
Il riferimento è a M. Basilavecchia, op. ult. cit., 6 – 7.
30
Secondo G. Falsitta (Natura delle disposizioni contenenti “norme per
l’interpretazione di norme” e l’art. 37 bis sull’interpretazione analogica o
antielusiva, in Riv. dir. trib., 2010, 521) “non è corretto (…) chiedersi se l’art. 37 bis
abbia natura sostanziale o procedimentale e ciò per l’ovvio motivo che l’art. 37 bis è
un enunciato <<complesso>>, formato da ben otto commi. E’ per dirla più alla buona,
un contenitore assai capiente che ospita una molteplicità di regole che per forza di
cose non hanno la stessa natura”.
31
I sostenitori della natura procedimentale dell’art. 37 bis sono elecanti da V. Liprino,
L’abuso di diritto in materia fiscale nell’esperienza francese, in Rass. trib., 2009, 473
nota 76. Sulla non sanzionabilità delle condotte elusive si vedano S. La Rosa, Principi
di diritto tributario, Torino, 2009, 21; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario,
Parte generale, Torino, 2009, 258; M. Beghin, Diritto tributario, Princìpi, istituti e
strumenti per la tassazione della ricchezza, Torino, 2011, 220 ss.; R. Cordeiro Guerra,
Non applicabilità delle sanzioni amministrative per la violazione del divieto di abuso
del diritto, in Corr. trib., 2009, 771 ss.; R. Lupi - D. Stevanato, Tecniche
interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva, in Boll. Trib.
d’inf., 2009, 407; R. Lupi, Abuso del diritto e frode alla legge, tra principi comuni e
particolarità legislative nazionali, in Dial. trib., 2008, 120 s.; ID., Elusione, valide
ragioni economiche, aggiramenti e sanzioni, ivi, 2007, 386 ss.; M. Basilavecchia,
Elusione e abuso del diritto: una integrazione possibile, in Riv. giur. trib., 2008, 742,
secondo il quale, richiamando le sentenze della Corte di Giustizia del 2006, la
rilevazione dell’abuso del diritto giustifica il recupero delle imposte, ma non
l’applicazione della sanzione.
100
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
37-bis, d.p.r. n. 600 del 1973 incide certamente anche sulla sanzionabilità 32
delle condotte elusive.
32
In punto di sanzionabilità delle condotte elusive si segnala la recente presa di
posizione della Corte di cassazione con la sentenza n. 25537 del 30 novembre 2011
(in banca dati Fisconline), secondo cui “E' nota la esistenza in dottrina di una tesi
secondo la quale l'art. 37 bis collocato peraltro nel D.P.R. n. 600 del 1973, nel titolo
dedicato ad "accertamenti e controlli" ha natura meramente procedimentale e che
pertanto, assumendo che il precetto normativo riguardi solo la Amministrazione, la
quale "disconosce" gli atti elusivi dichiarati alla stessa non opponibili dell'art. 1,
comma 1, del citato art. 37 bis, porta alla conclusione che il contribuente non abbia
alcun obbligo giuridico di non esporre nella dichiarazione dei redditi dati tratti da
operazioni suscettibili di essere considerate elusive, in quanto ciò non comporta
alcuna violazione specifica di norme tributarie, consistendo la elusione in un
"aggiramento" e non in una infrazione espressa del precetto di legge. Da tale lettura
normativa discende che la dichiarazione dei redditi del soggetto che pone in essere
operazioni elusive non può considerarsi infedele, per cui l'unica conseguenza prevista
dall'art. 37 bis sarebbe il disconoscimento del vantaggio fiscale cui consegue la
tassazione "determinata in base alle disposizioni eluse" (art. 37 bis, comma 2 cit.) e
non la applicazione di sanzioni, per le quali, vigendo il principio di stretta legalità
tratto dalla normativa in materia penale (D.P.R. n. 472 del 1997) è necessaria una
norma che espressamente la preveda. Tale ultima considerazione, certamente
condivisibile, porta ad escludere che una sanzione amministrativa in materia tributaria
possa essere applicata a fronte della violazione non di una precisa diposizione di legge
ma di un principio generale, quale quello antielusivo ritenuto immanente al sistema
anche anteriormente alla introduzione di una normativa specifica, come ritenuto da
questa Corte (Cass. Sez. Un. n. 30055 del 2008) e dalla giurisprudenza comunitaria. A
proposito della quale può rammentarsi che la sentenza "Halifax" citata dalla ricorrente
dichiara espressamente che "la constatazione della esistenza di un comportamento
abusivo non deve condurre ad una sanzione per la quale sarebbe necessario un
fondamento normativo chiaro e univoco". Ad avviso della Corte, tale fondamento
normativo "chiaro ed univoco" è attualmente esistente. L'art. 37 bis più volte citato
prevede che la Amministrazione, in applicazione del disconoscimento del vantaggio
fiscale ritenuto frutto di operazioni elusive, emetta avviso di accertamento, per cui
prevede una speciale procedura ed un preciso obbligo motivazionale in relazione al
criterio di calcolo delle maggiori imposte. Quanto alle conseguenze di tale atto, il
d.lgs. n. 471 del 1997, art. 1, comma 2, recita: "se nella dichiarazione è indicato, ai
fini delle singole imposte, un reddito imponibile inferiore a quello accertato, o,
comunque, un'imposta inferiore a quella dovuta o un credito superiore a quello
spettante, si applica la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento della
maggior imposta o della differenza del credito. La stessa sanzione si applica se nella
dichiarazione sono esposte indebite detrazioni d'imposta ovvero indebite deduzioni
dall'imponibile, anche se esse sono state attribuite in sede di ritenuta alla fonte". Da
tale disposizione si evince che la legge non considera per la applicazione delle
sanzioni quale criterio scriminante la violazione della legge o la sua elusione o
aggiramento, essendo necessario e sufficiente che le voci di reddito evidenziate nella
dichiarazione siano inferiori a quelle accertate o siano "indebite" aggettivo
espressamente menzionato nell'art. 37 bis, comma 1 cit. In sostanza le sanzioni si
applicano per il solo fatto che la dichiarazione del contribuente sia difforme rispetto
101
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
Peraltro, anche l’Agenzia delle entrate nella circolare n. 28/E del 4 agosto
2006 ha lasciato intendere che il rinvio operato dal citato art. 53-bis, d.p.r. n.
131 del 1981 debba essere circoscritto ai soli poteri di indagine e di controllo
disciplinati dal d.p.r. n. 600 del 1973.
Ciò posto, giova, inoltre ricordare come all’interno del T. U. dell’imposta di
registro si riscontrino alcune ipotesi nelle quali l’atto viene assoggettato a
tassazione secondo “presunzioni”, senza tener conto della sua qualificazione
ed efficacia giuridica, come nel caso, ad esempio, dei trasferimenti tra
coniugi o parenti in linea retta, di procura irrevocabile a vendere senza
obbligo di rendiconto, di contratto per persona da nominare, o di donazioni e
liberalità inter vivos.
In questi casi sussiste il diritto dell’Ufficio di disconoscere il comportamento
delle parti diretto a conseguire, oltre ché gli effetti tipici dell’atto, anche
effetti diversi ed indiretti.
A tal riguardo, infatti, è stato condivisibilmente osservato da autorevole
dottrina33 come quelle appena indicate rappresentino delle previsioni
normative dirette a “prevenire ed arginare fenomeni elusivi e a queste e solo
a queste occorre attenersi. Proprio perché l’imposta di registro colpisce
l’atto avendo precipuo riguardo al suo contenuto giuridico, nel presupposto
che vi sia una corrispondenza tra il tipo contrattuale e il substrato
economico dell’operazione, il legislatore ha avvertito l’esigenza di
intervenire con apposite disposizioni per reprimere fenomeni di elusione,
caratterizzati da una divergenza tra lo schema negoziale adottato dalle parti
contraenti e gli scopi pratici da esse perseguiti, diversi ed ulteriori rispetto a
quelli connaturati al tipo negoziale”.
Orbene, l’esistenza di disposizioni di tal genere non fanno altro che
confermare, ulteriormente, come nell’ambito dell’imposta di registro non
esista una generale norma antielusiva e come nell’applicazione dell’art. 20,
d.p.r. n. 131 del 1986, debba darsi rilevanza agli effetti giuridici (civilistici)
degli atti e non già a quelli economici.
all'accertamento. Tale conclusione è rafforzata dal testo del comma 6 della stessa
disposizione, che prevede che le maggiori imposte accertate siano iscritte a ruolo
"secondo i criteri di cui al d.lgs. n. 546 del 1992, art. 68, concernente il pagamento dei
tributi e delle sanzioni pecuniarie in corso di giudizio" rendendo così evidente che il
legislatore ritiene la applicazione di sanzioni come effetto naturale dell'esito
dell'accertamento in materia di atti elusivi. Presupposto di detta applicazione è il dato
non contestato della diretta applicabilità alla fattispecie dell'art. 37 bis in relazione
all'oggetto dell'accertamento (fusioni societarie, cessioni di quote, minusvalenze e
plusvalenze)”.
In precedenza si era espressa nel senso dell’inapplicabilità delle sanzioni alle condotte
elusive, (seppur) in ragione della sussistenza della causa di non punibilità costituita
dalle “obiettive condizioni di incertezza” ex art. 6, co. 2, d.lgs. n. 472 del 1997, Cass.
25 maggio 2009, n. 12042 (in banca dati Fisconline).
33
In questi termini cfr. G. Marongiu, op. ult. cit., 1084 ss.
102
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
Pertanto, l’assenza di una norma generale antielusiva non può che comportare
che il risparmio d’imposta di registro derivante dal ricorso a negozi diversi da
quelli direttamente produttivi degli effetti voluti dalle parti non sia passibile
di censure.
Peraltro, anche il precedente indirizzo della giurisprudenza 34 e della prassi35
aveva mostrato di avere contezza di questi risvolti escludendo che la cessione
della partecipazione totalitaria in una società equivalga alla cessione
dell’azienda sociale o degli immobili sociali.
3.1
Sulla natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro e sulla
conseguente irrilevanza di elementi extratestuali nella sua
applicazione
Ma non è solo la mancanza di una norma generale antielusiva valevole ai fini
dell’imposta di registro a limitare i poteri di riqualificazione propri
dell’Ufficio, consentendoli solo nelle fattispecie prima richiamate. Vi osta
anche qualcosa di più profondo e di più radicato nella tradizione normativa
dell’imposta di registro: il suo essere un’”imposta d’atto”.
Tale carattere comporta che l’imposta colpisca l’atto sottoposto a
registrazione e non già il trasferimento, e impedisce al Fisco di interpretare
l’atto soggetto a registrazione valorizzandone gli elementi extratestuali;
questi ultimi non possono avere rilevanza perché la tassazione si cristallizza
al momento del perfezionamento dell’atto, a nulla rilevando le vicende
successive, come la revoca, la novazione, la nullità o l’annullabilità (art. 38,
d.p.r. n. 131 del 1986), ovvero il comportamento complessivo delle parti36.
34
Cfr. Comm. trib. centr. 26 marzo 1981 n. 3636, in Comm. trib. centr., 1981, I, 441;
Id., 19 maggio 1981 n. 3638, in Giur. imp., 1982, 531; Comm. trib. centr. 25 ottobre
1983 n. 3290, in Foro it., Rep. 1984, voce Ricchezza mobile (imposta), n. 30; Comm.
trib. centr. 3 agosto 1984 n. 7826, in Comm. trib. centr., 1984, I, 481; Comm. trib.
centr. 7 luglio 1998 n. 3750, in Foro it., Rep. 1998, voce Registro (imposta), n. 166.
Contra, Comm. trib. centr. 15 febbraio 1982, in Comm. trib. centr., 1982, I, 189.
35
Cfr. Min. Fin., risol. 28 marzo 1983 n. 251368; ID.. risol. 5 giugno 1989 n. 310356.
36
Sul carattere d’«imposta d’atto» dell’imposta di registro si veda A. Uckmar, La
legge del registro, Padova, 1928, I, 197 ss.; A. Berliri, Le leggi di registro, Milano,
1961, 137 ss.; R. Pignatone, L’imposta di registro, in Trattato di diritto tributario,
diretto da A. Amatucci, IV, Padova 1994, 166 ss.; V. Donnamaria, L’imposta di
registro nel testo unico, Milano 1987, 50; V.Uckmar - R. Dominici, Registro (imposta
di), in Nov. Dig. It., XV, Torino, 1986, 553; B. Santamaria, Registro (imposte di), in
“Enc.Dir.”, Milano, 1988, 545; A. Uricchio, Commento all’art. 20 T.U., in D'Amati,
La nuova disciplina dell'imposta di registro, Torino 1989, p. 180; S. Lanzillotti – F.
Magurno, Il notaio e le imposte indirette, Roma 1998, 117; G. Zizzo, In tema di
qualificazione dei contratti ai fini delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, in
Riv. dir. trib., 1992, II, 171 ss.; S. Donatelli, La rilevanza degli elementi extratestuali
ai fini dell’interpretazione dei contratti nell’imposta di registro, in Rass. trib., 2002,
1341 ss. Il principio è ribadito nella più autorevole manualistica: v., per tutti, G.
103
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
Il quadro sinora delineato, seppur accompagnato da indirizzi contrari 37 – ma
minoritari –, non consente di considerare censurabili, ai fini dell’imposta di
registro, quelle scelte negoziali dei privati che vedano il conferimento come
segmento di una più ampia operazione complessiva risultante dal
collegamento di più atti distinti. Anzi, volendosi concentrare sull’ipotesi
relativa al conferimento di azienda seguito dalla cessione di quote sociali,
giova ricordare che ai sensi dell’art. 176, co. 3, Tuir, il legislatore attribuisce
un carattere fisiologico al conferimento neutrale seguito da una cessione delle
partecipazioni che consenta di sfruttare il regime della participation
exemption; cosicché il nostro sistema, più che favorire il collegamento 38,
tende alla segmentazione negoziale.
Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Milano, 2005, 613 ss. Più di
recente cfr. si veda G. Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra l’abuso del
<<diritto>> e l’abuso del potere, op. cit., 1082 ss.
In giurisprudenza cfr. Cass. S.U., 15 luglio 1972 n. 2349, in Riv. legisl. fisc., 1975,
1079; Comm. trib. centr. 2 dicembre 1976, n. 1041, in Comm. trib. centr., 1976, I,
666; Cass. 17 maggio 1976 n. 1737, in Comm. trib. centr., 1976, II, 318, ed in Riv.
legisl. fisc., 1976, 1457; Id., 9 maggio 1979 n. 2658, con nota di D. Jarach, I contratti
a gradini e l’imposta, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1982, 79 ss., ; Id., 16 ottobre 1980 n.
5563, in Boll. trib., 1981, 888, ed in Riv. legisl. fisc., 1981, 762; Comm. trib. centr. 4
marzo 1981 n. 2549, in Comm. trib. centr., 1981, I, 294; Id., 29 marzo 1983 n. 2239,
in Comm. trib. centr., 1983, II, 892; Cass. 26 giugno 1984, n. 3715, in Riv. legisl.
fisc., 1985, 722; Id., 9 gennaio 1987 n. 75, in Riv. legisl. fisc., 1987, 624; Id., 2
dicembre 1993 n. 11959, in Giust. civ., 1994, I, 337, ed in Riv. giur. trib., 1994, 117;
Id., 9 maggio 1997 n. 4064, in Giur. it., 1998, c. 1068; Id., 8 maggio 1997 n. 4057, in
Giur. it., 1997, I, 1, c. 1161; Comm. trib. II grado Bolzano 31 luglio 1998, in Il fisco,
1999, 11059; Comm. trib. centr. 8 ottobre 1998 n. 4787, in Comm. trib., 1998, I, 832.
(37) Sul potere dell’Ufficio di ricostruire l’intenzione complessiva delle parti anche
mediante l’utilizzo di dati extratestuali, Cass. 12 aprile 1978 n. 1719, in Foro it., Rep.
1978, voce Registro (imposta), n. 71; Cass. 9 maggio 1979 n. 2658, in Foro it., Rep.
1980, voce Registro (imposta), n. 67, ed in Riv. dir. fin., 1982, II, 79; Comm. trib.
centr. 16 giugno 1983 n. 2065, in Comm. trib. centr., 1983, I, 715; Cass. 14 maggio
1984 n. 4097, in Rass. trib., 1984, II, 652; Cass. 9 maggio 1997 n. 4064, in Foro it.,
Rep. 1997, voce Registro (imposta), n. 81; Comm. trib. centr. 14 febbraio 1998 n.
733, in Foro it., Rep. 1998, voce Registro (imposta), n. 63. In dottrina, ma con
riferimento a casi del tutto eccezionali, v. G. MELIS, op. cit., 296.
(38) Sul tema cfr. G. Stancati, Conferimento di ramo aziendale e successiva vendita
delle partecipazioni: pretestuosità della riqualificazione negoziale, in Dialoghi dir.
trib., 2007, 445, seguito dai contributi di A. Perri, Spunti sulla corretta qualificazione
degli atti ai fini dell’imposizione indiretta sui trasferimenti, e di S. Chirichigno, Gli
effetti giuridici come criterio interpretativo indispensabile per la corretta
qualificazione. Ai fini della distinzione, nell’ambito dell’imposta di registro, tra
negozio complesso (con causa unica), assoggettato ad unica tassazione, e negozi
collegati, soggetti invece ad imposizione plurima, cfr. Cass. 6 settembre 1996 n. 8142,
in Riv. giur. trib., 1997, 661, con nota di A. Giovanardi, La dottrina civilistica
nell’interpretazione della norma tributaria: negozio complesso, negozi collegati e
imposta di registro; Cass. 13 novembre 1996 n. 9938, in Foro it., 1997, I, c. 1206;
104
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
Giova a tal proposito sottolineare che ai sensi dell’art. 21 del T. U., la
circostanza che un atto contenga più disposizioni richiede, come norma
generale, che la tassazione avvenga su ciascuna di esse in modo autonomo,
come si trattasse di atti distinti, a meno che le disposizioni siano tra loro
legate da un nesso di reciproca interdipendenza tale da renderle derivanti le
une dalle altre.
Difatti, così come chiarito dalla stessa Agenzia delle entrate nella circolare n.
10 del 12 marzo 2010, ai fini dell’applicazione della norma in esame occorre
far riferimento alla distinzione civilistica tra negozio complesso e negozi
collegati, (distinzione) che deve essere effettuata con riferimento alla causa,
ossia alla funzione economico-sociale che identifica e qualifica il negozio
giuridico. Pertanto, quando in un unico documento sottoposto a registrazione
sono contenute più disposizioni, “occorre distinguere a seconda che esse
diano vita ad un mero collegamento negoziale, in quanto rette da cause
distinte, seppur fra loro funzionalmente connesse, oppure se le diverse
disposizioni, derivando le une dalle altre, integrino un atto complesso,
riconducibile ad un’unica causa nella quale si fondono i ricorrenti elementi di
più negozi tipici o atipici”. Ne consegue che - prosegue sempre l’Agenzia
delle entrate nella citata circolare – l’atto complesso va assoggettato ad
un’unica imposta come se l’atto contenesse la sola disposizione che dà luogo
all’imposizione più onerosa, trattandosi di disposizioni tra loro
interdipendenti e dunque configuranti un negozio complesso; diversamente,
“le disposizioni che danno vita ad un collegamento negoziale, in quanto rette
da cause distinte, sono soggette ciascuna ad autonoma tassazione, in quanto
la pluralità delle cause dei singoli negozi, ancorché funzionalmente collegate
dalla causa complessiva dell’operazione, essendo autonomamente
identificabili, porta ad escludere che le disposizioni rette da cause diverse
possano ritenersi derivanti, per loro intrinseca natura, le une dalle altre”.
Ebbene, questa corretta posizione interpretativa dell’Amministrazione
finanziaria con riferimento al collegamento negoziale esistente tra più
disposizioni contenute nel medesimo documento, mette ancor di più in
evidenza l’erroneità giuridica e comunque la contraddittorietà della posizione
interpretativa dalla stessa assunta con riferimento all’applicazione del citato
art. 20.
In altri termini, si arriverebbe all’assurdo, e cioè che se il collegamento
riguarda più disposizioni negoziali contenute nello stesso documento
sottoposto a registrazione, in tal caso il collegamento negoziale è destinato a
non rilevare ai fini dell’imposta di registro, nel senso che dovranno essere
separatamente assoggettate a tassazione le singole disposizioni negoziali
Cass. 12 maggio 2000 n. 6082, in Il fisco, 2000, 11643; G. Arnao, Manuale
dell’imposta di registro, Milano, 2005, 120; R. Miceli, Note in materia di atti plurimi
e di retrocessione nell’imposta di registro, in Riv. dir. trib., 2001, II, 609; G. Melis,
L’interpretazione nel diritto tributario, op. cit., 297.
105
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
“ancorché
funzionalmente
collegate
dalla
causa
complessiva
dell’operazione”; di contro, il collegamento negoziale finirebbe per assumere
rilevanza ai fini dell’applicazione di un’unica imposta di registro nel caso in
cui le disposizioni negoziali collegate siano contenute in atti separati,
sottoposti autonomanete a registrazione.
Da ultimo, occorre segnalare che ai fini di una riqualificazione della suddetta
operazione non può nemmeno soccorrere l’art. 22 del T.U. dell’imposta di
registro che, attribuendo rilevanza ad atti precedenti nei limiti
dell’enunciazione, trova la sua ratio nella necessità di assicurare un’effettiva
tassazione di atti «precedenti» o «presupposti» che assumono per l’appunto
rilevanza solo ove non previamente registrati.
E’ di tutta evidenza come il richiamo di queste norme 39 dimostri, in termini
sistematici, come laddove il legislatore dell’imposta di registro ha inteso
attribuire rilievo a vicende esterne al contratto vi ha provveduto
espressamente, con disposizioni a carattere eccezionale 40.
Ad ulteriore conferma di ciò occorre anche tener presenti le indubbie
difficoltà interpretative poste dalla differente soluzione interpretativa (qui
criticata) che tende invece a dare rilevanza anche agli elementi extratestuali,
in specie sotto il profilo della esatta individuazione del termine decadenziale
entro cui l’Ufficio potrebbe recuperare la maggiore imposta dovuta nonché e
soprattutto sotto il profilo della corretta individuazione del dies a quo da cui
far decorrere tale termine.
Difatti, il primo dato che emerge esaminando la disciplina positiva, è la totale
assenza di una regolamentazione di tale (senza dubbio) rilevante questione, e
già questo dovrebbe rappresentare un chiaro indice della volontà legislativa
di escludere la rilevanza di elementi extratestuali in sede di applicazione del
citato art. 20.
Nonostante ciò gli Uffici “provano” ad individuare un termine decadenziale
in via interpretativa, ora forzando l’applicazione della previsione di cui
all’art. 76, co. 1, d.p.r. n. 131 del 1986, ai sensi del quale per gli atti non
presentati per la registrazione l’imposta deve essere richiesta, a pena di
decadenza, nel termine di cinque anni dal giorno in cui avrebbe dovuto essere
richiesta la registrazione, ora forzando l’applicazione della previsione di cui
al co. 2 del medesimo articolo, in forza del quale l’imposta deve essere
richiesta, a pena di decadenza, entro il termine di tre anni che verrebbero fatti
decorrere dalla data di registrazione dell’ultimo atto che – secondo l’Ufficio –
completerebbe la fattispecie negoziale “a formazione progressiva”.
(39) Lo stesso dicasi per quanto previsto dall’art. 24, comma 2, T.U., diretto a
prevedere una norma presuntiva in tema di trasferimento delle pertinenze.
40
In tal senso cfr. G. Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra l’abuso del
<<diritto>> e l’abuso del potere, op. cit., 1086 ss.
106
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
Si tratta, con tutta evidenza, di soluzioni interpretative “forzate”, perché
relative a forme di rettifica e liquidazione chiaramente fuori dal sistema di
imposizione, così come concepito dal legislatore tributario.
Peraltro, la natura di “imposta d’atto”, seppur con specifico riferimento alla
liquidazione dell’imposta principale (così come definita dall’art. 42, co. 1,
d.p.r. n. 131 del 1986), è confermata anche dalla disciplina normativa delle
procedure di controllo sulle autoliquidazioni, finalizzate al recupero di tale
imposta nei confronti del notaio (quale responsabile d’imposta) che ha
rogitato l’atto sottoposto a registrazione telematica. Difatti, in forza del
disposto di cui all’art. 3-ter, d.lgs. n. 463 del 1997, “gli uffici controllano la
regolarità dell’autoliquidazione e del versamento delle imposte e qualora,
sulla base degli elementi desumibili dall’atto, risulti dovuta una maggiore
imposta, notificano, anche per via telematica, apposito avviso di liquidazione
(…)”. Sebbene si tratti solo della procedura di controllo dell’autoliquidazione
dell’imposta principale, ciò che merita di essere evidenziato è rappresentato
dal fatto che gli elementi in base ai quali l’Ufficio deve basare il controllo –
per espressa previsione legislativa - debbano essere costituiti, in via
esclusiva, dagli “elementi desumibili dall’atto”41.
4 Sull’(in)applicabilità del principio del cd. “divieto di abuso del
diritto” quale strumento di contrasto dell’elusione anche nell’ambito
dell’imposta di registro
Dimostrata quindi l’”infondatezza giuridica” di un approccio interpretativo
volto a qualificare la disposizione di cui all’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986,
quale norma antielusiva generale, a questo punto non resta che esaminare
brevemente i profili di criticità dell’ulteriore tendenza interpretativa – di cui,
ad esempio, sembrerebbe aver fatto applicazione la Commissione tributaria
provinciale di Reggio Emilia nella sentenza poco sopra ricordata – che
vorrebbe finanche superare la problematica relativa alla natura ed alla
funzione del citato art. 20, risolvendo la “questione” del contrasto
all’elusione nell’imposta di registro mediante la diretta applicazione del
principio antielusivo del “divieto dell’abuso del diritto”, di derivazione
costituzionale, recentemente elaborato dalle Sezioni Unite della Corte di
cassazione42.
Difatti, queste ultime, con specifico riferimento alle imposte sui redditi,
hanno riconosciuto l’esistenza di un “generale principio antielusivo” la cui
fonte, per i tributi non armonizzati a livello a comunitario, “va rinvenuta non
nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi
costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano”, id est nei
41
In tal senso cfr. Agenzia del Territorio, circ. n. 3/T-C/31894 del 2 maggio 2002 (in
banca dati Fisconline).
42
Il riferimento è alla sentenza Cass., SS.UU., 23 dicembre 2008, n. 30055, prima
citata.
107
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione di cui
all’art. 53 Cost.
In ragione di ciò, pertanto, non sarebbero opponibili all’Amministrazione
finanziaria gli effetti fiscali derivanti dall’utilizzo di strumenti negoziali
idonei ad ottenere un risparmio d’imposta - sebbene tale utilizzo non sia in
contrasto con alcuna specifica disposizione di legge - tutte le volte in cui
ricorrano entrambe le condizioni: i) alla base di tale utilizzo manchino
apprezzabili (id est valide) ragioni economiche diverse dalla “mera
aspettativa di quel risparmio fiscale” ; ii) il vantaggio fiscale ottenuto risulti
essere “abusivo” ossia in contrasto con la ratio o l’obiettivo perseguito dalle
disposizioni fiscali che lo prevedono, non risultando pertanto conforme alla
corretta attuazione del principio di capacità contributiva 43.
Ebbene, questo principio antielusivo, che – come detto - le Sezioni Unite
della Corte di cassazione, per le imposte sui redditi, hanno fatto discendere
direttamente dall’art. 53 Cost., in alcuni casi inizia ad essere invocato – come
nella sentenza della Commissione tributaria di Reggio Emilia - per censurare,
ai fini dell’imposta di registro, le operazioni economiche, prima descritte, di
conferimento di un bene (immobili o aziende) in società e la successiva
alienazione della partecipazione attribuita al conferente, qualificandola, alla
luce di tale principio, una “pratica abusiva”, contraria ai principi
dell’ordinamento tributario.
Ma è evidente la criticità di una soluzione di tal genere.
Difatti, l’esistenza del principio antielusivo de quo, frutto esclusivamente
dell’elaborazione giurisprudenziale e privo di qualsiasi appiglio normativo, è
già stata diffusamente ed autorevolmente confutata in dottrina44 con specifico
riferimento alle imposte sui redditi; ed è fuor di dubbio come gli stessi
argomenti possono ora essere ugualmente utilizzati per confutare il tentativo
della giurisprudenza di merito di estendere il predetto principio antiabuso
anche al settore dell’imposta di registro.
In particolare, tra i diversi profili di criticità, quello certamente più rilevante
che in questa sede merita di essere ancora una volta rimarcato è rappresentato
dall’evidente violazione del principio costituzionale di riserva di legge che,
ex art. 23 Cost., copre la disciplina dei tributi.
43
In merito alle condizioni necessarie affinché possa correttamente configurarsi un
abuso del diritto, anche in base all’elaborazione della Corte di Giustizia, si veda, tra
gli altri, I. Vacca, Abuso del diritto ed elusione fiscale, in Riv. dir. trib., 2008, I, 1084
- 1085; L. Carpentieri, L’ordinamento tributario tra abuso e incertezza del diritto, op.
cit., 1056 – 1057; M. Beghin, L’elusione fiscale tra presupposti applicativi, esimenti,
abuso del diritto ed “esercizi di stile” (nota a Comm. trib. reg. di Milano, sez. XIII,
n.85/2008), in Riv. dir. trib., 2008, II, 343.
44
Per una ricostruzione dei diversi profili di criticità del principio antielusivo
elaborato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione sia consentito il rinvio al mio,
Sul generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario, op. cit., 213 ss.,
cui si rinvia per gli ulteriori riferimenti giurisprudenziali e dottrinari sull’argomento.
108
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
Più precisamente, in forza di tale principio costituzionale,
“l’Amministrazione finanziaria deve individuare una norma che la legittimi a
ritenere <<elusivo>> il risparmio fiscale di cui beneficiano le parti, con
riguardo alle imposte indirette sugli affari, per effetto della cessione
<<indiretta>> di immobili o di aziende sotto forma di partecipazioni sociali,
previo conferimento dei medesimi nella società le cui quote sono alienate”45.
In altri termini, è necessario che lo strumento di contrasto dei fenomeni
elusivi sia previsto in una esplicita fonte legislativa, la quale sola è in grado
di evitare il pericolo che la lotta all’abuso del diritto si tramuti in un “abuso
del potere”46.
In tal senso, infatti, è stato condivisibilmente affermato da autorevole
dottrina47 che “i tributi nuovi, nuove discipline di tributi esistenti,
interpretazioni che incidono e modificano radicalmente insegnamenti
interpretativi consolidati debbono trovare la loro fonte di legittimità nella
volontà del Parlamento, nella legge”. Pertanto, “venendo alle ipotesi che
stiamo studiando, cioè all’asserita esigenza di una clausola <<anti abuso>> e
<<antielusiva>>, nessuno, neppure ai fini di un supposto fine buono, può
esercitare un ruolo di supplenza del legislatore, neppure la Corte di
cassazione”.
Ma se è vero ciò, ne consegue che, mentre i per i tributi armonizzati a livello
comunitario nella lotta al fenomeno dell’elusione possono trovare
applicazione i “principi antiabuso” elaborati dalla giurisprudenza
comunitaria, esistendo la copertura dell’art. 11 Cost., diversamente, per tutti i
tributi non armonizzati l’art. 23 Cost. impone l’individuazione di una fonte
legislativa dei relativi strumenti di contrasto all’elusione.
Orbene, se per le imposte sui redditi è applicabile la norma antielusiva di cui
all’art. 37-bis, d.p.r. n. 600 del 1973, lo stesso non può dirsi per l’imposta di
registro, in quanto è stato poco sopra dimostrato come non esista nella
relativa disciplina una norma antielusiva generale e come tale funzione non
possa certamente essere riconosciuta alla disposizione di cui all’art. 20, d.p.r.
n. 131 del 1986.
Da ultimo, è sempre opportuno tenere a mente che in ogni caso, anche
qualora – per assurdo – si finisca comunque per ritenere applicabile (anche)
all’imposta di registro il principio “anti-abuso”, resterebbe fermo quanto
affermato da autorevole dottrina con riferimento all’operatività del predetto
principio in tale ambito impositivo, cioè che “per poter configurare l’abuso
del diritto è essenziale il vantaggio fiscale; codesto vantaggio richiede il
confronto tra dati omogenei; l’omogeneità impone (…) che non ci si limiti a
tassare operazioni che presentino una somiglianza economica rispetto ad
45
In questi termini cfr. G. Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra l’abuso
del <<diritto>> e l’abuso del potere, op. cit., 1068.
46
Cfr. sempre G. Marongiu, op. ult. cit., 1075.
47
Cfr. sempre G. Marongiu, op. ult. cit., 1076.
109
L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA
DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
altre, bensì operazioni che conducono, magari in modo più immediato, ad
analogo risultato economico-giuridico, ottenuto dal contribuente mediante la
scansione negoziale concretamente attuata”48.
5 Conclusioni
Le brevi considerazioni sino ad ora svolte, sottolineando lo stato di grande
“incertezza” e “confusione” che affligge gli operatori del diritto, segnano
ancor di più l’opportunità di intervento normativo chiarificatore sia in punto
di interpretazione ed applicazione della regola “di interpretazione” di cui al
citato art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, sia, e per l’effetto, in punto di contrasto
di possibili fenomeni elusivi (anche) nello specifico ambito dell’imposta di
registro.
In tal senso, l’occasione giusta potrebbe essere rappresentata dall’attuazione
del principio di delega contenuto nel disegno di legge delega del 16 aprile
2012 (art. 6), mediante il quale dovrebbe affidarsi al Governo il compito di
rivedere le vigenti disposizioni antielusive al fine di introdurre “il principio
generale di divieto di abuso del diritto, esteso ai tributi non armonizzati” in
applicazione di una serie di principi e criteri direttivi ivi meglio esplicitati.
Laddove ciò dovesse accadere, l’introduzione di una disciplina normativa
generale di contrasto ai fenomeni elusivi, valevole anche con riferimento al
settore dell’imposta di registro, dovrebbe avere come effetto anche quello di
comportare il definitivo superamento delle problematiche interpretative che –
come visto – caratterizzano l’applicazione del disposto di cui al citato art. 20,
d.p.r. n. 131 del 1986, riconducendo tale norma nella sua naturale e
fisiologica collocazione sistematica, quella di strumento in grado di
consentire all’Amministrazione finanziaria di ricostruire gli effetti giuridici
prodotti dall’atto sottoposto a registrazione, così come desumibili (soltanto)
dal suo contenuto, dunque a prescindere dal nomen iuris utilizzato dalle parti.
In ogni caso, anche a prescindere dalla codificazione di una regola generale
anti-abuso e dalla “questione” della rilevanza di elementi extratestuali in sede
ai applicazione dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1981, deve ritenersi quanto meno
necessario un intervento normativo chiarificatore in punto di esatta
individuazione del criterio temporale (in specie con riferimento al dies a quo)
per la contestazione di fenomeni elusivi in materia di imposta di registro.
Difatti, un chiarimento normativo di tal genere sarebbe senza dubbio in grado
di ridurre lo stato di “incertezza” e “confusione” che caratterizza il sistema
dell’imposizione indiretta.
48
In questi termini M. Beghin. L’abuso del diritto nella indefettibile prospettiva del
<<vantaggio fiscale>>, op. cit., 2330.
110
Avv. Caterina Corrado Oliva
Dottore di ricerca in diritto processuale tributario
presso l’Università di Pisa
L’abuso del diritto tra onere di allegazione e onere della
prova
SOMMARIO: 1 Premessa - 2 I requisiti dell'abuso del diritto e i (pochi) fatti
da provare - 3 Allegazione e non contestazione - 4 L’abuso del riferimento
all’onere della prova
1 Premessa
Ricorrente nella giurisprudenza della Suprema Corte sull’abuso del diritto è il
riferimento al problema della spettanza dell’onere della prova.
Questo stupisce perché in realtà in materia di abuso del diritto l’onere della
prova, rigorosamente inteso quale regola decisoria finale del fatto incerto 1,
1
Pare opportuno chiarire fin d’ora che, nel presente lavoro, allorché si parlerà di
onere della prova, si farà riferimento esclusivamente a ciò che la dottrina definisce
con la locuzione “onere della prova in senso oggettivo”, e cioè al principio, o meglio,
alla regola che consente di risolvere una controversia, anziché pronunciare un non
liquet, in caso di prova mancante o non sufficiente di un elemento decisivo, facendone
ricadere le conseguenze sulla parte che ne era appunto onerata.
La dottrina tedesca (Betzinger, Die Beweislast im Zivilprozess, Berlin, 1910, 63 e
Zitelmann, Internationales Privatrecht, Leipzig) nei primi decenni del XX secolo, ha
introdotto la distinzione tra onere della prova in senso soggettivo e onere della prova
in senso oggettivo.
La distinzione in questione, che trova un corrispondente anche nel diritto
anglosassone J. B. Thayer, The burden of proof, 4 Harv. L. R., 1890, 45 e ss.;
Mcnughton, Burden of production evidence: a function of the burden of persuasion,
Harv. L. R., 1955, 1382 e ss. e la distinzione tra burden of producing evidence e
burding of persuasion, facendo riferimento rispettivamente all’onere della parte
chiamata a fornire la prova di un certo fatto (e quindi, a ciò che verrà definito come
onere della prova in senso soggettivo) e all’onere che ha la parte di persuadere
l’organo giudicante. Essa ha avuto, invece, un minor séguito nella letteratura italiana
(cfr. S. Patti, Prove. Disposizioni generali, commento all’art. 2697 c.c., in
Commentario del Codice Civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna, 1987, 12 ss., il
quale attribuisce all’influenza esercitata dall’opera di G. A. Micheli la colpa della
distrazione della dottrina italiana in proposito. G. A. Micheli, invero, ha del tutto
svalutato l’aspetto soggettivo dell’onere della prova.
Secondo tale impostazione, l’espressione “onere della prova in senso soggettivo”
indica quale parte deve provare un certo fatto, su chi incombe il “carico”, la “charge
de la preuve”: “esso incombe sulla parte che intende avvalersi di un fatto a lei
L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA
favorevole, poiché la prova costituisce il presupposto necessario affinché esso venga
preso in considerazione ai fini dell’applicazione di una norma” (S. Patti, Prove.
Disposizioni generali, op. cit., 12). Nello stesso senso, si veda S. Patti, Le prove,
Giuffrè, 2010, 57.
La definizione di onere della prova in senso soggettivo esprime, pertanto, il concetto
che la parte interessata alla prova deve assumerne l’iniziativa onde sperare di ottenere
una decisione a sé favorevole.
L’onere della prova in senso oggettivo indica, invece, la parte nei cui confronti si
produce l’effetto negativo nel caso di mancato raggiungimento della prova di una
situazione di fatto rilevante ai fini del giudizio. Esso esprime, quindi, il rischio del
mancato raggiungimento della prova riguardante un certo tipo di fatto, rischio che
dipende, ovviamente, dal convincimento del giudice. Se, infatti, il giudice ha
raggiunto il convincimento nonostante che la parte gravata (soggettivamente)
dell’onere non abbia fornito le prove, poco importa, la regola di giudizio non opera a
suo sfavore; se, invece, nonostante che la parte onerata abbia fornito diverse prove, il
giudice le abbia ritenute insufficienti a formare il proprio convincimento, “scatta” la
regola dell’onere della prova in senso oggettivo e la parte ne subisce le conseguenze
negative.
Con riferimento all’onere della prova in senso oggettivo è diffusa ormai l’espressione
“regola di giudizio”, poiché la sua funzione è quella di permettere al giudice di porre
fine ad un dibattito rivelatosi infruttuoso, lasciando immutata la situazione
preesistente, mentre il suo rilievo pratico, per quanto concerne il futuro, è quello di
precludere definitivamente il riesame della controversia in virtù degli effetti del
giudicato.
Tale regola di giudizio, pertanto, una volta esaurita l’istruzione probatoria in maniera
infruttuosa o insufficiente, si rivolge al giudice, per permettergli di decidere
comunque, e anche alle parti, facendole sottostare alla decisione svantaggiosa per la
parte che era onerata della prova non fornita (rileva questa duplice direzione, al
giudice e alle parti, dell’onere della prova in senso oggettivo: S. Pugliatti, voce
Conoscenza, in Enc. dir., vol. IX, Milano, 1961, 45 ss., 102. In senso parzialmente
difforme, V. Andrioli, voce Prova (dir. proc. civ.), in Noviss. dig. it., vol. XIV,
Torino, 1967, 260 ss., in particolare 292, il quale distingue onere della prova in senso
soggettivo e oggettivo sulla base dei loro diversi destinatari, essendo il primo rivolto
alle parti, ed il secondo al giudice).
Secondo tale ricostruzione dottrinale, accanto al rischio che ogni parte sente a causa
della propria carente, o addirittura mancante, attività probatoria, vi sarebbe un rischio
obiettivo della incertezza, che si presenta anche indipendentemente da qualsiasi
attività di parte. In tal modo, accanto ad un onere della prova soggettivo, se ne è
costruito uno oggettivo, battezzato poi variamente, che ha, a poco a poco, acquisito
rilievo determinante, anche perché ci si è resi conto che tutta l’attività probatoria
esplicata dalle parti è finalizzata proprio ad esso, cioè al risultato favorevole per una
di esse nella fase decisoria finale. Il merito della riconosciuta prevalenza del concetto
di onere della prova in senso obiettivo nella dottrina italiana è dovuto soprattutto a G.
A. Micheli, L’onere della prova, Padova, 1942, cap. III e a F. Carnelutti, La prova
civile, Edizione dell’Ateneo, Roma, 1947, 210; gli A. ricordati si soffermano ad
analizzare la preponderanza del criterio oggettivo, giacché rileva che tutto l’aspetto
subiettivo del fenomeno si riduce allo studio del potere probatorio riconosciuto alle
parti nel processo, costituisce un frammento della stessa teorica della azione, mentre,
per comprendere l’aspetto essenziale e caratteristico di esso è necessario insistere
sull’aspetto oggettivo dell’onere della prova, quello di regola di giudizio.
112
L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA
pare abbia invece un ambito di applicazione davvero ridotto, se non
addirittura nullo.
Ciononostante, molte sentenze della Suprema Corte in tema di abuso del
diritto, tramite formule più o meno standardizzate e ripetitive, precisano
come, relativamente a questo o quel profilo dell’abuso, l’onere probatorio
spetti all’Amministrazione o al contribuente 2.
2
La giurisprudenza della Suprema Corte, in particolare, concerne principalmente
l’onere della prova della assenza di valide ragioni economiche diverse dal risparmio
di imposta, che è il profilo più delicato in quanto trattasi di aspetti nella disponibilità
del contribuente e tuttavia oggetto di una prova negativa. Talvolta la giurisprudenza,
però, si occupa anche dell’onere della prova circa gli altri requisiti dell’abuso.
Spesso, come si nota dalla breve rassegna qui di seguito svolta, le sentenze parlano
indifferentemente di onere di provare, di allegare, di spiegare e precisare.
Cass., sez. trib., 4 aprile 2008, n. 8772, formula il seguente principio di diritto: “non
hanno efficacia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria quegli atti posti in
essere dal contribuente che costituiscano “abuso del diritto”, cioè che si traducano in
operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale; ed
incombe sul contribuente la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o
concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico”.
Cass., sez. trib., 21 aprile 2008, n. 10257, riprende lo stesso concetto aggiungendo
alcune caratteristiche delle ragioni economiche alternative che il contribuente deve
provare, allorché l’abuso del diritto dia luogo ad un elemento negativo del reddito o
dell’imposta. Tale sentenza, infatti, scrive: “incombe sul contribuente la prova della
esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente
marginale o teorico, specie quando l’abuso dia luogo ad un elemento negativo del
reddito o dell’imposta”.
Investe anche gli oneri dell’Amministrazione, e gli altri requisiti dell’abuso, Cass.,
sez. trib., 21 gennaio 2009, n. 1465, la quale afferma: “è onere dell’Amministrazione
finanziaria – non solo – prospettare il disegno elusivo a sostegno delle operate
rettifiche ma – anche - le supposte modalità di manipolazione o di alterazione di
schemi classici rinvenute come irragionevoli in una normale logica di mercato se non
per pervenire a quel risultato di vantaggio fiscale così come incombe al contribuente
allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale
spessore che giustifichino operazioni così strutturate”.
E si veda anche, Cass., 19 maggio 2010, n. 12249, “si pone a carico del soggetto che
ne invoca l’applicazione ai fini fiscali l’onere di provare che l’impiego dello
strumento contrattuale in contestazione non aveva il fine essenziale di conseguire un
risparmio di imposta”.
Ancora, Cass., sez. trib., 22 settembre 2010, n. 20030 statuisce: “la prova sia del
disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi
negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e
perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione
finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare la esistenza di ragioni
economiche alternative o concorrenti di reale spessore che giustifichino operazioni in
quel modo strutturate”.
Cass., 21 gennaio 2011, n. 1372: “incombe all’amministrazione finanziaria l’onere di
spiegare, anche nell’atto impositivo, perché la forma giuridica (o il complesso di
forme giuridiche) impiegata abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto
all’operazione economica intrapresa, mentre è onere del contribuente provare
l’esistenza di un contenuto economico dell’operazione diverso dal mero risparmio
fiscale”.
113
L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA
A ben vedere, però, raramente tali affermazioni vertono su fatti, che
necessitano di prova; esse invece riguardano per lo più valutazioni (es. la
validità o meno delle ragioni economiche addotte, la portata distorsiva di una
operazione o di una struttura di operazioni) in quanto tali non soggette a
prova, ma a dimostrazione puramente teorica, ad argomentazione difensiva.
Ancora, molto spesso, in tema di abuso del diritto, i (pochi) fatti, che pur
sarebbero suscettibili di prova, risultano incontestati tra le parti, e cioè
pacifici: questo elimina sul nascere ogni problema di prova e, per
conseguenza, di onere della prova.
Tra l’altro, spesso, le sentenze, disattendendo i più elementari tratti dell’onus
probandi, spostano l’onere probatorio da un soggetto all’altro in funzione di
una precisa scansione funzionale e temporale, secondo la quale l’onere su
questo o quell’elemento della fattispecie spetterebbe in prima battuta
all’Amministrazione e solo in seconda battuta al contribuente. Eppure,
l’onere della prova come regola decisoria finale del fatto incerto, cioè l’onere
della prova in senso oggettivo, è assolutamente incompatibile con una
scansione temporale di questo tipo, dal momento che opera solo e soltanto
nel momento della decisione finale, e non si modifica in ragione della prova
fornita da questo o quel soggetto nel corso del giudizio, giacché ha una
E’ chiara nel riferirsi all’onere di allegazione, piuttosto che ad un onere della prova, la
Cass., sez. trib., 18 febbraio 2011, n. 3947, in cui si legge che “il tema relativo
all’esistenza, validità e opponibilità all’amministrazione del negozio da cui deriva,
nella sostanza, la pretesa fiscale è acquisito al processo per effetto dell’allegazione
da parte del contribuente”; la stessa sentenza rigetta il ricorso dell’Amministrazione
finanziaria perché “la ricorrente non ha neppure allegato (essendosi limitata a
supporre un obbligo del giudice di verificare, comunque ed in astratto, se le stesse
“rispondessero o meno ad effettive esigenze di razionalità economica, o fossero
piuttosto finalizzate al perseguimento di illeciti vantaggi fiscali”) quale sia, in effetti,
il risparmio fiscale tratto dalla contribuente delle contestate operazioni commerciali
poste in essere con le cooperative: segnatamente quale fosse l’irrazionalità
economica di quelle operazioni che il giudice del merito avrebbe dovuto rilevare e
valutare”.
Ancora con riguardo alla prova delle ragioni economiche, nel confronto con gli altri
requisiti, la Cassazione, sez. trib., 30 novembre 2011, n. 25537, scrive che il requisito
dell’assenza delle valide ragioni economiche, a differenza degli altri due requisiti
dell’abuso “può ritenersi implicitamente verificato, ove si assuma […] che l’unico
motivo dell’aggiramento della norma tributaria sia il conseguimento di un vantaggio
fiscale. Infatti la sentenza afferma che il discrimine tra una attività lecita ed elusiva
consiste nel fatto che la seconda e compiuta “essenzialmente (ovvero unicamente,
n.d.e.) per il conseguimento di un vantaggio economico (sul piano fiscale)” e ciò
esclude, univocamente, la presenza di una valida ragione economica di fondo, la
quale, ove esistente, si pone come elemento in primo luogo anteriore, ma comunque
diverso e aggiuntivo rispetto al mero vantaggio pecuniario perseguito con
l’aggiramento della normativa fiscale. Ciò è così vero che la stessa sentenza
richiama, correttamente, il principio giurisprudenziale secondo cui una volta che si
sia in presenza di atto che appaia di abuso del diritto l’onere di provare la esistenza
di valide ragioni economiche per compierlo ricade sul contribuente (Cass., n. 8772
del 2008)”.
114
L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA
struttura più semplice, o se si vuole più rozza3: se il giudice non ha raggiunto
il convincimento dell’esistenza di un determinato fatto, in base alle prove
fornite nel processo e del tutto indipendentemente da chi e come siano state
introdotte, egli dovrà decidere in senso sfavorevole alla parte che aveva
l’onere di provare4.
3
Da alcuno è stata rilevata l’“ingiustizia” della regola dell’onere della prova, a causa
della sua eccessiva “staticità”. L’istituto in questione, invero, porta il giudice, non
pervenuto ad un convincimento, ad effettuare un passo indietro, una rinuncia
mantenendo la situazione preesistente all’instaurazione del processo (S. Patti, Prove.
Disposizioni generali, op. cit., 158). Esso rende così del tutto superflua ed inutile
l’attività probatoria già svolta, interrompe definitivamente il processo di
avvicinamento alla verità3 che, comunque, nel processo si è svolto, a discapito di
quella parte che, nonostante la prova fornita, pur rilevante, non sia riuscita comunque
a ingenerare il convincimento nel giudice (G. A. Micheli, L’onere della prova, op.
cit., 185 ha rimarcato l’equivalenza, dal punto di vista dell’onere della prova, tra il
non provare affatto e il provare ma non sufficientemente).
É stato tuttavia rilevato come sia invece giusto, o forse meno ingiusto, che l’incertezza
del giudice ridondi a danno di chi era tenuto ad eliminarla, perché ciò “è espressione
della fondamentale esigenza del vivere civile, rappresentata dell’agire a proprio
rischio (suae quisque artifex fortunae)” Così, V. Andrioli, in Prova (dir. proc. civ.),
op. cit., 300, nota 1.
La “staticità” dell’onere della prova si giustifica, pertanto, in base al principio, di
ragione anzitutto, secondo cui colui che richiede un mutamento dello status quo deve
fornire la relativa prova.
Se la prova non è fornita o non è sufficiente, indipendentemente dal fatto che ciò
dipenda dalla colpevole carenza dell’attività probatoria svolta dalla parte onerata
oppure dalla materiale impossibilità di fornirla ovvero dal mancato esercizio dei poteri
istruttori di cui il giudice eventualmente disponga o comunque dalla discrezionale
valutazione del giudice medesimo circa il mancato raggiungimento del
convincimento, le conseguenze sfavorevoli dovranno necessariamente ricadere sulla
parte che ha richiesto all’ordinamento una modificazione della situazione preesistente,
assumendosi così il rischio dell’iniziativa intrapresa e dovendone sopportare le
conseguenze. Ciò, anche se, in ipotesi, i fatti presupposti del diritto vantato dalla parte
si erano effettivamente verificati nella realtà, pur non essendo stato possibile
acclararlo nel processo.
E così, per chiudere con le parole di Carnelutti: “le prove, che sul principio mi parvero
uno strumento di giustizia, son finite per capovolgersi in uno strumento d’ingiustizia”
(F. Carnelutti, La prova civile, op. cit., 8).
La regola dell’onere della prova può comportare, al termine del giudizio, un sacrificio
alla “giustizia” e alla verità, pur perseguite nel corso di ogni giudizio per il tramite
dell’istruzione probatoria, sacrificio che si giustifica in base ad un bilanciamento di
interessi con l’altrettanto fondamentale valore della certezza nei rapporti giuridici che
il processo deve assicurare (G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile,
Napoli, 1966 (ristampa), 788 e ss.).
Verità e certezza sono i termini che racchiudono il nucleo della problematica ed
esprimono la tensione ed il travaglio del giudice, nel perenne sforzo di colmare lo
scarto tra l’effettiva conoscenza dei fatti e il loro reale svolgersi.
4
Si veda la nota n. 1 relativamente alla distinzione tra onere della prova oggettivo e
soggettivo.
115
L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA
A ben vedere, dunque, la giurisprudenza, nonostante ritorni più volte sulla
distribuzione dell’onere probatorio, spesso si riferisce a tutt’altro (alla
dimostrazione logica ovvero all’onere di allegazione) e comunque non tratta
la questione in maniera approfondita ma, come spesso accade in materia di
onere della prova, si limita ad affermare con tono autoreferenziale, quasi da
enunciazione di principio, a chi spetti l’onere nei diversi casi.
Nella dottrina sull’abuso del diritto, il tema dell’onere della prova è molto
meno trattato; allorché la dottrina affronta tale tematica, acquisisce, e talora
parafrasa, le soluzioni della giurisprudenza senza proporre specifici rilievi
critici; al più, si riscontrano alcune disquisizioni intorno al problema della
prova di un fatto negativo, dato che in tale modo è formulato uno dei requisiti
dell’abuso, cioè l’assenza di valide ragioni economiche.
Pare dunque che possa essere di interesse una riflessione sull’onere della
prova in materia di abuso del diritto, riflessione che sarà condotta seguendo le
affermazioni della giurisprudenza, dato che l’abuso stesso è di matrice
giurisprudenziale, per apportare ad esse le correzioni che si ritengono
necessarie, talora solo terminologiche, talaltra più sostanziali.
Questo non solo con l’intento di contribuire, ove possibile, alla
chiarificazione del problema sul piano ordinamentale, ma anche con la
consapevolezza che tramite la differente configurazione dell’onere della
prova si decidono le sorti di un processo: pertanto, specie per un processo che
già ha per tema l’abuso del diritto - e quindi un comportamento non
normativamente
sanzionato,
rimesso
alla
valutazione
(leggasi,
discrezionalità) del giudice, che addirittura può rilevarlo d’ufficio in sede di
legittimità5 - almeno risulti contenuta quella errata abitudine di utilizzare
riferimenti all’onere della prova onde giustificare, e mascherare, decisioni
emotive ed arbitrarie.
2 I requisiti dell'abuso del diritto e i (pochi) fatti da provare
Al fine di affrontare con ordine il problema, è utile partire dai requisiti
dell’abuso del diritto, che, secondo l’individuazione della più matura
giurisprudenza e della più autorevole dottrina, possono così sintetizzarsi:
- operazioni negoziali, anche collegate tra loro, che determinano uso distorto,
un aggiramento dei principi e dello spirito (non violazione) di una norma
tributaria
- (indebito) vantaggio fiscale;
- assenza di valide ragioni economiche.
Perché si abbia abuso del diritto, quindi, occorre verificare la sussistenza dei
tre requisiti indicati. La verifica, tuttavia, non deve necessariamente passare
tramite una prova. Ché anzi, come di consueto, la prova riguarda soltanto i
fatti, pur giuridicamente qualificati, e, nell’ambito dei requisiti sopra indicati,
i fatti sono pochi, marginali e solitamente pacifici.
5
In tal senso, ex plurimis, Cass. ss. uu., 23 dicembre 2008, nn. 30055, 30056, 30057;
Cass., sez. trib., 9 dicembre 2009, n. 25726; Cass., sez. trib., 22 ottobre 2010, nn.
21692, 21693; Cass., sez. trib., 11 maggio 2012, n. 7393.
116
L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA
Ai fini di porre correttamente il problema della prova in materia di abuso del
diritto, occorre quindi preliminarmente individuare all’interno dei menzionati
requisiti se e quali siano i fatti che possono essere oggetto di prova.
Quanto al primo requisito, è, ad esempio, un fatto l’esistenza e l’efficacia di
un negozio giuridico, o di una serie collegata di negozi giuridici; è, invece,
oggetto di una valutazione la disquisizione sulla loro idoneità ad aggirare la
norma, sulla distorsione del sistema da essi provocata, sulla differenza tra
l’operazione realizzata e l’operazione che si considera normale.
Solo l’esistenza e l’efficacia del negozio, o dei negozi, quindi, sarà oggetto di
prova, e non la sua qualificazione come negozio asistematico, anomalo,
nonché il confronto con il negozio normale e la valutazione di aggiramento
dello spirito della norma.
Ancora, quanto al secondo requisito, l’indebito vantaggio fiscale, occorre
sceverare il fatto dal giudizio. L’esistenza di un vantaggio fiscale, cioè di un
risparmio di imposta numericamente determinato, è un fatto. Invece, la
circostanza che esso sia indebito, in quanto scaturisca da un aggiramento
dello spirito della norma, è una questione valutativa, che non entra nel
giudizio sul fatto e non è oggetto di prova.
Lo stesso per il terzo requisito: l’assenza delle valide ragioni economiche. A
prescindere dal problema, su cui molto si è soffermata la dottrina, se sia la
Amministrazione a dover dimostrare l’assenza di esse o il contribuente a
dover provare la loro sussistenza nel rispetto del generale brocardo secondo
cui negativa non sunt probanda, anche in questo caso buona parte
dell’accertamento del requisito si svolge su un piano diverso da quello del
giudizio di fatto. E’ parte di quest’ultimo la questione dell’esistenza delle
ragioni economiche, ma la loro validità e altresì la valutazione della loro
prevalenza o non marginalità rispetto al risparmio di imposta restano al di
fuori dalle problematiche probatorie.
Riassumendo, l’abuso del diritto si fonda quindi preminentemente su
valutazioni e poco su fatti di cui accertare l’esistenza o meno.
I (pochi) fatti da provare sono: l’esistenza ed efficacia del negozio (o dei
negozi collegati), la sussistenza di un vantaggio fiscale (nel senso, materiale,
di minor pagamento di imposta) e la sussistenza di ragioni economiche.
Questi fatti soltanto possono formare oggetto di prova e, per conseguenza,
allorché non provati, possono eventualmente determinare l’applicazione della
regola decisoria sul fatto incerto.
3 Allegazione e non contestazione
Delimitato come sopra l’ambito del giudizio di fatto nei processi vertenti in
tema di abuso del diritto, si comprende quanto angusto sia lo spazio per
l’applicazione delle regole probatorie. Pochi essendo i fatti da provare, già
per questo è marginale il profilo della prova e dell’istruttoria nei processi che
hanno per tema l’abuso del diritto.
Ma l’applicazione della regola dell’onere della prova è anche enormemente
ridotta per altra significativa ragione.
117
L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA
I pochi fatti, che astrattamente potrebbero necessitare di una prova, nella
pratica dei processi in materia di abuso del diritto non la richiedono quasi
mai, giacché su di essi non vi è contrasto tra le parti.
Nei processi sull’abuso, invero, non vi è, di solito, contestazione circa
l’esistenza e l’efficacia di un determinato negozio giuridico o di una serie di
operazioni tra loro collegate, che sono riconosciuti da entrambe le parti. Quel
che si contesta è se quel negozio o serie di negozio abbiano o meno valenza
distorsiva, se realizzino un aggiramento di una norma.
Il contrasto tra le parti, quindi, non è mai (o quasi mai) sul fatto, che non è
contestato, quanto sulla sua interpretazione e valutazione. Opera, cioè, il
principio di non contestazione, secondo il quale, ex art. 115 c.p.c., i fatti non
specificamente contestati non abbisognano di essere provati6.
Lo stesso accade, generalmente, per gli altri fatti che vengono in rilievo in un
processo in tema di abuso del diritto. Ad esempio, l’esistenza di un risparmio
di imposta: esso – generalmente - non è contestata nella sua esistenza
materiale e nella sua valenza per così dire quantitativa e matematica. E’
molto spesso pacifico tra le parti che quella determinata operazione abbia
comportato un pagamento di imposta inferiore rispetto alla operazione
alternativa e “normale” ipotizzata dall’Amministrazione finanziaria. Il
contribuente, però, generalmente deduce che quel risparmio di imposta non
sia indebito, nel senso che non sia frutto di un aggiramento normativo, ma
invece sia previsto e voluto, o comunque consentito, dall’ordinamento.
In altri termini, anche in questo caso, il fatto del minor pagamento di imposta,
di solito, è pacifico tra le parti, quindi non abbisogna di prova, e pertanto non
determina, in caso di fallimento della prova, l’applicazione della regola
decisoria finale dell’nere della prova.
Lo stesso vale per le valide ragioni economiche.
6
In passato, allorché il principio di non contestazione aveva portata solo
giurisprudenziale, si poneva il delicato problema della individuazione delle ipotesi di
non contestazione, al fine di verificare se, ad escludere la prova di un fatto, ed il
correlativo onere probatorio, fosse sufficiente un atteggiamento passivo della
controparte, ad esempio un mero silenzio, oppure occorresse un’esplicita ammissione.
Aveva affermato che, ai fini di escludere la prova di un fatto, non sarebbe sufficiente
una mera “non contestazione” del medesimo ex adverso ma occorrerebbe una esplicita
sua “ammissione” F. CARNELUTTI, Prova civile, op. cit., 23 ss. In senso contrario,
sulla distinzione tra non contestazione e ammissione esplicita, cfr. L. P. COMOGLIO, Le
prove, in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, Vol. 19, tomo 1, III, 182, il
quale sottolinea che mentre la non contestazione escluderebbe provvisoriamente la
prova, senza però precludere la contestazione successiva, possibile fino all’udienza di
precisazione delle conclusioni, la ammissione esplicita, invece, fornirebbe una prova
completa.
Oggi, peraltro, il problema è risolto dal diritto positivo, che ha rimarcato il valore di
un atteggiamento anche meramente passivo della parte non contumace. La riforma del
diritto processuale civile, operata con legge n. 60 del 2009, ha invero modificato l’art.
115 c.p.c. sancendo che “il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove
proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente
contestati dalla parte costituita”. Per un commento alla nuova normativa, si veda S.
PATTI, Le prove, op. cit., 13 ss.
118
L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA
L’Amministrazione deduce che l’unica ragione che spiega l’operazione
realizzata dal contribuente sia quella del risparmio d’imposta; a fronte di ciò,
il contribuente può allegare ragioni economiche diverse dal risparmio di
imposta che debbono essere valide e pregnanti. Soltanto la sussistenza di tali
ragioni è oggetto di prova (con tutte le difficoltà della prova di un fatto
psicologico, quale è la ragione determinante un comportamento); ma il vero
punto controverso, di solito, non è l’esistenza di questa o quella ragione
economica dedotta dal contribuente (e che l’Amministrazione non contesta
nella sua mera esistenza), quanto piuttosto la sua validità e significatività.
In materia di abuso del diritto, quindi, anche laddove vi siano fatti
astrattamente suscettibili di prova, questi sono oggetto di una allegazione
delle parti (e/o di un onere di allegazione 7).
7
Parte della dottrina, invero, ritiene che sia configurabile un autonomo onere di
allegazione, diverso rispetto all’onere della prova. In tal senso: G. DE STEFANO, voce
Onere (diritto processuale civile), in Enc. dir., vol XXX, Milano, 1980, 114 ss., 120;
E. T. LIEBMAN, Intorno ai rapporti tra azione ed eccezione, in Riv. dir. proc., 1960,
450. Sostengono che il giudice non possa introdurre come temi di prova neppure i fatti
secondari, se non allegati dalle parti, M. CAPELLETTI, La testimonianza della parte nel
sistema dell’oralità. Contributo alle teorie della utilizzazione probatoria del sapere
delle parti nel processo civile, Giuffré, Milano, 1962, 339 e ss.; G. TARZIA, Il
litisconsorzio facoltativo nel processo di primo grado, Milano, 1972, 349 e ss. Lo
stesso E. ALLORIO, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale e
altri studi, Giuffré, Milano, 1957, 375, afferma che la parte deve formulare i fatti
indispensabili per l’identificazione della ragione sostenuta in giudizio, cioè, in
definitiva, dell’oggetto del processo.
Altra parte della dottrina, invece, afferma l’inutilità del concetto di onere di
allegazione. Così, F. CARNELUTTI, La prova civile, op. cit., 21 e ss., in particolare, 22
(in nota), il quale sostiene che l’allegazione del fatto può essere utile perché se ne
abbia una trattazione nella sentenza, ma nega recisamente che possa configurarsi un
onere di allegazione del fatto parallelo o analogo all’onere della prova.
Lo critica S. PATTI, Prove. Disposizioni generali, op. cit., 11, il quale rileva come
Carnelutti abbia del tutto dimenticato, nella propria ricostruzione, i fatti notori, in
relazione ai quali, nella tesi di Patti, si configura un onere di allegazione, ma non un
onere della prova. Secondo l’A., la distinzione tra onere della prova e dell’allegazione
si coglie specialmente considerando i fatti che non abbisognano di prova, ma solo di
allegazione, quali sono i fatti presunti o i fatti notori. Nello stesso senso, S. P ATTI, Le
prove, op. cit., 54 ss.
A proposito del fatto che l’onere della prova interessa i soli fatti che hanno bisogno di
prova, con esclusione pertanto di quei fatti che sono incontestati tra le parti o che sono
notori, cfr. altresì V. ANDRIOLI, Prova (dir. proc. civ.), in Novissimo Digesto Italiano,
volume XIV, Torino, 1967, 260 ss., 293, il quale afferma che “tale rilievo lascia
intendere la caratteristica fondamentale dell’onere della prova, consistente in ciò che
può essere considerato non in astratto, ma con riferimento alle concrete vicende del
processo”.
Altri in dottrina hanno affermato che è possibile cogliere la rilevanza autonoma
dell’onere di allegazione rispetto all’onere della prova in relazione proprio alle ipotesi
in cui la parte è dispensata dall’onere di provare e cioè ad esempio per i fatti presunti,
che la parte ha l’onere di allegare ma non di provare (es. buona fede ex art. 1147,
comma 3, c.c.). Così M. TARUFFO, Studi sulla rilevanza della prova, Cedam, Padova,
1970, 19 ss.; L. MENGONI, Gli acquisti a non domino, Giuffré, Milano, 1975, 358.
119
L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA
Soltanto laddove il fatto sia contestato, vi è un problema di prova e, allorché
questa non sia fornita, l’applicazione della regola dell’onere della prova.
Altrimenti, la allegazione, unita alla non contestazione, esclude la necessità di
prova e quindi la applicazione di qualsiasi regola probatoria finale.
Invece, altra parte della dottrina (R. SACCO, Presunzione, natura costitutiva o
impeditiva del fatto, onere della prova, in Riv. dir. civ., 1957, I, 416 e ss.) scorge un
perfetto parallelismo tra onere di allegazione e onere della prova; secondo tale tesi,
dovrebbero essere allegati soltanto i fatti che devono essere provati, mentre non
sarebbe necessario allegare ad esempio i fatti che costituiscono oggetto di una
presunzione legale. Tale tesi si fonda sulla negazione di ogni distinzione tra fatti
costitutivi e fatti impeditivi.
Quanto ai fatti notori, e alla sussistenza per essi di un onere di allegazione, e non di un
onere della prova, le conclusioni sono analoghe. V’è chi, come il Patti, afferma che “i
fatti su cui si basa il diritto devono essere sempre enunciati dalla parte, anche se si
tratta di fatti notori, perché alla parte spetta sempre dichiarare se intende utilizzare i
loro effetti giuridici” (S. PATTI, Prove. Disposizioni generali, op. cit., 11). Nello
stesso senso: V. DENTI, Ancora sulla nozione di fatto notorio, in Giur. compl. cass.
civ., 1947, 265 ss.; L. P. COMOGLIO, Le prove, in Trattato di diritto privato, diretto da
Rescigno, XIX, Torino, 181; G. VERDE, voce Prova, (dir. proc. civ.), in Enc. dir., vol.
XXXVII, Milano, 1988, 613 ss, nota 237. In senso contrario, MONTESANO,
Osservazioni sui fatti notori, in Giur. compl. cass. civ., 1947, III, 222 ss., secondo il
quale il giudice può utilizzare il fatto notorio indipendentemente dall’allegazione di
parte “perché la notorietà esclude il sospetto di parzialità inerente all’autonoma
acquisizione della fonte stessa da chi deve valutarla”. Critica Montesano, il Patti,
affermando che egli confonderebbe tra massime di esperienza, che in quanto “regole”
non devono essere allegate, e i fatti notori, che invece necessitano di allegazione.
I dati testuali, ad onor del vero, sembrano confortare la tesi negativa, giacché il codice
di procedura civile prevede l’onere della parte di proporre la domanda (art. 112 c.p.c.)
così come quello di proporre le prove (art. 115 c.p.c.) ma non un onere di allegazione.
L’unica norma da cui potrebbero desumersi argomentazioni in tale senso è l’art. 163,
comma 3, c.p.c., laddove prevede “l’esposizione dei fatti ... costituenti le ragioni della
domanda”. Tuttavia, è stato obiettato che non è prevista dall’ordinamento alcuna
conseguenza sfavorevole a fronte di una eventuale mancato rispetto della ricordata
norma (es. nullità della citazione ex art. 164 c.p.c.), di talché non sarebbe possibile
qualificare tale allegazione di fatti come un onere (R. SACCO, Presunzione, natura
costitutiva o impeditiva del fatto, onere della prova, op. cit., 416). Tale
argomentazione non sarebbe convincente, secondo Patti, poiché il mancato
adempimento di un onere non deve comportare un risultato sfavorevole, quale la citata
nullità della citazione, ma invece concretarsi nella impossibilità di conseguire un
risultato favorevole (S. PATTI, Le prove. Disposizioni generali, op. cit., 9). Dall’art.
163, comma 3, c.p.c., invece, deve trarsi la convinzione della correttezza della tesi
fondata sulla distinzione tra fatti primari e fatti secondari, secondo la quale l’onere di
allegazione sussisterebbe solo in relazione ai primi, mentre con riferimento ai secondi
il giudice potrebbe esaminarli anche se non allegati (L. P. COMOGLIO, Le prove, op.
cit., 180 e ss.; E. GRASSO, La pronuncia d’ufficio, I, La pronuncia di merito, Giuffré,
Milano, 1967, 23 e ss.; S. PATTI, Prove. Disposizioni generali, op. cit., 9 e 91 ss.).
120
L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA
4 L’abuso del riferimento all’onere della prova
Da quanto visto, risulta con evidenza che la giurisprudenza della Suprema
Corte, laddove in tema di abuso del diritto fa sovente riferimento alla
ripartizione dell’onere probatorio, si riferisce a profili che solitamente nulla
hanno a che vedere con la prova e con l’onere della prova.
Per la maggior parte dei casi, trattasi di questioni valutative che il giudice
deve risolvere scegliendo tra le argomentazioni dell’una e dell’altra parte
ovvero adottando la cd. terza via. È il giudice che dovrà quindi decidere, sulla
base delle difese delle parti o della sua valutazione, se le ragioni economiche
dedotte siano valide, se il vantaggio fiscale sia indebito, se l’operazione
aggiri la normativa tributaria.
La stessa giurisprudenza, a ben vedere, spesso parla di onere di
“dimostrazione”: l’espressione non va intesa nel senso di prova bensì nel
diverso significato di dimostrazione logica, di valida argomentazione
difensiva.
A parte tutte le circostanze da “dimostrare” solo argomentativamente, e
quindi non da provare, restano poi senz’altro, nel giudizio sull’abuso, alcuni
fatti astrattamente suscettibili di prova.
Ma tali fatti sono prima di tutto oggetto di una allegazione (o onere di
allegazione) e solo nel, non frequente, caso in cui a detta allegazione faccia
seguito una specifica contestazione della controparte, potrà porsi un problema
di prova di essi. E, ove poi detta prova non sia raggiunta, si avrà
l’applicazione della regola dell’onere della prova.
Tali precisazioni, prima terminologiche, onde distinguere tra dimostrazione
argomentativa, allegazione e prova, poi processuali, correlate alla
applicazione del principio di non contestazione per i fatti allegati non
specificamente contestati, ed infine empiriche, per effetto dalla constatazione
della rarissima presenta di un contrasto tra contribuente e Amministrazione
sui fatti della fattispecie abusiva, portano a concludere per una rarissima
applicazione delle regole dell’istruttoria e specialmente della regola finale
dell’onere della prova.
Ne è riprova lo stesso, contestatissimo ma frequente, rilievo d’ufficio
dell’abuso del diritto, in ogni stato e grado del giudizio e quindi anche in
Cassazione. La Suprema Corte può, concretamente, rilevare l’abuso del
diritto nel giudizio pendente dinanzi ad essa proprio perché il tema
generalmente non involge fatti da provare, ma di solito valutazioni di pochi
fatti per lo più incontestati.
E allora, viene da chiedersi perché invece la Suprema Corte, in materia di
abuso del diritto, tanto parli di onere della prova.
L’onere della prova a ben vedere, pur essendo regola semplice e
“ineluttabile” 8 (la decisione va presa a sfavore del soggetto che doveva
8
L’onere della prova, infatti, si ricollega al dovere di decidere, ma non lascia “in
bianco” tale dovere. La regola dell’art. 2697 c.c. contiene altresì un limite per il
contenuto della decisione, o, meglio, stabilisce a priori il contenuto di essa: il giudice
deve decidere a sfavore di chi era onerato della prova dei fatti, nei casi in cui questa
non sia stata raggiunta.
121
L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA
provare quel fatto), lascia, però, a monte, una grande margine di
discrezionalità: è il giudice, infatti, che, stabilendo se ha raggiunto o meno il
convincimento sull’esistenza di un fatto (c.d. principio del libero
convincimento), di fatto decide se avvalersi di tale regola dal contenuto
vincolato.
La regola dell’onere della prova, dunque, non rappresenta un vincolo così
ferreo, proprio a seguito del c.d. “principio del libero convincimento” del
giudice che garantisce una grande e fondamentale “libertà”. Più
precisamente, se è vero che, a seguito del contenuto della regola dell’onere
della prova, il giudice ha una soluzione “imposta”, a ben vedere, subito più a
monte, egli ha una grande “via di fuga”, in quanto è proprio una sua scelta a
determinare l’applicazione o meno della regola medesima 9.
9
La libertà del giudice cui si fa riferimento deriva dal c.d. principio del libero
convincimento, istituto del nostro ordinamento un po’ “dimenticato” dalla dottrina,
che non si è troppo peritata di svolgerne studi approfonditi, generalmente limitandosi
a citarlo come principio tanto fondamentale ed immanente al sistema da divenire
perciò quasi un “mito” (l’espressione è di S. Patti, Prove. Disposizioni generali, op.
cit., 146), ma, in quanto tale, oggetto di fede e non di studio.
Per esprimere tale concetto, significative sono le parole del Nobili, cui si deve una
delle poche trattazioni al riguardo, il quale ha osservato che: “a forza di vantare con
dogmatica sicurezza il principio del libero convincimento, come fondamento
imprescindibile del sistema, da troppo tempo se ne trascura l’approfondimento critico,
con la conseguenza di una grande varietà di significati e soprattutto di una immagine
equivoca della libertà del giudice” (M. Nobili, Il principio del libero convincimento
del giudice, Giuffré, Milano, 1974, 3).
Senza certamente pretendere, in questa sede, di colmare la denunciata carenza di
approfondimento dottrinale, pare opportuno brevemente tratteggiare quelle
caratteristiche del principio del libero convincimento che permettano di approfondirne
i rapporti con la regola dell’onere della prova.
Innanzi tutto, è utile specificare che il libero convincimento va distinto dalla libera
valutazione delle prove, necessariamente legata a regole di logica o di esperienza; il
libero convincimento, invece, riguarda un diverso momento, successivo alla
valutazione delle prove, e dotato di un maggior grado di libertà.
La discrezionalità, nel caso del libero convincimento, concerne non tanto il modo di
formazione del convincimento stesso, che deve essere guidato da regole logiche e
giuridiche ed è soggetto a controllo tramite l’obbligo della motivazione, ma soltanto
l’an del convincimento, la sussistenza o meno di esso.
Ed è proprio questa scelta, questa libertà di stabilire se il convincimento sussiste o
meno, che si pone alla base della regola dell’onere della prova e che la differenzia, ad
esempio, dalle prove legali.
La regola sull’onere della prova risponde alla stessa logica delle prove legali, ed in tal
senso è vincolante per il giudice: essa prestabilisce il suo operare. Tuttavia, mentre le
prove legali gli impongono di esser convinto da esse e di decidere nel senso da esse
indicato, escludendo ogni sua valutazione, la regola dell’onere della prova lo vincola
soltanto dal punto di vista del contenuto, nel senso che gli impone di decidere contro
la parte che non ha fornito la prova della propria domanda o eccezione. Però, per ciò
che riguarda l’onere della prova, diversamente da quanto accade per le prove legali, il
giudice ha la libertà di stabilire se sussista o meno il proprio convincimento.
Il rapporto tra i due concetti di onere della prova e convincimento del giudice è,
perciò, un rapporto di stretta alternativa: o il giudice raggiunge il convincimento,
122
L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA
Alla base di tale rigorosa regola, quindi, vi è una grande libertà decisionale 10.
Ed il tema dell’abuso del diritto, di formazione giurisprudenziale, così
fortemente correlato alla discrezionalità del giudice, presuppone – purtroppo
- una decisione sostanzialmente “emotiva” sul fatto che il contribuente abbia
o meno fatto “il furbo”.
In tale contesto, la regola dell’onere della prova, con la sua univocità (se non
è provato, non esiste) e la sua autorità di regola decisoria finale, può fornire
un ottimo fondamento per la giustificazione di decisioni che, per loro natura,
sono valutative e discrezionali, se non arbitrarie. Forse per questo la
giurisprudenza sull’abuso del diritto …. abusa del riferimento spesso
inconferente all’onus probandi!
oppure applica la regola dell’onere della prova. E nell’effettuare tale scelta, il giudice,
lo abbiamo detto, è molto libero.
La funzione residuale della regola di giudizio è quella di proibire al giudice di dare
per esistenti fatti di cui non gli sia stata offerta una prova piena e convincente.
Tuttavia, non avendo la legge individuato lo standard minimo di certezza per ritenere
provato un fatto, alla fine, la funzione della regola di giudizio finisce con l’essere
influenzata dalla diversa maniera di intendere la sufficiente certezza (Così, G. Verde,
voce Prova (dir. proc. civ.), op. cit., 626).
Si tratta di un grande margine di soggettività e discrezionalità che abbiamo nella
regola dell’onere della prova, sempre così legata ad oggettività e razionalità per le
esigenze intrinseche della sua funzione decisoria. Il giudice può scegliere se ricorrervi
o meno, a seconda che gli elementi probatori lo abbiano convinto oppure no. E non è
libertà di poco conto.
Tra onere della prova e convincimento, pertanto, sussiste alternativa ma anche
consequenzialità, il convincimento essendo fuori e, nel contempo, alla base del dogma
dell’onere della prova.
10
“In definitiva – scrive S. PATTI, Prove. Disposizioni generali, op. cit., 155 - la
libertà del convincimento riguarda soltanto la sussistenza del convincimento stesso.
Qualunque sia il grado di verosimiglianza o di probabilità raggiunto, si considera
infatti il giudice libero di ritenersi convinto della verità dei fatti o meno”.
123
Avv. Paolo de’Capitani di Vimercate
Harvard Law School International Tax Program
Dottore di Ricerca Università di Pisa
La spettanza del credito per le imposte estere e la
indeducibilità dei manufactured payments in una decisione
della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia a
cavallo tra elusione ed evasione tributaria
SOMMARIO: 1 Introduzione: il caso esaminato dalla CTP di Reggio Emilia.
- 2 I presupposti per la concessione del credito per le imposte estere ai sensi
del Tuir e delle convenzioni contro le doppie imposizioni sul reddito - 3 Sulla
negata deduzione del manufactured payment - 4 Sulla applicabilità delle
sanzioni - 5 Conclusioni
1 Introduzione: il caso esaminato dalla CTP di Reggio Emilia.
La sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia
presenta spunti di interesse in quanto è la prima tra quelle edite 1 ad esaminare
talune operazioni che secondo l’Amministrazione finanziaria consentivano a
contribuenti residenti di ottenere vantaggi fiscali potenzialmente superiori a
quelli economici2.
In particolare, il caso di specie riguardava una serie di operazioni compiute
da una banca italiana e da una sua società controllata (d’ora in avanti, per
comodità, “la Banca”) in riferimento a titoli esteri. Senza poter descrivere le
operazioni in oggetto meglio di come sono state descritte nella sentenza
stessa, potremmo sintetizzarne la struttura come segue.
La Banca italiana acquistava, attraverso contratti di pronti contro termine, la
titolarità dei titoli esteri, ma contestualmente si impegnava, con un contratto
di swap, a retrocederne i benefici alla controparte. Più precisamente pare si
trattasse di un cd. total return swap in cui oltre al ribaltamento di un
ammontare pari a quello delle cedole pagate dal titolo era previsto anche il
riconoscimento alla controparte di un ammontare pari agli incrementi di
valore dello stesso, tanto che secondo l’Amministrazione finanziaria nessun
beneficio economico, come nessun rischio (i.e., il derivato aveva una
funzione di copertura), derivava dalla titolarità dello stesso a chi formalmente
ne era il proprietario.
1
V. al riguardo anche CTP di Genova, sez. 13, 24 marzo 2011, n. 133, che parimenti
ha respinto il ricorso della banca ricorrente, confermando la qualificazione di abuso
del diritto sostenuta dall’Amministrazione finanziaria.
2
Di operazioni per certi aspetti simili a quelle in esame si era interessata anche la
cronaca settimanale: v. L’Espresso del 24 ottobre 2008.
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
Come contropartita della sottoscrizione dello swap, la Banca otteneva una
remunerazione del suo investimento ad un tasso parametrato all’Euribor
incrementato di uno spread. Lo spread riconosciuto alla Banca italiana,
secondo la contestazione dell’Amministrazione finanziaria era peraltro
esiguo, tanto da non giustificare l’operazione in assenza dei vantaggi fiscali
che ad essa conseguivano: il tasso di interesse percepito al netto del
vantaggio fiscale, infatti, sarebbe stato al di sotto delle condizioni di
mercato3. Il vantaggio fiscale indebito contestato dall’Amministrazione
consisteva nel credito di imposta, effettivo nelle operazioni nn. 2 e 3 e
nozionale nella operazione n. 1, che la Banca aveva utilizzato in relazione
alle ritenute estere sui flussi reddituali poi ribaltati sulla controparte dello
swap.
Premesso che la legittimità di un avviso di accertamento dipende dalla sua
corretta impostazione, anche dal punto di vista della motivazione, e il giudice
non dovrebbe occuparsi in termini più generali del rapporto tributario e che
dalla sentenza non è chiaro quale fosse l’iter motivazionale adottato
dall’Ufficio accertatore, la soluzione della controversia in termini generali
deve inquadrarsi nel complesso rapporto tra le disposizioni di cui agli artt. 1 e
165 Tuir, 37, comma 3, del d.p.r. 600 del 1973 e 37-bis del medesimo decreto
presidenziale, oltre, ritengo, all’art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997 e all’art. 89,
comma 6, tuir e infine all’art. 109 tuir per quanto concerne la deducibilità dei
costi sostenuti dalla Banca.
2 I presupposti per la concessione del credito per le imposte estere ai
sensi del Tuir e delle convenzioni contro le doppie imposizioni sul
reddito.
Prima di trattare l’aspetto relativo ai costi recuperati a tassazione dall’Ufficio,
occorre dire che, soffermandosi sulla debenza del credito per le imposte
estere vantato dalla ricorrente, la sentenza individua il nodo della questione
nella opportunità o meno di riconoscere la fruizione di tale credito nel caso in
questione per il fatto che i redditi legati alla proprietà dei titoli non erano di
fatto imputabili alla Banca, la quale sin dall’inizio si era contrattualmente
obbligata a retrocederli ad altro soggetto, ottenendo in cambio una diversa
remunerazione per il suo investimento. In linea con l’interpretazione dell’art.
3
E’ peraltro evidente che non si possono disconoscere le operazioni di un
contribuente soltanto perché in assenza di una agevolazione fiscale le stesse non
sarebbero state effettuate. Diversamente verrebbe meno proprio il senso delle
agevolazioni tributarie riconosciute dal legislatore, e di questo dà atto anche la
sentenza: v. da ultimo Cass. 10383 del 12 maggio 2011. Tuttavia, le agevolazioni
devono riconoscersi quando ne ricorrono davvero i presupposti e non invece quando
la sostanza sia diversa dalla forma. E comunque di agevolazione in senso tecnico può
parlarsi soltanto in riferimento alla prima delle tre operazioni esaminate dalla CTP di
Reggio Emilia, relativa al godimento del matching credit previsto dall’art. 23 della
Convenzione contro le doppie imposizioni sul reddito conclusa tra l’Italia e il Brasile.
Relativamente al matching credit v. OECD, Tax Sparing - A Reconsideration, Parigi,
1998.
126
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
165 tuir sino ad oggi indiscussa 4, le operazioni contestate alla Banca
prevedevano che questa fruisse del credito per le imposte estere parametrato
sui pagamenti lordi percepiti, senza tener conto dei costi sostenuti, che nel
caso di specie comprendevano i manufactured payments con cui un
ammontare pari alle cedole incassate sui titoli veniva retrocesso alla
controparte.
Le operazioni si innestavano inoltre in un contesto caratterizzato dalla
differente impostazione del sistema fiscale italiano rispetto a quello inglese,
particolarmente in relazione alla imputazione del reddito nel caso di
operazioni di pronti contro termine: da qui la possibilità che si verificassero
arbitraggi fiscali ritenuti elusivi dalla CTP di Reggio Emilia. La decisione
nega infatti la spettanza del credito ricorrendo allo strumento dell’abuso del
diritto5. Prima di valutare tale aspetto, tuttavia, pare opportuno svolgere
alcune considerazioni preliminari, in un certo senso metodologiche, per il
fatto che lo strumento dell’abuso del diritto, così come la clausola generale
antielusiva, dovrebbe concettualmente essere utilizzato soltanto quando la
fattispecie esaminata sia in tutti i sensi rispettosa della legge formale e ne
violi però lo spirito. Occorre quindi affrontare preliminarmente la questione
se, nonostante la pianificazione che aveva preceduto queste operazioni, le
stesse potessero presentare taluni aspetti di illegittimità che avrebbero potuto
essere rilevati senza scomodare il principio dell’abuso del diritto.
Non conoscendo i dettagli delle operazioni in questione, che del resto, pur
presentando taluni tratti comuni, si differenziavano tra di loro per altri aspetti
specifici, non possiamo che procedere per ipotesi.
4
V. ABI, parere n. 607 del 2000, in pareri ABI 2000.
La sentenza non tratta direttamente il tema del concorso tra disposizioni pattizie e
disposizioni domestiche antielusive: mi limito pertanto a rinviare alla dottrina che ha
trattato il tema - da ultimo e anche per i rinvii del caso: Maisto, Norme antielusive,
abuso del diritto e convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni, in G.
Maisto (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009 - e al
Commentario al Modello Ocse, secondo cui “7. The principal purpose of double
taxation conventions is to promote, by eliminating international double taxation,
exchanges of goods and services, and the movement of capital and persons. It is also a
purpose of tax conventions to prevent tax avoidance and evasion. 7.1 Taxpayers may
be tempted to abuse the tax laws of a State by exploiting the differences between
various countries’ laws. Such attempts may be countered by provisions or
jurisprudential rules that are part of the domestic law of the State concerned. Such a
State is then unlikely to agree to provisions of bilateral double taxation conventions
that would have the effect of allowing abusive transactions that would otherwise be
prevented by the provisions and rules of this kind contained in its domestic law. Also,
it will not wish to apply its bilateral conventions in a way that would have that effect.
8. It is also important to note that the extension of double taxation conventions
increases the risk of abuse by facilitating the use of artificial legal constructions aimed
at securing the benefits of both the tax advantages available under certain domestic
laws and the reliefs from tax provided for in double taxation conventions”. Il
commentario conclude quindi per l’esclusione, in termini generali, di un conflitto tra
le disposizioni antielusive domestiche e le disposizioni della convenzione (v. parr. 9.2
e ss. e 22 e ss.).
5
127
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
Presupposto fondamentale per l’ottenimento del credito d’imposta, effettivo o
nozionale che sia, è il possesso dei redditi esteri e l’assoggettamento di quei
redditi al prelievo anche nel Paese della fonte, individuato secondo le
disposizioni di cui all’art. 23 Tuir, lette a specchio.
Il possesso del reddito, come noto, è il presupposto primo e indefettibile per
l’applicazione del tributo (artt. 1 e 72, Tuir), e costituisce evidentemente una
declinazione in concreto del principio di capacità contributiva nell’ambito
dell’imposizione reddituale.
La relazione di accompagnamento al d.p.r. 597 del 1973, al riguardo,
specificava che “più che alla titolarità giuridica dei redditi, la norma intende
riferirsi alla loro materiale disponibilità da parte del soggetto d’imposta” 6.
Come chiarito dai successivi studi della dottrina, peraltro, la titolarità del
reddito non può che seguire la titolarità della fonte di produzione 7.
Nel caso di specie non si può negare che – formalmente – la titolarità
giuridica della fonte produttiva dei redditi cui si ricollegavano i crediti per le
imposte estere apparteneva alla Banca ricorrente. Il punto centrale, tuttavia,
stava nella complessità della fattispecie, posto che - per quanto si apprende
dalla motivazione della sentenza - ogni rischio e ogni beneficio economico
legato a tale fonte produttiva veniva sin da subito ribaltato, per effetto del
contratto derivato di total return swap, a favore di un terzo soggetto, secondo
lo schema tipico dei contratti derivati di copertura8. Non si può comunque
6
V. Relazione ministeriale alla Commissione parlamentare sullo schema di decreto
delegato relativo alla “Istituzione e disciplina dell’imposta sul reddito delle persone
fisiche”, in Le imposte dirette erariali, 1973, III, 137. V. anche le note introduttive a
tale relazione, pubblicate sempre in Le imposte dirette erariali del 1973, secondo cui
“più che alla titolarità giuridica dei redditi, il legislatore delegante ha inteso riferirsi
alla loro materiale disponibilità da parte del soggetto d’imposta, comprendendo nel
reddito complessivo non soltanto tutti i redditi propri del soggetto, ma anche quelli
altrui dei quali lo stesso abbia la libera disponibilità”.
7
Così Paparella, Possesso di redditi ed interposizione fittizia, Milano, 2000, pag. 157
e ancor prima Magnani, Commento all’art. 30 del DL n. 69/1989, in Le nuove leggi
civili commentate, 1990, 1247; poi, con una posizione particolare, Lovisolo, Possesso
di reddito ed interposizione di persona, in Dir. Prat. Trib., 1990, I, 1665; v. inoltre
Nussi L’imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996; Fedele,
“Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del “cumulo”, in
Giur. Cost., 1976, I, 2164; Miccinesi, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle
altre procedure concorsuali, Milano, 1992; Lupi, Usufrutto su azioni: una norma
antielusione non si può inventare, in Rass. Trib., 1995, I, 1528, Morello, Frode alla
legge, Milano, 1967; Gallo, Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusione, in
Dir. Prat. Trib., 1992, I, 1761.
8
A dire il vero non è chiarissimo se ogni tipo di beneficio e di rischio sul titolo fosse
davvero trasferito in capo alla controparte dello swap: non si comprende per esempio
su chi gravasse il rischio di insolvenza del debitore. Sul punto la CTP di Reggio
Emilia afferma che “Lo swap, più che tutelarle dall'eventuale insolvenza
dell'emittente, da rischi su cambi o sulla variazione del prezzo dei titoli, privava
radicalmente di ragione economica l'acquisto dei bond brasiliani […] nel caso che si
discute su Cr. non grava il rischio-paese, ma il rischio cedente, cioè C. Ne consegue
che Cr. non ha investito in Brasile, ma in C. Cr. quindi, non ha diritto al beneficio
convenzionale per gli investimenti effettuati in Brasile”.
128
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
trascurare che il reddito che aveva subito la ritenuta all’estero era stato
incassato dalla Banca grazie al suo acquisto a pronti delle partecipazioni e dei
titoli e che solo in un momento logicamente successivo una somma pari a tale
reddito era retrocessa alla controparte dello swap. Al riguardo, occorre
ricordare che secondo l’orientamento dottrinale prevalente è “irrilevante
qualsiasi atto di destinazione del reddito (sia volontario sia ex lege), salvo che
ad esso non consegua anche il trasferimento della fonte”. In aggiunta,
peraltro, si osservi che lo stesso art. 89, comma 6, prevede che la differenza
positiva o negativa tra il corrispettivo a pronti e quello a termine, al netto
degli interessi maturati sulle attività oggetto dell'operazione nel periodo di
durata del contratto, concorre alla formazione della base imponibile per la
quota maturata nell’esercizio; e si può agevolmente dimostrare che gli effetti
di una modulazione del prezzo di rivendita a termine possono infine essere
analoghi a quelli di uno swap per un ammontare pari alle cedole. La scelta del
legislatore nell’art. 89, comma 6, è stata tuttavia di consentire la
compensazione tra il differenziale del prezzo a termine e gli interessi
percepiti in costanza del contratto. Il fatto che parte delle cedole (rectius, un
ammontare pari alle cedole) siano quindi retrocesse via swap o differenziale
sul prezzo alla controparte non incide, per espressa previsione normativa,
sulla titolarità degli interessi (ed evidentemente degli accessori tributari,
come il credito di imposta), che permane in capo all’acquirente a pronti. Ne
consegue, salvo quanto diremo più avanti, che nonostante la sottoscrizione
dello swap la Banca era, per lo meno secondo l’accezione appena descritta,
possessore del reddito in questione. Una questione potrebbe porsi allora
sull’ammontare del credito di imposta che in questi casi occorre riconoscere
all’acquirente a pronti: ci si potrebbe infatti chiedere se non sia opportuno
ridurre l’ammontare accreditabile in misura proporzionale alla somma
retrocessa al cedente a pronti, via swap o differenziale sul prezzo. Al
momento, tuttavia, prevale come detto la condivisibile opinione contraria, per
cui il credito di imposta deve essere riconosciuto sui flussi reddituali
percepiti al lordo dei costi relativi (e la retrocessione può considerarsi
appunto come un costo per la formazione del reddito in questione, come del
resto affermato anche dalla Commissione di Reggio Emilia in relazione al
manufactured dividend)9.
Ciò detto, in riferimento alle operazioni nn. 2 e 3 esaminate dalla sentenza di
Reggio Emilia, un vaglio preliminare avrebbe dovuto valutare anche
l’effettiva spettanza del credito di imposta per le ritenute estere: se nello Stato
della fonte non si scontano ritenute perché, secondo le regole di tale Stato,
quel reddito è imputato ad altri soggetti, e nello specifico al cedente a
pronti10, infatti, si potrebbe dubitare dell’opportunità di riconoscere il credito
9
Abi, parere n. 607 del 2000, in Pareri Abi, n. 12; Mayr, La disciplina del credito di
imposta per i redditi esteri, parte I, in Boll. Trib., 2005, 749.
10
V. Foti, L’abuso del diritto tra recupero di imposta e sanzioni, in Il Torresino,
1/2011, pag. 8, il quale richiama il caso Pirelli Cable Holding, deciso dalla House of
Lords, secondo il quale in una operazione come quella in questione i dividendi e la
relativa ritenuta devono essere imputati, ai fini dell’imposta sui redditi inglese, al
cedente a pronti, mentre l’acquirente a pronti incassa un ammontare netto pari a
129
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
di imposta in Italia, a prescindere dal concorso del reddito estero alla
tassazione in base alle regole nostrane 11. In questa ipotesi, se davvero si
addivenisse a una simile soluzione, potrebbe mettersi in dubbio che possa
parlarsi di “mera” elusione di imposta, e non invece di vera e propria
evasione, perché il credito fu invocato dal contribuente nella sua
dichiarazione in assenza dei presupposti previsti dall’art. 165 tuir, e
particolarmente per l’assenza del pagamento di una imposta estera,
tantomeno a titolo definitivo.
In riferimento alla operazione sui titoli brasiliani, pur in assenza di una
ritenuta estera effettivamente applicata, si sarebbe dovuto svolgere un
analogo ragionamento, verificando se ai sensi della legislazione tributaria
locale il reddito (e la conseguente ritenuta nozionale) fossero davvero
imputabili alla Banca italiana o piuttosto alla sua controparte.
Peraltro, se anche, come probabile, non si fosse concluso nel senso che la
mera sottoscrizione del total return swap comportava tout court l’alienazione
quello dei dividendi distribuiti dalla società emittente. Analogo il contesto per
l’operazione n. 3, relativa a titoli obbligazionari inglesi, ove la ritenuta formalmente
operata nei confronti del cessionario a pronti italiano era poi riconosciuta sotto forma
di credito di imposta al cedente a pronti: a fronte di un’unica ritenuta, pertanto, si
correva il rischio di concedere due rimedi contro la doppia imposizione, il primo
previsto dall’ordinamento inglese a favore del cedente a pronti e il secondo sotto
forma di credito ex art. 165 tuir nei confronti del cessionario a pronti.
11
In materia di CFC adotta un approccio sostanzialista la circolare 51/E del 6 ottobre
2010 dell’Agenzia delle Entrate, secondo cui il livello del tax rate effettivo subito
all’estero deve essere calcolato tenendo in considerazione anche la posizione del socio
della controllata estera, “(sottoforma, ad esempio, di accreditamento al socio di tutta o
parte dell’imposta estera prelevata in capo alla società partecipata). Ciò anche nel caso
in cui si tratti di meccanismi di tax refund che la normativa locale prevede su base
generalizzata,
a
prescindere
dalla
residenza
del
socio
percettore.
In simili circostanze, infatti, la tassazione effettiva degli utili societari non può non
essere valutata considerando congiuntamente il binomio socio – società, ovvero la
posizione fiscale della società estera che li ha prodotti e quella del socio percettore”.
La circolare n. 42 del 12 dicembre 1981 chiariva del resto che “non potrà ritenersi
soddisfatta la predetta condizione, richiesta ai fini del riconoscimento della detrazione
del tributo estero, ove detto tributo sia stato pagato a titolo di acconto, in via
provvisoria oppure, in generale, se ne è previsto il conguaglio con possibilità di
rimborso totale o parziale. Sarà, ovviamente, necessario allegare alla dichiarazione dei
redditi nella quale si fa valere il diritto al credito d'imposta un'idonea documentazione
atta a comprovare la definitività del pagamento”. Sul punto v. Mayr, La disciplina del
credito di imposta per i redditi esteri, parti I, II e III, rispettivamente in Boll. Trib.,
2005, 741, 2006, 725 e 2007, 1253, nonché le altre istruzioni di prassi ivi richiamate
al par. 3.5. Stesso approccio sostanzialista parrebbe emergere dal Commentario Ocse
all’art. 23B del Modello di convenzione contro le doppie imposizioni, laddove si fa
riferimento alla “tax effectively paid” o “actually paid”. Per quanto non vi siano
indicazioni chiare, pertanto, si potrebbe anche ritenere che la restituzione della
ritenuta a soggetti pur diversi dal cessionario a pronti italiano sia idonea a
pregiudicare il requisito di definitività del pagamento richiesto ai fini
dell’accreditamento.
130
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
di fatto del cespite produttivo del reddito12, e se comunque si fosse ritenuta
come pagata l’imposta estera, prima di addentrarsi nella valutazione di
possibili profili di abuso del diritto13 occorre trattare altre due questioni e
precisamente:
1) quella della eventuale interposizione della Banca italiana nel
possesso dei titoli e
2) quella della riqualificazione giuridica delle operazioni in esame.
***
In merito al primo aspetto14, stando a quanto emerge dalla sentenza, i giudici
avrebbero forse avuto spazio per confermare la sussistenza di un accordo
trilatero che sorreggeva il tax product acquistato dalla Banca ricorrente, la
quale nello stesso istante in cui sottoscriveva l’acquisto dei titoli concludeva
anche lo swap con il terzo, appartenente al medesimo gruppo societario
dell’emittente: ciò, quantomeno, in relazione alla operazione n. 3, conclusa
dalla società controllata dalla Banca consolidante ricorrente con un soggetto
collegato all’emittente dei titoli15. La stessa sentenza sul punto accenna a una
possibile interposizione quando afferma che l’operazione “non aveva, infatti,
altro scopo che quello di permettere ad un soggetto di beneficiare
indirettamente di un credito di imposta senza che ne avesse diritto”.
Diversamente da quanto detto in riferimento al possesso del mero reddito,
infatti, qui si esamina la possibile interposizione della Banca nel possesso
della fonte produttiva (i.e. i titoli) e quindi anche del reddito; un possesso
strumentalmente collocato in capo ad essa per poi ribaltarne gli effetti
12
In effetti, per quanto vista la contestualità delle operazioni la distinzione sia sottile,
il fatto che la titolarità del reddito sia stata alienata dalla Banca per via negoziale non
fa che confermare il suo possesso del reddito, seppur solo per lo spazio di un istante:
V. Paparella, op. cit., pp. 142 e ss.
13
La Rosa, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv.
dir. trib., 2010, 931, afferma che il concetto di abuso mal si attaglia alla formazione e
all’indebito abbattimento dell’obbligazione tributaria, in quanto piuttosto relativo a
posizioni giuridiche attive, come diritti, poteri e facoltà, mentre in campo tributario è
più corretto far riferimento alla elusione degli obblighi fiscali. Sull’abuso nel diritto
tributario internazionale v. il contributo di Pistone in V. Uckmar (a cura di), Diritto
tributario internazionale, Padova, 2005, 813.
14
V. Paparella, op. cit., p. 168, secondo il quale “sono da escludere forme di
interposizione nel “possesso di redditi”, in quanto le conclusioni prospettate
consentono di affermare che l’unica interposizione rilevante è quella relativa alla
fonte”.
15
Ma simile conclusione era forse possibile anche in relazione ad altre operazioni
dove la controparte del pronti contro termine e dello swap coincidevano o erano
comunque soggetti collegati. Sulla possibilità di ricorrere alle presunzioni nell’ambito
delle contestazioni di interposizione fittizia di persona v. di recente la sentenza 4737
del 26 febbraio 2010 della Corte di Cassazione (in Corr. Trib., 2010, 1347, con nota
di Beghin), relativa al caso di una simulazione al contempo soggettiva e oggettiva
contestata ad un calciatore che era accusato di aver interposto una società irlandese
nella percezione di redditi per lo sfruttamento della sua immagine che in realtà
costituivano una integrazione del suo salario di sportivo, da tassarsi alla stregua dei
redditi di lavoro dipendente.
131
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
sull’interponente attraverso lo swap16. La questione si pone quindi in termini
diversi rispetto a quella relativa agli effetti della semplice sottoscrizione di
uno swap sul reddito di un titolo. E la differenza principale sta evidentemente
oltre che nel collegamento tra l’acquisto dei titoli e lo swap anche e
soprattutto nella pianificazione di tale complessiva operazione, pianificazione
condivisa con la controparte del pronti contro termine e dello swap e, nella
terza operazione, anche con l’emittente dei titoli, con il fine di imputare
formalmente il possesso della fonte produttiva del reddito in capo a un
soggetto che avrebbe beneficiato degli accessori fiscali relativi (i.e. del
credito di imposta), salvo poi rimanere tassato soltanto sul (minore)
differenziale percepito in base allo swap17. Diversamente dalla pura e
semplice sottoscrizione di uno swap, infatti, nel caso concreto si ipotizza che
la controparte della cessione dei titoli e quella dello swap coincidessero, e
comunque fossero compartecipi, insieme all’emittente, del disegno mirante a
far ottenere alla Banca il “vantaggio fiscale” contestato dall’Amministrazione
e alla controparte la restituzione delle ritenute inglesi. Non si hanno
chiaramente a disposizione gli elementi di fatto per emettere un giudizio su
questi aspetti nel caso specificamente esaminato dalla CTP di Reggio Emilia,
ma la motivazione lascia appunto immaginare che almeno in relazione alla
terza operazione, nonostante la separazione giuridica che occorre mantenere e
16
V. al riguardo il passo della sentenza secondo cui “Lo swap, più che tutelarle
dall'eventuale insolvenza dell'emittente, da rischi su cambi o sulla variazione del
prezzo dei titoli, privava radicalmente di ragione economica l'acquisto dei bond
brasiliani”. E parimenti importanti anche per la qualificazione dell’operazione come
abusiva, paiono i passaggi successivi, per cui “A questo punto non può non sorgere
l'interrogativo sulla ragione che ha spinto l'istituto a stipulare l'acquisto dei titoli: e la
risposta è assolutamente semplice. Se le cedole fossero state percepite direttamente da
C. questa non avrebbe avuto diritto a nessun credito d'imposta figurativo; al contrario,
solo tramite l'intervento di Cr. è stato possibile ottenere tale risultato.
Indipendentemente dalla qualificazione che dell'operazione venga data (pronti contro
termine, riporto, pegno, etc.), essa ha determinato un aggiramento della disposizione
dell'art. 165 Tuir nella misura in cui prevede che il credito d'imposta nazionale venga
concesso entro il limitedell'imposta italiana ritraibile dal reddito estero, dal momento
che l'operazione contestata ha determinato la fruizione del credito d'imposta nazionale
pur non producendo alcun effetto reddituale e quindi impositivo in Italia. L'operazione
è stata posta in essere solo per beneficiare del credito d'imposta figurativo cui C. non
aveva diritto, vista l'assenza di una Convenzione Brasile/UK. Cr. non ha effettuato
alcun investimento in Brasile, dal momento che, l'intero rischio dell'operazione nonché i connessi benefici - sono imputabili a C. Ciò che caratterizza l'investimento è
il rischio che la parte si assume: nel caso che si discute su Cr. non grava il rischiopaese, ma il rischio cedente, cioè C. Ne consegue che Cr. non ha investito in Brasile,
ma in C. Cr. quindi, non ha diritto al beneficio convenzionale per gli investimenti
effettuati in Brasile”.
17
Diverso sarebbe il caso di operazioni effettuate sul mercato e quindi con controparti
della cessione titoli e dello swap diverse e non consapevolmente compartecipi
dell’arbitraggio fiscale. In questo senso pare esprimersi Lupi, Simmetrie fiscali e
legittimità sistematica della deduzione di minusvalenze a fronte di dividendi esenti, in
Dial. Dir. Trib., 2007, 1012-1016.
132
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
ribadire tra società che fanno capo ad un unico gruppo, l’architettura
implicasse sin dall’inizio la consapevole partecipazione sia della controparte
che aveva sottoscritto il pronti termine e lo swap con la Banca, sia del
soggetto emittente18. E certamente questo varrebbe ancor di più, almeno dal
punto di vista indiziario, in quei casi ove per esempio fosse dimostrato che i
titoli portavano il pagamento di cedole cospicue, volutamente incrementate
perché in tal modo si sarebbe massimizzato il vantaggio fiscale per la
Banca19.
Anche qui, tuttavia, il discorso torna circolarmente alla effettività del
pagamento a titolo definitivo della ritenuta, perché se tale ritenuta era stata
davvero sopportata dall’acquirente a pronti egli aveva ogni diritto di godere
del relativo credito di imposta, non risolvendosi l’interposizione in alcun
vantaggio supplementare per questo soggetto (salvo quanto si dirà sulla
deduzione del manufactured dividend e, soprattutto, sui profili elusivi),
almeno sinché si ammette che il credito deve essere riconosciuto sull’imposta
applicata sul pagamento lordo e senza tener conto dei costi di produzione 20.
***
Anche nella seconda ipotesi, consistente nella riqualificazione per via
interpretativa dei contratti che, pur distinti, parevano in realtà avere una causa
unitaria (così la stessa motivazione della sentenza), si sarebbe giunti a
contestazioni di evasione fiscale e non di elusione, come del resto avviene
anche nelle fattispecie di frazionamento del contratto di cessione di azienda
per sottomettersi all’Iva ed evitare invece l’imposta di registro e
l’imposizione dell’avviamento 21.
A questo riguardo pare utile richiamare una risoluzione dell’Agenzia delle
Entrate del 24 luglio 2006 nella quale, proprio in riferimento all’acquisto a
pronti di alcune partecipazioni si concluse quanto segue. In quella occasione,
la banca italiana istante aveva acquistato a pronti presso una controparte
residente nel Regno Unito alcune partecipazioni in società americane e
18
Sulla necessità che il terzo non sia meramente consapevole del pactum fiduciae tra
l’interposto e l’interponente, ma che vi partecipi attivamente v. Paparella, op. cit.,
pagg. 275-276, anche per i richiami giurisprudenziali. Da ultimo ancora su questi
aspetti v. Cass., 4737 del 2010, cit., con nota di Beghin; in relazione alle operazioni
infragruppo, v. Fransoni, Abuso di diritto, elusione e simulazione: rapporti e
distinzioni, in Corr. Trib., 1/2011, 18-19. V. inoltre Cass., 3979 del 3 aprile 2000, in
Dir. prat. trib., 2000, II,1346, con nota di Bardinu e commentata anche da Paparella
in Banca Dati Fisconline. V. anche Lovisolo, cit.
19
Senza scendere nella valutazione di merito della congruità dei ritorni derivanti dalle
operazioni esaminate rispetto alle condizioni di mercato, stando a Foti, op. cit.,
potrebbe in effetti sembrare il caso di alcune operazioni per certi versi simili a quelle
in esame, che portavano il pagamento di cedole pari al 40/50 per cento del capitale
investito: v’è peraltro da tenere in considerazione che i rischi legati a queste
operazioni erano di varia natura, incluso quello legato alla valuta, e ciò potrebbe in
astratto giustificare cedole apparentemente più alte del normale, ma in realtà in linea
con i rischi, consistenti, della specifica operazione intrapresa.
20
V. supra nota 9.
21
La Rosa, cit.
133
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
chiedeva all’Amministrazione di poter portare in detrazione ai sensi dell’art.
165 Tuir le ritenute alla fonte del 30 per cento subite negli Stati Uniti. Si noti
che la misura della ritenuta applicata negli USA eccedeva quella applicabile
in base alla convenzione con l’Italia allora vigente (10 per cento), ma ciò era
dovuto alla impostazione americana per cui l’acquirente a pronti, benché
fosse esclusa ogni retrocessione di manufactured dividend, non poteva
considerarsi quale beneficiario effettivo dei dividendi, con la conseguenza
che non trovavano applicazione le aliquote ridotte previste dalla convenzione
contro le doppie imposizioni conclusa tra l’Italia e gli Stati Uniti 22.
L’unico credito per le imposte estere di cui la banca avrebbe potuto
beneficiare secondo l’Agenzia era quello relativo alle ritenute eventualmente
applicate in Inghilterra sul corrispettivo finanziario del pronti contro termine.
Questa interpretazione si fondava sull’art. 94, comma 2, Tuir, ai sensi del
quale, anche ai fini fiscali, il pronti contro termine deve essere considerato
alla stregua di una operazione di finanziamento, con la conseguenza che i
titoli comperati a pronti restano di proprietà del cedente a pronti.
Seguendo tale impostazione anche nel caso esaminato dalla sentenza in
commento l’operazione rilevante ai fini fiscali per la Banca sarebbe stata
quella con la controparte del pronti contro termine e non quindi lo Stato
brasiliano o le società emittenti i titoli. Ne sarebbe conseguito il
disconoscimento di ogni credito di imposta applicato sui flussi di dividendi o
interessi pagati dai titoli, posto che la fonte di tali redditi doveva piuttosto che
ai titoli ricondursi al finanziamento erogato dalla Banca alla controparte del
pronti/termine con annesso swap.
E’ evidente peraltro che tale disconoscimento non si sarebbe basato sulla
clausola generale antielusiva o analoghi principi, bensì sulla diversa
applicazione delle disposizioni tributarie alla fattispecie concreta, con quanto
ne consegue in termini di oneri procedimentali e, fatta salva l’incertezza
interpretativa, applicabilità delle sanzioni.
22
Inoltre, l’Agenzia delle Entrate rispose in quella occasione che il dividendo
percepito dalla banca italiana doveva in realtà essere considerato alla stregua degli
interessi ex art. 89, comma 6, Tuir, essendo tale reddito prodotto non tanto dalla
partecipazione nella società americana quanto piuttosto dalla operazione finanziaria
conclusa con la controparte inglese. Questa risoluzione pare tuttavia criticabile per il
fatto che nonostante dopo la riforma Ires del 2004 il sistema di tassazione dei
dividendi non fosse più improntato sull’imputation system/credito d’imposta, era
comunque vigente l’art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997, secondo il quale i dividendi
percepiti dall’acquirente a pronti dovevano essere tassati in capo allo stesso e
potevano godere del relativo credito d’imposta se ciò fosse stato applicabile anche per
il cedente a pronti: la norma aveva chiaramente lo scopo antielusivo di impedire al
cedente a pronti di ottenere comunque, indirettamente, il credito di imposta che invece
gli era negato dalla legge. V. la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 1/E del 19
gennaio 2007, par. 8, relativa all’aggiornamento dell’art. 2, comma 3, citato al nuovo
meccanismo di tassazione dei dividendi introdotto con la riforma Ires. V. anche, nel
senso della possibile sopravvivenza dell’art. 2, comma 3, citato anche dopo la riforma
Ires e prima del suo adattamento, Assonime, circ. 14 luglio 2004, n. 32, par. 6.2.
134
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
Occorre tuttavia approfondire il ragionamento sul citato art. 2, comma 3,
d.lgs. 461/1997, perché la risoluzione appena richiamata intervenne nel luglio
2006, prima quindi che la disposizione fosse aggiornata per adeguarla alla
riforma Ires e alle nuove regole di tassazione dei dividendi 23.
Si potrebbe quindi dedurre che prima dell’aggiornamento, intervenuto ad
opera del d.l. 3 ottobre 2006, n. 262, l’Agenzia ritenesse non operante l’art. 2,
comma 3, d.lgs. 461/1997, proprio in quanto obsoleto rispetto alla abolizione
del credito di imposta avvenuta con la riforma Ires 24. E d’altra parte, come
chiarito anche dalla circolare 1/E del 2007, conforterebbe questa
interpretazione l’art. 2, comma 20, del d.l. 262/2006, secondo il quale la
novella legislativa doveva applicarsi ai contratti stipulati dopo il 3 ottobre
2006. La questione tuttavia, come detto, non è pacifica, posto che il principio
che reggeva la versione dell’art. 2, comma 3, introdotto in costanza del
sistema di tassazione dei dividendi previgente la riforma del 2004 poteva
comunque ritenersi valido, mutatis mutandis, anche in relazione al nuovo
sistema di parziale esclusione dei dividendi dalla formazione della base
imponibile Ires. E non può dimenticarsi che era comunque vigente, per gli
interessi, l’art. 89, comma 6, tuir, che in relazione ai contratti di pronti contro
termine li imputa al cessionario a pronti nella misura maturata in costanza del
contratto.
Per completare le basi del ragionamento occorre infine ricordare che l’art.
7quater, comma 4, del d.l. n. 5 del 10 febbraio 2009 ha ulteriormente
modificato l’art. 2, comma 3, che oggi recita “Nel caso dei rapporti di cui
alle lettere g-bis) e g-ter) del comma 1 dell’articolo 44 del testo unico delle
imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22
dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, e delle operazioni che
producono analoghi effetti economici, al soggetto cui si imputano i dividendi,
gli interessi e gli altri proventi, si applica il regime previsto dall’articolo 89,
comma 2, del medesimo testo unico, e successive modificazioni, ovvero
spettano l’attribuzione di ritenute o il credito per imposte pagate all’estero,
soltanto se tale regime, ovvero l’attribuzione delle ritenute o il credito per
imposte pagate all’estero, sarebbe spettato al beneficiario effettivo dei
dividendi, degli interessi e degli altri proventi”. Ai sensi dell’art. 7quater del
d.l. 5/2009, peraltro, “Per le operazioni effettuate anteriormente alla data di
entrata in vigore delle modifiche apportate dal comma 4, resta ferma la
potestà dell’Amministrazione di sindacarne l’elusività fiscale secondo la
procedura di cui all’articolo 37-bis del decreto del Presidente della
Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni”.
La nuova disposizione si interessa quindi di disciplinare, oltre alla
imputazione del dividendo ai fini impositivi, anche l’imputazione degli
accessori tributari relativi a quel dividendo e pertanto ritenute e crediti di
imposta ad esso relativi, prevedendo una regola analoga a quella del primo
23
Anche per il caso in esame, riguardando esso il periodo di imposta 2004, non era
chiara la possibilità di applicare comunque l’art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997.
24
Contra v. invece come detto Assonime, circ. 32 del 2004, par. 6.2, più possibilista
in ordine alla sopravvivenza della disposizione anche prima del suo aggiornamento ad
opera del d.l. 262 del 2006.
135
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
periodo della disposizione, secondo il quale tali accessori devono imputarsi
all’acquirente a pronti, a patto che essi fossero accessibili anche al cedente a
pronti/acquirente a termine, espressamente qualificato come il beneficiario
effettivo dei dividendi. Diversamente, essendovi il rischio di manovre elusive
per lo sfruttamento di arbitraggi, crediti e ritenute non potranno essere
riconosciuti nemmeno all’acquirente a pronti, salva l’eventuale presentazione
di un interpello disapplicativo ai sensi dell’art. 37bis, comma 8, d.p.r.
600/1973.
Se il caso deciso dalla CTP di Reggio Emilia si ripresentasse oggi, pertanto,
la Banca italiana non potrebbe avvantaggiarsi del matching credit previsto
dalla convenzione Italia-Brasile, dal momento che il cedente a pronti era un
soggetto residente in Inghilterra, che mai avrebbe potuto godere di tale
credito nozionale, appunto disciplinato dalla convenzione Italia-Brasile25.
Allo stesso modo dovrebbe probabilmente rispondersi per le altre due
operazioni contestate alla Banca italiana: se esse fossero state realizzate sotto
la vigenza della nuova disposizione le sarebbero stati negati i crediti per le
ritenute (eventualmente) subite in Inghilterra in relazione a dividendi e cedole
pagati da società inglesi; la controparte del pronti contro termine, infatti,
anch’essa inglese, non avrebbe potuto utilizzare alcun credito d’imposta ai
fini della tassazione in Italia26. E allo stesso modo il dividendo avrebbe
dovuto, in linea di principio, essere tassato per l’intero, dal momento che la
controparte del pronti termine non avrebbe potuto godere dell’esclusione di
cui all’art. 89, comma 2, tuir, salvo appellarsi – nonostante la differenza del
caso - alla giurisprudenza comunitaria che ha indotto l’introduzione dell’art.
27, comma 3ter, d.p.r. 600/197327.
Come si vede, l’effetto sostanziale dell’art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997 è
infine simile a quello ottenuto con l’interpretazione dell’Agenzia delle
Entrate nell’interpello del 2006 prima citato: i componenti positivi di reddito
percepiti dalla Banca italiana devono essere tassati per l’intero (secondo
quella impostazione ai sensi dell’art. 89, comma 6, avendo essi natura
intrinseca di interessi da finanziamento, secondo questa quali dividendi che
non godono della esclusione da tassazione del 95 per cento del loro
ammontare). In un caso come quello affrontato dalla CTP di Reggio Emilia,
peraltro, questo totale concorso alla formazione della base imponibile
25
La questione non cambia oggi dopo la modifica dell’art. 83 Tuir in relazione ai
soggetti IAS, posto che anche per essi, ai sensi dell’art. 3, comma 3, d.m. 1° aprile
2009, n. 48, deve darsi prevalenza alla forma giuridica delle operazioni di pronti
contro termine e simili per quanto concerne l’attribuzione di crediti di imposta e
ritenute e che ai sensi del successivo comma 4 deve comunque applicarsi l’art. 89,
comma 6, tuir. V. Agenzia delle Entrate, circ. 7/E del 28 febbraio 2011, par. 4.4.
26
In questo senso v. Mignarri, Le novità antielusive sulle stock option e sui contratti
pronti contro termine, in Bancaria, 2007/6, 38 e in Fisconline, nonché DragonettiPiacentini-Sfondrini, Manuale di fiscalità internazionale, Milano, IVa ed., 2010, pag.
638 e Trabucchi, op. cit., 1008. Sul fatto che i rischi di elusione fiscale attraverso
contratti finanziari si annidino più che altro nelle operazioni con controparti non
residenti v. già Assonime, circ. 13 del 2006, cit., par. 3.1.2.
27
Corte di Giustizia, Commissione c. Italia, C-540/07 del 19 novembre 2009.
136
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
dovrebbe poi essere bilanciato dalla deducibilità del manufactured dividend
retrocesso alla controparte (v. infra in merito all’art. 109, comma 8, tuir)28. E
allo stesso modo nessun credito potrebbe essere riconosciuto alla Banca per
quanto concerne eventuali ritenute (effettive o nozionali) subite sui
pagamenti dei dividendi o delle cedole dei titoli acquistati a pronti, essendo
semmai possibile portare in detrazione quelle patite sugli interessi pagati in
forza del pronti termine dalla controparte di tale contratto.
Ciò detto, pur a fronte delle cospicue probabilità di arbitraggi e asimmetrie
tra gli ordinamenti, parrebbero profilarsi, a causa dell’art. 2, comma 3,
possibili contrasti con l’art. 24 del modello Ocse, che impone il divieto di
discriminazione, così come con i principi di diritto comunitario, che mal
sopportano una chiusura automatica come quella operata dal sistema
attualmente in vigore, pur fondata su esigenze di tutela della base
imponibile29.
Ad ogni modo, a parte la peculiare e discutibile presa di posizione
dell’Agenzia delle Entrate nella risoluzione del 2006 30, può dirsi in
28
Sostengono correttamente la deducibilità del manufactured dividend Assonime,
circ. 32 del 2004, cit, par. 6.2 e circ. 13 del 21 aprile 2006, oltre a Trabucchi, La
rilevanza fiscale del manufactured dividend - brevi riflessioni de jure condito e de jure
condendo, in Dialoghi di diritto tributario, 2007, 1008 e 1011, ricordando che tale
flusso reddituale è (normalmente) interamente imponibile in capo al percettore. V. in
particolare la circ. 13 del 2006 cit. alla nota 81 per una critica all’art. 109, comma 8,
tuir.
29
Avanza dubbi di compatibilità con il diritto UE Trabucchi, op. cit., 1008. In ambito
Iva una conclusione per la legittimità delle operazioni – effettivamente realizzate –
che sfruttano la mancata completa armonizzazione degli ordinamenti Iva dei Paesi UE
è stata raggiunta dalla Corte di Giustizia con le sentenze del 22 dicembre 2010, C277/09, RBS Deutschland Holdings e 103/09, Weald Leasing Ltd. Al riguardo rinvio a
Zizzo, L’elusione tra ordinamento nazionale ed ordinamento comunitario: definizioni
a confronto e prospettive di coordinamento, in Maisto (a cura di), Elusione ed abuso
del diritto tributario, Milano, 2009. In tema di arbitraggi fiscali e loro legittimità nel
contesto internazionale v. da ultimo Manca, L’arbitraggio fiscale internazionale e
l’ordinamento italiano, in Dir. prat. trib. int., 2010/3, 1233.
30
Discutibile non perché irragionevole in assoluto, ma perché contraria
all’impostazione del sistema tributario risultante dall’art. 89, comma 6, tuir (pur
relativo ai soli interessi) e dall’art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997 (pur bisognoso, a quel
tempo, di aggiornamento alla riforma Ires): impostazione di sistema poi “confermata”
a partire dal 3 ottobre 2006, dal nuovo art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997; si tenga
inoltre presente, sempre in questo senso, che l’art. 7quater, comma 4, del d.l. 5/2009
ha ribadito che anche per il passato i crediti e le ritenute dovevano imputarsi
all’acquirente a pronti, salvo il sindacato di elusività dell’operazione. Una questione
potrebbe sorgere su quanto a ritroso il legislatore abbia inteso estendere (rectius,
confermare) il suddetto sindacato di elusività: in particolare, ci si potrebbe domandare
se il periodo tra il 2004 e la novella del 2006 sia ricompreso nella conferma di
sindacabilità elusiva o invece non vi si sottragga, perché in tale periodo il sistema
doveva intendersi fondato su un regime di qualificazione giuridica delle operazioni di
pronti contro termini come quello delineato dalla descritta risoluzione dell’Agenzia
delle Entrate del luglio 2006. Ritengo peraltro che ciò sia da escludere alla luce del
contesto normativo complessivo, vista anche la pur tardiva conferma nel 2006
137
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
conclusione che il sistema già allora prevedesse l’imputazione di redditi e
crediti di imposta all’acquirente a pronti, escludendo riqualificazioni come
quella operata nella citata risoluzione.
Come detto, peraltro, la novella ha fatto salva l’applicazione della
disposizione antielusiva di cui all’art. 37bis per le fattispecie pregresse.
Questo inciso inserito dal legislatore stesso induce quindi a considerare
davvero soggette al sindacato di elusività – una volta esaurite le verifiche
preliminari di cui sopra - anche le operazioni in questione, relative al periodo
di imposta 2004, se lo stesso legislatore ha insistito nel precisare che
eventuali manovre tese ad attribuire all’acquirente a pronti crediti e ritenute
non spettanti al cedente a pronti potevano già essere attaccate
dall’Amministrazione con l’art. 37bis31 32.
Occorre infatti rimarcare che il punto centrale dell’art. 2, comma 3, d.lgs.
461/1997 consiste nel ribadire che, nonostante la causa di finanziamento del
pronti contro termine e di contratti analoghi e nonostante l’irrilevanza della
cessione ai fini della tassazione (art. 94, comma 2, tuir), i dividendi devono
essere imputati fiscalmente al cessionario a pronti, nonostante egli non ne sia
l’effettivo beneficiario, come confermato dalla versione della disposizione
risultante dalla modifica del 200933. Questa scelta si giustifica con il sistema
di tassazione “formalistica” dei dividendi, che volta per volta e per cassa sono
tassati in capo al socio che detiene, allo stacco della cedola, la partecipazione,
a prescindere – in linea di principio - da eventuali obblighi di retrocessione
del manufactured dividend. Quando il caso concreto si presti a possibili
arbitraggi, per via del diverso trattamento applicabile al cedente a pronti
rispetto a quello previsto per l’acquirente, entra oggi in funzione la
dell’impianto dell’art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997, nei tratti essenziali che già lo
caratterizzavano fino alla riforma Ires del 2004.
31
Sulla cautela che deve guidare il giudice nell’applicazione della clausola antielusiva
v. da ultimo Cass., 21 gennaio 2011, n. 1372, ove peraltro anche un accenno alla
distinzione tra le operazioni di riorganizzazione societaria e aziendale (da rispettarsi
maggiormente) rispetto a quelle puramente finanziarie: la sentenza è pubblicata con il
commento critico di Stevanato in Corr. Trib., 9/2011, 673 e ss.
32
Al riguardo v. di recente la circolare 32/E dell’8 luglio 2011, secondo la quale, in
relazione alle istanze di rimborso connesse all’applicazione della ritenuta ridotta sui
dividendi ai sensi dell’art. 27, comma 3ter, d.p.r. 600/1973, “La seconda fattispecie
[di costruzione di puro artificio] attiene al caso in cui la società percettrice dei
dividendi abbia acquistato il titolo, da cui i medesimi dividendi provengono, tramite
operazioni di trasferimento temporaneo consistenti nell’acquisto delle azioni cum
cedola e nella successiva retrocessione delle medesime azioni ex cedola e,
esplicitamente o implicitamente, dei relativi frutti (manufactured dividend) a
vantaggio di una identificata controparte non legittimata a godere del trattamento
fiscale dei dividendi intracomunitari. Nel caso in cui emergano i suddetti elementi, si
procederà al disconoscimento della condizione oggettiva di accoglimento dell’istanza
sulla base dell’interesse generale a contrastare le frodi fiscali”.
33
Nello stesso senso si v. anche la relazione governativa al d.lgs. 416/1994; la
risoluzione del Ministero delle finanze, n. 306/E del 23 dicembre 1996; le istruzioni
alla dichiarazione dei redditi emanate a partire dal 1994; la relazione governativa al
d.lgs. 461/1997 e la già citata circolare 1/E del 2007 dell’Agenzia delle Entrate.
138
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
disposizione antielusiva specifica, che nega l’esclusione da tassazione del
dividendo e la fruizione dei crediti per le imposte pagate all’estero. La
disciplina ordinaria, invece, leggendo a contrario l’articolo 2, comma 3,
prevede che dividendi crediti e ritenute siano imputati proprio all’acquirente
a pronti, e ciò anche per le fattispecie pregresse.
Di qui la necessità avvertita dal legislatore, in assenza di valide ragioni
economiche, di ricorrere – per il passato – piuttosto che a una riqualificazione
della operazione alla stregua di quanto effettuato dalla risoluzione 24 luglio
200634, alla clausola antielusiva di cui all’art. 37bis35, a torto ritenuta già in
astratto inapplicabile dal collegio reggiano perché i contratti derivati di swap
non rientrerebbero tra le operazioni suscettibili di contestazione in quanto
estranei all’art. 67, comma 1, lett. c-ter, Tuir. Dimentica infatti il Collegio
giudicante che la lettera f) dell’art. 37-bis, comma 3, si riferisce alle
operazioni aventi ad oggetto i beni e i rapporti di cui all’art. 67, comma 1,
lettere da c) a c-quinquies), del testo unico, e quindi a tutti i derivati, ivi
inclusi anche gli swap, e alle cessioni di partecipazioni e titoli, anche in
dipendenza di contratti a termine.
Qui si apre però il tema della applicabilità della clausola antielusiva anche
agli arbitraggi internazionali. Sulla possibilità di ricorrere al principio
generale dell’abuso del diritto per sbarrare la strada agli arbitraggi fiscali
internazionali, infatti, potrebbero sorgere legittimi dubbi a seguito di quanto,
pur in ambito Iva, statuito dalla Corte di Giustizia nelle sentenze del 22
dicembre scorso36. Sin tanto che permane una distinzione tra sistemi tributari
che non sono minimamente armonizzati, infatti, si potrebbe anche sostenere
che gli effetti tributari ottenuti in un Paese non dovrebbero influenzare la
valutazione della legittimità di una operazione ai fini dell’altro sistema
tributario37. La lettera della norma non lascia tuttavia lo spazio per tracciare
una distinzione tra arbitraggi domestici e internazionali.
E arriviamo quindi alla valutazione di elusività delle operazioni in esame. La
questione sorge nella misura in cui da un lato si consideri come assolta in via
definitiva l’imposta estera agli effetti dell’art. 165 tuir e dall’altro risulti che
la controparte del pronti termine beneficiava di uno speculare rimedio contro
la doppia imposizione: in questo caso, effettivamente, saremmo di fronte a un
arbitraggio fiscale internazionale.
Discorso solo in parte diverso vale per l’operazione n. 1, ove già ab origine il
sistema brasiliano non prevedeva l’applicazione di ritenute e il matching
credit avrebbe potuto essere goduto soltanto da un residente italiano in base
34
Questa possibilità di riqualificazione è infatti smentita proprio dal nuovo art. 2,
comma 3, d.lgs. 461/1997, che conferma l’imputazione delle cedole al cessionario a
pronti, confermandone anche la natura (di dividendi o interessi, a seconda dei casi).
35
Si noti la tempistica dell’introduzione dell’art. 7quater, comma 4, citato, che segue
di poco l’accertamento di pratiche simili a quelle in esame: v. supra sub nota 2. La
disposizione è stata introdotta con d.l. 10 febbraio 2009, n. 5.
36
V. supra nota 29.
37
Con riferimento alla rilevanza del pagamento delle imposte estere per l’art. 37bis, v.
Ludovici, La rilevanza dei tributi esteri ai fini dell’art. 37bis del d.p.r. 600/1973, in
Maisto (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009.
139
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
alla convenzione bilaterale Italia-Brasile. Non risulta infatti dalla decisione se
il Brasile considerasse davvero la Banca italiana quale beneficiario effettivo
degli interessi e se pertanto la stessa potesse a buon diritto reclamare il tax
sparing credit convenzionale: ove così non fosse, un’altra volta, il
contribuente avrebbe illegittimamente reclamato il credito d’imposta. Ipotesi
di routing simili a quelle della fattispecie relativa ai titoli brasiliani sono
peraltro state oggetto di attenzione anche nel citato Rapporto Ocse sul tax
sparing del 1998. In relazione ad esse, in effetti, anche ove fosse confermata
la spettanza formale del matching credit parrebbe doversi confermare la
possibilità di attuazione di un sindacato antielusivo, tanto più stringente nel
momento in cui si valuti la legittimità di operazioni finanziarie 38.
In tutti e tre i casi, il profilo più discutibile delle operazioni in esame è stato
comunque quello di giocare sulla rilevanza del pagamento lordo ai fini del
credito per le imposte estere, effettivo o nozionale, unitamente, per le
operazioni nn. 2 e 3, al recupero della ritenuta estera in capo alla controparte:
lì ha colpito la contestazione di elusività mossa dall’Amministrazione,
facendo leva sulla pianificazione dell’operazione, sulla consapevole
partecipazione da parte della Banca italiana e sulla contestualità
dell’operazione attiva e di quella che abbatteva il reddito imponibile in Italia.
3 Sulla negata deduzione del manufactured payment
Quanto alla negata deduzione dei costi sostenuti dalla Banca in dipendenza
dei contratti in questione, consistenti nella retrocessione alla controparte
inglese del manufactured dividend e del manufactured interest, la
Commissione ha condiviso l’impostazione dell’avviso impugnato, basandosi,
per il manufactured dividend, sull’art. 109, comma 8, tuir e per il
manufactured interest sul difetto di inerenza.
Per le operazioni su partecipazioni, la soluzione si è fondata
sull’equiparazione dell’assetto contrattuale stabilito dalle parti con il pronti
termine e lo swap a quello di un diritto analogo al diritto di usufrutto,
espressione utilizzata proprio dall’art. 109, comma 8.
In dottrina si è sostenuto che questa disposizione dovrebbe essere utilizzata
per impedire il verificarsi di arbitraggi fiscali, precisando però che tali
arbitraggi dovrebbero essere quelli tra la posizione fiscale del cedente le
partecipazioni, eventualmente avvantaggiatosi del regime PEX, e quella
dell’acquirente a pronti/usufruttuario che porterebbe in deduzione il costo del
diritto in questione.
L’Agenzia delle Entrate ha invece chiarito che “la limitazione alla
deducibilità del costo del diritto di usufrutto non si rende applicabile
nell’ipotesi in cui la cessione del diritto di usufrutto o di altro diritto analogo
non comporti anche il trasferimento della titolarità dei dividendi agli effetti
fiscali” (circ. 26/E del 16 giugno 2004), con ciò ribadendo che la
indeducibilità, come da lettera della disposizione, è collegata alla parziale
esclusione dal prelievo sugli utili, e non al regime applicabile al cedente.
38
In tal senso, come detto sub nota 32, Cass., 1372/2011, cit.
140
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
Nel caso di specie il costo da sterilizzare ai fini fiscali è stato considerato
essere il manufactured payment, perché senza tale restituzione giammai la
controparte avrebbe acconsentito all’operazione. Non si comprende in realtà,
nel caso in commento, se il diniego della deduzione fosse ancorato al fatto
che i dividendi avevano concorso solo in parte alla tassazione italiana per
effetto dell’art. 89, commi 2 e 3, tuir, ovvero al fatto che il manufactured
dividend non fosse poi tassato nel Regno Unito. Ricorrevano infatti entrambe
le condizioni.
Più che alla solo parziale concorrenza a tassazione dei dividendi percepiti
dalla banca, però, l’asimmetria, come sottolineato dalla dottrina 39,
sembrerebbe doversi riferire alla mancata tassazione del manufactured
payment nelle mani della controparte, dal momento che la legislazione
inglese considerava questo pagamento alla stessa stregua del dividendo, già
da subito imputabile alla controparte inglese della banca italiana 40. Tant’è,
però, il testo dell’art. 109, comma 8, è chiaro e difficilmente si potrà indurne
una interpretazione differente, vista anche la analogia della ratio antielusiva
di questa disposizione rispetto a quelle di cui ai commi 3bis e ss., che
sterilizzano le operazioni di dividend washing41.
Ancorare la indeducibilità del manufactured payment alla solo parziale
concorrenza a tassazione del dividendo sottolinea comunque una
contraddizione in relazione alla – parimenti negata – deduzione del
manufactured interest. Applicare l’art. 109, comma 8, infatti, pare
confermare implicitamente l’inerenza del costo/manufactured dividend,
connesso appunto alla percezione di utili parzialmente esclusi dal prelievo e
pertanto, in assenza della disposizione in esame, deducibile. Come si può
allora, in relazione a titoli obbligazionari che però sono oggetto della
medesima tipologia di operazioni, negare che il manufactured interest
retrocesso alla controparte sia inerente? In queste ipotesi, in cui in primo
luogo gli interessi maturati in capo alla banca italiana sono stati tassati in
Italia per l’intero ai sensi dell’art. 89, comma 6, tuir e in secondo luogo il
manufactured interest sarà con ogni probabilità comunque tassato anche
all’estero non è corretto negare la deduzione alla banca italiana, anche alla
luce del già richiamato divieto di discriminazione. Laddove si potessero
realizzare, nel caso concreto, arbitraggi fiscali (per esempio legati allo
sfasamento tra maturazione ex art. 89, comma 6, e pagamento degli interessi),
sarà eventualmente opportuno azionare la clausola antielusiva, piuttosto che
affidarsi al difetto di inerenza.
39
V. Assonime, circ. 32 del 2004, par. 6.2, cit. e Trabucchi, op. cit.
Sulla disciplina fiscale dei manufactured payments nel Regno Unito v.
Manufactured Payments Guidance Notes su www.hmrc.gov.uk/mpgn/index.htm; v.
inoltre Foti, op. cit.
41
V. Pacieri-Trabucchi-Lupi, Compravendite di azioni, derivati di copertura ed
elusione fiscale sul cd. “dividend washing”, in Dial. Dir. Trib., 2007, 981.
40
141
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
4 Sulla applicabilità delle sanzioni
Sebbene la Commissione abbia ritenuto che nel caso di specie la natura
professionale del contribuente e la dettagliata ricerca di un sistema per
sottrarsi al pagamento della “giusta” imposta sostenessero l’applicazione
delle sanzioni42, è noto che secondo taluni l’unica rettifica conseguente alla
contestazione dell’elusione fiscale/abuso del diritto debba essere quella sui
tributi aggirati, senza invece poter applicare alcuna sanzione. Questa
impostazione, accolta con diverse sfumature anche da giudici supremi 43 e
propugnata in dottrina44, si fonda sul fatto che l’elusione fiscale non
comporta una violazione diretta del precetto normativo, ma soltanto un suo
aggiramento, talché il principio di capacità contributiva e di eguaglianza
impongono il ristoro della situazione che si sarebbe avuta in assenza
dell’aggiramento. Non potrebbero invece, in assenza di violazioni, applicarsi
42
Anche la CTP di Genova, sez. 13, 24 marzo 2011, n. 133 ha confermato in un caso
analogo a quello in esame, l’applicabilità delle sanzioni, nonostante la contestazione si
basasse sull’abuso del diritto.
43
La Corte di Giustizia, nella sentenza 21 febbraio 2006, C-255/02, Halifax, al
paragrafo 93, ha chiarito che «occorre altresì ricordare che la constatazione
dell’esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre a una sanzione, per la
quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco, bensì e
semplicemente a un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni
dell’Iva assolta a monte (...)». Al successivo punto 94 la sentenza Halifax ha quindi
aggiunto: «ne discende che operazioni implicate in un comportamento abusivo
devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita
senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato». Analoghe affermazioni
si ritrovano anche al punto 56 di un’altra sentenza della Corte di Giustizia, la sentenza
14 dicembre 2000, C-110/99, Emsland-Stärke, richiamata dalla stessa sentenza
Halifax: affermano i Giudici comunitari che «contrariamente a quanto affermato
dalla Emsland-Stärke, l'obbligo di rimborsare le restituzioni percepite, qualora
l'esistenza dei due elementi costitutivi di una pratica abusiva venisse confermata, non
violerebbe il principio di legalità. Infatti, l'obbligo di rimborso non costituirebbe una
sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento giuridico chiaro e non
ambiguo, bensì la semplice conseguenza della constatazione che le condizioni
richieste per l'ottenimento del beneficio derivante dalla normativa comunitaria sono
state create artificiosamente, rendendo indebite le restituzioni concesse e
giustificando, di conseguenza, l'obbligo di restituzione». L’Agenzia delle Entrate ha
fatto propri i principi espressi da questa giurisprudenza nella circolare 13 dicembre
2007, n. 67.
La Corte di Cassazione, invece, non si è sinora espressa nei perentori termini adottati
dalla Corte di Giustizia, e ha preferito per il momento limitarsi a disapplicare le
sanzioni per il ricorrere, nei casi di contestazioni basate sull’abuso del diritto, di
obiettive condizioni di incertezza interpretativa (Cass., 25 maggio 2009, n. 12042, in
Giust. civ., 2010, 6, I, 1460). Nonostante in termini estremamente sintetici, peraltro,
Cass., 19 maggio 2010, n. 12249, parrebbe ammettere l’applicazione delle sanzioni
anche in relazione a fattispecie elusive, così come, pur in relazione a un processo
penale e a un provvedimento cautelare, Cass., sez. III pen., 26723 del 7 luglio 2011.
44
V. Maisto (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, e in
particolare il contributo di Mucciarelli, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie
incriminatrici.
142
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
le sanzioni. Ciò in forza del principio di legalità, ispirato dal diritto penale,
cui si rifà l’odierno sistema sanzionatorio tributario. E anche il legislatore
tributario pare orientato in questo senso, quando nell’art. 3 del d.lgs. 472 del
1997 afferma che “nessuno può essere assoggettato a sanzione se non in forza
di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione” e
nell’art. 2 del medesimo decreto che “le sanzioni amministrative previste per
la violazione di norme tributarie sono la sanzione pecuniaria, consistente nel
pagamento di una somma di denaro, e le sanzioni accessorie, indicate nell’art.
21, che possono essere irrogate solo nei casi espressamente previsti” (enfasi
aggiunta). E si noti che proprio la Relazione di accompagnamento al d.lgs.
358 del 1997 che introdusse la clausola antielusiva di cui all’art. 37bis d.p.r.
600/1973 afferma che “l’elusione avviene nel rispetto della normativa
vigente, senza che il contribuente si sottragga agli obblighi di comunicazione
e di documentazione di volta in volta previsti (dichiarazione, emissione di
documenti, loro conservazione, eccetera). Il concetto di “fraudolenza” 45 è
quindi fonte di incertezza tra una concezione “penalistica”, sostanzialmente
vanificatrice della norma, e diverse concezioni tributaristiche (fatte proprie
anche dal Se.C.I.T.), su cui peraltro la norma non forniva sufficienti
indicazioni. E’ stato quindi ritenuto opportuno sostituire l’avverbio
“fraudolentemente” con espressioni che rendano meglio il nucleo essenziale
dei comportamenti elusivi, cioè l’utilizzazione di scappatoie formalmente
legittime allo scopo di aggirare regimi fiscali tipici ottenendo vantaggi che
ordinariamente il sistema non consente e indirettamente disapprova: è solo
sotto questo particolare profilo che tali vantaggi possono ritenersi “indebiti”,
espressione che - nel contesto di una norma antielusione e correlata con il
resto di tali disposizioni – non può certo riferirsi a comportamenti
esplicitamente vietati dall’ordinamento, per contrastare i quali non c’è certo
bisogno di norme di questo tipo”. Tanto è vero questo che lo stesso articolo
37bis si riferisce unicamente alle maggiori imposte accertate, senza mai
menzionare la possibilità che dalla sua applicazione consegua l’irrogazione di
sanzioni.
E’ evidente peraltro che se la sentenza si fosse basata su un impianto
motivazionale legato alla evasione d’imposta piuttosto che alla elusione la
questione non si sarebbe nemmeno posta, essendo ovvia in tal caso l’astratta
applicabilità delle sanzioni46. Laddove tuttavia le ritenute estere fossero
45
Previsto dalla precedente norma antielusiva contenuta nell’art. 10 della legge 408
del 1990.
46
Nelle more della pubblicazione di questo commento, peraltro, la Cassazione è
intervenuta sulla questione con la sentenza n. 25537 del 30 novembre 2011, secondo
cui “E' nota la esistenza in dottrina di una tesi secondo la quale l'art. 37 bis collocato
peraltro nel D.P.R. n. 600 del 1973, nel titolo dedicato ad "accertamenti e controlli" ha
natura meramente procedimentale e che pertanto, assumendo che il precetto
normativo riguardi solo la Amministrazione, la quale "disconosce" gli atti elusivi
dichiarati alla stessa non opponibili dell'art. 1, comma 1, del citato art. 37 bis, porta
alla conclusione che il contribuente non abbia alcun obbligo giuridico di non esporre
nella dichiarazione dei redditi dati tratti da operazioni suscettibili di essere considerate
elusive, in quanto ciò non comporta alcuna violazione specifica di norme tributarie,
143
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
consistendo la elusione in un "aggiramento" e non in una infrazione espressa del
precetto di legge. Da tale lettura normativa discende che la dichiarazione dei redditi
del soggetto che pone in essere operazioni elusive non può considerarsi infedele, per
cui l'unica conseguenza prevista dall'art. 37 bis sarebbe il disconoscimento del
vantaggio fiscale cui consegue la tassazione "determinata in base alle disposizioni
eluse" (art. 37 bis, comma 2 cit.) e non la applicazione di sanzioni, per le quali,
vigendo il principio di stretta legalità tratto dalla normativa in materia penale (D.P.R.
n. 472 del 1997) è necessaria una norma che espressamente la preveda. Tale ultima
considerazione, certamente condivisibile, porta ad escludere che una sanzione
amministrativa in materia tributaria possa essere applicata a fronte della violazione
non di una precisa diposizione di legge ma di un principio generale, quale quello
antielusivo ritenuto immanente al sistema anche anteriormente alla introduzione di
una normativa specifica, come ritenuto da questa Corte (Cass. Sez. Un. n. 30055 del
2008) e dalla giurisprudenza comunitaria. A proposito della quale può rammentarsi
che la sentenza "Halifax" citata dalla ricorrente dichiara espressamente che "la
constatazione della esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre ad una
sanzione per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco".
Ad avviso della Corte, tale fondamento normativo "chiaro ed univoco" è attualmente
esistente. L'art. 37 bis più volte citato prevede che la Amministrazione, in
applicazione del disconoscimento del vantaggio fiscale ritenuto frutto di operazioni
elusive, emetta avviso di accertamento, per cui prevede una speciale procedura ed un
preciso obbligo motivazionale in relazione al criterio di calcolo delle maggiori
imposte. Quanto alle conseguenze di tale atto, il d.lgs. n. 471 del 1997, art. 1, comma
2, recita: "se nella dichiarazione è indicato, ai fini delle singole imposte, un reddito
imponibile inferiore a quello accertato, o, comunque, un'imposta inferiore a quella
dovuta o un credito superiore a quello spettante, si applica la sanzione amministrativa
dal cento al duecento per cento della maggior imposta o della differenza del credito.
La stessa sanzione si applica se nella dichiarazione sono esposte indebite detrazioni
d'imposta ovvero indebite deduzioni dall'imponibile, anche se esse sono state
attribuite in sede di ritenuta alla fonte". Da tale disposizione si evince che la legge non
considera per la applicazione delle sanzioni quale criterio scriminante la violazione
della legge o la sua elusione o aggiramento, essendo necessario e sufficiente che le
voci di reddito evidenziate nella dichiarazione siano inferiori a quelle accertate o
siano "indebite" aggettivo espressamente menzionato nell'art. 37 bis, comma 1 cit. In
sostanza le sanzioni si applicano per il solo fatto che la dichiarazione del contribuente
sia difforme rispetto all'accertamento. Tale conclusione è rafforzata dal testo del
comma 6 della stessa disposizione, che prevede che le maggiori imposte accertate
siano iscritte a ruolo "secondo i criteri di cui al d.lgs. n. 546 del 1992, art. 68,
concernente il pagamento dei tributi e delle sanzioni pecuniarie in corso di giudizio"
rendendo così evidente che il legislatore ritiene la applicazione di sanzioni come
effetto naturale dell'esito dell'accertamento in materia di atti elusivi. Presupposto di
detta applicazione è il dato non contestato della diretta applicabilità alla fattispecie
dell'art. 37 bis in relazione all'oggetto dell'accertamento (fusioni societarie, cessioni di
quote, minusvalenze e plusvalenze)”.
In ambito penale, inoltre, si v. Cass., 26723 del 7 luglio 2011 e 7739 del 28 febbraio
2012, per cui l’elusione fiscale può assumere, a certe condizioni, rilevanza anche
penale: v. Marcheselli, Numerosi e concreti ostacoli si contrappongono alla punibilità
di elusione fiscale e abuso del diritto, in Giur. Trib., 2011, 852; De Mita, Il reato
resta l’evasione non l’elusione, in Il Sole24Ore, 21 luglio 2011; Corso, Una elusiva
sentenza della Corte di Cassazione sulla rilevanza penale dell’elusione, in Corr.
144
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
davvero state pagate a titolo definitivo, non solo l’applicazione delle
sanzioni, ma anche il diniego del credito di imposta non sarebbero fondati,
non essendosi realizzato alcun vantaggio indebito per la Banca.
5 Conclusioni
L’analisi della sentenza in esame induce a riflettere sul concorso di
motivazioni che talvolta sorregge le rettifiche operate dai verificatori e le
decisioni dei giudici.
Sebbene volti a rafforzare la intima convinzione dei verificatori per cui
operazioni come quelle esaminate devono essere contrastate, questi passaggi
rischiano tuttavia di divenire controproducenti per la stessa Agenzia delle
Entrate, che già oggi in diverse occasioni muove contestazioni basate su
motivazioni concorrenti di violazione di specifiche disposizioni tributarie e
comunque abuso del diritto/elusione fiscale ex art. 37bis. Oltre che in una
minor chiarezza della motivazione – a volte tale da comportare la nullità
dell’atto47 - una motivazione tale impone agli Uffici una serie di gravami
procedimentali, previsti dall’art. 37bis e invocati anche nel caso di specie
dalla Banca ricorrente, ma probabilmente necessari anche nei casi di
contestazioni basate sull’abuso del diritto di matrice costituzionale, non
ultima l’impossibilità di procedere a riscossione frazionata in pendenza del
giudizio di primo grado.
Si è invece del parere che il primo metro di valutazione delle operazioni poste
in essere dal contribuente deve essere il rispetto della legge tout court e
quindi il verificarsi di una sua violazione diretta.
In sostanza, la disamina del caso da parte della CTP avrebbe dovuto prendere
le mosse dalla verifica dell’effettiva applicazione del prelievo estero nei
confronti del contribuente che voleva avvantaggiarsi del credito di imposta ai
sensi dell’art. 165 tuir. Superato questo esame, laddove l’operazione
contrastasse in concreto con lo spirito della legge tributaria, allora sì, sarebbe
stato giustificato il ricorso alla clausola antielusiva dell’art. 37bis. Il
preminente elemento abusivo delle operazioni esaminate pare essere stato lo
sfruttamento della rilevanza del flusso reddituale lordo ai fini del credito,
effettivo o nozionale, per le imposte estere, unitamente al recupero della
ritenuta estera da parte del cedente a pronti inglese.
Trib., 2012, 1074; Id., Abuso del diritto in materia penale: verso il tramonto del
principio di legalità?, in Corr. Trib., 2011, 2937.
Sempre la CTP di Reggio Emilia, con sentenza n. 135 del 26 marzo 2012, in relazione
a un caso di stock lending, ha recentemente annullato l’atto di irrogazione sanzioni
che l’Agenzia delle Entrate aveva notificato a un consulente di un contribuente che
aveva effettuato un’operazione ritenuta elusiva. Il testo in formato PDF della sentenza
è reperibile sul sito del Sole24Ore nella sezione Norme e Tributi/ Documenti.
47
V. Cass., 30 novembre 2009, n. 25197, in Fisconline, secondo la quale un avviso di
accertamento basato su una motivazione alternativa è nullo. In quel caso, peraltro, la
motivazione dell’avviso sul quale si è espressa la Cassazione non era solo alternativa,
ma addirittura contraddittoria.
145
LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE
L’operazione sui titoli brasiliani presenta aspetti similari, salvo il recupero
della ritenuta estera, mai subita: si tratta certamente di un aspetto delicato, ma
come nel caso di specie, caratterizzato ab origine dalla coincidenza delle
controparti e da una probabile pianificazione, gli stessi effetti possono essere
realizzati sul mercato in operazioni segmentate e con controparti diverse,
rendendo la contestazione di elusione da parte dell’Amministrazione assai più
ardua.
Il rigetto del ricorso fa perno sull’elusione fiscale, ma considera in maniera
non del tutto convincente comunque applicabili le sanzioni, toccando un tema
molto delicato e che sicuramente vedrà ulteriori interventi giurisprudenziali 48.
E’ chiaro però che se la contestazione dell’Agenzia delle Entrate e il rigetto
del ricorso si fossero basati semplicemente sulla violazione di legge per
carenza dei presupposti di cui all’art. 165 Tuir, simili considerazioni
sarebbero state superflue, essendo pacifico trattarsi di fenomeni di evasione e
non di elusione fiscale. Può essere peraltro che la strada dell’abuso del diritto
sia parsa la più sicura per bocciare operazioni dal sapore indigesto49.
.
48
E infatti, nelle more della pubblicazione di questo commento sono intervenute le
decisioni di cui alla nota 46.
49
In questo senso, in termini più generali, Fransoni, Abuso di diritto, elusione e
simulazione: rapporti e distinzioni, in Corr. Trib., 1/2011, 13. Anche la Cassazione,
peraltro, ultimamente si è lasciata sfuggire riferimenti all’abuso del diritto
relativamente a fattispecie da valutarsi più correttamente secondo la disciplina
dell’interposizione fittizia di persona: v. Cass., 26 febbraio 2010, n. 4737, in Corr.
Trib., 2010, 1346, con nota di Beghin.
146
Prof. Adriano Di Pietro
Professore Alma Mater Studiorum Università di Bologna
Abuso del diritto in materia tributaria: profili comparati
.
La relazione sarà inserita nel sito www.uckmar.net
Avv. Thomas Fox
Avvocato (München)
L’abuso del diritto nell’ordinamento tedesco
Il caso della normativa anti treaty shopping
SOMMARIO: 1 Premessa: Normative antielusione nell’ordinamento tedesco 1.1 La norma generale antiabuso - 1.2. - Normative specifiche antiabuso - 2
Sviluppi della norma anti treaty shopping - 3 Elementi fondamentali della
norma anti treaty shopping - 3.1 Aspetti generali - 3.2. Dettagli applicativi 4 Conclusione.
1 Premessa: Normative antielusione nell’ordinamento tedesco.
Con effetto dal 1° gennaio 2012è entrata in vigore una nuova struttura della
norma anti treaty shopping dell’ordinamento tedesco, ovvero il § 50d, comma
3 dell’ Einkommensteuergesetz (EStG). Prima di analizzare la nuova
disposizione, insieme alla relativa circolare ministeriale del 24 gennaio 2012,
è a mio avviso utile e opportuno ricordare come l’ordinamento tedesco
fronteggia l’abuso del dirittoe l’elusione fiscale in un contesto più generale.
1.1. – La norma generale antiabuso.
Come noto, da oramai quasi 100 anni l’ordinamento tributario tedesco
prevede una clausola generale antielusione 1. Tale clausola generale fu
introdotta nella Reichsabgabenordnung nel 1919 a seguito del caso Mitropa,
nel quale il Reichsfinanzhof aveva assunto la posizione che in assenza di
clausole speciali o generali antielusione non fosse possibile giungere a una
tassazione del negozio elusivo. Nel contesto dell’introduzione della clausola
generale venivano introdotte anche due altre norme importanti nel contesto
antielusivo, ovvero le disposizioni relative all’interpretazione economica
(wirtschaftliche Betrachtungsweise) e al negozio simulato (Scheingeschäft).
Queste disposizioni –recepite (con qualche modifica) nella Abgabenordnungnel 1977 – costituiscono ancora oggi gli strumenti legislativi di base
in merito all’elusione fiscale.
Dalla sua introduzione, la norma generale antielusione ha subito una serie di
modifiche, anche per adattare la norma ai frequenti interventi della
giurisprudenza. Tale giurisprudenza assume la presenza di un abuso ai sensi
del § 42 AO quando il contribuente sceglie una forma giuridica che – in
relazione allo scopo economico perseguito – (a) non è adeguata, (b) intende
ridurre o evitare l’imposizione e (c) non è giustificabile con motivi economici
1
Per un’analisi approfondita della norma generale antiabuso dell’ordinamento tedesco
vedi la notevole opera di P. Pistone, Abuso del diritto ed elusione fiscale, 1995.
IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE
ITALIANA
o altri motivi di rilievo al di fuori di motivi fiscali2. Una forma giuridica –
così la Corte Federale Fiscale – non è adeguata quando il contribuente non si
avvale della forma giuridica tipica predisposta dal legislatore per il
raggiungimento di determinati fini economici, ma, invece, utilizzi una forma
giuridica e struttura insolita che – in base al concetto legislativo – non
permetta il risparmio di imposte. Al contribuente non è riconosciuta la facoltà
di far riferimento alla forma giuridica o al negozio giuridico messi in atto nei
casi in cui un terzo non avrebbe scelto tale forma giuridica o tale negozio
giuridico in vista dello scopo economico effettivamente ricercato dal
contribuente. Va notato comunque, che non ogni forma giuridica che
comporta un risparmio fiscale è da qualificare come elusiva ai sensi della
norma generale antielusione. Infatti, la giurisprudenza riconosce a ogni
contribuente il diritto di mettere in atto negozi e forme giuridiche che
sfruttino al meglio le possibilità di risparmio di tasse 3.
Accertato un abuso del diritto ai sensi della clausola generale del § 42 AO,la
pretesa del tributo si realizza in modo che la forma giuridica risulti adeguata
ai precedenti economici. Il prelievo tributario, dunque, ha luogo
indipendentemente dal fatto che non si sia effettivamente verificato il
presupposto d’imposta. Il § 42 AO, disconoscendo la forma giuridica scelta,
applica la norma impositiva che il contribuente ha cercato di aggirare
assumendo una forma giuridica adeguata e ragionevole in vista dello scopo
economico perseguito. L’applicazione del § 42 AO comporta dunque una
finzione di una forma giuridica economicamente adeguata alla quale si
applica la normativa fiscale aggirata.
1.1 Normative specifiche antiabuso.
Mentre il vantaggio di una norma generale antiabuso è dato dalla sufficiente
flessibilità di poter essere applicate a una moltitudine di fattispecie elusive in
diversi rami dell’ordinamento tributario, tale generalizzazione è allo stesso
tempo fonte di non pochi problemi in sede di applicazione, primo fra tutti il
contenimento dei poteri dell’Amministrazione Finanziaria, o meglio, la tutela
delle garanzie riconosciute dall’ordinamento al contribuente. La
giurisprudenza ha, di conseguenza, da sempre applicato la norma generale
antiabuso in maniera restrittiva. Rispondendo a questa problematica, dagli
anni settanta ad oggi il legislatore tedesco ha introdotto numerose clausole
specifiche antiabuso in diversi rami dell’ordinamento fiscale.
Principale esempio è la normativa dell’Außensteuergesetz (legge tributaria
estera), nei concetti base simile alla normativa statunitense sulle cd.
controlled foreign corporation, volta a fronteggiare l’erosione di base
imponibile a favore di altre sovranità fiscali. Di maggior rilievo sono le
disposizioni dei §§ 7 – 14 dell’Außensteuergesetz riguardanti le
partecipazioni in società interposte estere. La tecnica normativa adottata da
2
Sentenze della Corte Fiscale Federale (Bundesfinanzhof – BFH)in data 7 luglio 1998
– VIII R 10/96, in: Bundessteuerblatt (BStBl.) II 1999, pag. 729 e segg., e in data 29
agosto 2007 – IX R 17/07, BStBl. II 2008, pag. 502 e segg.
3
BFH in data 7 luglio 1998 – VIII R 10/96, BStBl. II 1999, pag. 729 e segg.
150
IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE
ITALIANA
tali norme è di ricondurre al soggetto controllante residente certe fattispecie
reddituali formalmente afferenti alla società estera interposta. A differenza
della norma generale antiabuso del § 42 AO, la normativa
dell’Außensteuergesetz non disconosce le società interposte, ma opera in base
ad una finzione giuridica e considera distribuiti alla controllante i relativi
redditi esteri (Hinzurechnungsbesteuerung).
Altro esempio di rilievo in questo contesto sono le convenzioni internazionali
contro la doppia imposizione stipulate dalla Germania. Soprattutto le più
recenti modifiche a trattati esistenti e le stipule di nuovi trattati contengono
norme volte a contrastare l’abuso dei benefici della rispettiva convenzione.
Tali norme antiabuso operano all’interno del corpo normativo della specifica
convenzione, negando determinati benefici o introducendo ulteriori requisiti
per avvalersi dei benefici convenzionali. A differenza della normativa interna
del § 50d, comma 3 EStG di cui si tratterà di seguito, tali norme antielusive
sono parte integrante della fonte convenzionale e, di regola, come lex
specialis prevalgono sulle norme generali del diritto interno (in particolare
sul § 42 AO), qualora le norme convenzionali antielusione trattino una
determinata materia. La disciplina antielusiva forma così parte dell’accordo
tra i due Stati contraenti.
La Germania, come altri Stati (primi tra tutti gli Stati Uniti), ha sentito la
necessità di modificare tali norme di diritto internazionale convenzionale
introducendo una norma interna unilaterale che – secondo la volontà del
legislatore – prevale sulle norme internazionali. Questo fenomeno di treaty
overriding sta alla base della norma anti treaty shopping o (anti Directive
shopping4) inserita nell’ordinamento tedesco nel 1994.
2 Sviluppi della norma anti treaty shopping.
Dividendi erogati da società residenti in Germania a soggetti passivi residenti
all’estero, canoni (royalties) e determinati interessi (attinenti a crediti
immobiliari) sono soggetti a una ritenuta alla fonte (Kapitalertragsteuer o
Abzugsteuer). I soggetti passivi esteri possono però richiedere l’esonero o la
riduzione della ritenuta alla fonte in base a un trattato sulle doppie
imposizioni, la cd. Direttiva Madre-Figlia, la cd. Direttiva su Interessi e
Canoni5, queste ultime due introdotte nel diritto interno tedesco. Ai fini
procedurali ciò avviene mediante una domanda di rimborso della ritenuta
effettivamente detratta dalla società erogante o mediante una richiesta di
esonero dall’obbligo di applicare la ritenuta, richiesta da inoltrare primo
4
In quanto la norma vuole prevenire anche l’abuso delle direttive europee, in
particolare la cd. Direttiva Madre-Figlia integrata nell’ordinamento tedesco (Direttiva
Consiglio CE 30/11/2011, n. 2011/96/UE, G.U.U.E. 29/12/2011, n. L345, che è una
rifusione della cd. direttiva madre-figlia (n. 90/435/CEE) concernente il regime fiscale
comune applicabile alle società madri e figlie di Stati Membri diversi).
5
Direttiva Consiglio 2003/49/CE del 3 giugno 2003concernente il regime fiscale
comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra società consociate di Stati
membri diversi.
151
IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE
ITALIANA
dell’erogazione dei redditi in specie. Sia il rimborso che l‘esonero anticipato
sono però soggetti all’applicazione (o meglio: non applicazione) della norma
anti treaty shopping. Sussistono i presupposti applicativi di tale norma, al
contribuente estero vengono negati i benefici convenzionali e delle direttive
europee.
2.1. Originariamente, la logica della norma anti treaty shopping del § 50d,
comma 1° (precursore dell’attuale comma 3) EStG era (più o meno) chiara:
La norma era volta ad impedire l’attribuzione dei benefici previsti dalle
disposizioni interne di derivazione comunitaria e dalle norme convenzionali
per i redditi prodotti nel territorio della Germania da parte di società non
residenti, nella misura in cui queste ultime sono partecipate da persone cui
non sarebbe stato riconosciuto il beneficio se avessero percepito direttamente
tali redditi. Infatti, il relativo comma del § 50d disponeva che il beneficio
(esenzione o riduzione dell’imposta) non spettasse nel caso in cui
occorressero contemporaneamente i tre seguenti presupposti (“criteri di
sostanza”):(1) mancata attribuzione dei benefici in caso di percezione diretta
del reddito;(2)assenza di valide ragioni economiche per l’interposizione della
società non residente;(3)mancato svolgimento di una propria attività
economica da parte della società non residente. Per assicurarsi
dell’applicazione dei benefici convenzionali era dunque sufficiente che il
soggetto estero potesse comprovare che uno dei tre requisiti di cui sopra non
fosse dato.
Come conseguenza dell’applicazione del § 50d, comma 1aEStG, la società
non residente non aveva diritto a fruire dei benefici (esenzione o riduzione
dell’imposta) previsti dalle disposizioni interne di derivazione comunitaria
(in particolare il § 44d EStG) e delle disposizioni convenzionali. In questo
caso, comunque, occorreva valutare la situazione di ciascun socio della
società interposta in base alla sua quota di partecipazione: Se tali soci hanno
diritto a fruire dei benefici in caso di percezione diretta dei redditi di fonte
tedesca, alla società interposta non residente spettava l’agevolazione fino alla
misura pari all’ammontare dello sgravio che sarebbe stato attribuito al
rispettivo socio.
2.2. Mentre la norma originaria aveva un profilo applicativo delineato e
concreto, con effetto dal 2007 la norma ha subito una modifica in seguito alla
giurisprudenza della Corte Federale Fiscale. Tale modifica, a parte spostare al
comma 3 del § 50d EStG le disposizioni rilevanti, comportava due sostanziali
cambiamenti, ovvero che per avvalersi dei benefici convenzionali o di quelli
della Direttiva Madre-Figlia e della Direttiva su Canoni e Interessi(1) tutti i
tre criteri di cui sopra dovessero essere comprovati, e (2) il soggetto estero
dovesse ricavare più del 10% del proprio reddito da attività commerciale
propria. La dottrina aveva da sempre dubitato della compatibilità della norma
con il diritto europeo, in particolare con riferimento alle decisioni della Corte
di Giustizia Europea “Inspire Art” (C-167/01), “Cadbury Schweppes” (C196/04) e “Denkavit” (C-170/05). Tale critica si è fatta più aspra con la
modifica del 2007, in quanto la norma non prevedeva la possibilità di provare
152
IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE
ITALIANA
che l’interposizione del soggetto estero – pur non soddisfacendo i criteri del
§ 50d, comma 3 EStG – non costituisca abuso del diritto.
2.3. Nel 2010, la Commissione Europea ha formalmente chiesto alla
Germania di modificare la norma del § 50d, comma 3 EStG6. La
Commissione non ha criticato l'obiettivo della norma antielusiva, ma
solamente i requisiti sproporzionati imposti a società estere per dimostrare
l’esistenza di una notevole attività economica (ovvero dimostrare che più del
10% del reddito sia generato da attività economica propria). Poiché non è
consentita al soggetto estero la prova contraria, la Commissione considera
sproporzionato tale requisito in vista dell’obiettivo di voler prevenire
l’evasione fiscale.
La Germania ha risposto a tale richiesta modificando ulteriormente la norma
del § 50d, comma 3 EStG7, modifica entrata in vigore dal 1° gennaio
2012.Gli elementi salienti della rinnovata norma sono di seguito esposti.
3 Elementi fondamentali della norma anti treaty shopping.
3.1 Aspetti generali.
La norma del § 50d, comma 3 EStG dal 1° gennaio 2012 statuisce che una
società estera non ha diritto al beneficio convenzionale o ai benefici di una
direttiva europea (ovvero: esenzione o riduzione dell’imposta) nella misura
in cui la società estera sia partecipata da soci ai quali tali benefici non
sarebbero attribuiti in caso di percezione diretta del reddito (cd. shareholder
test) e;
(1)
i redditi della società non residente non siano frutto di una propria
attività economica (cd. business income test), nonchè
(2a)
in merito a questi redditi non sussistano valide ragioni economiche
per l’interposizione della società non residente (cd. business purpose test);
oppure
(2b)
la società non residente non sia dotata di una struttura adeguata
rispetto alla propria attività economica per partecipare al commercio generale
(cd. substance test).
La rinnovata disposizione comporta due modifiche sostanziali nei confronti
della versione precedente della norma:
(1) Non è più necessario poter comprovare il soddisfacimento contemporaneo
di tutti e tre i criteri di sostanza (vedi sopra al 2.1.); invece, i criteri sono
suddivisi in diverse tipologie della norma. Il soggetto non residente – oltre ai
casi in cui riesca a dimostrare di qualificare per i benefici convenzionali in
caso di diretta percezione dei redditi –, dunque, in futuro potrà evitare
l’applicazione della norma antielusiva in due alternative, ovvero
soddisfacendo (a) il business income test, oppure (b) entrambi il business
purpose test e il substance test.
6
7
Comunicato stampa del 18 marzo 2010, IP/10/298.
Con legge del 07.12.2011, BGBl. I 2011, pag. 2592 e segg.
153
IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE
ITALIANA
(2) La seconda modifica importante riguarda le modalità di intervento della
norma antielusiva. Mentre la versione precedente disponeva o un
disconoscimento o un riconoscimento completo dei benefici, la versione
attuale prevede una suddivisione pro quota dei benefici nella misura in cui
siano soddisfatti i due test (a) e (b) di cui sopra. Il nuovo approccio
costituisce una “apportionment rule” che distingue tra reddito “buono” e
reddito “nocivo” (ai fini dell’applicazione della norma antielusiva),
spartizione che rileva ai fini del mantenimento dei benefici convenzionali e
delle direttive europee. Il reddito del soggetto non residente non è considerato
“nocivo” ai sensi della norma in quanto generato tramite propria attività
commerciale dal soggetto non residente. Lo scaglione di reddito che non
ricade in questa categoria può ancora qualificare come “buono” nella misura
in cui (a) sia dimostrabile che sussistano valide ragioni economiche (o
comunque non fiscali) per l’interposizione del soggetto non residente e
(b) che la società non residente disponga di una struttura adeguata rispetto
alla propria attività economica per partecipare al commercio generale. Lo
scaglione residuale è infine considerato nocivo.
I benefici convenzionali e delle direttive europee sono applicati solo nella
misura in cui la società non residente abbia dimostrato di avere redditi
“buoni”; nella misura in cui sussistano scaglioni di reddito “nocivo”, invece,
la norma rimanda all’analisi dei presupposti applicativi oggettivi (ovvero i
test (a) e (b)) a livello dei rispettivi soci. Solo se ciascun socio riesce a
soddisfare questi requisiti, i benefici convenzionali o delle direttive europee
sono mantenuti.
Va notato infine che – oltre ai casi in cui i test (a) e (b) di cui sopra siano
soddisfatti – la norma antielusiva non si applica nelle fattispecie in cui le
azioni del soggetto non residente siano regolarmente quotate in una borsa (sia
in Germania sia in un Paese della Comunità Europea o dello Spazio
Economico Europeo), come anche nei casi in cui il soggetto non residente
qualifichi come società di investimento soggetta all’Investmentsteuergesetz
(legge tributaria in merito agli investimenti) 8.
3.2
Dettagli applicativi.
3.2.1. – Il cd. business income test
Il § 50d, comma 3 EStG dispone che nella misura in cui la società non
residente generi redditi attraverso una propria attività economica, la società
non residente ha diritto ai benefici convenzionali e delle direttive europee. La
circolare ministeriale del 24 gennaio 2012 chiarisce l’interpretazione
dell’amministrazione finanziaria in merito al concetto di reddito da propria
attività commerciale:
una propria attività commerciale che rilevi ai sensi del business
income test richiede la partecipazione al commercio generale nel paese di
residenza; inoltre tale attività deve eccedere la mera amministrazione di beni;
88
Vedi § 50d, comma 3, quinto periodo EStG.
154
IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE
ITALIANA
una attività propria può consistere anche nella prestazione di servizi
nei confronti di una o più società controllate se tali servizi sono resi at arm’s
length; la mera attività di amministrazione di asset (per conto proprio o terzi),
invece, non qualifica;
una società holding può essere considerata avere una propria attività
commerciale se la società amministri attivamente (active management) due o
più partecipazioni di un certo rilievo economico. La società holding deve
attivamente intervenire e influenzare a lungo termine (anche) le importanti
decisioni manageriali delle partecipate;
l’amministrazione e altre attività della società holding non possono
essere esternalizzate (in via di outsourcing) a società del gruppo o a terzi;
se sussiste un legame funzionale tra l’attività delle partecipate e
della società non residente, dividendi, interessi e canoni percepiti da tale
partecipate qualificano come reddito da attività commerciale propria della
società non residente.
Bisogna constatare che l’abbandono del limite del 10% non ha semplificato
l’applicazione della norma antielusiva, anzi: In vista del meccanismo di
ripartizione del reddito in “buono” e “nocivo” e della soddisfazione dei
diversi test, anche a livello dei soci della società non residente, sono
aumentati gli oneri della prova e la necessità di documentare
meticolosamente la provenienza dei redditi e della attività della società non
residente.
3.2.2. Il cd. business purpose test
Secondo l’opinione espressa nella circolare ministeriale del 24 gennaio 2012,
una valida ragione economica (o comunque non fiscale) per l’interposizione
della società non residente non sussiste se la società non residente serve
solamente a salvaguardare asset domestici in tempi di crisi o per agevolare
future disposizioni ereditarie o, infine, per garantire il futuro economico dei
soci. Non qualificano come valide ragioni motivi attinenti ai rapporti
infragruppo, come ad es. la necessità di coordinare e organizzare il gruppo,
espansione dei rapporti con clienti, costi, preferenze geografiche.
Purtroppo, la norma non stabilisce chiaramente quali possano essere ragioni
valide. La circolare ministeriale del 24 gennaio 2012 stabilisce che la
pianificazione di attività che generi redditi considerati positivi secondo la
business income rule (vedi sopra al 3.2.1.) qualifichi come valida ragione
economica. Inoltre, dovrebbe costituire una valida ragione ai sensi del § 50d,
comma 3 EStG anche la formazione di una società non residente se la società
ha la funzione di headquarter di un gruppo che opera su scala mondiale
oppure se tale società ha lo scopo di acquistare e finanziare partecipazioni in
altre società.
3.2.3. Il cd. substance test
La circolare ministeriale del 24 gennaio 2012 riporta tre esempi nei quali è
possibile riscontrare indicazioni per una sufficiente sostanza economica ai
fini del substance test:
155
IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE
ITALIANA
l’esistenza di un management e di altro personale sufficiente per
l’attività della società non residente;
il personale della società non residente ha sufficienti qualificazioni
per adempire ai compiti della società;
i rapporti negoziali tra la società non residente e altre società del
gruppo e persone affiliate corrispondano allo standard at arm’s length.
3.2.4. Questionario
L’amministrazione finanziaria ha cominciato a inviare ai contribuenti che in
passato si sono avvalsi di benefici convenzionali e di direttive europee un
(nuovo) questionario per individuare eventuali problemi di attuazione della
nuova norma. Va notato che anche le società che sono in possesso di un
certificato di esonero rilasciato prima del 1° gennaio 2012 non possono
usufruire di tale esonero se non qualificano la normativa modificata.
Il questionario prevede che la società non residente fornisca, tra le altre, le
seguenti informazioni: (1) l’ultimo bilancio (incluso il conto economico);
(2) una previsione in merito al reddito 2012; (3) un rendiconto in merito al
reddito lordo e proventi, dettagliati per tipo di reddito; (4) una dettagliata
esposizione delle ragioni economiche per l’interposizione della società estera;
(5) tutti i numeri telefonici e fax come anche gli indirizzi internet e e-mail;
(6) documentazione in merito al personale impiegato, inclusi i contratti di
lavoro, un resoconto dei contributi sociali e dei salari; (7) una descrizione dei
rischi e delle funzioni svolte; (8) il contratto di affitto per l’ufficio; (9) una
dichiarazione ad altre attività degli amministratori (per altre società); (10) una
dichiarazione circa l’esternalizzazione (outsourcing) di funzioni
amministrative / manageriali in capo a terzi provider di servizi; (11) la
somma del salario effettivamente corrisposto agli amministratori; (12) una
dichiarazione se – oltre al salario – gli amministratori ricevano ulteriori
compensi.
Soprattutto le domande in merito alle categorie e tipologie di reddito si
dimostreranno essere un onere considerevole sulla via del raggiungimento dei
benefici convenzionali o delle direttive europee.
4
Conclusione.
La nuova versione del § 50d, comma 3 EStG – nonostante i chiarimenti
apportati dalla circolare ministeriale del 24 gennaio 2012 – su alcuni, ma
importanti aspetti applicativi rimane poco chiara (ad es. circa il metodo per
calcolare la quota pro rata). Inoltre, nonostante il legislatore tedesco abbia
modificato la norma per renderla compatibile con la giurisprudenza della
Corte di Giustizia Europea e il diritto comunitario, in merito rimangono
ancora alcuni dubbi. Infatti, secondo la decisione “Columbus Container
Services” la Corte Federale Fiscale ha constatato che norme unilaterali
antielusive devono essere interpretate in tal modo (restrittivo) da permettere
156
IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE
ITALIANA
al contribuente di poter provare una motivazione lecita per la forma giuridica
scelta9.
Va notato, inoltre, che la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea da
tempo postula che società residenti e società non residenti hanno gli stessi
diritti in merito al trattamento di dividendi da essi percepiti e, di
conseguenza, anche alle società non residenti dovrebbe essere consentito il
diritto al rimborso della ritenuta alla fonte come ciò avviene per le società
residenti10. In una recente decisione, la Corte Federale Fiscale ha confermato
l’esistenza di tale diritto anche in assenza di una normativa interna 11. La
Corte non ha discusso le conseguenze dell’esistenza di tale diritto in merito
alla norma antielusiva del § 50d, comma 3 EStG.A fronte degli argomenti
portati avanti dalla Corte sembrerebbe però coerente affermare che in queste
fattispecie (ovvero rimborso di ritenute alla fonte da parte di soggetti non
residenti) la norma antielusiva del § 50d, comma 3 EStG non sia più
applicabile. Infatti, tale norma non si applica a soggetti residenti in Germania.
Ad ogni modo è auspicabile una completa integrazione ed equiparazione del
trattamento delle società non residenti con quello delle società residenti.
9
BFH del 21 ottobre 2009 – I R 114/08, BStBl. II 2010, pag. 774 e segg.
Vedi da ultima la decisione della Corte di Giustizia Europea nel caso Commissione
/ Germania del 20 ottobre 2011 - C-284/09, IStR 2011 p. 840 e segg.
11
BFH del 11 gennaio 2012 – I R 25/10, DStR 2012 pag. 742 e segg.
10
157
Prof. Cesare Glendi
Professore Emerito Università di Parma
L’abuso dei rilievi d’ufficio della Suprema Corte di
Cassazione
Premessa metodologica. Divagazioni sulla parola «abuso». Dall’abuso del
«diritto all’abuso del «processo». Ulteriori specificazioni. L’«abuso dei rilievi
d’ufficio del giudice» in generale. L’abuso del rilievo d’ufficio da parte del
«giudice di legittimità», in particolare.
Le peculiarità del diritto tributario e del processo tributario.
La difficile problematica di una rigorosa definizione della varietà di fenomeni
latamente elusivi e/o abusivi in materia tributaria ai fini della loro
introduzione nel processo, sub specie di componenti dell’”oggetto” e/o dei
“motivi” e/o di mere “questioni”.
Distinzioni e approfondimenti.
Analisi e confronti tra processo civile e processo tributario.
In particolare sul tema specifico del rilievo d’ufficio delle questioni
pregiudiziali di merito e di rito. L’art. 183 c.p.c. e l’art. 20 del D. lgs. n.
546/1992.
I limiti del rilievo d’ufficio. L’uso e l’abuso del c.d. giudicato implicito.
Il limite del contraddittorio, in senso formale e in senso sostanziale, alla lue
dell’art. 111 c.p.c.
Il novellato art. 101 c.p.c. La non facile problematica sul trattamento delle
violazioni della regula iuris consacrata in detta norma.
La specialissima disciplina contenuta nell’art. 384, 3° comma, c.p.c. per il
rilievo d’ufficio delle questioni da parte delle Sezioni Unite di Cassazione.
Esame della giurisprudenza di vertice in tema di elusione e/o abuso. La
perniciosa tendenza alla “sostitutività” della funzione giurisdizionale,
soprattutto a livello apicale. Il rischio dello straripamento dei poteri anche a
danno della Pubblica Amministrazione.
L’abuso del rilievo d’ufficio da parte della Cassazione come figura tipica di
abuso della funzione giurisdizionale. Rimedi e sanzioni. La tutela risarcitoria.
L’ipotetico ricorso alla Corte di giustizia. Conclusioni.
Prof. Salvatore La Rosa
Professore Emerito Università di Catania
Abuso del diritto ed elusione fiscale: differenze e
interferenze
SOMMARIO: 1 Osservazioni introduttive sulla delega per la revisione delle
disposizioni antielusive - 2 Brevi riflessioni sulla riferibilità del “divieto di
abuso del diritto” alla materia tributaria… - 3 …sulla natura e gli effetti
giuridici delle clausole antielusive - 4 …e sulla prospettata generalizzazione
dell’ambito di operatività dell’antielusione.
1 Osservazioni introduttive sulla delega per la revisione delle
disposizioni antielusive.
Il titolo di questo intervento mi è stato suggerito dalla lettura dell’art. 6 del
recente disegno di legge delega fiscale, nonché dalla volontà di trarre spunto
da quella delega per svolgere talune riflessioni proprio sul rapporto tra
l’abuso del diritto e l’elusione fiscale, dato che, nonostante tutto quel che su
questo rapporto è già stato detto e scritto, non mi sembra che il dibattito abbia
ancora raggiunto risultati che possano dirsi convincenti e condivisi.
Sotto la rubrica “Disciplina dell’abuso del diritto ed elusione fiscale” si
prevede nel suddetto art. 6 una delega ad “…attuare la revisione delle vigenti
disposizioni antielusive al fine di introdurre il principio generale del divieto
dell’abuso del diritto esteso ai tributi non armonizzati…”; ma dalla lettura
dei successivi principi e criteri direttivi emerge con chiarezza l’intento di
procedere ad un qualcosa di non poco diverso dalla mera “revisione” delle
vigenti disposizioni antielusive, e dalla stessa generalizzazione dell’area di
operatività dell’attuale art. 37 bis del DPR n. 600/1973. E ciò, non solo
perché nulla viene detto in ordine alla sorte delle molteplici disposizioni
antielusive “analitiche” esistenti nel nostro ordinamento, e ad aspetti non
secondari delle stesse regole contenute nel suddetto art. 37 bis (il quale, anzi,
non viene neanche richiamato), ma anche perchè quei principi e criteri
direttivi appaiono dominati dal convincimento del doversi superare la stessa
distinzione tra l’evasione e l’elusione fiscale mediante l’introduzione di un
generale divieto di abuso delle norme tributarie, ed una migliore definizione
della fattispecie normativa della condotta fiscalmente abusiva.
Mi sembra, cioè, che, rispetto all’assetto normativo in atto vigente, si
vorrebbe operare un vero e proprio salto qualitativo, vietando in termini
generalissimi (e solo conseguentemente rendendo quindi inopponibile al
Fisco) ogni comportamento negoziale che possa dirsi unicamente determinato
dall’intento di conseguire un risparmio d’imposta; così automaticamente
attraendo nell’area degli illeciti tributari, e della vera e propria evasione, tutto
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: DIFFERENZE E INTERFERENZE
quel che, invece, viene ancora solitamente qualificato in termini di elusione.
In particolare, le principali innovazione che si vorrebbero apportare al
vigente assetto normativo consistono:
a) nell’identificazione della condotta abusiva nell’“…uso distorto di
strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, ancorché tale
condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione…” e
nell’essere “…causa prevalente dell’operazione …” lo “…scopo di ottenere
indebiti vantaggi fiscali…” (invece che, come dispone l’art. 37 bis, nei
comportamenti “…diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti
dall’ordinamento tributario…”);
b) nella negazione della configurabilità di una condotta abusiva solo nei casi
in cui l’operazione risulta “…giustificata da ragioni extrafiscali non
marginali…” (invece che sorretta da “…valide ragioni economiche…”);
c) nella previsione dell’“…inopponibilità…” agli uffici finanziari degli
strumenti attuativi delle condotte abusive e del conseguente loro potere di
“…disconoscere il relativo risparmio d’imposta…” (invece che di procedere
all’accertamento tributario “…applicando le imposte determinate in base alle
disposizioni eluse…”);
d) nell’affermazione della necessità che la motivazione dell’accertamento
contenga “…una formale e puntuale individuazione della condotta
abusiva…”, nonchè dell’incombenza sugli uffici finanziari dell’“…onere di
dimostrare il disegno abusivo e le modalità di manipolazione e alterazione
funzionale degli strumenti giuridici utilizzati nonché la loro non conformità
ad una normale logica di mercato, gravando invece, sul contribuente l’onere
di allegare la esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concorrenti
che giustifichino il ricorso a tali strumenti…” (così introducendo profili
probatori delle condotte “abusive”, del tutto estranei alle norme contenute
nell’art. 37 bis);
e) e nella negazione della “…rilevanza penale dei comportamenti ascrivibili
a fattispecie abusive…” (con implicita affermazione dell’applicabilità delle
sanzioni amministrative, insussistente nelle disposizioni di cui all’art. 37 bis
del DPR 600).
Al tempo stesso, si prevede che debba comunque essere garantita “…la
libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un
diverso carico fiscale…”; con una formulazione, tuttavia, che appare ad un
tempo superflua ed oscura, restando da stabilire se l’espressione “diverso
carico fiscale” debba essere intesa come non implicante un minor carico
fiscale rispetto al regime tipico dell’operazione medesima.
Si è in definitiva in presenza di un disegno di legge delega che si pone,
quanto meno, a metà strada tra la mera revisione e la profonda innovazione
dell’esistente apparato normativo antielusivo; al punto da rendersi anche
astrattamente ipotizzabile la coesistenza sia di nuove regole antiabuso che
della pregressa disciplina antielusiva di cui all’art. 37 bis del DPR n.
600/1973, in ragione di una loro intrinseca diversità; cosa che talora viene già
affermata nella comune esperienza professionale, ma sulla quale si rende a
mio avviso sempre più opportuno (e forse anche doveroso) lo svolgimento di
sia pur veloci riflessioni ricostruttive.
162
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: DIFFERENZE E INTERFERENZE
2
Brevi riflessioni sulla riferibilità del “divieto di abuso del diritto” alla
materia tributaria…
Nell’anzidetta prospettiva, e guardando alle emanande nuove norme
nell’ottica del divieto di abuso del diritto, una prima puntualizzazione che
ritengo di dover far attiene all’improprietà dell’espressione “divieto” che
dovrebbe accompagnare l’introduzione della clausola volta ad impedirlo.
Quella parola è in realtà fuorviante, perché non si prevede l’introduzione di
alcuna sanzione aggiuntiva e specifica per le condotte ivi definite come
“abusive”; i cui effetti vengono ancora e pur sempre definiti in termini di
“inopponibilità” agli uffici finanziari dei relativi strumenti giuridici attuativi,
in modi e termini non diversi da quanto già disposto dall’art. 37 bis del DPR
600.
Il che vuol dire che, a rigore, le condotte abusive in realtà non sarebbero
comunque sempre e di per sé annoverabili tra quelle fiscalmente vietate.
Ma a ciò va aggiunto che rappresenta a mio avviso una impropria forzatura
anche, ed a monte, la stessa evocazione della nozione dell’abuso del diritto
come fondamento delle risposte normative ai tentativi di conseguire, nel
rispetto della legge, indebiti vantaggi fiscali.
Come è noto, questo collegamento è a noi derivato dalla giurisprudenza
comunitaria, ove l’ambito di operatività del generale divieto di abuso del
diritto (comunitario), inizialmente sancito come limite azionabile dagli Stati
membri nei confronti delle modalità di esercizio delle libertà comunitarie (di
stabilimento, circolazione, ecc.), era poi stato dalla Corte di Giustizia posto a
fondamento (con la nota sentenza Halifax del 2006) anche della contestabilità
(negli ordinamenti dei singoli Stati membri) dei comportamenti elusivi di
obblighi tributari scaturenti da norme interne soggette a vincoli comunitari. E
parimenti noto è che questo approccio della giurisprudenza comunitaria,
inizialmente fatto proprio dalla nostra Corte di Cassazione in relazione a
controversie concernenti tributi soggetti (appunto) ai vincoli comunitari ed
insorte anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 37 bis del DPR 600/1973,
è poi stato già esteso (a seguito dei noti interventi delle Sezioni Unite avutisi
nel dicembre 2008) all’intero ordinamento tributario, in ragione del doversi
ritenere in esso immanente il divieto di abuso del diritto, in quanto radicato
nel fondamentale principio di capacità contributiva.
Adesso, sembra che si vorrebbe procedere all’espresso recepimento
normativo di questi controversi approdi giurisprudenziali del passato. E ciò,
se per un verso rafforza le riserve che su quegli approdi sono già state
avanzate in passato, induce per altro verso a formulare un triplice ordine di
notazioni critiche sulla stessa opportunità (almeno, dal punto di vista del
nostro ordinamento) sulla strada che verrebbe così concretamente imboccata.
A) Nella nostra tradizione culturale, anzitutto, il divieto di ”abuso del diritto”,
ha un contenuto ed un ambito di operatività che dovrebbe renderlo di per se
stesso irriferibile al campo dei rapporti tributari, per carenza dei relativi
presupposti logico-giuridici.
Comunque se ne identifichi la fonte, certo è, infatti, che quel divieto
tipicamente attiene solo all’esercizio delle situazioni giuridiche attive (diritti,
163
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: DIFFERENZE E INTERFERENZE
poteri, facoltà), ed è volto a porre dei generali limiti al loro esercizio, a tutela
di quanti possono vedere pregiudicati i loro interessi proprio da
quell’esercizio; mentre le discipline tributarie sono costituite dalla vasta serie
degli obblighi e divieti che le leggi pongono a carico del contribuente; e va da
sé che di tali situazioni soggettive, in quanto passive, egli non può fare “uso”,
e tanto meno può “abusare”, essendo invece tenuto a comportamenti di puro e
semplice adeguamento ed osservanza.
A tal proposito, non può non suscitare perplessità la previsione del fatto che,
per l’illustrazione del disegno abusivo, si chieda all’Amministrazione di
dimostrare “…le modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli
strumenti giuridici utilizzati nonché la loro non conformità ad una normale
logica di mercato…”, poichè, laddove queste circostanze ricorrono (come in
ogni ipotesi di simulazione), si ricade de plano nell’area dei comportamenti
fiscalmente illeciti (e non soltanto “abusivi”), già legittimamente perseguibili
in base alle disposizioni generali.
Nel caso in cui, ad esempio, una cessione d’azienda venga realizzata
frazionando l’operazione complessiva in una pluralità di trasferimenti
distintamente riguardanti le sue singole componenti (al fine di fruire del più
favorevole regime IVA, in luogo dell’imposta di registro, e di evitare la
tassazione dell’avviamento), gli Uffici finanziari ben possono ricostruire e far
valere l’unitarietà dell’operazione negoziale indipendentemente da ogni
discorso di “abuso del diritto”, pur essendosi in ipotesi di utilizzazione
certamente distorta dell’autonomia negoziale; la giurisprudenza ha anzi
sempre collocato i comportamenti così descritti nell’area della vera e propria
evasione fiscale; e si farebbe soltanto opera di confusione evocando adesso,
per situazioni di questo tipo, la nozione dell’abuso del diritto.
B) A ciò va poi ancora aggiunto che le conseguenze giuridiche degli “abusi
del diritto” dovrebbero necessariamente consistere - proprio in quanto si
versa in ipotesi di inosservanza di un divieto - nell’invalidità civilistica degli
atti e negozi posti in essere, ovvero su quello dell’irrogazione di sanzioni (di
ogni possibile tipo); mentre a fronte dei comportamenti volti al
conseguimento di indebiti vantaggi tributari quel che deve principalmente
stabilirsi è, in positivo, quali regole propriamente tributarie debbano
applicarsi ai comportamenti che, pur essendo formalmente rispettosi delle
disposizioni fiscali, ne aggirano il contenuto.
In altri termini, è un risposta comunque incompleta e inadeguata, ai fini
specificamente tributaristici, lo stabilire cosa debba esattamente intendersi
per “abuso” nel diritto tributario; poiché nulla così facendo si dice ancora, ed
in positivo, sul regime fiscale che deve poi applicarsi alle operazioni ritenute
“abusive”.
C) Il terzo ordine di riserve, infine, discende dal fatto che, se all’affermazione
del nuovo principio generale antiabuso (nei modi e termini definiti dal
disegno di legge delega) dovesse attribuirsi una portata integralmente
sostitutiva delle molto più articolate disposizioni contenute nel vigente art. 37
bis, lungi dal consentirsi un più fondato ed equilibrato contrasto dei
comportamenti elusivi, se ne frenerebbe ed ostacolarebbe il valido ed efficace
contenimento.
164
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: DIFFERENZE E INTERFERENZE
Perseguire l’elusione fiscale attraverso l’ottica dell’abuso del diritto significa
infatti muovere concreti passi nel senso dell’equiparazione concettuale e
normativa dell’elusione e dell’evasione fiscale; ma anche, e con ciò stesso,
con il porre le premesse per future riaffermazione della diversità di tali
fenomeni, in ragione dell’essere solo la seconda, e non anche la prima,
connotata dall’illiceità dei comportamenti del contribuente.
Di queste future e prevedibili prospettive forniscono del resto un chiaro
indizio due discutibili aspetti dello stesso disegno di legge delega.
1°) Il primo è ravvisabile nell’affermazione secondo la quale dovrebbe
escludersi la configurabilità di una condotta abusiva solo quando l’uso
distorto degli strumenti giuridici è giustificato da “…ragioni extrafiscali non
marginali…”.
Sembra, invero, che tale espressione obiettivamente finisca con l’attrarre
nell’area delle condotte “abusive” tutti i comportamenti che risultano
unicamente dettati dal fine (esclusivamente “fiscale”) del risparmio di
imposte, se caratterizzati dal ricorso ad un uso anomalo o “distorto” degli
strumenti giuridici (si pensi, per fare dei banali esempi, all’acquisto di una
villa a fini residenziali tramite una società appositamente costituita, o alla
cessione di diritti di usufrutto al coniuge per beneficiare dei minori livelli
impositivi ai quali essa è soggetta, alla rinunzia ad una cospicua eredità che
risulti unicamente giustificata dall’intento di evitare il pagamento di una
doppia imposta di trasferimento sul passaggio dei beni dal defunto a subentra
nel diritto di accettare l’eredità, alla trasformazione di una società agricola di
capitali in società di persone determinata dalla volontà di beneficiare del
regime catastale di determinazione del reddito, ecc.).
Tendenze di questo tipo sono del resto già presenti negli attuali
comportamenti operativi degli Uffici. E’ facilmente prevedibile che, alla fine,
finirà con il prevalere il riconoscimento del non potersi di per sé considerarsi
“distorto” l’uso degli strumenti giuridici a meri fini di risparmio d’imposta; e
quindi anche con il pervenirsi ad una sostanziale vanificazione del tentativo
di procedere alla formalizzazione del concetto delle condotte fiscalmente
“abusive”.
2°) Il secondo, è da ravvisare nella parallela ed espressa previsione
dell’irrilevanza penale delle condotte abusive e del loro essere invece
assoggettabili alle normali sanzioni amministrative (anche se con riscossione
differita, in caso di ricorso, sino alla pronunzia del giudice di primo grado).
Anche questa previsione può dirsi frutto del tentativo di assimilare le
condotte abusive ai comportamenti illeciti, pur se particolarmente sofisticati;
ma con risvolti che non possono ancora una volta non suscitare perplessità,
non vedendosi (per un verso) come, una volta ricondotti gli “abusi” nell’area
dei comportamenti illeciti, possa poi escludersi la rilevanza penale proprio
per quelli maggiormente connotati, sul piano dell’elemento psicologico, dal
meditato intento di sottrarre all’imposizione materia altrimenti imponibile;
ovvero come (e per altro verso) alle condotte ipoteticamente “abusive”
potrebbero sempre e comunque correlarsi le sanzioni previste per i veri e
propri illeciti tributari, in assenza di vere violazioni di specifiche norme
tributarie.
165
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: DIFFERENZE E INTERFERENZE
In sintesi, la prospettiva dell’”abuso del diritto” si rivela concretamente
inidonea a selezionare e caratterizzare effettivamente i comportamenti
fiscalmente elusivi, in quanto per un verso finisce con l’attrarre tra di essi
tutta l’area dei comportamenti determinati da legittime finalità di risparmio
d’imposta, e per altro verso con il renderli sempre e comunque sanzionabili.
3 …sulla natura e gli effetti giuridici delle clausole antielusive
Se, per le ragioni anzidette, deve ritenersi improprio e fuorviante
l’inquadramento della problematica dell’elusione fiscale nella prospettiva
dell’abuso del diritto, qualche veloce riflessione occorre adesso svolgere sui
modi nei quali debbono intendersi e definirsi, in uno Stato di diritto, la
funzione e gli effetti delle clausole antielusive, come quella in atto regolata
dall’art. 37 bis del DPR n. 600/1973.
A questo proposito, penso anzitutto che debba muoversi, per un verso, dal
fondamentale rilievo dell’essere l’elusione una nozione (come quelle
dell’evasione, della rimozione, della traslazione, ecc.) eminentemente
sociologica, economico-finanziaria, e comunque metagiuridica (poiché, per il
giurista, non possono esistere comportamenti intermedi tra l’osservanza e
l’inosservanza di quel che le leggi dispongono), e, per altro verso, dell’essere
essa una conseguenza ed un riflesso di quella che altrove ho qualificato una
“fisiologica patologia” delle moderne discipline tributarie; le quali sono
sempre più minuziose, articolate, analitiche, asistematiche, sotto la spinta di
esigenze sia di certezza sui comportamenti da tenere che di aderenza delle
discipline fiscali alle sempre più diversificate forme dei fenomeni
economico-giuridici che si intendono colpire; ma con ciò stesso moltiplicano
le strade che i contribuenti possono percorrere nella ricerca delle soluzioni
fiscalmente più convenienti per le loro iniziative; e diventano quindi esse
stesse motivo di successivi interventi normativi, volti a sbarrare le strade che,
benché percorribili, vengono poi dal legislatore considerate troppo
vantaggiose per i contribuenti, e quindi elusive.
In altri termini, i connotati veri ed essenziali dei comportamenti elusivi
stanno nel loro essere frutto (più che dei maliziosi intenti dei contribuenti)
nelle inevitabili falle, lacune, ed imperfezioni in genere di apparati normativi
sempre più frammentati e parcellizzati; e le risposte che gli ordinamenti
possono dare (e concretamente danno) a queste possibili evenienze, se non
suscitano particolari dubbi e difficoltà tecnico-giuridiche quando consistenti
in interventi correttivi, integrativi e modificativi delle precedenti disposizioni,
sollevano invece questioni non poco delicate e complesse quando si procede
all’introduzione di vere e proprie “clausole antielusive”, dall’area di
operatività più o meno estesa.
La funzione propria di queste clausole sta infatti nel consentire agli Uffici
finanziari di procedere alla disapplicazione (appunto, “antielusiva”) delle
disposizioni che dovrebbero applicarsi in ragione dei fatti concretamente
verificatisi, e di determinare invece le imposte dovute sulla base delle norme
eluse, malgrado non se ne siano verificati i presupposti di fatto; ed esse
costituiscono quindi straordinari ed eccezionali “tappabuchi” ordinamentali,
166
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: DIFFERENZE E INTERFERENZE
che per un verso degradano e depotenziano al livello pararegolamentare la
valenza normativa delle disposizioni che il legislatore rende “disapplicabili”
(pur se a certe condizioni) nella fase dell’accertamento tributario, e per altro
verso derogano al fondamentale principio di cui all’art. 12 delle preleggi, ove
si dispone che il ricorso ai principi è possibile solo in assenza di espresse
disposizioni, e non anche per disattendere quel che da esse già risulta.
Penso, in altri termini che alle clausole antielusive debba guardarsi come a
disposizioni regolatrici (non dei comportamenti dei contribuenti, né dei
procedimenti tributari, ma) dello stesso rapporto tra le diverse “fonti”
coesistenti all’interno degli ordinamenti giuridici. Mi pare che proprio ad una
prospettiva di questo tipo facesse sostanziale riferimento (al di là delle
espressioni adoperate) la stessa Corte di Giustizia con la nota sentenza
Halifax del 2006, nella quale non certo a caso si caratterizzava l’elusione
come comportamento non illecito, si escludeva l’applicabilità di sanzioni, e si
delineavano comportamenti operativi che comportavano una complessiva
ridefinizione della disciplina fiscale applicabile ai comportamenti elusivi
nella totalità dei loro aspetti, sia a favore che sfavore del contribuente,
indipendentemente da ogni considerazione dei più o meno maliziosi disegni
da esso perseguiti. E ritengo che proprio in questa prospettiva debba definirsi
la natura e gli effetti delle disposizioni contenute nel nostro art. 37 bis.
Sul come tutto ciò possa farsi, non posso ovviamente in questa sede
dilungarmi. Osservo soltanto che le clausole antielusive, in quanto
consentono la disapplicazione delle norme che dovrebbero applicarsi,
comportano obiettivi sacrifici della fondamentale esigenza della certezza del
diritto; la loro area di operatività dovrebbe restare sempre rigorosamente
circoscritta alle aree disciplinari che lo stesso legislatore predetermina
(stabilendo le condizioni e i limiti entro i quali alla disapplicazione della
legge può pervenirsi); e dovrebbe in ogni caso essere sorretta dall’espressa
affermazione dei superiori principi di settore (non certo identificabili nel
supremo principio di capacità contributiva) che poi giustificano la soluzione
adottata.
Poiché, anche le contestazioni di elusione fiscale debbono poi pur sempre
correlarsi, nei loro contenuti oggettivi e soggettivi - non diversamente dagli
accertamenti di evasione - a quel che è richiesto dalle norme che si ritengono
eluse.
In definitiva, più che di se e come debba intendersi e definirsi l’abuso delle
norme tributarie, sarebbe bene che si parlasse di se, in quali casi e con quali
limiti possa consentirsi la disapplicazione antielusiva delle norme medesime
da parte degli uffici finanziari.
4 …e sulla prospettata generalizzazione dell’ambito di operatività
dell’antielusione.
Mi avvio a concludere ricordando che con le norme adesso contenute nell’art.
37 bis del DPR n. 600/1973 fu nel 1997 dal legislatore attuato un sostanziale
compromesso tra contrapposte esigenze giustiziali e di certezza del diritto,
poiché, se da un lato si aprì la strada alla possibilità della disapplicazione
167
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: DIFFERENZE E INTERFERENZE
antielusiva delle norme tributarie da parte degli Uffici finanziari, dall’altro
quella possibilità fu espressamente circoscritta dalle sole discipline fiscali di
talune operazioni (essenzialmente societarie), specificamente individuate
attraverso una elencazione a mio avviso tassativa, e che è poi stata
progressivamente ampliata.
E non certo a caso le aperture alla possibilità della disapplicazione di talune
discipline tributarie furono accompagnate dall’introduzione sia dello
specifico “interpello” ad un apposito Comitato per le operazioni antielusive,
sia di una serie di disposizioni equitative sulle quali non è qui il caso di
dilungarsi.
Nel momento in cui si dovrebbe almeno in parte sconvolgere quel selettivo
disegno normativo, mediante l’introduzione di un generale divieto dell’abuso
del diritto, esteso ai tributi non armonizzati, occorre infine chiedersi se passi
di questo genere siano veramente necessari e non siano quanto meno
prematuri.
In proposito, i dubbi sono a mio avviso legittimi, poichè le norme contenute
nel vigente art. 37 bis sono in realtà già di per se stesse certamente riferibili
anche all’area dei tributi “non armonizzati” (e cioè alle imposte dirette);
l’introduzione di uno specifico divieto di abuso del diritto dovrebbe a rigore
ritenersi superflua se si ritiene che i comportamenti elusivi siano illeciti e
sanzionabili in base alle normali regole sanzionatorie (pur se con esclusione
delle sanzioni penali); e, soprattutto, l’impianto normativo dell’art. 37 bis non
ha ancora avuto verifiche giurisprudenziali adeguate alla complessità e
delicatezza delle molteplici problematiche che rimangono ad esso correlate.
In passato, la giurisprudenza della Cassazione è stata invero non poco
condizionata dal dover pronunciare su comportamenti e controversie
antecedenti l’entrata in vigore dell’art. 37 bis; e proprio questa antica ed
obiettiva lacuna è stata alla base del ripescaggio dal diritto comunitario della
nozione dell’abuso del diritto come limite generale all’operato dei
contribuenti, nonché del dibattito sull’estensibilità di tale nozione anche
all’area dei tributi non armonizzati.
Ma quei dibattiti appartengono ormai al passato; mentre attengono al presente
le questioni relative alle concrete implicazioni sostanziali, procedimentali e
processuali dell’art. 37 bis; e sarebbe forse bene che l’eventuale dilatazione e
generalizzazione dell’ambito di operatività di quella disciplina fosse quanto
meno preceduta da un adeguato rodaggio giurisprudenziale su quel che esso
già dispone in relazione ad una ben precisa (e non poco ampia) area di
operazioni potenzialmente elusive.
Poiché l’estensione della disapplicabilità antielusiva a tutte le norme
sostanziali tributarie comporterebbe una grave compromissione della
fondamentale esigenza della certezza del diritto; alla quale è auspicabile che
non si proceda a cuor leggero.
168
Avv. Alessandra Mereu
Dottore di ricerca in Diritto e procedura penale
presso l’Università di Genova
Abuso del diritto ed elusione fiscale: rilevanza penale o mera
mancanza di una explicatio terminorum?
Alcune riflessioni a margine del caso “Dolce & Gabbana”
(Cassazione penale, Sezione II, 28 febbraio 2012, n. 7739 e Tribunale di
Milano, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, 29 aprile 2011)
SOMMARIO: 1 L’abuso del diritto e l’elusione fiscale: due concetti a
confronto. - 2 Il caso “Dolce e Gabbana”: la ricostruzione del fatto e la
vicenda processuale - 3 Le decisioni del Tribunale di Milano e della Corte di
Cassazione - 3.1 L’elusione fiscale secondo il Giudice dell’udienza
preliminare.
- 3.2 La decisione della Corte di Cassazione. - 3.3
L’infondatezza del reato di truffa aggravata ai danni dello Stato in entrambi i
gradi di giudizio. - 4 Rilievi critici: la tesi dell’irrilevanza penale
dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto e il disegno di legge sulla delega
fiscale approvato dal Consiglio dei Ministri n. 24 del 16.04.2012. - 4.1
L’atipicità dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto: la violazione del
principio di legalità. - 4.2 La liceità dell’abuso del diritto e dell’elusione
fiscale sotto il profilo civile e tributario - 4.3 La procedura di interpello ex art.
16 d. lgs n. 74/2000. - 4.4 L’elusione fiscale e l’abuso del diritto al cospetto
delle figure di incriminazione di cui al d.lgs n. 74/2000: il reato di
dichiarazione infedele. - 4.5 L’irrilevanza penale del prezzo incongruo. - 5
Conclusioni. L’esterovestizione tra elusione fiscale ed evasione
internazionale.
1 L’abuso del diritto e l’elusione fiscale: due concetti a confronto.
L’attribuire rilevanza penale a fenomeni integranti le figure dell’elusione
fiscale o dell’abuso del diritto presenta aspetti di estrema delicatezza e porta
l’interprete a percorrere strade impervie, nel tentativo di cogliere le note
fondamentali di un fenomeno vario ed eterogeneo.
L’assenza di una definizione normativa della categoria civilistica di antica
creazione dottrinaria1 e la tipizzazione dell’elusione fiscale nella clausola
1
La nozione di abuso del diritto, quale categoria concettuale autonoma rispetto a
quella di illecito, scaturisce unicamente dalla sensibilità analitica della scienza
contemporanea. Una ricerca storica dell’istituto in esame ha infatti mostrato come tale
istituto fosse sconosciuto al diritto romano: se negli editti di Gaio si abbozza un primo
riconoscimento al fatto che l’esercizio di un diritto possa toccare interessi altrui, a ciò
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
generale di cui all’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973, impongono di cercare
altrove, nel pensiero della dottrina e della giurisprudenza - nazionale e
comunitaria -, le cifre caratteristiche degli istituti in questione.
Se una nota comune vuol essere trovata tra l’istituto dell’abuso del diritto e
quello dell’elusione fiscale, la medesima può essere ravvisata nella
divergenza che separa lo scopo perseguito dall’agente rispetto a quello per il
quale viene riconosciuto dall’ordinamento quello specifico diritto.
L’essenza del fenomeno abusivo è stata infatti colta nel contrasto dello stesso
con il “valore o interesse” per il quale il diritto medesimo è riconosciuto:
l’atto compiuto nell’esercizio del diritto non trova il suo limite unicamente
negli specifici obblighi normativi che ne segnano i confini sul piano
orizzontale ed estensivo, ma incontra ulteriori limiti sul piano verticale e
intensivo, cioè sul piano valorativo della norma da cui l’agente ripete il suo
diritto medesimo2. Abusa del proprio diritto colui che lo esercita in vista di un
fine diverso da quello avuto di mira dal legislatore.
non viene tuttavia ricollegata alcuna conseguenza sul piano sanzionatorio in quanto
“colui che agisce nell’esercizio del proprio diritto e causa danno ad altri non agisce né
per dolus né per vis né commette damnum iniuria datum “. Solamente sulla fine del
XIX secolo la dottrina francese dell’epoca (Saleilles) nota come la responsabilità
civile venga connessa all’esercizio del diritto soggettivo che, pur oggettivamente
conforme al diritto, sia compiuta con l’intenzione di nuocere o comunque sia contraria
alla destination economique ou social du droit subjectf. Secondo il Planiol “le droit ne
sont presque jamais absolus”, ma sono limitati nel loro scopo e sottoposti nel loro
esercizio a diverse condizioni. Il superamento di queste, l’abuso del diritto, costituisce
un atto illecito. Nella teorizzazione della dottrina francese l’abuso del diritto non
costituisce una categoria distinta dall’atto illecito “in quanto quella che è
sostanzialmente una convergenza dell’atto illecito e dell’atto abusivo nella comune
classe degli atti contrari al diritto, viene assunta come piena e assoluta identità di
caratteri dell’uno e dell’altro. Secondo il Planiol “il diritto cessa dove l’abuso
incomincia”. L’esigenza di ricondurre l’abuso del diritto nell’ambito dei principi della
teoria della responsabilità tramandati dalla dottrina tradizionale, fondata sul dogma
secondo il quale all’esercizio del diritto non si connetterebbe una situazione di
irresponsabilità, è alla base del pensiero di Planiol. Secondo Dabin invece sul piano
della legalità l’abuso è inconcepibile per la contraddizione logica in cui si cadrebbe a
parlare di un atto “tout à la fois conforme au droit et contrarire au droit”. L’abuso del
diritto sarebbe pensabile unicamente in riferimento ad una legitimitè morale. Sarebbe
l’esercizio di quel diritto che, senza oltrepassare i limiti legali, oltrepassi i limiti
costituiti dai nostri doveri verso gli altri. Sull’abuso del diritto si v. AA.VV., L’abuso
del diritto, in Diritto Privato 1997, Padova, 1998; D’AMELIO, Abuso del diritto, in
Novissimo Digesto italiano, vol. I., Torino, 1974; RODOTÀ, Diritto (Abuso del), in
Enciclopedia forense, Vol. III, Milano, 1958; ROMANO, (voce) Abuso del diritto, in
Enciclopedia del diritto, Vol. I, Milano, 1958, p. 166; RESCIGNO, L’abuso del
diritto, Il Mulino, 1998; SANTORO-PASSERELLI, Dottrine generali del diritto
civile, Napoli 1954; LEVI, L’abuso del diritto, Milano, 1993.
2
GIORGIANNI, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, 1963.
L’A. definisce il fenomeno abusivo come “la qualificazione connessa
normativamente a quel comportamento relativo all’esercizio di un determinato diritto
soggettivo che, non difforme dagli specifici obblighi normativi previsti a delimitazione
170
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
Anche nell’elusione fiscale si profilano elementi di contrasto tra la legittimità
formale dei comportamenti posti in essere e lo scopo perseguito dall’agente:
consistendo tale fenomeno nel “ricorso a procedimenti leciti che consentono
di non realizzare la fattispecie imponibile o di realizzarne una meno onerosa
per il contribuente”3, esso si sostanzia in una “tensione fra forme legali e
sostanza economica degli affari”4.
L’obiettivo elusivo è infatti raggiunto attraverso una strumentalizzazione
degli istituti fiscali e degli schemi negoziali i quali, se pur piegati al
raggiungimento di scopi ad essi propriamente estranei, sono tuttavia
validamente e regolarmente documentati all’Amministrazione finanziaria,
alla quale non è occultato il minimo passaggio. Tale connotazione consente
dunque di sottolineare come nell’elusione fiscale non vi sia alcuna
artificiosità del comportamento materiale, ma della sola veste giuridica.
Se nella difformità teleologica della sostanza dalla forma può essere quindi
riassunta la cifra comune degli istituti in questione, le differenze si colgono
invece sia nella diversa matrice storica e nel diverso inquadramento
dogmatico dell’abuso del diritto, da una parte, e dell’elusione fiscale,
dall’altra, sia nel diverso ruolo (complementare e di chiusura del sistema)
assegnato al fenomeno abusivo rispetto a quello elusivo.
L’abuso del diritto nasce infatti come categoria civilistica di ordine generale 5
alla quale l’ordinamento tributario ricorre, invocandone l’immanenza di un
dell’esercizio del diritto, sia tuttavia difforme dall’interesse o valore che sta a criterio
della qualificazione che di quel comportamento medesimo fa un esercizio del diritto
soggettivo”.
3
MANGIONE, in Diritto penale tributario, a cura di MUSCO, cit., p. 89. L’A. ricorda
come non sia da confondere con l’elusione fiscale il c.d. tax saving, “pianificazione
organizzata del contribuente affinché le sue scelte economiche vengano
legittimamente orientate verso soluzioni differenti rispetto a quelle tassate e
maggiormente tassabili. Il risparmio di imposta è per l’appunto la scelta del
comportamento lecito ma fiscalmente meno oneroso per il contribuente e rientra
pienamente nella sua sfera di libertà”.
4
ALESSANDRI, L’elusione fiscale, in Riv. it.dir.e proc. pen, 1990, p. 1075
5
RODOTÀ, Diritto (Abuso del), in Enciclopedia forense, Vol. III, Milano, 1958,
ricorda come non solo sia controversa la portata, le definizione stessa dell’abuso del
diritto, ma la sua stessa esistenza quale categoria operante nel nostro ordinamento.
Secondo l’A. le situazioni eterogenee accomunate sotto l’etichetta abuso del diritto
presentano tre elementi in comune: a) un atto in sé lecito; b) l’intenzione di recare
nocumento ad altri; c) un danno o un molestia attuale per un terzo. L’abuso si
verificherebbe pertanto tutte le volte in cui “l’esercizio di un diritto, pur non
travalicando i confini che per legge gli sono assegnati, incide nella sfera giuridica
altrui tanto da danneggiarla concretamente”. Per ROMANO, Abuso del diritto, 1958,
l’assenza di una norma di carattere generale che contempli l’abuso del diritto è un
problema di teoria generale del diritto. La formula progettata era di dubbio tecnicismo
e avrebbe potuto rivelarsi infondata per l’assunzione dello scopo quale elemento cui
riferire l’abuso. L’A. definisce il comportamento abusivo come “il non esercizio o
l’esercizio secondo criteri diversi da quelli imposti dalla natura della funzione può
considerarsi abuso in ordine a quel potere”. Si è in presenza di una alterazione della
171
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
principio, per supplire alla tassatività delle ipotesi normativamente previste
come elusive dal legislatore6.
funzione obiettiva dell’atto alla quale l’ordinamento reagisce con un rifiuto di tutela.
Sull’argomento si v. altresì Cfr. BRECCIA, L’abuso del diritto, in AA.VV., L’abuso del
diritto, in Diritto Privato 1997, Padova, 1998. L’A. ravvisa il nodo fondamentale
della teoria dell’abuso del diritto nello iato che separa lo schema legale di un diritto e
il suo contenuto da una parte e il “fatto del suo esercizio dall’altra”. In questa
direzione riprende il pensiero del Pugliatti, secondo il quale tra la ricostruzione del
contenuto di un diritto sulla base dei parametri forniti dalle regole giuridiche e la
valutazione delle conseguenze di un comportamento, che pretenda di conformarsi a
quel contenuto, c’è un giudizio che resta interno al sistema giuridico considerato nel
suo complesso ma che al tempo stesso si precisa nelle circostanze del fatto rilevanti.
L’attività abusiva si distingue dalla tipica attività illecita per la complessità
dell’accertamento dell’illiceità: non si tratta di constatare in assoluto e in astratto
l’inesistenza di un diritto, ma si tratta di escludere la legittimità delle modalità di
esercizio del diritto nelle circostanze di fatto. L’atipicità del diritto si manifesta nello
scarto tra lo schema legale per sua essenza tipico e 1’esperienza del singolo conflitto
d’interessi. Per BUSNELLI-NAVARRETTA, Abuso del diritto e responsabilità civile,
ibidem, p. 182, vi è una contraddizione logica tra abuso e illiceità: l’obiettivo di
riconoscere un’autonomia all’abuso deve partire proprio dal riconoscimento della
piena giuridicità dell’abuso. RESCIGNO, L’abuso del diritto, Il Mulino, 1998 ricorda
come sul tema dell’abuso del diritto le posizioni dottrinali siano irriducibilmente
divise: da un lato vi è chi ritiene fondamento logico e di giustificazione positiva la
nozione di abuso del diritto (V. ROTONDI, L’abuso di diritto, in Riv.dir.civ. 1923, p.
105 per il quale l’abuso del diritto è “un fenomeno sociale non un concetto giuridico,
anzi uno di quei fenomeni che il diritto non potrà mai disciplinare in tutte le sue
applicazioni che sono imprevedibili: è uno stato d’animo, è la valutazione etica di un
periodo di transizione, è quel che si vuole, ma non una categoria giuridica e ciò per la
contraddizione che non consente”), dall’altro lato, tra coloro che riconoscono il
problema giuridico dell’abuso vi è una grande varietà nel ravvisare i limiti
all’esercizio dei diritti, parlandosi ora di normalità, moralità, socialità.
6
In materia di imposta sul valore aggiunto non si può non ricordare l’orientamento
della Corte di Giustizia, recepito nell’ordinamento italiano dalla Corte di Cassazione,
che valorizza il ricorso all’abuso del diritto quale principio di ordine generale, in tal
modo supplendo alla mancanza nel settore dell’Iva di una generale norma antielusiva. In particolare con le pronunce rese dalla Corte di Giustizia delle Comunità
europee nei procedimenti C-255/02 (“Halifax”), C- 419/02 (“Bupa Hospitals”) e C223/02 (“University of Huddersfield”) –in Rass. trib., 2006, n. 3, p. 1016 con nota di
PICCOLO, Abuso del diritto ed Iva: tra interpretazione comunitaria ed applicazione
nazionale– i giudici lussemburghesi hanno formalizzato in termini chiari e precisi il
concetto di comportamento abusivo, prima percepibile quale elemento insito nelle
pieghe del diritto comunitario. La Corte di Cassazione, nel recepire tale orientamento,
ha quindi ritenuto che in presenza di un comportamento abusivo, l’Amministrazione
finanziaria possa disconoscerne gli effetti ai fini fiscali, pur in assenza di una norma
positiva che sancisca tale potere sia nell’ordinamento comunitario sia
nell’ordinamento penale (si v. Cassazione, 5 maggio 2006, n. 10352; Cassazione,
ordinanza 4 ottobre 2006 n. 21731 e da ultimo Cassazione, 16 gennaio 2008 n. 8772,
in fisconline). Infine i principi suddetti sono stati altresì recepiti dall’Agenzia delle
Entrate con circolare del 13 dicembre 2007 n. 67 (si v. al riguardo SANTACROCE, Il
concetto comunitario di abuso del diritto in una recente circolare delle Entrate
172
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
L’abuso del diritto, diversamente dall’elusione, si connota infatti per la sua
contrapposizione non a specifici e determinati obblighi normativi, ma al
valore o interesse per cui l’ordinamento riconosce il diritto medesimo.
Da qui il rapporto di genere a specie intravisto tra l’abuso del diritto e
l’elusione fiscale7, dove al primo, quale principio generale insito nelle pieghe
del diritto comunitario, è stato riconosciuto un ruolo di supplenza proprio in
quei settori (come quello dell’imposta sul valore aggiunto) caratterizzati dalla
mancanza di una generale norma anti-elusiva.
In questo contesto i giudici comunitari hanno così definito come abusivo quel
comportamento apparentemente conforme alla VI direttiva e alla legislazione
nazionale, ma posto in essere al solo scopo di ottenere un beneficio fiscale
contrario all’obiettivo perseguito dalle disposizioni stesse8.
sull’elusione nell’Iva, in Dialoghi di diritto tributario, 2008, n. 1, p. 115). Sull’abuso
del diritto si v. AA.VV., L’abuso del diritto, in Diritto Privato 1997, Padova, 1998;
D’AMELIO, Abuso del diritto, in Novissimo Digesto italiano, vol. I., Torino, 1974;
RODOTÀ, Diritto (Abuso del), in Enciclopedia forense, Vol. III, Milano, 1958;
ROMANO, (voce) Abuso del diritto, in Enciclopedia del diritto, Vol. I, Milano, 1958, p.
166; RESCIGNO, L’abuso del diritto, Il Mulino, 1998; SANTORO-PASSERELLI, Dottrine
generali del diritto civile, Napoli 1954; LEVI, L’abuso del diritto, Milano, 1993.
7
Così MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici in
MAISTO (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, p. 425.
8
Nella giurisprudenza comunitaria si v. Corte di Giustizia UE 10.11.2011, causa C126-10 nel sito internet https//eur-lex.europa.eu, caso nel quale la domanda di
pronuncia pregiudiziale verteva sull’interpretazione dell’art. 11, n. 1, lett. a), della
direttiva del Consiglio 23 luglio 1990, 90/434/CEE, relativa al regime fiscale comune
da applicare alle fusioni, alle scissioni, ai conferimenti d’attivo ed agli scambi
d’azioni concernenti società di Stati membri diversi. La domanda era stata presentata
nell’ambito di una controversia tra la Foggia – Sociedade Gestora de Participações
Sociais SA e il Secretário de Estado dos Assuntos Fiscais in merito al rifiuto di
quest’ultimo di autorizzarla ad effettuare un trasferimento di perdite fiscali in seguito
ad un’operazione di fusione di imprese facenti parte dello stesso gruppo. La Corte,
ricordando come, in forza dell’art. 11, n. 1, lett. a) della direttiva 90/434, gli Stati
membri, possano revocare il beneficio fiscale qualora l’operazione di scambio di
azioni abbia, in particolare, come obiettivo principale o come uno degli obiettivi
principali la frode o l’evasione fiscali, e in particolare quando l’operazione non sia
effettuata per valide ragioni economiche, quali la ristrutturazione o la
razionalizzazione delle attività delle società partecipanti all’operazione, può
comportare una presunzione nel senso che la detta operazione abbia tale obiettivo (v.,
in tal senso, citate sentenze Leur-Bloem, punti 38 e 39, nonché Kofoed, punto 37).
Per quanto riguarda la nozione di «valide ragioni economiche» ai sensi di detto
art. 11, n. 1, lett. a), la Corte ha già avuto occasione di precisare che dalla
formulazione e dagli obiettivi di tale art. 11, come da quelli della direttiva 90/434 in
generale, risulta che tale nozione trascende la mera ricerca di un’agevolazione
puramente fiscale. Pertanto, un’operazione di fusione per scambio di azioni
unicamente volta a raggiungere tale scopo non può costituire una valida ragione
economica ai sensi di detta disposizione (sentenza Leur-Bloem, cit., punto 47). Di
conseguenza, può costituire una valida ragione economica un’operazione di fusione
fondata su più obiettivi, tra i quali possono anche figurare considerazioni di natura
tributaria, a condizione tuttavia che queste ultime non siano preponderanti nell’ambito
173
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
Il percorso di astrazione da ipotesi particolari al riconoscimento di una regola
generale, ha invero, in tempi recenti, caratterizzato anche il fenomeno
elusivo, il quale se ab origine trovava esclusivamente riscontro in singole
ipotesi tassativamente determinate dal legislatore, oggi si rinviene invece
anche nell’esistenza di un generale principio antielusivo, avente la propria
fonte nei principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario
italiano9.
La Corte di Cassazione ha infatti ritenuto immanente al sistema il principio
secondo il quale “il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali
dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica
disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in
difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustificano l’operazione,
diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale” [enfasi aggiunta]. Da
qui l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria di quei negozi giuridici
volti all’ottenimento di un indebito vantaggio tributario, anche al di fuori
delle singole ipotesi normativamente previste dal legislatore.
2 Il caso “Dolce e Gabbana”: la ricostruzione del fatto e la vicenda
processuale.
La delicata questione della rilevanza penale dell’elusione fiscale e dell’abuso
del diritto è stata di recente affrontata dalla Corte di Cassazione e dal
dell’operazione prevista. Infatti, conformemente all’art. 11, n. 1, lett. a), della direttiva
90/434, la constatazione che un’operazione di fusione è diretta esclusivamente ad
ottenere un’agevolazione fiscale, e non è quindi effettuata per valide ragioni
economiche, può costituire una presunzione che tale operazione ha come obiettivo
principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l’evasione fiscali. Risulta
dalla giurisprudenza della Corte che, per accertare se l’operazione prevista abbia un
tale obiettivo, le autorità nazionali competenti non possono limitarsi ad applicare
criteri generali predeterminati, ma devono procedere, caso per caso, ad un esame
globale dell’operazione di cui trattasi. Infatti, l’istituzione di una norma di portata
generale che escluda automaticamente talune categorie di operazioni
dall’agevolazione fiscale, a prescindere da un’effettiva evasione o frode fiscale,
eccederebbe quanto è necessario per evitare una tale frode o evasione fiscale e
pregiudicherebbe l’obiettivo perseguito dalla direttiva 90/434 (sentenza Leur-Bloem,
cit., punti 41 e 44).
9
Cassazione, Sezioni Unite, 23 dicembre 2008, n. 30055, n. 30056 e n. 30057 in
Corriere tributario, 2009, n. 6, p. 43 e ss. Con nota di Lupi-Stevenato, Tecniche
interpretative e pretesa immanenza di una generale norma antielusiva. Secondo la
Corte di cassazione il fondamento di un generale principio antielusivo deve essere
rinvenuto nei principi costituzionali: in particolare i principi di capacità contributiva
ex art. 53, 1° c. Cost. e di progressività dell’imposizione ex art. 53, 2° c. Cost. i quali
costituiscono il fondamento, non soltanto, delle norme impositive in senso stretto, ma
anche di quelle che “attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi
genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena
attuazione di quei principi”.
174
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
Tribunale di Milano, chiamati a pronunciarsi sulla responsabilità penale di
due noti stilisti italiani per il reato di dichiarazione infedele ex art. 4 d. lgs n.
74/2000 e truffa aggravata ai danni dello Stato ex art. 640, 2° e 3° c. c.p.: il
giudice meneghino ha pronunciato sentenza di non luogo a procedere per
insussistenza del fatto di reato, mentre la Corte di Cassazione ha annullato
con rinvio ad altro giudice il proscioglimento nel merito del Tribunale di
Milano.
Il caso riguarda la realizzazione di una complessa operazione di
ristrutturazione societaria volta alla cessione di uno dei più noti marchi della
moda a una società di diritto e residenza lussemburghese. Il compimento di
tale operazione si era resa necessaria, secondo le giustificazioni offerte dai
contribuenti, per far fronte all’esigenza di spersonalizzare la gestione del
suddetto marchio, la proprietà del quale faceva capo, in quote paritarie, ai due
stilisti personalmente. La cessione era pertanto volta a sottrarre il marchio
alle ripercussioni di eventuali (e pare anzi effettivi) dissidi tra le due persone
fisiche, che lo avevano creato e per tanti anni gestito direttamente, tanto che
lo stesso sistema bancario aveva giudicato la situazione di contitolarità del
medesimo un forte elemento di debolezza al quale si doveva porre rimedio.
Alla cessione del marchio, avvenuta per il corrispettivo pattuito di 360
milioni euro, sulla base di una valutazione effettuata da una primaria società
di consulenza, faceva quindi seguito la sua concessione in licenza alla società
operativa italiana del gruppo dei due stilisti, dietro il pagamento di un canone
determinato nella misura compresa tra il 3 e l’8% del fatturato secondo le
diverse linee di prodotto.
L’operazione di ristrutturazione societaria sottraeva pertanto la percezione
delle royalties ai due stilisti personalmente, in favore della neocostituita
società lussemburghese, la quale aveva negoziato un accordo di negoziazione
del livello impositivo (c.d. ruling) con l’amministrazione finanziaria di quel
paese comportante l’applicazione di un prelievo assai ridotto sui suoi utili
(pari al 4 per cento); la società italiana licenziataria del marchio deduceva,
invece, per conto suo, i pagamenti dei canoni ai fini Ires e Irap.
Dal momento che gli utili realizzati dalla società lussemburghese venivano,
in ultima analisi, distribuiti ai due soci (attraverso la catena di controllo del
gruppo formata da un’altra società lussemburghese e dalla holding italiana),
la realizzazione dell’operazione suddetta permetteva, dal punto di vista
strettamente fiscale, alle due persone fisiche di trasformare proventi tassati
come redditi diversi (i canoni) in dividendi, fruendo al contempo del ruling
lussemburghese che attenuava di molto il gravame fiscale “consolidato”.
Secondo l’Amministrazione finanziaria tale operazione di ristrutturazione
societaria sarebbe stata realizzata al solo fine di sottrarre ad imposizione le
royalties prodotte dai marchi: in sostanza l’esterovestizione della società
lussemburghese, ritenuta solo fittiziamente risiedere nel paese estero,
unitamente alla cessione simulata del marchio ad un prezzo inferiore a quello
che fisiologicamente sarebbe stato pattuito in un regime di libero mercato,
avrebbero integrato, per l’ente verificatore, la figura del c.d. abuso del diritto.
175
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
Sotto il profilo penalistico, le fattispecie di incriminazione al cospetto delle
quali punire i comportamenti suddetti sono state individuate dalla Pubblica
Accusa nel reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 d.l gs n. 74/2000 e
nel reato di truffa aggravata ai sensi dell’art. 640, 1° e 2° c. c.p.: il primo è
stato contestato ai due stilisti per aver indicato nella propria dichiarazione
tributaria elementi attivi di reddito inferiori a quelli effettivi (consistenti,
nella prospettiva accusatoria, nella differenza tra il corrispettivo al quale
sarebbe dovuta avvenire la cessione del marchio e il minor prezzo
effettivamente pagato); del secondo sono stati invece chiamati a rispondere,
accanto ai noti stilisti, gli amministratori di fatto della società
lussemburghese e il commercialista responsabile dell’operazione, rei di aver
ingannato l’Erario sul paese di reale tassazione dei redditi prodotti dalla
società esterovestita, causando così ad esso un ingente depauperamento
patrimoniale.
Sulla rilevanza penale della complessa operazione giuridico-economica
realizzata si sono pronunciati, con decisioni di segno opposto, il giudice
dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano e la Suprema Corte di
Cassazione (adita con ricorso presentato dalla Pubblica Accusa e
dall’Agenzia delle Entrate, costituitasi parte civile).
Il giudice di merito ha ritenuto di pronunciare sentenza di non luogo a
procedere per insussistenza del fatto di reato, sulla base dell’applicazione del
criterio di giudizio (che sovraintende l’epilogo dell’udienza preliminare) per
il quale il proscioglimento si impone come doveroso quando la “valutazione
prognostica circa i possibili esiti di una eventuale istruzione dibattimentale”
porti ad “una soluzione chiusa, caratterizzata dall’infondatezza dell’accusa
ovvero da una insufficienza e/o contraddittorietà degli elementi di prova”
non superabile con il prosieguo del processo: nel caso di cui si tratta, si legge
nel motivare della sentenza di proscioglimento, non soltanto, “il fatto storico
[risulta] compiutamente accertato e sostanzialmente non controverso tra le
parti”, ma anche i profili di diritto, pur “se sotto il profilo strettamente
tributario, appaiono suscettibili di letture e interpretazioni alternative”,
conducono, sotto il profilo penalistico, “ad un’unica decisione finale” (id est:
il proscioglimento nel merito degli imputati).
La Corte di Cassazione, diversamente valutando invece la rilevanza penale
delle differenti questioni fiscali sottoposte al suo giudizio, ha espresso
importanti principi di diritto, rimettendo al giudice del rinvio la rivalutazione
del caso alla luce di quanto statuito.
3 Le decisioni del Tribunale di Milano e della Corte di Cassazione .
3.1 L’elusione fiscale secondo il Giudice dell’udienza preliminare.
Il diverso approccio interpretativo al fenomeno dell’elusione fiscale e
dell’abuso del diritto ha portato il giudice di prime cure e il giudice di
legittimità a conclusioni diverse in merito alla rilevanza penale di tale
tipologia di comportamenti.
176
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
Il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale meneghino motiva il
proscioglimento nel merito per il reato di dichiarazione infedele sulla base
delle seguenti argomentazioni.
In primo luogo viene sottolineato come l’operazione di ristrutturazione
societaria fosse stata effettivamente realizzata: effettiva e reale è stata infatti
la cessione del marchio dagli originari comproprietari alla società di diritto
lussemburghese, effettivo e reale è stato il pagamento del prezzo pattuito
(essendo state le prime rate regolarmente pagate ed essendo stata sottoposta a
tassazione la plusvalenza realizzata dai cedenti).
L’assenza di qualsiasi nota di simulazione e decettività nei comportamenti
posti in essere è stato pertanto l’elemento fondamentale che ha consentito al
giudice di prime cure di ritenere non integrata la figura di incriminazione di
cui all’art. 4 d. lgs n. 74/2000.
Il reato di dichiarazione infedele, si legge infatti nel motivare della sentenza,
“implica la percezione di un reddito effettivo superiore a quello dichiarato ed
accertato secondo i criteri del processo penale” e non già “l’obbligo di
dichiarare un reddito, e quindi subire la relativa tassazione, secondo il criterio
presuntivo del valore normale, anche se diverso da quello reale”.
Così opinando, il Tribunale di Milano mostra di non attribuire alcuna
rilevanza alla presunzione tributaria di cui all’art. 9 d.P.R. n. 917/1986, e non
soltanto per l’inutilizzabilità nel processo penale delle presunzioni proprie del
diritto tributario, ma soprattutto perché il criterio del valore normale è
assolutamente ininfluente nella prospettiva del reato tributario contestato, non
punendo per l’appunto esso la discrepanza tra quanto indicato nella
dichiarazione fiscale e un opinabile “giusto prezzo” del bene o della
prestazione ceduta, ma il divario tra quanto effettivamente percepito e quanto
indicato nella dichiarazione dei redditi.
In altre parole, la responsabilità penale per il reato di dichiarazione infedele
necessita la “prova del nascondimento dei corrispettivi” e non già che “il
prezzo dichiarato non sia quello determinato presuntivamente dalla legge”:
prova, questa, ritenuta assolutamente manchevole nel caso in questione
(“nulla dice – e nulla dirà mai – che [i due stilisti] hanno effettivamente
percepito un corrispettivo superiore a quello dichiarato di 360 milioni di
euro”) e in ordine alla quale non hanno deposto neanche elementi indiziari,
quali la tenuta irregolare delle scritture contabili, l’esistenza di una contabilità
in nero, accertamenti bancari o testimoniali.
Per contro il prezzo della cessione risulta stabilito secondo “una procedura
trasparente agli occhi (notoriamente attenti) del mercato” (essendo stata
richiesta una valutazione del valore del marchio ad una prestigiosa società di
consulenza) ed esso è stato comunque ritenuto pattuito “nell’ambito della
libertà contrattuale delle parti, che hanno così deciso di regolare i rapporti tra
di loro”.
Se nessun dubbio è sorto in ordine all’effettività della cessione e alle realità
del prezzo, ad uguali conclusioni il giudice meneghino è inoltre giunto con
riguardo all’effettività della sede estera della società acquirente il marchio.
177
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
La negazione dell’esterovestizione della società lussemburghese (intesa
come dissociazione tra sede formale e sede reale dell’impresa esclusivamente
finalizzata ad usufruire di un più favorevole regime fiscale) è motivata, dal
giudice di prime cure, sulla considerazione della tipologia di attività svolta
dalla società estera. Il Tribunale di Milano ha all’uopo ritenuto che, essendo
risultato l’oggetto sociale della Gado Sarl limitato alla sola gestione dei
marchi, sintomi di effettivo svolgimento dell’attività imprenditoriale
dovessero essere valutate non l’attività creativa, le decisioni del managment,
la produzione o la commercializzazione dei prodotti (attività rimaste
effettivamente in Italia ed estranee all’oggetto sociale), ma solo quelle
attività, quali l’iscrizione del marchio negli appositi registri, la sottoscrizione
dei contratti di licenza, l’attività di tutela dalle contraffazione e la percezione
delle relative royalties, pertinenti invece all’oggetto sociale.
In questa prospettiva, sono stati pertanto ritenuti sussistenti elementi di fatto
idonei ad escludere la presenza di una esterovestizione della società anzidetta,
la scelta di collocare all’estero la sede della quale è stata, anzi, ritenuta una
forma di esercizio del diritto di stabilimento di cui agli artt. 49 e ss. del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Considerati pertanto infondati gli elementi probatori addotti dalla Pubblica
Accusa (id est: cessione simulata dei marchi, verso un corrispettivo
incongruo inferiore al loro valore normale, ad una società lussemburghese
esterovestita), il Tribunale di Milano ha reputato insussistenti entrambe le
ipotesi accusatorie sollevate (per le motivazioni a sostegno dell’insussistenza
del reato di truffa ai danni dello Stato si veda infra), anche motivando sotto il
profilo dell’irrilevanza penale dell’elusione fiscale.
Definito l’istituto in questione come “una concatenazione di atti e
procedimenti leciti che consentono di non realizzare la fattispecie imponibile
o di realizzarne una meno onerosa per il contribuente, perseguendo
ultimamente un obiettivo perseguito dalla legge”, il giudice meneghino ha
ritenuto l’elusione fiscale una questione di puro diritto, nella quale gli
“artifici non stanno nei fatti, tutti rappresentati e documentati in modo
conforme alla legge” né nella “divergenza tra voluto e realizzato”, non
essendovi alcun interesse a “mostrare una realtà diversa da quella effettiva”:
in questa prospettiva è quindi evidente il divario che separa, nel pensiero del
Tribunale di Milano, il fenomeno elusivo da quei fenomeni, connotati da
fraudolenza o decettività, suscettibili invece di rientrare nell’ambito
applicativo dei reati di truffa o frode fiscale.
Supportano ulteriormente l’incedere argomentativo del giudice di prime cure
alcune riflessioni di sistema.
L’elusione fiscale si caratterizza per la sua atipicità: la descrizione impressa
al fenomeno elusivo dall’art. 37 bis non è infatti di certo bastevole -sul
versante penale- a conferire determinatezza al medesimo, con la conseguenza
che, sotto questo profilo, il fenomeno in questione, si pone in contrasto con il
fondamentale principio (di origine illuministico-liberale) di legalità, per il
quale il reato è solo il fatto tipico, ovvero il fatto descritto per tipi legali.
178
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
Non può sottacersi, inoltre, secondo il Tribunale meneghino, il profilo
dell’elemento soggettivo del reato che connota le figure di incriminazione di
cui al d. lgs n. 74/2000: alla previsione del dolo specifico, limitata al solo fine
di evadere (e non già di eludere) le imposte, non può non essere infatti
conferito un rilievo particolare, tale per cui la condotta incriminata (alla
tipizzazione della quale partecipa senz’altro la particolare finalità che deve
animare il comportamento dell’agente) deve essere circoscritta alle sole
ipotesi di evasione in senso tecnico.
La natura procedimentale (e non già sostanziale) dell’art. 37 bis d.P.R. n.
600/1973 -si legge nella decisione di primo grado- costituisce, infine,
elemento ulteriore a sostegno dell’irrilevanza penale dell’elusione fiscale. La
norma generale antielusiva comporta, infatti, soltanto il potere
dell’Amministrazione finanziaria di disapplicare agli effetti fiscali il regime
prescelto dal contribuente, senza l’irrogazione
di alcuna sanzione
amministrativa. Conferire rilevanza penale a tale fenomeno porterebbe
pertanto ad una antinomia di sistema, punendo in sede penale ciò che non è
punito in sede tributaria.
3.2
La decisione della Corte di Cassazione.
Sulla questione della rilevanza/irrilevanza penale dell’elusione fiscale sembra
invece essere stata di diverso avviso la Corte di Cassazione la quale, nel
rinviare la sentenza impugnata al Tribunale di Milano, ha enunciato al
riguardo importanti principi di diritto.
Dopo aver ricordato la genesi storica dell’abuso del diritto e dell’elusione
fiscale, e l’orientamento giurisprudenziale (nazionale e comunitario) in
materia sviluppatosi e giunto alla ricordata proclamazione dell’esistenza nel
sistema di un generale principio antielusivo, svincolato dalla violazione di
una specifica disposizione (Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 30055
e 30057 del 23/12/2008), il giudice di legittimità, riconosciuta l’esistenza di
un contrasto giurisprudenziale in materia, ha argomentato a sostegno della
tesi della rilevanza penale dell’elusione fiscale.
In questa direzione, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime
cure (che, nella lettura del dolo specifico, ha valorizzato l’argomento letterale
dell’utilizzo del termine “evasione” e non già “elusione”) viene innanzitutto
sottolineato come la definizione di imposta evasa sia “molto ampia” e, come
tale, “idonea a ricomprendere [in essa] l’imposta elusa”. Essa viene infatti
ritenuta dai giudici di legittimità come la differenza tra “l’imposta
effettivamente dovuta” e “l’imposta dichiarata”, ovvero come la differenza
tra l’imposta che si sarebbe dovuta applicare a seguito dell’operazione elusa e
quella, invece, autoliquidata sull’operazione elusiva.
Così opinando, i giudici di legittimità accolgono quanto sostenuto dalla
minoritaria (seppur autorevole) dottrina, per la quale la condotta del fatto
tipico è integrata “per il solo fatto che vi è una differenza tra l’elemento
attivo dichiarato e quello effettivo”, non dovendo essa necessariamente
conseguire “sul piano qualitativo, a falsità e simulazioni”, ma potendo anche
“deriva[re] solo da una divergenza quantitativa”. In modo simmetrico sono
179
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
state altresì interpretate la componenti negative di reddito, nel senso, appunto,
“di elementi (anche reali) indeducibili in quanto divergenti per eccesso
rispetto a quelli effettivi”10.
Supporta ulteriormente il convincimento della Corte di Cassazione circa la
rilevanza penale del fenomeno elusivo l’istituto del c.d. interpello di cui
all’art. 16 d. lgs n. 74/2000, il quale esclude la punibilità dei comportamenti
elusivi se posti in essere in adeguamento al parere richiesto al Comitato
consultivo per l’applicazione delle norme antielusive. Letta a contrario tale
norma fonda, nel pensiero dei giudici di legittimità, la rilevanza penale dei
comportamenti elusivi realizzati al di fuori della procedura di interpello: si
legge infatti nel motivare della sentenza come non sarebbe necessaria
“un’esimente speciale per la tutela dell’affidamento, se l’elusione fosse
irrilevante dal punto di vista penale”.
La considerazione per la quale la procedura di interpello è attivabile per
l’applicazione delle disposizioni contenute nel d.P.R. n. 600/1973, art. 37 c.3
e art. 37 bis, e quindi con riferimento alle sole specifiche fattispecie elusive
previste dalla normativa tributaria, conduce la Corte di Cassazione a
ridimensionare la portata del principio di diritto per il quale l’elusione fiscale
è tout court penalmente rilevante, ritenendo invece che possano acquisire
rilevanza penale quei soli comportamenti “corrispond[enti] ad una specifica
ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge”.
Così ragionando, i giudici di legittimità escludono che nel campo penale
possa essere affermata, così come avvenuto per il settore civile e tributario,
“l’esistenza di una generale regola antielusiva, che prescinda da specifiche
norme antielusive”, ritenendo invece che possano acquisire rilevanza penale
le sole condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale
antielusiva.
L’enunciazione di un principio di tal fatta non comporta inoltre, nel pensiero
della Corte di Cassazione, alcuna violazione del principio di legalità
imperante nel diritto penale: l’attribuire rilevanza penale a fenomeni
meramente elusivi porta, infatti, ad un risultato interpretativo “conforme ad
una ragionevole prevedibilità, tenuto conto della ratio delle norme, della loro
finalità e del loro inserimento sistematico”. Opinare diversamente
significherebbe trasformare il principio di legalità “in principio di impunità,
pur in presenza di una descrizione della fattispecie elusiva provvista dei
necessari caratteri di determinatezza”.
In questo contesto, è inoltre la nuova filosofia sottesa alla riforma penaltributaria attuata con il d. lgs n. 74/2000 a supportare ulteriormente il
convincimento per il quale l’elusione fiscale non può, nei limiti anzidetti, non
avere aprioristicamente rilevanza penale: se abbandonato il modello del c.d.
“reato prodromico” (che connotava la previgente disciplina di cui alla l. n.
516/1982), le nuove figure di incriminazione “sono incentrate sul momento
della dichiarazione fiscale e si concretizzano nell’infedeltà dichiarativa, il
10
GALLO, Rilevanza penale dell’elusione, cit., p. 321.
180
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
comportamento elusivo non può essere considerato tout court penalmente
irrilevante” .
Sulla base di questi principi di diritto, la Corte di Cassazione ha pertanto
rimesso al giudice del rinvio il compito di valutare la rilevanza penale delle
operazioni societarie realizzate.
L’infondatezza del reato di truffa aggravata ai danni dello Stato in
entrambi i gradi di giudizio.
Se sul tema della rilevanza penale dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale
il giudice di merito e il giudice di legittimità si sono espressi in modo
difforme, pur attraverso percorsi argomentativi differenti hanno invece
concordato sulla inconfigurabilità del reato di truffa ai danni dello Stato,
imputati del quale erano stati, oltre i due noti stilisti, gli amministratori di
fatto della società lussemburghese e il commercialista responsabile
dell’operazione.
Il reato di cui all’art. 640 c.p. era stato ravvisato nel comportamento
fraudolento posto in essere dagli imputati i quali, attraverso la simulata
cessione del marchio ad una società solo fittiziamente residente all’estero,
avrebbero indotto in inganno l’Erario sul paese di reale tassazione dei redditi
prodotti dalla società esterovestita, causando così ad esso un ingente
depauperamento patrimoniale.
Il Tribunale di Milano (dopo aver notato come la Pubblica Accusa avesse
preferito alla strada dei reati tributari –che avrebbe portato ad una
imputazione per omessa dichiarazione a carico dell’amministratore delegato
della società lussemburghese-, quella del diritto penale “classico” -che ha
portato invece all’imputazione per truffa), ha ritenuto insussistente il reato
contestato sulla base di argomentazioni svolte in punto fatto, secondo le quali
la figura di incriminazione contestata è manchevole sotto il profilo sia della
condotta artificiosa, sia dell’induzione in errore, sia dell’atto di disposizione
patrimoniale.
L’assenza della condotta artificiosa del reato di truffa è discesa, nel pensiero
del giudice di prime cure, dal mancato ravvisamento di qualsiasi profilo
simulatorio o decettivo nel comportamento posto in essere dagli imputati:
essendosi profilata la cessione del marchio come un’operazione reale e la
sede della società lussemburghese come effettiva, si è ritenuto non integrata
quella “simulazione o dissimulazione che opera sulla realtà esterna, creando
nella vittima una falsa rappresentazione della realtà medesima” nella quale la
dottrina ritiene consistere l’artificio di cui all’art. 640 c.p.11:
Alla manchevolezza del primo segmento della vincolata condotta truffaldina,
è seguita altresì l’assenza, nel caso in questione, della sequenza induzione in
errore-atto di disposizione patrimoniale, nella quale si concretizza quella
necessaria cooperazione della persona offesa alla propria diminuzione
3.3
11
In questo senso, infra multis, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., p.338.
Sulla tematica dell’idoneità degli artifici e raggiri si v. altresì DE MATTEIS,
Impossibilità della induzione in errore ed idoneità degli artifizi e raggiri nel delitto di
truffa, in Riv.giur.sarda, 1991, n. 1, p. 210.
181
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
patrimoniale, che distingue il reato di truffa dagli altri reati di aggressione
unilaterale al patrimonio della vittima12.
In questa prospettiva, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale
meneghino, non soltanto, ha ritenuto insussistente una induzione in errore del
Fisco italiano, non essendosi la società lussemburghese “minimamente
qualificata agli occhi dell’Agenzia delle Entrate italiana e, di conseguenza
[non avendo] reso alcuna dichiarazione fiscale”, ma non ha anche ritenuto
integrato l’atto di disposizione patrimoniale il quale, se pur può avere
“carattere omissivo”, non può tuttavia essere ravvisato nel fatto che gli organi
12
In questo senso ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, vol. I., cit. p.
336. L’A. sottolinea come il consenso della vittima, carpito fraudolentemente,
caratterizzi il reato di truffa e lo distingui sia dal furto sia dall’appropriazione
indebita, che per contro presuppongono il dissenso della vittima. Nella truffa, invece,
l’agente mediante artifizi e raggiri riesce ad ottenere che la vittima si danneggi da sé:
“consegni una cosa, assuma un’obbligazione, rinunzi ad un suo diritto, compia
insomma un atto di disposizione pregiudizievole per il suo patrimonio e vantaggioso
per altri”. Nello stesso senso LA CUTE (voce) Truffa (dir.vig.), in Enc.dir., cit., p. 261
il quale sottolinea come l’atto di disposizione patrimoniale rappresenti una
componente essenziale nel reato di truffa: “fin dall’inizio del programma criminoso
tutta l’iniziativa del soggetto attivo è in funzione della prospettiva dell’atto di
disposizione patrimoniale che il soggetto passivo dovrà compiere; lo scontro tra due
intelligenze si snoda tra il tentativo di convincere il soggetto passivo a danneggiarsi da
sé, superare le naturali resistenze prima di accedere alla persuasiva insistenza sulla
convenienza e sulla opportunità di porre in essere l’atto di disposizione patrimoniale e
l’ingiusto profitto. L’atto di disposizione segna quindi il passaggio da un fenomeno
interno della psiche del soggetto passivo ad un effetto esterno consistente nel
trasferimento patrimoniale; la vittima sotto l’influsso del processo lesivo azionato dal
reo si determina ad agire efficacemente nell’ambito della propria sfera patrimoniale”.
Sull’argomento si v. altresì PEDRAZZI, Inganno ed errore nei delitti contro il
patrimonio, Varese, 1955-1956, p. 61. Secondo l’A. “la truffa è caratterizzata […]
dalla cooperazione della stessa vittima al fatto lesivo: bisognerà dunque che il fatto
della vittima basti a modificare direttamente la situazione patrimoniale, cagionando il
danno e il profitto. Ossia, chiarisce opportunamente la dottrina, il fatto della vittima
deve essere causa immediata dell’evento, senza che sia necessaria un’ulteriore attività
del reo: altrimenti sarebbe quest’ultima a dare il tono al processo causale, e la
fisionomia dell’offesa muterebbe radicalmente: la condotta del soggetto passivo
avrebbe un valore preparatorio. Su questo punto ci sembra necessaria una
precisazione: fra il fatto della vittima e il risultato non deve frapporsi un’attività del
reo che abbia carattere di usurpazione unilaterale; non muterebbe la fisionomia del
fatto una condotta del reo di natura diversa: una condotta che si limitasse ad attuare
una volontà manifestata dalla stessa vittima. Supponiamo che la vittima, indotta in
errore, consenta al reo di impossessarsi di una sua cosa: l’impossessamento consentito
non costituirebbe più un’usurpazione unilaterale, e l’offesa non perderebbe la sua
fisionomia fraudolenta; resterebbe da discutere in quale momento l’offesa si consuma:
se nel momento del consenso o in quello dell’impossessamento effettivo; ma è già una
questione di minor importanza, in ogni caso l’effetto andrebbe riportato alla volontà
della vittima. Cioè: nell’accertare l’immediatezza di operazione di mezzo, bisogna
tener conto solo dei fattori che hanno una propria autonoma rilevanza”.
182
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
di controllo “non contestino l’evasione tributaria, né tanto meno nel fatto che
l’Erario si limiti a subire l’inadempienza dell’agente” 13.
La Corte di Cassazione esclude invece la fondatezza del ricorso della
Pubblica Accusa, nella parte in cui ritiene configurabile nel caso di specie il
reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, sulla base di considerazioni di
diritto, che fanno leva sul recente insegnamento delle Sezioni Unite della
Corte di Cassazione, per il quale sussiste un rapporto di specialità tra le
figure di incriminazione di cui agli artt. 2 e 8 d. lgs n. 74/2000 e il delitto di
truffa ai danni dello Stato, in quanto qualsiasi condotta fraudolenta diretta
all’evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all’interno del
sistema normativo dei reati tributari, salvo il particolare caso in cui dalla
condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale,
quale l’ottenimento di erogazioni pubbliche 14.
13
In questi casi manca quella necessaria cooperazione della vittima alla causazione
dell’evento del reato, che costituisce un anello indispensabile nella concatenazione
degli eventi causali della condotta truffaldina: l’Erario non omette, indotto in errore,
di esercitare un suo credito nei confronti del contribuente, ma si limita a subire da
questi un minor versamento di imposte: in queste ipotesi è stato sottolineato come “sia
estremamente ardita la pretesa di ricondurre tale perdita ad un atto di disposizione
patrimoniale del danneggiato (requisito implicito della truffa) giacché lo Stato non
risulta essersi spogliato mediante un comportamento proprio del suo diritto, ma è
leso per effetto di un comportamento altrui nella pretesa di vedere adempiuta la
prestazione di imposta” (si v. Cass., Sez. V, 30 gennaio 2007 n. 3257 in RISPOLIBUSATO, Reati tributari, percorsi giurisprudenziali, Milano, 2007, p. 132). In questo
senso si è pronunciato anche quell’orientamento giurisprudenziale meno recente
secondo il quale “lo Stato non si spoglia da sé di un proprio diritto, ma subisce
l’inadempimento dell’obbligato nella convinzione, fraudolentemente provocata
dall’agente, che la prestazione non sia dovuta” (Cassazione, 11 novembre 1956, in
Giust.pen., 1960, II, c. 808), con la conseguenza che non può configurarsi un atto
dispositivo “ciò non tanto perché l’atto stesso non possa concretizzarsi in una rinuncia
al credito, quanto perché il successivo controllo non integra gli estremi della condotta
tipica del soggetto passivo a norma dell’art. 640 c.p., non concretando un atto di
disposizione con cui lo Stato si spoglia di un suo bene patrimoniale” (Cassazione,
Sez. II, 23 febbraio 1972, in Ind.pen., 1979, p. 291).
14
Cassazione, Sezioni Unite, 19 gennaio 2011, n. 1235, in questa rivista, 2011, n. 2,
pp. 337 e ss. con nota di MEREU, La frode Iva tra truffa e frode fiscale: il concorso
apparente di norme/concorso di reati al vaglio delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione. L’A. sottolinea come con questa importante pronuncia le Sezioni Unite
della Corte di Cassazione abbiano risolto il contrasto giurisprudenziale sussistente in
materia di concorso apparente di norme/concorso di reati tra frode fiscale e truffa
aggravata ai danni dello Stato. “Sulla base di un raffronto strutturale tra le fattispecie e
applicando il principio di specialità, la Cassazione ritiene il reato di frode fiscale
speciale rispetto al reato di truffa, in quanto caratterizzato da uno specifico artificio
(l’uso di fatture o da altri documenti per operazioni inesistenti). Non scalfiscono
inoltre il rapporto di genere a specie intercorrente tra le fattispecie de quibus, gli
elementi del danno e profitto, giacché questi “dati fattuali di evento non possono
trasformare una tale situazione di identità ontologica dell'azione in totale diversità del
fatto”. Decisiva appare anche la considerazione per la quale la negazione
dell'esistenza di un rapporto di specialità tra i due reati si pone in contraddizione con
183
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
Opinare diversamente porterebbe ad una utilizzazione strumentale “di una
ipotesi delittuosa comune contro il patrimonio, quale la truffa aggravata ai
danni dello Stato, per alterare, se non stravolgere, il sistema di repressione
penale dell’evasione disegnato dalla legge”: si legge infatti nel motivare dei
giudici di legittimità come i meccanismi della repressione penal-tributaria
“escludono che possa ascriversi anche a titolo di truffa ai danni dello stato
quelle condotte che, previste e sanzionate dal d. lgs n. 74/2000, non abbiano
altra diretta finalità che l’evasione o l’elusione dell’obbligazione tributaria”.
4 Rilievi critici: la tesi dell’irrilevanza penale dell’elusione fiscale e
dell’abuso del diritto e il disegno di legge sulla delega fiscale
approvato dal Consiglio dei Ministri n. 24 del 16.04.2012.
Il diverso approccio del Tribunale di Milano e della Corte di Cassazione al
tema della rilevanza penale dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto
riflette il contrasto dottrinale e giurisprudenziale sorto in materia nel corso
degli anni, che ha visto contrapporsi i fautori delle due diverse tesi.
La tesi rigorista, per la quale il risultato di un comportamento elusivo può
senz’altro coincidere con l’indicazione di elementi attivi inferiori a quelli
effettivi o all’indicazione di costi che altrimenti non sarebbero emersi e che,
proprio per questo, devono essere considerati fittizi, è stata sostenuta dalla
minoritaria (seppur autorevole) dottrina15, dalla Guardia di Finanza nella nota
circolare n. 1 del 200816 e dalla giurisprudenza in qualche sporadica
occasione17.
lo spirito della riforma del sistema penale tributario il quale, basato sull’abbandono
del modello del reato prodromico, focalizza l’attenzione penale sul momento
dichiarativo, sull’esclusione del tentativo per i delitti dichiarativi e sul divieto di
concorso tra emittente e utilizzatore di fatture per operazioni inesistenti. Unica
eccezione alla negazione del concorso di reati viene ravvisata nella esistenza di un
profitto ulteriore e diverso rispetto all'evasione fiscale, come l'ottenimento di
finanziamenti pubblici: in questo caso non sussiste infatti alcun problema di specialità
tra norme, perché la medesima condotta viene utilizzata per finalità diverse e,
violando diverse disposizioni di legge, il disvalore penale del fatto non si esaurisce
nell’ambito del sistema dei reati tributari”.
15
GALLO, Rilevanza penale dell’elusione, in Rassegna tributaria, 2001, n.2, p. 321.
16
Circolare della Guardia di Finanza 2008, n.1, in Ilfisco.it
17
Corte appello Bologna, 21 aprile 2004, n. 788, nella bancadati www.jurisdata.it, per
la quale “l’elusione fiscale costituisce reato quando il contribuente con il suo
comportamento finalizzato alla sottrazione del pagamento delle imposte, pone in
essere una delle condotte che unitariamente considerate integrano un reato o che
integrino gli estremi di una violazione fiscale”. Più di recente si v. Cassazione, 18
marzo 2011, n. 6723, pronunciatasi a seguito di ricorso proposto nei confronti della
decisione del Tribunale del riesame con la quale veniva confermata l’applicazione
della misura cautelare reale del sequestro preventivo; Cassazione 26/05/2010, n.
29724, ricordata dagli stessi giudici di legittimità con la decisione in commento,
riguardante un caso di estero vestizione.
184
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
La tesi dell’irrilevanza penale dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale è
stata invece sostenuta dalla dottrina maggioritaria 18. Ad essa ha fatto seguito
la giurisprudenza sia di merito sia di legittimità la quale, seppur interrotta da
quelle poche pronunce espressesi a favore della rilevanza penale di tali
fenomeni, si sta pian piano imponendo come orientamento maggioritario e
consolidato in materia19.
La diatriba sembra tuttavia trovare una definitiva soluzione: il Consiglio dei
Ministri ha infatti recentemente approvato il disegno di leggo sulla delega
fiscale “per dare maggiore certezza al sistema tributario, migliorare i rapporti
con i contribuenti e proseguire nel contrasto con l’evasione fiscale”,
statuendo l’irrilevanza penale dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale.
In esso si legge infatti come il secondo capitolo della legge delega, dedicato
ai rapporti tra Fisco e contribuente, non soltanto introduca “una definizione
generale dell’abuso del diritto che, recependo la giurisprudenza delle Sezioni
Unite della Cassazione, sarà unificata a quella dell’elusione, rendendola
applicabile a tutti i tributi”, ma preveda anche una “revisione del sistema
sanzionatorio penale secondo criteri di predeterminazione e proporzionalità
rispetto alla gravità dei comportamenti”, nel quale l’applicazione del reato
tributario deve essere esclusivamente rivolta ai “comportamenti fraudolenti,
simulatori o finalizzati alla creazione e utilizzo di documentazione fiscale
falsa”. In questa prospettiva si prevede pertanto “l’esclusione della rilevanza
penale per i comportamenti ascrivibili all’abuso del diritto e all’elusione
fiscale”.
L’introduzione legislativa di un principio di tal portata porrebbe pertanto fine
al contrasto di opinioni in materia: essa è auspicata, non soltanto per ragioni
di maggior certezza legislativa e uniformità nell’applicazione del diritto, ma
soprattutto perché si ritiene vi siano molteplici ragioni che fondatamente
conducano a sostenere l’irrilevanza penale dell’abuso del diritto e
dell’elusione fiscale.
L’atipicità dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto: la
violazione del principio di legalità.
L’assenza di una definizione normativa della categoria civilistica dell’abuso
del diritto e la tipizzazione dell’elusione fiscale in una norma (per il
4.1
18
In dottrina infra multis Cfr. D’AVIRRO, Elusione, Evasione tributaria e frode
fiscale, in AA.VV., La riforma del diritto penale tributario -D. lgs. 19 marzo 2000 n.
74- (a cura di) D’AVIRRO-NANNUCCI, Padova, 2000, p. 127; BRIGAZZI, Gli eventuali
riflessi penalistici dei più diffusi fenomeni di elusione fiscale, in Dir.pen.proc., 1999,
n. 41, p. 486; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale tributario, cit.; GALLO, Elusione,
risparmio di imposta e frode alla legge, cit., p. 384; ADONNINO, Parere del Ministero
delle finanze e del Comitato Consultivo per l’applicazione delle norme antielusive e
rilevanza penale dell’elusione, in Riv.dir.trib., 2001, 2, p. 239; ALESSANDRI,
L’elusione fiscale, in Riv. it.dir.e proc. pen, 1990, p. 1075; MUCCIARELLI, Abuso del
diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici in MAISTO (a cura di), Elusione ed
abuso del diritto tributario, Milano, 2009, 421 ss..
19
Si rimanda alle note dalla n. 38 alla n. 43.
185
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
penalista) non certo dettagliata (id est: l’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973)
evidenziano un dato fondamentale legato all’insanabile contraddizione tra le
necessaria atipicità degli istituti di cui si tratta e la necessaria tipicità, invece,
dell’illecito penale.
Tale nota fondante dei fenomeni in questione si pone infatti in contrasto con
il fondamentale principio, di origine illuministico-liberale, per il quale il reato
è solo il fatto tipico, ovvero il fatto descritto per tipi legali20.
Nella tipizzazione dei fatti incriminati in modelli legali, il principio di legalità
e il sotto-principio di tassatività (dal primo derivante) impongono al
legislatore il dovere di procedere ad una precisa determinazione della
fattispecie legale, affinché risulti tassativamente stabilito ciò che è
penalmente lecito e ciò che è penalmente illecito, al fine di garantire la
certezza della legge. In questo contesto il principio di tassatività, pur non
postulando una incompatibilità assoluta con la formulazione della fattispecie
di incriminazione attraverso elementi normativi, bandisce tuttavia nella
descrizione del fatto di reato l’utilizzo “di elementi vaghi, normativi od
emozionali, che comportino l’indeterminatezza del precetto”21.
Tali considerazioni hanno pertanto insinuato nella dottrina il dubbio di poter
individuare una norma incriminatrice “rispettosa del principio di legalità
(sotto il versante della precisione e della determinatezza) e nel contempo
redatta in modo tale da comprendere nella sua portata definitoria
comportamenti tanto sfumati e generici, come quelli riconducibili alle
categorie dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale”22.
In questa prospettiva rende ancor più fondato il dubbio della legittimità di
una figura di incriminazione di tal fatta l’evoluzione normativa che ha subito
il reato di abuso d’ufficio23: l’abuso innominato (di cui alla versione
20
MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 2008, p, 50. L’A. ricorda come per la
“concezione formale il reato è tutto ciò e solo ciò che è previsto dalla legge come tale.
Considerato in astratto (c.d. aspetto precettivo), ossia quale ipotesi delineata dal
legislatore, il reato è il fatto tipico. La tipicità, cioè l’essere il fatto descritto per tipi
legali, è un carattere essenziale del reato. La tipizzazione dei fatti incriminati in
modelli legali, cioè la descrizione legislativa dei modelli vietati, è la tecnica di
produzione della norma da parte del legislatore. Il perno su cui ruota la concezione
formale del reato è la fattispecie legale o tipica, che costituisce l’approdo del principio
illuministico-liberale del nullum crimen sine lege ed è lo strumento tecnico attraverso
cui vengono soddisfatte le esigenze garantiste di certezza giuridica e di difesa contro
l’arbitrio giudiziario, proprie di tale principio”.
21
MANTOVANI, Diritto penale, cit., p, 107. L’A. ricorda come il principio di
tassatività sia rispettato quanto la figura di incriminazione raggiunge il grado di
determinatezza necessario e sufficiente a consentire al giudice di individuare, ad
interpretazione compiuta, il tipo di fatto dalla norma disciplinato.
22
MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici in
MAISTO (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, p. 421.
23
L’originaria fattispecie di abuso d’ufficio innominato, stante il difetto di tassatività
e determinatezza della fattispecie, ha portato parte della dottrina a chiedere una
riforma della figura di incriminazione finalizzata ad una maggior tassatività della
186
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
precedente la modifica attuata con la L. 16.7.1997 n. 234) si poneva infatti,
secondo l’opinione dominante, in contrasto con il principio di legalità e
tassatività della legge penale, in quanto l’abuso veniva genericamente punito
di per se stesso e non si poneva in funzione della violazione di una specifica
disposizione di legge.
Risulta evidente come tale dato assuma una particolare pregnanza nella
prospettiva di studio del presente lavoro.
Se l’esigenza di maggior determinatezza della legge penale ha, infatti, portato
il legislatore a intervenire sulla fattispecie meglio specificandone la condotta
di abuso “in funzione della violazione di norme di legge o di regolamento”,
non è chi non veda come il conferire rilevanza penale ad una generica
condotta di abuso, che si pone in violazione non di una specifica disposizione
di legge ma di un vago e indeterminato interesse sotteso alla qualificazione
giuridica di quel comportamento in termini di diritto (o di potere), contrasti
inevitabilmente con i principi cardine del diritto penale, presidiati sul piano
costituzionale.
Così ragionando, non si può quindi non convenire con chi ha ritenuto la
categoria dell’abuso “strutturalmente estranea al mondo del diritto penale
per la sua incompatibilità con il fondante principio di legalità […] La natura
essenzialmente atipica dell’illecito costituente l’abuso del diritto si pone in
contrasto irrimediabile con il corollario della necessaria tipicità di qualunque
fattispecie penalmente sanzionata”24.
Alla conclusione della necessaria atipicità del fenomeno abusivo e della
conseguente irrilevanza penale del medesimo perveniva d’altronde già,
all’inizio del secolo scorso, la dottrina civilistica ricordata per la quale “la
figura giuridica dell’abuso, prendendo rilievo unicamente dalla difformità
valorativa del comportamento e non anche dalla difformità da obblighi
normativi specifici non può dar luogo a responsabilità penale. Sotto questo
profilo, infatti, l’abuso si profila come fatto atipico cioè come un fatto non
riconducibile ad una precisa fattispecie legale”25.
Ad uguali conclusioni si deve prevenire con riguardo all’elusione fiscale, la
cui tipizzazione nella disposizione normativa di cui all’art. 37 bis d.P.R. n.
600/1973 non è di certo soddisfacente per il penalista: la descrizione del
comportamento elusivo in uno o più atti “collegati tra loro” posti in essere in
“assenza di valide ragioni economiche” in “aggiramento di obblighi o divieti
previsti dall’ordinamento tributario”, al fine di ottenere riduzioni d’imposta o
rimborsi altrimenti indebiti, non rispetta, infatti, evidentemente, i parametri
della determinatezza e della tassatività della fattispecie penale.
In questo contesto, mal si comprende quindi il principio di diritto espresso
dalla Corte di Cassazione, per il quale “può affermarsi la rilevanza penale di
stessa. Si v. PADOVANI, Commento alla modifica dell’art. 323 c.p., in Leg.pen., 1997,
p. 741; SEMINARA, Il nuovo delitto d’abuso d’ufficio, in Studium Juris, 1997, p. 1251.
24
Così MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici,
cit.,p. 428.
25
GIORGIANNI, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, 1963,
p. 201
187
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva”, in
presenza della quale non è dato ravvisarsi un “contrasto con il principio di
legalità”: la rilevanza penale dell’elusione fiscale nei limiti anzidetti porta,
nel pensiero dei giudici di legittimità, ad un “risultato interpretativo conforme
ad una ragionevole prevedibilità, tenuto conto della ratio delle norme, della
loro finalità e del loro inserimento sistematico”.
La pregnanza del principio di legalità, che trova rilievo costituzionale all’art.
25, 2° c. Cost., è infatti tale da non consentire deroghe o limitazioni di alcuna
sorta, con la conseguenza che non può in alcun modo essere considerata
bastevole, ai fini dell’affermazione della rilevanza penale di un
comportamento, la sua sussumibilità all’interno di una norma tributaria.
La figura di incriminazione penale costituisce pertanto il solo metro al
cospetto del quale valutare la tipicità della condotta.
Così ragionando, si concorda quindi con quanto statuito dal Tribunale di
Milano, il quale nel constatare come “il principio regolatore della materia
[sia] il principio di legalità, che sancisce un nesso inscindibile tra sanzione
penale e fatto, tassativamente e precisamente descritto in una norma penale”
è giunto invece a negare rilevanza penale all’elusione fiscale “caratterizzata
da una marcata atipicità, che confligge con il principio di tipicità e
determinatezza della fattispecie penale”.
La liceità dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale sotto il profilo
civile e tributario.
Come notato dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Milano,
l’elusione fiscale si caratterizza, oltre che per la sua atipicità, anche per la sua
liceità, sotto il profilo civile e fiscale, consistendo esso in una
“concatenazione di atti leciti”, volti all’aggiramento della normativa fiscale.
Per quanto riguarda il fenomeno abusivo, nonostante una prima (e ormai
superata) teorizzazione dell’abuso del diritto in termini di illiceità (per la
quale l’abuso del diritto non costituisce una categoria distinta dall’atto illecito
“in quanto quella che è sostanzialmente una convergenza dell’atto illecito e
dell’atto abusivo nella comune classe degli atti contrari al diritto, viene
assunta come piena e assoluta identità di caratteri dell’uno e dell’altro”26),
l’opinione maggioritaria ritiene oggi che a tale istituto sia estraneo ogni
connotato di illiceità già sotto il profilo civilistico 27. La dottrina italiana di
metà del secolo scorso ha infatti conferito all’abuso del diritto una propria
autonomia concettuale, individuandolo come un atto in sé lecito. In questo
contesto abuso e illecito vengono considerati concetti diversi e
strutturalmente autonomi: sempre riprendendo le parole del Giorgianni si è
ritenuto che la violazione della “disciplina specifica dell’esercizio di un
diritto” non possa che dar luogo “alla qualificazione giuridica di illiceità”,
mentre la violazione dello scopo per il quale il diritto medesimo è
4.2
26
27
GIORGIANNI, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica,cit., p. 90.
RODOTÀ, Diritto (Abuso del), in Enciclopedia forense, cit, p.
188
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
riconosciuto porta invece “ad una configurazione giuridica ben diversa e cioè
a quella figura che la scienza giuridica chiama con il nome di abuso”28.
A medesime conclusioni parte della dottrina tributaristica è giunta con
riguardo al fenomeno elusivo il quale è stato ritenuto non inquadrabile
all’interno della categoria dell’illecito amministrativo, in quanto la sanzione
prevista dal ricordato art. 37 bis, nel consistere nella sola inopponibilità al
Fisco del vantaggio ottenuto attraverso l’aggiramento della normativa fiscale,
mostra un carattere più propriamente “ripristinatorio/restitutorio” che non
sanzionatorio29..
In questo senso si è anche pronunciata di recente la Corte di Cassazione,
Sezione tributaria, la quale ha sottolineato come: “il contrasto all’elusione,
quando non vi sia condotta fraudolenta, non ha come finalità quella di
penalizzare il contribuente che non abbia commesso violazioni, ma quella di
garantire l’eguaglianza del trattamento fiscale attraverso la riconduzione al
regime loro proprio delle operazioni impropriamente sottratte a tale regime”
30
.
28
GIORGIANNI,, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, 1963.
Per 1’A. è abusivo il comportamento relativo all’esercizio di un determinato diritto
concesso dall’ordinamento giuridico; di tale comportamento non vi deve essere uno
specifico divieto normativo, in quanto il comportamento difforme dalla specifica
disciplina normativa concreta il contenuto non già della forma qualificativa in termini
di abuso, ma della forma qualificativa in termini di illecito. La seconda condizione è
che vi sia una disciplina normativa del comportamento a cui si riferisca la figura
dell’abuso: disciplina che posta la prima condizione enunciata, non può essere se non
un divieto generale, cioè una disciplina, esplicita o implicita, relativa all’esercizio del
diritto soggettivo in generale. La terza condizione, infine, è che siffatta disciplina
relativa, esplicita o implicita, all’esercizio del diritto soggettivo in generale, sia
prevista in ordine all’interesse o valore alla cui stregua va esercitato il diritto stesso.
La disciplina specifica e la disciplina generale, anche quando siano ambedue relative
all’esercizio del diritto in ordine all’interesse o valore alla cui stregua lo si compia,
mettono capo tuttavia a qualificazione giuridiche diverse. La disciplina specifica
dell’esercizio di un diritto dà luogo alla qualificazione giuridica di illiceità. La
disciplina generale, invece, dal momento che l’esercizio del diritto che essa prevede
non si presenta come difforme da alcun obbligo che vieti l’uso di un diritto
determinato in ordine all’interesse o valore alla cui stregua lo si compia, ma si
riferisce all’esercizio del diritto in generale, come comportamento da non compiere in
vista di uno scopo diverso da quello per cui il diritto medesimo è riconosciuto, dà
luogo ad una configurazione giuridica ben diversa e cioè a quella figura che la
scienza giuridica chiama con il nome di abuso. Quando il comportamento abusivo sia
individuato come causa della lesione di un diritto o di un interesse giuridicamente
protetto, si presenta come fonte o presupposto di responsabilità civile, cioè come
presupposto di quella conseguenza giuridica che è l’obbligo del risarcimento del
danno. Se poi la responsabilità per abuso convergerà con la responsabilità per
illecito sul medesimo piano sanzionatorio, da ciò nulla potrà argomentarsi contro la
distinzione strutturale relativa alle due diverse figure giuridiche.
29
DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, in FALSITTAFANTOZZI (diretto da) L'ordinamento tributario italiano, Milano, 1993.
30
Corte di Cassazione, 12 novembre 2010, n. 2294 nella bancadati www.jurisdata.it.
189
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
In questo contesto risulta quindi evidente come attribuire rilevanza penale a
fenomeni fiscalmente leciti (come sottolinea il Tribunale di Milano) porti ad
una palese antinomia di sistema, venendo punito penalmente ciò che non lo è
fiscalmente.
Si deve inoltre rammentare come al diritto penale acceda il principio di
necessarietà, per il quale l’intervento punitivo della sanzione criminale, non
soltanto, deve essere riservato alla tutela di beni fondamentali e contro offese
di una certa gravità (la c.d. meritevolezza o proporzionalità della tutela
penale31), ma deve anche intervenire come extrema ratio per l’inadeguatezza
delle sanzioni (civili o amministrative) a colpire il fenomeno illecito (c.d.
principio di sussidiarietà).
Così opinando, non è chi non veda come conferire rilevanza penale a
fenomeni leciti in altri rami dell’ordinamento violi anche i menzionati
principi che caratterizzano il diritto penale.
4.3 La procedura di interpello ex art. 16 d. lgs n. 74/2000.
Motivo ulteriore, che i sostenitori della tesi rigorista, pongono a supporto
della rilevanza penale dell’elusione fiscale, si fonda sull’istituto del c.d.
interpello di cui all’art. 16 d. lgs n. 74/2000, il quale esclude la punibilità dei
comportamenti elusivi se posti in essere in adeguamento al parere richiesto al
Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive.
La disposizione in questione è stata, come visto, particolarmente valorizzata
dalla Corte di Cassazione la quale, sulla base della considerazione per cui la
procedura di interpello è attivabile con riferimento alle sole specifiche
fattispecie elusive previste dalla normativa tributaria, ha ritenuto penalmente
rilevanti quei soli comportamenti “corrispond[enti] ad una specifica ipotesi
di elusione espressamente prevista dalla legge”.
Si ritiene tuttavia non degna di alcun accoglimento tale argomentazione, per
molteplici ordini di considerazioni.
Innanzitutto, l’argomentazione a sostegno di una tale tesi si fonda su una
lettura a contrario dell’esimente di cui si tratta, tale per cui se l’adeguamento
al parere elimina la punibilità, la mancata richiesta del medesimo o la sua
inottemperanza comporta invece la rilevanza penale dell’operazione
realizzata.
Si ritiene tuttavia una simile impostazione inaccettabile, non soltanto, per il
vizio logico di fondo che la connota, ma soprattutto perché si pone in netto
contrasto con quanto affermato dallo stesso legislatore nella Relazione al
d.lgs. 74/2000, nella quale si è espressamente chiarito che “la disposizione di
cui all’art. 16 è unicamente di favore per il contribuente e non può in alcun
modo essere letta ‘a rovescio’, ossia come diretta a sancire la rilevanza
31
Si ricorda che in questo senso si è pronunciato anche il Consiglio del Ministri nel
disegno di legge per la delega fiscale ricordato, il quale ha sottolineato come la
revisione del sistema sanzionatorio penale debba avvenire secondo “i criteri di
predeterminazione e proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti”.
190
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
penalistica della fattispecie lato sensu elusive non rimesse alla preventiva
valutazione dell’organo consultivo” [enfasi aggiunta]32.
L’opinione maggioritaria ritiene, quindi, che né il mancato adeguamento al
parere espresso, né il compimento dell’operazione senza aver richiesto lo
stesso possono dar luogo di per sé a responsabilità penale 33
Al più, è stato osservato, “il mancato adeguamento al parere potrà costituire
un mero indizio, cioè un fattore meritevole di approfondimento da parte degli
organi competenti e non già una fonte di prova determinante della
responsabilità penale del soggetto”34.
Si deve, infine, ricordare come l’inserzione della causa di non punibilità del
ricordato art. 16 non abbia in realtà apportato alcuna novità al sistema, in
quanto alla stessa conclusione si giungeva già alla luce dei principi generali
del diritto penale: come noto l’art. 5 c.p., che disciplina l’errore nella legge
penale, alla luce della rilettura fornita dalla Corte Costituzionale con la
sentenza n. 364/1988, importa l’efficacia scusante dell’errore incolpevole,
nel quale rientra senza ombra di dubbio l’errore derivante dall’affidamento
riposto in pareri dell’autorità amministrativa 35.
L’elusione fiscale e l’abuso del diritto al cospetto delle figure di
incriminazione di cui al d.lgs n. 74/2000: il reato di dichiarazione
infedele.
L’analisi fin qui condotta, pur avendo messo in luce le ragioni principali che
conducono ad escludere rilevanza penale all’abuso del diritto e all’elusione
fiscale, non può esimersi dal guardare ora ai reati tributari, al fine di vagliare
la sussumibilità dei comportamenti elusivi o abusivi sotto il profilo fiscale
all’interno delle figure di incriminazione di cui al d. lgs n. 74/2000 36.
4.4
32
Si v. Relazione al d. lgs n. 74/2000 in Guida al diritto, 2001, p. 37.
Cfr. D’AVIRRO, L’adeguamento al parere del Ministero delle Finanze o del
Comitato consultivo quale causa di esclusione della punibilità, in AA.VV., La riforma
del diritto penale tributario -D. lgs. 19 marzo 2000 n. 74- (a cura di) D’AVIRRONANNUCCI, cit, p. 127; IZZO, Esclusione del dolo per effetto di interpello e pareri
dell’Amministrazione finanziaria, in Il Fisco, 2000, p. 8003; NAPOLEONI, I fondamenti
del diritto penale tributario, nel d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74, cit., p. 238
34
PEZZUTO, L’esclusione della punibilità, in Diritto penale tributario, Padova, 2002,
p. 450
35
MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici, cit., p.
423.
36
In questo senso MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie
incriminatrici, cit., p. 423, il quale, dopo aver analizzato gli elementi caratteristici
dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale, esamina la rilevanza penale di tali
fenomeni alla luce dei reati tributari: “perché la ricerca possa aspirare ad una
accettabile proficuità, occorre dapprima individuare in maniera precisa in che cosa
consistano i comportamenti riportabili rispettivamente alle figure dell’abuso del diritto
(in materia tributaria) e dell’elusione fiscale (tenendo provvisoriamente ferma la
distinzione cennata tra abuso del diritto ed elusione fiscale): per tal modo soltanto è
possibili disporre del primo dei termini indispensabili per effettuare quel giudizio di
relazione, il secondo estremo del quale consiste nel controllare se l’ordinamento
33
191
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
Esclusi i reati di cui agli artt. 2 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di
fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) e 3 (dichiarazione
fraudolenta mediante altri artifici), i quali richiedono un quid pluris
normalmente non rinvenibile nell’elusione fiscale o nell’abuso del diritto
(ovvero l’uso di documentazione fiscale falsa –art. 2- e la falsa
rappresentazione delle scritture contabili e l’utilizzo di mezzi fraudolenti –art.
3-), l’attenzione deve essere rivolta al reato di dichiarazione infedele ex art. 4,
la cui condotta prescinde invece da aspetti o connotati di fraudolenza e il cui
mendacio è punito di per se stesso. L’infedele dichiarazione è infatti un reato
di natura residuale, che punisce tutte quelle ipotesi di falso in dichiarazione
consistenti nella mera indicazione di elementi attivi inferiori al loro effettivo
ammontare e/o di elementi passivi fittizi, non preceduti né supportati
dall’utilizzo di fatture false o di altri artifici37.
E’ stata proprio la semplicità descrittiva della norma, e la sua apparente
ambiguità, a portare alle menzionate tesi contrapposte: da una parte, per i
sostenitori della tesi rigorista gli incerti confini della fattispecie non sono tali
da escludere la punibilità del contribuente che, ricorrendo ad operazioni
elusive, calcoli e indichi in dichiarazione una base imponibile inferiore a
quella che avrebbe, invece, determinato qualora non avesse fatto ricorso
all’elusione (come sostenuto dalla stessa Corte di Cassazione laddove ha
ritenuto l’imposta elusa ricompresa nell’imposta evasa); dall’altra parte, i
sostenitori della tesi opposta sottolineano invece l’intrinseca eterogeneità
dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale, in quanto “comportamenti
perfettamente regolari da un punto di vista formale, la cui maliziosità si
esprime nell’assenza di una valida ragione commerciale o economica
dell’operazione e nell’emergere di un esclusivo fine di sottrarsi
all’imposizione tributaria”, dall’evasione fiscale, connotata invece da
elementi di fraudolenza e decettività. In questa direzione si è pronunciato,
d’altronde, lo stesso Tribunale di Milano, che ha ritenuto l’elusione fiscale
una questione di puro diritto, nella quale gli “artifici non stanno nei fatti,
tutti rappresentati e documentati in modo conforme alla legge” né nella
“divergenza tra voluto e realizzato”, non essendovi alcun interesse a
“mostrare una realtà diversa da quella effettiva”.
Depone inoltre a sostegno di tale interpretazione la già ricordata relazione
governativa al d.lgs n.74/2000, la quale sottolinea la necessità di “un
minimum di attitudine all’inganno nei confronti del Fisco” anche con
riferimento “al delitto di dichiarazione infedele” 38, con la conseguenza che si
vigente conosce fattispecie incriminatrici descrittive di condotte tipiche, alle quali
ultime corrispondano quei comportamenti”.
37
L’inferiore portata lesiva della condotta viene espressa anche attraverso la
previsione di soglie di punibilità: la soglia fissa di rilevanza penale del fatto è
parametrata sui 103.291,38 euro; la soglia mobile è rapportata al dieci per cento
dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o,
comunque, deve essere superiore ad euro 2.065.827,60. Entrambe le soglie devono
essere superate perché il fatto acquisisca rilevanza penale.
38
Relazione al d.lgs. 74/2000, in Guida al diritto, 2000, p. 37.
192
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
è ritenuto non integrato il reato del citato art. 4 tutte le volte in cui non fosse
riscontrabile nella condotta un certo grado di capacità decettiva. Ed è
indubbio che il medesimo non possa essere ravvisato in comportamenti
effettivamente avvenuti e rappresentati all’Amministrazione finanziaria in
modo regolare e trasparente e nei quali l’unica maliziosità consiste nella veste
giuridica ad essi attribuita39.
In altre parole, secondo questa linea di pensiero, possono integrare la figura
di incriminazione di cui al ricordato art. 4 quelle sole dichiarazioni fiscali
consistenti in una mendace rappresentazione della realtà oggettiva, sub
specie di “omessa indicazione di ricavi realmente acquisiti al patrimonio del
dichiarante, ovvero di indicazione di costi non materialmente sostenuti, e non
già le dichiarazioni tributarie la cui (pretesa) infedeltà consista (e si esaurisca)
nella erronea applicazione di norme giuridiche o nella inesatta valutazione di
elementi attivi o passivi, residuando in tal caso eventualmente spazio per la
contestazione amministrativa, la corretta riqualificazione della operazione
censurata e l’imputazione dei relativi elementi reddituali” 40.
39
MUSCO, Brevi note sulla riforma del diritto penale tributario, in Rassegna
tributaria, 2010, n. 5, p. 1179. Secondo l’A. “non sono penalmente rilevanti le
operazioni ritenute dai verificatori […] solo incongrue, illogiche, antieconomiche,
ovvero inerenti a contratti nulli o annullabili”. Nello stesso senso secondo il quale la
tesi sostenuta dall’Amministrazione finanziaria che “ricollega il concetto di imposta
evasa anche ai costi non deducibili o non di competenza” non può essere accolta in
quanto “porterebbe ad un ampliamento della sfera delle condotte penalmente rilevanti
ben al di là dei confini della precedente legge n. 516/1982 in evidente contrasto con il
principio di un diritto penale dell’extrema ratio che caratterizza la riforma del 2000”.
Così ragionando, l’A. ritiene che “non dovrebbero costituire violazioni penalmente
rilevanti, in quanto elementi attivi effettivi, tutte quelle grandezze (ovviamente non
dichiarate) che sono fiscalmente rilevanti, ma che trovano il loro fondamento in
convenzioni di natura prettamente fiscale, come le forfettizzazioni, le presunzioni
legali, le normalizzazioni, i maggiori corrispettivi determinati in base al criterio del
transfer pricing, le plusvalenze per trasferimento all’estero della sede [etc..]”: se,
infatti, ricorda l’A. “il concetto di effettività dell’Amministrazione finanziaria è nel
senso di correttamente determinato in base alle regole tributarie”, in ambito
penalistico il concetto di effettività è invece da “cogliere in relazione alla realtà, per
cui costituiscono componenti positivi effettivi quelli rispondenti alla realtà dei fatti,
cioè quelle grandezze fiscalmente rilevanti che derivano direttamente dal vero; il che
consente per un verso di restituire al termine effettività il significato tipicamente
attribuitogli nell’ambito della normativa fiscale e, per altro verso, di sottrarre alla
rilevanza penale tutte le componenti di reddito che sono soggette a procedimenti
estimativi. Sostenere il contrario significa che i reati di cui al d. lgs. n. 74/2000
andrebbero ben oltre il concetto di frode fiscale di cui alla precedente L. n. 516/1982
che era limitato ai “fatti materiali” non rispondenti al vero ed escludeva, così, tutte le
poste di tipo valutativo”.
40
MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici in
MAISTO (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, cit., 421 ss..
193
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
Sostiene l’argomentare della tesi contraria alla rilevanza penale dell’elusione
fiscale e dell’abuso del diritto anche il maggioritario orientamento
giurisprudenziale.
Nell’affrontare la rilevanza penale di una complessa operazione societaria
riconducibile allo schema del leveraged buy-out, la giurisprudenza di
legittimità ha ritenuto la condotta in esame “esula[re] la contestazione e non
assume[re] (trattandosi di elusione) interesse a fine penale”. In senso
nettamente opposto da quanto statuito con la recente pronuncia in commento,
la Corte di Cassazione ha invece in quell’occasione ritenuto la violazione di
norme antielusive “in linea di principio non comporta[re] conseguenze di
ordine penale”41.
Nello stesso senso si è pronunciata anche la giurisprudenza di merito 42. In un
primo caso, il Tribunale piemontese, chiamato a decidere della rilevanza
penale di una complessa ristrutturazione societaria, ha ritenuto “l’elusione
fiscale, intesa come manovra che permette all’agente di conseguire per via
diversa il medesimo risultato economico che la legge intendeva assoggettare
ad imposizione, un comportamento di per sé lecito”; in un secondo caso, il
Tribunale di Milano, in funzione del Giudice per le indagini preliminari 43, ha
disposto il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste nei confronti di
una operazione di fusione per incorporazione, asseritamente priva di valide
ragioni economiche e unicamente diretta, nella prospettiva accusatoria, ad
ottenere indebite riduzioni d’imposta, sulla base dell’effettività “tanto sul
piano fattuale quanto su quello giuridico dei negozi giuridici adottati”, con
conseguente insussistenza del reato dichiarativo “essendo nel caso di specie
tutti gli elementi di fatto ed i presupposti giuridici dello stesso stati
riconosciuti esistenti”.
Nel senso di non ravvisare alcun reato nelle complesse operazioni societarie
per l’effettività dei negozi giuridici posti in essere e l’assenza di qualsiasi
profilo simulatorio o comunque decettivo nei confronti dell’Amministrazione
finanziaria, si è pronunciata infine anche quella giurisprudenza che,
pronunciatasi in merito alle operazioni c.d. di dividend washing e dividend
41
Cassazione, V Sez., 18 maggio 2006, n. 23730 in www.jurisdata.it.
Si v. Tribunale Pinerolo, G.i.p., 10 luglio 2000 in Diritto e pratica tributaria, 2001,
II, p. 66 con nota di Perini, Fusione di società tra elusione, frode fiscale e nuovo
diritto penale tributario. Il caso concerneva una serie di fusioni per incorporazione,
ognuna delle quali accompagnata da una consistente rivalutazione dei beni
appartenenti alle società incorporate, con conseguente emissione di notevoli disavanzi
di fusione. La disciplina tributaria vigente all’epoca dei fatti consentiva di utilizzare il
disavanzo di fusione per incrementare (sia direttamente sia indirettamente, attraverso
la rivalutazione dei cespiti patrimoniali) gli ammortamenti riconosciuti fiscalmente,
con la conseguente possibilità di abbattere il reddito imponibili negli esercizi
successivi alla fusione. In sostanza l’accertamento di effettività (intesa come
esclusione del loro carattere simulato) delle operazioni bancarie e societarie ha
impedito di ravvisare in esse gli estremi di comportamenti fraudolenti e di conferire
quindi alle stesse rilevanza penale.
43
Tribunale di Milano, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, dott. Grigo, 20
novembre 2002, inedita.
42
194
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
stripping, è sempre giunta a negare loro rilevanza penale, confinandole nel
terreno meramente elusivo 44.
44
In questo filone si ricordano in ordine cronologico i seguenti provvedimenti. In un
primo caso la Procura della Repubblica di Ravenna avanza richiesta di archiviazione
per insussistenza del fatto di reato nei confronti di una costituzione di un usufrutto
azionario tra una società italiana e la sua controllante estera, operazione che
“celerebbe un contratto di cessione di dividendi in elusione delle norme fiscali sulla
ritenuta e sul credito di imposta”. La Procura ha ritenuto l’operazione penalmente
irrilevante “perchè il contratto di usufrutto non è simulato avendo i contraenti voluto
proprio e solo quel contenuto e questi effetti indicati nell’atto” (Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Ravenna, Richiesta di archiviazione del 3 settembre
1994, in Il Fisco, 1994, p. 8190). Nello stesso senso si veda la decisione del Giudice
per le Indagini preliminari di Vicenza, con la quale è stata disposta l’archiviazione del
caso, non realizzando “il meccanismo delle operazioni di usufrutto azionario EsteroItalia il delitto di frode fiscale di cui all’art. 4 l f) l. 7 agosto 1982 n. 516, in quanto la
fonte del reddito viene in tal caso rivelata al Fisco senza alcuna manovra
ingannatoria”. Nel motivare della decisione si legge infatti che “il contribuente che
rivela che il reddito netto da dividendi è pari al costo di acquisizione […] sottopone
fedelmente al Fisco gli elementi della propria base imponibile. L’applicabilità della
norma anti elusiva dell’art. 37 comma 3, del d.P.R. n. 600/1973 è un problema di
ordine strettamente fiscale, non penale” (Giudice per le Indagini preliminari di
Vicenza, decreto 13 settembre 1995, in Il Fisco, 1995, p. 9385). Ancora si veda la
sentenza del Tribunale di Udine, che, decidendo in ordine alla rilevanza penale di un
contratto di leaseback dissimulante un contratto di mutuo con patto commissorio e
con ciò integrante gli estremi del c.d. dividend stripping, ha così motivato l’irrilevanza
penale del fatto: “…la non corrispondenza al vero sta tutta nella qualificazione
giuridica del rapporto contrattuale. Non vi è alcun dubbio che le parti abbiano voluto
i contratti stipulati così come espressi e disciplinati nelle clausole, poiché da esse
derivano i benefici economici per i contraenti e che quindi non vi sia stata alcuna
attestazione di contenuto negoziale diverso da quello voluto. La divergenza è una
divergenza non materiale ma di valutazione giuridica. Siamo quindi del tutto al di
fuori della fattispecie astratta, anche a prescindere dalla simulazione dei contratti”
(Tribunale di Udine, sentenza 5 luglio 1997, n. 167 in Il Fisco, 1997, p. 13321. Nello
stesso senso si è pronunciato sempre il tribunale di Udine con sentenza 3 ottobre
1996, n. 422, in Il Fisco, 1997, p. 2716). Sulla stessa linea di pensiero si è posto
altresì il Tribunale di Pordenone secondo il quale “nei comportamenti in esame – id
est: dividend stripping – non sussistono gli estremi della frode fiscale [..] in quanto in
essi il profilo evasivo discende esclusivamente dalla riqualificazione giuridica del
rapporto negoziale effettivamente intercorso tra le parti e la mera riqualificazione
giuridica del contenuto rappresentato nei documenti negoziali non è in sé idonea a
connotare la condotta in termini di fraudolenza. Invero l’artificio che integra la frode
è costituito da una prospettazione o rappresentazione di una realtà diversa da quella
effettiva, mentre la riqualificazione si sostanzia in una valutazione di natura giuridica
sul contenuto negoziale reso ostensibile al soggetto accertatore, ove la divergenza
dalla realtà effettiva si individua non nel dato storico o materiale rappresentato,
ancorché rilevante come fatto giuridico, ma nella denominazione o nella
qualificazione invocata rispetto a tali emergenze” (Tribunale di Pordenone, 12 luglio
1997, in Il Fisco, 1997, p. 9991). Corte d’Appello di Trieste, 15 luglio 1998, n. 696 in
Il Fisco, 1998, p. 11921. Conferma, infine, l’orientamento della giurisprudenza di
merito citato la decisione della Corte di Appello di Trieste, con la quale si è ravvisato
195
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
Nel senso di interpretare il concetto di effettività della componente positiva o
negativa di reddito diversamente in ambito fiscale (nel quale assume il
significato di correttamente determinato in base alle regole tributarie) e in
ambito penalistico (nel quale il concetto di effettività è invece da “cogliere in
relazione alla realtà, per cui costituiscono componenti positivi effettivi quelli
rispondenti alla realtà dei fatti, cioè quelle grandezze fiscalmente rilevanti
che derivano direttamente dal vero”45), si sta infine pronunciando anche un
sempre più copioso orientamento del Tribunale meneghino 46, eloquentemente
nel dividend stripping un “comportamento meramente elusivo”, in quanto tale non
integrante gli estremi di cui all’art. 4 l. 516/1982.
45
MUSCO, Brevi note sulla riforma del diritto penale tributario, in Rassegna
tributaria, 2010, n. 5, p. 1179. Secondo l’A. “non sono penalmente rilevanti le
operazioni ritenute dai verificatori […] solo incongrue, illogiche, antieconomiche,
ovvero inerenti a contratti nulli o annullabili”. Nello stesso senso secondo il quale la
tesi sostenuta dall’Amministrazione finanziaria che “ricollega il concetto di imposta
evasa anche ai costi non deducibili o non di competenza” non può essere accolta in
quanto “porterebbe ad un ampliamento della sfera delle condotte penalmente rilevanti
ben al di là dei confini della precedente legge n. 516/1982 in evidente contrasto con il
principio di un diritto penale dell’extrema ratio che caratterizza la riforma del 2000”.
Così ragionando, l’A. ritiene che “non dovrebbero costituire violazioni penalmente
rilevanti, in quanto elementi attivi effettivi, tutte quelle grandezze (ovviamente non
dichiarate) che sono fiscalmente rilevanti, ma che trovano il loro fondamento in
convenzioni di natura prettamente fiscale, come le forfettizzazioni, le presunzioni
legali, le normalizzazioni, i maggiori corrispettivi determinati in base al criterio del
transfer pricing, le plusvalenze per trasferimento all’estero della sede [etc..]”: se,
infatti, ricorda l’A. “il concetto di effettività dell’Amministrazione finanziaria è nel
senso di correttamente determinato in base alle regole tributarie”, in ambito
penalistico il concetto di effettività è invece da “cogliere in relazione alla realtà, per
cui costituiscono componenti positivi effettivi quelli rispondenti alla realtà dei fatti,
cioè quelle grandezze fiscalmente rilevanti che derivano direttamente dal vero; il che
consente per un verso di restituire al termine effettività il significato tipicamente
attribuitogli nell’ambito della normativa fiscale e, per altro verso, di sottrarre alla
rilevanza penale tutte le componenti di reddito che sono soggette a procedimenti
estimativi. Sostenere il contrario significa che i reati di cui al d. lgs. n. 74/2000
andrebbero ben oltre il concetto di frode fiscale di cui alla precedente L. n. 516/1982
che era limitato ai “fatti materiali” non rispondenti al vero ed escludeva, così, tutte le
poste di tipo valutativo”.
46
In questo contesto, non si possono non ricordare le parole con le quali la Procura
delle Repubblica di Milano ha motivato la richiesta di archiviazione (successivamente
accolta dal Giudice delle indagini preliminari), con cui ha ritenuto insussistente il
reato di dichiarazione infedele in presenza di “costi effettivamente sostenuti ma
ritenuti sono indeducibili e/o non inerenti oppure semplicemente connessi ad attività
negoziali. La norma penale si riferisce infatti a costi fittizi cioè privi di substrato
materiale e non anche a costi fiscalmente non deducibili, non inerenti o connessi a
contratti diversamente qualificati” (richiesta di archiviazione 14.10.2009, Procura
della Repubblica presso il Tribunale di Milano e decreto di archiviazione del
3.12.2009, inediti). Sempre nel senso di comprendere nel concetto di costo passivo
fittizio (id est: di elemento attivo inferiore al suo effettivo ammontare) il solo elemento
negativo di reddito effettivamente non sostenuto, si è pronunciato il Giudice delle
196
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
rappresentato dall’enunciazione del principio di diritto per il quale, nel caso
di “strumenti negoziali reali ed effettivi (anche complessi ed articolati) ma
tali da aggirare la normativa fiscale” a seguito del quale il contribuente si
limiti “a riportare fedelmente in dichiarazione i dati economici e contabili
dell’attività negoziale realmente posta in essere (anche se diversamente
qualificata in sede di verifica fiscale) non può correttamente parlarsi né di
esposizione di dati passivi fittizi, perché gli atti sono stati realmente realizzati
e fedelmente contabilizzati, né tantomeno di omessa indicazione di attività
occultate, dal momento che in tale concetto non può rientrare l’importo
risparmiato e non versato al Fisco”47.
L’orientamento giurisprudenziale ricordato ha trovato infine conferma nella
già menzionata sentenza della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione,
la quale ha precisato che l’estensione interpretativa del termine ‘fittizio’ a
operazione connotate in senso elusivo o di abuso del diritto può valere
soltanto e limitatamente a fini fiscali, ma non come presupposto per
l’applicazione di una sanzione (nel caso deciso dalla Corte di Cassazione: di
natura tributaria). L’equivalenza tra ‘fittizio’ ed elusivo’ può essere infatti
accettata limitatamente alla rideterminazione del tributo dovuto e al non
riconoscimento del vantaggio fiscale, ma non può essere ammessa quanto
alla irrogabilità delle sanzioni, che non sono applicabili, per difetto di legge
che le preveda, per le condotte solo elusive o di abuso del diritto. Si deve
inoltre sottolineare come l’argomentare della Corte di Cassazione si svolga
nell’ambito dell’illecito amministrativo (tributario), dove il principio di
legalità ha una pregnanza minore che non (come visto) in sede penale, settore
nel quale il principio enunciato deve valere quindi a fortiori ratione48.
Indagini preliminari presso il Tribunale di Monza il quale ha accolto la richiesta di
archiviazione avanzata dalla Procura della Repubblica secondo cui “la deduzione di
costi indeducibili realmente sostenuti non integra il reato di cui all’art. 4 d.lgs n.
74/2000 che prevede, ai fini del giudizio sull’infedeltà della dichiarazione, che la
stessa indichi elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o costi
passivi fittizi”(richiesta di archiviazione della Procura della Repubblica presso il
Tribunale di Monza del 17.05.2010 accolta con decreto di archiviazione del Tribunale
di Monza, Ufficio GIP, del 19.05.10, inediti).
47
Così richiesta di archiviazione del 22.02.2010 della Procura della Repubblica presso
il Tribunale di Milano, accolta con decreto di archiviazione del Tribunale di Milano,
Ufficio del Giudice delle Indagini preliminari del 18.08.2010 inediti
48
Corte di Cassazione, 12 novembre 2010, n. 2294 nella bancadati www.jurisdata.it.
Chiamata a decidere sull’elusività di un’operazione c.d. di dividend washing, la
Suprema Corte ha così ritenuto che “operazioni economiche quali quelle contestate,
realizzate al solo fine di ottenere un vantaggio fiscale, sono operazioni fittizie in
quanto elusive perché attuate per un fine distorto, nel senso che, mentre incidono,
diminuendolo, sul gettito fiscale, contrastano con l’utilità sociale, che costituisce
limite alla realizzazione di qualsiasi valida iniziativa economica”. Ritenendo pertanto
che l’espressione “fittizio” possa equivalere a “non riconosciuto dal Fisco” ai soli ed
esclusivi fini tributari (cioè della sussistenza del debito di imposta), la Corte sottolinea
chiaramente che alla stessa conclusione (equivalenza tra fittizio e non riconosciuto dal
Fisco) non è lecito pervenire con riguardo all’aspetto sanzionatorio. Così ancora
197
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
4.5 L’irrilevanza penale del prezzo incongruo.
Proprio sulla base di queste argomentazioni il Tribunale di Milano ha quindi
ritenuto non penalmente rilevante l’operazione societaria realizzata dai due
noti stilisti italiani, l’effettività di tutti i passaggi della quale (dalla realità
della cessione del marchio per quel determinato corrispettivo alla effettività
della sede estera della società lussemburghese), è stato l’elemento che ha
portato a ritenere non fondata la figura di incriminazione contestata.
Sorregge tale soluzione interpretativa un ulteriore ordine di considerazioni
che, sempre legate al principio per il quale solo l’inesistenza ontologica (e
non già fiscale) di un’operazione può ricevere sanzione penale, si concentra
più propriamente sulla congruità/incongruità del prezzo di trasferimento.
Dopo aver correttamente affermato che le presunzioni fiscali (e quindi anche
quella del valore normale) non possono avere nel campo penale alcun valore
probatorio -se non meramente indiziario- (per l’evidente incompatibilità tra
una prova precostitutita, quale è la presunzione, e il principio del libero
convincimento del giudice il quale, svincolato da verità formali, deve
ricercare nel processo penale la verità materiale dei fatti 49), il Tribunale di
Milano si sofferma sulla inutilità di un’ulteriore perizia estimativa che
individui il “giusto prezzo” di cessione del marchio, perché ciò che
penalmente conta non è l’aver indicato nella dichiarazione tributaria un
prezzo diverso da quel che opinabili regole di mercato ritengono sia quello
giusto, ma è l‘aver indicato nella dichiarazione dei redditi un prezzo diverso
da quello effettivamente intercorso tra le parti.
L’ineccepibile argomentare del Tribunale meneghino trova conferma nello
stesso tenore letterale della figura di incriminazione contestata (id est:
l’indicazione in dichiarazione di costi passivi fittizi): l’origine etimologica del
termine fittizio (dal latino ficticius derivato di fingere), nel rinvenire il
testualmente Cass. Sez. trib., 12.11. 2010, 22994: esplicitamente in questo senso, per
la dottrina tributaria, Uckmar, Corasaniti, de’Capitani di Vimercate, Diritto tributario
internazionale, Manuale, Padova, 2009, pp. 230 e ss
49
Si v. MEREU, Le presunzioni fiscali nel processo penale. La presunzione di utilizzo
di fondi non tassati per effettuare gli investimenti detenuti in paradisi fiscali di cui
all’art. 12 d.l. n. 78 del 2009, in Rivista di Diritto e Pratica tributaria, 2010, n. 1, p.
145 e ss. L’A. sottolinea come lo stesso etimo del termine presunzione riveli
l’incompatibilità del suo utilizzo nel processo penale “ la praesumptio, quale
“procedimento logico necessario a stabilire una relazione tra due fatti sulla base di una
regola di esperienza codificata dal legislatore”, si contrappone alla probatitio e viene
ritenuta compatibile soltanto con quelle scelte legislative disponibili a consentire
l’ingresso nel processo a prove normativamente precostituite e individuate in
parametri oggettivi mediante il riconoscimento anticipato del valore da attribuire ai
fatti oggetto dell’accertamento giudiziale. La prova per presunzioni esonera infatti il
giudice dal giudizio su una o più vicende costitutive del fatto oggetto
dell’accertamento, in quanto le stesse sono già state valutate in via preventiva dal
legislatore. […] Così opinando risulta evidente come le presunzioni risultino estranee
alla materia penale, il cui scopo probatorio, alieno da verità ipotetiche e formali, deve
tendere a raggiungere la “certezza naturale”, ovvero la verità effettiva e reale delle
cose”
198
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
significato dello stesso nel “privo di corrispondenza con la realtà, finto,
inconsistente, immaginario”50, rivela come con tale espressione si voglia far
riferimento ad un concetto di inesistenza materiale del sostantivo al quale lo
stesso si riferisce.
Diverso è invece il concetto di incongruità, al quale accede il significato di
“dominato da disordine o confusione, inadeguato, sproporzionato per
difetto”51: il prezzo incongruo non è un prezzo inesistente (anzi se fosse tale
non si potrebbe di certo disputare della sua congruità), con la conseguenza
che è la stessa lingua italiana, prima ancora del diritto, che impone di
attribuire agli aggettivi de quibus una valenza semantica propria e ben
definita52.
Supporta tale ragionamento la stessa giurisprudenza formatasi in materia di
transfer pricing, tipologia di operazione nella quale si disputa proprio della
congruità del prezzo di trasferimento che deve essere applicato nelle
transazioni tra società appartenenti ad un medesimo gruppo societario, al fine
di assicurare che le condizioni pattuite siano in linea con quelle che sarebbero
state concordate tra soggetti indipendenti.
Chiamata a decidere sulla rilevanza penale di operazioni di tal fatta, la
giurisprudenza ha ritenuto che “i componenti di reddito contestati dai
verificatori quali costi indeducibili od elementi attivi non dichiarati derivanti
da operazioni di transfer pricing infragruppo sono chiaramente e
correttamente indicati nella loro oggettiva esistenza nelle scritture contabili
obbligatorie” con la conseguenza che “tale situazione di fatto non permette di
attribuire rilevanza penale ai comportamenti censurati dai verificatori atteso
che gli elementi passivi fittizi assumono un carattere che integra la fattispecie
di dichiarazione infedele laddove non corrispondono al vero, non essendo
valutabile ai fini penali la mera diversa valutazione sull’inerenza del costo
da portare in deduzione […] trattandosi di operazioni di transfer pricing,
regolarmente rappresentate nelle scritture obbligatorie, [le stesse] non
50
Devoto-Oli, Dizionario della lingua italiana, Milano, 2001.
Devoto-Oli, Dizionario della lingua italiana, Milano, 2001.
52
MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici in
MAISTO (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, cit., 421 ss.. Secondo l’A.
la tesi che ravvisa il costo passivo fittizio anche nel costo meramente indeducibile non
è convincente: “già sul piano del valore semantico del termine ‘fittizio’ […] posto che
accede a tale termine un portato chiaramente espressivo di una ‘non corrispondenza
con la realtà, come facilmente ricavabile dal sostantivo finzione e dal verbo ‘fingere’
che, etimologicamente affini, ne determinano il campo di significato linguistico”. Nel
convincimento che “in sede penale la nozione di fittizietà ha una sua precisa valenza,
che indica una condotta recettiva (o il suo risultato), nella quale l’autore del fatto
realizza uno scarto tra il reale e la rappresentazione dello stesso”, l’A. prosegue
ricordando come anche con riferimento ad altre fattispecie penali (id est: falso in
bilancio) “al termine fittizio, riferito all’utile illegalmente distribuito in violazione del
disposto del previdente art. 2621 co. 1 n. 2 c.c. veniva attribuito in genere il valore di
non esistente, cioè di non effettivamente conseguito. Sicché la qualificazione di
fittizio vale a significare la rappresentazione apparente di un dato della realtà
(economica, finanziaria, negoziale) non effettivamente esistente”.
51
199
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
evidenziano nessun tipo di fittizietà e simulazione idonea a configurare la
fattispecie di cui all’imputazione”53
Così opinando, la difformità del prezzo pattuito per la cessione del marchio
dal c.d. valore normale da attribuire al medesimo non è un elemento che può
di per sé solo acquisire rilevanza penale, essendo necessaria, per
l’integrazione del reato di cui all’art.4, la “prova del nascondimento” della
differenza tra i due valori.
In questo senso la presunzione del valore normale può assumere nel processo
penale il limitato significato di campanello d’allarme di una eventuale
condotta evasiva compiuta a monte, ma giammai costituire la mera
discordanza da esso la prova della commissione del reato di infedele
dichiarazione.
5 Conclusioni. L’esterovestizione tra elusione fiscale ed evasione
internazionale.
La filosofia scolastica tradizionale richiedeva al principio di ogni dialogo la
c.d. explicatio terminorum, ovvero la chiarificazione semantica della
terminologia usata, ritenuta necessaria per una corretta comprensione del
vocabolario utilizzato, e per evitare di scoprire, all’esito di esso, di aver
inteso con il medesimo termine realtà fenomenologiche diverse.
53
Procura della Repubblica di Milano, richiesta di archiviazione del 04.10.2011,
accolta con decreto del Giudice delle indagini preliminari del 03.11.2011 (inediti).
Nella stessa direzione si è pronunciato altresì il Tribunale di Milano, il quale ha
ritenuto l’operazione di transfer pricing non integrare gli estremi del reato di
dichiarazione infedele: “non costituisce il reato di cui all’art. 4 d. lgs. 74/2000”
sostiene il giudice meneghino “il fatto di indicare nella dichiarazione dei redditi di una
società controllante elementi attivi derivanti dalla vendita di beni ad una società
controllata, beneficiaria di un regime agevolato ai fini delle imposte dirette, con
applicazione al prezzo di vendita di un rincaro (nella specie del 4%) inferiore a quello
praticato nei confronti di clienti terzi (nella specie circa del 20%) ed inferiore
comunque (nella specie di oltre sei punti percentuali) al ricarico che si sarebbe dovuto
applicare per remunerare tutti i costi di produzione, difettando il dolo specifico
dell’evasione di imposta e trovando viceversa l’operazione una giustificazione
economica nelle operazioni infragruppo” (Tribunale di Milano, 21 settembre 2006, in
Foro ambrosiano, 2006, 3, 376, con nota di Troyer). Nello stesso senso si è
pronunciato il Tribunale di Ancona con un recente decreto di archiviazione, nel quale
si legge che “il compimento di una serie di operazioni reali ed effettivamente esistenti
delle quali viene però contestata l’incongruità del costo (operazioni transfer pricing)”
non può acquisire rilevanza penale in quanto “non può parlarsi di dati fittizi perché gli
stessi sono stati effettivamente realizzati e contabilizzati, né di omessa indicazione o
occultamento di operazioni realmente compiute perché tutte le operazioni risultano
dalla dichiarazione” (Così decreto di archiviazione, 10.10.2011 del tribunale di
Ancona, Giudice delle Indagini preliminari, inedito).
200
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
La sensazione che si sia in questo caso verificato proprio ciò che, con
l’explicatio terminorum, si intendeva evitare è forte.
Leggendo infatti la decisione della Corte di Cassazione sorge il dubbio che il
perimetro designato dal giudice di legittimità al fenomeno elusivo sia molto
più ampio rispetto a quello ad esso conferito dalla dottrina e dalla
giurisprudenza citate: in altri termini la sensazione è che la Corte di
Cassazione abbia attribuito all’elusione fiscale una rilevanza tale da far
convergere in essa ogni operazione, apparentemente corretta, ma
sostanzialmente svolta in violazione di qualsiasi regola fiscale.
Vediamo perché.
Si è visto come il merito della vicenda riguardi sostanzialmente un caso di
esterovestizione: da esso principia la Corte di Cassazione, la quale antepone,
al tema della rilevanza penale dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale, la
questione relativa alla disciplina fiscale applicabile all’esterovestizione
internazionale.
La struttura del motivare dei giudici di legittimità è in questo senso eloquente
nell’evidenziare l’iter logico dai medesimi seguito.
Dopo aver enunciato le argomentazioni sulla base delle quali il reato di truffa
è stato ritenuto non applicabile al caso in questione (punto 3 della sentenza),
e dopo essersi domandata se nella condotta attribuita agli imputati non
potessero comunque ravvisarsi gli estremi dei reati tributari di cui al d. lgs n.
74/2000 (punto 4), la Corte di Cassazione affronta per l’appunto la questione
dell’esterovestizione della società lussemburghese (punto 4.1.).
Ad essa segue la parte motiva dedicata all’elusione fiscale (punto 4.2),
all’abuso del diritto (4.3.) e, infine, quella relativa alla loro rilevanza penale
(alla quale sono stati dedicati i paragrafi dal 4.4 al 4.9.).
Enunciati i principi di diritto menzionati, la Corte di Cassazione conclude
quindi con il ricordare come sia compito del giudice penale valutare se la
società, acquirente dei marchi, sia da considerarsi residente in Italia oppure
all’estero, senza essere all’uopo vincolato dalle ricostruzioni compiute in
sede tributaria dall’Amministrazione finanziaria (punto 5), e come rientri tra i
poteri del giudice dell’udienza preliminare la riqualificazione del fatto
imputato “in quanto l’esatta attribuzione del nomen juris è connaturale
all’esercizio della giurisdizione” (punto 6).
Così argomentando, i giudici di legittimità mostrano in modo evidente come
il cuore della questione (la cui valutazione rimettere al giudice del rinvio)
riguardi proprio l’esterovestizione della società lussemburghese, la rilevanza
penale della
quale dev’essere, secondo il loro pensiero, esaminata non
alla luce del reato di truffa (strada scelta dalla Pubblica Accusa e ritenuta
inapplicabile), ma alla luce di un diverso reato tributario.
Nel perseguire questa strada, la Corte di Cassazione ha tuttavia ritenuto di
dover affrontare la tematica della rilevanza penale dell’abuso del diritto e
dell’elusione fiscale, come se la questione dell’esterovestizione costituisse
una species di questo più ampio genus. Conferma ulteriormente tale
impostazione la circostanza per la quale i giudici di legittimità citano, tra la
giurisprudenza che sosterrebbe la rilevanza penale dell’elusione fiscale, i
201
ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA
MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM?
propri precedenti afferenti invece il diverso tema dell’esterovestizione
internazionale54.
Assumendo tale dato come presupposto di partenza, la Corte di Cassazione si
è trovata quindi di fronte ad un bivio: o negare rilevanza penale all’elusione
fiscale e, nella sua prospettiva, anche ai fenomeni di esterovestizione, o per
contro affermarla e poter così punire, anche penalmente, tale tipologia di
comportamenti.
Dall’enunciazione del principio di diritto per il quale solo l’elusione fiscale
prevista in specifiche disposizioni antielusive può assumere rilevanza penale,
è scaturita quindi la possibilità di dare una risposta punitiva anche al
trasferimento fittizio di sede all’estero, che trova, per l’appunto, nella
legislazione di settore uno specifico riconoscimento normativo (art. 73, c. 3
d.P.R. n. 917/1986).
Il ragionamento dei giudici di legittimità, corretto nelle conclusioni (ovvero
nel voler conferire rilevanza penale al fenomeno dell’esterovestizone), è
tuttavia erroneo nel percorso argomentativo seguito, nella parte in cui pare
considerare l’esterovestizione un fenomeno elusivo, attribuendo così
all’elusione fiscale una ampiezza di contenuti che non le è propria.
L’esterovestizione societaria non è infatti un fenomeno elusivo, ma un
fenomeno di evasione fiscale internazionale, consistente in una dissociazione
tra residenza formale e residenza sostanziale, al quale l’ordinamento reagisce
attraverso la riqualificazione della residenza fiscale nel territorio italiano e il
conseguente assoggettamento a tassazione dei redditi conseguiti dal soggetto
estero vestito.
In questa prospettiva esso costituisce senza ombra di alcun dubbio un illecito
penale, sotto il profilo del reato di omessa dichiarazione dei redditi da parte
degli amministratori della società esterovestita, senza che al riguardo
sorgesse in alcun modo la necessità di disturbare l’elusione fiscale, l’abuso
del diritto e la questione della loro rilevanza penale.
54
Si v. il punto 4.4. della decisione della Corte di Cassazione sul caso in questione,
nel quale si richiama espressamente la sentenza della Corte di Cassazione 26/05/2010,
n. 29724, riguardante un caso di estero vestizione ed enunciante il seguente principio
di diritto: “L’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale IVA da parte di
società avente residenza fiscale all’estero sussiste se questa ha stabile organizzazione
in Italia, che ricorre anche quando la società straniera abbia affidato, anche di fatto, la
cura dei propri affari in territorio italiano ad altra struttura munita o meno di
personalità giuridica, prescindendosi dalla fittizietà o meno dell’attività svolta
all’estero dalla società medesima”. In quel caso era stato contestato il reato di cui
all’art. 5 d. lgs n. 74/2000 ad una società avente residenza fiscale all’estero, ma che
non possedeva un legame con il territorio di quello Stato.
202
Prof. Pasquale Pistone
Professore Università di Vienna
L’abuso del diritto nella giurisprudenza tributaria della
Corte di Giustizia dell’Unione Europea
Introduzione
L’obiettivo di questo lavoro è di analizzare la dimensione tributaria
dell’istituto dell’abuso del diritto alla luce del contributo della Corte di
Giustizia dell’Unione Europea. E’ infatti indubbio che la Corte sia il vero
artefice di una ricostruzione ermeneutica che realizza una osmosi tra le
tradizioni giuridiche di molti ordinamenti degli Stati membri dell’Unione
Europea ed un principio già intrinseco nel diritto sovranazionale, secondo cui
la tutela giuridica del diritto dell’Unione Europea viene riservata alle sole
situazioni in cui l’applicazione dello stesso venga invocata in buona fede. In
questi termini, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha realizzato nel
contempo una fusione tra categorie giuridiche nazionali e principi di diritto
sovranazionale, ricavando al livello interpretativo un vero e proprio trapianto
legale. Viene infatti restituito al diritto degli Stati membri un istituto
giuridico, quale l’abuso del diritto, capace di acquisire una fondamentale
importanza per effetto del rango gerarchicamente sovraordinato che va
riconosciuto al diritto sovranazionale negli ordinamenti giuridici degli Stati
membri.
Questo studio analizza in primo luogo gli aspetti metodologici
dell’interpretazione delle norme e dell’estrazione dei principi in un contesto
di pluralismo giuridico retto dal primato del diritto dell’Unione Europea che
vincola l’esercizio delle competenze altrimenti mantenute a livello degli Stati
membri in materia fiscale. Successivamente, l’attenzione verrà spostata sul
punto centrale di riflessione, ossia quello dei rapporti tra la categoria
giuridica sovranazionale dell’abuso del diritto e quella del fenomeno
tributario dell’elusione fiscale. In tale sede si porranno le basi per i tre punti
in cui si articolerà il nucleo del presente studio, ossia (i) il confronto tra gli
orientamenti dottrinali e giurisprudenziali nazionali ed europei, (ii) l’analisi
evolutiva delle sentenze tributarie e non tributarie della Corte di Giustizia
Europea in tema di abuso del diritto e (iii) il potenziale impatto della recente
sentenza 3M Italia sui futuri sviluppi in tema di abuso, intorno a cui si
articoleranno anche le conclusioni di questo lavoro.
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
1 Aspetti metodologici
Per cogliere l’essenza della attività ermeneutica della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea sull’abuso del diritto in materia tributaria occorre partire
da due questioni preliminari di carattere metodologico, che attengono
all’esistenza di un pluralismo giuridico retto dal primato del diritto
sovranazionale su quello degli Stati membri in una materia in cui questi
ultimi mantengono ampiamente la potestà impositiva al livello nazionale,
subordinandone l’esercizio al rispetto del diritto dell’Unione Europea 1.
In primo luogo, bisogna chiedersi se sia possibile configurare per l’abuso del
diritto una diversa dimensione rispetto a quella che allo stesso possa essere
riconosciuta ai fini civilistici. Tradizionalmente gli ordinamenti giuridici
europeo-continentali prospettano una dipendenza delle categorie giuridichetributarie da quelle civilistiche quale risultato dell’unità del diritto. In tale
contesto l’unità dell’ordinamento giuridico rappresenta il punto di partenza
per una metodologia ermeneutica che ha rigettato a livello dottrinale il
particolarismo di alcune branche, come ad esempio quella tributaria, che pure
presentano specifiche esigenze di tutela nel contesto di una relazione tra
soggetto privato e soggetto pubblico dell’obbligazione in cui quest’ultimo è
nel contempo portatore dell’interesse della collettività e depositario della
potestà tributaria ed impositiva. Esistono però diversi modi di configurare il
rapporto tra diritto civile e diritto tributario per quanti intendono affrontare il
problema seguendo una metodologia che valorizzi l’esigenza di assicurare il
primato del diritto sovranazionale su quello degli Stati membri, anche
tenendo conto che nell’Unione Europea l’autonomia qualificativa del diritto
sovranazionale è indispensabile per ottenere la omogenea interpretazione ed
applicazione dello stesso su tutto il territorio. Del resto, non può dimenticarsi
che nell’Unione Europea la tradizione giuridica europeo-continentale si
confronta con quella anglosassone, che non conosce il legame genetico tra
diritto civile e diritto tributario e pur tuttavia mantiene l’unità
dell’ordinamento giuridico al livello interpretativo ed applicativo. Questo
lavoro non si propone di effettuare un vero e proprio confronto tra
ordinamenti giuridici di civil law e common law, ma presuppone, ai fini
dell’analisi, una serie di punti fermi nei rapporti tra gli stessi all’interno
dell’Unione Europea ed ai fini della ricostruzione ermeneutica dell’istituto
dell’abuso del diritto nell’ordinamento sovranazionale europeo e del trapianto
legale che del suddetto istituto che viene effettuato verso gli Stati membri.
Questi punti fermi possono essere così brevemente prospettati. Ciascun
sistema giuridico nazionale può avere al proprio interno un diverso assetto
dei rapporti con il diritto tributario e quindi determinare una diversa
dimensione delle categorie giuridiche e del loro adattamento alla materia
tributaria. All’interno di ciascun sistema giuridico può essere riconosciuta
1
Su tali aspetti il presente lavoro costituisce il proseguimento delle riflessioni
dedicate ad Andrea Amatucci in Pistone, P., Pluralismo giuridico ed interpretazione
della norma tributaria, in Scritti in Onore di Andrea Amatucci, vol. I, 2011, pp. 231263.
204
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
una diversa funzione all’attività interpretativa svolta in sede applicativa,
capace dunque di cristallizzare la dimensione concreta di un principio
esistente all’interno del sistema giuridico stesso, ovvero di determinare
l’ambito applicativo di una determinata norma o di una norma che consente
all’ordinamento di reagire ai fenomeni di aggiramento delle proprie norme.
Non interessa dunque ai fini in esame indagare oltre sulla possibilità che
l’eventuale rinvenibilità dell’istituto dell’abuso del diritto possa rappresentare
il risultato di una reazione endogena della norma ai tentativi del suo utilizzo
per finalità diverse da quelle per cui la stessa è stata predisposta dal
legislatore, ovvero l’espressione di una reazione esogena del sistema per
effetto di una apposita clausola normativa prevista per contrastare specifici
fenomeni indesiderati dal legislatore od in modo più ampio, secondo gli
schemi di una clausola generale.
Queste precisazioni non devono indurre a ritenere che il presente lavoro si
astenga dall’affrontare i problemi principali dell’abuso del diritto. Servono
invece a porre le basi di una innovativa metodologia ricostruttiva
sovranazionale, che riconosce l’esigenza di confrontare l’interprete con i
problemi concreti del diritto tributario e che non pone questa disciplina nel
quadro di secondo livello, presupponendo una dipendenza dalle categorie
civilistiche, come invece sarebbe normale negli ordinamenti giuridici di
tradizione europeo-continentale.
Non si può e non si deve infatti studiare il diritto sovranazionale rimanendo
attaccati alle categorie del diritto nazionale, giacché, se così fosse, l’interprete
potrebbe realizzare risultati diversi a seconda dell’ordinamento nazionale e
della tradizione giuridica di partenza. Una metafora può ben illustrare la
nuova prospettiva di questa interpretazione che si ritiene debba trovare
applicazione ai fini in esame, ed in generale per verificare l’impatto del
diritto sovranazionale sulle categorie giuridiche del diritto tributario
nazionale. Quasi come in una realtà tridimensionale, le dimensioni di ciascun
istituto giuridico sovranazionale possono essere colte soltanto con gli appositi
occhiali che suppliscono all’incapacità dell’occhio umano di vederle quando
la stessa è proiettata su uno schermo piatto. In effetti, la dimensione giuridica
propria dell’abuso del diritto alla luce del diritto dell’Unione Europea può
essere paragonata a un fenomeno tridimensionale, in cui la profondità
fornisce una dimensione ulteriore rispetto a quelle che si appiattiscono
all’interno dei singoli ordinamenti giuridici nazionali di common law o di
civil law. La tridimensionalità implica poi che la realtà sovranazionale
osservata con gli appositi occhiali possa poi essere riflessa nell’attività che
l’interprete svolge al livello nazionale al momento di interpretare le norme
del proprio ordinamento giuridico, conferendo alla suddetta attività un ambito
che corrisponde a quello entro il quale il primato del diritto sovranazionale su
quello nazionale lo consenta.
Possiamo quindi prospettare vari corollari di questa prima premessa
metodologica.
Non è necessario che la dimensione tributaria dell’abuso del diritto sia
derivata da quella civilistica ed è anzi ben possibile che quella civilistica sia
205
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
influenzata in tutto o in parte da quella tributaria. A questo riguardo basti
ricordare che la Corte di Giustizia Europea non può attivare da sola la propria
giurisdizione, ma soltanto intervenire quando ciò sia richiesto da un giudice
nazionale (rinvii pregiudiziali), dalla Commissione Europea (procedure di
infrazione) od in altre situazioni tassativamente elencate (ad esempio su
richiesta di uno Stato membro). Potrebbe dunque ben verificarsi in modo
occasionale uno sviluppo giurisprudenziale in materia tributaria dovuto alla
concomitanza di una pluralità di cause pendenti in una specifica materia e la
successiva applicazione della stessa interpretazione in cause pendenti in altri
ambiti, come ad esempio quello civilistico.
Non è necessario che le diverse categorie civilistiche provenienti dagli
ordinamenti giuridici nazionali rilevino necessariamente ai fini della
determinazione di quella tributaria dell’abuso del diritto nell’ottica del diritto
nazionale. In questo senso potremmo trovarci, come in effetti accade, di
fronte ad una situazione in cui simulazione, frode alla legge ed abuso del
diritto potrebbero essere configurate in modo unitario alla luce del diritto
sovranazionale ai fini di determinare la dimensione sovranazionale
dell’istituto dell’abuso del diritto in materia tributaria.
Non è quindi necessario che le due dimensioni (civilistica e tributaria)
dell’abuso coincidano, in quanto potrebbero prospettare diverse applicazioni
a diversi fini ed in relazione a diverse tipologie di rapporti giuridici. E’ però
possibile che non esistano in realtà due dimensioni sovranazionali
dell’istituto dell’abuso del diritto, ma una sola dimensione, che si applica in
contesti diversi.
Questo è quanto il presente lavoro intende accertare, tenendo presente il
punto di arrivo di precedenti elaborazioni svolte su questa tematica 2.
Per realizzare questa attività è però ora necessario prospettare la seconda
premessa metodologica in precedenza prospettata. Tale premessa è
strettamente correlata ai corollari della prima ed alla necessità di tener
presente la possibilità che l’abuso del diritto sia dotato di una duplice
dimensione sovranazionale, da determinarsi in funzione di ciò che
concretamente costituisca l’oggetto dell’abuso. Questa attività ricostruttiva va
effettuata concretamente alla luce dell’articolo 54 della Carta Fondamentale
dei Diritti dell’Unione Europea, approvata con il Trattato di Nizza nel 2000
ed alla quale il Trattato di Lisbona ha conferito effetti vincolanti a partire dal
1° dicembre 2009.
Il suddetto articolo, rubricato “abuso del diritto”, sancisce in sostanza che la
Carta non possa essere interpretata in modo da implicare l’esistenza di un
diritto di intraprendere attività o compiere atti volti a ledere i diritti e le
libertà riconosciuti nella Carta stessa od a limitarli in modo maggiore di
quanto da essa previsto.
2
A questo riguardo ci si propone in questa sede di proseguire un percorso
interpretativo e ricostruttivo iniziato in Pistone, P., Abuso del diritto ed elusione
fiscale, Padova, CEDAM, 1995, e portato avanti in vari altri scritti, principalmente in
lingua italiana, inglese e spagnola e pubblicati in Europa e Sudamerica.
206
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
A questo riguardo, per poter correttamente svolgere la ricostruzione
dell’istituto dell’abuso del diritto alla luce della giurisprudenza della Corte di
Giustizia dell’Unione Europea e per poter svolgere riflessioni utili ad
auspicabili sviluppi della suddetta giurisprudenza nel futuro, occorre
chiedersi se la Carta intenda riferirsi ad una dimensione soggettiva od
oggettiva dell’abuso del diritto. La differenza tra le due dimensioni può
cogliersi tenendo presente che si può abusare di un diritto soggettivo, ossia di
una facultas agendi riconosciuta ad una determinata persona
dall’ordinamento, ma altresì di una specifica norma dell’ordinamento, ossia
di una norma agendi che regola l’esistenza del diritto.
La dimensione soggettiva dell’abuso non va dunque configurata solo in
ragione della rilevanza dell’elemento soggettivo per la sussistenza dello
stesso, quanto piuttosto in modo da determinare se si debba intendere che
l’oggetto dell’abuso sia la situazione giuridica soggettiva riconosciuta ad un
singolo, ovvero la norma che la regola. Potrebbe astrattamente ritenersi che
tale differenza abbia un ruolo limitato. Forse questa affermazione potrebbe
essere corretta da una prospettiva civilistica, visto che al di là delle
configurazioni dei limiti positivi nel diritto degli Stati membri dell’Unione
Europea per l’esercizio di un diritto con finalità antisociali (ossia tendenti a
ledere l’esercizio del diritto altrui) 3, la disciplina dei rapporti intersoggettivi
privati deve assicurare una armoniosa ricomposizione dei rispettivi interessi
in linea con l’ordinamento giuridico.
Tuttavia, pare a chi scrive che, diversamente da ciò che può accadere per
colui che intenda esercitare il proprio diritto per nuocere ad altri, ai fini
impositivi non possa tanto e solo rilevare questa esigenza, quanto piuttosto
quella di assicurare che il prelievo dei tributi ed ogni attività o procedimento
ad essa strumentale possa realizzarsi in piena conformità con le norme che
regolano il fenomeno impositivo. In questo senso, come si è già affermato in
precedenti scritti, l’istituto dell’abuso del diritto entra in stretto collegamento
con il fenomeno dell’elusione fiscale e con l’esigenza di consentire
all’ordinamento di reagire alle attività con cui il contribuente intende sottrarsi
all’obbligo di contribuire al sostegno della spesa pubblica evitando
l’applicazione delle norme impositive od indebitamente invocando
l’applicazione di quelle agevolative od esentative. Nel contesto tributario
l’accento va dunque posto sulla esigenza di assicurare una corretta
applicazione della normativa, proteggendola da tentativi che ne frustrino gli
obiettivi senza determinare un aperto conflitto con la stessa, come accadrebbe
nel caso in cui il contribuente non dichiarasse e/o non pagasse tributi per i
quali si è realizzato il relativo presupposto impositivo 4 o addirittura si
impegnasse a compiere atti per evitare che il Fisco venisse a conoscenza del
3
Esempio di questa tutela piena, ma funzionale, può riscontrarsi nella Costituzione
italiana e nella dimensione che la stessa riserva al diritto di proprietà, superando gli
schemi dell’assolutezza di impronta napoleonica.
4
In questo senso ci si intende riferire al ben noto fenomeno dell’evasione fiscale.
207
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
suddetto fatto5. Importa dunque più di comprendere se l’abuso abbia impedito
la applicazione della norma a quelle situazioni di fatto in cui il legislatore
avrebbe previsto l’obbligo di contribuire al sostegno pubblico, che se il
contribuente abbia esercitato i propri diritti per nuocere ad altri. Con ciò però
non si intende implicare che quest’ultima dimensione possa diventare del
tutto irrilevante, ma piuttosto che la libertà del contribuente di organizzare le
proprie vicende giuridiche debba trovare un limite nell’esigenza di assicurare
la corretta applicazione della norma e non invece di nuocere all’esercizio di
diritto da parte altrui. In questo senso può cogliersi l’esigenza di oggettivare
il riscontro dell’attività abusiva e del relativo elemento soggettivo nei fatti
posti in essere e nell’esistenza di un confronto con quelli al verificarsi dei
quali il legislatore può aver inteso applicare una determinata norma tributaria.
Nella prospettiva della presente analisi, ed al fine di svolgere pienamente la
seconda premessa metodologica, occorre allora chiedersi cosa significhi in
concreto abuso del diritto secondo la citata disposizione della Carta Europea
dei Diritti Fondamentali e quale sia l’ambito entro il quale la giurisprudenza
della Corte di Giustizia Europea possa ricostruirla in materia tributaria.
Due elementi, ossia la formulazione letterale della suddetta disposizione e la
sua collocazione all’interno della Carta, potrebbero a prima vista fornire un
primo elemento per propendere in favore della tesi secondo cui di abuso del
diritto si dovrebbe parlare con una preminenza dell’esercizio di una facultas
agendi per finalità antisociali. Il primo elemento, quello cioè relativo alla
formulazione letterale, indica chiaramente un riferimento al divieto di
esercitare un diritto per ledere gli altrui diritti. Il secondo elemento, quello
cioè relativo all’inserimento della suddetta disposizione nella Carta Europea
dei Diritti Fondamentali, prova che l’obiettivo della norma sia quello di
assicurare al cittadino dell’Unione Europea un diritto fondamentale in base al
quale non può essere privato dei singoli diritti riconosciuti dal diritto
dell’Unione Europea nel contesto delle relazioni di pluralismo giuridico
attraverso cui lo stesso produce i suoi effetti all’interno degli ordinamenti
nazionali, se non nei casi previsti dalla Carta stessa. In questo senso la Carta
produce appieno la sua funzione di fonte delle fonti giuridiche che sanciscono
i diritti delle persone all’interno dell’Unione Europea.
Prima di giungere a conclusioni, forse affrettate, in relazione al significato del
riferimento all’abuso del diritto nell’art. 54 della Carta Fondamentale dei
Diritti dell’Unione Europea, vi sono ancora due elementi da prendere in
considerazione ai fini interpretativi.
5
In questo caso si determina una fattispecie di frode fiscale, che condivide gli
elementi costitutivi dell’evasione fiscale, di cui costituisce una species caratterizzata
per la particolare gravità e pericolosità per l’ordinamento. Ne consegue che, anche la
reazione da parte dell’ordinamento giuridico può assumere i connotati di una
maggiore severità senza determinare violazioni al principio di proporzionalità, cui il
diritto dell’Unione Europea attribuisce il ruolo di guardiano della tutela dei diritti del
singolo da eccessive reazioni dell’ordinamento giuridico.
208
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
Il primo elemento emerge dall’analisi plurilinguistica, che, secondo la
giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea6 deve contribuire alla
ricostruzione del significato delle norme del diritto dell’Unione Europea,
attribuendo alle stesse un significato che assicuri uniformità attraverso le sue
diverse lingue ufficiali. In particolare, è la lingua inglese a fornire interessanti
spunti, in quanto questa disposizione parla di “abuse of rights”, laddove il
termine diritto viene espresso da quella lingua non solo dall’espressione
‘right’, dotata di una chiara connotazione relativa alla situazione giuridica
soggettiva del singolo, ma anche dal termine ‘law’, che si riferisce invece al
diritto inteso come norma giuridica ed ordinamento. Ci si potrebbe allora
chiedere se il dato letterale nella versione ufficiale della Carta Europea dei
Diritti Fondamentali possa aggiungere un elemento decisivo per ritenere che
essa non ha mai inteso riferirsi alla protezione della corretta applicazione
delle norme giuridiche, quanto piuttosto solo ai termini ed alle condizioni
entro le quali i singoli possono esercitare i propri diritti. Questa conclusione,
che pure potrebbe rappresentare in linea di principio una conclusione
conforme all’interpretazione di quell’elemento, va allora confrontata con le
altre lingue ufficiali dell’Unione Europea. Per quanto direttamente
interpretabile da chi scrive non sovvengono elementi utili per confermare o
smentire questa conclusione, visto che in molte altre lingue ufficiali manca
questa diversità tra le due dimensioni e viene utilizzata una terminologia
omogenea in cui facultas agendi e norma agendi infatti coincidono. La
ricerca può poi proseguire con ulteriori elementi provenienti dalla
terminologia finora interpretata dalla Corte di Giustizia Europea in lingua
inglese, che, nelle sue cause in materia tributaria, ha finora sempre parlato di
“abuse of rights” e mai di “abuse of law”.
Varie possono essere le conclusioni cui si potrebbe pervenire su questa base,
ma chi scrive ritiene che non possano essere rinvenuti elementi rilevanti ai
fini della presente indagine. Infatti, la prima sentenza in cui la Corte di
Giustizia Europea si è dovuta confrontare con la sussistenza del divieto di
abuso del diritto in materia tributaria è stata la causa Halifax (in tema di
imposta sul valore aggiunto)7, rimessa da una Corte inglese, dunque in lingua
inglese. Questo elemento è determinante. La Corte nazionale in quella causa
ha ritenuto necessario in quell’occasione chiedere alla Corte di Giustizia
Europea se dovesse applicarsi in una materia regolata dal diritto secondario
quel divieto dell’abuso del diritto che quest’ultima Corte aveva fino a quel
momento applicato al di fuori del diritto tributario. Nell’importare il concetto
di abuso del diritto all’interno dell’ordinanza di rimessione della causa
Halifax, essa ha allora attribuito all’abuso quella formulazione letterale che
maggiormente si confaceva al proprio ordinamento giuridico, parlando di
abuse of rights. Fermo restando che per l’ordinamento giuridico inglese
6
CGUE, 13.4.2000, causa C-420798, W.N., para. 21-22. Si veda amplius su queste
tematiche Maisto, G. (ed.), Multilingual Texts and Interpretation of Tax Treaties and
EC Tax Law, IBFD Publications, 2005, in particolare il contributo di Alber, S.,
Multilingualism and interpretation of EU Law, pp. 105.
7
CGUE, 21.2.2006, causa C-255/02, Halifax et aa.
209
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
parlare di abuso del diritto di per sé non ha senso - visto che, almeno per
quanto concerne la materia tributaria, la reazione ai fenomeni di elusione
fiscale si attua, secondo la giurisprudenza Ramsay dai primi anni ’80 del
secolo scorso, applicando la prevalenza della sostanza sulla forma - si trattava
allora di trovare una formulazione che in grado di assicurare in lingua inglese
quanto meno una dimensione comprensibile a quella giurisprudenza europea
elaborata in tema di abuso del diritto. Se abuse of rights ha poco senso, ancor
meno lo avrebbe avuto abuse of law, visto che ancor meno si potrebbe
configurare nell’ordinamento giuridico inglese quel tipo di fenomeno, in
quanto l’applicazione della legge non può essere abusata. Dopo l’arrivo alla
Corte, la causa Halifax ha quindi mantenuto in lingua inglese la formulazione
adottata dalla Corte nazionale, fatto, questo, del tutto normale, visto che si
tratta di una causa rimessa in via pregiudiziale, in cui dunque il giudice
nazionale chiede aiuto per l’interpretazione del diritto dell’Unione Europea
che ha bisogno di applicare ad una causa pendente dinanzi ad esso. Nemmeno
si sono potuti determinare cambi di tipo linguistico nella pur eccellente
ricostruzione dell’istituto dell’abuso del diritto fatta dall’avv. Gen. Maduro
nelle sue conclusioni, redatte in lingua originale portoghese e tradotte in
inglese mantenendo il riferimento al termine abuse of rights quale esso era
pervenuto dalla Corte nazionale. Da quel momento in poi, o per maggiore
precisione, da quello in cui la causa Halifax è stata fatta oggetto di sentenza,
la terminologia di abuse of rights è stata mantenuta immutata. Probabilmente
questo è imputabile al valore di precedente di tale sentenza, i cui paragrafi
sono regolarmente richiamati tanto nelle successive sentenze tributarie (anche
in materia di imposte diretta a partire dalla causa Cadbury Schweppes). Da
ricostruzioni personalmente effettuate da chi scrive con il servizio di
traduzione giuridico-linguistica della Corte di Giustizia dell’Unione Europea
nel corso di appositi seminari di studio, questa metodologia corrisponde
all’esigenza di mantenere immutato il quadro in cui la Corte di Giustizia
dell’Unione Europea ha sviluppato per la prima volta la propria attività
interpretativa in assenza di ulteriori specifiche manifestazioni di intervento
sul tema da parte della Corte stessa.
Dal dato plurilinguistico emerge dunque che la dicotomia in lingua inglese e
la rilevanza dell’espressione abuse of rights non è necessariamente indicativa
di una sfumatura giuridica volta a sostenere la rilevanza del divieto di abusare
del diritto come facultas agendi. Del resto, applicando le tecniche
ermeneutiche di interpretazione uniforme, sembra difficile pensare che si
potrebbe giungere ad una conclusione diversa, tenuto conto del dato
omogeneo proveniente dalle altre lingue e dell’esigenza di ricostruire la
volontà di chi ha redatto l’art. 54 della Carta Fondamentale o
dell’interpretazione fornita al divieto di abuso del diritto da parte della Corte
di Giustizia Europea nella propria giurisprudenza sulle libertà fondamentali.
Nemmeno si potrebbe arrivare a conclusioni diverse se si adottassero le
nuove teorie che ammettono la rilevanza dell’interpretazione unica anche in
presenza di un testo redatto ufficialmente in più versioni linguistiche, visto
che non sarebbe possibile ammettere che la normativa europea della Carta
210
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
Fondamentale e l’interpretazione che la Corte di Giustizia Europea ha finora
fornito delle libertà fondamentali siano state in sostanza svolte in lingua
inglese e poi tradotte nelle altre lingue 8.
Avendo quindi accertato l’insussistenza di elementi conclusivi provenienti
dall’interpretazione plurilingue, ci si deve ora confrontare con un secondo
elemento, chiedendosi quale sia la possibile utilità di applicare l’art. 54 della
Carta Fondamentale alla materia tributaria con un significato che vieti
l’esercizio antisociale di un diritto, piuttosto che la corretta applicazione di
una norma.
A questo riguardo si ritiene che anche nella misura in cui si volesse ritenere
prevalente un riferimento al divieto di una facultas agendi, sarebbe
necessario comprendere quali diritti e quali libertà non dovrebbero
concretamente essere lesi. A parere di chi scrive nella materia tributaria non
si potrebbe in tale caso fare a meno di riferirsi ad un contesto in cui al
soggetto non sarebbe consentito di realizzare pratiche che siano in contrasto
con il diritto dell’Unione Europea. In tal senso non si potrebbe allora fare a
meno di ricordare che la Carta, ed il divieto di abuso del diritto contenuto
nell’art. 54, finirebbero per ricordare che non si può invocare l’applicazione
del diritto dell’Unione Europea in relazione a pratiche abusive e che queste
ultime sono in sostanza definite nell’interpretazione della Corte di Giustizia
Europea secondo le modalità che questo studio prospetterà di seguito.
In questo senso può già affermarsi che la dimensione tributaria dell’abuso del
diritto non può essere confinata all’interno del solo ambito del divieto
dell’esercizio di un diritto per finalità antisociali. Ad essa deve invece
riconoscersi un ambito operativo più ampio, in cui cioè l’oggetto del divieto
viene determinato sulla base di quanto il singolo ordinamento tributario non
tollera, cioè quei fenomeni di elusione fiscale, che costituiscono aggiramento
della normativa tributaria e sui quali ci si soffermerà nel prosieguo di queste
riflessioni.
2 Abuso del diritto ed elusione fiscale
Nonostante prima della fine del millennio scorso fosse arduo parlare di abuso
del diritto in relazione all’elusione fiscale, questo tema è probabilmente
ormai entrato nel novero di quelli che hanno una rilevanza centrale in materia
tributaria e che attraggono maggiormente ogni tipo di utente di questa branca
del diritto.
Attrae i contribuenti ed i loro difensori, che ne studiano le problematiche al
fine di evitare che possa costituire un grimaldello per forzare la porta della
certezza del diritto che è a salvaguardia suprema dei diritti dei singoli rispetto
all’esercizio del potere impositivo.
8
Anzi, è noto che, al di là delle lingue officiali dei singoli procedimenti, la lingua di
lavoro nella Corte di Giustizia Europea è principalmente quella francese ed è quindi in
quella lingua che si forma il consenso tra i giudici che formulano la sentenza, la cui
formulazione letterale fa poi pienamente fede in tutte le lingue dell’Unione Europea.
211
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
Attrae l’amministrazione finanziaria, che ha realizzato come essa rappresenti
uno strumento per superare le sabbie mobili procedimentali delle disposizioni
normative succedutesi nel corso di decenni, stratificando una reazione
dell’ordinamento senza coerenza e incisività applicativa.
Attrae i giudici. Nell’epoca della costruzione del diritto tributario globale i
giudici italiani si sono resi conto che il divieto di abuso nel diritto rappresenta
un limite alla possibilità di invocare l’applicazione della norma agendi in
materia tributaria all’interno dell’ordinamento di molti Paesi del mondo. Su
questa base la giurisprudenza si è così sforzata, a partire dal 2005, di
realizzare un trapianto legale di questo istituto all’interno dell’ordinamento
italiano, in cui esso era sostanzialmente mancato, od era stato larvatamente
presente nella forma affine, ma con finalità diverse dell’abuso del diritto
come esercizio di facultas agendi, ossia di un diritto per finalità di nuocere al
godimento di diritti altrui.
Attrae il legislatore, che si è reso conto del conflitto latente tra il trapianto
giurisprudenziale dell’abuso operato a livello interpretativo e l’esigenza di
garantire la certezza del diritto, specialmente in presenza dei presupposti
applicativi per la norma contenuta nella disciplina per il procedimento sulle
imposte dirette (ossia l’art. 37bis d.p.r. 600/73). Tale conflitto ha spinto il
legislatore ad intraprendere con decisione la strada della riforma della
normativa con la delega di recente affidata al Governo.
Attrae anche gli studiosi del diritto tributario italiano, che ormai dedicano
ampie pagine all’analisi di queste problematiche, prospettandone i più vari
profili.
Mi propongo di svolgere in questa sezione alcune riflessioni che dimostrano
l’importanza di un’analisi di diritto comparato e sovranazionale per
comprendere in che direzione è possibile ed opportuno che si sviluppi il
diritto tributario italiano a questo riguardo.
A questo proposito è opportuno sottolineare che l’analisi della giurisprudenza
della Corte di Giustizia dell’Unione Europea rappresenta non soltanto il
punto centrale delle riflessioni di questo lavoro, ma anche il punto di partenza
di qualsiasi studio che si proponga di conoscere l’attuale dimensione
dell’abuso del diritto in materia tributaria all’interno dell’Unione Europea.
Essa è infatti autore primo della teoria dell’abuso nel diritto sovranazionale
ed è ad essa che i singoli ordinamenti devono rifarsi per determinare i
rispettivi ambiti entro i quali è possibile che il sistema tributario contrasti le
pratiche elusive. Come già si è avuto modo di precisare in precedenza in
questo scritto, la Corte è quel foro in cui si collegano e fondono le tradizioni
ed istituti giuridici degli Stati membri dell’Unione Europea. Questi vengono
assorbiti dal sistema sovranazionale e restituiti agli Stati membri con il
crisma del primato del diritto dell’Unione sulle fonti nazionali. E’ in quella
sede che la diversità dei singoli sistemi nazionali cede il passo all’armonia
sovranazionale delle fonti del diritto, quasi a formare un tutt’unico, come in
un sistema di vasi comunicanti dalle diverse forme, in cui il livello dell’acqua
si mantiene pienamente omogeneo.
212
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
In ragione della rilevanza di questo fenomeno di osmosi e metamorfosi
giuridica, l’analisi terrà anche conto della sentenza sul caso 3M Italia (C417/10), pronunciata dalla Corte di Giustizia Europea il 29 marzo 2012, che
non chiude tutti gli interrogativi su questa materia nell’ottica del diritto
dell’Unione Europea, forse a causa di una eccessiva prudenza da parte della
Corte stessa.
Preciso però sin da questo momento che, in materia di imposta sul valore
aggiunto, a mio giudizio non esistono più spazi per la previsione di clausole
generali antielusione diverse dagli standards fissati inizialmente dalla
sentenza Halifax (C-255/02) e successivamente perfezionatisi con
l’evoluzione di quel filone giurisprudenziale. Infatti, se le norme antielusione
in questo ambito fossero meno incisive, si rischierebbe di incidere sul sistema
comune di imposizione sul valore aggiunto in modo che quest’ultimo non
tollera. Se invece esse fossero troppo blande, sorgerebbe il problema
contrario di una loro potenziale rilevanza dall’opposto versante del divieto di
aiuti di Stato. E’, quest’ultima, una problematica ancora non chiaramente
definita dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, che non ha ancora
avuto modo di pronunciarsi esplicitamente su di essa, ma può scorgersi una
luce per l’evoluzione giurisprudenziale in questa direzione, anche tenuto
presente che la materia del divieto degli aiuti di Stato ha subito una radicale
evoluzione con la sentenza sul caso Gibilterra9, dove la via della soft law al
contrasto alla concorrenza fiscale dannosa si è incontrata con quella della
hard law basata sugli Artt. 107 e 108 TFUE.
L’analisi si svilupperà in quattro punti che di seguito sono brevemente
delineati. Ciascuno di essi costituirà oggetto di un’analisi separata nei
successivi paragrafi di questo scritto.
In primo luogo, inquadrerò il tema della relazione tra l’abuso del diritto ed il
fenomeno dell’aggiramento delle norme tributarie, meglio noto come
elusione fiscale, tracciando un confronto tra gli orientamenti dottrinali e
giurisprudenziali dei Paesi dell’Unione Europea e l’iter che la Corte di
Giustizia Europea ha affrontato a partire dalla sentenza Halifax. Questa
impostazione potrà facilitare il modo in cui si è realizzato il trapianto legale
in parola, evidenziando anche gli aspetti innovativi che lo stesso ha
determinato.
In secondo luogo, analizzerò una serie di sentenze della Corte di Giustizia
dell’Unione europea (tra il 2006 ed il 2010) in tema di abuso del diritto ed
elusione fiscale, onde verificare se sussistono gli estremi per configurare una
specificità fiscale della teoria dell’abuso del diritto nella giurisprudenza
europea.
In terzo luogo, svolgerò alcune precisazioni sulla causa 3M Italia, per
verificarne il possibile impatto diretto ed indiretto sull’ordinamento tributario
italiano, nonché quello sulla causa C-529/10, Safilo, attualmente ancora
9
CGUE, sentenza 15.11.2011, cause riunite C-106/09 P e C-107/09 P, Commissione
vs. Governo di Gibilterra e Regno Unito; Spagna vs. Governo di Gibilterra e Regno
Unito.
213
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
pendente davanti alla Corte di Giustizia Europea ed anch’essa rimessa dalla
sezione tributaria della Corte di Cassazione.
Trarrò infine alcune conclusioni, tenendo in considerazione l’orientamento
delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione che configura in
relazione all’elusione fiscale un problema di capacità contributiva, su cui
però la Corte Costituzionale non ha finora mai avuto l’occasione di
pronunciarsi.
3 Abuso del diritto ed aggiramento delle norme tributarie
nell’interpretazione giurisprudenziale comparata ed europea
Occorre analizzare innanzitutto un problema di base, ossia quello relativo
all’aggiramento della fattispecie impositiva che il contribuente ricerca al fine
di ottenere un risparmio di imposta. E’ ben chiaro che per il diritto
dell’Unione Europea il Mercato Interno è la dimensione comune dell’Europa
che intende dare dei vantaggi. Pertanto, il fatto di ottenere dei vantaggi, sia
pure di natura fiscale, in relazione all’esistenza delle diverse sovranità degli
Stati membri - come sapete, infatti, in linea di principio, la sovranità in
materia tributaria è rimasta a livello degli Stati membri - non rappresenta in
linea di principio un elemento di criticità.
Il problema sta piuttosto nel delimitare, nel tracciare una linea di
demarcazione tra quei risparmi di imposta che costituiscono un vantaggio
ammissibile secondo i principi giuridici dell’Unione Europea e quelle
situazioni in cui si appalesa con maggiore evidenza una fattispecie di
aggiramento di una fattispecie impositiva (in realtà la terminologia corretta
sarebbe aggiramento di una fattispecie impositiva per l’indebito ottenimento
di una norma che comporta un trattamento fiscale più favorevole). A questo
riguardo è necessario sforzarsi per riconciliare l’orientamento europeo testé
menzionato con l’obiettivo di evitare che il diritto dell’Unione Europea si
tramuti in uno strumento per consentire ai contribuenti di ottenere dei
vantaggi in materia fiscale che non sono tollerati dai singoli ordinamenti
tributari nazionali, in quanto inconciliabili con la struttura delle norme
previste da questi ultimi e, più in generale, con l’esercizio della potestà
impositiva a livello nazionale.
Probabilmente in materia di imposte dirette, il culmine di questo tentativo di
riconciliazione lo possiamo trovare nella sentenza pronunciata dalla Corte di
Giustizia Europea sulla causa Cadbury Schweppes10.
Allo stato attuale tale sentenza dimostra come il criterio utilizzato dalla
Corte per riconciliare queste esigenze in modo tecnicamente accettabile, sia
per gli studiosi, sia per coloro che si occupano per diritto tributario a livello
nazionale e sovranazionale, si identifica nell’individuazione di una
costruzione di puro artificio. Questo termine, utilizzato ed analizzato nella
sentenza di cui sopra, deve essere compreso in modo tecnicamente adeguato
10
214
CGUE, sentenza 12.9.2006, causa C-196/04 Cadbury Schweppes.
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
sia dalla prospettiva del diritto dell’Unione Europea, sia da quella delle
tradizionali categorie giuridiche tributarie.
In particolare, come già si è avuto modo di accennare in precedenza, queste
ultime presentano una tradizionale tripartizione delle forme di risparmio di
imposta, configurando quelle dell’elusione e dell’evasione fiscale (di cui la
frode fiscale è un’espressione di particolare gravità), ma ammettendo altresì
una ulteriore categoria, in cui il risparmio consegue a scelte di tipo
economico. Pertanto, ad esempio andare alla stazione in bicicletta non è
un’elusione delle accise sugli idrocarburi, poiché attiene ad una scelta di tipo
economico: è dunque un tipo di risparmio di imposta che generalmente non
viene mai messo in discussione dagli ordinamenti. Diversamente, nelle altre
due forme si riscontra un problema di contrasto diretto od indiretto con le
norme tributarie ed in particolare nell’ipotesi di evasione fiscale il risparmio
consegue ad un già verificato presupposto di fatto dell’imposta (ossia il fatto
al cui verificarsi scaturisce in via mediata o immediata l’obbligo di pagare il
tributo), mentre nell’ipotesi di elusione fiscale si ha un aggiramento del fatto,
ossia il contribuente cerca dal punto di vista formale di evitare che si verifichi
tale fatto.
Questa tripartizione sembra ormai comunemente accettata dalla dottrina e
dalla giurisprudenza tributaria dei vari Paesi, mentre non altrettanta
omogeneità esiste quanto alle tecniche che vengono utilizzate nei vari
ordinamenti giuridici nazionali al fine di scoprire le pratiche elusive.
In questa sede non si approfondiranno invece gli aspetti relativi alle norme di
contrasto all’evasione, che si caratterizzano per una maggiore omogeneità,
dovuta principalmente al fatto di ruotare intorno all’esistenza di una
violazione diretta del presupposto di una norma impositiva od agevolativa e
si differenziano soprattutto in ragione della rilevanza solo amministrativa o,
più di frequente anche penale (a volte con la previsione di soglie minime di
rilevanza), della condotta che dà luogo all’infrazione.
Per simili ragioni si prescinderà dall’analizzare le tecniche di contrasto alla
frode fiscale, in cui è presente una ancor maggiore omogeneità di reazione,
vista la particolare gravità del fenomeno e dell’azione di solito commissiva
del contribuente, volta ad evitare che il mancato pagamento dell’imposta
possa essere scoperto dalle autorità finanziarie. E’ comunque opportuno
precisare in questa sede che la categoria della frode fiscale (in ambiti diversi
da quelli dell’imposta sul valore aggiunto, che è per sua natura oggetto di
armonizzazione a livello europeo e quindi viene tenuta fuori da questa
analisi) non è unanimemente riconosciuta come un insieme separato da
quello dell’evasione fiscale per almeno due ordine di ragioni, che trovano
applicazione in diversi ordinamenti tributari nazionali degli Stati membri
dell’Unione Europea. In quello del Regno Unito e dell’Irlanda le ipotesi di
evasione sono generalmente graduate in ragione della loro gravità, ma senza
giungere al punto da concepire l’esistenza di un verso e proprio diverso
fenomeno, come quello della frode fiscale. Nella tradizione dei paesi
francofoni, ed in particolare dell’ordinamento francese, l’espressione “fraude
fiscale” viene invece usata come vero e proprio sinonimo di evasione fiscale
215
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
e per questa ragione manca un ulteriore genus per designare quello che ai fini
dell’ordinamento italiano viene definito come frode fiscale. L’esistenza di
una autonoma categoria si rinviene invece negli ordinamenti tributari tedesco,
austriaco ed olandese, così come in quello spagnolo e portoghese.
Veniamo ora ad impostare il problema delle relazioni tra l’elusione e le
tecniche sviluppate dagli ordinamenti tributari degli Stati membri
dell’Unione Europea. L’analisi di questi aspetti è infatti fondamentale per
comprendere quella tridimensionalità dell’abuso del diritto in materia
tributaria, per effetto della quale la Corte di Giustizia Europea ha realizzato
un trapianto degli istituti giuridici nazionale all’interno del diritto
sovranazionale, che ha poi a sua volta restituito una base perché questi ultimi
possano esercitare il contrasto alle forme di elusione fiscale secondo le
modalità più consone al rispettivo contesto ed entro i limiti ammissibili dal
diritto dell’Unione Europea.
Come già si accennava in precedenza, sarebbe in linea di principio errato dire
che esiste una relazione omogenea da un punto di vista della struttura
giuridica del problema dei rapporti con l’istituto dell’abuso del diritto negli
ordinamenti degli Stati membri dell’Unione Europea.
Infatti, in linea di principio l’abuso del diritto è radicato negli ordinamenti
tributari austriaco, belga, francese, olandese, svedese e tedesco, così come, in
misura minore in quello portoghese e spagnolo. E’ invece un fenomeno solo
apparentemente presente nell’ordinamento tributario britannico ed in quello
irlandese, che al più riescono a concepire il fenomeno dell’abuso nella sua
diversa accezione soggettiva di esercizio di un diritto per finalità antisociali
(dunque come abuso di una facultas agendi) e che pur sempre hanno finora
efficacemente contrastato l’elusione fiscale per il mezzo di tecniche
equivalenti di origine ed applicazione giurisprudenziale (già in precedenza si
richiamava in questo scritto la cd. giurisprudenza Ramsay, sviluppata dalle
corti inglesi a partire dai primi anni ’80 del secolo scorso) e che ora, nel caso
del Regno Unito, stanno per procedere all’introduzione di una clausola
normativa antielusione.
L’esistenza dell’abuso del diritto negli ordinamenti in precedenza citati non
implica automaticamente che lo stesso abbia in ciascuno di essi la stessa
estensione. Abbastanza emblematica sembra il confronto tra i sistemi
francese da una parte e quelli austriaco e tedesco dall’altro. In Francia,
probabilmente a causa dell’evoluzione del diritto privato e della stretta
dipendenza del diritto tributario da quest’ultimo, si concepisce l’abuso del
diritto nelle due varianti della simulazione (abus de droit-simulation) e della
frode alla legge (abus de droit-fraude à la loi), dimostrando la capacità
dell’istituto dell’abuso del diritto di ricomprendere al suo interno tutte le
situazioni in cui il prelievo impositivo non riesce ad attuarsi in modo
conforme ai fatti realmente verificatisi, sia per effetto di una situazione da
caratterizzare diversamente da quella che appare ai fini della titolarità
giuridica di un diritto, sia per effetto di un aggiramento della fattispecie
impositiva da parte del contribuente. In Austria ed in Germania si segue
invece una linea interpretativa ed applicativa che separa nettamente il
216
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
negozio apparente (Scheingeschäft) da quello elusivo (Umgehungsgeschäft).
Questa differenza di base prende poi corpo in materia fiscale per effetto
dell´esistenza di una legge generale tributaria, che qualifica le fattispecie di
aggiramento della fattispecie impositiva o di indebito ottenimento di quella
agevolativa alla stregua di abuso del diritto (Rechtsmißbrauch). Il filtro della
legge generale tributaria condiziona la qualificazione ai fini impositivi delle
categorie giuridiche generali, impedendo alla radice ogni forma di
frammistione fra simulazione ed abuso del diritto, così da inquadrare la prima
nell’ambito dell’evasione e da erigere il secondo a baluardo del contrasto
all’elusione fiscale. Se dunque vi è simulazione, ci si trova di fronte a
fattispecie di mera apparenza di una forma alla quale non corrisponde la
sostanza o che riflette una sostanza diversa da quella che si manifesta ictu
oculi e dalla quale non si può far dipendere il prelievo impositivo.
Diversamente, nella misura in cui si verifichi un abuso del diritto, la tensione
tra forma e sostanza dà luogo ad una fattispecie in cui il risparmio d’imposta
risulta attraverso l’effetto aggiramento di una norma impositiva (o conseguito
grazie all’indebita applicazione di una norma agevolativa). Nel caso in cui le
due ipotesi prevedono il coinvolgimento di altri soggetti, è dunque ben
possibile ricondurre i due fenomeni rispettivamente negli alvei
dell’interposizione fittizia e dell’interposizione reale. Ciò ovviamente non
impedisce di contrastare il fenomeno elusivo con ulteriori norme specifiche,
come ad esempio quelle sul beneficiario effettivo, sui prezzi di trasferimento
o sulle società controllate estere, visto che non esiste una necessaria
alternatività tra norme generali e norme speciali di contrasto all’elusione.
In realtà l’interpretazione potrebbe addirittura prevenire la necessità di una
reazione esterna della norma impositiva al tentativo del suo aggiramento, così
come ha da decenni affermato la cd. Innentheorie nella dottrina e
giurisprudenza austriaca. In quest’ottica, seguendo schemi in sostanza
analoghi a quelli dell’interpretazione teleologica è la norma stessa che
impedisce il fenomeno elusivo, fino al punto da superare il dato letterale alla
ricerca della volontà normativa e quindi di ciò che il legislatore ha voluto in
sostanza contrastare. Le critiche ad un uso eccessivamente disinvolto dello
strumento interpretativo sono però comuni da parte dei sostenitori della cd.
Außentheorie, che subordinano questo tipo di risultato all’attribuzione di
specifici poteri di riqualificazione all’amministrazione finanziaria, per i quali
è appunto necessario che siano rinvenibili gli estremi dell’applicabilità della
norma generale antielusione, ossia dell’abuso del diritto. A tali critiche viene
dai primi risposto che un sistema giuridico in sé perfetto non conosce lacune
che l’interprete non possa colmare a livello di una corretta ermeneutica.
Questo elemento sembra ancor più determinante in quei sistemi che
postulano un tipo di interpretazione secondo la realtà economica, come ad
esempio quello belga, che riconosce il diritto a caratterizzare le fattispecie
impositive alla stregua della reale funzione riconducibile alle stesse,
eliminando ogni effetto anomalo che possa dar luogo ad ingiustificati
arricchimenti od ad indebiti vantaggi.
217
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
Al di fuori dell’Unione Europea questo parametro caratterizza anche
l’influenza dell’azione di indebito arricchimento esperibile dal fisco
nell’ordinamento tributario russo. Nell’Unione Europea esso invece avvicina
l’approccio tipico all’elusione fiscale negli ordinamenti europeo-continentali
con quello che invece è proprio delle tecniche di prevalenza della sostanza
sulla forma del tipo elaborato dalla giurisprudenza britannica con la sentenza
Ramsay nei primi anni ’80 del secolo scorso.
Dall’analisi comparata con i sistemi tributari nazionali degli altri ordinamenti
giuridici europeo-continentali emerge dunque come la reazione all’elusione
fondata sul divieto dell’abuso del diritto necessiti dell’esplicita previsione di
una clausola all’interno del singolo ordinamento. In questo senso non vi è
dubbio che non sia possibile in tali ordinamenti tributari l’istituto dell’abuso
del diritto al livello interpretativo: laddove esiste, esso presuppone
l’applicabilità di una apposita clausola. Come diceva l’illustre studioso
tedesco Albert Hensel vari decenni fa, il vero problema dell’elusione
comincia lì dove non fallisce l’interpretazione 11. In questo senso, alla
Innentheorie formulata da Wolfgang Gassner ormai quaranta anni orsono 12,
l’ordinamento austriaco affianca una apposita norma antiabuso contenuta nel
paragrafo 22 della Bundesabgabenordnung (con un contenuto in sostanza
equivalente a quello del paragrafo 42 della Abgabenordnung tedesca). Tali
approcci all’elusione fiscale sono regolarmente oggetto di applicazione da
parte della Corte Costituzionale e della Suprema Corte Amministrativa
Federale dell’Austria13, così come dalla giurisprudenza tributaria tedesca.
Questa base di partenza dell’analisi si trova però ad interagire con il dato
rappresentato dall’ordinamento sovranazionale, che riconosce l’esistenza del
divieto dell’abuso del diritto, ricavandola dai principi comuni
all’ordinamento della gran parte degli Stati membri, conferendo allo stesso
una dimensione diversa e correlata all’obiettivo di non consentire che il
primato del diritto sovranazionale su quello interno possa essere invocato in
situazioni abusive o fraudolente.
Per comprendere le conseguenze di questo trapianto legale e della nuova
dimensione che all’abuso viene conferita dall’ordinamento sovranazionale e
che quest’ultimo a sua volta restituisce agli Stati membri con l’aggiunta
dell’effetto di primato sulla normativa nazionale.
Veniamo quindi ora ad esaminare questa dimensione alla luce delle categorie
del diritto dell’Unione Europea. Prima di svolgere l’excursus sul contrasto
all’elusione fiscale nell’ordinamento di alcuni Stati membri dell’Unione
Europea si è fatta menzione della rilevanza centrale che assume a questo
riguardo, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, il concetto di
costruzione di puro artificio.
11
Die echte Steuerumgehung beginnt erst dort, wo die Auslegung versagt.
Gassner, W., Interpretation und Anwendung der Steuergesetze - kritische Analyse
der wirtschaftlichen Betrachtungsweise des Steuerrechts, Wien, 1972.
13
VwGH 22.9.2005, 2001/14/0188; VwGH 17.10.2007, 2006/13/0014.
12
218
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
E’ ora opportuno fornire a questo concetto una dimensione più concreta ed
uno specifico ambito applicativo. La Corte di Giustizia Europea di certo non
ha inteso lavorare su elementi che rientrano in ipotesi di mera fittizietà,
perché tali ipotesi rappresenterebbero situazioni di mera apparenza non
fondate su un dato sostanziale e sarebbero perciò tali da rientrare nelle ipotesi
di evasione piuttosto che di elusione.
Questo è chiaro nella sentenza Cadbury Schweppes quando si dice che
l’applicazione dell’imposizione sulle società controllate estere da parte dello
Stato di residenza della controllante sarebbe applicabile in modo generale
solo nei casi di mera apparenza della società controllata stessa, ossia in casi
che in sostanza sono diversi da quelli per cui la suddetta normativa è stata
prevista.
Nella giurisprudenza della Corte sono però rinvenibili precedenti che
dimostrano la consapevolezza di questa differenza tecnica tra le due
fattispecie di elusione ed evasione anche indipendentemente dallo schema
dell’abuso del diritto. Infatti, in particolare negli anni ’80 e ’90 del secolo
scorso, la Corte è stata chiamata ad affrontare problemi di elusione ed
evasione fiscale in tema di imposta sul valore aggiunto in una serie di
pronunce, come quella sul caso Naturally Yours Cosmetics Ltd14. In quel
periodo non era ancora così evidente l’impatto della giurisprudenza della
Corte in materia fiscale, né ancora così radicata quella giurisprudenza,
culminata nella sentenza Emsland-Stärke15, di cui le sentenze Halifax,
Cadbury Schweppes e tutte le pronunce successive in materia tributaria
costituiscono concreta applicazione. Nella sentenza Emsland-Stärke, la Corte
ha chiaramente negato che il diritto dell’Unione Europea potesse essere
invocato per porre in essere fattispecie abusive.
Ciononostante, al tempo della sentenza Naturally Yours Cosmetics Ltd. la
Corte si è trovata di fronte ad ipotesi di evasione e elusione ed ha abbozzato
quel criterio, poi successivamente recepito con il riferimento alle costruzioni
di puro artificio, culminate nell’analisi fatta con la sentenza Cadbury
Schweppes. Tale sentenza non è stricto sensu il punto di partenza della
giurisprudenza fiscale della Corte. Infatti, come già si diceva, il punto di
partenza reale in cui si trovano gli elementi, la teorizzazione dell’abuso del
diritto è la sentenza Halifax. E’ quindi in questa sentenza che possono
rinvenirsi alcuni paragrafi che presentano quegli elementi soggettivo ed
oggettivo, che integrano gli estremi di un abuso del diritto.
Nella sua giurisprudenza fiscale però, la Corte di Giustizia si trova a fare i
conti con il problema delle costruzioni di mero artificio ed in particolare con
il fatto che l’elemento intenzionale o soggettivo, se non riflesso con i fatti
posti in essere dal soggetto, non è in grado di condizionare il modo in cui
concretamente si attua il prelievo tributario. Pertanto, noi possiamo trovare
un elemento di specificità nella giurisprudenza “non fiscale” della Corte nel
modo in cui si considera l’elemento soggettivo che si affianca all’elemento
14
15
CGUE, sentenza 23 novembre 1988, causa 230/87, Naturally Yours Cosmetics Ltd
CGUE, sentenza 14 dicembre 2000, causa C-110/99, Emsland-Stärke.
219
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
oggettivo, rappresentato dal fatto di ricercare un risparmio di imposta in
aggiramento di una fattispecie impositiva.
Mettendo insieme questi due componenti, l’elemento che caratterizza la
costruzione di mero artificio sta nel fatto che la pratica abusiva si può
rinvenire quando ci sia una situazione in cui una società non abbia una
sostanza adeguata alle funzioni che la stessa svolge (caso Cadbury).
La Corte nazionale, nell’effettuare il rinvio pregiudiziale in materia tributaria
si trova ad affrontare le questioni che riguardano l’esercizio di prerogative a
livello nazionale, ovvero un giudice nazionale ha un problema e per la sua
soluzione deve analizzare il diritto dell’Unione Europea, c’è da interpretare il
diritto dell’Unione, quindi rinvia la questione alla Corte, in particolare alla
Corte è arrivata una questione in tema della cd normativa CFC sulle società
controllate estere. Tale normativa presenta la situazione in cui lo stato
membro diverso da quello di residenza della società controllante ha un
regime di vantaggio rispetto al regime dello stato in cui risiede la società
controllante, in sostanza tali vantaggi possono essere ottenuti anziché
costituire una società figlia nello stesso stato di residenza della società madre
si costituisce in un altro stato membro, (nel caso di specie si trattava di una
questione che riguardava il Regno Unito e la Repubblica di Irlanda).
La Corte di Giustizia in questa sentenza ha confrontato una società madre
britannica che aveva una società figlia in Irlanda in cui vi è un aliquota
standard per la tassazione del reddito delle società al 12,5% ed evidentemente
era un regime più favorevole rispetto a quello che avrebbe trovato
applicazione se ci fosse stata una società figlia nel Regno Unito. In
particolare, la Corte (para. 45 della sentenza) ha anche operato un confronto
tra la fattispecie concreta e due situazioni ipotetiche, in cui rispettivamente si
costituiva una società figlia nel Regno Unito ed una società figlia in un altro
Stato membro con un livello di imposizione inferiore a quello britannico, ma
non in grado di far scattare l’applicazione della normativa sulle società
controllate estere.
In particolare, nella prima ipotesi, il confronto ha anche tenuto conto del fatto
che la eventuale applicazione di un’agevolazione fiscale ad una società figlia
nel Regno Unito non sarebbe stata compensata dall’applicazione di una
normativa analoga a quella di tipo CFC, che invece rimuove gli effetti
vantaggiosi della minore imposizione sulla società figlia estera.
Nella sentenza Cadbury dunque la Corte ha ricomposto e delimitato questa
categoria di costruzioni di mero artificio, non legandola specificamente né
alle ipotesi di elusione, né a quelle di evasione, ma limitandosi a configurare
la fattispecie concreta, che in quanto oggetto della normativa CFC
rappresentava un’ipotesi di elusione fiscale ai sensi delle categorie tributarie,
come una situazione in cui il diritto dell’Unione Europea non consentiva
l’applicazione della norma nazionale in assenza di una pratica abusiva. In
questo senso potrebbe affermarsi che abusive possano essere sia le pratiche
elusive, sia quelle di evasione fiscale. Tuttavia, l’analisi del caso concreto,
relativo all’applicazione di una normativa antielusione, quale è quella sulle
società controllate estere, induce a riferire il concetto di costruzione di mero
220
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
artificio alle sole fattispecie elusive. In questo senso la mancanza di sostanza
che le caratterizza e che assurge a loro elemento distintivo, va riconosciuta,
come affermato dalla Corte nella sentenza Cadbury Schweppes16, nella
mancanza di una adeguata dotazione di personale, locali ed apparecchiature
in relazione alle funzioni che la società è chiamata a svolgere.
Nella prospettiva di analizzare l’impatto del diritto sovranazionale sul diritto
tributario italiano, anche alla luce dell’influenza che su entrambi produce il
diritto comparato, sembra allora opportuno svolgere alcune brevi
considerazioni sul riferimento alle “costruzioni di mero artificio”
esplicitamente inserito al comma 8ter dell’art. 167 TUIR per effetto della
novella del 2009. Questo consentirà di prospettare alcune conclusioni sulle
modalità in cui si è realizzato il trapianto normativo e sui possibili problemi
esistenti a questo riguardo.
L’intenzione legislativa di introdurre un riferimento esplicito allo standard di
compatibilità in base al quale la Corte di Giustizia Europea esclude la
possibile esistenza di violazioni al principio di non discriminazione è
evidente e non necessita di commenti. In tali situazioni il legislatore,
assumendo come modello categorie giuridiche sovranazionali, decide di
conformarsi ad esse anche da un punto di vista concettuale e pertanto accetta
implicitamente anche di seguirne l’interpretazione, in conformità con quanto
ritenuto dalla Corte di Giustizia, che è l’interprete unico del diritto
dell’Unione Europea.
Pertanto, si deve ritenere che sono costruzioni di mero artificio quelle che il
diritto dell’Unione Europea ritiene tali e che il contribuente deve poter fornire
la prova contraria richiesta dalla disposizione in parola seguendo gli
standards europei. L’oggetto di tale prova, conformemente alla
giurisprudenza europea, non potrà essere diverso dai criteri indicati dal
paragrafo 67 della sentenza Cadbury ed in precedenza richiamati. Inoltre,
l’incidenza del diritto dell’Unione Europea potrà avvertirsi anche in sede
delle modalità con cui la suddetta prova deve essere fornita: occorrerà
rispettare il principio della libertà della prova e non richiedere al contribuente
modalità troppo onerose per fornire la prova stessa, giacché altrimenti
potrebbero insorgere ostacoli procedurali all’esercizio del diritto, che
equivarrebbero a non garantire l’effettività dello stesso.
Personalmente, ritengo che un conflitto quantomeno latente possa a questo
riguardo emergere sia in ragione dell’estremo rigore dei criteri indicati a
livello della prassi ministeriale, sia per effetto dell’obbligo di richiedere
previo interpello. Su questi temi sarebbe quindi bene che fossero rimesse
questioni in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea o che la
Commissione prendesse iniziative nell’ambito preliminare che porta a
valutare l’eventualità di aprire una apposita procedura di infrazione.
16
Cfr. CGUE, Cadbury Schweppes, cit., para. 67.
221
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
4 Giurisprudenza tributaria e non tributaria della Corte di Giustizia
Europea in tema di abuso del diritto
E’ necessario ora osservare se all’interno della giurisprudenza fiscale della
Corte di Giustizia Europea vi sia una unitarietà degli elementi di specificità
rispetto a quella che potremo considerare giurisprudenza generalista della
Corte in tema della Corte.
Per fare questo è necessario tracciare prima un confronto tra la
giurisprudenza in tema di libertà fondamentali ed IVA (da una parte) e quella
relativa alle direttive in materia di imposte dirette, che sembra mostrare
alcune peculiarità. E’ infatti alla luce di queste che è possibile comprendere la
reale dimensione specifica del divieto dell’abuso del diritto in materia fiscale
e quindi poterlo confrontare con quello relativo a tutti gli altri ambiti del
diritto.
In particolare, c’è una sentenza in relazione al diritto secondario dell’Unione
Europea in materia tributaria, ossia quella sul caso Kofoed17, che a mio
giudizio non può destare alcune perplessità. Tale pronuncia verte in
particolare sull’art.11, par.1, lett. a) della Direttiva 90/434/CE sulle fusioni,
attualmente riformulato dalla Direttiva 123/2006 in modo da consentirne
l’applicazione anche alle società europea e cooperativa europea. La
formulazione letterale di tale articolo e la sua natura di norma priva di un
effetto diretto sono probabilmente da individuare come le cause principali
della perplessità di chi scrive in merito alla sentenza pronunciata dalla Corte
di Giustizia Europea sul caso in parola.
Tale norma fa salva la possibilità per gli Stati Membri di applicare la propria
normativa nazionale antiabuso anche in presenza di un regime fiscale comune
a livello dell’Unione europea. Questa direttiva è stata concepita negli anni
60’ del secolo scorso, ma ha dovuto attendere anni per le difficoltà enormi
dell’armonizzazione nelle imposte dirette anche a causa della regola della
unanimità nelle deliberazioni del Consiglio in materia fiscale. In quel periodo
(come del resto tuttora) vi era una marcata ostilità degli Stati membri al
primato dell’Unione europea in questa materia, in cui si temevano gli effetti
di un trasferimento ancorché parziale di sovranità tributaria dal livello
nazionale a quello europeo. Inoltre, in tema di pratiche abusive, non si era
ancora realmente sviluppata quella giurisprudenza che avrebbe poi consentito
di escludere ogni utilizzo del diritto comunitario (ora dell’Unione Europea)
nell’ambito di pratiche con finalità abusive. Alla luce di queste
considerazioni risulta chiara la necessità di una clausola del tipo di quella
inserita nella direttiva fiscale sul regime comune delle fusioni e risulta
altrettanto chiara anche la ratio che la stessa intende perseguire.
Soffermiamoci ora sulla sentenza Kofoed e sulle conseguenze che
l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia è in grado di determinare
sull’ambito oggetto della nostra analisi.
17
CGUE, sentenza 5.7.2007, causa C-321/05, Kofoed.
222
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
Nel sistema danese non esiste una clausola generale antiabuso, antielusione
od antievasione, ma soltanto clausole specifiche. Il giudice danese si è così
trovato di fronte ad una fattispecie in cui percepiva un aggiramento del
regime fiscale comune introdotto nell’ordinamento danese in trasposizione
della direttiva suddetta ed all’art. 11, ma non disponeva di uno strumento
giuridico nazionale per contrastarla. In questo contesto, il contribuente ha
allora dedotto che non essendoci, in diritto danese, alcuna clausola che attua
quella riserva contenuta nell’articolo 11 della direttiva, egli avrebbe avuto il
diritto di utilizzare il regime comune della direttiva fiscale sulle fusioni
indipendentemente da ogni altra considerazione.
Sorprendentemente, la Corte ha confermato la posizione del contribuente,
affermando che nonostante il divieto di invocare il diritto comunitario in
relazione a pratiche abusive, la norma di cui all’art.11 della direttiva è una
norma non direttamente esecutiva nell’ordinamento nazionale, poiché
necessita di un provvedimento nazionale di attuazione. Mancando
quest’ultimo, manca anche la possibilità di contrastare l’utilizzo della
direttiva nell’ambito di pratiche che aggirano l’imposizione fiscale. Le
perplessità risiedono nel fatto che l’art.11 è una norma di salvaguardia
contenuta in una direttiva europea. Per sua stessa natura, la direttiva
rappresenta uno strumento giuridico di diritto secondario europeo. Come tale,
ritengo che la soluzione prospettata dalla Corte permetta l’impiego di uno
strumento di diritto secondario per perseguire finalità abusive, risultando
perciò in pieno contrasto con un principio consolidato nella giurisprudenza
della Corte, secondo cui non si può invocare il diritto dell’Unione Europea
nell’ambito di pratiche abusive.
Altrettante perplessità si registrano in un’altra e più recente sentenza della
Corte di Giustizia Europea in tema di direttiva fusioni, quella cioè
pronunciata sul caso il 20 maggio 2010 sulla causa C-352/08, Zwijnenburg18.
In tale fattispecie, il contribuente aveva utilizzato il regime della direttiva per
aggirare un’imposta diversa da quelle rientranti nell’ambito di applicazione
della direttiva, ossia un’imposta sui trasferimenti. Ancora una volta a mio
giudizio sorprendentemente, la Corte è giunta in sostanza alla conclusione
che la direttiva fusioni può essere utilizzata per perseguire finalità abusive. Il
percorso argomentativo è però stato diverso, avendo la Corte raggiunto tale
conclusione sulla base del fatto che il diritto dell’Unione Europea non
implica una completa armonizzazione del diritto tributario e l’imposta sui
trasferimenti, oggetto dell’aggiramento, non rientra nell’ambito della
normativa oggetto del diritto dell’Unione Europea.
Si rimane perplessi perché non solo c’è un abuso del diritto, inteso in materia
tributaria come abuso delle forme giuridiche per il perseguimento di finalità
di risparmio fiscale con aggiramento della fattispecie impositiva, ma anche
perché stiamo parlando in generale del giudice dell’Unione che interpreta il
suo diritto giungendo ad una conclusione che ignora un principio dell’Unione
secondo cui non si può invocare il diritto dell’Unione per attuare pratiche
18
CGUE, sentenza 20.5.2010, causa C-352/08, Zwijnenburg.
223
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
abusive. Resta ovviamente fermo ed impregiudicato che il giudice del diritto
dell’Unione non può e non deve interpretare il nostro diritto tributario
nazionale, essendo quest’ultimo una prerogativa di esclusiva competenza del
giudice nazionale.
Alla luce di queste pronunce bisogna comprendere che i risultati dell’analisi
giurisprudenziale in tema di diritto secondario dell’unione determinano uno
scostamento dal quadro che altrimenti sarebbe unitario, ferma restando la
specificità dell’elemento soggettivo rispetto a quello stemperamento dello
stesso elemento di cui si parlava in precedenza.
La più recente sentenza sulla causa Foggia19 avrebbe potuto essere
un’occasione per la Corte di superare la critica testé delineata, facendo luce
sul significato concreto di valide ragioni economiche ai sensi dell’art. 11.1.a
della Direttiva fusioni in relazione ad una fattispecie in cui la
riorganizzazione era avvenuta al fine principale di assorbire le perdite di
società interne al gruppo. Tuttavia, al di là della trasposizione
dell’equivalenza tra ragioni prevalentemente fiscali ed assenza di valide
ragioni economiche, pure a mio giudizio criticabile, la Corte ha lasciato ogni
altro aspetto alla prova contraria davanti al giudice nazionale, lasciando
quindi sussistere l’incertezza e il contrasto di fondo prima evidenziato.
5 La sentenza 3M Italia ed il suo possibile impatto
Un ulteriore punto – il terzo di quelli in precedenza indicati - è rappresentato
dalle due cause (3M Italia e Safilo), rimesse in via pregiudiziale dalla sezione
tributaria della Corte di Cassazione in tema di abuso del diritto. Le cause in
questione probabilmente sono emerse da una tensione strutturale nei rapporti
tra il legislatore ed il potere giudiziale in relazione al mantenimento dei
principi del diritto in presenza di misura di natura eccezionale.
Com’è noto, le cause riguardano quel fenomeno (volgarmente chiamato
“rottamazione”) di definizione delle cause di lunga durata pendenti davanti ai
giudici tributari tramite il pagamento di un importo minimo, che hanno in
sostanza rappresentato una delle tante forme di condono che contornano la
storia del diritto tributario italiano. Tenuto conto del fatto che entrambe le
cause 3M Italia e Safilo sollevano questo problema, la sentenza del 29 marzo
2012 con cui la Corte di Giustizia ha escluso ogni problema di compatibilità
per la normativa italiana nel caso 3M Italia potrebbe anche far venir del tutto
meno l’esigenza che la Corte di Giustizia Europea si pronunci nuovamente
sul caso Safilo.
Il problema interpretativo sollevato dalla sezione tributaria della Corte di
Cassazione può essere brevemente prospettato nei tre aspetti di seguito
indicati.
In primo luogo, vi è un elevato grado di verosimiglianza quanto alla
possibilità di configurare la fattispecie concreta alla stregua di una pratica
abusiva.
19
CGUE, sentenza 10.11.2011, causa C-126/10, Foggia.
224
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
In secondo luogo, l’orientamento ormai consolidato della sezione tributaria
della Corte di Cassazione (in parte ispirato alla giurisprudenza della Corte
Europea di Giustizia) contrasta le pratiche elusive invocando
un’interpretazione conforme al divieto di abuso del diritto.
Pertanto, nel caso di specie il giudice nazionale sa che sarebbe in linea di
principio possibile applicare la suddetta interpretazione, ma non ha il potere
di attuare la sua revisione giudiziale, perché nel frattempo è intervenuto il
legislatore, privandolo di questo potere a seguito dell’emanazione di norme
che consentono una definizione agevolata di questo tipo di fattispecie.
E’ ben comprensibile che un giudice di ultima istanza rimetta questioni in via
pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea, tenuto conto degli obblighi
previsti dal diritto primario dell’Unione Europea.
Ci si chiede però se sia realmente quest’ultima ad avere la giurisdizione per
risolvere le suddette questioni in via interpretativa. In particolare, tenuto
conto del fatto che le suddette questioni riguardano in sostanza l’applicabilità
di un generale principio di contrasto alle pratiche abusive in materia tributaria
ed ad un problema di compatibilità con la disciplina sugli aiuti di Stato, ci
troviamo di fronte ad un problema di duplice natura.
In primo luogo, se una breve finestra temporale per applicare questo regime
di definizione agevolata possa o meno rappresentare un aiuto di Stato e la
commissione ha chiaramente detto che è un aiuto di Stato.
In secondo luogo, ci si chiede se siano ammissibili le questioni che
riguardano l’applicabilità del divieto di pratiche abusive secondo il diritto
dell’Unione Europea per limitare la previsione a livello normativo di misure
agevolative in relazione a pratiche evidentemente abusive.
Mentre la prima questione presenta un innegabile elemento di comunanza
con le fattispecie rientranti nell’ambito del divieto di aiuti di Stato, il secondo
gruppo di questioni, quello cioè relativo all’abuso, è di più complessa
soluzione.
Infatti, si potrebbe astrattamente ragionare come segue. Se lo sviluppo
interpretativo con cui la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha estratto
il generale principio di contrasto dell’abuso è una ricostruzione
giurisprudenziale italiana, ancorché ispirata alla giurisprudenza della Corte di
Giustizia Europea, come potrebbe escludersi che questo gruppo di questioni
non attiene ad un problema meramente interno. In questo senso si
giungerebbe alla conclusione che non vi è una interpretazione del diritto
dell’Unione Europea di cui ha bisogno il giudice interno, di talché le
questioni sarebbero da ritenere inammissibili. La sentenza della Corte di
Giustizia Europea non si è spinta fino ad affermare questo, ma ha comunque
negato che esista un problema di compatibilità con il diritto dell’Unione
Europea e con il principio del divieto dell’abuso del diritto nel caso di specie.
Infatti, nel paragrafo 30 della sentenza 3 M Italia essa afferma che
“il procedimento non ha ad oggetto una controversia in cui i
contribuenti si avvalgono o potrebbero avvalersi in modo
fraudolento od abusivo di una norma del diritto dell’Unione”
Aggiungendo poi che
225
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
“nel caso di specie, le sentenze Halifax e Part Service,
pronunciate in materia di imposta sul valore aggiunto e alle quali
fa riferimento il giudice del rinvio nel domandarsi se il principio
del divieto dell’abuso di diritto da esse sancito si estenda al
settore delle imposte non armonizzate, non sono pertinenti”
In questo senso si può ritenere che la risposta sia essenzialmente negativa in
merito all’esistenza di un principio generale di diritto dell’Unione Europea
che si estenda ad ogni ambito giuridico, ivi compresi quelli in cui non è in
questione alcun aspetto di diritto sovranazionale.
Il successivo paragrafo 31 poi chiarisce che questa affermazione consegue
all’impossibilità di comprendere se il quadro fattuale metta in discussione
l’applicazione di una libertà fondamentale e per questo
“non è pertinente nemmeno la giurisprudenza della Corte relativa
all’abuso di diritto nel settore della fiscalità diretta, elaborata in
particolare nelle sentenze Cadbury Schweppes, Thin Cap Group
Litigation, etc.”
Anche questo può comprendersi e condividersi come espressione della
tradizionale prudenza della Corte nell’intervenire su materie non oggetto di
una cessione di sovranità e vincolate al rispetto del solo primato del diritto
sovranazionale primario.
Tuttavia, il paragrafo 32 arriva a conclusioni che per un verso sono forse
troppo spinte e per altro verso poco chiare, laddove afferma che
“nel diritto dell’Unione non esiste alcun principio generale dal
quale discenda un obbligo per gli Stati membri di lottare contro le
pratiche abusive nel settore della fiscalità diretta e che osti
all’applicazione di una disposizione come quella di cui trattasi nel
procedimento principale, qualora l’operazione imponibile derivi
da pratiche siffatte e non sia in discussione il diritto dell’Unione”
Non è infatti vero che non esista un principio generale di diritto dell’Unione
relativo all’obbligo di contrastare le pratiche abusive. Il suddetto inciso deve
infatti intendersi in modo da ritenere che lo stesso principio abbia, in materia
di imposte dirette, una valenza che è limitata dalla necessità di dimostrarne
l’incidenza concreta sul diritto dell’Unione. E nel caso 3M Italia non bisogna
dimenticare che esisteva una fattispecie transnazionale, ma che forse la
rilevanza della stessa non sia stata debitamente messa in luce dal giudice
nazionale, che ha cercato di ottenere una pronuncia di carattere più generale
sul divieto dell’abuso del diritto.
La Corte di Cassazione in realtà aveva forse già percepito di essersi spinta
oltre quanto la Corte di Giustizia Europea ha stabilito in tema di contrasto
alle pratiche abusive. In altri termini, ancorché nel diritto dell’Unione
Europea vi sia un principio secondo cui quest’ultimo non possa essere
invocato per il perseguimento di pratiche abusive, la Corte di Giustizia non è
ancora arrivata ad affermarlo in modo generale in tutta la materia fiscale, ivi
compresa quella che attualmente rientra nell’ambito esclusivo della sovranità
nazionale, ancorché pur sempre con un esercizio della potestà subordinato al
rispetto del primato del diritto dell’Unione Europea.
226
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
Questo aspetto è stato criticato in dottrina italiana e probabilmente le Sezioni
Unite Civili della Corte di Cassazione hanno inteso porre rimedio a tale
difficoltà, spostando il fronte sul versante costituzionale ed invocando a
livello interpretativo l’esigenza di evitare che le pratiche abusive possano
realizzare una diversa ripartizione del carico fiscale rispetto a quella che
corrisponderebbe all’effettiva manifestazione di capacità contributiva e per
tal via sollevare problemi di incompatibilità con l’art. 53 Cost. Su tale
questione però ancora la Corte costituzionale non si è pronunciata in modo
pieno. Ed allora si comprende come la sezione tributaria della Cassazione stia
cercando di avere piena chiarezza da parte dei giudici del diritto dell’Unione
Europea per un problema che è scaturito dalla propria interpretazione.
Personalmente, ritengo quindi auspicabile una nuova pronuncia sulla
questione da parte della Corte di Giustizia Europea Sarebbe importante
considerare a questo riguardo un argomento che potrebbe essere invocato per
sostenere un orientamento giurisprudenziale nel senso auspicato.
Con la sentenza Leur Bloem20 la Corte si è pronunciata in tema di direttiva
fusioni in relazione ad ipotesi in cui il legislatore nazionale olandese aveva
operato un’ultratrasposizione delle direttiva fusioni, ossia adottando il regime
europeo anche in relazione alle operazioni di riorganizzazione realizzate
interamente tra società residenti in Olanda. Nella sentenza Leur-Bloem la
Corte di Giustizia ha sancito che se il legislatore, non essendovi obbligato, ha
scelto di far applicare il diritto dell’Unione Europea anche in relazione alle
situazioni meramente interne, allora sarà giocoforza obbligato a garantirne
altresì l’interpretazione ed applicazione in conformità a quanto stabilito dalla
Corte di Giustizia Europea, onde assicurare la corretta e coerente attuazione
del suddetto regime.
Ritengo allora che l’approccio di questa sentenza (cd. approccio Leur Bloem)
possa intendersi non soltanto applicabile alle ipotesi normative di
ultratrasposizione della direttiva, ma anche a quelle ipotesi in c’è
un’ispirazione alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, garantendo così
un’esigenza di coerenza tra la prosecuzione di questo filone giurisprudenziale
a livello nazionale e quello da cui lo stesso è derivato e che, come più volte si
è detto, vieta la possibilità di invocare il diritto dell’unione europea in
relazione a pratiche abusive in presenza di un elemento oggettivo e di un
elemento soggettivo debitamente riflesso nei fatti.
6
Conclusioni
In sintesi, ritengo che il quadro giurisprudenziale fiscale europeo in tema di
divieto di pratiche abusive presenti elementi comuni con quello generalista
nel diritto dell’Unione Europea, con specificazioni relative all’elemento
soggettivo, che si rendono necessarie per realizzare un adeguamento alle
problematiche fiscali, e temporanee peculiarità sul versante del diritto
secondario imputabili al fatto che la Corte di Giustizia Europea non ha preso
20
CGUE, sentenza 17.7.1997, causa C-28/95, Leur-Bloem.
227
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
in considerazione le ripercussioni della propria interpretazione in chiave di
compatibilità con i principi del diritto primario dell’Unione Europea.
Su questa base comune si innesta poi l’elemento interpretativo riconducibile
alla giurisprudenza tributaria della Corte di Cassazione, che ha sviluppato un
proprio filone derivandolo da quello della giurisprudenza europea e che,
anche dopo la pronuncia 3M Italia, potrebbe utilmente essere mantenuto nella
misura in cui la Corte di Giustizia Europea ne riconoscesse la rilevanza e le
peculiarità pur senza incidere sulla iniziale matrice europea, possibilmente
per via di un’estensione della propria giurisprudenza Leur-Bloem a livello
interpretativo giudiziale.
Il risultato dell’analisi di diritto comparato induce a manifestare perplessità
sul fatto che sia corretto configurare l’abuso del diritto a mero livello
interpretativo, ossia senza l’esistenza di una apposita clausola. Su questa base
non sembra che il dato proveniente dal diritto sovranazionale possa apportare
significativi cambiamenti. Il dato del diritto sovranazionale, nella
giurisprudenza fiscale, esclude comunque che l’abuso del diritto vada
necessariamente inteso come sinonimo dell’esercizio di un diritto per finalità
antisociali. Esso costituisce invece una reazione dell’ordinamento all’utilizzo
di fattispecie atipiche per ragioni prevalentemente legate all’obiettivo di
conseguire un risultato di risparmio di imposta, sfruttando la tensione tra
forma e sostanza a proprio vantaggio.
Ulteriori perplessità sorgono però in un ordinamento, quale quello italiano,
che attualmente ha una clausola settoriale antielusione, la cui applicazione
viene completamente superata per effetto dell’impiego dell’istituto dell’abuso
del diritto a livello interpretativo. In questo senso siamo certi che la
annunciata attuazione della delega con l’introduzione di una clausola
generale antielusione farà certezza e coprirà la lacuna esistente, superando i
problemi che attualmente sacrificano i diritti dei contribuenti sull’altare della
tutela dell’interesse erariale.
In questo senso si spera che anche l’art. 54 della Carta Fondamentale dei
Diritti dell’Unione Europea potrà giocare un suo ruolo specifico.
228
Prof. Francesco Prosperi
Professore Università di Macerata
L’abuso del diritto nella fiscalità vista da un civilista
SOMMARIO: 1 Premessa metodologica e delimitazione dell’indagine 2
L’abuso del diritto tributario nell’evoluzione giurisprudenziale. - 3 Abuso del
diritto tributario, frode alla legge e simulazione. - 4 La nullità del contratto
tipico elusivo per mancanza di causa: inconfigurabilità. - 5 L’abuso del diritto
quale principio inespresso di rilevanza costituzionale e il fondamento
costituzionale dell’abuso del diritto tributario. - 6 Abuso del diritto tributario
e adeguatezza del rimedio dell’inopponibilità dell’atto elusivo
all’Amministrazione tributaria. - 7 Il contratto elusivo quale abuso della
libertà contrattuale. - 8 Il falso problema dell’inconciliabilità dell’abuso del
diritto con la certezza del diritto oggettivo. – 9 Opportunità di un intervento
legislativo volto a delimitare l’operatività dell’abuso del diritto tributario:
l’esempio del § 42 della legge generale tributaria tedesca.
1 Premessa metodologica e delimitazione dell’indagine
E’ ben noto che nel nostro ordinamento, a differenza di quanto è avvenuto
nella gran parte dei Paesi dell’Europa continentale, manca una previsione che
vieti l’abuso del diritto. Ciò, anche questo è risaputo, ha determinato un
profondo contrasto di opinioni sulla possibilità di considerare un tale divieto
comunque vigente quale principio inespresso, dividendosi la dottrina tra
quanti rifiutano decisamente la praticabilità di una siffatta interpretazione in
nome della certezza del diritto e quanti, di contro, la sostengono con
entusiasmo ritenendo che l’abuso del diritto costituisca uno strumento, se non
indispensabile, utile a evitare che il rispetto formale della legge determini
risultati iniqui.
Polemica che si è inevitabilmente riproposta a seguito dell’incisivo impiego
dell’abuso del diritto che in materia tributaria ne ha fatto di recente la
giurisprudenza di legittimità, inaugurando un orientamento che sembra
suscitare più critiche che consensi. Critiche, tuttavia, che, dico subito, non mi
paiono del tutto convincenti.
Prima, peraltro, di affrontare il merito della questione, mi sia consentito di
svolgere qualche breve notazione metodologica, che ritengo opportuna anche
per spiegare la mia presenza in questo convegno.
E’ mia convinzione che l’ordinamento giuridico debba necessariamente
concepirsi come unitario e coerente, in quanto caratterizzato da principi
ispiratori comuni, sì che l’interpretazione di ogni singola disposizione non
può che essere sistematica, derivando la giustificazione di ognuna dalla
posizione che occupa nella gerarchia delle fonti e dei valori che caratterizza
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA
l’intero sistema. Poiché se così non fosse mancherebbero i criteri per
valutare razionalmente l’opera dell’interprete di individuazione della norma
applicabile al caso concreto, la quale potrà, evidentemente, essere contestata
solo sostenendone l’incompatibilità con altre disposizioni o con i principi
generali dell’ordinamento.
L’ingresso in ambito tributario dell’abuso del diritto, che è nozione
storicamente nata e modernamente sviluppatasi in ambiente civilistico,
costituisce, in questo senso, una prova evidente dell’impossibilità di tracciare
rigidi steccati tra i diversi settori dell’ordinamento giuridico, per quanto si
debbano rispettare le peculiarità proprie delle varie discipline.
Per un tale motivo non mi sento di condividere l’idea che possa applicarsi
allo studio della normativa fiscale un metodo interpretativo proprio, come,
invece, sostenuto, sulla scia della dottrina tedesca, dalla Scuola pavese di
Benedetto Griziotti negli anni Quaranta del secolo scorso. Metodo definito
“funzionale” e in applicazione del quale la soluzione del problema
dell’elusione fiscale era risolto in radice senza far ricorso ad alcun principio
generale, espresso o inespresso che fosse, ma semplicemente muovendo
dall’assunto che il tributo è un fatto essenzialmente economico, sì che esso
andrebbe applicato avendo riguardo unicamente alla sostanza economica
delle operazioni e non alla loro forma contrattuale civilistica.
Soluzione, in verità, da valutare criticamente se si pretende di giustificarla in
nome dell’autonomia del diritto tributario, ma che appare costituire la
risposta più adeguata al problema dell’elusione fiscale e che, come si vedrà,
finisce per essere sostanzialmente accolta attraverso il ricorso all’abuso del
diritto.
Se, dunque, nell’ottica dell’unità dell’ordinamento giuridico può ritenersi
giustificata l’attenzione del civilista per il diritto tributario, inaccettabile e del
tutto fuori luogo sarebbe la sua pretesa di essere portatore di una competenza
di livello superiore a quella degli specialisti della materia. I concetti, anche
quelli più cari alla teoria generale del diritto, non sono, infatti, che strumenti
di lavoro validi fino a che servono a capire i problemi concreti emergenti
dalla società e a risolverli nel modo più adeguato, altrimenti devono essere
rielaborati ed affinati. E se il necessario adattamento della dogmatica al
continuo evolversi dei rapporti sociali è compito al cui assolvimento
concorrono con pari dignità quotidianamente tutti i giuristi, qualunque sia il
settore in cui operano, non v’è dubbio che i contributi più significativi
provengano da coloro che si occupano di discipline più di altre investite dal
rapido mutamento del contesto legislativo ed economico-sociale, come mi
sembra accada oggi per il diritto tributario. Il confronto con i tributaristi
costituisce, quindi, per il civilista una preziosa occasione per saggiare la
tenuta dei concetti con cui è solito operare, tanto più se si tratta di concetti,
come quello dell’abuso del diritto, che sono molto controversi nella stessa
dottrina civilistica.
Lungi, quindi, da me ogni presunzione di poter dare indicazioni risolutive, le
mie riflessioni saranno essenzialmente volte a verificare se la teorica
dell’abuso del diritto, così come si è sviluppata in ambito civilistico, si possa
considerare utile a risolvere il problema dell’elusione fiscale o se, invece, il
230
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA
suo impiego a tale scopo risulti improprio e, quindi, inadeguato a sorreggere
le conclusioni cui la giurisprudenza è in merito pervenuta.
Passerò poi ad esaminare se il contratto elusivo costituisca una forma di
abuso, oltre che del diritto tributario o, meglio, del diritto soggettivo al
risparmio fiscale, anche della libertà di determinare il contenuto del contratto
e, dunque, se il divieto di abuso del diritto riguardi anche gli atti di autonomia
privata.
Affronterò, infine, la questione, sempre ricorrente quando si affronta il tema
dell’abuso del diritto, se il suo accoglimento sia compatibile con la certezza
del diritto.
2 L’abuso del diritto tributario nell’evoluzione giurisprudenziale.
Quale punto di partenza per la disamina che intendo svolgere può essere
assunto il concetto essenziale di abuso del diritto generalmente condiviso,
secondo cui esso concerne ipotesi in cui un comportamento, pur integrando
formalmente gli estremi dell’esercizio di un diritto soggettivo (o di altra
situazione giuridica soggettiva), deve ritenersi, sulla base di criteri
sostanziali, privo di tutela giuridica. Sui criteri in base ai quali effettuare una
tale valutazione le posizioni sono, in realtà, molto diversificate, ma la
questione può essere qui tralasciata, dovendosi restringere l’esame
unicamente al modo in cui la giurisprudenza ha applicato il divieto di abuso
del diritto in materia tributaria.
Divieto che, per l’appunto, secondo le Sezioni Unite della Cassazione (Cass.,
S.U., 23.12.2008, nn. 30055, 30056 e 30057), costituisce un principio
generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento dei
vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con
alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere
un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni
economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla
mera aspettativa di quei benefici. Esso trova fondamento, in tema di tributi
non armonizzati, quali le imposte sui redditi, nei principi costituzionali di
capacità contributiva e di progressività dell’imposizione (art. 53 Cost.), senza
contrastare con il principio della riserva di legge (art. 23 Cost.), non
traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla
legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere
al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. L’abuso del diritto
comporta, infine, sempre a giudizio delle Sezioni Unite, l’inopponibilità del
negozio all’Amministrazione Finanziaria, per ogni profilo di indebito
vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere
dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in
considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca
successiva al compimento dell’operazione.
Il ricorso all’abuso del diritto si pone, quindi, in questo senso, nel solco della
norma antielusiva cosiddetta generale prevista dall'art. 37-bis del D.P.R. n.
600/1973 (introdotto dall’art. 7 del d. lgs. 8 ottobre 1997, n. 358), secondo la
quale sono, per l’appunto, inopponibili all'amministrazione finanziaria gli
231
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA
atti, fatti e negozi, anche collegati tra di loro, che siano contemporaneamente
privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare norme tributarie e volti
ad ottenere una riduzione del carico fiscale altrimenti indebita. Con l’effetto
sostanziale di assoluto rilievo, peraltro, di estenderne la portata oltre i
presupposti specificamente indicati dal terzo comma della norma.
Da altro angolo visuale, valutando, cioè l’esito cui sono pervenute la Sezioni
Unite in prospettiva diacronica, si può scorgere una coerente linea evolutiva
del sistema nel contrasto all’elusione contributiva in risposta, certo, della
progressiva diffusione dei comportamenti elusivi dei contribuenti, che hanno
nel tempo assunto forme e contenuti sempre più sofisticati e che si avvalgono
sempre più spesso anche di collegamenti transnazionali. Si è, infatti, passati
da un ordinamento che ignorava una clausola generale antielusiva e affidava
la reazione all’elusione a specifiche disposizioni, all’introduzione di una
nozione generale di elusione, pur limitata a particolari situazioni, dapprima
per opera dell’art. 10, l. n. 408 del 1990 e successivamente, come si è detto,
con l’art. 7 del d. lgs n. 358 del 1997, per finire con il ritenere che
l’ordinamento tributario sia caratterizzato dalla presenza di un principio
generale antielusivo, desumibile dal concetto di divieto di abuso del diritto, e,
in quanto tale, svincolato da ogni riferimento a fattispecie tipizzate.
Quadro cui deve aggiungersi, per completezza, il recente orientamento della
Cassazione penale che ha sancito la rilevanza penale della condotta elusiva
che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista
dalla legge e purché sia stata superata la soglia minima di punibilità prevista
per l'evasione fiscale (Cass. pen, 28.02.2012, n. 7739).
Prima, peraltro, di passare ad analizzare l’impianto argomentativo della
soluzione indicata dalle Sezioni Unite, mi sembra sia utile ricordare
brevemente il contesto che l’ha originata.
Essa fa, in particolare, seguito a alcune decisioni delle Sezioni Tributarie
della Cassazione che avevano già fatto ricorso al divieto dell’abuso del diritto
in funzione antielusiva abbandonando il precedente orientamento espresso
dalla sua stessa giurisprudenza che riteneva doversi sanzionare il contratto
elusivo con la nullità per mancanza di causa o per frode alla legge, pur
riconoscendo “l'emergenza di un principio tendenziale, che – in attesa di
ulteriori specificazioni della giurisprudenza comunitaria – deve spingere
l'interprete alla ricerca di appropriati mezzi all'interno dell'ordinamento
nazionale per contrastare il diffuso fenomeno dell'abuso del diritto, in specie
del diritto tributario” (v., in particolare Cass., 21.10.2005, n. 20398, nonché
Cass., 26.10.2005, n. 20816 e Cass., 14.11.2005, n. 22932, tutte in tema di
dividend washing).
Il mutamento di prospettiva si ha, come è noto, sotto la spinta della decisione
della Corte di Giustizia sul caso Halifax del 21.2.2006, secondo la quale «la
sesta direttiva in materia tributaria deve essere interpretata come contraria
al diritto del soggetto passivo di detrarre l’iva assolta a monte, allorché le
operazioni che fondano tale diritto integrino un comportamento abusivo».
Con la precisazione che affinché “possa parlarsi di comportamento abusivo
le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle
condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva, e della
232
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA
legislazione nazionale che le traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui
concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da quelle stesse
disposizioni” e deve “altresì risultare, da un insieme di elementi obiettivi,
che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un
vantaggio fiscale». Con la conseguenza che
«ove si constati un
comportamento abusivo, le operazioni implicate devono essere ridefinite in
maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni
che quel comportamento hanno fondato».
In quanto le statuizioni della Corte di Giustizia hanno, al pari delle norme
comunitarie direttamente applicabili cui ineriscono, operatività immediata
negli ordinamenti interni, la Cassazione non poteva che adeguarsi ad una tale
indicazione e ciò ha fatto con la sentenza del 5 maggio 2006, n. 10353, nella
quale si afferma che «la sesta direttiva aggiunge nell’ordinamento
comunitario, direttamente applicabile in quello nazionale, alla tradizionale
bipartizione dei comportamenti dei contribuenti in tema di iva, in fisiologici e
patologici (propri delle frodi fiscali), una sorta di tertium genus in
dipendenza del comportamento abusivo ed elusivo del contribuente, volto a
conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale ed
autonoma ragione economica giustificatrice delle operazioni economiche che
risultano eseguite in forma solo apparentemente corretta ma in realtà
elusiva».
Orientamento che è stato confermato dalla giurisprudenza successiva, la
quale ha avuto modo anche di precisare che: i) «il disconoscimento del diritto
alla deduzione per oneri derivanti da meccanismi elusivi (…) prescinde
dall’accertamento della simulazione o del carattere fraudolento
dell’operazione» (Cass., sez. trib., 29 settembre 2006, n. 21221); ii) non sono
idonee ad escludere l’abusività del comportamento «ragioni economiche
meramente marginali e teoriche, inidonee a fornire una spiegazione
alternativa dell’operazione rispetto al mero risparmio fiscale» (ibidem); iii)
«incombe sul contribuente fornire la prova dell’esistenza di ragioni
economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale
o teorico» (Cass., sez. trib., 16 gennaio 2008, n. 8772; Cass., sez. trib., 21
aprile 2008, n. 10257).
A puntualizzare l’opinione della Corte di Giustizia in merito è, poi,
intervenuta la sentenza sul caso Part Service srl del 21 febbraio 2008, la
quale, alla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte di
Cassazione - per sapere se la nozione di abuso del diritto, definita dalla
sentenza Halifax come “operazione essenzialmente compiuta ai fini di
conseguire un vantaggio fiscale”, fosse da intendere nel senso che l’ abuso di
diritto ricorre solo quando la finalità del risparmio di imposta sia l’unica che
giustifica l’operazione, o anche quando questa finalità si accompagni a
ragioni economiche pur assolutamente marginali od irrilevanti -, ha risposto
che l’esistenza di una pratica abusiva può essere affermata anche qualora il
perseguimento di un vantaggio fiscale costituisca lo scopo essenziale,
ancorché non esclusivo, non essendo l’abuso impedito allorché
nell’operazione concorrano - pur marginalmente - altre ragioni economiche,
233
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA
come quelle, ad esempio, ispirate da considerazioni di marketing, di
organizzazione e di garanzia.
L’estensione dell’abuso del diritto alle imposte sui redditi era, quindi già stata
operata dalle Sezioni Tributarie della Cassazione, ma facendo esclusivamente
riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia sul caso Halifax e, dunque,
al solo diritto europeo ( Cass., 2006/21221; 2008/8772; 10257/2008 e
25374/2008).
Le Sezioni Unite hanno, pertanto, semplicemente avallato un tale indirizzo,
sebbene, come già sottolineato, con l’importante precisazione che l’esistenza
del principio generale antielusivo in tema di tributi non armonizzati deve
essere rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria bensì “negli stessi
principi costituzionali che informano l'ordinamento tributario italiano e, in
particolare, nei principi di capacità contributiva e di progressività
dell'imposizione» di cui all'art. 53 Cost.
Con successive decisioni il giudice di legittimità ha, poi, provveduto a
chiarire e precisare ulteriormente i presupposti per l’applicazione del
principio dell’abuso del diritto, rimanendo, peraltro, all’interno delle
indicazioni tracciate dalle Sezioni Unite.
Unicamente su queste, dunque, soffermerò l’attenzione.
3 Abuso del diritto tributario, frode alla legge e simulazione.
Il primo aspetto da porre in rilievo è che il ricorso all’abuso del diritto
consente alle Sezioni Unite di sanzionare il contratto elusivo con la mera
inopponibilità all’Amministrazione finanziaria, senza incidere in alcun modo
sulla validità ed efficacia del contratto dal punto di vista civilistico.
L’abuso del diritto viene in tal modo ricondotto, come si è già sottolineato,
interamente nell’ambito del meccanismo previsto dall’art. 37 bis del d.p.r. n.
600 del 1973.
Soluzione che appare come la più adeguata al fenomeno elusivo. Né sembra
condivisibile la convinzione, espressa da un’accreditata dottrina civilistica
(Gentili), secondo la quale il ricorso all’argomento dell’abuso, inteso
specificamente quale abuso di forme giuridiche, risulterebbe retorico ed
inutile, dato che l’inopponibilità dell’atto elusivo passerebbe necessariamente
per lo svelamento della realtà economica ad esso sottesa e che l’atto stesso
dissimula e, quindi, per l’impugnativa per frode o simulazione.
La frode alla legge di cui all’art. 1344 c.c. presenta, in effetti, molti punti di
contatto con l’abuso del diritto, tanto da doversi ritenere una sua
manifestazione sintomatica. La norma, infatti, essendo diretta a non
consentire alle parti di perseguire un fine illecito mediante la conclusione di
un contratto di per sé lecito, si buon ben dire che vieti l’abuso (del diritto di
determinare il contenuto) del contratto. La possibilità di estendere la
fattispecie della frode alla legge alla frode fiscale scontra, tuttavia, con il
consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui le norme imperative alle
quali si riferisce l'art. 1344 sono unicamente le norme civilistiche proibitive,
le norme, cioè, che vietano il compimento di determinati negozi, e non le
norme meramente inderogabili. Convinzione che risulta suffragata dall’art.
234
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA
10 dello «Statuto dei diritti del contribuente» (l. 27/07/2000 n. 212), ai sensi
del quale «Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario
non possono essere causa di nullità del contratto».
Il ricorso all’abuso del diritto si rende, dunque, necessario non tanto perché la
frode alla legge non costituisca essa stessa un’ipotesi di abuso del diritto,
quanto piuttosto per sanzionare gli usi del contratto immeritevoli di tutela che
pur non rientrino nella fattispecie della frode alla legge.
Per quanto concerne, invece, la simulazione, essa presuppone un contrasto tra
l’atto apparentemente posto in essere dalle parti e gli effetti sostanziali dalle
stesse realmente voluti, discrepanza che non sussiste nel contratto elusivo,
che è diretto a realizzare gli effetti realmente voluti, ancorché al solo fine di
ottenere un risparmio fiscale. Né vale obiettare che, mancando per
definizione di una sostanza economica corrispondente, altrimenti non
configurandosi alcuna indebita elusione, le forme dell’atto elusivo sono “vere
e volute” solo per i fini fiscali, così come ogni atto simulato è “voluto”
formalmente almeno nella misura necessaria a poterlo opporre al terzo che
simulando si tenta di ingannare. Ciò in quanto si può definire simulato
soltanto l’atto non realmente voluto, mentre l’ipotesi dell’atto voluto ma
privo della sostanza economica corrispondente pone il diverso problema della
qualificazione dell’atto, come è esemplificato dalla vendita nummo uno, o, al
limite, della nullità dell’atto per mancanza di causa.
4 La nullità del contratto tipico elusivo per mancanza di causa:
inconfigurabilità.
Il contratto non avente altro scopo che quello di perseguire un vantaggio
fiscale non sembra, tuttavia, che possa essere ritenuto nullo per mancanza di
causa, come invece affermato dalla Cassazione nei casi di dividend washing e
dividend stripping. Ciò per la ragione che, distinguendo nettamente il codice
civile la causa dai motivi anche quando questi siano comuni alle parti e
determinanti del consenso (art. 1345 c.c.), per causa deve necessariamente
intendersi la funzione che il contratto è obiettivamente in grado di svolgere a
prescindere dalle ragioni concrete e contingenti che hanno spinto i contraenti
a concluderlo. Sì che, se il contratto concluso al solo scopo di risparmio
fiscale risulta di per sé idoneo a realizzare la funzione sociale o giuridica che
gli è propria, non può considerarsi privo di causa né in astratto né in concreto,
potendo soltanto sollevarsi il dubbio che sia affetto da nullità per illiceità dei
motivi, equivalendo, appunto, gli interessi particolari delle parti che nella
specifica circostanza il contratto è diretto a soddisfare ai motivi e non alla
causa. Dubbio che, tuttavia, si dissolve immediatamente alla luce di quanto
detto a proposito del contratto in frode alla legge: non integrando l’elusione
di norme fiscali la frode alla legge deve, evidentemente, escludersi la illiceità
dei motivi di ogni contratto orientato in tal senso.
Ritengo, dunque, che il ricorso all’abuso del diritto in funzione antielusiva si
riveli utile a superare i limiti e le incongruenze evidenziati dai tentativi di
contrastare le pratiche elusive attraverso le categorie civilistiche della nullità.
Neppure si può dubitare della intrinseca ragionevolezza della soluzione,
235
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA
posto che il divieto di abuso del diritto è espressamente regolato dalla nome
tributarie di numerosi Paesi europei e, in particolare, dal § 42 della legge
generale tributaria tedesca, che prevede l’abuso di conformazione giuridica
facendone derivare l’inefficacia rispetto al fisco.
Probabilmente è questa disposizione che ha ispirato la Corte di Giustizia
nell’opera di individuazione dell’abuso del diritto al risparmio fiscale come
principio sotteso al diritto comunitario.
Ed è, evidentemente, a questa concezione di abuso che hanno aderito le
Sezioni Unite, che, come appunto avviene nell’ordinamento tedesco, ne
hanno individuato la conseguenza nell’inefficacia e non nell’illiceità
dell’atto.
5 L’abuso del diritto quale principio inespresso di rilevanza
costituzionale e il fondamento costituzionale dell’abuso del diritto
tributario.
Ciò posto, resta ovviamente da stabilire se sia consentito supplire alla
mancanza nel nostro ordinamento di una norma analoga a quella contenuta
nel § 42 della legge tributaria tedesca richiamando un principio inespresso e
oltremodo controverso come quello del divieto di abuso del diritto.
Che i principi, così come le norme, possano essere inespressi e, dunque,
desunti da un complesso di regole o, anche, dall’intero ordinamento, non è, in
verità dubitabile. Del resto lo stesso principio della certezza del diritto che
viene tradizionalmente opposto all’ammissibilità nel nostro ordinamento del
divieto di abuso del diritto è, notoriamente, un principio inespresso.
Si è, tuttavia, dubitato che sia corretto desumere in via interpretativa un tale
principio direttamente dalle norme costituzionali, le quali, essendo
essenzialmente rivolte a porre i parametri che devono essere rispettati nella
produzione legislativa, sarebbero inidonee a regolare concreti rapporti fiscali,
valendo, tutt’al più, a far ritenere che la mancanza di una clausola generale
antielusiva costituisca, nel nostro ordinamento, una lacuna alla quale il
legislatore dovrebbe porre rimedio.
Una tale considerazione critica non può, tuttavia, essere accolta, trascurando
che la Costituzione, come ogni altra legge, è innanzi tutto un atto normativo
che contiene disposizioni precettive e che la presenza di lacune costituisce
una delle ipotesi meno discusse di applicazione diretta delle norme
costituzionali da parte del giudice comune.
Oltre ciò, va sottolineato che l’abuso di diritto come principio inerente a tutte
le situazioni giuridiche patrimoniali è stato giustificato dalla dottrina
civilistica anche sulla base di un riferimento alla Costituzione e, in
particolare, all’art. 2 e all’art 3, comma 2. Il richiamo dell’art. 53 Cost.
operato dalle Sezioni Unite a giustificazione dell’estensione del divieto di
abuso ai rapporti tra contribuenti e Amministrazione tributaria si pone,
dunque, lungo questa linea di pensiero e non si può, pertanto, considerare in
alcun modo metodologicamente scorretto. L’elusione fiscale non è, infatti,
che una ipotesi specifica dell’abuso del diritto, così come l’art. 53 Cost.
costituisce applicazione del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.
236
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA
Lo stesso percorso argomentativo è, d’altra parte, rinvenibile nella
configurazione dell’abuso del processo, cui, per l’appunto, la giurisprudenza
è pervenuta ritenendo l’uso distorsivo dello strumento processuale, per un
verso, lesivo dei generali canoni della buona fede oggettiva e della
correttezza relazionale - in quanto contrastante, in ottica sostanziale, con il
dovere di solidarietà enucleato dall’art. 2 Cost. -, e, per altro verso,
dissonante, in ottica processuale, con la garanzia prescrittiva del giusto
processo assicurata dall’art. 111 Cost. (cfr., in particolare, Cass., 22.12.2011,
n. 28286; Cass. Sez. Un., 15.11.2007, n. 23726; nonché, ma con riferimento
unicamente al generale canone della buona fede che, ispirato all’art. 2 Cost.,
trova applicazione anche con riferimento alla fase processuale, Cons. St., Sez.
IV, 2 marzo 2012, n. 1209) .
V’è ancora da dire che l’ancoraggio della figura dell’abuso del diritto ai
principi costituzionali consente di depurarla da ogni connotazione
soggettivistica e di fondarne, quindi, il giudizio unicamente sulla congruità
dell’atto in relazione ai valori sociali oggettivati nell’ordinamento. Si supera
in tal modo l’idea che l’animus nocendi sia un elemento costitutivo della
nozione di abuso del diritto e ciò spiega perché la giurisprudenza della
Cassazione, nell’applicare la figura all’elusione fiscale, prescinda da ogni
indagine sui motivi individuali che hanno determinato il compimento
dell’atto elusivo.
6 Abuso del diritto tributario e adeguatezza del rimedio
dell’inopponibilità dell’atto elusivo all’Amministrazione tributaria.
La conseguenza che le Sezioni Unite fanno derivare dall’abuso del diritto è,
come più volte sottolineato, quella dell’inopponibilità dell’atto
all’Amministrazione tributaria, cioè dell’inefficacia relativa. Anche una tale
indicazione appare coerente con l’elaborazione dottrinale in tema di abuso.
L’orientamento espresso in una delle più meditate riflessioni sull’argomento
(Salv. Romano) è, infatti, nel senso che l’estrema varietà di ipotesi in cui
l’abuso del diritto può concretamente verificarsi, non consente di formulare
una regola generale, salvo quella di non consentire la tutela da parte
dell’ordinamento dei poteri, diritti e interessi esercitati in modo abusivo.
Regola, si precisa, che “richiede di essere tradotta nel particolare regolamento
del diritto vigente in quanto assume, nelle singole ipotesi, aspetti
profondamente diversi”. Quale esempio di rimedio all’abuso veniva fatto, con
specifico riferimento ai casi di simulazione e di clausole vessatorie, proprio
l’inefficacia dell’atto abusivo, mentre altri esempi erano indicati nella
rescissione, nell’annullabilità o nella decadenza da un potere. Esempi ai quali
deve certamente aggiungersi l’improponibilità della domanda giudiziale
nell’ipotesi di abuso del processo, secondo l’opinione espressa al riguardo
dal giudice di legittimità (Cass., 22.12.2011, n. 28286).
Ne deriva, in definitiva, quindi che, nei casi non previsti, il giudice deve
ritenersi legittimato ad individuare il rimedio più appropriato valutando
attentamente la natura degli interessi in conflitto nel caso concreto.
237
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA
Secondo, del resto, quello che è l’insegnamento della migliore dottrina
(Rescigno), la quale ha giustamente sottolineato che “il problema dell’abuso
riguarda propriamente la comparazione di interessi che siano in conflitto
nello svolgimento di un particolare rapporto o nella posizione del
regolamento di interessi”.
E l’inopponibilità all’Amministrazione finanziaria del contratto diretto
essenzialmente ad ottenere un vantaggio fiscale sembra il rimedio più idoneo
a bilanciare l’interesse delle parti a conservare comunque gli effetti giuridici
del contratto e quello del fisco al superamento della forma contrattuale
utilizzata a fini elusivi per far emergere l’effettiva operazione economica ad
essa sottesa. Rimedio che non soltanto si pone, come detto, lungo la linea
delle disposizioni espressamente dettate a contrastare l’elusione fiscale, ma
che è anche coerente con la conseguenza generalmente prevista per il
contratto concluso i frode ai creditori (art. 2901 c.c.), cui il contratto in frode
al fisco deve essere assimilato, conseguenza che, tra l’altro, la giurisprudenza
estende all’ipotesi di contratto elusivo della par condicio creditorum
nell'ambito di procedure concorsuali (Cass., 14.04.2011, n. 8541).
7 Il contratto elusivo quale abuso della libertà contrattuale.
L’elusione fiscale può essere considerata una forma di abuso del diritto al
risparmio fiscale. Il comportamento elusivo è, tuttavia, attuato mediante
contratti conclusi in una forma anormale rispetto alla funzione realmente
perseguita dalle parti, forma adottata all’unico scopo di conseguire un
risparmio fiscale che non si sarebbe avuto se la forma del contratto fosse stata
coerente con la sua funzione.
Si pone, dunque, in prospettiva generale, la questione se la teorica dell’abuso
del diritto sia applicabile anche all’esercizio della libertà negoziale, e, in
particolare, della libertà di determinare il contenuto del contratto, che
dovrebbe così considerarsi ontologicamente e strutturalmente limitata al suo
interno, oltre, quindi, i casi espressamente previsti.
Ebbene, che le libertà e, dunque, anche la libertà contrattuale, non possano
escludersi dal discorso sull’abuso è stato da tempo chiarito, sottolineandosi
che “se l’esercizio del diritto si compie (almeno per ciò che riguarda la
possibilità di modificare o di estinguere un precedente rapporto negoziale)
attraverso un negozio giuridico, e cioè attraverso un atto di autonomia (e
quindi di libertà), è evidente che non si può limitare il profilo dell’abuso ai
soli diritti” escludendone le libertà (Rescigno).
Il problema che nel nostro ordinamento si pone è, quindi, piuttosto se la
figura dell’abuso del diritto in materia contrattuale sia o no distinguibile dalla
correttezza e dalla buona fede, che, come l’abuso del diritto, sono espressione
del dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e si prestano ad essere allo
stesso modo considerate quali limiti costitutivi dell’autonomia privata .
Si tratta, in verità, di principi in larga parte sovrapponibili, come dimostra
esemplarmente l’esperienza tedesca. Il BGB contiene, infatti, una norma
specifica che vieta l’abuso del diritto, contenuta nel § 226, secondo la quale
“L’esercizio del diritto è inammissibile se può avere il solo scopo di
238
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA
provocare danno ad altri”. E’ noto, tuttavia, che la repressione dell’ abuso del
diritto da parte della giurisprudenza ha trovato il proprio fondamento
normativo, principalmente, nel § 242, che sancisce il principio della buona
fede (Treu und Glauben). Ciò in base alla considerazione che occorre
distinguere il momento statico della titolarità del diritto da quello dinamico
del suo esercizio, il quale è suscettibile di valutazione da parte del giudice ai
sensi, appunto, del § 242. Soluzione imposta, in realtà, dall’esigenza di
superare l’elemento soggettivo richiesto da § 226 per configurare l’abuso del
diritto, requisito la cui difficoltà di prova finisce per rendere sostanzialmente
inoperante il principio.
Nella giurisprudenza della nostra Cassazione emerge l’idea che il principio di
buona fede e il divieto di abuso del diritto si integrino a vicenda, “costituendo
la buona fede un canone generale di comportamento cui ancorare la condotta
delle parti, anche di un rapporto privatistico e l’interpretazione dell’atto
giuridico di autonomia privata e prospettando l’abuso la necessità di una
correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti”;
con la precisazione che il divieto di abuso del diritto “costituisce un criterio
rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede” (Cass., 18 settembre
2009, n. 20106). In altre occasioni, tuttavia, si assume che sia la condotta
lesiva del generale dovere di buona fede a risolversi in un abuso (così Cass.,
22 dicembre 2011, n. 28286, cit., a proposito dell’abuso del processo), a
conferma della difficoltà di distinguere nettamente i due concetti.
Non è certo questa la sede per approfondire convenientemente la questione.
Mi limito, quindi, a dire che a mio parere le norme codicistiche relative alla
buona fede e alla correttezza devono considerarsi alcune delle più
significative espressioni del più generale principio del divieto di abuso del
diritto. Il quale, investendo ogni ambito dei rapporti giuridici, si presta a
sanzionare comportamenti contrattuali scorretti che sfuggono alla regola della
buona fede e della correttezza. Questa, infatti, vincola soltanto i contraenti, sì
che se può essere utilmente richiamata per sanzionare i comportamenti
abusivi posti in essere da una delle parti in danno dell’altra (c.d. abuso nel
contratto), ad essa sfugge l’ipotesi in cui i comportamenti abusivi siano posti
in essere da entrambe le parti (c.d. abuso del contratto) a danno di terzi e, in
particolare, a danno del fisco, come nel caso che qui ci occupa, che ben può,
invece, essere ricondotto entro l’operatività del divieto di abuso
dell’autonomia negoziale.
Il punto non può essere esaurito senza sottolineare che la soggezione
dell’autonomia privata al divieto di abuso del diritto risulta positivizzata dalla
norma di chiusura ( art. 54) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea firmata a Nizza il 7 dicembre 2000, che in seguito all’entrata in
vigore del Trattato di Lisbona ha acquisito lo stesso valore giuridico dei
Trattati. La norma, rubricata “Divieto dell’abuso del diritto”, prevede, in
particolare, che “Nessuna disposizione della presente Carta deve essere
interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o
compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti e delle libertà
riconosciuti nella presente Carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni
più ampie di quelle previste dalla presente Carta”. L’intento del legislatore
239
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA
europeo è chiaramente quello di scongiurare un’applicazione impropria dei
diritti e delle libertà declinati dalla Carta stessa. Ivi compresa, quindi, la
libertà di impresa riconosciuta all’art. 16, che, secondo la giurisprudenza
della Corte di Giustizia, implica la libertà di concorrenza e la libertà
contrattuale.
Indicazione che, trasposta nel nostro ordinamento – il quale è, peraltro, ormai
parte integrante di quello dell’Unione europea -, dimostra la perfetta
conciliabilità del divieto di abuso dell’autonomia privata con i valori
costituzionali espressi dall'art. 41 Cost., norma che, proprio come l’art. 16
della Carta dei diritti fondamentali, si considera giustificativa della libertà
contrattuale oltre che della libertà imprenditoriale.
8 Il falso problema dell’inconciliabilità dell’abuso del diritto con la certezza
del diritto oggettivo. – Opportunità di un intervento legislativo volto a
delimitare l’operatività dell’abuso del diritto tributario: l’esempio del § 42
della legge generale tributaria tedesca.
Rilevato che l’utilizzo dell’abuso del diritto in funzione antielusiva operato
dalle Sezioni Unite appare giustificato da un’interpretazione sistematica
dell’ordinamento nonché coerente con l’elaborazione dottrinale della
nozione, non resta che spendere alcune considerazioni sui rischi esiziali da
sempre paventati per la certezza del diritto che determinerebbe il
riconoscimento al giudice di un potere così ampio come quello di sindacare la
meritevolezza dell’atto di esercizio del diritto soggettivo. Necessariamente
sintetiche come il contesto impone.
Noto è che il timore dell’arbitrio rispetto all’ordine certo rappresentato dal
codice civile è alla base della mancata codificazione del principio dell’abuso
del diritto, nonostante che esso fosse previsto dal progetto ministeriale
definitivo del codice stesso.
La dottrina che per prima si è adoperata a dimostrarne la vigenza quale
principio implicito (Natoli) ha, tuttavia, sottolineato al riguardo che, al
contrario, è l’assenza del principio che comprometterebbe la certezza del
diritto, giacché la pretesa dell’esercizio indiscriminato del diritto soggettivo
si traduce nei fatti in una resa all’arbitrio individuale e nella negazione di
ogni autorità della legge.
Considerazione probabilmente venata da un eccesso di radicalità, ma non
priva di verità, dato che non si può certamente affermare che i numerosi
ordinamenti di Civil Law nei quali l’abuso del diritto è espressamente
previsto siano afflitti da un’incertezza del diritto sconosciuta al nostro
ordinamento, in cui l’abuso del diritto, oltre a non essere codificato, è stato
impiegato dalla giurisprudenza, prima dell’inversione di tendenza registratasi
negli ultimi anni, in casi estremamente limitati.
Segno evidente che la discrezionalità giudiziale connessa all’applicazione del
principio dell’abuso del diritto, che non si distingue, del resto da quella
concernente l’impiego di qualunque altro principio generale, può essere
tollerata dall’ordinamento giuridico, poiché, come appare con chiarezza nella
prospettiva ampia e distaccata del diritto comparato, “il problema
240
L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA
appassionante del ruolo del giudice, della certezza del diritto è [..] lontano dal
tema dell’abuso, la sua soluzione dipende infatti dal sistema di formazione e
di reclutamento dei giudici […] e da molte altre variabili la cui influenza è di
molto superiore alla teoria dell’abuso” (Gambaro).
9 Opportunità di un intervento legislativo volto a delimitare
l’operatività dell’abuso del diritto tributario: l’esempio del § 42 della
legge generale tributaria tedesca.
Con questo non si vuol negare l’opportunità di interventi legislativi tesi a
delimitare la discrezionalità del giudice in settori in cui, come quello
tributario, la prevedibilità delle decisioni giudiziarie appaia particolarmente
importante. Posto, tuttavia, che l’operatività del divieto di abuso del diritto
relativamente ai tributi conformati dal diritto europeo non può essere posta in
discussione, ragioni di coerenza consiglierebbero di collocare l’intervento
legislativo all’interno del medesimo principio.
Un utile esempio parrebbe allora essere costituito, in questo senso, dal testo
riformato alcuni anni fa del § 42 della legge generale tributaria tedesca, che
recita:
«1. La legge tributaria non può essere elusa attraverso un abuso di
conformazione giuridica. Se la fattispecie di un negozio è prevista da una
specifica norma tributaria intesa ad impedire l’elusione fiscale, i suoi effetti
saranno quelli previsti da questa norma. Negli altri casi la pretesa tributaria
deriva dalla sussistenza dell’abuso, nel significato previsto dal 2° comma,
nella stessa misura in cui sarebbe derivata se fosse stata utilizzata una
conformazione giuridica adeguata alla pratica degli affari.
2. Sussiste un abuso quando viene scelta una conformazione inadeguata, che
determina per il soggetto d’imposta o per il terzo un vantaggio fiscale non
previsto ove fosse stata utilizzata una forma adeguata. Ciò non vale ove il
soggetto di imposta provi che esistono ragioni, diverse da quelle fiscali, di
particolare rilevanza nel quadro complessivo del rapporto, che giustificano
la scelta».
Ma si tratta di una riflessione da affidare agli specialisti della materia, non
avendo io al riguardo alcuna competenza da esprimere se non quella del
comune contribuente.
241
Prof. Pietro Rescigno
Professore Emerito nella Università “La Sapienza” di Roma
L'abuso del diritto
(copia del testo originale del 1965)
Prof. Pietro Rescigno
Professore Emerito nella Università “La Sapienza” di Roma
L'abuso del diritto
(Una significativa rimeditazione delle Sezioni Unite)
Le Sezioni unite civili della Cassazione, nel novembre 2007 (Cass. 15
novembre 2007, n. 23726), hanno riesaminato un tema che era oggetto di
vivace contrasto nella dottrina e nella giurisprudenza; la diversità di opinioni
era persistita al di là di una prima pronuncia (risalente al 2000) delle stesse
Sezioni unite. Si spiega col perdurante dissenso la nuova rimessione, che ha
indotto la Corte ad una approfondita rimeditazione e ad un ripensamento,
giustificato anche dall'aver portato alla luce talune peculiarità della fattispecie
esaminata e decisa nella pronuncia ora superata.
Il problema è quello della "parcellizzazione'o "frazionamento'della pretesa
creditoria, e della possibilità di qualificare in tali ipotesi come "abusivo'il
comportamento del creditore. Riferito al credito inteso nell'aspetto
sostanziale, si verificherebbe un abuso del diritto; se si guarda al processo
come strumento usato per esercitare la pretesa, si può essere indotti a parlare
di abuso del processo. Sempre si conferma la stretta connessione dei due
profili, del rapporto materiale e dell'azione in giudizio, nell'antica e
tormentata questione dell'abuso.
L'autore di questo breve editoriale ha dedicato all'abuso del diritto un saggio
ormai risalente, apparso nella "Rivista di diritto civile'del 1965 dopo che in
una versione minore era stato nel 1963 il discorso inaugurale dell'anno
accademico bolognese. Nel ripubblicare nel 1998, per i tipi del "Mulino', lo
scritto assieme ad altri due che ne avevano costituito integrazione e sviluppo,
avevo ritenuto di aggiungere un'avvertenza, una postfazione ed una nota
bibliografica contenente altresì richiami della più recente giurisprudenza. Pre
e post-fazione volevano servire a collocare il saggio nel suo tempo, e
ricordare al lettore talune rilevanti novità (in primo luogo legislative) che nei
vari settori avevano ridisegnato oggetto e confini della realtà osservata. Il
saggio, è opportuno rammentarlo, aveva preceduto la riforma del diritto
familiare e l'introduzione del divorzio, e lo Statuto dei lavoratori, per
fermarci a due materie che vi apparivano visitate con insistita assiduità.
Anche al di fuori degli interventi del legislatore e delle conquiste
dell'autonomia collettiva, potevano intanto registrarsi, soprattutto in virtù di
una giurisprudenza sensibile e coraggiosa, vedute assai più larghe in ordine
alla sindacabilità dell'esercizio di libertà, potestà, poteri, diritti potestativi,
diritti soggettivi (per riprendere il consueto elenco in cui venivano e vengono
ancora riassunte, articolate, distinte le varie prerogative private). Ma il
discorso sull'abuso conosceva e generalmente incontra un passaggio
ineliminabile con riguardo alla proprietà ed al credito, le due tipiche figure
del diritto soggettivo; nel parlare di proprietà e credito si astrae delle
L'ABUSO DEL DIRITTO
(UNA SIGNIFICATIVA RIMEDITAZIONE DELLE SEZIONI UNITE)
posizioni estreme che finiscono per ridurre la categoria dei diritti soggettivi
ad una soltanto delle due figure e per emarginarne l'altra, in ragione
dell'esclusiva esaltazione del momento della soddisfazione immediata
dell'interesse del titolare, come avviene nella proprietà, o dell'esigenza
dell'altrui cooperazione che è invece il connotato indeclinabile del rapporto
obbligatorio.
L'esame delle decisioni giudiziali di fine secolo confermava intanto un dato
già emerso dalla ricostruzione del sistema positivo, una costruzione non
irrigidita nelle espresse previsioni normative e non fuorviata dai silenzi di
altre discipline. Poteva dunque ribadirsi, nel ripercorrere gli itinerari della
giurisprudenza, il modesto (ed in ogni caso non determinante) valore del
divieto degli atti emulativi dettato per la proprietà, ancor più disvelato da una
lettura che continua a rifiutarne l'applicazione in presenza di una sia pur
minima utilità ricavata dall'autore dell'atto. La circoscritta rilevanza e la
restrittiva interpretazione della norma ne precludevano pertanto, contro
remote illusioni, il carattere di principio fondativo del sistema in ordine al
controllo del giudice sui modi di realizzazione delle prerogative private.
Si arricchivano invece di pregnante significato, e di un senso che riusciva a
travalicare i confini dell'obbligazione e del relativo regime, i canoni della
correttezza e della buona fede sanciti per il debitore ed il creditore e
riaffermati con particolare intensità nella disciplina del contratto (e per la fase
esecutiva in grado ancor più accentuato).
Per riprendere gli esiti della personale ricerca, approdi che coincidevano in
larga misura con le proposte avanzate ed i risultati raggiunti da un'ampia
dottrina in quella lontana stagione, si suggeriva dunque di muovere dalla
normativa sulla correttezza e la buona fede, "parametri'della condotta che nel
rapporto obbligatorio viene imposta al creditore come al debitore, nel segno
del rispetto della sfera giuridica di ciascuno dei soggetti. Anche per questa
via si scopriva nel rapporto obbligatorio il "paradigma a cui ricondurre tutte
le relazioni intersoggettive rilevanti per il diritto: si rovesciava in tal modo
l'antica prospettiva, ed erano proprietà e diritti reali a ricevere integrazione
dalla scoperta di limiti e di doveri ordinati attorno alla pretesa, più che il
diritto di credito a ricevere delimitazioni dell'antica formula
della aemulatio proibita al proprietario.
Le considerazioni di fine secolo (il saggio, come ricordavo, è stato riproposto
nel 1998) segnalavano dunque il progressivo "svuotamento'della norma su gli
atti emulativi e indicavano come più rassicurante criterio di generale portata
(e del resto la formula delle "clausole generali'storicamente insiste sulla
flessibilità e sull'adeguamento dei contenuti in ragione delle suggestioni e
delle attese della società) la regola di correttezza. Di altre norme il discorso
sull'abuso cercava di far tesoro (si pensi alla disciplina del motivo illecito o
della condizione meramente potestativa), ma dal principio di correttezza si
traevano gli argomenti più persuasivi, oltre che dotati di una innegabile
elasticità che ne consentiva in concreto l'adattamento alle specifiche
situazioni.
246
L'ABUSO DEL DIRITTO
(UNA SIGNIFICATIVA RIMEDITAZIONE DELLE SEZIONI UNITE)
Mi parve significativa in questo orizzonte di pensiero una pronuncia della
S.C. del 1997, a Sezione semplice (pres. Cantillo, est. Carbone), che nel tema
dell'abuso inquadrava il "frazionamento" del credito operato dal creditore al
fine di radicare il giudizio davanti ad un giudice diverso da quello a cui
sarebbe spettato decidere la controversia in ragione dell'intera "misura" del
credito. Di quella pronuncia erano riportati ampi brani, nella convinzione che
al problema "storico" dell'abuso di diritto - una vicenda di storia delle idee,
riflessa negli istituti in cui si concretizzano gli interessi e le speranze degli
uomini - sia utile, anzi indispensabile ogni documento, in primo luogo la
sentenza di una magistratura autorevole quale è la S. C., una tappa del lungo
faticoso cammino che dalla discrezionalità e dall'arbitrio nell'esercizio dei
diritti conduce, con gradazioni diverse, alla sindacabilità e al controllo, sino
ad arrivare alla dichiarata illegittimità dell'atto ed alla responsabilità civile
dell'autore.
La sentenza del "97 acquista ulteriore importanza se si riflette che a stenderla
fu un magistrato e studioso, V. Carbone, che ora nella qualità di primo
presidente della Corte ha presieduto il Collegio a Sezioni Unite del novembre
2007 (estensore della sentenza il cons. Morelli, a sua volta già noto per avere
redatto pregevoli decisioni). Il ragionamento e la motivazione delle Sezioni
Unite riprendono e riaffermano la ratioallora espressa; rimeditazione e
ripensamento, per usare i termini adoperati con riguardo alla avvertita e
manifestata necessità di "non tener fermo" l'orientamento adottato nel 2000 (e
favorevole a ritenere compatibile con i poteri del creditore la frammentazione
della pretesa e della domanda), sono fondati principalmente su un "quadro
normativo" (di cui si impone una interpretazione adeguatrice) che ha
conosciuto ulteriore sviluppo. Si allude a due aspetti dell'evoluzione, da un
lato alla sempre crescente valorizzazione della correttezza e della buona fede,
sino a tradurle in valori "costituzionali'suscettibili di essere assunti nei doveri
di solidarietà (politica, economica, sociale), dall'altro alla "ragionevole
durata'e al "giusto'processo, ragionevolezza e "giustezza'che appaiono messe
in discussione ed a rischio quando l'esercizio dell'azione si svolga "in forme
eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna
il limite, oltreché la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas
agendi".
Il fenomeno, non di frequente verificazione e tuttavia nemmeno eccezionale,
del credito "frammentato'dal titolare in una pluralità di domande - con la
motivazione, esplicita o sottintesa, di ottenere così giudizi più rapidi e meno
costosi, in ragione del giudice competente e in concreto adito - aveva
registrato, dopo la sentenza del "97 e ancor più dopo l'indirizzo adottato dalle
S.U. nel 2000, reazioni differenti (e se ne faceva cenno in principio), e nella
dottrina, talora nell'ambito di contributi a carattere monografico sul tema, più
voci si erano espresse nel senso della legittimità della scelta operata dal
creditore.
Per una informazione analitica ed esauriente si può rinviare alle note di
commento che all'ultima Cassazione dedicano in Nuova giur. civile
commentata (2008, 458) A. Finessi e F. Cossignani, con speciale riguardo,
247
L'ABUSO DEL DIRITTO
(UNA SIGNIFICATIVA RIMEDITAZIONE DELLE SEZIONI UNITE)
rispettivamente, agli aspetti sostanziale e processuale della questione. Anche i
due giovani autori svolgono valutazioni critiche del nuovo indirizzo e del
ritorno allo schema logico cui rinviava la sentenza del "97 (da Cossignani, in
verità, si insiste piuttosto sulla considerazione che il creditore, nell'agire
senza riserva per una parte sola della pretesa, rischia di esporsi all'eccezione
di giudicato nelle azioni future, mentre nell'ipotesi di riserva dovrebbe essere
avvertito dal giudice dell'inefficacia al riguardo dell'atto cautelativo, e
incoraggiato ad integrare il petitum così scongiurando la consumazione del
diritto al residuo).
Si contesta in primo luogo il mutamento del quadro normativo, poiché era già
allora cresciuto e si era arricchito di dignità costituzionale il valore degli
enunciati di buona fede e correttezza nel rapporto obbligatorio: la "novità',
sul punto, generalmente sembra costituita dall'imposizione del dovere al
creditore, mentre la critica insiste sul necessario parallelo riferimento al
debitore, e sottolinea come la "parcellizzazione'della pretesa si innesti sulla
inadempienza dell'obbligato (ma trascurando che nei casi di specie il debitore
si è opposto col contestare in tutto o in parte il credito contro di lui
esercitato).
L'altro motivo di censura, nella "nota'ricordata e nella dottrina che la precede,
risiede nella denunciata svalutazione dei meccanismi posti nel sistema a
tutela del debitore contro le pregiudizievoli conseguenze economiche della
frammentazione della pretesa (in primo luogo, l'offerta dall'intera prestazione
e la costituzione in mora del creditore, o invece una domanda
riconvenzionale di accertamento negativo del credito).
Sempre in chiave critica della tesi dell'abuso, si contesta infine che possa
argomentarsi, nel senso della necessaria unitarietà del rapporto e degli
strumenti di esercizio del diritto, da altre regole relative al credito, a
cominciare dal diritto del titolare di rifiuto di un adempimento parziale. La
norma dettata nell'art. 1181, pur confermando il principio che la prestazione
deve eseguirsi in unica soluzione, salve diverse previsioni della legge e degli
usi (ma con la ribadita estraneità al novero delle eccezioni degli art. 277 e
278 c.p.c., dove il "frazionamento'può essere operato dal giudice in un
procedimento instaurato per l'integrale adempimento), non escluderebbe la
"parcellizzazione' che possa risultare rispondente ad esigenze apprezzabili del
creditore.
Una sostanziale adesione alla pronuncia ed all'indirizzo "recuperato' si trova
invece nel commento di A. Ronco, in Giur. it. 2008, 931, che avrebbe
tuttavia desiderato dalla S. C. "una più generale e coraggiosa ricostruzione",
in verità difficile da compiere nell'enunciazione di un principio; il principio
deve ricondursi per Ronco ad una concezione pubblicistica del processo e
dell'azione, ma appare in verità suscettibile di essere in modo coerente
riportato anche all'idea privatistica della disponibilità delle parti circa i diritti
controversi.
Attorno al tema dell'abuso si rinnovano, come il lettore agevolmente può
constatare, le obiezioni e le riserve che sempre hanno accompagnato il
riconoscimento della generale figura (anche quando si tratta, come in taluni
248
L'ABUSO DEL DIRITTO
(UNA SIGNIFICATIVA RIMEDITAZIONE DELLE SEZIONI UNITE)
ordinamenti accade, di un istituto positivamente regolato) e ancor più
l'individuazione delle singole fattispecie da ricondurre alla stessa. Le
originarie e non sopite perplessità derivano dalla difficoltà di ravvisare
l'abuso, e cioè una deviazione dalle sostanziali finalità assegnate alla
prerogativa in virtù del riconoscimento normativo: anche nella sentenza delle
S.U. si parla di deviazione, accanto all'ipotesi di "eccesso', parola che una
risalente dottrina usava invece per collocare l'atto al di fuori dei confini del
diritto soggettivo esercitato e per qualificarlo come illecito (e per tale via
superava o si illudeva di eliminare lo stesso problema dell'abuso).
A me sembra che il dissenso, sotto il quale è facile ritrovare l'antica ricorrente
preoccupazione di ammettere poteri di controllo e apprezzamento del giudice
invasivi rispetto a prerogative riconosciute ai privati e soprattutto pericolosi
per la certezza del diritto, non possa sminuire l'importanza della decisione e
la validità del principio che enuncia. La sentenza ravvisa l'abuso nella
condotta del creditore destinata ad aggravare la posizione debitoria senza una
utilità oggettivamente valutabile come degna di essere individualmente
perseguita e dall'ordinamento tutelata: intesa in questi termini, è un momento,
se si vuole un capitolo, della vicenda intellettuale che si nasconde dietro la
formula ed è stata faticosamente elaborata dall'interprete.
Il vantaggio della semplificazione e della minore onerosità dei
"concorrenti'giudizi intentati (e non è irrilevante che nella fattispecie
esaminata dalle S.U. nel 2000 si sia trattato di giudizi iniziati in maniera
distinta secondo una sequenza temporale, mentre nel caso del 2007 si era in
presenza di azioni intraprese contemporaneamente), scaturente dalla
competenza a decidere del giudice di pace, non è apparso alla S.C. bastevole
a realizzare l'oggettiva presenza di un interesse positivamente apprezzabile,
idoneo a giustificare l'aggravata posizione del debitore (e dunque un
sacrificio ulteriore rispetto allo schema elementare della soggezione che
connota il rapporto obbligatorio).
L'unità del rapporto sostanziale da cui scaturivano le "frazioni'del credito
(frammenti che giustificavano le varie fatturazioni, ma non incidevano sulla
unitarietà del contratto di durata da cui erano derivate le prestazioni eseguite
e le obbligazioni da adempiere) è apparsa alla S.C. ragione sufficiente, in una
valutazione comparativa degli interessi, per far prevalere l'interesse del
debitore ad essere convenuto per il debito intero (che in tutto o in parte esso
venga contestato, è profilo di non decisiva rilevanza) rispetto all'interesse del
creditore a "parcellizzare' la pretesa nella ricerca di un diverso giudice
competente.
Sulla qualificazione della condotta descritta come "abusiva'(che non è, come
è ovvio, un enunciato insuscettibile di eccezioni e di limiti da ravvisare nella
concretezza delle singole fattispecie), la sentenza riveste l'interesse che aveva
suscitato la pronuncia del 1997 e che mi aveva indotto, nel rapido e breve
"aggiornamento'del tema, a segnalarla come particolarmente significativa
dell'evolversi di un principio nato e sviluppato soprattutto ad opera della
giurisprudenza. Che le Sezioni unite civili siano tornate sulla via allora
indicata, con una elaborazione che non è autocritica (rispetto al 2000) ma
249
L'ABUSO DEL DIRITTO
(UNA SIGNIFICATIVA RIMEDITAZIONE DELLE SEZIONI UNITE)
pensoso chiarimento e persuasiva ripresa di un indirizzo allora aperto, è dato
non trascurabile per chi ha dedicato qualche pagina al tema dell'abuso e
ritenne di segnalare la sentenza del "97 come un dato di sicuro rilievo: per
intenderci in modo semplice, al pari della pronuncia che, anticipando
l'intervento legislativo, considerò abuso del diritto il disconoscimento di
paternità da parte del marito che aveva acconsentito all'inseminazione
eterologa, stavolta elevando a indice di abusività della condotta il divieto
di venire contra factum proprium, nel segno di una necessaria coerenza
dell'agire e della tutela degli affidamenti suscitati.
250
Prof.ssa Livia Salvini
Professoressa Università Luiss di Roma
A margine della sentenza Dolce&Gabbana: la costituzione di
parte civile dell’Amministrazione Finanziaria
1
Il rilievo dei principi affermati da Cass., sez. II pen., n. 7739/2012 in merito
alla sanzionabilità penale dell’elusione fiscale ha messo in ombra la prima
parte della motivazione, quella in cui la sentenza affronta il problema della
legittimazione dell’Agenzia delle Entrate, costituita parte civile, ad
impugnare la sentenza di non luogo a procedere emessa dal Tribunale penale.
Il tema della costituzione di parte civile dell’Amministrazione finanziaria
(intesa per ora, in termini generali, con riferimento sia all’Agenzia, sia al
Ministero dell’Economia e delle Finanze) nei giudizi penali per i reati fiscali
non è stato spesso trattato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, benché esso
rivesta una sicura importanza pratica, vista la sempre maggiore frequenza con
cui l’Amministrazione si costituisce in tali giudizi. Sotto il profilo teorico,
questo tema è stato affrontato anche con pregevoli interventi, ma soprattutto
nella vigenza del vecchio sistema penaltributario delineato dalla l. n.
516/1982, sistema che sanzionava principalmente – come noto – i reati
prodromici all’evasione. Sembra probabile, già ad un primo esame, che la
questione meriti di essere di nuovo esaminata alla luce del sistema
attualmente recato dal d.lgs. n. 74/2000 che sanziona invece i reati di
evasione, soprattutto per quanto attiene all’individuazione del danno che può
essere oggetto dell’azione di responsabilità civile dell’Amministrazione. Così
come l’interesse alla costituzione di parte civile presentava aspetti senz’altro
diversi nel previgente sistema, in cui la sentenza irrevocabile pronunciata nel
giudizio penale aveva autorità di cosa giudicata nel processo tributario quanto
ai fatti materiali accertati, rispetto a quanto non accada ora, in presenza di un
(sempre più imperfetto, peraltro) sistema di “doppio binario”, cioè di
indipendenza dei due giudizi.
Tuttavia, come si vedrà, alcuni dei temi a suo tempo trattati restano, per la
loro centralità, ancora assolutamente attuali: primo tra tutti, quello dei
rapporti tra l’esercizio dell’azione di risarcimento nel processo penale, da un
lato, e l’attuazione del rapporto di imposta attraverso l’accertamento, la sua
eventuale definizione stragiudiziale e il processo tributario, dall’altro.
La questione della costituzione di parte civile è divenuta poi più complessa in
tempi relativamente recenti anche sotto il profilo soggettivo a seguito
dell’istituzione dell’Agenzia delle Entrate, poiché si è posto il problema di
una possibile differenziazione della posizione dell’Agenzia rispetto a quella
A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE
CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
del Ministero, in relazione anche alle modifiche apportate alla disciplina del
processo penale dalla riforma del 1988.
Anche la prima parte della sentenza “Dolce & Gabbana” e le questioni che
essa pone meritano dunque un esame. Dato l’oggetto di quel giudizio, non
tutte le complesse questioni sopra accennate trovano trattazione nella
pronuncia; tuttavia, essa può costituire un utile punto di partenza anche per le
ulteriori considerazioni che proverò a sviluppare.
2
La sentenza parte da un presupposto, di carattere prettamente
processualpenalistico, che qui conviene assumere come dato di partenza, e
cioè che solo la persona offesa dal reato, costituita o meno parte civile, e non
anche la persona danneggiata, costituita parte civile, possa impugnare la
sentenza di non luogo a procedere (art. 428, comma 2, c.p.p. 1). Ciò perché
tale impugnazione è per sua natura destinata alla tutela esclusiva degli
interessi penalistici della persona offesa; ed infatti la sentenza emessa
all’esito dell’udienza preliminare – quale è appunto quella di non luogo a
procedere di cui qui si discute – è priva di effetti irrevocabili nel merito della
controversia e non può quindi incidere sull’azione risarcitoria. Come ha
affermato Cass. SS.UU. pen. n. 25695/2008 - cui si deve anche una accurata
ricostruzione, non priva di spunti critici, del sistema delle impugnazioni delle
sentenze di proscioglimento emergente dalla l. n. 46/2006 – l’interesse della
persona offesa, concorrente con quello della pubblica accusa fino a
configurare un’azione penale privata, è esclusivamente quello di ottenere il
rinvio a giudizio dell’imputato, dovendosi decisamente escludere ogni
possibile effetto civile ricollegabile all’impugnazione della sentenza di non
luogo a procedere; e ciò anche se non è dato comprendere esattamente 2 il
motivo per cui l’art. 428 comma 2 cit. attribuisca alla persona offesa che sia
costituita parte civile poteri impugnatori più ampi di quella che non sia
costituita come tale 3.
3
La distinzione tra persona danneggiata e persona offesa, com’è noto, risiede
nel fatto che la persona offesa è titolare dell’interesse giuridico protetto,
1
La norma in questione attribuisce alla persona offesa che non sia costituita parte
civile la facoltà di proporre ricorso per cassazione solo in caso di violazione delle
norme sul contraddittorio recate dall’art. 419, ed alla persona offesa costituita parte
civile la facoltà di impugnare per tutti gli ordinari motivi di ricorso per cassazione
previsti dall’art. 606.
2
Il sistema così ricostruito non presenta tuttavia, per Cass. SS.UU. cit., profili di
dubbia costituzionalità.
3
V. nota 1.
252
A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE
CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
anche se in modo non prevalente, dalla disposizione incriminatrice (e come
tale è soggetto del procedimento ed ha diritto di ricevere la notifica degli atti
introduttivi del giudizio – art. 419 c.p.p.), mentre la persona danneggiata è
quella che ha subito il danno patrimoniale e/o morale derivante dal
comportamento costituente reato, e può pertanto costituirsi parte civile nel
processo penale per ottenerne il risarcimento, in via alternativa rispetto
all’esperimento di un’ordinaria azione risarcitoria civile.
Normalmente la persona offesa e quella danneggiata coincidono, ma tale
coincidenza non è necessaria, stante la diversità dei diritti sostanziali di cui
ciascuna vanta la titolarità. La possibilità di una dissociazione delle due
figure, e della correlata legittimazione della sola parte offesa
all’impugnazione per Cassazione della sentenza di non luogo a procedere,
pone in ambito fiscale l’eventualità della divaricazione della posizione del
Ministero dell’Economia e delle Finanze, da un lato, e dell’Agenzia delle
Entrate, dall’altro. Nel giudizio in questione i difensori degli imputati
avevano eccepito l’inammissibilità del ricorso dell’Agenzia delle Entrate,
costituita parte civile, proprio partendo dal presupposto che l’impugnazione
fosse consentita alla sola parte offesa. I difensori, in particolare, osservavano
che “i reati tributari mirano a tutelare il patrimonio dell’Amministrazione
finanziaria e la persona offesa deve essere individuata non nell’Agenzia delle
Entrate che, quale ente strumentale, potrebbe assumere le vesti di persona
danneggiata, ma nel Ministro pro-tempore dell’Economia e delle Finanze”.
Ministro che, invece, non aveva impugnato.
La Cassazione – che, sciogliamo subito la suspence, ha invece ritenuto
ammissibile il ricorso dell’Agenzia – sviluppa il suo ragionamento su due
linee concorrenti: in primo luogo, sostiene che l’Agenzia mutua dal Ministero
la qualità di parte offesa; successivamente, osserva che in ogni caso
l’Agenzia può ritenersi, di per sé, parte offesa.
4
La sentenza in esame inizia con l’osservare, sulla scorta di Cass. SS.UU. civ.
n. 3116/2006 4, che a seguito della istituzione dell’Agenzia si è verificata a
favore di questa una successione a titolo particolare nei poteri e nei rapporti
giuridici strumentali all’adempimento dell’obbligazione tributaria, “anche se
il destinatario del gettito fiscale – senza intermediazione alcuna – rimane
sempre lo Stato”. L’Agenzia, tuttavia, gestisce in via esclusiva il contenzioso
fiscale, ed ha – anche attraverso l’esercizio del potere di autotutela – il potere
di disporre del diritto sostanziale dedotto in giudizio. “E’ evidente, pertanto,
che la legge affida all’Agenzia delle Entrate la tutela dell’interesse dello
Stato alla completa e tempestiva percezione del tributo”. Ne deriva, secondo
4
Su cui v., da ultimo, le considerazioni sistematiche di TABET, Natura e funzioni
delle Agenzie fiscali, in Riv. Dir. Trib. 2011, 253.
253
A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE
CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
la Cassazione, che l’Agenzia, quale parte esclusiva del processo tributario,
deve essere considerata la sola legittimata a costituirsi parte civile per
l’adempimento di obbligazioni tributarie, anche se è l’Amministrazione
finanziaria, cioè il Ministero, che deve considerarsi parte offesa (salvo che
quest’ultima non voglia far valere la tutela di ulteriori e diverse situazioni
giuridiche lese).
Del resto, osserva la Corte, se ciò non fosse vero all’Agenzia dovrebbe essere
negata in radice la stessa legittimazione a costituirsi parte civile: infatti
nessun danno sarebbe ravvisabile a suo carico, posto che le somme da esse
recuperate affluiscono direttamente al bilancio dello Stato. Ma ciò si porrebbe
in contrasto con la giurisprudenza, che invece riconosce pacificamente tale
legittimazione 5.
5
Seguendo un iter logico alternativo, la Cassazione osserva poi che la stessa
Agenzia, a ben vedere, può essere qualificata come persona offesa dai reati
previsti dal d. lgs. n. 74/2000, poiché ad essa “è stata affidata la tutela
dell’interesse al corretto adempimento dell’obbligazione tributaria e (che)
può utilizzare molteplici strumenti, non esclusi quelli di carattere penale, per
rimuovere gli ostacoli al perseguimento dell’interesse affidatogli per legge”.
A questa conclusione non osta, proseguono i giudici di legittimità, il
principio della reciproca indipendenza tra procedimento penale e processo
tributario, poiché questo principio sotto diversi profili mostra delle
attenuazioni. Ad esempio, gli organi requirenti e giudicanti, anche penali,
sono tenuti a comunicare alla Guardia di Finanza fatti di cui siano venuti a
conoscenza che possono configurarsi come violazioni tributarie (art. 36 d. p.
r. n. 600/1973) e si può quindi affermare che “il processo penale è
considerato, per scelta legislativa, un veicolo privilegiato di notizie di
rilevanza fiscale”. Inoltre, la prevalente giurisprudenza della sezione
tributaria ritiene che il patteggiamento costituisca un elemento di prova per il
giudice tributario, il quale deve spiegare le ragioni per le quali l’imputato
avrebbe ammesso un’inesistente responsabilità e il giudice penale abbia
prestato fede a tale ammissione 6. Ed infine, la Corte adduce la nota questione
del raddoppio dei termini per l’accertamento in caso di violazione
comportante l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p., e la relativa C.
Cost. n. 247/2011, che indica tra le finalità del “raddoppio” quella di
5
La Corte cita su questo punto Cass., sez. III pen., n. 35456/2010, ma v. nello stesso
senso Cass., sez. II pen., n. 43302/2010. Quest’ultima sentenza afferma altresì che,
non essendo l’Agenzia un organo dello Stato, non è necessaria l’autorizzazione da
parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri (affermazione ripresa anche dalla
pronuncia in commento) e che la costituzione di parte civile può avvenire ad opera
della sede centrale dell’Agenzia, ovvero da parte dei suoi uffici periferici.
6
Cass., sez. trib., nn. 2724/2001, 19505/2003; 24587/2010.
254
A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE
CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
“garantire all’Amministrazione l’utilizzo degli elementi istruttori emersi nel
corso delle indagini condotte dall’autorità giudiziaria per un periodo più
ampio rispetto a quello previsto per l’accertamento”.
6
Mi sembra che questa sentenza presti il fianco a considerazioni critiche sotto
ambedue i versanti argomentativi.
Per quanto attiene al primo - che muove dall’individuazione del Ministero
come persona offesa e che attribuisce comunque all’Agenzia la
legittimazione ad impugnare la sentenza di non luogo a procedere in virtù
della sua posizione di unico soggetto cui per legge è demandata la tutela
anche processuale di tale interesse – si può osservare che la trasposizione sul
piano che ci riguarda dei principi enunciati da Cass. SS.UU. civ. n.
3116/2006 sulla legittimazione dell’Agenzia ad causam ed ad processum nel
processo tributario non appare del tutto soddisfacente. Se è vero, infatti, che
viene riconosciuta ai fini processuali tributari in capo all’Agenzia la titolarità
delle situazioni soggettive che vengono fatte valere nel processo, è anche
vero che a ciò si giunge riaffermando sotto il profilo sostanziale l’esistenza in
capo al solo Ministero della titolarità, diretta e non mediata dall’Agenzia,
dell’obbligazione tributaria. Avrebbe probabilmente meritato, allora, qualche
ulteriore considerazione da parte della Corte il fatto che, ai fini
dell’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, è la stessa norma,
così come interpretata dalla Corte, ad attribuire la legittimazione alla sola
persona titolare dell’interesse offeso, e cioè nel nostro caso appunto il
Ministero. Come ha affermato Cass. SS.UU. civ. cit., la disciplina normativa
dell’Agenzia delle Entrate comporta “una separazione tra titolarità di
posizioni giuridiche sostanziali – nella specie, l’acquisizione in via
immediata del gettito tributario – (che resta in capo al Ministero) ed esercizio
dei poteri e dei diritti necessari ad assicurare tale gettito (trasferito
all’Agenzia)”, da cui consegue appunto la legittimazione processuale
dell’Agenzia nei giudizi tributari. Ma nel giudizio penale di cui qui si tratta,
le situazioni soggettive che legittimano all’impugnazione non sono affatto
quelle strumentali all’attuazione dell’obbligazione tributaria e certamente
nulla hanno a che fare con il merito della pretesa e con la “assicurazione del
gettito”, neanche sotto forma di risarcimento del danno; al contrario, la
premessa da cui parte la sentenza in esame, anche sulla base dei precedenti, è
che tali situazioni sono solo quelle della persona offesa, e quindi di natura
esclusivamente penalistica, dirette ad ottenere il rinvio a giudizio del reo.
Intendo dire, con ciò, che è il legislatore del processo penale ad individuare
direttamente la legittimazione in capo alla persona offesa, ponendosi ai fini
255
A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE
CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
processuali a monte del trasferimento delle funzioni strumentali dal Ministero
all’Agenzia 7.
Né sembra una valida obiezione quella avanzata ad absurdum dalla stessa
Corte, laddove osserva che se l’Agenzia non potesse impugnare la sentenza
di non luogo a procedere perché non è titolare del rapporto di imposta, essa
non potrebbe neanche mai costituirsi parte civile, non potendo dirsi
danneggiata dai comportamenti evasivi del contribuente. La questione
dell’individuazione del danno che la parte civile può far valere nei processi
penali per i reati tributari è tutt’altro che pacifica e non consta che essa sia
stata mai seriamente esaminata dalla giurisprudenza (sul che tornerò oltre);
pare dunque arduo fondare sul debole precedente invocato dalla Corte una
qualche dimostrazione delle conclusioni raggiunte nella sentenza. Mi pare
comunque che l’obiezione non colga nel segno perché dando per scontato –
come sembra fare la Corte sulla scorta del fatto che i reati fiscali di cui è
processo sono reati di evasione – che l’azione di risarcimento abbia ad
oggetto l’imposta evasa, il suo esercizio rientra invece pienamente
nell’ambito della funzione di recupero del gettito che si è visto essere propria
dell’Agenzia. In altri termini, se oggetto dell’azione di danno è il recupero
del tributo, è scontato che l’Agenzia sia legittimata ad esercitarla, perché la
sua funzione è appunto quella di attuare la pretesa fiscale; non si tratta qui
della titolarità del diritto di credito, ma della titolarità dei poteri di
accertamento. Casomai, il problema – che però la Corte non si pone affatto –
è ancora una volta a monte: ed è il problema se l’esercizio di tale azione sia
compatibile con la disciplina fiscale del rapporto di imposta e con la sua
attuazione, demandata all’Agenzia.
Del resto, che l’iter logico della sentenza in esame sia incerto emerge con
evidenza dal fatto che il secondo percorso argomentativo seguito – quello che
individua direttamente nell’Agenzia la parte offesa – muove da un (sempre
implicito) presupposto diverso dal primo, e cioè che l’interesse sostanziale
leso dai reati ascritti all’imputato sia quello al corretto esercizio dei poteri
propri dell’Agenzia, e cioè quelli di controllo ed accertamento. Questa parte
della motivazione non appare tuttavia particolarmente chiara: essa si sofferma
infatti su alcuni dei punti di frizione del principio del c.d. “doppio binario”
con il diritto positivo, il quale prevede invece la trasmigrazione, anche con
effetti sostanziali, di dati e informazioni dal procedimento penale a quello
fiscale. Sembra dunque che per la Cassazione l’interesse penalistico fatto
valere dall’Agenzia con l’impugnazione sia quello di poter favorire tale
trasmigrazione, valendosi à rebours dei relativi effetti nell’attuazione del
rapporto di imposta.
Del tutto atipicamente, l’interesse della persona offesa – Agenzia delle
Entrate che si manifesta tramite l’impugnazione non sarebbe dunque quello al
7
A meno di non individuare, riduttivamente, le funzioni dell’Agenzia in una generica
rappresentanza processuale del Ministero.
256
A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE
CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
perseguimento del reo, ma si esaurirebbe e troverebbe soddisfazione nel
semplice svolgimento del processo.
7
L’analisi della posizione dell’Agenzia quale parte offesa tocca, come si è
visto, alcuni temi che riguardano anche la sua posizione quale danneggiata e
la sua costituzione come parte civile nel processo penale, ed in particolare
nelle fasi del giudizio in cui si decide, nel merito, della colpevolezza
dell’imputato (mentre nella sentenza “Dolce & Gabbana” si trattava della
legittimazione ad impugnare la sentenza di non luogo a procedere).
Terminato l’esame della sentenza, vorrei dunque occuparmi della
costituzione dell’Agenzia quale parte civile.
Tra i molti aspetti interessanti, per motivi di tempo mi limiterò a qualche
sintetica considerazione su quelli principali, ovvero: se l’Agenzia possa
costituirsi quale parte civile nel processo penale e quale sia, in caso
affermativo, il danno per cui l’Agenzia può agire; quale rapporto ci sia tra il
soggetto passivo e l’oggetto di tale azione, da un lato, e il soggetto passivo e
le vicende del procedimento e del processo tributari, dall’altro.
8
Come si è già accennato, la giurisprudenza della Cassazione pare ammettere
la costituzione di parte civile dell’Agenzia con riferimento ai reati ex d. lgs.
n. 74/2000 per il risarcimento del danno costituito dall’ammontare
dell’imposta evasa. I precedenti, a quanto mi consta, non sono numerosi: in
questo senso si è pronunciata Cass., sez. III pen., n. 35456/2010 (in cui
l’imputato di emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti era,
sembra, il titolare di una ditta individuale), nonché Cass., sez. II pen., n.
43302/2010 alla quale erano state poste alcune interessanti questioni (tra le
quali quelle nodali della “inesistenza di un danno patrimoniale concernente
la pretesa di imposta, in quanto le pretese impositive sarebbero incompatibili
con un’accezione civilistica del danno quale quella presupposta dalle norme
sostanziali e processuali sull’azione civile nel processo penale e sulle
eccepita inesistenza del danno non patrimoniale, morale e/o esistenziale in
mancanza di fatto previsto quale illecito civile ex art. 2043 c.c.” 8), sulle
quali purtroppo essa non si è pronunciata in quanto si trattava di un
procedimento concluso con patteggiamento, in cui il Tribunale non può
decidere sulla domanda della parte civile 9.
8
In quel giudizio l’Agenzia aveva richiesto danni patrimoniali per € 59 mln per
crediti di imposta e rimborsi non spettanti e € 0,45 mln per risorse umane impiegate,
più € 20 mln per danni non patrimoniali.
9
Si veda anche sul tema – in quel caso di teorica applicazione – Cass., sez. III pen., n.
38710/2004 su cui tornerò oltre trattando del sequestro conservativo.
257
A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE
CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
Anche nel previgente sistema penaltributario la giurisprudenza di legittimità
ammetteva la costituzione di parte civile dell’Amministrazione Finanziaria.
Tuttavia, in considerazione del fatto che i reati sanzionati dalla l. n. 516/1982
erano “prodromici” all’evasione fiscale e non si concretavano in una
sottrazione d’imposta all’Erario, si osservava che “il danno patrimoniale, che
legittima la costituzione di parte civile, viene ricercato dalla dottrina nello
‘sviamento e turbamento dell’attività della pubblica Amministrazione diretta
all’accertamento tributario’ nonché con l’impegno dei mezzi umani e
materiali necessari a stabilire il comportamento delittuoso ed impedire il
compimento del disegno di evasione fiscale posto in itinere dal reo” (Cass.,
sez. III pen., n. 5554/1991; conf. Cass., sez. III pen., n. 7338/1993), con la
conseguenza che tale danno veniva individuato non nel debito di imposta,
bensì nel costo del personale e delle strutture impiegate nell’attività di
controllo ed accertamento 10.
10
Questa conclusione – fino a quel momento corretta – avrebbe potuto sembrare
contraddetta, nella sua logica, dalla disposizione contenuta nell’art. 6 l. n. 30/1997,
che aveva previsto quale circostanza attenuante nel processo penale per i reati fiscali
“il risarcimento del danno cagionato all’erario come diretta conseguenza della
mancata corresponsione dei tributi”. Per un approfondito esame di questa norma e
della configurazione di tale danno in rapporto ai “reati prodromici” v. Cass., sez. III
pen., n. 536/2000. Nella sostanza la Corte afferma che il legislatore ha voluto
introdurre nel sistema fiscale una specifica regolamentazione dell’attenuante del
risarcimento del danno prevista dall’art. 62, n. 6), c.p. proprio in ragione del fatto che
i reati fiscali di cui alla l. n. 516/1982 non sono di danno, compresi quelli di frode
fiscale, e quindi l’attenuante prevista dal c.p. non sarebbe stata loro naturaliter
applicabile. La norma in discorso, tuttavia, significativamente non parla di
risarcimento del danno cagionato dal reato, ma di quello cagionato dalla mancata
corresponsione dei tributi. Con il che si lasciava peraltro aperto il problema del
risarcimento del danno ulteriore, patrimoniale (costo dell’accertamento) e non
patrimoniale: POLLARI, Il risarcimento del danno in materia penale tributaria, in Il
Fisco, 1999, 6435 e GRAZIANO, Aspetti penalistici dei recenti provvedimenti deflattivi
del contenzioso, in Rass. Trib. 2003, 525; problema che il d. min. 11 aprile 1997 di
attuazione dell’art. 6 cit. risolveva pragmaticamente prevedendo nel modello di
dichiarazione che la Direzione regionale delle entrate doveva compilare per la
quantificazione del danno anche l’indicazione della “entità del risarcimento del danno
ulteriore” rispetto al tributo evaso. Prima dell’emanazione dell’art. 6 cit. la
giurisprudenza negava, sulla base della norma generale del c.p., l’applicazione
dell’attenuante proprio in considerazione dell’oggetto giuridico tutelato dalla l. n.
516/1982: v. Cass. sez. III pen., del 18/1/1994 citata criticamente da TINTI, Il
risarcimento del danno nei processi penali per i reati tributari, in Il Fisco 1998, 4397.
La questione è più linearmente (inserendosi in un sistema in cui vengono sanzionate
fattispecie di evasione) risolta nell’attuale disciplina dei reati fiscali dall’art. 13 d. lgs.
n. 74/2000, che prevede come circostanza attenuante il pagamento del debito
tributario (per un completo esame della questione tra vecchio e nuovo ordinamento v.
MASTROGIACOMO, Commento all’art. 13 d. lgs. n. 74/2000, in Diritto e procedura
penale tributaria, a cura di CARACCIOLI – GIARDA – LANZI, Padova, 2001, 381 ss.).
258
A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE
CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
9
L’Amministrazione Finanziaria ovviamente non dubita della propria qualità
di parte offesa e della propria legittimazione a costituirsi parte civile. Essa si
è espressa su questo tema nella vigenza dell’attuale sistema penaltributario
con la circ. n. 154/E del 2000, nella quale tra l’altro si rileva che la
partecipazione diretta al processo consente l’eventuale acquisizione di
elementi utili ai fini dell’annullamento parziale o totale della pretesa
tributaria o di una sua integrazione.
Quanto all’oggetto dell’azione, si osserva che esso non può essere
rappresentato, di per sé, dall’esercizio della pretesa tributaria, ma potrà
consistere, in sintonia con quanto previsto dall’art. 13 d. lgs. n. 74/2000, in
una richiesta di risarcimento del danno coincidente con il debito tributario,
comprensivo delle sanzioni amministrative, anche se non applicabili in virtù
del principio di specialità tra sanzione penale ed amministrativa sancito
dall’art. 19 d. lgs. cit. 11.
10
La dottrina ha trattato la questione della costituzione di parte civile
dell’Amministrazione Finanziaria nel processo penaltributario principalmente
nella vigenza della l. n. 516/1982 12, ponendosi in primo luogo la questione di
fondo, e cioè quella se la pretesa tributaria possa essere oggetto del
risarcimento.
La risposta è stata, generalmente, negativa.
Si osserva a tale proposito, sotto il profilo sostanziale, che la pretesa
impositiva trova la sua causa nella capacità contributiva e non nell’illecito, e
che pertanto essa non potrà mai essere oggetto di un’azione risarcitoria civile
da esercitare nel processo penale 13.
Nella relazione di accompagnamento si riconduce tale disposizione a quella generale
del codice penale sopra citata, ravvisandosi gli elementi di specialità nei più
accentuati effetti premiali.
11
A prescindere da ogni altra considerazione di carattere più generale, per cui si rinvia
al prosieguo, si può rilevare che dovrebbe invece escludersi a priori - a parte ogni
questione inerente il principio di specialità tra sanzioni penali e sanzioni
amministrative fiscali – che le sanzioni possano essere oggetto dell’azione risarcitoria,
in quanto la loro irrogazione costituisce esercizio di un potere autoritativo. Conf.
Cass., sez. III pen., n. 38710/2004.
12
Invero, la questione è stata controversa fin dall’emanazione della l. n. 4/1929, come
illustra NOVARA, Reati in materia di imposte sui redditi e di Iva e costituzione di parte
civile dell’Amministrazione finanziaria, in Rass. Trib. 1986, I, 109 ss.
13
RUSSO, Problemi in tema di rapporti tra processo penale e processo tributario, in
Riv. Dir. Fin. 1984, I, 453 ss.; BASILAVECCHIA, Dubbi sulla ammissibilità della
partecipazione dell’Amministrazione finanziaria al processo penale per i reati
tributari, in Rass. Trib. 1986, II, 404 ss.; NOVARA, op. loc. cit.;
259
A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE
CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
A tale argomento si aggiungeva poi che stante il bene protetto dalle
fattispecie incriminatrici fiscali, di carattere prodromico rispetto all’evasione,
mancava qualsiasi collegamento – la cui presenza è invece necessaria per la
configurabilità di una responsabilità civile da illecito penale - tra
commissione del reato e pretesa tributaria 14.
Peraltro, l’individuazione dell’interesse protetto dal legislatore della l. n.
516/1982 con la trasparenza e la corretta attuazione del rapporto fiscale
poneva l’ulteriore questione se il danno patrimoniale risarcibile potesse
essere individuato proprio nel costo dell’attività amministrativa resa
necessaria dalla violazione, da parte del contribuente, dei suoi obblighi fiscali
strumentali e se potesse poi configurarsi un danno morale, costituito dalla
lesione del prestigio dell’Amministrazione, ovvero dalla lesione
dell’interesse “diffuso” 15 alla fedeltà fiscale. Anche a tali interrogativi la
dottrina prevalente tendeva a dare risposta negativa, rilevando, tra l’altro, che
non può concepirsi un danno, patrimoniale o non, che possa essere fatto
valere nel solo processo penale e non anche nella sede civile (non consta,
infatti, che l’Amministrazione faccia valere tali danni in sede di
procedimento fiscale o in sede civile con separato giudizio) 16.
La correttezza di tali conclusioni doveva tuttavia misurarsi con il fatto che,
all’epoca, non vigeva un principio di “doppio binario” tra processo tributario
e processo penale, ma si manifestava invece un’autorità della cosa giudicata
penale, quanto ai fatti materiali accertati, nel processo tributario ai sensi
dell’art. 12 l. n. 516/1982. Alcuni osservavano, al riguardo, che in base ai
principi generali processuali una tale autorità in tanto poteva legittimamente
manifestarsi in quanto fosse data all’Amministrazione finanziaria, parte nel
processo tributario, la possibilità di partecipare, quale parte civile, al processo
penale 17 18.
14
In questo senso tutti gli Autori citati alla nota precedente.
NOVARA, op. loc. cit.
16
Tra gli altri, RUSSO, op. loc. cit. ; BASILAVECCHIA, op. loc. cit.; in termini
possibilisti, GALLO, Tecnica legislativa e interesse protetto nei nuovi reati tributari:
considerazioni di un tributarista, in Giur. Comm. 1984, I, 303.
17
V. ampiamente sul tema, anche per le citazioni dei numerosi Autori che se ne sono
occupati, SCHIAVOLIN, L’utilizzazione fiscale delle risultanze penali, Milano, 1994,
passim e spec. 593 ss. L’Autore, alla luce del nuovo codice di procedura penale,
ipotizza che la partecipazione dell’Amministrazione al processo quale parte offesa dal
reato possa conciliare l’esigenza di un’applicazione dell’art. 12 cit. conforme a
Costituzione con la non configurabilità di un’azione di danno della stessa
Amministrazione.
18
GLENDI, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984, 801 ss. si pone invece il
problema, opposto, dell’inesistenza del potere, in capo al contribuente che intenda in
prospettiva far valere in proprio favore l’efficacia del giudicato penale, di far
costituire l’Amministrazione nel giudizio penale.
15
260
A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE
CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
11
Venendo ora a qualche osservazione attinente l’ordinamento attuale, si deve
subito rilevare che restano insuperabili ed insuperati gli argomenti che si
fondano sulla radicale diversità di causa giuridica tra obbligazione tributaria e
danno civile. Argomenti che, come si è visto, si pongono a monte della
questione del bene giuridico protetto dai reati fiscali. Ne consegue che,
sebbene nell’attuale sistema del d. lgs. n. 74/2000 tale bene sia costituito
dall’obbligo di contribuzione alle spese pubbliche, come disciplinato dal
legislatore, e quindi i reati colpiscano fattispecie di evasione, deve restare
fermo, in linea di principio, che la pretesa tributaria non può costituire
oggetto dell’azione risarcitoria da esercitare nel processo penale mediante la
costituzione di parte civile dell’Agenzia delle Entrate.
Si noti, al riguardo, che – come risulta anche dalla relazione al codice nell’attuale disciplina il sistema processualpenalistico tende a privilegiare,
attraverso una serie di regole, l’esercizio dell’azione civile nella sede sua
propria, e cioè appunto quella civile, per evitare che il problema del
risarcimento del danno condizioni l’accertamento della responsabilità penale
19
, alterando tra l’altro l’equilibrio delle parti del processo 20. Già tale sistema
depone, quindi, per la non ammissione dell’Agenzia quale parte civile.
Ma a guardare la stessa questione dal versante fiscale, una tale conclusione
non può che uscirne rafforzata. Ed infatti, il sistema del procedimento di
accertamento, di riscossione, dell’accertamento del debito di imposta nel
processo tributario, appare in sé perfettamente concluso e ben suscettibile di
assicurare il perfetto soddisfacimento degli interessi erariali nella sede loro
propria, senza permettere sconfinamenti nella sede penale. Questa
considerazione vale a maggior ragione se si riflette che la costituzione di
parte civile permetterebbe all’Agenzia di avvalersi di strumenti cautelari
ulteriori – e a diverse condizioni – rispetto a quelli già esaustivamente
previsti dalle norme fiscali, quali il sequestro o la confisca 21.
19
Si potrebbe obiettare, al riguardo, che la costruzione dei reati fiscali prevede il
superamento di determinate soglie di evasione, per cui il giudizio penale deve
comunque avere ad oggetto la determinazione della pretesa fiscale. Tuttavia, altro è il
fatto del superamento della soglia, altra è la quantificazione esatta della pretesa
tributaria, e tanto più del danno nel suo complesso, ove esso dovesse comprendere
anche il “costo dell’accertamento” e i danni morali.
20
V. per tutti sul punto TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 2011, 156 ss.
21
Cass. n. 38710/2004 cit. rileva che solo l’Amministrazione finanziaria, attraverso la
costituzione di parte civile, a non anche il P.M. è legittimata a far valere le proprie
pretese risarcitorie; quest’ultimo, quindi, non è legittimato a chiedere il mantenimento
del sequestro. Cass., sez. III pen., n. 10120/2011 si occupa invece della confisca e dei
suoi rapporti con gli esiti del procedimento fiscale, stabilendo che in caso di
definizione della pretesa fiscale viene meno il presupposto della confisca.
261
A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE
CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
Ed infine, depone naturalmente in questo senso il fatto che nella disciplina
attuale è codificato dall’art. 20 d. lgs. n. 74/2000 il principio di totale
indipendenza tra i processi penale e tributario 22, che ha fatto venir meno le
questioni che si agitavano nella vigenza dell’art. 12 l. n. 516/1982.
12
L’assetto complessivo dell’assai articolata disciplina dei rapporti tra
procedimento e processo tributario da un lato e processo penale dall’altro
impone tuttavia cautela nelle conclusioni.
In primo luogo, si deve considerare che l’art. 13 l. n. 74/2000 prevede che il
pagamento del debito tributario, anche mediante adesione o conciliazione,
costituisce circostanza attenuante nel processo penale. Questa disposizione
può essere letta in due divergenti prospettive. Da un lato, infatti, potrebbe
ritenersi che la sua funzione sia semplicemente quella di non escludere
irragionevolmente che nel processo penaltributario il reo potesse fruire
dell’attenuante prevista in via generale dall’art. 62 c.p. 23; dall’altro, essa
potrebbe essere considerata la conferma che il danno che si può far valere in
sede penale è costituito proprio dal tributo evaso.
Ambivalente appare anche la previsione del successivo art. 14, per il quale se
i debiti fiscali risultano estinti per prescrizione o decadenza, il reo può fruire
dell’attenuante offrendosi di pagare una somma da lui indicata a titolo di
equa riparazione dell’offesa recata all’interesse pubblico tutelato dalla norma
violata. Questa norma da un lato sembra risolvere negativamente la
questione, che era stata posta nel previgente sistema, della possibilità per
l’Amministrazione di costituirsi parte civile per far valere l’intero debito
fiscale nel caso in cui la pretesa tributaria non potesse essere più azionata
nelle sedi proprie. Dall’altro, lascia intendere che esiste un’offesa
all’interesse erariale, considerata come tale nel processo penale, valutabile
economicamente, anche se il suo ammontare non coincide con quello
dell’imposta che si assume evasa 24.
In secondo luogo, si deve considerare che il declamato principio del “doppio
binario” mostra limiti sempre più evidenti. Oltre a quelli indicati dalla
sentenza “Dolce & Gabbana”, non possono qui non menzionarsi quelli,
evidentissimi, derivanti dalla nuova disciplina dei “costi da reato” di cui
22
L’eventuale costituzione dell’Agenzia quale parte civile porrebbe poi il problema,
che non può essere qui trattato ma per il quale si rinvia alla trattazione da parte di
SCHIAVOLIN e GLENDI, citt., dell’esistenza di preclusioni probatorie nel processo
tributario idonee ad escludere che il giudicato penale faccia in esso stato ai sensi
dell’art. 654 c.p.p.
23
V. retro nota 10.
24
Probabilmente si potrebbe riproporre in questo caso la questione se il danno possa
essere costituito dal “costo dell’accertamento”, ovvero discendere dalla lesione di
interessi morali.
262
A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE
CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
all’art. 14, comma 4 bis, l. n. 537/1993. Stante il fatto che il legislatore ha
previsto – per tentare di puntellare la legittimità costituzionale di una
disposizione che aveva e conserva evidenti profili di illegittimità – che una
sentenza penale definitiva favorevole al contribuente comporta il rimborso
dell’imposta eventualmente versata a seguito della ripresa a tassazione dei
costi, come si potrà negare, sia pure ferme restando tutte le decisive obiezioni
sopra mosse, la legittimazione dell’Agenzia a costituirsi parte civile?
13
Un accenno finale ad un problema che mi sembra di grande rilievo, e cioè
quello della possibile dissociazione soggettiva tra contribuente ed imputato,
problema che costituisce una sorta di “convitato di pietra” nella questione in
esame.
Ammettendo infatti che l’Agenzia possa costituirsi parte civile, quale danno
può essere fatto valere nei confronti dell’imputato che sia ad esempio
l’amministratore della società che ha posto in essere l’ipotizzata violazione
fiscale? Può essere tale danno costituito dal debito d’imposta della società?
Il tema – a quanto mi consta – è stato affrontato, e risolto affermativamente,
solo nell’ipotesi, invero marginale, in cui l’Amministrazione sia
impossibilitata a far valere la sua pretesa in capo alla società per fatto
(illecito) imputabile allo stesso amministratore, configurandosi in effetti in
questo caso una fattispecie di danno civile 25.
Mi sembra che invece, in termini generali, la risposta debba essere, per gli
stessi motivi ora indicati, negativa. Ed infatti, non sussiste alcuna
obbligazione tributaria tra l’imputato e l’Amministrazione su cui il preteso
danno possa fondarsi, né – a parte appunto l’ipotesi marginale sopra
esaminata – alcun illecito civile riconducibile all’imputato stesso. Non senza
considerare, ancora una volta, che la legge fiscale disciplina in modo
tassativo ed esaustivo le ipotesi in cui può essere azionato, in sede di
riscossione, un debito fiscale altrui (art. 36 d.p.r. n. 602/1973 che prevede la
responsabilità degli amministratori/liquidatori) e che non sembra che essa
possa essere superata tramite l’esercizio dell’azione di responsabilità civile
nel processo penale (come, ancora una volta, non consta che una tale azione
di danno sia mai stata esercitata nella sede civile).
25
RUSSO, op. cit., nota (24).
263
Prof. Filippo Sgubbi
Professore Università di Bologna
Relazione sui profili penali
La relazione sarà inserita nel sito www.uckmar.net
Avv. Paolo Stizza
Dottore di ricerca presso l’Università di Bergamo
L’obbligo del contraddittorio in caso di contestazione di
operazioni abusive
SOMMARIO: 1 Premessa - 2 La giustizia tributaria nell’accertamento e
l’obbligo del contraddittorio come principio generale dell’ordinamento. - 3
L’estensione analogica delle garanzie procedimentali previste dall’art. 37-bis
del d.p.r. n. 600 del 1973 alle ipotesi di contestazioni basate sull’abuso del
diritto. - 4 Le conseguenze derivanti dalla violazione dell’obbligo del
contraddittorio nella fase endoprocedimentale
1 Premessa
Come noto, se nell’ordinamento tributario italiano esiste un principio
generale antiabuso fondato in alcuni casi su una norma, in altri su un
principio generale comunitario e in altri ancora sul principio di capacità
contributiva, detto principio generale, nella sua fase attuativa e applicativa,
dovrebbe passare attraverso un procedimento unico e unificato perché se il
bene protetto (il contrasto all’elusione) è unico, unica deve essere la
procedura per accertarla, con uguale garanzia per tutti i contribuenti.
Tuttavia, de lege lata abbiamo un procedimento speciale che include un
contraddittorio, disciplinato dall’art. 37-bis del d.p.r. n. 600 del 1973 (d’ora
in avanti, art. 37-bis), e un procedimento generale che non ha alcuna
disposizione ad hoc.
Considerando, poi, che l’art. 37-bis è stato considerato dalla Cassazione 1
come un minus specifico, contenuto nel plus dato dal principio generale
emergono profili problematici nella specificazione del procedimento
applicabile. Ci si dovrà, dunque, domandare se esista un obbligo di
contraddittorio insito nell’ordinamento e conseguentemente domandarsi
quale tipologia di contraddittorio sia necessario applicare alle fattispecie
abusive. In particolare, sarà opportuno chiedersi se possano essere estese le
garanzie procedimentali previste dall’art. 37-bis del d.p.r. n. 600 del 1973 a
tutte le fattispecie abusive e conseguentemente se la richiesta obbligatoria di
chiarimenti e l’obbligo di motivazione rafforzata siano applicabili anche alle
fattispecie di rettifica per divieto di abuso, al di fuori delle fattispecie indicate
dall’art. 37-bis.
1
Cfr. Cass., sentenza n. 12042 del 2009. In tal senso vedi E. Marello, Elusione fiscale
ed abuso del diritto: profili procedimentali e processuali, in Giurisprudenza italiana,
2010.
L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI
OPERAZIONI ABUSIVE
Tanto più alla luce del consolidarsi di un orientamento secondo il quale
sarebbe insito nel nostro ordinamento un obbligo di contraddittorio che si può
rinvenire non solo nell’ordinamento comunitario ma anche nei principi
stabiliti dallo Statuto dei diritti del contribuente.
2 La giustizia tributaria nell’accertamento e l’obbligo
contraddittorio come principio generale dell’ordinamento.
del
Come ormai noto, dalla giurisprudenza europea emerge chiaramente che il
principio del contraddittorio assurge a principio generale dell’ordinamento
comunitario2 il quale si deve estende ai tributi armonizzati.
Il riferimento è chiaramente alla sentenza Sopropè3, con la quale la Corte di
Giustizia ha affermato che “il rispetto dei diritti di difesa costituisce un
principio generale del diritto comunitario che trova applicazione
ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un
soggetto un atto ad esso lesivo. In forza di tale principio i destinatari di
decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in
condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli
elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione. A tal
fine essi devono beneficiare di un termine sufficiente”.
In tale pronuncia emergono in modo chiaro i tratti della partecipazione
difensiva4 ovvero la necessità che il contribuente sia messo al corrente delle
contestazioni che l’Amministrazione finanziaria intende muovere nei suoi
confronti per poter manifestare utilmente il proprio punto di vista; la
necessità “che l’Amministrazione esamini, con tutta l’attenzione necessaria,
le osservazioni della persona o dell’impresa coinvolta”, riservandosi il
congruo lasso di tempo e, si potrebbe aggiungere, dimostrando che vi sia
stata considerazione per gli argomenti difensivi. Evidentemente la violazione
di tali obblighi si tradurrebbero nell’illegittimità della pretesa impositiva per
violazione del diritto comunitario, con un vizio rilevabile in ogni stato e
grado del processo.
Certamente questo principio può essere riferito ai soli tributi armonizzati. In
tale ambito, dunque, rientrerebbero non solo la materia doganale ed accise,
ma anche ovviamente l’IVA in tutti i casi in cui l’accertamento non è
preceduto da un processo verbale di constatazione e non risultano applicabili
2
Sulla giurisprudenza comunitaria si permetta il rinvio a P. Stizza, Nuovi profili del
contraddittorio nell’accertamento sintetico, in La concetrazione della riscossione
nell’accertamento, V. Uckmar, C. Glendi (a cura di), Padova, 2011, p. 365 ss.
3
Corte di Giustizia UE, 18 dicembre 2008, causa C-349/07, in GT-Riv. dir. trib.,
2009, p. 203 con commento di A. Marcheselli, Il diritto al contraddittorio nel
procedimento amministrativo tributario è diritto fondamentale del diritto
comunitario. Il precedente di tale decisione si può rinvenire nella sentenza Cipriani,
12 dicembre 2002, causa C-395/00 in materia di accise relativa ad una controversia
fra Distillerie Fratelli Cipriani SpA contro Ministero delle Finanze.
4
Così L. Salvini, La cooperazione del contribuente e il contraddittorio
nell’accertamento, Corr. trib., 2009, p. 3576.
268
L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI
OPERAZIONI ABUSIVE
le disposizioni dell’art. 12 dello Statuto dei diritti del contribuente sulla
facoltà del contribuente di presentare deduzioni prima dell’emissione
dell’atto impositivo. Tale principio generale potrebbe essere certamente
applicato anche alle imposte dirette nel caso in cui l’amministrazione fiscale
di uno Stato membro intenda escludere la possibilità di godere di determinati
vantaggi fiscali che possano incidere nell’esercizio di una delle libertà
fondamentali garantite dal diritto europeo.
Escludendo tali ipotesi, sull’applicabilità dell’obbligo del contraddittorio
anche nell’ambito delle imposte dirette non c’è certamente un sicuro dato
normativo. Anzi. Stante l’inapplicabilità alla materia tributaria dell’art. 13
della l. n. 241 del 1990, la partecipazione del contribuente al procedimento
tributario doveva essere espressamente prevista dal legislatore.
Alcuni ritengono che il referente normativo vada rinvenuto nell’art. 12,
comma 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, il quale non deve essere
applicato solamente nei procedimenti che si concludono con il rilascio del
verbale di chiusura ma anche alle verifiche c.d. a tavolino, in quanto le
esigenze di partecipazione del contribuente non possono mutare col mutare
della metodologia di indagine seguita dall’ufficio 5.
E’, tuttavia, vero che l’influenza che sta avendo il diritto comunitario sul
diritto nazionale potrebbe spingere la Suprema Corte di Cassazione a
rinvenire il fondamento di tale principio, nei tributi non armonizzati nell’art.
97 della Cost. secondo il principio di imparzialità e buon andamento
dell’azione amministrativa. Pur in assenza di una norma scritta che preveda
l’obbligo di contraddittorio nella fase endoprocedimentale, il principio
costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97
Cost. dovrebbe portare alla sua affermazione, come, peraltro, è avvenuto in
tema di abuso del diritto da parte delle Sezioni Unite della Cassazione sulla
base degli artt. 3 e 53 della Cost.6 In tal modo si verrebbe ad assecondare un
5
In tal senso cfr. A. Viotto, I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria nel
quadro dei diritti inviolabili di libertà sanciti dalla costituzione, Milano, 2002, 314.
Contra R. Miceli, La partecipazione del contribuente alla fase istruttoria, in A.
Fantozzi, A. Fedele (a cura di), Statuto dei diritti del contribuente, p. 690, secondo cui
il comma 7 dell’art. 12 ha previsto la garanzia della partecipazione del contribuente
nella fase accertativa solo nel caso in cui vi fossero delle verifiche svolte presso il
contribuente. Diversamente non risulta la predisposizione di processi verbali di
chiusura nell’ambito di indagini svolte presso gli Uffici.
6
Sulla necessità di estendere il principio del contraddittorio anche alle ipotesi non
espressamente previste cfr. G. Ragucci, Il contraddittorio come principio generale
dell’ordinamento comunitario, in Bancadati Fisconline a commento della sentenza CE
causa C-349/07. In precedenza si era espresso per la necessità di una sua introduzione
F. Moscehtti, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino, in Dir. prat.
trib., 1983, p. 1938, secondo cui la funzione di imposizione tributaria non può essere
svolta secondo il principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., se prima del suo
esercizio non vengano sentite le ragioni del soggetto passivo di tale funzione.
Conforme successivamente, A. Di Pietro, Il contribuente nell’accertamento delle
imposte sui redditi: dalla collaborazione al contraddittorio, in V. Uckmar (a cura di),
269
L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI
OPERAZIONI ABUSIVE
moto evolutivo delle forme dell’intervento pubblico nella materia dei tributi
che le adegua agli standards europei7. Un supporto fondamentale potrebbe
venire dalla forza espansiva dei principi stabiliti dalla CEDU ed in
particolare dall’applicabilità dell’art. 6 CEDU anche alla materia tributaria,
per ora esclusa nonostante significative aperture8.
L’obbligo di contradditorio, viepiù, è stato considerato immanente nel
sistema tributario in forza del principio generale dell’azione amministrativa
del giusto procedimento qualora l’Ufficio faccia ricorso a delle presunzioni
semplici9. Nel presupposto che l’interesse fiscale non possa costituire una
deroga al principio di capacità contributiva effettiva, né al diritto di difesa o
ai principi del giusto procedimento, è necessario enfatizzare il ruolo del
contradditorio come espressione di un principio generale dell’ordinamento la
cui violazione o irregolarità comporterà la nullità insanabile del successivo
avviso di accertamento.
In particolare negli accertamenti di tipo presuntivo che operano un
sostanziale inversione dell’onere probatorio il contraddittorio è un elemento
essenziale ed imprescindibile del giusto procedimento in quanto costituisce il
mezzo più efficace per consentire un necessario adeguamento delle
presunzioni alla concreta realtà reddituale oggetto dell’accertamento.
L’accertamento dell’elusione implica, infatti, in ogni settore dell’ordinamento
tributario, l’esercizio di un’ampia e complessa attività valutativa, soprattutto
in relazione alle valide ragioni economiche, la quale viene sempre più
frequentemente effettuata tramite il ricorso a presunzioni semplici (o
semplicissime), che in quanto tali comportano margini di errore nella
determinazione dell’imponibile da sottoporre a tassazione10.
L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano, I settanta anni di Diritto e pratica
tributaria, Padova, 2000, p. 577.
7
A. Di Pietro, La tutela del contribuente nel nuovo acquis europeo del diritto
tributario formale, A. Di Pietro (a cura di), La tutela europea ed internazionale del
contribuente nell’accertamento tributario, Padova, 2009, p. VII e ss.
8
Il riferimento è alla sentenza Ravon della Corte europea dei diritti dell’uomo e alla
precedente sentenza Jussila. Per un’approfondita analisi della portata espansiva di tale
pronunce e più in generale per la tutela del contribuente nell’integrazione giuridica
europea si rinvia per tutti a L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione
giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010.
9
Così Sentenza della Corte di Cassazione n. 2816 del 2008. Successivamente le
Sezioni Unite della Cassazione nella sent. n. 26635 del 18 dicembre 2009 hanno
sancito la nullità dell’avviso di accertamento non preceduto dall’invito al
contraddittorio nell’ambito di un accertamento basato sui parametri e sugli studi di
settore
10
Sull’assolvimento dell’onere della prova da parte dell’Ufficio in ipotesi di abuso del
diritto si rinvia all’attento studio di P. Russo, L’onere probatorio in ipotesi di “abuso
del diritto” alla luce dei principi elaborati in sede giurisprudenziale, in Il fisco, 2012,
p. 1301.
270
L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI
OPERAZIONI ABUSIVE
Come giustamente è stato affermato, anche le disposizioni antielusive
incidono sulla consistenza della prestazione patrimoniale 11. Per tale ragione,
anche a garanzia dell’efficienza e dell’imparzialità dell’agire amministrativo,
il legislatore ha ritenuto opportuno prevedere a carico dell’autorità
procedente, come giusto contrappeso alla sua attività valutativa, l’obbligo di
interpellare il contribuente, ponendolo in condizione di produrre gli elementi
e i dati utili per una corretta ricostruzione della fattispecie.
Se, dunque, siamo in presenza di un principio generale dell’ordinamento
applicabile anche ai tributi non armonizzati è evidente che ci dovrà chiedere
quale tipo di garanzie procedimentali possano essere riservate alle
contestazioni fondate sull’abuso del diritto, di derivazione costituzionale o
comunitaria, in assenza di una norma espressa.
3 L’estensione analogica delle garanzie procedimentali previste
dall’art. 37-bis del d.p.r. n. 600 del 1973 alle ipotesi di contestazioni
basate sull’abuso del diritto.
La formula dell’art. 37-bis del d.p.r. n. 600 del 1973 stabilisce che non sono
opponibili al Fisco “gli atti, fatti e i contratti anche fra loro collegati (...)
privi di valide ragioni economiche diretti ad aggirare obblighi o divieti
previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o
rimborsi, altrimenti indebiti”.
Secondo la definizione della Suprema Corte di Cassazione, invece, il divieto
di abuso del diritto è un “generale principio antielusivo” riassumibile nella
seguente massima “il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali
dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica
disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in
difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino
l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”12.
Appare evidente che vi è una quasi perfetta coincidenza della norma di cui
all’art. 37-bis e del principio antiabuso di matrice giurisprudenziale: dove la
norma sull’elusione fa riferimento a “riduzioni di imposte o rimborsi,
altrimenti indebiti”, il principio dell’abuso impiega l’espressione “indebiti
vantaggi fiscali”; mentre il primo richiama “atti fra loro collegati (...) diretti
ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario”, il
secondo si riferisce allo “utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna
specifica disposizione, di strumenti giuridici”; infine, l’elusione riguarda gli
atti “privi di valide ragioni economiche”, l’abuso di diritto ha ad oggetto
operazioni realizzate “in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che
giustifichino l’operazione”.
E’ evidente che le due nozioni tendono a coincidere quanto all’efficacia
prescittiva, ovvero la non opponibilità all’Amministrazione finanziaria di
talune condotte e all’individuzione dei caratteri generali della condotte non
11
Cfr. M. Beghin, «L'abuso del diritto tra rilevanza del fatto economico e poteri del
magistrato », in Corr. Trib. n. 40/2009, pag. 3288
12
Così SS.UU., 23 dicembre 2008, n. 30055.
271
L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI
OPERAZIONI ABUSIVE
opponibili13. Esse si differenziano per ciò che attiene all’ambito di
applicazione: il principio generale riguarda qualunque operazione, il 37-bis
ha ad oggetto solo talune operazioni fiscali elencate nel terzo comma.
Ebbene, come affermato dalla stessa Corte di Cassazione 14, l’art. 37-bis, si
pone come species del genus più ampio dell’abuso del diritto, divenendo una
disposizione meramente ricognitiva di un principio generale, già insito
nell’ordinamento. Conseguentemente, se una medesima fattispecie ricade
nell’ambito applicativo di entrambe le norme, il concorso fra norme va risolto
in base al principio di specialità15, ossia deve trovare applicazione la norma la
cui fattispecie presenta maggiori elementi caratterizzanti e risulti, pertanto,
“speciale” rispetto all’altra.
Tale specificazione ha una ricaduta applicativa molto significativa in punto di
garanzia procedimentali concesse dall’ordinamento.
Abbiamo, infatti, un procedimento speciale che include un contraddittorio,
disciplinato ex lege, e un procedimento generale che non ha alcuna
disposizione ad hoc.
Come già ricordato, se nell’ordinamento tributario italiano esiste un principio
generale antiabuso fondato in alcuni casi su una norma, in altri su un
principio generale comunitario e in altri ancora sul principio di capacità
contributiva, detto principio generale, nella sua fase attuativa e applicativa,
dovrebbe passare attraverso un procedimento unico e unificato perché se il
bene protetto (il contrasto all’elusione) è unico, unica deve essere la
procedura per accertarla, con uguale garanzia per tutti i contribuenti.
Orbene per taluni, l’unico procedimento previsto è quello disciplinato
dall’art. 37-bis e quindi gli atti di accertamento al di fuori di detta procedura
sono illegittimi. Se così non si concludesse, palese sarebbe la violazione della
Costituzione perché un diverso trattamento di identiche fattispecie
comporterebbe la violazione dell’art. 3 (principio di uguaglianza), dell’art. 24
(diretto alla difesa) e dell’art. 97 (imparzialità della pubblica
amministrazione).
In dottrina, infatti, è stato riconosciuto che l’orientamento giurisprudenziale
costituisce, in sostanza, un’intepretazione abrogatrice del comma 3, che
limita l’applicazione del principio antiabuso alle operazioni ivi
tassativamente indicate16. Nei commi successivi non vi sono limitazioni.
Devono perciò essere sempre applicati nel settore delle imposte sul reddito,
anche quando l’azione della finanza non riguarda una delle operazioni
13
In tal senso cfr. G. Fransoni, Abuso di diritto, elusione e simulazione: rapporti e
distinzioni, in Corr. trib., 2011, p. 13.
14
Cass., sentenza n. 12042 del 2009.
15
Per questa definizione si rinvia a A. Pagliaro, “Concorso di norme” (dir. pen.), in
Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 545. Secondo l’Autore, alla base del principio di
specialità vi è l’esigenza di attribuire la possibilità di applicazione alla norma speciale,
giacché se anche nelle ipotesi in cui questa è applicabile si dovesse dare la precedenza
alla disposizione generale, la norma speciale non si applicherebbe mai.
16
Così per tutti cfr. F. Tesauro, La motivazione degli atti d’accertamento antielusivi
ed i suoi riflessi processuali, in Corr. trib., 2009, p. 3634.
272
L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI
OPERAZIONI ABUSIVE
indicate nell’art. 37-bis, ma assume come sua “ragione giuridica” la clausola
generale antielusiva.
Logica vorrebbe che se il contrasto dell'elusione è generalmente applicabile
proprio
perché
di
natura
costituzionale,
identica
fosse
la
procedimentalizzazione per tutti i tributi, diretti e indiretti, comunitari e
nazionali, a pena di avere un «abuso » di prima serie e un «abuso » di serie
minore, uno disciplinato e tutelato, a forma obbligata, e uno libero. Con la
conseguenza che, nel momento in cui in ultima istanza si contestasse a un
contribuente una scelta elusiva, costui potrebbe invocare l'insussistenza della
pretesa perché azionata al di fuori e a prescindere dalle forme rigorose
previste dall'art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e quindi con
violazione del principio di uguaglianza. Se il principio invocato è unico e
unificato, unica deve essere la procedura di contestazione 17.
Per tale ragione il procedimento disciplinato dall'art. 37-bis non può che
ritenersi applicabile anche alle operazioni riconducibili al fenomeno elusivo
(abusivo) di origine giurisprudenziale. Configurandosi una lacuna tecnica 18 in
materia di accertamento delle attività abusive, il procedimento speciale
previsto dall'art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973 può dunque trovare applicazione
analogica, con conseguente estensione dei diritti e obblighi, ivi previsti a
tutela del contribuente, all'accertamento di operazioni abusive 19. Come noto
sia le operazioni elusive ex art. 37-bis sia quelle abusive le quali trovano
fondamento nella Costituzione hanno la stessa ratio legis quantomeno sotto il
profilo degli effetti. In entrambi i casi, infatti, vengono disconociuti gli effetti
fiscali di taluni atti giuridici, rendondoli inopponibili all’Amministrazione
finanziaria.
Per altri, diversamente l’art. 37-bis rappresenta una norma ad applicazione
tassativa: il comma 3 limita l’ambito applicativo della norma. Estendere le
garanzie procedimentali ex art. 37-bis alle fattispecie abusive si risolverebbe
in un’interpretazione abrogante dello stesso, nel quale il legislatore ha voluto
legittimare uno specifico potere, circondato nel suo esercizio da apposite
cautele. L’interprete non può, dunque, estendere il procedimento di cui
all’art. 37-bis alle fattispecie abusive ma al più potrà rilevare l’illegittimità
costituzionale dello stesso articolo20.
Ritenere necessario un contraddittorio generico nel corso del procedimento di
rettifica è ben diverso dal ritenere applicabile proprio il procedimento di cui
all’art. 37-bis.
17
G. Marongiu, Abuso del diritto, poteri di accertamento e principio di legalità, in
Corr. trib., 2009, p. 3631.
18
Cfr. Bobbio, Lacune del diritto, in Nov. Dig. It., IX, Torino, 1963, 423, per la
distinzione tra lacuna ideologica e lacuna tecnica.
19
In tal senso cfr. M. Pierro, Abuso del diritto: profili procedimentali, in Giust. trib.,
2009, p. 410, la quale ritiene analogicamente estendibile il procedimento di cui all’art.
37-bis anche nell’accertamento di operazioni abusive configurabili nelle imposte
indirette. Contra G. Zizzo, Clausola antielusione e capacità contributiva, Rass. trib.,
2009, p. 486.
20
In tal senso cfr. E. Marello, op. cit.
273
L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI
OPERAZIONI ABUSIVE
Un altro modulo applicativo del contraddittorio si rinviene nell’art. 12,
comma 7 della legge n. 212/2000 grazie al quale il contribuente può, entro
sessanta giorni dalla notifica del verbale, presentare osservazioni e l’avviso di
accertamento non può essere emanato prima del decorso di tale termine e
della (facoltativa) presentazione di osservazioni. Anche questa può essere
considerata un’attuazione del contraddittorio se, poi, alla facoltà di proporre
osservazioni viene aggiunta l’invalidità della motivazione che non dia conto
dei motivi per i quali le osservazioni presentate dal contribuente sono da
rigettare. questa si aggiunge
Una reale lacuna residuerebbe nel caso in cui la rettifica per ragione di abuso
emergesse per la prima volta nell’atto impositivo sia perché il funzionario che
forma l’avviso si discosta dal verbale, sia perché manca, per i più svariati
motivi, il processo verbale di chiusura delle operazioni, o il contribuente non
è stato chiamato a formulare le proprie osservazioni in relazione al negozio
che si presume abusivo.
Tuttavia, a ben vedere, il contraddittorio ex art. 37-bis e quello ex art. 12,
comma 7, dello Statuto non rappresentano forme partecipative
interscambiabili per cui, in mancanza di uno, è possibile avvalersi dell’altro.
Anche se fosse possibile difendersi da una contestazione di abuso del diritto
già in sede di osservazioni al processo verbale ex art. 12, comma 7, dello
Statuto, risulta comunque imprescindibile una fase di interlocuzione ex art.
37-bis, quarto comma. A nulla dovrebbe rilevare che l’abusività di una
condotta sia emersa già nel momento della chiusura della verifica.
Inoltre con l’art. 12, comma 7, è il soggetto interessato alla verifica che,
spontaneamente, può attivare la fase di interlocuzione endoprocedimentale.
Diversamente, l’art. 37-bis, quarto comma, inizia proprio con un atto di
impulso dell’Amministrazione procedente, obbligatorio e motivato a pena di
nullità.
A ciò si aggiunga che maggiore tutela è fornita in termini di invalidità
dell’atto non preceduto da richiesta di chiarimenti 21.
4 Le conseguenze derivanti dalla violazione
contraddittorio nella fase endoprocedimentale
dell’obbligo
del
La previsione dell’obbligo del contraddittorio pone il problema di verificare
le conseguenze, sul piano dell’invalidità del successivo avviso di
accertamento, della mancata attivazione dello stesso da parte dell’Ufficio 22.
21
E’ noto che, infatti, che vi è un contrasto giurisprudenziale in tema invalidità
dell’avviso di accertamento notificato prima dello scadere del termine di 60 giorni
previsto dall’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 200021. La questione di recente è
stata rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
22
Sulle conseguenze della violazione del contraddittorio per tutti si rinvia al recente
contributo di A. Fantozzi, Violazioni del contraddittorio e invalidità degli atti
tributari, in Riv. dir. trib., 2011, I, p. 137 ss. L’influenza del diritto europeo nella
disciplina generale sull’azioni amministrativa è analizzata da L. Del Federico, La
274
L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI
OPERAZIONI ABUSIVE
L’estensione analogica delle garanzie procedimentali contenute nell’art. 37bis alle fattispecie abusive porterebbe con se maggiori garanzie in termini di
invalidità degli avvisi di accertamento non rispettosi delle garanzie ivi
previste. Ai sensi dell’art. 37-bis, commi 4, 5 e 6, “4. L'avviso di
accertamento è emanato, a pena di nullità, previa richiesta al contribuente
anche per lettera raccomandata, di chiarimenti da inviare per iscritto entro
60 giorni dalla data di ricezione della richiesta nella quale devono essere
indicati i motivi per cui si reputano applicabili i commi 1 e 2. 5. Fermo
restando quanto disposto dall'articolo 42, l'avviso d'accertamento deve
essere specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alle
giustificazioni fornite dal contribuente e le imposte o le maggiori imposte
devono essere calcolate tenendo conto di quanto previsto al comma 2. 6. Le
imposte o le maggiori imposte accertate in applicazione delle disposizioni di
cui al comma 2 sono iscritte a ruolo, secondo i criteri di cui all'art. 68 del
D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 , concernente il pagamento dei tributi e
delle sanzioni pecuniarie in pendenza di giudizio, unitamente ai relativi
interessi, dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale.”
Nell’art. 37-bis del d.p.r. n. 600 del 1973 è contenuto l’obbligo di invitare il
contribuente a esporre le proprie deduzioni “a pena di nullità” e sempre a
pena di nullità, l’avviso di accertamento deve motivare in relazione alle
giustificazioni fornite dal contribuente, la c.d. motivazione rafforzata.
L’espressa previsione della sanzione della nullità dell’avviso benché per parte
della dottrina non elimini completamente il dubbio circa la possibilità di
individuare una nullità in senso proprio, è comunque sufficiente ad escludere
che il vizio contemplato possa essere considerato di carattere meramente
formale e come tale inidoneo a produrre l’annullamento ex art. 21 octies, 2
comma della l. n. 241 del 199023.
Da tutto ciò ne consegue che nel caso di attivazione del contraddittorio e di
risposta del contribuente, l’ufficio dovrà tenere in debita considerazione le
osservazioni del contribuente al fine di non rendere vano, nei fatti,
l’attivazione del contraddittorio stesso. In altre parole il contraddittorio
anticipato non deve essere trasformato in un mero passaggio formale ma
l’Ufficio dovrà dare conto nella motivazione delle ragioni che eventualmente
rilevanza della legge generale sull’azione amministrativa in materia tributaria e
l’invalidità degli atti impositivi, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 729.
23
In tal senso cfr. M. Basilavecchia, Per l’effettività del contraddittorio, in Corr. trib.,
2009, p. 2369. L’art. 21 octies, 2 comma della l. n. 15 del 2005 modificativa della l. n.
241 del 1990 prevede che “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione
di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata
del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è
comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento
qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.” Sulle diverse
posizioni dottrinali circa l’applicabilità della legge n. 241 del 1990 in materia
tributaria si rinvia all’articolo A. Fantozzi, op. cit., p. 150 e ss.
275
L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI
OPERAZIONI ABUSIVE
la porteranno a disattendere la posizione del contribuente (la c.d. motivazione
rafforzata). Anche con riferimento a questo si può richiamare le sentenze
della Cassazione a Sezioni Unite, n. 26635, 26636, 26637, 26638 del 2009
che hanno specificato che “la motivazione dell’atto di accertamento non può
esaurirsi nel mero rilievo del predetto scostamento dai parametri, ma deve
essere integrata con le ragioni per le quali sono state disattese le
contestazioni sollevate dal contribuente in sede di contraddittorio”.
Anche la Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 244 del 200924 ha
sottolineato la centralità della motivazione dell’atto di accertamento che nel
caso di specie doveva contenere le ragioni di particolare urgenza contenute
nell’art. 12 dello Statuto che possono giustificare la compressione dei
sessanta giorni entro i quali il contribuente può presentare le deduzioni al
processo verbale di constatazione prima della notifica dell’avviso di
accertamento. La Corte Costituzionale ha ribadito che i vizi della
motivazione danno luogo ad insanabile nullità dell’atto e non a mera
irregolarità. L’omessa valorizzazione degli elementi offerti dal contribuente
comporterebbe un illegittimo sacrificio dei valori del diritto alla difesa in
sede procedimentale e del buon andamento ed imparzialità della Pubblica
Amministrazione.
Pertanto, nel caso in cui l’Ufficio omettesse di considerare le osservazioni del
contribuente in sede di contraddittorio, l’atto di accertamento sarebbe
illegittimo per difetto di motivazione come riconosciuto dalla Corte di
Cassazione in un caso nel quale l’Ufficio non aveva adeguatamente replicato
alle deduzioni del contribuente in sede di applicazione del redditometro 25.
Alla luce di tali principi non si condivide l’orientamento contenuto in una
recente sentenza della Cassazione26, secondo cui non sono state violate le
garanzie di cui all’art. 37-bis, comma 4, nel caso in cui la verifica si chiuda
con un processo verbale di constatazione. Secondo la Suprema Corte, benché
non si stato attivato il procedimento di cui all’art. 37-bis, “il contraddittorio
con la contribuente – a conoscenza della quale erano stati portati, prima
dell’emissione dell’avviso di accertamento, tutti i rilievi operati dai
verificatori – è stato regolarmente instaurato dall’Amministrazione, prima
dell’emanazione dell’atto impositivo…”
E’ evidente, dunque, che l’obbligo di contraddittorio ex art. 37-bis darebbe
maggiori garanzie in termini di tutele e di maggior aderenza della pretesa
tributaria all’effettiva capacità contributiva del contribuente.
L’estensione di tali garanzie procedimentali consentirebbe all’Ufficio di
iscrivere a ruolo l’imposta solo dopo la sentenza di primo grado.
Concludendo è altresì evidente che per porre rimedio ad una situazione di
estrema incertezza v'è una sola via, quella del consenso istituzionale, del
confronto ed eventualmente della legge di cui già si discute nel progetto di
legge delega secondo il quale dovrà essere introdotta una norma antielusive
24
In Corr. trib., n. 36 del 2009 con commento di A. Marcheselli.
Cass., 22 febbraio 2008, n. 4624. In tal senso in dottrina cfr. M. Marcheselli, op. cit.
26
Cass., n. 7393 del 11 maggio 2012 su banca dati Fisconline.
25
276
L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI
OPERAZIONI ABUSIVE
generale che dovrà prevedere, specifiche regole procedimentali, che
garantiscano un efficace contraddittorio con l’amministrazione fiscale e
salvaguardino il diritto di difesa in ogni fase del procedimento di
accertamento ed in ogni stato e grado del giudizio tributario.
277
Prof. Francesco Tesauro
Professore Università Milano - Bicocca
L’abuso nel diritto tributario italiano
(testo provvisorio)
SOMMARIO: 1 Premessa. - 2 La riqualificazione dei negozi nell’imposta di
registro. - 3 Le norme con ratio antielusiva e l'art. 37-bis del D.P.R. 29
settembre 1973, n. 600. - 4 L’atto impositivo antielusivo: procedimento e
motivazione. - 4.1 Il procedimento e la motivazione dell’atto impositivo
antielusivo. - 5 Il divieto di abuso come clausola generale non scritta, nel
diritto comune e nel diritto fiscale. - 5.1 Applicazione delle norme
procedimentali contenute nell’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n.
600 ad ogni ipotesi di accertamento antielusivo. - 6 Il rilievo d’ufficio, nei
processi di rimborso, delle eccezioni relative ai vizi dei negozi posti a base
della domanda. 6.1 Il rilievo d’ufficio, nei processi d’impugnazione, di
eccezioni non consentite neppure alla parte resistente. - 7 La cassazione delle
sentenze di merito per difetto di esame ex officio della (possibile) elusività
della condotta del contribuente. - 8 Doppia concorrente qualificazione (come
evasione ed elusione) della medesima condotta.
1 Premessa.
Il mio primo contatto con l’elusione fiscale, di cui ho ricordo, è una nota a
sentenza di Euclide Antonini, pubblicata nella Giurisprudenza italiana del
19591. Non a caso, Antonini, per definire l’elusione, e differenziarla
dall’evasione, citava due note opere istituzionali di autori non italiani
(Blumenstein e Hensel).
L’elusione è un concetto estraneo alle opere istituzionali italiane fino agli
anni ’80; inevitabile ricordare le Istituzioni di diritto tributario di A.D.
Giannini e il Corso di Micheli.
Nella prima edizione delle mie Istituzioni di diritto tributario, parte generale,
che risalgono al 1987, di elusione si parla in tema di interpretazione, e si cita
(non a caso) un civilista (la monografia di Morello sulla frode alla legge) 2.
L’interesse della dottrina per l’elusione sembra accentuarsi negli anni ’80:
compaiono saggi3, voci di enciclopedia4, monografie5.
1
Cfr. E. ANTONINI, Gli atti simulati e l’imposta di registro e sulle successioni, in
Giur. it., 1959, IV, 99, ripubblicata con il titolo “Evasione ed elusione di imposta”
(gli atti simulati e le imposte di registro e sulle successioni)” nella raccolta E.
ANTONINI, Studi di diritto tributario, Milano, 1959, 3.
2
U. MORELLO, Frode alla legge, Milano, 1969.
3
A. LOVISOLO, Evasione ed elusione, in Dir. prat. trib., 1985, 1198; P. P ACITTO,
Attività negoziale, evasione ed elusione tributaria: spunti problematici, in Riv. dir.
fin., 1987, I, 727; F. GALLO, Brevi spunti in tema di evasione fiscale e frode alla
legge, in Rass. trib., 1989, I, 11.
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
2 La riqualificazione dei negozi nell’imposta di registro.
Di elusione si parlava – come testimonia Antonini - soprattutto in tema di
imposta di registro, ove l’elusione era contrastata mediante riqualificazione
del negozio registrato6.
Il principio che i negozi debbano essere valutati singolarmente 7, senza tener
conto di elementi extratestuali 8, è stato da tempo abbandonato. La
giurisprudenza ritiene che possano essere presi in considerazioni più negozi
collegati.
Se non erro, la prima sentenza della Cassazione che ha dato rilievo al
collegamento negoziale e al risultato finale di una data operazione è del 1979.
Il caso è quello della donazione di buoni del tesoro da un genitore al figlio,
seguita dalla cessione onerosa di un immobile, sempre dal padre al figlio, il
cui prezzo era pagato mediante retrocessione dei buoni del tesoro (dal figlio
al padre). In tal modo, il trasferimento dell’immobile era assoggettato
all’imposta di registro, e non alla (più onerosa) imposta sulle donazioni (e
successioni). La Corte d’appello ambrosiana, nel 1976, aveva tenuto fermo il
concetto tradizionale, per il quale l’imposta deve essere applicata agli effetti
giuridici dei singoli atti, con la conclusione che la donazione dei buoni del
tesoro non era soggetta ad imposta (perché avente per oggetto dei buoni del
tesoro), e la cessione del terreno era qualifica e tassata come vendita, o
permuta, non come donazione9. La Cassazione ribaltò il verdetto della Corte
milanese. La sentenza fu annotata da Jarach, che utilizzò la metafora dei
"contratti a gradini", per indicare una pluralità di contratti, tutti finalizzati ad
un unico effetto finale, a cui è stato dato rilievo ai fini della tassazione 10.
Ormai, la rilevanza giuridico-fiscale del risultato finale di più contratti è
diritto vivente. La giurisprudenza ha considerato elusivi i conferimenti,
seguiti da cessione delle quote del conferente alla stessa società conferitaria 11.
4
S. CIPOLLINA, Elusione fiscale, in Digesto commerciale, Torino, 1990.
P. TABELLINI, L’elusione fiscale, Milano, 1988; S. CIPOLLINA, La legge civile e la
legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale, Padova, 1992.
Cfr., ora, P. PIANTAVIGNA, Abuso del diritto fiscale nell’ordinamento europeo,
Torino, 2011.
Per il diritto comparato si veda AA.VV., L’elusione fiscale nell’esperienza europea, a
cura di A. Di Pietro, Milano, 1999.
6
La riqualificazione è prevista dall’art. 20 del Testo unico del registro (“L'imposta è
applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla
registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”).
7
Cass., 12 maggio 2000, n. 6082, in Fisco, 2000, 11643; Id., 6 settembre 1996, n.
8142; Id., 13 novembre 1996, n. 9938.
8
Cfr. Cass. 9 gennaio 1987, n. 75; Id., 17 dicembre 1988, n. 6902.
9
Appello Milano, 18 giugno 1976, in Giur. it., 1978, I, 2, 99, con nota di N. DOLFIN,
Negozio indiretto e imposta di registro.
10
Cfr. Cass., 9 maggio 1979, n. 2658, in Riv. dir. fin., 1982, II, 79, con nota di D.
JARACH, I contratti a gradini e l'imposta di registro.
11
Ci si riferisce a Cass., 23 novembre 2001, n. 14900, in Foro it., 2002, I, 3414 e 25
febbraio 2002, n. 2713, ibidem. Nei due casi l’effetto giuridico finale è unitario, nel
5
280
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
I due atti sono stati riqualificati come cessione d’azienda, dal conferente alla
conferitaria, allorquando la conferitaria acquisisce sia l’azienda, sia le
partecipazioni. Se le componenti di una azienda vengono cedute ad uno
stesso soggetto con contratti distinti, applicando l’imposta sul valore
aggiunto, l’amministrazione finanziaria può pretendere l’imposta di registro,
riqualificando i due contratti come mezzi con cui è stata realizzata una
cessione di azienda12 .
I poteri di indagine e controllo, previsti per le imposte sui redditi negli artt.
da 31 a 45 del D.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, si applicano anche
all’imposta di registro, oltre che all’imposta ipotecaria e catastale 13. L’art.
37-bis del D.p.r. n. 600 si applica all’imposta di registro? L’art. 37-bis
prevede la tassazione di un fatto che doveva essere realizzato, e non è stato
realizzato. Ma l’imposta di registro presuppone l’esistenza di un atto scritto,
di cui viene eseguita la registrazione. Se è omessa la richiesta, la
registrazione può avvenire d’ufficio, ai sensi dell’art. 15 TU registro, solo
acquisendo lo scritto 14. Non è ammessa la tassazione di un atto che i
contribuenti avrebbero dovuto stipulare e non hanno stipulato. Ecco perché
l’art. 37-bis del D.p.r. n. 600 non può applicarsi all’imposta di registro.
3 Le norme con ratio antielusiva e l'art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre
1973, n. 600.
Tutti i sistemi fiscali sono disseminati di norme con ratio antielusiva. In
Italia, lo scopo antielusivo non sta fuori della norma, ma è giuridicamente
rilevante. Le norme tributarie che hanno lo “scopo di contrastare
comportamenti elusivi” sono una categoria tipizzata dal legislatore, essendo
prevista una “procedura di clearance” che permette all’Amministrazione di
autorizzarne la disapplicazione, su richiesta del contribuente, nei casi concreti
in cui non ricorrano profili elusivi 15.
senso che in uno stesso soggetto si concentra sia la proprietà del bene conferito, sia la
partecipazione totalitaria; e ciò li differenzia dal conferimento, che sia seguito dalla
cessione delle partecipazioni ad un soggetto diverso dalla conferitaria.
12
Cass., 12 maggio 2008, n. 11769.
13
Si veda l’art. 53-bis del D.p.r. 26 aprile 1986, n. 131, che è stato inserito nel Testo
unico del registro dall’art. 35, comma 24, del D.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv. con L. 4
agosto 2006, n. 248.
14
Cfr. Cass., 8 agosto 1990, n. 8062, in Fisco, 1990, 6353; Id., 15 gennaio 2001, n.
523, in Giust. civ., 2001, I, 1571.
15
L’art. 37-bis, comma 8, del D.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, stabilisce che
possono essere disapplicate “le norme tributarie che, allo scopo di contrastare
comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d'imposta o altre
posizioni soggettive altrimenti ammesse dall'ordinamento tributario”, se non possono
verificarsi effetti elusivi.
Norma singolare. Il legislatore pone norme antielusive, ma ne consente la
disapplicazione.
Altri due casi di interpello disapplicativo sono nell’art. 110, comma 11, del T.u.i.r.,
che regola la deducibilità dei componenti negativi derivanti da operazioni intercorse
con imprese domiciliate in Paesi con regime fiscale privilegiato; e negli artt. 167 e
281
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
Altra cosa sono le norme espressamente antielusive, con cui il legislatore
attribuisce all'Amministrazione finanziaria il potere di qualificare come
elusiva una determinata operazione e di imporre il pagamento del tributo
eluso. Nell’ordinamento giuridico italiano non vi è, in forma esplicita, una
clausola antielusiva generale, come, dal 1919, nel diritto tedesco 16.
La prima clausola antielusiva ha portata limitata:
«E` consentito
all’amministrazione finanziaria disconoscere i vantaggi tributari conseguiti
in operazioni di concentrazione, trasformazione, scorporo, cessione
d’azienda, riduzione di capitale, liquidazione, valutazione di partecipazioni,
cessioni di crediti e cessione o valutazione di valori mobiliari poste in essere
senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo di ottenere
fraudolentemente un risparmio d’imposta»17. (art. 10, L. 29 dicembre 1990,
n. 408).
Ha portata limitata anche l'art. 37-bis del D.p.r. 29 settembre 1973, n. 600,
che “innesta il modello della clausola generale antielusiva sul metodo
analitico tipico della scrittura normativa fiscale”18.
Il primo comma dell’art. 37-bis è definitorio.
Vi è elusione, secondo tale norma, quando sia conseguito un vantaggio
fiscale (riduzione d’imposta o rimborso), "altrimenti indebito", conseguito
cioè per effetto dell’aggiramento di un obbligo o divieto fiscale, e
l’operazione sia priva di “valide ragioni economiche”. La sussistenza di un
vantaggio fiscale non è tanto un requisito, quanto l’essenza stessa
dell’elusione. Un vantaggio è “indebito” qualora l'operazione risulti
"diretta ad aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario".
Del resto, come è stato notato, “il modello che emerge dall’analisi della
giurisprudenza comunitaria presenta un’articolazione concettuale molto
simile”19.
La giurisprudenza comunitaria ha escluso che costituisca un abuso del
“diritto di stabilimento” il creare una società nello Stato membro le cui
168 del T.u.i.r., che prevedono il regime di trasparenza per i soggetti residenti che
possiedono partecipazioni di controllo o di collegamento in Paesi con regime fiscale
privilegiato.
Cfr. S. LA ROSA, Nozione e limiti delle norme antielusive analitiche, in Corr. trib.,
2006, 3092.
16
La Reichsabgabenordnung conteneva due clausole antielusive: una riguardava
l'interpretazione economica della legge tributaria (a fini antielusivi), l'altra era una
clausola generale espressamente antielusiva (cfr. A. HENSEL, Diritto tributario, trad.
it., Milano, 1956, p. 142).
Nel 1934 fu emanata una legge di riforma tributaria (Steueranpassungsgesetz) che
riaffermava il principio dell'interpretazione della legge tributaria secondo il suo
contenuto economico, aggiungendo che essa dovesse essere interpretata anche
secondo la "concezione popolare" (oltre che secondo la visione nazista del mondo).
Nel 1977 è stata riformulata l’Abgabenordnung, ma non è stata più riprodotta la
norma sull'interpretazione economica delle leggi tributarie.
17
L. 29 dicembre 1990, n. 408, art. 10.
18
S. CIPOLLINA, Elusione fiscale ed abuso del diritto: profili interni e comunitari, in
Giur. It., 2010, 1224.
19
S. CIPOLLINA, Elusione fiscale ed abuso del diritto, cit.
282
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
norme di diritto societario appaiono meno severe 20, o per fruire di una
legislazione fiscale più vantaggiosa 21. Data la diversità dei livelli di
imposizione negli Stati membri, la ricerca del risparmio fiscale, mediante
l’insediamento di strutture societarie in Stati che adottano un regime
tributario favorevole, non costituisce di per sé un comportamento
riprovevole. Sono invece elusive le costruzioni societarie puramente
artificiose, prive di reale organizzazione e di concreta attività, costituite
essenzialmente per spostare materia imponibile verso paesi a bassa fiscalità
22
.
Per accertare il vantaggio indebito, se siamo di fronte ad uno schema c.d.
circolare, l’assenza di risultati economici rende di per sé elusiva l’operazione.
Altrimenti occorre confrontare due comportamenti: quello, fiscalmente meno
oneroso, che è stato posto in essere, e quello, fiscalmente più oneroso, che è
stato evitato. Va da sé che il modello deve essere concretamente praticabile, a
disposizione del contribuente, non una ipotesi dipendente dalla volontà di
terzi. Non vi è aggiramento se i due schemi sono fiscalmente equivalenti, pur
se è stato adottato quello fiscalmente meno oneroso 23.
Vi è aggiramento solo se uno dei due modelli si pone come modellostandard, come operazione economica fisiologica, che il contribuente
avrebbe dovuto seguire, in linea con la ratio, oltre che con la lettera, delle
norme impositive. E se il diverso modello che è stato seguito è invece
anomalo ed ha comportato l’aggiramento di un precetto fiscale.
Meno chiaro è il concetto di aggiramento di un divieto, perché il diritto
tributario non contiene divieti in senso proprio. Qui il termine divieto è da
riferire alle norme fiscali che escludono un effetto vantaggioso (come le
norme che escludono l’applicazione di misure agevolative, o limitano la
deducibilità di costi ecc.).
Non è richiesto che vi sia abuso delle forme giuridiche civilistiche (come
esige la norma tedesca): può dunque esservi elusione fiscale anche quando
l’operazione è impeccabile secondo le norme del diritto civile. L’abuso degli
strumenti civilistici può essere sintomo di elusione fiscale, ma non è, di per
sé, elemento costitutivo dell’elusione fiscale.
L’elusione è esclusa da “valide ragioni economiche”24 . Questo requisito va
inteso, sulla scorta della giurisprudenza comunitaria, come necessità che
20
Corte di giustizia, 9 marzo 1999, causa n. 212/97, punto 27, Centros, in Giur. it.,
2000, 767.
21
Corte di giustizia, 30 settembre 2003, causa C-167/01, Inspire Art, punto 96.
22
Corte di giustizia, 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes.
23
Quando un soggetto passivo ha la scelta tra due operazioni, non è obbligato a
scegliere quella che implica un maggiore carico fiscale. Al contrario, ha il diritto di
scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua
contribuzione fiscale (Corte di giustizia, 21 febbraio 2008, causa C-425/06, Part
Service, punto 47).
24
Le ragioni economiche sono da intendere in senso lato, come comprensive di
qualsiasi ragione extrafiscale. Inoltre, le ragioni che debbono giustificare
un’operazione non sono, né possono essere, predeterminate a priori, non sono un
numero chiuso. Per accertare se un’operazione è elusiva, “le autorità nazionali
283
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
l’operazione economica sia motivata, in modo “essenziale”, da ragioni
extrafiscali. Si richiede, in altri termini, che lo scopo economico
dell’operazione sia tale, per cui l’operazione sarebbe stata compiuta anche
senza vantaggi fiscali. Oltre che negli schemi elusivi circolari (dai quali non
deriva alcun risultato economico apprezzabile) 25, vi è elusione anche
quando l’operazione non è priva di ragioni economiche, ma abbia come fine
“essenziale” quello fiscale (fine senza il quale l’operazione non sarebbe stata
posta in essere) 26.
4 L’atto impositivo antielusivo: procedimento e motivazione.
Il primo comma dell’art. 37-bis non si limita a definire l’elusione, ma ne
formalizza gli effetti facendo una Zusammenfassung della norma francese e
belga e di quella tedesca. Un primo effetto della condotta elusiva è definito in
termini di “inopponibilità” all’Amministrazione finanziaria degli atti, fatti e
negozi elusivi. Sotto questo profilo, l’art. 37-bis è simile all’art. L-64 del
“Livre des procédures fiscales”, e all’art. 344 del “Code des impôts sur les
revenus”
belga,
che
sanzionano
come
non
“opposables”
all’Ammininistrazione finanziaria gli atti abusivi 27.
competenti non possono limitarsi ad applicare criteri generali predeterminati, ma
devono procedere, caso per caso, ad un esame globale dell'operazione” (Corte di
giustizia, 17 luglio 1997, causa C-28/95, Leur-Bloem, in Rass. trib., 1997, 1265).
25
Un esempio significativo di operazione elusiva, priva in assoluto di motivazione
economica, è dato dalle “esportazioni a U", nelle quali, al fine di usufruire della
restituzione di dazi doganali per l'esportazione di prodotti agricoli, le merci vengono
consegnate al destinatario estero e immediatamente restituite, senza alcuna
utilizzazione, all'esportatore. Cfr. Corte di giustizia, 14 dicembre 2000, in causa C110/99, Emsland - Starke GmbH.
26
Nella sentenza della Corte di giustizia (Grande sezione), 21 febbraio 2006, causa
C-255/02, Halifax si afferma che il soggetto passivo IVA non ha il diritto di detrarre
l’imposta assolta a monte quando vengono poste in essere operazioni che hanno
come scopo essenziale un vantaggio fiscale.
La sentenza Halifax è parte di un trittico di sentenze, tutte del 21 febbraio 2006, con le
quali il giudice comunitario ha affermato il principio generale antiabuso in materia di
Iva; cfr. sentenza 21 febbraio 2006, causa C-223/03, University of Huddersfield, in
Rass. trib., 2006, 3, 1032, e sentenza 21 febbraio 2006, causa C-419/02, BUPA
Hospitals, ivi, 2007, 1, 268.
27
Ecco il testo dell’art. L-64: “Afin d'en restituer le véritable caractère,
l'administration est en droit d'écarter, comme ne lui étant pas opposables, les actes
constitutifs d'un abus de droit, soit que ces actes ont un caractère fictif, soit que,
recherchant le bénéfice d'une application littérale des textes ou de décisions à
l'encontre des objectifs poursuivis par leurs auteurs, ils n'ont pu être inspirés par
aucun autre motif que celui d'éluder ou d'atténuer les charges fiscales que l'intéressé,
si ces actes n'avaient pas été passés ou réalisés, aurait normalement supportées eu
égard à sa situation ou à ses activités réelles”.
L’art. 344, § 1, del «Code des impôts sur les revenus” (1992) recita: « N'est pas
opposable à l' administration des contributionsdirectes, la qualification juridique
donnée par les parties à un acte ainsiqu'à des actes distincts réalisant une même
opération lorsquel' administration constate, par présomptions ou par d'autres moyens
284
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
Il secondo effetto riecheggia la norma tedesca. Si prevede che
l’Amministrazione finanziaria “disconosce i vantaggi tributari” conseguiti e
può sancire il pagamento delle “imposte determinate in base alle disposizioni
eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento
inopponibile all’Amministrazione”. Si prevede che è dovuta l’imposta in
base alla norma elusa, analogamente al diritto tedesco, ove si prevede che la
pretesa fiscale sorga come se fosse stato posto in essere un negozio con forma
giuridica adeguata alla realtà economica 28.
Nell’art. 37-bis vi è una particolare conformazione del potere impositivo.
L’inopponibilità all’Amministrazione delle condotte elusive può essere
desunta dal generale principio antiabuso, presente – come dirò - in ogni
settore di ogni ordinamento. Riflesso della inopponibilità è l’applicazione
della norma elusa.
Nulla questio quando la norma elusa è applicata al comportamento posto in
essere. E’ il caso, ad esempio, in cui un contratto viene riqualificato, e
l’Amministrazione applica, a quel contratto, una norma diversa da quella
applicata dal contribuente (una aliquota più alta, per esempio); ed è il caso in
cui l’Amministrazione disconosce un componente negativo di reddito,
considerandolo frutto di abuso.
Il secondo comma dell’art. 37-bis sembra delineare, però, una speciale
conformazione
del
potere
impositivo,
in
quanto
attribuisce
all’Amministrazione il potere di tassare non ciò che è stato posto in essere,
ma un “dover essere”; non il negozio posto in essere, ma quello adeguato alla
realtà economica.
Gli avvisi emessi in base all’art. 37-bis sono dunque atti impositivi che
possono non essere espressione dell’ordinario potere impositivo, ma di una
forma particolare di potere impositivo, perché, ferme restando le imposte
(eventualmente) dovute sul comportamento effettivamente posto in essere,
impongono il pagamento di un quid supplementare, pari alla differenza tra
de preuvevisés à l'article 340, que cette qualification a pour but d'éviter l' impôt,à
moins que le contribuable ne prouve que cette qualification réponde à desbesoins
légitimes de caractère financier ou économique ».
28
Nell’Abgabenordnung del 2007 il § 42 dispone che la norma fiscale non può
essere aggirata mediante l’abuso delle forme giuridiche (Durch Missbrauch von
Gestaltungsmöglichkeiten des Rechts kann das Steuergesetz nicht umgangen werden),
che vi è abuso quando sono posti in essere negozi giuridici in forma non adeguata alla
realtà economica (Ein Missbrauch liegt vor, wenn eine unangemessene rechtliche
Gestaltung gewählt wird, die beim Steuerpflichtigen oder einem Dritten im Vergleich
zu einer angemessenen Gestaltung zu einem gesetzlich nicht vorgesehenen
Steuervorteil führt) e che la pretesa fiscale sorge come se fosse stato posto in essere
un negozio adeguato alla realtà economica (entsteht der Steueranspruch …. wie er
bei einer den wirtschaftlichen Vorgängen angemessenen rechtlichen Gestaltung
entsteht).
Cfr. P. PISTONE, Abuso del diritto ed elusione fiscale, Padova, 1995, p. 67; P. FISCHER,
L’esperienza tedesca, in AA.VV., L’elusione fiscale nell’esperienza europea, a cura
di Di Pietro, cit., p. 207; S. MARTINENGO, L'abuso del diritto in Germania e il § 42
Abgabenordnung,in Rass. trib., 2010, 659.
285
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
imposte dovute in base ad un fatto non posto in essere ed imposte dovute sul
comportamento realizzato.
E’ quel che avviene, ad esempio, in tema di scissione con conferimento alla
beneficiaria di immobili della scissa, seguita dalla cessione delle quote della
scissa, quando l’Amministrazione finanziaria tassa la plusvalenza che sarebbe
stata realizzata se l’immobile fosse stato ceduto dalla scissa a terzi.
In ogni caso, l’Amministrazione applica una norma che esiste: non c’è quindi
violazione dell’art. 23 Cost.
4.1 Il procedimento e la motivazione dell’atto impositivo antielusivo.
Il provvedimento impositivo antielusivo è emesso in esito ad uno speciale
procedimento impositivo, con contraddittorio obbligatorio; l’amministrazione
finanziaria, prima di emettere l’avviso di accertamento, deve chiedere
chiarimenti al contribuente, il quale ha l’onere di rispondere entro sessanta
giorni, esponendo le ragioni economiche, per le quali è stata realizzata
l’operazione.
Presenta caratteri peculiari anche la motivazione degli avvisi di accertamento
antielusivi. Come in tutti i provvedimenti amministrativi, dev’essere indicato
il fatto, che è alla base del provvedimento, e dev’esserne indicata la “ragione
giuridica”.
Conviene soffermarsi sul punto perché il tema interessa i poteri del giudice.
La motivazione dei provvedimenti impositivi antielusivi è peculiare perché
dev’esservi indicato il vantaggio fiscale conseguito. Occorre che l’avviso
contrapponga, allo schema di comportamento realizzato, il modello-standard;
ed occorre confrontare il regime fiscale meno oneroso, cui è soggetto il
comportamento posto in essere, con il regime fiscale più oneroso, che il
contribuente ha evitato.
In secondo luogo, nella motivazione dell’avviso dev’essere indicata la
ragione per cui l'operazione posta in essere era "diretta ad aggirare obblighi
o divieti previsti dall'ordinamento tributario". La motivazione deve chiarire,
ponendo a confronto le due (o più) alternative che il contribuente avrebbe
potuto percorrere, perché i due schemi non sono ritenuti fiscalmente
equivalenti. Dev’essere spiegato perché lo schema seguito non rispetta la
ratio delle norme applicate, mentre altro è lo schema ortodosso, in linea con
la ratio, oltre che con la lettera, delle norme impositive. Occorre che venga
indicata con precisione la norma aggirata, essendo l’elusione da riferire ad
una norma precisa, non ai principi generali dell’ordinamento tributario.
In terzo luogo, la motivazione deve indicare che il contribuente non ha agito
per “valide ragioni economiche”.
Prima di emettere l’avviso di
accertamento, l’amministrazione deve chiedere chiarimenti al contribuente, il
quale ha l’onere di rispondere entro sessanta giorni. La richiesta dell’ufficio
deve avere per oggetto, in particolare, le ragioni economiche, per le quali è
stata realizzata una determinata operazione. E la motivazione dell’avviso
dev’essere “rafforzata”, perché deve riguardare anche le deduzioni del
contribuente.
Come si vedrà, nei processi contro i provvedimenti impositivi “ordinari”
(relativi cioè a fatti di evasione) il giudice non può rilevare d’ufficio che vi è
286
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
stata elusione, come se potesse sostituire all’atto impugnato una sentenza con
la motivazione che dev’essere contenuta in un provvedimento antielusivo.
5 Il divieto di abuso come clausola generale non scritta, nel diritto
comune e nel diritto fiscale.
L’art. 37-bis è un insieme di norme procedimentali: il terzo comma limita
l’applicazione dei commi uno e due alle fattispecie ivi elencate (nel terzo
comma). In quanto formato da norme procedimentali, non incide sull’operare
del principio generale antiabuso.
A proposito del quale è utile confrontare l’abuso del diritto in ambito
civilistico con l’abuso nel diritto fiscale.
Vi sono ordinamenti il cui codice civile contiene enunciazioni generali del
divieto di abuso. E’ il caso del diritto svizzero e del diritto tedesco.
Il nostro codice civile, come quello francese, non contiene una clausola
generale, ma norme specifiche antiabuso.
Analogamente, vi sono ordinamenti fiscali che contengono una clausola
generale antielusiva, come l’ordinamento tedesco, quello francese, quello
belga e quello spagnolo29.
Altri ordinamenti, come il nostro, contengono solo norme specifiche con
ratio antiabuso.
Ora, nel diritto privato, la mancanza di una clausola generale antiabuso non
ha impedito alla giurisprudenza di affermare la vigenza di un principio
generale antiabuso, senza bisogno di fondamenti costituzionali30.
29
La Ley General Tributaria del 1963 disciplinava l’elusione ("Fraude de ley")
all’art. 24, riformato nel 1995. Cfr. F. P EREZ ROYO, L’esperienza spagnola, in
L’elusione fiscale nell’esperienza europea, a cura di A. Di Pietro, cit., p. 173.
La Ley General Tributaria ora in vigore (Ley 58/2003, del 17 di dicembre) disciplina
il "Conflicto en la aplicación de la norma tributaria" nell'art. 15, che trascrivo:
"1. Se entenderá que existe conflicto en la aplicación de la norma tributaria cuando
se evite total o parcialmente la realización del hecho imponible o se minore la base o
la deuda tributaria mediante actos o negocios en los que concurran las siguientes
circunstancias:
a) Que, invidualmente considerados o en su conjunto, sean notoriamente artificiosos
o impropios para la consecución del resultado obtenido.
b) Que de su utilización no resulten efectos jurídicos o económicos relevantes,
distintos del ahorro fiscal y de los efectos que se hubieran obtenido con los actos o
negocios usuales o propios”.
2. Para que la Administración tributaria pueda declarar el conflicto en la aplicación
de la norma tributaria será necesario el previo informe favorable de la Comisión
consultiva a que se refiere el artículo 159 de esta Ley.
3. En las liquidaciones que se realicen como resultado de lo dispuesto en este artículo
se exigirá el tributo aplicando la norma que hubiera correspondido a los actos o
negocios usuales o propios o eliminando las ventajas fiscales obtenidas y se
liquidarán intereses de demora, sin que proceda la imposición de sanciones".
Nella stessa Ley General Tributaria del 2003, l’art. 159 completa l’art. 15 dettando
norme procedimentali.
30
Cfr. U. NATOLI, Note preliminari ad una teroria dell’abuso del diritto
nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1958, 26; SALV.
287
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
In diritto privato, «la ragione per invocare la repressione dell’abuso risiede
normalmente in una lacuna delle regole puntuali»31. Il principio è che
«quando un soggetto, con la sua azione, oltrepassa i limiti entro i quali va
contenuto il suo diritto, egli viene ad abusare del diritto stesso, onde la sua
attività assume carattere illecito e il danno che ne deriva è antigiuridico»32.
Compulsando i repertori e le moderne banche dati, non è difficile rintracciare
sentenze che applicano il divieto di abuso nel diritto privato. La casistica è
ricca. Cito, a titolo di esempio, le sentenze che reprimono: l’abuso del diritto
di proprietà 33; l’abuso, da parte della banca, del diritto di recesso ad nutum
dall’apertura di credito a tempo indeterminato34; il recesso abusivo dal
contratto di fornitura35; l’esercizio abusivo del diritto di voto da parte del
socio di una società di capitali 36; l’abuso del creditore, che fraziona la
pretesa creditoria 37; l’abuso del diritto di chiedere il fallimento del proprio
debitore38; l’abuso del diritto di recesso del concedente nel contratto di
concessione di vendita di autovetture39.
- l’abuso di un comune, che invocava la risoluzione di un contratto di
locazione per inadempimento, pur avendo altre vie per tutelare i propri
interessi e pur essendo l’inadempimento di scarsa importanza 40.
Se questo è lo stato delle cose nel diritto civile, dobbiamo a questo punto
notare che, nei sistemi fiscali in cui non vi è una clausola generale espressa,
ROMANO, Abuso del diritto: c) diritto civile attuale, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 166;
P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205; C. SALVI, Abuso del
diritto: 1) Diritto civile, in Enc. Giur. Treccani, vol. I; S. PATTI, Abuso del diritto, in
Dig. priv.., sez. civ., vol. I, Torino, 1987, p. 1.
31
R. SACCO, L’esercizio e l’abuso del diritto, in Alpa et al., Il diritto soggettivo,
Torino, 2001, 281-373, spec. 319.
32
Cass., 27 febbraio 1953, n. 476, in Giur. it., 1954, I, 1, 106.
33
Cass., 15 novembre 1960, n. 3040, in Foro it., 1961, I, 256.
34
Cass., 21 maggio 1997, n. 4538, in Foro it., 1997, I, 4679.
35
Cass., 16 ottobre 2003, n. 15482.
36
Cass., 26 ottobre 1995, n. 11151, in Giur. comm., 1996, II, p. 329; Cass., 17 luglio
2007, n. 15942, in Riv. not., 2009, 640.
37
Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726, in Corriere giur., 2008, 745, con nota
di P. RESCIGNO, L’abuso del diritto (una significativa rimeditazione delle sezioni
unite).
38
Cass., 19 settembre 2000, n. 12405, in Foro it., 2001, I, 2326, secondo cui deve
essere revocato il fallimento dichiarato su ricorso della banca creditrice, proposto al
solo scopo di esercitare una indebita pressione sul debitore e, perciò, con abuso del
diritto di fare istanza di fallimento.
39
Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, in Giur. it., 2010, 552.
Si tratta del caso Renault, su cui, tra molti, cfr. F. GALGANO, Qui suo iure abutitur
neminem laedit?, in Contratto e impresa, 2011, 311; P. RESCIGNO, «Forme» singolari
di esercizio dell’autonomia collettiva (i concessionari italiani della Renault), ivi,
2011, 589; F. ADDIS, Sull’excursus giurisprudenziale del «caso Renault», in
Obbligazioni e Contratti, 2012, 245.
40
Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2010, n. 13208, in Giur. it., 2011, 795, con nota di P.
RESCIGNO, Un nuovo caso di abuso del diritto.
288
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
la giurisprudenza ha ugualmente affermato la vigenza di un principio
antiabuso immanente.
Basti pensare – per non citare l’esperienza americana – al diritto inglese41 e al
diritto comunitario (ora UE).
In assenza di una clausola generale espressa, la nostra giurisprudenza ha
seguito indirizzi formalistici e non ha sviluppato strumenti anti-elusione sino
al 2005.
Avendo per lungo tempo negata la vigenza di un principio generale
antielusivo, la nostra giurisprudenza tributaria non ha seguito la via della
giurisprudenza civilistica, o di quella tributaria anglosassone e comunitaria,
ma – per la forza di inerzia dei suoi precedenti - ha ritenuto necessario un
appiglio positivo.
Si è posta, perciò, alla ricerca.
Nel 2005 lo ha ravvisato, ma in una pronuncia rimasta isolata, nell’art. 1344
cod. civ., secondo cui è nullo, per illiceità della causa, il contratto che
"costituisce il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa"42.
Più note sono le sentenze che hanno ritenuti nulli per difetto di causa i
negozi stipulati per fini di risparmio fiscale 43.
Il 2006 è l’anno di Halifax44 : la Corte di giustizia ha affermato che il
soggetto passivo IVA non ha il diritto di detrarre l’imposta assolta “a monte”
allorché la detrazione è basata su un comportamento abusivo, applicando,
così, alla fiscalità, un principio generale già da tempo affermato e sviluppato
in altri settori del diritto comunitario (il principio secondo cui i singoli non
possono avvalersi abusivamente delle norme comunitarie) 45.
La nostra Cassazione, essendo alla ricerca di un aggancio positivo, ha subito
utilizzato la giurisprudenza comunitaria e ne ha desunta l’applicabilità nel
diritto interno del principio antiabuso comunitario, principio che, a sua volta,
è fondato su una clausola inespressa.
41
Cfr. S. CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale, cit., p. 145 ss.
Cfr. Cass., 26 ottobre 2005, n. 20816, in Dir. prat. trib., 2006, II, 248, con nota di
G. CORASANITI, La nullità dei contratti come strumento di contrasto alle operazioni
di dividend washing nella recente giurisprudenza della Suprema Corte.
In senso contrario, in precedenza, Cass., sez. trib., 3 settembre 2001, n. 11351, in
Giur. it., 2002, 1102, secondo cui le norme tributarie sono inderogabili ma non
imperative, perché non hanno carattere proibitivo.
43
La giurisprudenza ha ritenuti nulli, per difetto di causa, i contratti con cui erano
realizzate operazioni di dividend stripping (Cass., 14 novembre 2005, n. 22932, in
Giur. it., 2006, 1077) e di "dividend washing" (Cass., 21 ottobre 2005, n. 20398, ivi,
2007, 4, 867), contraddicendo il suo precedente orientamento (Cass., 3 aprile 2000, n.
3979, ivi, 2000, 1753).
Si veda S. CIPOLLINA, Elusione fiscale ed abuso del diritto: profili interni e
comunitari, in Giur. it., 2010, 1224.
44
Sentenza della Corte di Giustizia (Grande Sezione), 21 febbraio 2006, causa C255/02, cit.
45
Si vedano le sentenze 11 ottobre 1977, causa C-125/76, Cremer; 2 maggio
1996, causa C-206/94, Pailetta; 3 marzo 1993, causa C-8/92, General Milk
Products; 12 maggio 1998, causa C-367/96, Kefalas; 30 settembre 2003, causa
C-167/01, Diamantis.
42
289
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
Il principio antiabuso comunitario è stato esteso, dalla nostra giurisprudenza,
dai settori armonizzati a quello delle imposte dirette 46, ma l’applicazione di
regole comunitarie antiabuso nei settori non armonizzati non poteva non
apparire poco o punto convincente 47.
La nostra giurisprudenza si è allora posta alla ricerca di un fondamento
normativo che le consentisse di affermare il principio antiabuso nei settori
fiscali non armonizzati, e ha creduto di averlo scovato direttamente nei
principi costituzionali di capacità contributiva e
di progressività
dell’imposizione 48.
In giurisprudenza - ogni citazione è superflua - è ora consolidato l’assunto
che nel nostro ordinamento il divieto di abuso del diritto trova la sua
derivazione, per quel che concerne i tributi armonizzati (IVA, accise, diritti
doganali ecc.), da un principio generale del diritto comunitario, e, per gli altri,
dall’art. 53 Cost.
E’ un vizio di noi tributaristi italiani invocare l’art. 53 ad ogni piè sospinto,
come una pietra filosofale, una formula alchemica, che risolve tutti i
problemi.
Le norme costituzionali sono però norme-parametro, non sono selfexecuting; esprimono principi, ai quali il legislatore deve conformarsi 49.
Non è stato considerato che una clausola generale antielusiva può valere
anche come clausola non scritta, immanente nell’ordinamento, senza bisogno
di una enunciazione espressa, o di un fondamento superlegislativo.
E, che i singoli non possano avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle
norme di diritto è un principio di qualsiasi ordinamento, la cui vigenza nel
diritto comunitario e nel diritto civile è stata affermata senza agganci al
diritto scritto (salvo norme specifiche).
Può essere affermata nel nostro ordinamento senza bisogno di richiamare il
diritto europeo o le norme costituzionali, analogamente a ciò che avviene nel
diritto comune.
Aggiungo, e concludo sulle norme costituzionali, che affermare la vigenza
del principio antiabuso inespresso non comporta violazione della riserva di
legge (art. 23 Cost.).
46
Cass., 29 settembre 2006, n. 21221, in Giur. It., 2008, 5, 1297 ss., con nota di S.
GIANONCELLI, Contrasto all'elusione fiscale in materia di imposte sui redditi e divieto
comunitario di abuso del diritto. L’estensione del principio enunciato nella sentenza
Halifax è stato poi ribadito da Cass., 4 aprile 2008, n. 8772, in Giur. It., 2008, 8,
2084; Id., Cass., 21 aprile 2008, n. 10257, in Riv. dir. trib., 2008, II, 448; Id., 17
ottobre 2008, n. 25374 (causa Part Service), in Giur. it., 2009, 503.
47
Cfr. F. TESAURO, Divieto comunitario di abuso del diritto (fiscale) e vincolo da
giudicato esterno incompatibile con il diritto comunitario, in Giur. It., 2008, 4, 1031.
48
Si vedano le sentenze delle sezioni unite 23 dicembre 2008, n. 30055, 30056,
30057.
49
Silvia Cipollina, op. cit., osserva come la concretizzazione del principio di capacità
contributiva richieda “la mediazione necessaria della norma fiscale ordinaria, che
identifica la fattispecie legale e quindi fornisce i parametri per la sua valutazione”.
290
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
Quando è applicata la clausola antiabuso, il fondamento del credito fiscale
non è la clausola antiabuso, ma la norma elusa: cioè una norma impositiva,
positivamente statuita da un atto di rango legislativo.
Applicazione delle norme procedimentali contenute nell’art. 37-bis
del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 ad ogni ipotesi di
accertamento antielusivo.
Che rapporto vi è tra clausola antiabuso inespressa e art. 37-bis ? A me pare
che, fermo restando che il primo e il secondo comma si applicano solo alle
fattispecie elencate nel comma 3 (non possiamo far finta che non esista il
limite espresso nel comma 3), nulla impedisce di applicare gli altri commi
alle fattispecie elusive relative alle imposte dirette.
In caso di accertamento di imposte dirette, fondato sulla clausola generale
antielusiva, devono essere applicati i commi 4, 5, 6 e 7 dell’art. 37-bis,
T.u.i.r. , perché in quei commi non vi sono limitazioni.
Devono perciò essere sempre applicati nel settore delle imposte sul reddito,
anche quando l’azione dell’amministrazione finanziaria non riguarda una
delle operazioni indicate nell’art. 37-bis, ma assume come sua “ragione
giuridica” la clausola generale antielusiva.
Deve cioè essere sempre applicato il comma 4, in tema di contraddittorio; il
comma 5, in tema di motivazione dell’avviso di accertamento; il comma 6, in
tema di riscossione, ed il comma 7, in tema di rimborsi.
Ma, quando sia affermata l’applicazione generale delle garanzie
procedimentali previste dall’art. 37-bis in ogni accertamento antielusivo di
imposte sui redditi, resta da stabilire quali siano le garanzie in caso di
accertamenti antielusivi di altre imposte.
Escludendo il contraddittorio, “avremmo un procedimento speciale che
include un contraddittorio, disciplinato ex lege, e un procedimento generale
che non ha alcuna disposizione ad hoc”50.
La dottrina, con motivazioni diverse, sembra unanime nell’affermare
l’obbligatorietà del contraddittorio in ogni ipotesi di accertamento antielusivo
51
.
L’obbligatorietà del contraddittorio deriva, secondo molti, dai principi di
imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, sanciti dall’art. 97
Cost.52 .
5.1
50
E. MARELLO, Elusione fiscale ed abuso del diritto: profili procedimentali e
processuali, in Giur. it., 2010.
51
Cfr. A. CONTRINO, Il divieto di abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti)
fondamenti giuridici e connotati strutturali, in Dir. prat. trib., 2009, I, 477 ss.; M.
NUSSI, Abuso del diritto: profili sostanziali, procedimental-processuali e
sanzionatori, in Giust. Trib., 2009, 323; M. PIERRO, Abuso del diritto: profili
procedimentali, in Giust. trib., 2009, 410.
52
E. MARELLO, L’accertamento con adesione, Torino, 2000, p. 124; G. RAGUCCI, Il
contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009, p. 231; G. MARONGIU, Lo
Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2010, p. 142; A. M ARCHESELLI,
Accertamenti tributari e difesa del contribuente, Milano, 2010, p. 19; L. FERLAZZO
291
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
Infine, il contraddittorio nei procedimenti amministrativi è però obbligatorio
secondo il diritto dell’Unione europea53. Ed è tale anche secondo il diritto
interno, perché l’art. 1 della legge n. 241 del 1990 richiama i principi
dell’ordinamento comunitario54.
6 Il rilievo d’ufficio, nei processi di rimborso, delle eccezioni relative ai
vizi dei negozi posti a base della domanda.
La giurisprudenza è consolidata nel dire che “il rango comunitario e
costituzionale del principio di divieto di abuso del diritto comporta la sua
applicazione d'ufficio da parte del giudice tributario, a prescindere, dunque,
da qualsiasi allegazione, al riguardo, ad opera delle parti in causa (Cass.
S.U. 30055/08, Cass. 1372/11)”55.
A me paiono necessarie due puntualizzazioni.
La prima: non esistono principi che, in ragione del loro rango nello
Stufenbau, siano per tale motivo rilevabili d’ufficio; occorre invece discutere
di eccezioni riservate alla parte, e di eccezioni rilevabili d’ufficio.
La seconda è che occorre distinguere tra processi tributari di impugnazione
(di atti impositivi) e processi tributari di rimborso.
Nei processi di rimborso, ha vigore il generale potere del giudice di rilevare
d’ufficio, a norma dell’art. 112 cod. proc. civ., le eccezioni che non sono
riservate alle parti56.
Nelle sentenze del 200557, con cui la Corte di cassazione dichiarò nulli dei
contratti stipulati al fine di conseguire indebitamente dei crediti d’imposta su
dividendi, la Corte rilevò d’ufficio la nullità dei contratti.
Nei casi esaminati da tali sentenze, il contribuente fondava la sua
impugnazione degli avvisi di accertamento sui contratti di compravendita di
azioni e di costituzione di usufrutto, di cui il giudice ha rilevato d’ufficio la
nullità per difetto di causa. Il problema è dunque se sia rilevabile d’ufficio la
nullità di un contratto, che il contribuente pone a fondamento della sua
azione.
La nullità dei contratti è rilevabile d’ufficio, ai sensi dell’art. 1421 c.c. (anche
in sede di legittimità), ma questa norma va coordinata con il principio
dispositivo (art. 99 c.p.c.) e con il principio di corrispondenza tra chiesto e
pronunciato (art. 112 c.p.c.).
NATOLI - G. INGRAO, Il rispetto del contraddittorio e la residualità dell’accertamento
tributario, in Boll. trib., 2010, 485.
53
Corte di giustizia, 18 dicembre 2008, causa n. C-349/07, Sopropé, in Rass. trib.,
2009, 570, con nota di G. RAGUCCI, Il contraddittorio come principio generale del
diritto comunitario e in GT – Riv. giur. trib., 2009, 210, con nota di A. M ARCHESELLI,
Il diritto al contraddittorio nel procedimento amministrativo tributario è diritto
fondamentale del diritto comunitario.
54
F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, vol. I, IX ed., Torino, 2011, p. 167.
55
Cass., 11 maggio 2012, n. 7393, che viene qui citata come riepilogativa della
precedente giurisprudenza della S.C.
56
La tesi esposta nel testo è stata già sostenuta in F. TESAURO, La rilevabilità d'ufficio
della nullità dei contratti elusivi nel processo tributario, in Corr. Trib., 2006, 3128.
57
Cass., 21 ottobre 2005, n. 20398; Id., 14 novembre 2005, n. 22932.
292
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
Il giudice non può rilevare d’ufficio un elemento costitutivo della domanda,
perché ciò significherebbe accogliere una domanda diversa da quella
proposta. Quindi il giudice non può rilevare d’ufficio una nullità, ex art. 1421
c.c., se la nullità è un elemento fondativo della domanda e se l’attore non l’ha
dedotta.
Se invece l’attore agisce basandosi sugli effetti e, quindi, sulla validità di un
contratto (come quando agisce per l’esecuzione di un contratto); se,
insomma, gli effetti di un contratto sono un elemento fondativo della
domanda, il giudice può rilevare d’ufficio la nullità del contratto, perché le
eccezioni, se non sono riservate alle parti, possono essere rilevate d’ufficio.
A norma dell’art. 112 c.p.c. il giudice «non può pronunciare d’ufficio su
eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti». Il giudice può
quindi rilevare d’ufficio le eccezioni, in tutti in casi in cui non vi sia una
norma espressa che lo escluda.
E sono numerosissime le massime, in cui la Cassazione ribadisce che vige nel
nostro ordinamento «il principio della normale rilevabilità di ufficio delle
eccezioni, derivando la necessità dell’istanza di parte solo da una specifica
previsione normativa».
E’ quindi conforme alle regole che sia sollevata d’ufficio l’eccezione di
nullità di un contratto, quando sugli effetti di quel contratto è fondata la
domanda dell’attore58. È solo quando è elemento costitutivo della domanda
che la nullità non può essere rilevata d’ufficio59.
È dunque necessario distinguere il caso in cui una nullità si ponga come
elemento costitutivo della domanda dell’attore dal caso in cui sia oggetto di
eccezione del convenuto. Nel processo tributario, prima di porsi questo
problema, occorre stabilire chi è attore e chi è convenuto. Non è infatti
nuova, e non è estranea alla giurisprudenza, la tesi secondo cui attore, nel
processo tributario, è il Fisco.
Le sentenze del 1985 60 definiscono correttamente il processo tributario come
processo di impugnazione di provvedimenti amministrativi, in funzione del
loro annullamento, nel quale dunque il contribuente è attore,
l’Amministrazione resistente.
58
Cass. civ., Sez. III, 20 ottobre 2004, n. 20548, Id., 29 marzo 2004, n. 6191.
Si consideri il seguente caso. Un dipendente avanzava una pretesa verso il datore di
lavoro affermando la nullità di una clausola del contratto collettivo; la Cassazione ha
affermato che qualora sia la parte attrice a chiedere la dichiarazione di invalidità di un
atto, la pronuncia del giudice deve essere circoscritta alle ragioni di legittimità
enunciate dall’interessato e non può fondarsi su altri elementi, rilevati di ufficio. Se la
nullità è elemento costitutivo della domanda dell’attore, il giudice non può rilevarla
d’ufficio (Cass., Sez. lav., 29 novembre 1996, n. 10681). La nullità può essere rilevata
in sede di gravame solo se il giudice non esorbita dalla materia del contendere
delimitata dall’atto d’impugnazione (Cass. civ., Sez. III, 29 marzo 2004, n. 6191, cit.).
La nullità deve risultare ex actis, ossia dal materiale probatorio legittimamente
acquisito al processo, essendo i poteri officiosi del giudice limitati al rilievo della
nullità e non intesi ad esonerare la parte dall’onere probatorio gravante su di essa
(Cass. civ., Sez. II, 28 gennaio 2004, n. 1552).
60
Cass. n. 20398 del 2005, cit. e Id. n. 22932 del 2005, cit.
59
293
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
Viene precisato che «la cognizione del giudice tributario ha per oggetto il
rapporto giuridico», ma nell’ambito di «un processo di annullamento di un
atto autoritativo che, se non rimosso, fissa in modo definitivo l’an e il
quantum dell’obbligazione tributaria. Si tratta, come generalmente
riconosciuto, di un classico esempio di azione costitutiva, il cui esercizio non
comporta, per il ricorrente, l’assunzione della qualità di convenuto, anche se
non si accogliesse l’orientamento che ricollega l’esercizio dell’azione
costitutiva all’esistenza di un diritto potestativo sostanziale»61.
Se dunque attore è il contribuente, il giudice ben può rilevare d’ufficio la
nullità del contratto, nei casi in cui il contribuente fonda su di esso la sua
domanda giudiziale, perché la nullità si pone come ragione di rigetto della
domanda, ossia come eccezione rilevabile d’ufficio.
Da quanto detto sin qui si deduce che il giudice non può rilevare d’ufficio
una ragione di nullità dell’atto impositivo, perché tale vizio è un elemento
costitutivo della domanda dell’attore. Rilevare d’ufficio un vizio dell’atto
impositivo che non è stato dedotto dal ricorrente equivale ad accogliere una
domanda non proposta. Se invece ragionassimo considerando attore il Fisco,
dovremmo riconoscere al giudice tributario il potere di rilevare d’ufficio i
vizi di nullità dell’atto impositivo.
Il rilievo d’ufficio, nei processi d’impugnazione, di eccezioni non
consentite neppure alla parte resistente.
Se l’Amministrazione ha emesso un avviso di accertamento avente come
“ragione giuridica” la violazione dell’obbligo di dichiarazione (cioè, come si
dice correntemente, un fatto qualificato come evasivo), non le è consentito,
nel processo, “cambiare le carte in tavola” e invocare il divieto di abuso.
Ciò è una conseguenza del carattere impugnatorio del processo tributario, in
cui l’amministrazione finanziaria non esercita un autonomo potere di azione,
ma difende l’atto impugnato e, quindi, non può fondare la sua difesa su una
6.1
61
Da tempo, del resto, la Corte di cassazione ha abbandonato la concezione
dichiarativa del processo tributario. È stato riconosciuto a chiare lettere che il giudice
tributario ha il potere di annullare gli atti impositivi (Cass., Sez. I, 23 marzo 1985, n.
2085; Id., SS.UU., 3 marzo 1986, n. 1322; Id., Sez. I, 19 dicembre 1986, n. 7735; Id.,
SS.UU., 26 ottobre 1988, n. 5786; Id., 4 gennaio 1993, n. 8).
Ed è stata respinta la tesi che «ravvisa l’oggetto del processo tributario nel diretto
accertamento, con funzione dichiarativa, dell’esistenza e dell’ammontare
dell’obbligazione ex lege, a prescindere dagli atti attraverso i quali si esercita
l’azione amministrativa», precisando che «il processo è strutturato come impugnativa
di specifici provvedimenti dell’amministrazione e il giudizio concerne la legittimità
formale e sostanziale degli stessi, sicché, da un lato, vengono in rilievo i vizi relativi
alla regolarità formale degli atti o del procedimento o, più in generale, inerenti
all’osservanza di norme di azione, e dall’altro il riesame del merito del rapporto
d’imposta – dunque l’accertamento dell’obbligazione tributaria – avviene in funzione
dell’atto impugnato, in quanto il giudice deve direttamente accertare, nei limiti della
contestazione, i presupposti materiali e giuridici della pretesa dell’amministrazione
assunti a fondamento del provvedimento medesimo» (Cass., 3 marzo 1986, n. 1322).
294
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
“ragione giuridica”
diversa da quella posta a fondamento dell’atto
impositivo.
Il processo tributario d’impugnazione è promosso da un ricorso che ha come
petitum necessario l’annullamento totale o parziale dell’atto amministrativo,
come pone in chiaro l’art. 17-bis, comma 8, del D. lgs. 31 dicembre 1992, n.
546; il giudice, dal canto suo, deve giudicare la fondatezza della domanda di
annullamento, come proposta dal contribuente.
Il giudice non può respingere un ricorso contro un avviso di accertamento
basandosi ex officio sulla clausola generale antielusiva, se tale non è la
“ragione giuridica” posta a fondamento dell’avviso di accertamento.
Abbiamo visto che, secondo l’art. 112 cod. proc. civ., il giudice può rilevare
le eccezioni che non siano riservate alla parte. Questo principio si applica
anche nel processo tributario, ma il giudice non può rilevare d’ufficio
(sostituendosi all’amministrazione)
un presupposto d’imposta, o una
“ragione giuridica”, che non siano stati posti a base dell’avviso di
accertamento.
Perciò la tesi secondo cui il giudice può rilevare e applicare d’ufficio la
clausola generale antielusiva “non è in linea con i principi che governano il
processo tributario e, ancor prima, con l’obbligo della motivazione degli atti
impositivi, che debbono precisamente indicare, secondo le norme che li
regolano, i presupposti di fatto e le considerazioni di diritto posti a
fondamento della pretesa”62.
E’ da respingere, perciò, l’assunto giurisprudenziale, che, pur riconoscendo
“il principio secondo cui le ragioni poste a fondamento dell'atto impositivo
segnano i confini del processo tributario, che è un giudizio di impugnazione
dell'atto, sicché l'Ufficio finanziario non può porre a base della propria
pretesa ragioni diverse e modificare la motivazione dell'atto nel corso del
giudizio”, lo infrange affermando, senza fondamento, che quel principio “va
coordinato con il potere che ciascun giudice ha - in quanto connaturale
all'esercizio stesso della giurisdizione, quand'anche abbia ad oggetto il mero
riesame di atti - di qualificare autonomamente la fattispecie demandata alla
sua cognizione, a prescindere dalle allegazioni delle parti in causa”63.
62
Così M. CANTILLO, Profili processuali del divieto di abuso del diritto: brevi note
sulla rilevabilità d’ufficio, in Rass. trib., 2009, p. 475, che aggiunge: “L’oggetto del
giudizio è delimitato, anche con riguardo ai poteri cognitivi e decisionali del giudice,
appunto dalle allegazioni addotte nell’atto impositivo dell’Amministrazione e dai
motivi del ricorso del contribuente, non essendo consentito alle parti introdurre fatti
ed elementi diversi da quelli enunciati (come sanciscono gli artt. 7 e 24 del D.Lgs. n.
546/1992)”.
Inoltre, il negozio ritenuto elusivo non è nullo ma inopponibile all’amministrazione;
“non si discute, in pratica, di un contratto ex se invalido, bensì della sua inefficacia
nei confronti dell’Amministrazione, in quanto qualificabile come abuso; e ciò
significa che l’illiceità del comportamento deve essere espressamente dedotta con
l’atto impositivo a fondamento della pretesa tributaria” (CANTILLO, op. loc. cit.). Non
è dunque applicabile l’art. 1421 del codice civile.
63
Cass., 11 maggio 2012, n. 7393, cit.; Id., 9 dicembre 2009, n. 21446.
295
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
Il potere del giudice di riqualificare la fattispecie, a prescindere dal contenuto
dell’atto impositivo, non esiste. Che significa “riqualificare la fattispecie” ?
E’ evidente che la Cassazione, evocando il suo potere di riqualificare la
fattispecie, mira ad accreditare l’idea che dispone di un potere che prescinde
dal contenuto dell’atto impugnato e dalla domanda del contribuente.
Ma, nel processo tributario, il giudice può verificare d’ufficio se il
contribuente fonda la sua impugnazione su titoli validi, e valutare se un
negozio, che il contribuente pone a base della sua impugnazione, che l’attore
pone a base della sua impugnazione, sia o non sia valido.
Non può, però, riqualificare la fattispecie sostanziale (cioè il fatto assunto a
base dell’atto impositivo) sostituendo, al fatto o alla qualificazione giuridica
contenuti nel provvedimento impugnato, un fatto diverso o un titolo giuridico
diverso.
In sostanza, la Cassazione ritiene che il giudice potrebbe rifare la
motivazione dell’atto impugnato, sostituendo, in un avviso motivato
dall’Amministrazione in termini di evasione, una motivazione (giudiziale)in
chiave di abuso del diritto; il giudice potrebbe, dunque, riscrivere ex novo la
motivazione dell’accertamento, definendo elusione una fattispecie che
l’Amministrazione finanziaria ha definito evasione.
Vi sono dei criteri identificativi della domanda, a cui il giudice deve attenersi
(ex art. 112 c.p.c.) anche nei processi d’impugnazione, come il processo
amministrativo 64 e tributario; e criteri identificativi del credito del Fisco (il
presupposto d’imposta e la norma impositiva, indicati nella motivazione
dell’atto impugnato).
Il giudice tributario deve muoversi entro questo perimetro, segnato dalla
motivazione dell’atto impugnato e dai motivi del ricorso.
64
Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 12 dicembre 2008, n. 6169: “Non incorre nel vizio di
ultrapetizione la sentenza la quale utilizzi parametri normativi di riferimento o
considerazioni diverse da quelle indicate dal ricorrente, atteso che il motivo di
ricorso individua il vizio e gli elementi contenutistici che lo caratterizzano, mentre il
giudice - muovendo dal contenuto sostanziale della domanda di annullamento - può
assumere, nella valutazione della fondatezza della censura, parametri diversi da
quelli indicati, purché restino fermi l’identificazione e la qualificazione del vizio
dedotto; è infatti regola generale quella per cui il giudice debba concretamente
esercitare il potere giurisdizionale nell’ambito della esatta corrispondenza tra il
chiesto ed il pronunciato, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., pacificamente applicabile al
processo amministrativo; tale regola rappresenta, proprio con riferimento al
concreto esercizio della potestas judicandi, l’espressione precipua del potere
dispositivo delle parti, nel senso che il giudice non può pronunciare oltre i limiti della
concreta ed effettiva questione che le parti hanno sottoposto al suo esame e dunque
oltre i limiti del petitum e della causa petendi, ulteriormente specificati nell’ambito
del processo amministrativo attraverso l’articolazione dei motivi di ricorso; ne
consegue che sussiste il vizio di ultrapetizione laddove il giudice (come nel caso di
specie) abbia attribuito alla parte una utilitas che non era stata richiesta e laddove
(con particolare riferimento al processo amministrativo, fondato sulla denuncia di
motivi di illegittimità) abbia esaminato e accolto il ricorso per un motivo non
prospettato dalle parti”.
Si veda anche Cons. Stato, sez. V, 2 novembre 2009, n.
6713.
296
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
Egli deve stabilire se è fondato il ricorso, proposto con un dato atto
impositivo: può interpretare la domanda e l’atto impugnato, ma non può
valutare la fondatezza del ricorso come se l’atto impugnato avesse una
contenuto diverso da quello che ha.
Se l’Amministrazione afferma nell’avviso che una certa operazione è formata
da negozi simulati, e il contribuente lo impugna sostenendo che i negozi non
sono simulati, il giudice deve stabilire se gli atti sono simulati o no.
Se non sono simulati, deve accogliere il ricorso; non può giudicarli non
simulati, ma considerarli ugualmente idonei a sorreggere l’atto impugnato.
Non può dire che l’operazione è elusiva e respingere per tale motivo
l’impugnazione del contribuente: ciò significa pronunciarsi su una domanda
diversa da quella proposta.
Ciò non è possibile, neppure richiamando il rango costituzionale e
comunitario del divieto di abuso, o il principio iura novit curia (che significa
che il giudice conosce le norme, non che le applica d’ufficio oltre i limiti
dell’art. 112 c.p.c.).
7 La cassazione delle sentenze di merito per difetto di esame ex officio
della (possibile) elusività della condotta del contribuente.
Posto l’assioma che può rilevare d’ufficio la elusione, per la Cassazione il
passo è stato breve per porre un principio ulteriore, e cioè che occorra
valutare sempre, da parte del giudice di legittimità, se il giudice del merito si
è posto, d’ufficio, il problema dell’elusione.
Se ciò non è avvenuto, vi sono sentenze in cui la Cassazione – pur
giudicando infondato o inammissibile il ricorso dell’Avvocatura - , annulla la
sentenza impugnata, e rinvia affidando al giudice del rinvio il compito di
esaminare d’ufficio se c’è stata o no elusione 65.
Ma può anche capitare che né il contribuente, né l’Ufficio impositore, né
l’organo giudicante, riescano a scovare, nel caso concreto, tracce
dell’elusione66.
Il caso cui mi riferisco riguarda una società che ha acquistato da un privato
del materiale lapideo; la parte venditrice, non considerandosi imprenditrice,
non ha emesso fattura.
Non si capisce dove sia l’elusione, che in materia di Iva si configura quando
viene detratta un’imposta sugli acquisti che non è detraibile; ma chi acquista
65
Si veda Cass., 26 ottobre 2011, n. 22258, in Corr. trib., 2012, 272, con nota di M.
BASILAVECCHIA, Cassazione della sentenza senza esame dei motivi: nuovi impieghi
dell’abuso del diritto.
66
Si veda Cass., 13 gennaio 2011, n. 687. Il caso riguarda una società che aveva
acquistato dei beni da un soggetto che riteneva di non essere un imprenditore;
l’operazione non era stata assoggettata ad Iva, e la Cassazione non si è limitata a
rilevare la mancata regolarizzazione fiscale Iva da parte dell’acquirente, ma ha
rinviato al giudice di secondo grado affidandogli il compito di accertare se vi è stata
elusione o abuso. Non si riesce però a comprendere in che cosa possa esser consistito
il vantaggio fiscale indebito del compratore, che non aveva né pagata né detratta l’Iva
(nell’Iva, l’abuso consiste nell’indebita detrazione).
297
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
senza Iva non detrae nulla e quindi non può esservi neppure l’ombra
dell’elusione.
8 Doppia concorrente qualificazione (come evasione ed elusione) della
medesima condotta.
Un’osservazione finale.
La passione della Cassazione per l’elusione e per l’abuso è tale per cui non
vi sono solo casi in cui è qualificata elusione ciò che il Fisco ha definito
evasione67, ma vi sono anche casi in cui, pur confermando il giudizio evasivo
del Fisco, la Cassazione aggiunge – come se non bastasse - che c’è anche
elusione.
I due fenomeni sono sommati. Evasione e, per soprammercato, elusione.
Mi riferisco, a titolo di esempio, ad una sentenza 68 in cui il giudice del merito
aveva accertato che una società sportiva aveva ingaggiato un calciatore e
pattuito con lui un certo compenso, del quale una parte è qualificata
compenso per lo sfruttamento d'immagine mediante la stipulazione di
contratti fittizi tra altre società del Gruppo di appartenenza della società di
calcio.
Osserva la Cassazione che il giudice del merito ha “correttamente colto, e
posto alla base della sua decisione, la sostanza del fenomeno come sopra
descritto, inquadrandolo altresì, con l'esplicito riferimento al calciatore
come effettivo possessore per interposta persona del reddito, nella previsione
della disposizione contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3”.
La Cassazione potrebbe fermarsi qui, ma non le basta. E aggiunge che “la
qualificazione giuridica della fattispecie deve essere operata con il
riferimento alla legittimità dell'accertamento in quanto inerente a un
meccanismo, come quello descritto, artificiosamente posto in essere allo
scopo di ottenere indebiti vantaggi di natura fiscale”.
Richiamare il “principio generale antielusivo, il quale preclude al
contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso
distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di
strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio
d'imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che
giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici”; e
richiamare le tre sentenze del 23 dicembre 2008, n. 30055, sembra essere
ormai divenuto il marchio che suggella e conferisce ad esse un grado
superiore di giustizia.
67
Emblematico il caso esaminato da Cass., 11maggio 2012, n. 7393, cit..
L’Amministrazione sosteneva l’indeducibilità di una svalutazione di partecipazioni
perché effettuata in violazione di una norma, con la creazione di una società
fittiziamente interposta tra società italiana e società residente in un Paese a fiscalità
privilegiata; la Cassazione ha invece respinto il ricorso ragionando in termini di
elusione.
68
Cass., 26 febbraio 2010, n. 4737.
298
L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO
Vero che è l’abuso del diritto, in Francia, secondo la definizione che ne
fornisce l’art. L-64 del “Livre des procédures fiscales”, comprende sia
l’elusione, sia simulazione, ma neppure in Francia i due fenomeni sono
considerati concorrenti.
299