fondazione antonio uckmar
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FONDAZIONE ANTONIO UCKMAR I “Venerdì di Diritto e Pratica Tributaria” Macerata 29-30 giugno 2012 L’abuso del diritto: tra “diritto” e “abuso” Atti preparatori: Addis F., Adonnino P., Altieri E., Amatucci A., Basilavecchia M., Carinci A., Comelli A., Corasaniti G., Corrado Oliva C., de’Capitani di Vimercate P., Di Pietro A., Fox T., Glendi C., La Rosa S., Mereu A., Pistone P., Prosperi F., Rescigno P., Salvini L., Sgubbi F., Stizza P., Tesauro F., Uckmar V. L’ABUSO DEL DIRITTO: TRA DIRITTO E ABUSO Il divieto di abuso del diritto in materia tributaria, prepotentemente salito alle luci della ribalta con le note sentenze della Suprema Corte a Sezioni Unite del 2008, da alcuni anni è il principale terreno di scontro, e di acceso dibattito, tra giurisprudenza e dottrina. Ha origini comunitarie, ma si è radicato nell’ordinamento nazionale creandosi un appiglio nell’art. 53 della Costituzione. E’ “di moda”, è probabilmente “abusato” dall’Amministrazione, sovverte gli schemi del diritto processuale, anche valendosi del principio della prevalenza del diritto comunitario, e si sta sottilmente facendo strada anche nel diritto penale tributario, sia pure limitatamente alle fattispecie elusive di cui all’art. 37 bis d.p.r. n. 600 del 1973. Delicati sono inoltre i profili sanzionatori della violazione del divieto di abuso. Da tempo si attende il doveroso intervento del legislatore, più volte preannunciato. Diritto e Pratica Tributaria ha deciso di organizzare un “venerdì” (e sabato) per approfondire il tema, invitando tutte le parti di questo vivace e attualissimo dibattito. PROGRAMMA 29 GIUGNO 2012 ore 08.30 Registrazione dei partecipanti ore 09.30 Indirizzi di saluto Prof. Luigi Lacchè – Magnifico Rettore Università di Macerata Dott. Pietro Marcolini – Assessore Regione Marche Dott. Gennaro Pieralisi – Confindustria Avv. Stefano Massimiliano Ghio – Presidente Consiglio dell’Ordine Avvocati di Macerata Dott. Umberto Massei – Presidente ODCEC Macerata-Camerino Prof. Victor Uckmar – Presidente Fondazione Antonio Uckmar ore 10.00 Prof. Franco Gallo - moderatore Prof. Pietro Rescigno – Relazione introduttiva Prof. Fabio Addis – “L’abuso del diritto tra diritto civile e tributario” Prof. Pasquale Pistone - “L’abuso del diritto nella giurisprudenza tributaria della Corte di Giustizia dell’Unione Europea” Prof. Francesco Tesauro – “L’abuso nel diritto tributario italiano” ore 13.00 - Buffet ore 14.30 – ripresa dei lavori Prof. Ubaldo Perfetti - moderatore Prof. Francesco Prosperi – “L’abuso del diritto nella fiscalità vista da un civilista” Prof. Adriano Di Pietro – “Abuso del diritto in materia tributaria: profili comparati” Avv. Thomas Fox – “L’abuso del diritto nell’ordinamento tedesco – Il caso della normativa anti treaty shopping” Dott. Enrico Altieri – “La codificazione del principio dell’abuso del diritto in campo fiscale” Prof. Salvatore La Rosa – “Abuso del diritto ed elusione fiscale: differenze e interferenze” Prof. Andrea Amatucci – “La funzione anti-abuso dell’interpretazione del diritto tributario” Avv. Paolo de’Capitani di Vimercate – “La spettanza del credito per le imposte estere e la indeducibilità dei manufactured payments in una decisione della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia a cavallo tra elusione ed evasione tributaria” Prof. Giuseppe Corasaniti - “L’interpretazione degli atti e l’elusione fiscale nel sistema dell’imposta di registro” Coffee break Prof. Cesare Glendi – “L’abuso dei rilievi d’ufficio della Suprema Corte di Cassazione” Prof. Alberto Comelli – “L’abuso del processo, con particolare riferimento al processo tributario” Avv. Caterina Corrado Oliva – “L’abuso del diritto tra onere di allegazione e onere della prova” Dott. Paolo Stizza - “L’obbligo del contraddittorio in caso di contestazione di operazioni abusive ” 30 GIUGNO 2012 ore 09.00 Prof. Alberto Febbrajo – moderatore Prof. Filippo Sgubbi – Relazione sui profili penali Prof. Livia Salvini - “A margine della sentenza Dolce&Gabbana: la costituzione di parte civile dell’A.F.” Avv. Alessandra Mereu - “Abuso del diritto ed elusione fiscale: rilevanza penale o mera mancanza di una explicatio terminorum?” Prof. Massimo Basilavecchia - “Presupposti ed effetti della sanzionabilità dell’elusione” Prof. Andrea Carinci – “Elusione tributaria, abuso del diritto e applicazione delle sanzioni amministrative” ore 13.00 chiusura dei lavori ***** INDICE INDICE ................................................................................................... Pag. 7 Prof. Fabio Addis “L’abuso del diritto tra diritto civile e tributario”.......... » 9 Prof. Pietro Adonnino “Abusi della contestazione dell’abuso del diritto della U.E”........................................................................................ » 17 Enrico Altieri “La codificazione del principio dell’abuso del diritto in campo fiscale” ........................................................................................ » 27 Prof. Andrea Amatucci “La funzione anti-abuso dell’interpretazione del diritto tributario”.................................................................................. » 37 Prof. Massimo Basilavecchia “Presupposti ed effetti della sanzionabilità dell’elusione” ...................................................................... » 49 Prof. Andrea Carinci “Elusione tributaria, abuso del diritto e applicazione delle sanzioni amministrative” .............................................. » 55 Prof. Alberto Comelli “L’abuso del processo, con particolare riferimento al processo tributario” ............................................................ » 63 Prof. Giuseppe Corasaniti “L’interpretazione degli atti e l’elusione fiscale nel sistema dell’imposta di registro” .............................................. » 89 Avv. Caterina Corrado Oliva “L’abuso del diritto tra onere di allegazione e onere della prova” ............................................................. » 111 Avv. Paolo de’Capitani di Vimercate “La spettanza del credito per le imposte estere e la indeducibilità dei manufactured payments in una decisione della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia a cavallo tra elusione ed evasione tributaria”.............................. » 125 Prof. Adriano Di Pietro “Abuso del diritto in materia tributaria: profili comparati”..................................................................................... » 147 Avv. Thomas Fox “L’abuso del diritto nell’ordinamento tedesco – Il caso della normativa anti treaty shopping” ............................................ » 149 Prof. Cesare Glendi “L’abuso dei rilievi d’ufficio della Suprema Corte di Cassazione”................................................................................ » 159 Prof. Salvatore La Rosa “Abuso del diritto ed elusione fiscale: differenze e interferenze” ..................................................................... Pag. 161 Avv. Alessandra Mereu “Abuso del diritto ed elusione fiscale: rilevanza penale o mera mancanza di una explicatio terminorum?” .......» 169 Prof. Pasquale Pistone “L’abuso del diritto nella giurisprudenza della Corte di Giustizia” ...........................................................................» 203 Prof. Francesco Prosperi “L’abuso del diritto nella fiscalità vista da un civilista” ............................................................................................... » 229 Prof. Pietro Rescigno “L'abuso del diritto (1965)”...................................» 243 Prof. Pietro Rescigno “L'abuso del diritto (Una significativa rimeditazione delle Sezioni Unite)” .......................................................... » 245 Prof.ssa Livia Salvini “A margine della sentenza Dolce&Gabbana: la costituzione di parte civile dell’Amministrazione Finanziaria” ...........» 251 Prof. Filippo Sgubbi “Relazione sui profili penali” ...................................»265 Avv. Paolo Stizza “L’obbligo del contraddittorio in caso di contestazione di operazioni abusive”........................................................ » 267 Prof. Francesco Tesauro “L’abuso nel diritto tributario italiano” ...........» 279 Prof. Fabio Addis Professore Università di Brescia L’abuso del diritto tra diritto civile e tributario SOMMARIO: 1 Premessa - 2 Abuso e rimedi nel diritto civile - 3 L’avvento dell’abuso nel diritto tributario - 4 Intermezzo di sintesi - 5 Abuso e controllo degli atti di autonomia privata - 6 Abuso e ingiustificato risparmio fiscale. 1 Premessa Per quanto i rapporti tra diritto civile e tributario, su larghissime aree delle relative discipline, siano strutturalmente biunivoci, ancorché non simmetrici, l’abuso del diritto – specie in considerazione dei più recenti sviluppi che è dato registrare in entrambi i plessi normativi considerati – consente certamente un utile confronto, al quale queste brevi riflessioni sono rivolte nel tentativo di stigmatizzare taluni elementi del ragionamento giuridico che caratterizza il pensiero della giurisprudenza pratica e teorica e così anche la sostanza dei problemi che in tal modo sono affrontati e per tal via risolti. Innanzitutto, però, al discorso credo possa giovare la definizione del contesto storico in cui queste vicende trovano ora svolgimento perché le categorie giuridiche – come si sa – vivono un’esistenza fortemente condizionata dai tempi e dai luoghi e questi oggi per noi si riassumono in una parola: Europa. Propongo dunque – in via di premessa – di adottare una chiave di lettura che possa collocare il tema proprio all’interno di questo quadro. 2 Abuso e rimedi nel diritto civile Il diritto di matrice europea ha già profondamente modificato il diritto civile nazionale e non sembra peraltro che tale forza propulsiva vada spegnendosi. Dal versante della tutela delle condizioni che possano garantire un corretto funzionamento del mercato concorrenziale, come anche dal suo rovescio, vale a dire la tutela del consumatore, ci sono pervenute innovazioni che vanno gradualmente assestandosi nel sistema ordinamentale e nella coscienza degli interpreti. I contenuti sono importanti e molteplici ma piuttosto che ad essi – individuati nella ricca serie di sfaccettature dei congegni tecnici che li connotano – sembra qui più opportuno rivolgere lo sguardo ad un problema di metodo. Non saprei dire se si possa parlare di una svolta metodologica oppure solo di una linea di tendenza normativa incoraggiata o esaltata da un buon numero di studiosi – invero in continuo aumento – ma le parole chiave sono chiare e ormai ricorrenti: «perdita della fattispecie» e dunque «rimedi». Il diritto di matrice europea ha convinto molti che la stessa tradizionale formalizzazione degli interessi giuridicamente rilevanti attraverso la categoria basilare, di pandettistica ascendenza, del diritto soggettivo non risponda più ad un modello nomopoietico assoluto e indefettibile, che anzi lascia sempre L’ABUSO DEL DIRITTO TRA DIRITTO CIVILE E TRIBUTARIO più spesso il posto ad una costruzione di regole operative – per così dire – a posteriori, proprio perché la fattispecie attributiva del diritto nelle norme è solo accennata o manca affatto. Al contrario, il bisogno di tutela che emerge in relazione a siffatti interessi si raccorda a strumenti variabili e graduabili, fortemente orientati a prospettive di valutazione che tengono conto di criteri come l’adeguatezza, la proporzionalità, la ragionevolezza, di cui il rimedio non potrebbe dirsi solo permeato perché, in realtà, le linee guida della risposta in termini rimediali si colgono nella logica del massimo avvicinamento dell’interesse alla sua concreta possibilità di soddisfazione in termini di semplicità, rapidità, economicità e soprattutto effettività. Basterebbe richiamare la disciplina in tema di vendita di beni di consumo. A tal stregua, ben si comprende dove vada a parare questo ordine di riflessioni: un sistema normativo organizzato nella prospettiva rimediale non ha più molto a che spartire con la categoria del divieto dell’abuso del diritto semplicemente perché il diritto di cui si possa abusare sbiadisce, perdendo consistenza e smarrendo una reale capacità connotativa di singole situazioni giuridiche soggettive, la cui destrutturazione teorico-operativa comporta lo spostamento del punto di rilevanza ermeneutica – per dirla con Emilio Betti – verso la soddisfazione, nei termini anzidetti, dell’interesse non realizzato. In sintesi e con qualche approssimazione icastica potrebbe pure affermarsi che se la teoria dell’abuso guarda al comportamento dell’autore dell’atto che si assume abusivo, quella del rimedio si appunta sulla valutazione delle «condizioni di ammissibilità» della reazione del soggetto che lamenti la lesione del suo interesse. Anche se la prospettiva rimediale non dovesse convincere, rimarrebbe pur sempre vero che il diritto di matrice europea non ha offerto al diritto civile una significativa spinta per una rinnovata o rinvigorita teorica del divieto dell’abuso del diritto. Tanto ciò è vero che le fortune di questa categoria sono da rinvenirsi proprio e soltanto nelle più recenti elaborazioni della giurisprudenza domestica, specie con la fondamentale decisione del 2009: il c.d. «caso Renault», sul quale, a breve, avremo modo di tornare. 3 L’avvento dell’abuso nel diritto tributario Ben diverso è quanto accaduto nel diritto tributario: fino a pochi anni fa sembrava che il muro eretto contro l’affermazione del principio dell’abuso del diritto non potesse essere abbattuto almeno fino a quando una diversa scelta, espressamente operata dal legislatore, non avesse portato ad evidenza normativa una generale regola antielusiva: sicché la teorica dell’abuso sembrava destinata a rimanere rinchiusa negli stretti e invalicabili confini dell’art. 37 bis, d.p.r. 29.9.1973, n. 600, e ciò perché il suo ambito applicativo non poteva sfuggire ai limiti ricavabili dal suo 3° co., che individua con incedere tassativo le operazioni assoggettabili al disposto normativo. In ogni caso, poi, la disposizione vale solo per il settore delle imposte sui redditi. 10 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA DIRITTO CIVILE E TRIBUTARIO Qualche cosa di importante era accaduto nel 2005 con le tre sentenze della Suprema Corte in tema di dividend washing e dividend stripping ma il paradigma concettuale al quale si fece ricorso in quell’occasione non era il divieto dell’abuso del diritto. Ad essere chiamate in gioco – in funzione antielusiva – furono le classiche categorie civilistiche della causa illecita e della frode alla legge e fintanto che ci si serve di esse è chiaro che dell’abuso del diritto non v’è bisogno. Ma fu una stagione di breve durata. L’idea che si fosse in tal modo operata una svolta si rivelò ben presto effimera, travolta, come fu, già nel 2006, dal repentino avvento della giurisprudenza europea in tema di abuso del diritto. Poi seguita, completata e infine consolidata, tra il 2006 e l’oggi, da quella della nostra Suprema Corte. Nel diritto tributario, dunque, il processo di europeizzazione, attraverso la Corte di Giustizia, ha spalancato le porte ad una teorica dell’abuso come strumento di contrasto all’elusione che vediamo espandersi ogni giorno di più con pervasiva capacità di penetrazione. 4 Intermezzo di sintesi A questo riguardo sembra dunque che si possa fondatamente affermare che Europa significa cose ben diverse quanto ad abuso del diritto nel campo del diritto civile e tributario: chiusura degli spazi applicativi o, al più, persistenza di una situazione sostanzialmente inalterata nel primo; affermazione diretta e su vasta scala del principio nel secondo, il quale sembra aver perso ogni remora, accettando così anch’esso la possibilità di una scomparsa della fattispecie o – il che non è troppo diverso – di un ricorso ad una fattispecie dai contenuti così ampli e generali che della più tradizionale e meticolosa descrizione della fattispecie alla quale eravamo abituati conserva ben poco. Si badi bene però: se ci si accosta al problema nei termini proposti, emerge chiaramente un elemento differenziale ma anche un tratto comune: la differenza riguarda le sorti della teorica dell’abuso tra diritto civile e tributario sulla scorta del diritto europeo: misere e regressive in un caso, magnifiche e progressive – per così dire – nell’altro. Ma occorre guardare anche alla sostanza delle cose squarciando il velo delle sovrastrutture categoriali e così è possibile apprezzare il tratto comune: in un caso come nell’altro il diritto europeo ha comportato l’adozione di tecniche regolative e/o valutative meno ancorate alla precisa tipizzazione della fattispecie e, per converso, maggiormente attente a cogliere il profilo funzionale degli atti posti in essere dai privati nell’esercizio dell’autonomia negoziale. Si tratta allora di vedere quali conseguenze ciò abbia provocato. 5 Abuso e controllo degli atti di autonomia privata Si è già accennato al fatto che nel diritto civile la teorica dell’abuso ha ricevuto nuova linfa non dal diritto europeo ma da un’evoluzione interna alla 11 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA DIRITTO CIVILE E TRIBUTARIO giurisprudenza nazionale. D’altra parte, per quanto ampia sia stata l’influenza del diritto di matrice europea, nel diritto civile vasti settori non ne sono toccati affatto o ne hanno subito un’influenza marginale. Limito in questa sede, per forza di cose, i riferimenti a quanto mi pare maggiormente significativo ed emblematico. Nel 2007 la Suprema Corte (Cass., S.U., 15 novembre 2007, n. 23726) ha stabilito che non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto dell’obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale. Questa decisione porta subito in primo piano uno dei temi più controversi e dibattuti della figura teorica dell’abuso, della quale sovente si lamenta una non chiara distinzione concettuale dalla buona fede quale criterio relazionale di apprezzamento delle reciproche condotte poste in essere dai soggetti di un rapporto giuridico. Se la buona fede, in senso oggettivo, fonda una regola di correttezza dell’agire negoziale che ha come punto di riferimento essenziale il rispetto dovuto alla preservazione degli interessi di controparte, allora la figura dell’abuso può guadagnare autonomia solo se serve a far emergere una diversa sfera problematica dell’esercizio di un diritto soggettivo. Qui infatti le modalità della richiesta giudiziale del creditore, per affrancarsi dalla prospettiva di valutazione offerta dal canone di buona fede, devono venire in considerazione sotto il profilo di uno sviamento finalistico del potere spettante al soggetto a cui l’atto è riferibile. Sicché l’abuso sta in una sorta di esercizio del diritto deviato dalla ratio per la quale il diritto stesso è attribuito, in guisa che possa affermarsi che mediante l’atto di esercizio del diritto non vengano conseguite utilità conformi all’interesse tutelato. Questa decisione ha avuto un impatto applicativo indubbiamente notevole anche se i suoi risvolti applicativi possono apprezzarsi innanzitutto sul piano processuale della stessa proponibilità delle plurime azioni frazionate. Ma è del 2009, come si è detto, la decisione della Suprema Corte che – per ricchezza argomentativa e generalità degli assunti prospettati – costituisce ora la pietra miliare della teorica dell’abuso nel nostro ordinamento. Cass., 18.9.2009, n. 20106 ha infatti stabilito che si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della 12 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA DIRITTO CIVILE E TRIBUTARIO controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti. Ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca un’ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, giacché ciò che è censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso di esso. Appare chiaro, innanzitutto, che nonostante lo sforzo argomentativo profuso, i giudici di legittimità non sono riusciti ad approdare con assoluto rigore ad acquisire e tener fermi saldi criteri distintivi tra buona fede e abuso del diritto ed infatti su questo versante si sono concentrate molte critiche dei numerosi annotatori di questa decisione, che peraltro non brilla neanche per la rispondenza a verità dell’«excursus giurisprudenziale» che la Suprema Corte pretende di porre a fondamento delle proprie tesi, le quali, se si procede con media attenzione ai dovuti riscontri, sono invero più smentite che corroborate da tali richiami. Ma in questa sede conviene concentrare il discorso sugli aspetti maggiormente funzionali al ragionamento che si sta cercando di portare avanti. La Suprema Corte, in realtà, ha dovuto prendere posizione su una questione che, assunta nella sua valenza più generale, acquista rilievo preminente per ogni ramo dell’ordinamento nel quale vengano in considerazione valutazioni in ordine alle scelte compiute dai privati nell’esercizio della propria autonomia negoziale. In definitiva, il discorso impinge proprio il fondamento e il limite della libertà delle determinazioni economico-giuridiche anche quando esse – formalmente – si svolgano all’interno di una cornice attributiva astrattamente legittimante. I giudici di merito avevano ritenuto che la valida pattuizione di un recesso ad nutum non consentisse di sottoporre il relativo atto di esercizio ad un sindacato giurisdizionale volto ad indagare le ragioni poste a fondamento della scelta di valersi del diritto di recedere. Diversamente si opererebbe un’indebita invasione nelle scelte di merito, economico-strategiche, che competono esclusivamente ai privati tanto che siffatta ingerenza del giudice assumerebbe connotazioni politiche che trascendono le funzioni della magistratura. In ultima analisi, non si fatica a scorgere il vero punctum dolens dell’intera vicenda: un conflitto interno alla magistratura in ordine all’esercizio della propria funzione. La replica della Suprema Corte è che tale potere di controllo non risponde ad un’indebita ingerenza politica nella sfera di competenza riservata al privato bensì di una doverosa e non eludibile esigenza di verifica della rispondenza di ogni diritto, potere, facoltà alle ragioni che ne giustificano il riconoscimento giuridico, il quale non esaurisce la sua funzione nel momento in cui provvede a stabilire le condizioni di validità che garantiscono la costituzione della situazione giuridica nella sua 13 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA DIRITTO CIVILE E TRIBUTARIO astratta configurazione potenziale ma accompagna tutti i comportamenti che la traducono in atto in guisa che solo una valutazione a posteriori, allargata a tutte le circostanze del caso, restituiscano un significato complessivo giuridicamente apprezzabile. Solo a tal stregua risulterà possibile stabilire se la «cornice attributiva del diritto» corrisponde ad un esercizio corretto che di esso il privato abbia fatto, a nulla rilevando, dunque, la preventiva tipizzazione dello schema formale di cui il soggetto si sia servito. Il possibile sviamento in cui l’abuso consiste presuppone infatti la titolarità della situazione soggettiva e risulta rilevabile alla luce di un complesso circostanziale che per essere adeguatamente apprezzabile non può che fare riferimento a termini di raffronto esterni all’atto visto che formalmente, in apparenza, esso, come i suoi effetti, corrisponde alla fonte che lo legittima. Potrebbe dirsi, pertanto, che il controllo giudiziale condotto in base al paradigma dell’abuso spezza il nesso fonte-atto-effetto mettendone in discussione l’automatismo fondato sulla sola ricorrenza degli elementi ricavabili dalla fattispecie originaria – costruita a priori – e dà così luogo alla costruzione di una seconda fattispecie arricchita di tutti gli elementi resi rilevanti da un processo di selezione che non può procedere – retrospettivamente – se non attraverso il confronto dell’atto con altri atti del medesimo tipo. In tal modo lo scopo perseguito dall’autore dell’atto, al di là di ogni sua possibile connotazione psicologistica, andrà incontro ad un processo di normalizzazione e oggettivazione che lo rendano comparabile, in termini di liceità o abusività, con un modello di atto che non è più quello astrattamente concepibile in relazione alla fonte che lo prevede ma con un modello che si modifica e si specifica in relazione alle singolari e concrete dinamiche della vicenda giuridica della quale entra a far parte. Perdita della fattispecie, se si tiene ad usare questa espressione, significa, più propriamente lo smarrimento indotto da uno schema di ragionamento che privilegia non tanto la previsione di un fatto che potrà accadere, stabilendo in anticipo le conseguenze che ne deriveranno, ma descrizione di un fatto che è accaduto, nella irripetibile individualità e complessità del suo accadere, al fine di stabilire se gli effetti divisati dalla fattispecie originaria possano realmente prodursi così come essa li aveva organizzati o se, pur così realizzandosi, tali effetti non comportino anche conseguenze illecite, produttive di danno ingiusto, che, pur non alterando l’effetto conseguito, espongano l’autore dell’atto da cui esse derivano ad una obbligazione risarcitoria in vario modo commisurabile alla lesione subita dal soggetto contro cui opera l’atto sviato dalla sua funzione. 6 Abuso e ingiustificato risparmio fiscale Diversamente da quanto accaduto nel diritto civile, l’avvento della teorica dell’abuso nel diritto tributario è strettamente dipendente dal diritto europeo e non si fatica a individuarne con certezza la data di nascita: il 21.2.2006 la Corte di Giustizia, nella sentenza Halifax, ha stabilito che il formale rispetto 14 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA DIRITTO CIVILE E TRIBUTARIO delle condizioni previste dalle disposizioni della Sesta Direttiva e della legislazione nazionale che la traspone non legittimano il soggetto passivo IVA a detrarre l’imposta assolta a monte quando vengono poste in essere operazioni che procurano un vantaggio fiscale la cui concessione è contraria all’obiettivo perseguito da quelle disposizioni ed hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. Come ben sappiamo, si è così realizzato l’innesco di una sorta di reazione a catena nella quale il secondo tempo della partita ha visto entrare in campo in modo davvero decisivo la nostra Suprema Corte. L’estensione di questa nuova teorica dell’abuso, infatti, non poteva trovare adeguato fondamento nei principi stabiliti nel Trattato CE quando l’estensione fosse portata sul piano della fiscalità diretta. In tema di tributi non armonizzati occorreva dunque un fondamento diverso, in difetto del quale, nell’aprile del 2008, la Suprema Corte era andata incontro a critiche decise e decisive. Occorreva pertanto una reazione forte, adeguata e – se possibile – conclusiva. Sul finire del 2008 le Sezioni Unite hanno trovato la base normativa che avrebbe potuto essere invocata sin dall’inizio, ben prima della sentenza Halifax, e in modo pervasivo ed indistinto per tutti i rami della fiscalità. Ciò che ha costituito la via di uscita dal problema avrebbe infatti potuto rappresentarne la chiave di soluzione originaria e generale, senza dover attendere che fosse la giurisprudenza europea ad accendere la miccia. Aver reso operativamente fruibile a tal fine l’art. 53 Cost. non è stata una scelta coraggiosa ma ritardata perché i principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione esprimono in sé una regola incontestabilmente precisa e non bisognosa di concretizzazioni ulteriori per legittimare il disconoscimento dei vantaggi ottenuti mediante operazioni elusive. Si può dubitare, tuttavia, che la Suprema Corte abbia in tal modo operato un definitivo sganciamento dalla disciplina civilistica, come afferma il mio amico e collega di Facoltà Giuseppe Corasaniti: il futuro non si può ipotecare! Guardare infatti alla inopponibilità degli effetti fiscali degli atti elusivi non significa per ciò stesso escludere la patologia, in senso civilistico, degli atti in questione. Essa, al contrario, costituisce il presupposto implicito del disconoscimento. L’atto elusivo potrà pure essere riguardato da prospettive differenti ma rimane comunque e sempre il medesimo atto e, se il suo scopo (che, nella sostanza, equivale a dire la sua ragione pratica) unico, essenziale o prevalente che dir si voglia corrisponde ad un risultato dall’ordinamento non consentito, al civilista risulta non facile spiegare – foss’anche ai suoi studenti di Istituzioni di diritto privato – perché quell’atto dovrebbe essere considerato valido. In realtà – e qui concludo – la sensazione di fondo è che tutta la vicenda della teorica dell’abuso del diritto nel campo tributario muova da un allontanamento da una prospettiva unitaria dell’ordinamento giuridico che, 15 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA DIRITTO CIVILE E TRIBUTARIO inducendo scissioni innaturali e artificiose tra diritto civile e tributario, ha finito col precludere il ricorso a categorie note e consolidate del diritto civile, costringendo così i nostri amici tributaristi a mettere a punto, sia pure attraverso percorsi faticosi e non lineari, strumenti forse ugualmente efficaci ma probabilmente non necessari. 16 Prof. Pietro Adonnino Professore Università di Roma Abusi della contestazione dell’abuso del diritto della U.E. Un contributo a questo convegno, dagli orizzonti assai ampi ma dalle finalità ben precise nella ricerca della demarcazione tra diritto e abuso, può essere quello dell’analisi di come si manifesta nel settore tributario il contrasto all’abuso del diritto previsto dall’ordinamento U.E. 1 Il tema dell’AD in campo tributario e, quindi, della demarcazione tra diritto e abuso, rileva in relazione ai modi in cui i contribuenti si comportano nella valutazione e nella conseguente attuazione di quanto normativamente previsto, ma riguarda anche i comportamenti dell’Amministrazione e della giurisprudenza nel contestare l’abuso del diritto in relazione a concrete fattispecie poste in essere dai contribuenti. Il tema si iscrive nella incertezza della sua definizione e della sua concreta possibilità di incidere sulla legalità di rapporti giuridici, dovuta all’origine non già normativa ma di derivazione normativa per quel che riguarda il principio come elaborato dalla giurisprudenza nell’ordinamento italiano. Per quanto riguarda l’ordinamento della U.E., l’abuso del diritto trae origine da enunciazioni di principio previste dai Trattati, da riferimenti specifici previsti da direttive, e da elaborazioni giurisprudenziali che ne delimitano l’area dei rapporti giuridici che può influenzare, si iscrive nei rapporti tra ordinamento della U.E. ed ordinamenti degli Stati membri, ed è condizionato, nelle trasposizioni applicative nell’ambito dei singoli ordinamenti nazionali, da precise statuizioni procedurali. 2 La natura e la portata dell’AD come strutturato nell’ordinamento della U.E. è quindi diverso da quello da ultimo emerso nell’ordinamento italiano. Quest’ultimo esercita una funzione di supplenza, anche in assenza di norme specifiche, per contestare operazioni mancanti di caratteristiche idonee a legittimarle. Quello europeo riguarda anche settori diversi da quello tributario ed è più articolato in quanto è previsto quale principio generale nei trattati, con riferimento a diritti e libertà, enunciato in direttive ed interpretato e chiarito nei suoi limiti dalla elaborazione giurisprudenziale. Differisce da quello nazionale in quanto non esercita alcuna funzione di supplenza di norme nazionali mentre ne condiziona la legittimità e quindi ha un ruolo del tutto particolare nell’esercizio da parte dell’Amministrazione del contrasto che può ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E. manifestarsi quale abuso ed altera il corretto funzionamento dei rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale. Il principio contenuto nell’ordinamento della U.E. non è di diretta applicazione ma è fondamentalmente criterio di verifica della legittimità di norme degli ordinamenti nazionali che lo prevedono e quanto alla trasposizione, anche applicativa, nei singoli ordinamenti richiede valutazioni e confronti costituenti un vero e proprio filtro. 3 La preoccupazione di assicurare corretti flussi di entrate tributarie denota da tempo la tendenza da parte della giurisprudenza e, di seguito da parte dell’Amministrazione, in assenza di invocati necessari interventi del legislatore, di interpretare singole fattispecie costituenti presupposti di imposizione in una visuale di contrasto a possibili comportamenti illegittimi che, apprezzabili nelle sue finalità, spesso fuoriescono dai confini della corretta interpretazione, evidenziando una esasperata strumentalizzazione. Egualmente per quel che riguarda la trasposizione delle previsioni dell’ordinamento della U.E. nell’ordinamento nazionale, sia in relazione al prelievo tributario concernente transazioni intracomunitarie che per quanto riguarda l’uniformità di regolamentazione concernenti transazioni che si esauriscono all’interno dei singoli ordinamenti nazionali, l’Amministrazione tende a fuoriuscire dai confini della corretta interpretazione del diritto e della giurisprudenza comunitari evidenziando altrettante esasperate strumentalizzazioni, comportanti abuso. Si manifesta, quindi, in tutta la sua attualità il tema del convegno. 4 L’AD previsto dall’ordinamento della U.E., di possibile contestazione ai contribuenti, è più limitato di quello elaborato nell’ordinamento nazionale e, soprattutto, è condizionato dalla interferenza dell’ordinamento comunitario sugli ordinamenti nazionali ed è regolato da norme e principi, valutati dalla giurisprudenza. L’abuso da parte dell’Amministrazione del principio comunitario si manifesta con la sua non corretta invocazione, oltre i limiti che gli sono propri, sulla base di affermazioni generiche non aventi alcun contenuto di giuridicità, senza considerazione dei ricordati condizionamenti e si manifesta in modo del tutto particolare quando utilizza il principio comunitario in funzione di supplenza di norme nazionali, non idonee alla contestazione, non considerandone i limiti e le complesse norme che regolano i rapporti tra ordinamenti comunitari ed ordinamenti nazionali come elaborate dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. L’abuso è manifesto quando la contestazione della violazione di norme nazionali è puramente formale ma è il riferimento al principio dell’AD di 18 ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E. natura europea la vera ragione giuridica della contestazione, in assenza del quale la stessa non avrebbe potuto essere rilevata. L’abuso da parte dell’Amministrazione del principio, se convalidato da successiva giurisprudenza, pregiudica i rapporti tra ordinamenti e potrebbe portare, in ultima analisi, anche a procedimenti di infrazione. 5 Per meglio comprendere la dinamica dell’abuso in relazione a principi e procedure violati può essere utile percorrere una concreta esperienza professionale, contestualizzando considerazioni di quadro in una attività accertativa concreta, nella quale possono individuarsi ambedue gli aspetti di abuso ricordati, quello della assoluta non conoscenza o comunque non considerazione delle norme e delle procedure che regolano la materia e quello della supplenza di norme nazionali non idonee a fondare la contestazione. Con avvisi di accertamento è stato negato il diritto alla detrazione dell’IVA ed alla deduzione delle quote di ammortamento ai fini IRAP e IRES in relazione ad una transazione di compravendita immobiliare nell’ambito di una operazione di leasing. È stata contestata la violazione dell’art. 19 c. 1 DPR 633/72 nel primo caso e dell’art. 102 c. 7 e 109 TUIR nel secondo caso. Quanto ai presupposti di fatto non è stata rilevata alcuna violazione diretta di quanto previsto dai ricordati articoli. Per l’art. 19 c.1 la detrazione dell’IVA è condizionata dal riferimento a beni e servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa; per l’art. 107 c.2 la deduzione delle quote di ammortamento è limitata nella misura risultante dal piano di ammortamento finanziario; per l’art. 109 la deduzione è subordinata alla imputazione al conto economico relativo all’esercizio di competenza. Tutti i previsti condizionamenti e limiti sono risultati rispettati nel caso di specie. Sotto il profilo delle norme indicate, detrazione e deduzioni non avrebbero potuto essere contestate. Per legittimare la contestazione, l’Amministrazione ha invocato la sentenza della Corte di Giustizia 6/7/06, cause riunite C-439/04 e c-440/04 Kittel, dalla quale ha tratto l’espressione di un obbligo per il giudice nazionale di negare la detrazione ad un soggetto passivo per il quale “risulti acclarato, sulla base di elementi obiettivi, che egli sapesse o avrebbe dovuto sapere di partecipare, con il proprio acquisto, ad una operazione che si iscriveva in una frode all’imposta sul valore aggiunto. La sentenza Kittel è stata adottata a seguito di un rinvio pregiudiziale proposto nell’ambito di un contenzioso nazionale ed ha avuto ad oggetto l’interpretazione di una norma (l’art. 17) della VI direttiva IVA; si tratta, quindi, di una sentenza interpretativa. 19 ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E. 6 La Fonte primaria del principio europeo di contrasto dell’abuso di diritto si fa risalire, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2000 (2 dicembre 2009), al novellato art. 54 Trattato U.E. che riproduce quanto previsto dall’art. 17 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. L’abuso del diritto è concepito quale divieto di interpretare alcuna disposizione del Trattato nel senso di esercitare una attività o compiere un atto che miri a distruggere diritti o libertà riconosciute dal Trattato stesso o ad imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste. L’abuso del diritto così concepito non può quindi prescindere dai diritti e dalle libertà riconosciute dal Trattato stesso. Si tratta di un principio generale che necessita, di per sé, di ulteriori articolazioni per divenire in una qualche misura imperativo. Il Trattato U.E. enuncia, dalla costituzione della Comunità, le 4 libertà fondamentali su cui si basa, libera circolazione di beni, persone – in particolare diritto di stabilimento per professionisti e imprese –, capitali e servizi. Sono quelle che non possono comunque essere violate, in assoluto, anche in settori la cui competenza normativa è attribuita agli Stati, quale quello dei tributi non armonizzati. Eventuali norme che violassero le libertà costituirebbero abuso del diritto, come emerge chiaramente dalle sentenze della Corte Europea casi C-373/97 e C367/96 (norma danese), C-206/94 (norma tedesca), C-167/01 (norma olandese). Previsioni anti-abuso sono contenute nelle direttive, sia come richiesta agli Stati di inserirle nelle legislazioni interne, sia come legittimazione di iniziative legislative in tal senso da parte dei singoli Stati. La fonte più frequente del contrasto all’abuso del diritto nell’ordinamento della U.E. è l’elaborazione giurisprudenziale da parte della Corte di Giustizia, che viene di norma invocata e che, se non correttamente letta, è a sua volta fonte di abuso del contrasto all’abuso del diritto. I limiti, le procedure di trasposizione nell’ordinamento nazionale e la vis espansiva della giurisprudenza condizionata dalle procedure, sono elementi dai quali non si può prescindere per valutare la correttezza dell’uso del principio quale base giuridica di contestazioni di violazione di norme. 7 Il principio dell’AD europeo, di cui si discute, è dunque tratto dall’interpretazione di una norma contenuta in una direttiva. La direttiva obbliga in primo luogo lo Stato cui si rivolge ad adottare misure di esecuzione. Solo nell’eventualità che rimanga inattuata spiega effetti diretti che consistono esclusivamente nel riconoscere agli individui la facoltà di 20 ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E. invocare le previsioni della direttiva stessa nei confronti dello Stato inadempiente al fine di conseguirne posizioni soggettive di vantaggio. La direttiva non produce obblighi a carico di soggetti individuali non essendo questi destinatari della stessa. La Corte di Giustizia, Grande Sezione, nella sentenza 17/7/08 in cause riunite da C-152/07 a C-154/07 Arcor ha statuito che “secondo una giurisprudenza costante una direttiva non può, di per sé, creare obblighi a carico dei singoli ma solo diritti” (par. 35). In base a tale chiara statuizione sono da valutarsi le pronunzie della Corte Europea in tema di detrazione IVA. Anche la sentenza Kittel, come le altre che si sono pronunziate sulla medesima materia, ha rilevato che l’art. 4 della VI Direttiva stabilisce un diritto soggettivo alla detrazione dell’imposta a favore del soggetto passivo. Tale diritto, determinato nel suo contenuto dal legislatore nazionale, è stato verificato quanto alla sua portata. Ed è stato osservato che osta ad una norma di diritto nazionale secondo cui l’annullamento del contratto di vendita per effetto di una disposizione di diritto civile che sanziona tale contratto con la nullità assoluta in quanto contrario all’ordine pubblico per una causa illecita perseguita dall’alienante, comporta per tale soggetto passivo, la perdita del diritto alla detrazione (si tratta della questione rimessa alla Corte da un giudice belga, che ha dato ingresso alla sentenza Kittel). La Corte ha però anche precisato che la VI Direttiva non intende conferire un diritto alla detrazione a favore del singolo quando “risulti acclarato, alla luce di elementi obiettivi, che la cessione è stata effettuata nei confronti di un soggetto passivo che sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare con l’acquisto ad una operazione che si iscriveva in una frode all’IVA”. La corretta trasposizione del contenuto del diritto nell’ambito dell’ordinamento nazionale deve quindi far seguito ad una norma che preveda che i singoli non possono avvalersi del diritto soggettivo alla detrazione nelle ricordate circostanze e che, in quanto tale, non contrasti con il rilevante diritto comunitario. È sulle basi di una simile previsione normativa che il giudice nazionale può negare il diritto ed è questa norma a costituire fondamento giuridico della sua decisione. Il fondamento non può essere rinvenuto nella VI Direttiva che si limita ad imporre agli Stati membri di concedere ai singoli un diritto alla detrazione limitabile nella sua portata oggettiva. Lo Stato italiano non ha esercitato tale facoltà o, comunque, non ha attuato tale obbligo in quanto con l’art. 19 c. 1 ha riconosciuto un diritto alla detrazione non ulteriormente qualificato. 8 In ogni caso è necessario determinare i limiti di applicazione delle statuizioni della sentenza, delimitarne quindi la vis espansiva in base al carattere verticale della dottrina degli effetti diretti. 21 ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E. La sentenza Kittel è una sentenza interpretativa. Principio fondamentale di teoria del diritto è quello che una sentenza interpretativa può allargare o restringere la portata soggettiva ovvero oggettiva di un atto ma non può conferire all’atto interpretato effetti maggiori di quelli che sono propri della natura dell’atto medesimo. L’interpretazione di una disposizione da parte della Corte Europea spiega effetti nell’ambito dell’ordinamento nazionale limitatamente alla fattispecie rispetto alla quale è stata adottata ovvero anche a fattispecie diverse che siano però strutturalmente e funzionalmente analoghe alla prima. Si tratta di un principio generale di teoria dell’interpretazione. Se ne trae, a contrario, cognizione che l’interpretazione della Corte non si estende a fattispecie apparentemente analoghe ma non dotate di quel nesso di fungibilità funzionale e strutturale con la fattispecie in relazione alla quale l’interpretazione è stata fornita. La Corte ha indicato ai giudici nazionali la necessità di limitare la portata applicativa di un principio interpretativo stabilito in una precedente sentenza alle circostanze specifiche del caso in riferimento al quale era stato pronunziato, in tutte le sentenze relative a casi in cui la questione era stata espressamente sollevata (fra le tante 30/4/96 Bestuur van de Sociale Verzekeringsbank, causa C-308/93, e 12/2/08 causa C-2/06 Kempter). 9 Avendo manifestato, nel caso in esame, di non avere alcuna cognizione specialistica dell’ordinamento della U.E., l’Amministrazione non ha provveduto ad individuare in relazione a quale fattispecie relativa alla detrazione IVA si fosse pronunziata l’invocata sentenza Kittel, una delle tante nelle quali è stato qualificato l’abuso del diritto in relazione ad una fattispecie specifica. L’applicabilità della dottrina dell’abuso del diritto alla detrazione IVA era stata affermata dalla Corte nella sentenza della Grande Sezione del 21/2/06 in causa C-255/00, Halifax. La statuizione era stata piuttosto drastica “I singoli non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente delle norme comunitarie”. Ha provveduto l’Avvocato Generale a rilevare che il principio, così enunciato, in forma generale e ridondante, di per sé non può chiarire se un diritto derivante da una specifica disposizione comunitaria sia stato esercitato in maniera abusiva. Ed ha precisato che perché il principio diventi operativo occorrono una dottrina o un criterio più puntuali, indicandone i presupposti ed i limiti. La sentenza Kittel ha pronunziato in termini di una fattispecie qualificabile “frode carosello”, alla quale fa specifico riferimento, limitando di conseguenza l’efficacia della statuizione a tale fattispecie ovvero a fattispecie analoghe purché dotate, come ricordato, di nesso di fungibilità funzionale e strutturalecon la frode carosello, le cui caratteristiche erano state descritte 22 ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E. dettagliatamente nelle sentenze precedentemente riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03 Optigen (par. 13). Non può essere messo in dubbio che la formula “sapeva o avrebbe dovuto sapere” non costituisce una formula generica applicabile a qualsivoglia caso in cui il giudice nazionale possa presumere la conoscenza del soggetto coinvolto in una operazione diretta ed effettuare una frode all’IVA. Tale formula è riferibile esclusivamente, stante alla sentenza Kittel, alla fattispecie concreta definibile frode carosello. La Cassazione in alcune sentenze (tra le altre 1364/2011) ha riferito il principio della conoscenza all’art. 19 c. 1 DPR 633/72; ha valutato le operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti quali elementi qualificanti della frode carosello, aggiungendo (n. 1953/2011) che il meccanismo della operazione e gli scopi che la stessa si propone fanno presumere la piena conoscenza della frode e la conseguente partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario, con la conseguente indetraibilità dell’IVA. Il riferimento può trovare spiegazione nella mancanza, in siffatta situazione, del requisito di operazione compiuta nell’esercizio di impresa. A maggior ragione si convalida la limitazione dell’utilizzo del principio alla frode carosello. Le caratteristiche delle operazioni considerate nel contenzioso cui qui si fa riferimento nessun nesso di fungibilità funzionale-strutturale hanno con la frode carosello; la stessa Amministrazione non l’ha ritenuta tale ed anzi ha lasciato intendere di non ritenerla tale. 10 L’uso strumentale dell’abuso del diritto come riferibile al diritto comunitario, quindi il suo abuso, è evidenziato in modo ancor più lampante quando si consideri che la sentenza Kittel, che ha pronunziato in tema di IVA, è stata indiscriminatamente evocata anche per legittimare le contestazioni in tema di IRAP ed IRES, tributi diretti, quindi non armonizzati. La giustificazione la si trova in frasi generiche e dalla nessuna rilevanza giuridica quali quella che qualifica il riferimento alla medesima sentenza C439/04, C-440/04 quale paradigmatica di una costante attenzione rivolta alla corretta applicazione da parte dei contribuenti e degli Stati nazionali dei diritti derivanti dalle fonti comunitarie; ovvero che la pronunzia (della Corte Europea nella ricordata sentenza) non è che la conferma dell’orientamento espresso dalla Corte per il quale gli interessati non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario; ovvero ancora che si tratta di principi ricavabili dalla interpretazione delle norme della direttiva applicabile erga omnes. È fin troppo evidente la confusione tra imposte armonizzate (IVA) ed imposte non armonizzate (IRAP e IRES) per la quale una statuizione in sede di interpretazione della VI diretta IVA dovrebbe esprimere efficacia anche ai 23 ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E. fini delle imposte dirette non armonizzate, ed è, quindi, troppo evidente l’abuso da parte dell’Amministrazione. Il tema dell’abuso del diritto quale ipotesi di principio fondamentale del diritto comunitario limitato alle imposte armonizzate ovvero esteso quale abuso di libertà fondamentali anche alle imposte non armonizzate è stato posto dalla Cassazione con l’ordinanza 22309 del 3/11/2010 con cui ha chiesto alla Corte Europea di pronunziarsi in via pregiudiziale in questioni di interpretazione del diritto comunitario e, tra l’altro, anche in quello enunciato, facendo un preciso riferimento alle sentenze in causa C-255/02 e C-425/06 Halifax e Part Service, peraltro limitatamente alla imposizione di fatti economici transnazionali quale l’acquisto di diritti di godimento da parte di una società in azioni di un’altra società avente sede in un altro Stato membro o in un altro Stato terzo. La Cassazione, quindi, non si è nemmeno posta il problema che l’AD possa costituire principio del diritto comunitario in materia di tributi non armonizzati, tranne, eventualmente, che si tratti di imposte aventi per oggetto fatti economici transnazionali. La Corte Europea con la sentenza 29/3/2012 nel caso C-417/2010 al punto 32 è stata chiarissima statuendo che “nel diritto dell’Unione non esiste alcun principio generale dal quale discende un obbligo per gli Stati membri di lottare contro le pratiche abusive nel settore della fiscalità diretta”. L’Amministrazione, come visto, ha fondato un accertamento avente ad oggetto tributi diretti su di un preteso principio generale di diritto europeo di AD, desunto peraltro da una sentenza della Corte Europea in tema di IVA, che non esiste. In questo caso la strumentalizzazione, e quindi l’abuso dell’utilizzo di un principio di contrasto all’abuso del diritto, è assolutamente manifesta. 11 Dalle ricordate esperienze possono trarsi tre considerazioni. Una prima riguarda il fatto che un principio dell’ordinamento della U.E. di contrasto all’abuso del diritto non può indiscriminatamente essere invocato in interventi accertativi dell’ordinamento nazionale per supplire alla mancanza di idonei strumenti normativi. Una seconda riguarda il fatto che quand’anche possono esservi validi motivi per l’utilizzo del principio questi non possono prescindere dalla verifica della natura e dei limiti di utilizzabilità del principio stesso. La terza riguarda il fatto che non esiste nell’ordinamento della U.E. un principio di abuso del diritto per quel che riguarda i tributi non armonizzati, del quale quindi non è possibile contestare la violazione. In tutte le ricordate statuizioni, ove non correttamente interpretate, si avrebbe abuso del principio di contrasto all’AD come espresso nell’ordinamento della U.E., con questo interferendo sulla corretta interdipendenza tra i due ordinamenti. 24 ABUSI DELLA CONTESTAZIONE DELL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA U.E. L’abuso da parte dell’Amministrazione, ed eventualmente della giurisprudenza che dovesse validarla, del contrasto a situazioni di abuso del diritto supererebbe i confini dell’ordinamento giuridico nazionale e costituirebbe violazione del diritto della U.E. con ogni possibile conseguenza. 25 Enrico Altieri Già presidente della Sezione tributaria della Corte di Cassazione La codificazione del principio dell’abuso del diritto in campo fiscale 1 Premessa La scelta di dare veste normativa scritta alle clausole generali anti –elusione nel contesto dei diversi ordinamenti costituisce oggetto, da diversi decenni, di un acceso dibattito mondiale. In Italia, dopo tentativi senza esito dei tempi recenti, suscitati dalle pronunce della Cassazione, si è aperto un importante ( e stavolta, sembra, decisivo ) spiraglio a favore di tale scelta col recente disegno di legge – delega governativo in materia fiscale, il quale contiene, all’art. 6, una dettagliata disciplina in tema di operazioni abusive. Occorrerà, quindi, attendere le concrete scelte del Governo nell’adozione dei decreti delegati. Come è avvenuto in altri Paesi, tale scelta viene vivacemente contestata da più parti, particolarmente perché la stessa porterebbe un blocco al contrasto della pianificazione fiscale aggressiva, soprattutto quando la stessa avviene all’interno dei grandi gruppi d’imprese. Prima di esaminare la norma del progetto ci pare opportuno ricordare la disciplina vigente in alcuni Paesi, anche con riferimento all’esistenza di specifiche norme scritte. 2 L’esperienza tedesca Ci sembra che presenti un particolare interesse, anche perché - come posso personalmente testimoniare, quale componente del collegio della Sezione tributaria nelle prime pronunce in materia - ha influito sulla definizione di abuso elaborata dalla Cassazione, la formulazione del § 42, comma 2, della legge generale tributaria ( Abgabeordnung ) tedesca, la quale, nel testo del 1977, prevedeva che «Liegt ein Missbrauch vor, so entsteht der Steueranspruch so, wie er bei einer den wirtschaftlichen Vorgängen angemessenen rechtlichen Gestaltung entsteht» (Se è presente un abuso, sussiste la pretesa tributaria come se esistesse una forma giuridica adeguata all’operazione economica). La recente modifica del § 42 non recepiva un progetto di legge ministeriale del 2008, secondo cui si considerava abusiva l’operazione, da cui conseguiva un vantaggio fiscale, soltanto per il carattere non usuale della forma giuridica impiegata ( «ungewöhnliche Gestaltung» ). Il nuovo testo manteneva, quindi, la precedente definizione «forme non adeguate all’operazione economica», recependo, però, il progetto nella parte in cui addossava al contribuente l’onere della prova dell’esistenza di ragioni extrafiscali. LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO FISCALE Si riporta il testo vigente: § 42 Missbrauch von rechtlichen Gestaltungsmöglichkeiten (1) Durch Missbrauch von Gestaltungsmöglichkeiten des Rechts kann das Steuergesetz nicht umgangen werden. Ist der Tatbestand einer Regelung in einem Einzelsteuergesetz erfüllt, die der Verhinderung von Steuerumgehungen dient, so bestimmen sich die Rechtsfolgen nach jener Vorschrift. Anderenfalls entsteht der Steueranspruch beim Vorliegen eines Missbrauchs im Sinne des Absatzes 2 so, wie er bei einer den wirtschaftlichen Vorgängen angemessenen rechtlichen Gestaltung entsteht. (2) Ein Missbrauch liegt vor, wenn eine unangemessene rechtliche Gestaltung gewählt wird, die beim Steuerpflichtigen oder einem Dritten im Vergleich zu einer angemessenen Gestaltung zu einem gesetzlich nicht vorgesehenen Steuervorteil führt. Dies gilt nicht, wenn der Steuerpflichtige für die gewählte Gestaltung außersteuerliche Gründe nachweist, die nach dem Gesamtbild der Verhältnisse beachtlich sind. §42 Abuso di possibili forme giuridiche (1) La legge fiscale non può essere aggirata attraverso abuso di possibili forme giuridiche. Se si realizza la fattispecie di una disciplina in una singola legge tributaria, gli effetti giuridici devono essere determinati secondo tale disposizione. Negli altri casi la pretesa fiscale, nel caso della presenza di un abuso ai sensi del comma 2, sussiste come quella derivante da una forma giuridica appropriata all’operazione economica. ( E’ presente un abuso se viene scelta una forma giuridica inappropriata, la quale comporta, per il contribuente o un terzo, a differenza di una forma appropriata, ad un vantaggio fiscale legislativamente non previsto. Ciò non vale quando il debitore dà la prova di ragioni extra – fiscali per la forma scelta, che siano desumibili dall’intero quadro dei rapporti). 3 La «economic substance doctrine» negli U.S.A. Il richiamo, contenuto nella sentenza della Sezione tributaria 1372/ 11, alla economic substance doctrine e alla sua recente codificazione, apre un orizzonte sull’esperienza degli USA, la quale offre interessanti spunti anche per l’ordinamento europeo ed italiano 1. La economic substance doctrine è di origine giurisprudenziale. Il leading case è considerato la sentenza della U.S. Supreme Court Gregoring v. Helvering ( n. 293 U.S. 465 del 1935 ), concernente l’acquisto dell’intero 1 L’utilità è stata già colta da molti Autori: si veda Prebble, Z. e J., Comparing the General Anti – Avoidance Rule of Income Tax Law with the Civil Law Doctrine of Abuse of Law, Bulletin for International Taxation, aprile 2008, pag. 151; Lampreave, Las doctrinas judiciales norteamericanas de anti – abuso fiscal ( con especial consideración a la reciente codificación de la doctrina sobre la sustancia económica ) y la doctrina sobre los acuerdos artificiales aplicable en la Unión Europea ( anti – tax avoidance doctrines in the US and the EU ), Westlawes, 2011, n.21, pag. 1; la stessa, An Assessment of the Anti – Tax Avoidance Doctrines in the United States and the European Union, Bulletin for International Taxation, marzo 2012, pag. 153. 28 LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO FISCALE capitale di una società, incorporata da altra società che deteneva un’altra partecipazione, con immediata liquidazione di entrambi i cespiti e percezione dell’importo della liquidazione. Secondo l’amministrazione finanziaria federale ( Income Revenue Service, IRS ), le operazioni avevano il solo scopo di evitare la tassazione sui dividendi. Il giudice di primo grado aveva accolto il ricorso della contribuente; il Second Circuit Court of Appeals2 accoglieva il ricorso dell’IRS e tale decisione veniva confermata dalla U.S. Supreme Court. Interessante è anche, nella prospettiva di una codificazione del principio, quale sollecitata da diverse iniziative legislative, il dibattito che ha preceduto la riforma, nel quale si erano pronunciati in senso negativo, oltre che autorevoli scrittori 3, lo stesso Income Revenue Service e perfino organizzazioni professionali, quali l’American Institute of Certified Public Accountants in un documento del 2009. Anche dopo la codificazione del principio, avvenuta nel 2010, non sono mancate voci critiche autorevoli, e raccomandazioni ad uso cauto dello strumento: particolarmente interessanti le osservazioni della New York State Bar Association, nel suo Report on codification of the economic substance doctrine del 5 gennaio 2011. 4 L’affermazione del principio dell’abuso del diritto in giurisprudenza: ricerca della sua matrice nelle diverse aree impositive e nelle diverse tipologie di operazioni elusive L’attenzione data ai primi casi ( dividend washing e dividend stripping )4 in cui la Cassazione si era posta il problema dell’individuazione di una clausola generale antielusiva appare oggi, sinceramente, sproporzionata, anche perché trascurava il vero e rilevante campo in cui l’impiego dello strumento dell’abuso del diritto deve essere guidato da regole certe. Infatti, dopo l’introduzione del principio in giurisprudenza si è assistito ad un ricorso spesso non adeguatamente motivato alla figura, anche in casi nei quali la scelta – in ossequio ai principi costituzionali e comunitari ( libertà d’impresa, diritto di stabilimento e di libera circolazione dei capitali ) – non 2 E’ rimasta famosa l’opinione espressa dal giudice Hand il quale, pur ritenendo la fondatezza dell’appello dell’IRS, premetteva: « Anyone may so arrange his affairs that the taxes shall be as low as possible; he is not bound to choose that pattern which will best pay the treasury; there is not even a patriotic duty to increase one’s taxes » 3 Di particolare interesse, Ventry, D. jr, Save the economic substance doctrine from Congress, Tax Notes, 2008, , pag 31.; Vanderwolk, Codification of the Economic Substance Doctrine: if we can’t stop it, let’s improve it, Tax Notes. 2009, agosto, pag. 547 4 Sentenze n.20398 e 22932 del 2005, nelle quali la Corte, pur cogliendo dalla giurisprudenza comunitaria lo sforzo diretto ad enunciare un principio di contrasto all’abuso del diritto, non aveva ricavato tale principio dalle sentenze della Corte di Giustizia e, seguendo l’indicazione dell’Avvocato Generale nella causa Halifax ( non ancora definita ), aveva utilizzato la categoria civilistica della nullità per mancanza in concreto della causa negoziale. 29 LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO FISCALE può ritenersi sindacabile, come la scelta di una forma societaria esclusivamente per ragioni fiscali. Il campo degno di attenzione non è costituito dalle operazioni finanziarie, ma dalle ristrutturazioni societarie. Questa esigenza è stata avvertita anche dalla giurisprudenza della Cassazione. Pur prendendo atto della giurisprudenza delle Sezioni Unite, le quali traggono la fonte del principio da quello di capacità contributiva di cui all’ art. 53 della Costituzione, posso rendere una diretta testimonianza, come estensore delle prime sentenze, che l’ispirazione è derivata dalla giurisprudenza comunitaria, (oltre che, come si è detto, dall’esperienza giuridica tedesca)5. Tale approccio sistematico si è dimostrato di grande utilità, anche perché si evitavano fuorvianti commistioni con l’istituto dell’abuso del diritto elaborato in campo civilistico. Non è questa l’occasione per esaminare la regola affermata dalle Sezioni Unite, della cui correttezza non sono, peraltro, pienamente convinto. Probabilmente va ricercata una spiegazione sistematica di carattere interno: il diritto di impiegare una forma giuridica lecita o addirittura prevista dall’ordinamento comporta, come suo limite essenziale, il divieto di impiegarla al di fuori della vicenda economica che le è propria, come è avvenuto per la figura del c.d. «abuso» del processo6. Mi sembra illuminante l’antico dibattito tedesco tra la «Aussentheorie» e la «Innentheorie»7, è cioè se l’abuso di forme giuridiche desse luogo alla creazione di nuove fattispecie impositive (con necessità, quindi, di un’espressa previsione legislativa), o se si trattasse di una mera implicazione interna della forma giuridica scelta. 5 Le operazioni di riorganizzazione societaria La tassazione delle operazioni di riorganizzazione societaria è stata oggetto soltanto in tempi recenti di pronunce giurisprudenziali di legittimità, mentre l’area privilegiata dell’abuso, e delle relative sentenze, era costituita dalle operazioni finanziarie e dal frazionamento artificioso di forme giuridiche 8. Mi sembra opportuno richiamare la sentenza n. 1372 / 11, nella quale la Cassazione affermava che il trasferimento di un ramo d’azienda, volto a rendere più efficiente la presenza sul mercato di un operatore farmaceutico in 5 Le prime edizioni della Abgabeordnung, risalenti al secondo decennio degli anni XX, prevedevano l’abuso di « forme giuridiche del diritto civile ( Missbrauch von Formen und Gestaltungsmöglichkeiten des bürgerlichen Rechts )». V. Hensel, Steuerrecht, Springer, Berlino, 1933, pagg. 98 – 100. 6 Sezioni Unite, sentenza n. 23726 / 07. 7 Per una sintesi si rimanda a Lusga, Die Verhinderung von Steuerumgehungen bei Unternehmensumstrukturierungen, Verlag Dr. Kovač, Amburgo, 2006, pagg. 29 -32 8 Sul frazionamento artificioso presenta particolare interesse la sentenza della Sezione tributaria 25374 / 98, Part Service, e la decisione della Corte di Giustizia ( causa C – 425 / 06 ) sul rinvio pregiudiziale proposto dalla Cassazione nello stesso procedimento. 30 LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO FISCALE uno specifico settore, una volta non contestate le ragioni dell’operazione, non poteva essere considerato abusivo soltanto perché con lo stesso si verificava un trasferimento dei debiti, trasferimento che non si sarebbe verificato se, invece del trasferimento del ramo d’azienda, si fosse dato luogo ad una fusione ( con conseguente neutralità fiscale dell’operazione ). La sentenza conteneva anche un richiamo all’ordinamento statunitense nel quale si codificava la c.d. « economic substance doctrine», la quale ricorre quando coesistano due condizioni, una oggettiva ( l’operazione deve avere un contenuto economico diverso dal risparmio fiscale ) e uno soggettivo ( deve esistere un serio intento di profitto, business purpose). Secondo la Corte, una seria finalità di riorganizzazione sociale, soprattutto nell’ambito di un gruppo d’imprese, esclude la natura abusiva dell’operazione, anche in mancanza di prospettive d’incremento reddituale in tempi brevi. Si tratta di una regola che, pur avendo matrice interna, riecheggia chiaramente i principi della giurisprudenza comunitaria, e particolarmente il dettato del già richiamato articolo della direttiva sulle fusioni. La sentenza ha fornito alcune precisazioni su principi già enunciati in precedenti pronunce, e non costituisce affatto, come sostenuto da alcuni 9, un révirement della precedente giurisprudenza. tanto più che la decisione si pone nel solco del diritto comunitario. Secondo l’art. 11, n. 1, lett. a), della direttiva sulle fusioni ( 90/434/CEE ), come interpretato dalla Corte di Giustizia, da ultimo nella sentenza del 10 novembre 2011 in causa C – 126 / 10, Foggia – Sociedade Gestora de Participaçoes Sociales SA . Secretario de Estrado dos Asuntos Fiscales ) le ragioni economiche che rendono opponibile un’operazione di fusione all’Amministrazione Finanziaria ( ai fini di beneficiare del regime fiscale agevolativo previsto dalla direttiva ) possono consistere anche nella ristrutturazione o la razionalizzazione delle attività delle società partecipanti all’operazione10 In materia di riorganizzazione societaria si richiamano, fra le più recenti, le sentenze della Sezione tributaria n. 21782 e 25537 del 2011 e n. 7393 del 2012. 6 La codificazione del principio dell’abuso del diritto Sull’opportunità di una codificazione della regola esiste ormai un dibattito mondiale, il quale dovrebbe essere seguito da un legislatore accorto, anche per opportune scelte di campo. Si è constatata, infatti, un’ assenza di rigore negli interventi degli uffici finanziari, i quali sono giunti ad utilizzare lo strumento in ipotesi in cui la scelta dell’imprenditore deve essere libera, quale la scelta di una forma societaria anziché di un’altra, scelta che è limitata soltanto dai principi costituzionali in tema di libertà d’impresa, e dal 9 Si veda l’articolo su “ Il Sole 24 Ore “ 22 gennaio 2011, Frenata sull’abuso del diritto. 10 Tali ragioni, come avverte la sentenza Foggia, non possono esaurirsi nel mero risparmio di costi derivanti dalla soppressione di un soggetto. 31 LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO FISCALE rispetto delle libertà fondamentali garantite dal Trattato sull’Unione Europea, in particolare dal diritto di stabilimento, il quale garantisce, fra l’altro, una piena libertà di organizzare le forme giuridiche di impresa. Mi sembra opportuno richiamare, in proposito, anche se non riguardante il campo fiscale, la sentenza Centros,11 secondo cui può essere scelta la sede di una società in uno Stato membro anche per usufruire di una diritto societario più favorevole ( nella specie, il regime di anonimato azionario ), anche se in tale Stato la società non eserciti attività produttiva. Devo ricordare, comunque, che l’applicazione del principio in materia fiscale non è stata da tutti riconosciuta. Mi pare, a questo punto, opportuno ricordare che negli USA è stato codificato il principio della Economic Substance Doctrine, anche qui risolvendosi un acceso e pluriennale dibattito tra sostenitori e oppositori della codificazione Le relative norme, che si riportano testualmente in nota 12sono contenute nella riforma sanitaria ( Health Care and Education Reconciliation Act of 2010 ), la cui Sezione 1409 ha introdotto una nuova sezione ( 7701 ) nell’U.S. Code. Si veda anche la relazione esplicativa del 21 marzo 2010 del Joint Committee on Taxation del Senato e della Camera dei Rappresentanti, riuniti in Congress.13 Il punto più significativo della riforma è costituito dalla necessaria presenza dei due presupposti ai fini della riconoscibilità dell’operazione ai fini fiscali: si richiede, infatti, non soltanto l’esistenza di una oggettiva sostanza economica, consistente in una significativa (meaningful) modifica della situazione economica dell’operatore, ma anche un fine di profitto (business purpose). Sulla necessaria compresenza delle due condizioni (two – prong test) vi era stato un lungo contrasto in giurisprudenza, contrasto che aveva costituito uno dei principali motivi della codificazione. 11 Sentenza 9 marzo 1999, C – 212 / 97. (A) ECONOMIC SUBSTANCE DOCTRINE. – The term “ economic substance doctrine” means the common law doctrine under wich tax benefits under subtitle A with respect to a transaction are not allowable if the transaction does not have economic substance or lacks a business purpose’s CLARIFICATION OF ECONOMIC SUBSTANCE DOTCTRINE (1) GENERAL RULES (A) IN GENERAL. In any case in which a court determines that the economic substance doctrine is relevant for purposes of this title to a transaction ( or series of transactions) shall have economic substance only if the requirements of this paragraph are met. (B) DEFINITION OF ECONOMIC SUBSTANCE. For purposes of sub- paragraph (i) IN GENERAL. – A transaction has economic substance only if – (I) the transaction changes a meaningful way ( apart from Federal tax effects ) the taxpayer’s economic position, and (II) subject to clause ( iii ), the tax- payers has a substantial purpose ( other than a Federal tax purpose ) for entering into a such transaction. (D) TRANSACTION. – The term “transaction” includes a series of transactions. 13 Technical explanation of the revenue provisions of the “Reconcilation Act of 2010, as amended, in combination with the “ Patient protection and affordable Care Act”. 12 32 LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO FISCALE La richiamata sentenza 1372 / 11 aveva richiamato la soluzione legislativa U.S.A., proprio per significare, in armonia con la giurisprudenza comunitaria, che le operazioni di riorganizzazione, per non essere considerate abusive, non dovevano comportare una previsione di profitto. Sarebbe opportuno che amministrazione finanziaria e giurisprudenza - così come avviene in altri Paesi – forniscano più precise indicazioni per una tipologia di operazioni immuni da rilievi sotto il profilo dell’abuso. Ci pare di particolare interesse ricordare che negli USA, al fine di rendere più agevole l’applicazione della nuova norma e in considerazione dell’applicazione non sempre univoca che ne avevano fatto le Corti, l’IRS ha emanato una serie di atti interpretativi che contengono una tipologia di operazioni elusive14. 7 L’applicazione delle regole comunitarie in materia di abuso del diritto ai tributi non armonizzati Per quanto riguarda i contributi non armonizzati, in relazione a situazioni meramente interne, si deve riconoscere che la posizione delle Sezioni Unite 14 Si veda, fra tutti, la direttiva dell’IRS del 15 luglio 2011 ( Guidance for Examiners and Managers on the Economic Substance Doctrine and related penalties ).Il punto 2 contiene l’indicazione di alcuni elementi rivelatori della natura elusiva di un’operazione: - Transaction is promoted/ developed/administrated by tax department or outsiders advisors - Transaction is highly structured - Transaction includes unnecessary steps - Transaction is not at arm’s length with unrelated third parties - Transaction creates no meaningful economic change on a present value basis ( pretax) - Taxpayer’s potential for gain or loss is artificially limited - Transaction accelerates a loss or duplicates a deduction - Transaction generates a deduction that is not matched by an equivalent economic loss or expense ( including artificial creation or increase in basis of an asset) - Transaction holds offsetting positions that largely reduce or eliminate the economic risk of the transaction - Transaction involves a tax-indifferent counterparty that recognises substantial income - Transaction results in separation of income recognition from a related deduction either between different taxpayers or between the same taxpayer in different tax years - Transaction has no credible business purpose apart from federal tax benefits - Transaction has no meaningful potential for profit apart from federal tax benefits - Transaction has no significant risk of loss - Tax benefit is artificially generated by the transaction - Transaction is pre-packaged - Transaction is outside the taxpaywer’s ordinary business operations. 33 LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO FISCALE circa la possibilità di applicazione d’ufficio, anche nel giudizio di cassazione, del principio necessiterebbe di un più articolato supporto sistematico 14. E’ in tale prospettiva che si muoveva l’evoluzione del diritto comunitario. Mi limiterò a richiamare la comunicazione della Commissione in materia di abuso del diritto nell’imposizione diretta14 e la proposta della Commissione di una direttiva del Consiglio ( COM ( 2011 ) 121 del 16 marzo 2011 ) sulla base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società, la quale contiene un’ apposita norma generale anti – abusi ( art. 80 ), la quale si riferisce alle « operazioni artificiali svolte con l’esclusivo intento di eludere l’imposizione». Si deve far riferimento, a questo punto, all’ordinanza di rinvio pregiudiziale della Corte di Cassazione 4 agosto 2010,n. 18055, avente ad oggetto un caso di dividend stripping ( usufrutto di azioni costituito a da società non residenti a favore di società residenti, al fine di sottrarsi al regime impositivo dei dividendi spettanti a non residenti ), per il quale la società aveva dichiarato di volersi avvalere della misura di definizione agevolata ( pagamento del 5% dell’imposta richiesta ) dei giudizi pendenti dinanzi alla Corte di Cassazione, nei quali il contribuente aveva ottenuto le due pronunce di merito favorevoli, di cui al d.l. 25 marzo 2010,n. 40, convertito con la legge n. 73 del 2010. Nell’ordinanza di rinvio, prendendosi atto dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità circa la matrice non comunitaria della clausola antielusione in materia di imposte non armonizzate, si erano interrogati i Giudici comunitari sulla violazione, da parte di tale misura, dei principi del mercato unico e degli aiuti di Stato, nel caso di una pressoché totale rinuncia al contrasto a operazioni abusive. La Corte di Giustizia, nella recentissima sentenza del 29 marzo 2012 ( causa C - 417 / 10 ), ha ritenuto, però, l’esclusiva competenza degli Stati membri in materia d’imposizione diretta, salvo il rispetto dei principi generali e dei diritti fondamentali del diritto comunitario, che nella specie non ha considerato violati. In particolare, la Corte ha escluso l’esistenza di un aiuto di Stato, disattendendo sul punto le conclusioni della Commissione. La sentenza costituisce una chiara inversione di tendenza rispetto alla sempre maggior diffusione di General Anti Avoidance Rules su scala mondiale. Tale inversione viene attualmente considerata come frutto del principio di unanimità in materia tributaria, freno a tentativi di armonizzazione della fiscalità diretta. Dalla stessa sentenza deriva, ovviamente, un sostegno sistematico alla già citata giurisprudenza delle Sezioni Unite sulla matrice non comunitaria del principio dell’abuso del diritto in materia di tributi non armonizzati. 8 La proposta di legge Leo del 18 giugno 2009 Prendendo atto delle pronunce della Cassazione che avevano applicato i principi affermati dalla Corte di Giustizia nelle sentenze 21 febbraio 2006 in causa C – 255/02, Halifax, e 21 febbraio 2008 in causa C- 405/06, Part Service ( la seconda su rinvio pregiudiziale della Sezione tributaria della 34 LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO FISCALE Cassazione ), introducendo nel nostro ordinamento, in difetto di previsione legislativa, un generalizzato divieto di operazioni elusive, la proposta evidenzia la necessità di distinguere tra il legittimo risparmio d’imposta e l’elusione fiscale. Il progetto modifica, quindi, parzialmente la formula dell’art. 37 – bis del D.P.R. 22 settembre 1973, n. 600, nel senso che possono essere disconosciuti dall’amministrazione finanziaria solo quei comportamenti «diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario », nei quali « il contribuente fa un uso distorto degli strumenti negoziali messi a sua disposizione dal sistema ». E’ evidente che si adotta, in tal modo, la via indicata dalla giurisprudenza della Cassazione, la quale si è richiamata al concetto di « abuso di forme giuridiche », impiegato dal legislatore tedesco nella Abgabeordnung ( legge generale tributaria ) del 1925 ( §5 ). Il progetto, peraltro, contiene il divieto di applicazione d’ufficio. Tale divieto, però, porrebbe problemi di contrasto col diritto dell’UE, nelle materie in cui esiste una competenza degli organi comunitari,oltre a costituire un’anomalia rispetto ad altre materie d’interesse generale. Senza considerare che, per quanto concerne i tributi non armonizzati, resterebbe comunque possibile il ricorso alternativo a regimi civilistici d’invalidità ( quali la nullità per simulazione, frode alla legge, mancanza di causa ), per i quali sarebbe discriminatorio adottare, in campo tributario, una disciplina diversa da quella generale della rilevabilità d’ufficio di cui all’art. 1421 cod.civ., operante anche nel giudizio di cassazione. 9 Il disegno di legge- delega governativo sul sistema fiscale 17 aprile 2012 Il disegno di legge contiene una apposita norma ( l’art. 6 ), recante il titolo « Disciplina dell’abuso del diritto ed elusione fiscale». Il testo riprende – talvolta testualmente, diversi passi ricavati dalla giurisprudenza della Cassazione, e particolarmente dalla citata sentenza n. 1372 / 11, quali: la definizione di operazioni abusive per la presenza di prevalenti ragioni di risparmio fiscale; il divieto di considerare abusive operazioni di ristrutturazioni societaria, volte a conseguire una migliore gestione e pur non aventi un fine di immediata redditività; la distribuzione dell’onere della prova tra amministrazione finanziaria ( cui incombe la dimostrazione del carattere anomalo della forma giuridica ) e contribuente ( cui incombe l’onere di provare il reale e prevalente contenuto economico dell’operazione, diverso dal risparmio fiscale ). Nulla viene stabilito circa limitazioni processuali all’applicazione del principio. La norma contiene, inoltre, il divieto di prevedere sanzioni penali per condotte ritenute abusive, risolvendo, così un contrasto di giurisprudenza, anche di legittimità. Occorrerà, a questo punto, interrogarsi quale sarà la concreta disciplina contenuta nei decreti delegati. Come è costantemente avvenuto, diverse voci critiche si sono levate contro la norma anti – abuso della legge delega, 35 LA CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO FISCALE giungendosi ad affermare che la stessa costituirebbe addirittura una sorta di sanatoria di operazioni abusive precedenti. Pur dovendosi, ovviamente, attendere l’emanazione dei decreti delegati, a me non pare che la norma contenga qualcosa di diverso, e di più restrittivo, di quanto enunciato nelle sentenze della Corte di Cassazione, soprattutto in tema di operazioni societarie straordinarie. Fra l’altro essa non contiene - a differenza dei precedenti progetti di legge - alcun divieto di applicazione d’ufficio del principio, introducendo soltanto regole ( peraltro già ricavabili dal sistema ) in tema di motivazione e di garanzie del contraddittorio. Si è censurata, infine, la scelta di non considerare rilevante l’abuso del diritto ai fini penali, dimenticandosi che la Cassazione aveva già affermato 15 l’inutilizzabilità di tale strumento, non tanto perché incompatibile col principio di legalità in materia penale, ma perché avente natura di presunzione legale. 15 III Sezione penale, sent. 14486/ 09 36 Prof. Andrea Amatucci Professore emerito Università Federico II di Napoli La funzione anti-abuso dell’interpretazione del diritto tributario 1 Il contribuente talvolta intende evitare che nasca l’obbligazione tributaria, garantendosi il conseguimento dello stesso fine economico che era razionalmente perseguibile attraverso il verificarsi della situazione prevista dalla legge tributaria. Egli in tali casi è indotto a violare indirettamente la legge con un comportamento elusivo costruendo, con raggiri ed artifizi e con procedimenti complessi, una situazione alternativa alla fattispecie che permetta di conseguire lo stesso obiettivo economico. La situazione alternativa non è sempre insolita, ma è talvolta inusuale. Attraverso l’elusione1 (Steuerumgehung) il contribuente sostituisce la fattispecie legislativa con una situazione alternativa per ottenere il medesimo risultato. La tipologia del comportamento consente di individuare l’incongruenza delle finalità perseguite attraverso esso con i principi del sistema. Si evita la nascita dell’obbligazione tributaria, sottraendo dalla fattispecie una manifestazione di capacità contributiva altrimenti rientrante. 1 V. in particolare K.D. DRÜEN, Unternehmerfreiheit und Steuerumgehung, in Steuer und Wirtschaft, 2008, 154. Cfr. in generale P. PISTONE, Abuso di diritto ed elusione fiscale, Padova, 1995; S. FIORENTINO, L’elusione tributaria, Napoli, 1996; J. C. VALENCIA MÁRQUEZ, Le riorganizzazioni d’impresa negli USA come tipico strumento elusivo, in Gli aspetti fiscali dell’impresa (da me diretto), in Trattato di Diritto commerciale (diretto da BUONOCORE), Torino, 2003, 98; M. BASILAVECCHIA, Norma antielusione e, «relatività» nelle operazioni imponibili IVA, in Corr. trib., 2006, 1466; M. L. DEL FEDERICO, Elusione e illecito tributario, in Corr. trib., 2006, 3110; F. MOSCHETTI, «Abusiva captazione» di norme fiscali di favore ed «anticorpi» civilistici in uno «Stato sociale di diritto», in Atti del convegno A.N.T.I., Elusione fiscale: la nullità civilistica come strumento generale antielusivo. Riflessioni a margine dei recenti orientamenti della Cassazione civile, 15 settembre 2006, Padova; R. CORDEIRO GUERRA, Non applicabilità delle sanzioni amministrative per la violazione del divieto di abuso del diritto, in Corr. trib., 2009, 774; A. FEDELE, Assetti negoziali e “forme d’impresa” tra opponibilità simulazione e riqualificazione, in Riv. dir. trib., 2010, 1123; K.TIPKE – J. LANG, Steuerrecht, 20a ed., Köln, 2010, 163; G. FRANSONI, Abuso di diritto, elusione e simulazione: rapporti e distinzioni, in Corr. trib., 2011, 19; LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO Il soggetto sfrutta con artifizi e raggiri le smagliature del sistema tributario evitando di incorrere nell’illecito. L’elemento intenzionale che guida inevitabilmente il comportamento presenta diverse gradazioni che vanno dalla malizia alla frode. Infine sono carenti la violazione della legge e pertanto l’illecito tributario. Certamente il concetto di elusione non può assumere una valenza generale, in quanto esso costituisce un obiettivo, mentre gli strumenti sono costruiti dai contribuenti quali manifestazioni di abuso del diritto2 (Missbrauch von rechtlichen Verhaltensmöglichkeiten). Gli strumenti volti a realizzare l’elusione sono in continua evoluzione, poiché nel momento in cui ciascuno di essi è oggetto di norme che contengono clausole antiabuso, particolari, i contribuenti ne creano altre che sfuggono a tali previsioni normative. Al contrario le clausole generali consentono di cogliere qualsiasi pratica elusiva. In tal senso è ininterrotto il procedimento attraverso il quale, appena 2 AA.VV., Spannungsfeld zwischen Missbrauchsbekämpfung und Standortsicherung, in Internationales Steuerrecht (diretto da HAARMANN), Köln, 1998; M.H. LAMPE, Missbrauchsvorbehalte in völkerrechtlichen Abkommen am Beispiel der Doppelbesteuerungsabkommen, Berlin/München, 2006; P. MERKS, Tax Evasion, Tax Avoidance and Tax Planning, Intertax, 2006, 271; A. LOVISOLO, Il principio di matrice comunitaria dell’abuso del diritto entra nell’ordinamento giuridico italiano: norma antielusiva di chiusura o clausola generale antialusiva? L’evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte, in Dir. prat. trib., 2007, II, 735; P. PISTONE, L’elusione fiscale come abuso del diritto: certezza giuridica oltre le imprecisioni terminologiche della Corte di giustizia Europea in tema di Iva, in Riv. dir. trib., 2007, IV, 17; P. LOCHER, Rechtsmissbrauchsüberlegungen im Recht der direkten Steuern der Schweiz, ASA, 2007, 675. Lit. zum intenationalen Steuerrecht in Fußnote 15/zum Europarecht in Fußnote 16; L. CARPENTIERI, L’ordinamento tributario tra abuso e incertezza del diritto, in Riv. dir. trib., 2008, I, 1053; F. TESAURO, Divieto di abuso del diritto (fiscale) e vincolo da giudicato esterno incompatibile con il diritto comunitario, in Giur. it., 2008, 1029; G. ZIZZO, L’abuso dell’abuso del diritto, in GT – Riv. giur. trib., 2008, 465; M. BEGHIN, L’elusione fiscale tra presupposti applicativi, esimenti, abuso del diritto ed «esercizi di stile», in Riv.dir. trib., 2008, II, 343; D. STEVANATO, Trasformazione in s.r.l. agricola ed elusione tributaria: è davvero aggirato lo spirito della legge?, in Corr. trib., 2008, 1719; V. FICARI, Elusione ed abuso del diritto comunitario tra <<diritto>> giurisprudenziale e certezza normativa in Boll.trib., 2008, 1773; F. MOSCHETTI, Avvisaglie di supplenza del giudiziario al legislativo nelle sentenze delle Sezioni Unite in tema di utilizzo abusivo di norme fiscali di favore, in GT – Riv. giur. trib., 2009, 197; F. AMATUCCI, L’abuso del diritto nell’ordinamento tributario nazionale, in Corr. giur., 2009, 553 e D. STEVANATO, Abuso del diritto ed elusione tributaria, anno zero, in Dialoghi trib., 2009, 255; S. LA ROSA, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, 790. 38 LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO è emanata una norma contenente una clausola antiabuso particolare che reprima una pratica di abuso, immediatamente nasce un altro comportamento abusivo in sostituzione che sfugge all’efficacia debellante di quella norma. Come le pratiche elusive, qualche virus è fortemente inibito da un farmaco. Tuttavia dopo prolungato trattamento con tale farmaco insorgono occasionalmente mutanti farmacoresistenti che non sono inibiti neppure da concentrazioni maggiori del farmaco. Tali ceppi non rispondono all’azione inibitrice di questo composto, perché essi, ad esempio, penetrano rapidamente nel profondo dell’organo malato diventando così insensibili al farmaco che opera alla superficie. Come osservano Tipke e Lang3, negli USA la lotta all’elusione è in tal senso sostenuta dalla substance over form doctrine. 2 La Corte di Giustizia dell’UE, con la sentenza del 21 febbraio 2006, ha dedotto dall’ordinamento giuridico comunitario una clausola generale antiabuso del diritto tributario, secondo la quale non sono consentite operazioni, pur volute e valide, che perseguono essenzialmente lo scopo di procurare un vantaggio fiscale, in contrasto con gli obiettivi perseguiti dalle disposizioni formalmente applicate. La Corte sostiene perciò che l’abuso implica una connessione tra il risparmio e lo sviamento rispetto alle finalità delle norme da un lato e tra il concetto di abuso con il concetto nazionale di elusione: in ambedue i casi il vantaggio fiscale si pone in contrasto con le norme eluse. L’abuso non genera però una frizione tra l’applicazione della legge secondo la lettera e la sua applicazione in funzione dello scopo, procurando un vantaggio fiscale contrario allo scopo. L’interpretazione letterale è infatti un momento del procedimento ermeneutico. E’ stata pertanto prodotta una norma comunitaria attraverso l’interpretazione. La clausola generale comunitaria antiabuso, introdotta automaticamente in tutti gli ordinamenti giuridici tributari dei Paesi membri dell’UE, è destinata ad essere interpretata ad opera della giurisprudenza e della dottrina per essere pienamente compresa nella sua essenza. La Corte di Cassazione, con le sentenze del 29 settembre 2006 n. 21221, del 4 aprile 2008 n. 8779 e del 21 aprile 2008 n. 10257, interpretando la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE, ha ribadito che l’abuso del diritto sussiste nel caso in cui le operazioni volute e valide mirano “essenzialmente” a realizzare un vantaggio fiscale ed ha aggiunto che esse conseguentemente tendono anche a conseguire scopi economici, i quali, attraverso l’analisi della fattispecie, risultano marginali o teorici, insufficienti perciò a giustificare il negozio stipulato. 3 Steuerrecht, 20ª ed., Köln, 2010, p. 163. 39 LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO Anche se gli schemi contrattuali sono anomali, le essenziali e pratiche ragioni economiche, infatti, possono giustificare l’aggiramento di obblighi e divieti. Ha rilevato la Corte di Cassazione che si prescinde dall’ accertamento della simulazione o di operazioni fraudolenti (sviamento rispetto ai fini delle norme). L’operazione deve essere valutata per le sue ragioni economiche, che, se marginali e teoriche, rendono chiaro il primato del risparmio fiscale. Il principio dell’abuso prescinde da specifici aggiramenti di norme tributarie e di sviamento rispetto allo scopo normativo; bisogna concentrarsi sulla ricerca della validità delle ragioni economiche. La Corte di Cassazione, con la sentenza del 2006 n. 21221, aveva evidenziato l’esigenza di individuare una clausola generale antielusiva per colmare le lacune dell’ordinamento interno e, con la sentenza n. 10257/2008, ha osservato che le norme antielusive costituiscono non un’eccezione alla regola, bensì un sintomo dell’esistenza della regola. Pertanto la giurisprudenza della Corte di Cassazione lascia intendere che la clausola generale antiabuso, configurata dalla Corte di Giustizia, pone accanto alla condizione esplicita del risparmio di imposta quella implicita delle valide ragioni economiche per potersi configurare l’abuso del diritto tributario. La Corte di Cassazione tuttavia, nelle più recenti sentenze, invita ad un comportamento prudente. 3 Il “risparmio di imposta” assume anche un altro significato, che è l’unico attribuito da diversi decenni dalla dottrina, oltre quello esaminato, conferito più recentemente dalla giurisprudenza richiamata. Ai sensi dell’art. 41 Cost., l’iniziativa economica privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana. Il che significa che tale ordine normativo-sociale concorre alla qualificazione di atti e comportamenti, pur assunti secondo i principi che nel nostro sistema caratterizzano la libertà negoziale. Il risparmio è il diritto di scelta: bisogna stabilire se c’è contrasto tra forma e sostanza. La politica tributaria economica giustifica quelle leggi che tutelano l’interesse al risparmio di imposta. Sussiste il fine del beneficio, anche se la legge consente un risparmio indirettamente. Il diritto “abusato” in materia tributaria è il diritto alla libertà economica che crea danno allo Stato e benefici al contribuente. E’ abuso anche di diritto soggettivo. 40 LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO Il contribuente sceglie la forma più opportuna in sede di lecita pianificazione fiscale. Johanna Hey4 afferma che la certezza della pianificazione tributaria da parte del contribuente e la certezza degli atti dell’amministrazione finanziaria costituiscono valori fondamentali dell’ordinamento. Il confine da delineare è tra aggressiva pianificazione fiscale e libertà di scelta delle forme giuridiche. Si rischia di violare l’art. 41 cost. e la visione unitaria, delle entrate e delle spese garantite dalla “legge di stabilità” annuale. Se c’è la sostanza economica, c’è la libertà che può essere invocata dal contribuente insieme alla tutela dell’affidamento. La legge può mirare a favorire o non volere che il contribuente costruisca una situazione alternativa alla fattispecie legislativa per conseguire lo stesso fine economico. La legge, se favorisce il «risparmio d’imposta» (Steuermeidung, tax saving), che è la posizione in cui si colloca ogni soggetto il quale è in una situazione non presa in considerazione da alcuna legge tributaria (tax non compliance), intende disincentivare il comportamento coincidente con la fattispecie legislativa. Questo caso, si verifica ad esempio, per le leggi che istituiscono imposte ambientali e che collegano la nascita dell’obbligazione al verificarsi di un determinato comportamento inquinante. La capacità contributiva che legittima la legge tributaria non è più la potenzialità economica del contribuente, ma la sua idoneità ad inquinare. La legge tributaria incide sulla libertà di iniziativa o di attività economica senza ricorrere a strumenti coattivi, in quanto consente al contribuente di operare una scelta tra due comportamenti disincentivando quello inquinante. Egli è titolare del diritto di scelta del comportamento inquinante con il fine di realizzare lo stesso risultato economico, determinando la nascita dell’obbligazione tributaria; il tributo rappresenta il risarcimento del danno che la collettività subisce per l’effetto dell’inquinamento. La legge tributaria in tal senso incide sul calcolo di convenienza economica che è alla base della scelta della produzione industriale. La Cassazione, con la sentenza n. 10383 del 12 maggio 2011, distingue il “beneficio fiscale indebito” dall’agevolazione. Il beneficio fiscale è concesso dal legislatore consapevolmente nel caso di agevolazione e la finalità è la contropartita incentivante, che non è contra ius. Quindi, il beneficio fiscale, quale condizione dell’abuso del diritto, insieme alle valide ragioni economiche deve consistere in un vantaggio fiscale non voluto dal legislatore. L’elusione assolve un ruolo residuale, in quanto copre integralmente lo spazio che separa il risparmio di imposta dall’evasione. È questo un tertium genus che è particolarmente intenso e si articola in una serie indefinita di 4 Steuerplanungssicherheit als Rechtsproblem, Köln, 2002, 743. 41 LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO specie non ancora sufficientemente esaminate dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Quindi la linea di demarcazione fra lecito risparmio di imposta e l’elusione non è stabile e definita ma è il risultato della combinazione di due elementi: la metodologia interpretativa ed il livello di evoluzione del singolo ordinamento giuridico. Il concetto di elusione è pertanto relativo a ciascun ordinamento tributario. Sarebbe opportuno, al fine di evitare confusione, continuare a definire il risparmio di imposta soltanto quello lecito. 4 E’ interessante stabilire se in altro ramo del nostro ordinamento esiste una clausola generale antiabuso operante anche nel diritto tributario. Il contribuente è libero nell’utilizzare principi e norme che tutelano i propri interessi, ma anche questa libertà incontra i limiti di legge e degli altri ordini normativi che concorrono alla individuazione ed alla qualificazione di atti e comportamenti. Si consideri che l’abuso nel diritto civile è del diritto soggettivo, mentre nel diritto tributario è del diritto oggettivo (le norme). La Corte di Cassazione, con le citate sentenze a sezioni unite del dicembre 2008, ha abbandonato la “via civilistica” che è stata percorsa nel 2005 e che sosteneva la caducazione degli effetti di diritto civile dei negozi, senza causa o in frode alla legge. La causa giuridica è la ragione giuridico-economica del contratto. Il matrimonio tra diritto ed economia è stato celebrato nei Trattati di diritto civile dell’800. Considerando il negozio atipico, vale la limitazione dell’art. 1322, II co., cc. nel senso che esso è valido, purchè diretto “a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. Tale ordine normativo-sociale concorre alla qualificazione di atti e comportamenti, pur assunti secondo i principi che nel nostro sistema caratterizzano la libertà negoziale. Le parti possono determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge, ai sensi del primo comma dell’art. 1322 cc. L’abuso del diritto, nella logica civilistica, si realizza allorchè, attraverso libertà garantite, si mira ad un risultato vietato o al pregiudizio di interessi di terzi. Si realizza una prevaricazione arbitraria dei rapporti civili, senza che susciti l’interesse a tenere tali comportamenti, ma nell’intento di eludere l’applicazione della norma per ottenere un vantaggio proprio. Si manifesta un difetto di causa, in quanto lo scopo unico è questo tipo di “vantaggio”. La nullità del contratto è strumentale al disconoscimento degli effetti civilistici. 42 LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO Sulla patologia dello schema negoziale si fonda la causa atipica. Il contratto atipico crea un “vantaggio”. Esso è nullo perché non c’è causa relativamente alla funzione economico-sociale. L’art. 1324 cc. stabilisce che, salvo disposizioni di leggi diverse, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, “per gli atti unilaterali” tra vivi aventi contenuti patrimoniali, perciò riguardo non solo al contratto, ma anche all’ “atto”. La nullità dell’atto è grave per l’effetto esterno delle sentenze. Schema atipico si presenta nel diritto civile e nel diritto tributario. Nel diritto tributario però è operazione atipica non rispondente a schemi predeterminati, per vantaggi giustificabili o meno. L’abuso del diritto civilistico sarebbe recepibile dal diritto tributario, in quanto, allorchè lo schema contrattuale è senza causa, cioè senza ragione economica. Pertanto lo scopo del vantaggio fiscale perseguito dal contribuente rende nullo lo schema contrattuale. Conseguentemente avrebbe effetto tra le parti il contratto dissimulato. Per riconoscere l’abuso del diritto, è necessario un beneficio. In virtù dell’art. 1344 cc, la causa è illecita, in quanto è contraria a nome imperative. E’ stabilito dalla sentenza della Corte della Cassazione n. 20816 del 2005 che non è applicabile l’art. 1344 cc., il quale richiede norme imperative (precettive o proibitive), tra cui non rientrano le norme tributarie che delineano presupposto d’ imposta. Ma tale norma è espressione della potestà tributaria ed il conseguente atto dell’amministrazione. è impositivo. Al secondo comma dell’art. 2729 cc. è stabilito che le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni. Ciò accade relativamente al processo tributario. Ma è da escludere che l’art. 2729 cc. si estenda a tale processo, attraverso il problema delle qualificazioni che è componente essenziale della metodologia dell’interpretazione delle leggi tributarie e che va logicamente in tal caso risolto a favore del primato del diritto tributario per non limitare il libero convincimento del Giudice. Il negozio simulato è senza causa e non produce effetto tra le parti ex art. 1414 cc, primo comma. Alla luce del secondo comma, se le parti hanno voluto un contratto diverso da quello apparente, ha effetto tra esse il contratto dissimulato, purchè ne sussistono i requisiti di sostanza e di forma. La causa illecita è il beneficio non dovuto. La norma tributaria è imperativa e limita l’autonoma privata. La Corte di Cassazione, con le sentenze a sezioni unite del 23 dicembre 2008 nn. 30054, 30055 e 30057, ha affermato che nell’ordinamento esiste un principio antielusione non scritto. L’art. 2729 cc, primo comma, afferma che le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del Giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. La simulazione presuppone un negozio inefficace tra le parti. 43 LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO L’abuso richiede operazioni non simulate, ma volute e valide, anche se per produrre un vantaggio. 5 Attraverso la soluzione del problema delle qualificazioni, le norme civilistiche avrebbero potuto già fornire un valido sostegno alla tesi dell’esistenza di una clausola generale antiabuso operante in tale branca giuridica. L’ostacolo a tale concezione è rappresentato, però, dall’art. 37 bis del d.p.r. 600 del 29 settembre 1973, contenente le disposizioni antielusive. Tale articolo stabilisce al primo comma che sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti ed i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, dirette ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti. Al secondo comma, prevede che l’amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti ed i negozi di cui al primo comma, applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’aministrazione. Al terzo comma sono indicate le specifiche operazioni che devono essere utilizzate affinchè si applichino le disposizioni del primo e secondo comma. Pertanto, prevalendo le norme tributarie su quelle civilistiche, la clausola generale antiabuso, desumibile dalle seconde, soccomberebbe di fronte alle clausole particolari previste dalle prime. Esiste il divieto di utilizzazione delle norme agevolative per fini diversi da quelli per cui sono state emanate, in quanto norme eccezionali non interpretabili analogicamente ai sensi dell’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile. Ma l’art. 37 bis del DPR n.600/1973, che prevede le clausole particolari antiabuso, deve essere disapplicato in conseguenza all’adattamento dell’ordinamento nazionale al principio comunitario che contiene la clausola generale antiabuso. Ne consegue la liberalizzazione della clausola generale civilistica antiabuso, per effetto della disapplicazione dell’art. 37 bis. Ma la clausola civilistica soccombe nuovamente per effetto della norma comunitaria, insieme all’art. 37 bis. Con la sentenza n. 23633 del 15 settembre 2008, la Corte di Cassazione, infatti, afferma correttamente che tale principio è una norma di diritto comunitario, che impone la disapplicazione delle norme interne con esso eventualmente contrastanti. Il divieto di abuso del diritto, di natura comunitaria, non si estende alle imposte non armonizzate, quali le dirette, perché l’oggetto è di competenza del legislatore nazionale. La stessa Corte di Cassazione a sezioni unite, con 44 LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO le sentenze del 23 dicembre 2008 n. 30055, 30056 e 30057, ha abbandonato il principio secondo cui anche le imposte dirette rientrano nell’oggetto del divieto comunitario. L’estensione alle imposte dirette è stabilita dall’art. 6 dello schema di disegno di legge delega recante disposizioni per la revisione del sistema fiscale. Opportunamente lo Stato italiano, con tale art. 6, tende ad estendere la clausola generale comunitaria anche alle imposte dirette. 6 Con la sentenza n. 25374 del 2008, la Corte di Cassazione afferma che si deve approfondire la doverosa ricerca dell’obiettivo economico perseguito, in quanto spetta al Giudice la “qualificazione giuridica” dei fatti e dei comportamenti negoziali che devono essere interpretati correttamente con i principi del sistema tributario per ricevere protezione garantita dal formale ossequio delle leggi. La Corte di Cassazione, con le sentenze del 15 settembre 2008 n. 23633 e del 21 novembre 2008 n. 27646, ha ribadito che il concetto di abuso del diritto, elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, costituisce un “canone interpretativo del sistema”. E’ interessante esaminare la dottrina tedesca che ha studiato per decenni la clausola generale antiabuso, prevista dal § 42, modificato nel 2008 5, dell’Abgabenordnung. La rielaborazione di tale articolo non è però approfondita a livello dogmatico e terminologico. Osservano Tipke e Lang6 che il modo di considerazione economica (wirtschaftliche Betrachtungsweise) sorto nel 1919 con il Reichsabgabenordnung, evidenzia la divergenza tra economia, situazione giuridica e comportamento economico del contribuente. Gli illustri autori tedeschi sottolineano che il § 42 AO tende ad attuare il fine di una legge 5 D. GOSCH, § 42 AO- Anwendungsbereich und Regelungsreichweite, Harzburger Protokoll 1999, Köln, 2000, 225; S. SIEKER, Umgehungsgeschäfte, Typische Strukturen und Mechanismen ihrer Bekämpfung, Tübingen, 2001; W. GASSNER, Das allgemeine und das besondere Umgehungsproblem im Steuerrecht, in Festschrift für H.W. KRUSE, Köln, 2001, 183; U. CLAUSEN, Struktur und Rechtsfolgen des § 42 AO, Der Betrieb, 2003, 1589; K.-D. DRÜEN, in Tipke/Kruse, AO, §42; C. GLORIUS-ROSE, Gestaltungsmissbrauch und Steuerberatung, Berlin, 2005; H. HAHN, §42 und Steuerkultur, Deutsche Steuer Zeitung, 2005, 183; H. HAHN “Gestaltungsmissbrauch” i.S.d. §42 AO, Deutsche Steuer Zeitung, 2006, 431; P.FISCHER, Aktuelle Entwicklungstendenzen zum Missbrauch von Gestaltungsmöglichkeiten des Bürgerlichen Rechts, Steuer & Wirtschaft International, 2006, 444; F. J. HAAS, Der Missbrauchstatbestand des §42 AO, in Festschrift für A. Raupach, Köln, 2006, 13; K.-D. DRÜEN, Unternehmerfreiheit u. Steuerumgehung, Steuer und Wirtschaft, 2008, 154. Lit. zu §42 AO i. d. F. des Jahressteuergesetz, 2008 in Fußnote n.13. 6 Steuerrecht, 20ª ed, Köln, 2010, 159. 45 LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO tributaria e che bisogna innanzitutto contrastare l’aggiramento fiscale attraverso l’interpretazione teleologica ed il perfezionamento giuridico in modo da colmare le lacune della legge. In rami diversi dal diritto tributario, precisano gli Autori, mancano clausole generali antielusive, così che si fa fronte all’elusione in sede di applicazione del diritto. Essi notano che l’elusione tributaria all’estero è combattuta anche senza una norma antielusiva. Per esempio in USA si interviene con la dottrina giuridica della sostanza economica, anche definita sostanza o forma, attraverso la dottrina della sostanza contro la forma. Hariton7 analizza la concezione teoretica interna del Bundesgericht. La dottrina della sostanza economica è uno strumento giurisdizionale per individuare il vero fine del legislatore. Pertanto si discute sulla questione controversa diretta a stabilire se il § 42 AO può favorire in genere il significato attraverso il metodo teleologico della interpretazione della legge tributaria. Il metodo, nell’ambito dell’applicazione del § 42 AO, è stabilito attraverso la portata della consentita attività diretta a colmare le lacune. Il legislatore, con il novellato § 42 AO, ha garantito maggiormente la certezza e l’uniformità del diritto tributario. In seguito al § 42 I, 1, AO, la legge tributaria non può essere elusa attraverso l’abuso di possibilità di costruzione giuridica. Con il § 42, II, 1, AO è ostacolato l’abuso del diritto quando è realizzata un’ “inadeguata” costruzione giuridica. Il Giudice deve valutare con il metodo wirtschaftliche Betrachtungsweise, se gli effetti economici delle operazioni prevalgono su quelli fiscali; in tal caso, vanno riconosciuti gli effetti fiscali. L’interprete fa emergere, attraverso la ricostruzione antielusiva, la realtà economica che il legislatore ha già considerato, elaborando la norma tributaria elusa. L’interpretazione consente la piena conoscenza della norma tributaria e, perciò, anche di quella nota di concretezza e di funzionalità che si comprende, soltanto valutando esaurientemente nell’ambito delle finalità normative il significato economico che si cela dietro una fattispecie del diritto civile contenuta nella norma tributaria. Rientra nel compito preliminare dell’interprete stabilire se la norma intenda accogliere integralmente la fattispecie normativa ed, in caso negativo, individuare le modifiche cui viene sottoposta per effetto della rilevanza del suo contenuto economico. Il contribuente ha interesse a blindare gli atti negoziali entro solide motivazioni economiche. 7 When and How Should The Economic Substance Doctrine Be Applied? in Taw Law Review, vol. 60, 2006, p. 29. 46 LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO Spetta al Giudice la qualificazione giuridica dei fatti e dei comportamenti negoziali da interpretare correttamente con i principi dell’ordinamento giuridico tributario per garantire la tutela legislativa. Egli interviene, ricercando nell’ordinamento nazionale i mezzi per contrastare tali fenomeni, in modo da conformare l’inopponibilità all’Amministrazione Finanziaria delle operazioni abusive compiute. La Cassazione nel 2009, con le sentenze 8481 e 8487, conferma il filone dell’interpretazione costituzionalmente orientata. Se l’interpretazione analogica–funzionale8 risolve la questione, estendendo la fattispecie tributaria della legge elusa a fattispecie analoghe utilizzabili per eluderla, scatta il canone interpretativo europeo. I Giudici comunitari hanno applicato l’analogia legis nella duplice accezione di analogia strutturale e teleologico-funzionale, per cui la clausola antiabuso del diritto è realmente un principio interpretativo generale. Non può esistere discrezionalità del Giudice, ma solo la sua valutazione prudente della prova. Si delimiti la fattispecie ed il legislatore le scelga sulla base del contenuto economico. 7 E’ certamente utile considerare le altre fondamentali esperienze scientifiche relativamente alla metodologia dell’interpretazione economica del diritto tributario, indispensabile per verificare se nel caso concreto esiste l’abuso del diritto. Negli anni ’60 del secolo ventesimo si svolgeva negli Stati Uniti la fase delle origini dell’Economic Analysis of Law attraverso gli apporti, con specifici riferimenti al diritto tributario, di Ronald H. Coase 9 della Chicago Law School e di Guido Calabresi10 della Yale Law School. Richard A. Posner11 della Chicago Law School, con riguardo in particolare al diritto tributario, e lo stesso Calabresi diedero vita negli anni ’70 alla fase dell’espansione dell’Economic Analysis of Law. La fase della maturazione e del consolidamento dell’Economic Analysis of Law fu introdotta agli inizi degli anni ‘80 da David Friedman12 della Chicago Law School; la fase postChicago, eliminando la contrapposizione tra la Chicago Law School e la Yale Law School, evidenzia il metodo più raffinato della ricerca dei fini economici e sociali, in base al quale è più agevolata la conoscenza del contenuto del diritto. I caratteri fondamentali dell’Economic Analysis of 8 M. BASILAVECCHIA, Surrogati interpretativi in difetto di norma antielusiva? in GT – Riv. giur. trib., 2009, 601. 9 The Firm, the Market and the Law, University of Chicago, 1988. 10 The cost of Accidients, Yale University, 1970. 11 Economic Analysis of Law, Boston, 1973 e (VI ed), New York, 2003. 12 Progressive Law and Economics. And the Administrative Law, Yale Law Journal, 1998. 47 LA FUNZIONE ANTI-ABUSO DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO Law erano stati anticipati già nei primi decenni del secolo ventesimo, con riferimento al diritto finanziario in generale ed al diritto tributario oltre che dalla dottrina e legislazione tedesca, anche dalla concezione integralista della Scuola pavese13 e dalla visione sostanziale della Scuola napoletana 14. L’Economic Analysis of Law presenta elementi comuni anche con il realismo, sorto negli Stati Uniti egualmente nei primi decenni del secolo ventesimo e fondato sul presupposto della possibile esistenza di più significati del testo normativo e sulla componente creativa dell’interpretazione, condivisa attualmente da qualificata dottrina europea; sorge l’esigenza di contenere entro precisi limiti tale metodologia per conoscere, attraverso l’individuazione dei fini economici e sociali della legge tributaria, il vero significato del testo. L’Economic Analysis of Law indica, quali criteri di scelta del reale significato del testo legislativo, l’efficienza, che aumenta il benessere collettivo, e la giustizia redistributiva, che ripartisce tale benessere. Il diritto tributario, in virtù della scienza delle finanze e nel contesto del diritto finanziario, persegue finalità di giustizia redistributiva, con minor perdita di efficienza, rispetto agli altri rami del diritto; l’Economic Analysis of Law post-Chicago, depurata degli aspetti irrilevanti a tal fine ed integrata dai risultati ai quali è pervenuta attualmente la dottrina europea in circa un secolo di ricerche, fornisce all’interprete della legge tributaria gli strumenti necessari, specialmente al livello extragiuridico, per individuare tra più significati quello corretto, in quanto meglio realizza la giustizia redistributiva e l’efficienza, valori costituzionalmente garantiti 15. La metodologia rigorosa dell’interpretazione permette di comprendere se il beneficio fiscale ottenuto dal contribuente, sottraendosi al presupposto di imposta, consiste in un risparmio di imposta, cioè voluto dalla legge per determinate finalità economiche pubbliche. L’interprete in seguito riesce, in caso di risultato negativo, a capire se esistono valide ragioni economiche che giustifichino il comportamento del contribuente. Se anche quest’analisi conduce ad un risultato negativo, l’interprete deve dichiarare verificatosi l’abuso del diritto tributario e scatta la clausola generale di fonte comunitaria. 13 G. MELIS, Sull’interpretazione antielusiva in Benvenuto Griziotti e sul rapporto con la Scuola tedesca del primo dopoguerra: alcune riflessioni, in Riv. dir. trib., 2008, I, 413 ss. 14 Cfr. M. A. PLAZAS VEGA, Il diritto della finanza pubblica e il diritto tributario, Napoli, Jovene, 2009, 269. 15 Per una visione più ampia cfr. A. AMATUCCI, La cuestión metodológica entre los teóricos viejos y nuevos y la autonomía científica del derecho tributario, in Revista española de Derecho Financiero, 2005, 765; Konzepte der Besteuerung in Italien und in Deutschland, in Steuer und Wirtschaft, 2007, 285; Il contributo dell’Economic Analysis of Law alla metodologia del diritto tributario, in Riv. dir. trib. internaz., 2009, 25; Der Beitrag der Economic Analysis of Law zur Methodologie des Steuerrechts in Festschrift für Joachim Lang, Köln, 2011, 939. 48 Prof. Massimo Basilavecchia Professore Università di Teramo Presupposti ed effetti della sanzionabilità dell’elusione Come è noto, due recenti sentenze della Corte di Cassazione, l’una dovuta alla sezione tributaria1, l’altra alla cassazione penale 2, hanno sancito, sia pure sulla base di una ricostruzione non coincidente, la sanzionabilità dei comportamenti elusivi, sia sotto il profilo della sanzione amministrativa, sia sotto quello tributario. Può dirsi ora sufficientemente delineato un quadro interpretativo omogeneo, anche se basato su motivazioni non identiche, che definisce il quadro delle responsabilità dei soggetti che sono coinvolti in programmi finalizzati ad un indebito risparmio d’imposta, nel contempo privi di adeguate ragioni economiche. E’ del resto un quadro conforme all’ipotesi ricostruttiva avanzata da autorevolissima dottrina 3, in tempi non sospetti (e cioè quando il tourbillon giurisprudenziale su elusione e abuso non ancora compariva all’orizzonte), quadro dotato di una sua razionalità sia sotto il profilo giuridico, sia sotto quello delle valutazioni, più ampie, di politica del diritto. Esso assicura certamente un deterrente fondamentale: ma, va detto subito, non per questo appare condivisibile. La critica, che chi scrive aveva proposto sin dal 20054, investe sia l’aspetto punitivo in senso stretto, perché non vi è dubbio che la soluzione accolta priva di ogni graduazione la valutazione di comportamenti che hanno diversa consistenza, e nel contempo sembra 1 Cfr. Cass., 30 novembre 2011, n. 25537, in Corriere tributario n. 2/2012, pag. 107, con commento di F. Dami, «La condotta elusiva deve essere sanzionata pur nel rispetto dei principi generali». A tale scritto si rinvia per un’analisi dei precedenti che avevano visto talora la stessa Suprema Corte su posizione diversa; tra questi, particolare rilievo aveva avuto il tentativo – certamente fragile - di riconoscere l’obiettiva incertezza delle norme come esimente di diffusa applicazione a proposito di comportamenti elusivi. 2 Sez. II pen., Sent. 28 febbraio 2012, n. 7739 in C.T. n. 14/2012, pag. 1074, con commento di P. Corso, «Una elusiva sentenza della Corte di cassazione sulla rilevanza penale dell’elusione». Una critica radicale si deve a E. De Mita, Condotte elusive, il “granchio” della cassazione, in ilsole24ore 11 marzo 2012. La sentenza è stata invece condivisa da M. Miccinesi, La legge diventa più che mai necessaria, in ilsole24ore 29 febbraio 2012. 3 F. Gallo, «Rilevanza penale dell’elusione tributaria», in Rass. trib., 2001. 4 M. Basilavecchia, Funzione di accertamento tributario e funzione repressiva: i nuovo equilibri, in Dir.prat.trib. 2005, I, 3ss.; e poi in Norma antielusione e “relatività” delle operazioni imponibili IVA, in Corr.trib. 2006, 1466; e infine in Elusione e abuso del diritto: una integrazione possibile, in GT Riv. Giur.trib. 2008, 741. Argomentazioni analoghe sono state espresse anche da altri autori, anche se a conclusione di percorsi autonomi, si veda lo scritto di DAMI citato alla nota precedente. PRESUPPOSTI ED EFFETTI DELLA SANZIONABILITÀ DELL’ELUSIONE muovere verso una direzione diversa da quella indicata dal legislatore del 1999-2000; sia l’aspetto più propriamente tributario, nella misura in cui lo studioso della materia non può non avvertire perplessità nella sostanziale assimilazione operata dalla Cassazione tra elusione ed evasione. 1 I presupposti normativi Nella sentenza della Cassazione penale, la tesi della sanzionabilità è fondata su due dati normativi, l’art. 1 del d.lgs. 74/2000, che riconduce l’illecito alla dichiarazione di un’imposta minore di quella effettivamente dovuta, e l’art. 16 dello stesso decreto, che stabilisce l’esimente collegata all’avvenuta conformazione del contribuente al parere reso dal (poi soppresso) Comitato per l’applicazione della norma antielusiva. Quanto all’art. 16, non menziona espressamente i comportamenti elusivi, ma va ragionevolmente riferito a ipotesi di vera e propria frode, nelle quali la coincidenza tra assetti negoziali e realtà effettiva viene meno, proprio perché quello che si intende rappresentare al Fisco è un fatto imponibile con caratteristiche diverse da quelle reali (molti casi di esterovestizione, ad esempio, possono rientrare in quest’area, così come tutte quelle ipotesi nelle quali non più di elusione si tratta, ma di simulazione in senso proprio: ed in questo senso andrebbe analizzata e approfondita la comune sorte che la sentenza assegna sia all’art. 37, terzo comma, che all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, e andrebbe compreso perché il riferimento ad abuso ed elusione sostituisce spesso una più piana qualificazione dei comportamenti in termini di frode e di simulazione). La sentenza della sezione tributaria impiega anche lo stesso art. 37-bis, nella parte in cui, disciplinando la riscossione provvisoria in tempi attenuati, allude alla iscrivibilità delle sanzioni. In realtà, ad un esame obiettivo del comma 6 dell’art. 37-bis, si nota che la parola sanzioni compare nella parte di testo esplicativa dei contenuti e della rubrica dell’art. 68 d.lgs. 546/92, in applicazione del principio di trasparenza delle citazioni normative in testi di legge, che impone, ex art. 2 comma 3 statuto dei diritti del contribuente, l’enunciazione del contenuto del provvedimento di legge cui si fa richiamo. Il dato testuale, in questo caso, appare irrilevante. Il tenore letterale dell’art.1 d.lgs. 74/2000 – così come quello dell’art. 1 d.lgs. 471/97, sulle sanzioni amministrative - è però inidoneo, da solo, a sorreggere la tesi della punibilità: è vero infatti che la disposizione lascia intendere che ci può essere reato ogni volta che viene accertata una maggiore imposta, ma, sempre sul piano letterale, si può osservare che tale differenziale è considerato rilevante se “evaso” (e non se oggetto di elusione). 2 I contenuti dell’obbligo di dichiarazione e la natura della disposizione antielusiva Il presupposto dell’illecito richiede dunque un passaggio logico ulteriore, quello di stabilire che il contribuente abbia l’obbligo di dichiarare l’imponibile e l’imposta senza considerare gli atti e i comportamenti qualificabili come elusione. Nella logica della sentenza, per di più, la nozione 50 PRESUPPOSTI ED EFFETTI DELLA SANZIONABILITÀ DELL’ELUSIONE di elusione che può costituire reato è ricondotta alle fattispecie espressamente contemplate dall’art. 37-bis d.p.r. 600/73, il che permette di precisare che in sede di dichiarazione il contribuente dovrebbe, secondo tale impostazione, tenere conto della sola inopponibilità al fisco di una serie di atti e comportamenti previsti dalla norma (quasi)generale antielusiva. Diverso, come noto, l’approccio della sezione tributaria, che non sembra distinguere e individuare sorti diverse per elusione e abuso. Ma se l’inopponibilità non costituisce oggetto di un giudizio ex post, formulato in sede di accertamento, ma deve essere considerata e applicata già dal contribuente in sede di dichiarazione, ciò vuol dire che la norma dell’art. 37-bis ha valenza sostanziale, cioè contribuisce a definire i criteri di selezione e di qualificazione del fatto imponibile, in funzione integrativa dapprima delle norme che regolano i singoli tributi ai quali si ritenga applicabile la disposizione, successivamente delle stesse norme che presiedono alla redazione e alla presentazione della dichiarazione. Questa qualificazione della norma antielusiva è sempre apparsa a chi scrive da respingere. A parte l’indubbio dato testuale, e la collocazione certo non arbitraria della norma tra quelle attributive di poteri all’Amministrazione finanziaria, non è condivisibile l’idea che allo stesso contribuente che ha scelto delle soluzioni negoziali trasparenti e palesi (destinate a restare pienamente efficaci verso i terzi) venga chiesto di rinnegarle in sede di adempimenti fiscali: il superamento della soglia di tollerabilità della pianificazione fiscale può allora costituire oggetto di rettifica ex post da parte del Fisco, e con il recupero della maggiore imposta viene trovato un equilibrio che, pur essendo già molto gravoso per il contribuente, non postula un irragionevole obbligo dichiarativo avulso dagli effetti giuridici degli atti posti in essere. Come potrebbe, d’altra parte, il contribuente, compiere il giudizio di mancanza di valide ragioni economiche, che è giudizio che per sua natura postula un’alterità tra il soggetto che ha compiuto le scelte negoziali e quello che le valuta, al fine di considerare inapplicabili assetti che, a tutti gli altri fini e in particolare nelle implicazioni civilistiche, restano perfettamente validi verso i terzi diversi dal fisco? Si chiede forse di dichiarare in sede fiscale, dunque pubblicamente, che vi sono atti rilevanti verso i terzi che non hanno giustificazione, non sono sorretti da un interesse meritevole di tutela? La cd. pianificazione fiscale è, in una certa misura, insopprimibile, e alla disciplina legislativa - compresa quella che prevede le sanzioni - certo compete di contenerla in limiti accettabili. Il compito del Fisco, in tale contesto, dovrebbe essere quello di individuare casi nei quali alcune azioni ispirate da pianificazione fiscale non possono essere tollerate, perché arrecano un sostanziale vulnus all’art. 53 Cost.; ma, se quelle azioni sono state effettuate in piena trasparenza, il recupero dell’imposta e degli interessi appare più che adeguato a ripristinare un equilibrio, soprattutto se l’azione del Fisco (e della giurisprudenza, che si è fatta negli ultimi anni, attraverso il rilievo d’ufficio dell’abuso, promotrice concorrente del contrasto all’elusione) non è limitata a casi eccezionali, ma diventa un vero e proprio 51 PRESUPPOSTI ED EFFETTI DELLA SANZIONABILITÀ DELL’ELUSIONE metro di giudizio, ex post, della generalità dei comportamenti dei contribuenti. 3 Gli effetti all’evasione della giurisprudenza: omologazione dell’elusione Non vi è dubbio che traendo le conseguenze logiche da tale orientamento giurisprudenziale, si perda sostanzialmente ogni differenza tra comportamenti elusivi ed evasione, e si finisca con il considerare meritevoli di una stessa sanzione sia i primi che la seconda. Vi è infatti una ragione, se, concettualmente e didatticamente, evasione ed elusione sono stati sempre considerati su piani distinti; a differenza della prima, infatti, la seconda si avvale di comportamenti non solo del tutto espliciti e trasparenti, ma dotati altresì di piena rilevanza sotto il profilo civilistico e, in generale, nei confronti di terzi, anche se soggetti pubblici5. Ma soprattutto, mentre l’evasione ha un suo substrato oggettivo che, ancorché accertato su presunzioni, consente comunque di accertare l’inadempimento di obblighi fiscali precisamente individuati, l’elusione è basata su apprezzamenti soggettivi, sulla ricostruzione degli intenti effettivamente perseguiti, e soprattutto presuppone un giudizio, delicatissimo e fortemente opinabile, circa la corretta tassazione che quel contribuente avrebbe dovuto subire, senza i comportamenti elusivi. Le norme tributarie non sono peraltro rivolte a comportamenti tenuti nel passato, ma disciplinano forme di prelievo destinate ad applicarsi nel futuro, senza poter presupporre che la totalità dei contribuenti lasci invariate le proprie situazioni fiscali per «accogliere» la nuova tassazione in arrivo. Ipotizzare che vi sia una strada obbligata per assoggettare ad imposta determinate situazioni, e che vi sia un gettito obbligato preventivabile da ciascun contribuente, trascura la libertà contrattuale e la funzione stessa delle norme tributarie, che indirizzano i comportamenti dei contribuenti anche a fini di politica economica, contemplando la possibilità di fisiologici tentativi di attenuazione del prelievo fiscale e prevedendo generalmente una serie di antidoti preventivi (in particolare, le norme antielusive specifiche, introdotte «immaginando» le forme di elusione più prevedibili). 4 Un’ipotesi Fermo restando che, pur nel rispetto di tutte le esigenze equitative apprezzabili in merito, la sanzionabilità degli atti elusivi appare da evitare, soprattutto in un contesto in cui i tradizionali metodi di accertamento sono sostituiti, praeter legem, dal ricorso a concetti indeterminati e atipici, e una notevole massa di avvisi di accertamento menziona l’abuso e l’elusione quale insuperabile atout motivazionale, senza tener conto che un giudizio così labile dovrebbe essere limitato a casi eccezionali, una prospettiva punitiva più 5 Si veda da ultimo l’interessante dialogo Troyer-Stevanato – RL, Profili penali dell’elusione: conferme sull’irrilevanza penale dell’elusione, in Dialoghi tribut., 2012, 19. 52 PRESUPPOSTI ED EFFETTI DELLA SANZIONABILITÀ DELL’ELUSIONE corretta potrebbe essere impostata recuperando, quanto meno in questi casi, la vecchia idea della punibilità dei comportamenti prodromici, che ispirò la normativa nota come manette agli evasori (d.l. 429/1982). Occorrerebbe individuare l’illecito nella predisposizione di assetti finalizzati esclusivamente al conseguimento di vantaggi fiscali indebiti, sganciando la punibilità dalla dichiarazione e identificando il reato nello stravolgimento della libertà negoziale a fini di indebito risparmio, costruendo delle soglie sulla base di elementi diversi dall’imposta o dagli imponibili sottratti a imposizione. Il reato potrebbe essere a metà strada tra un reato tributario e un reato contro le libertà economiche, o, con maggiore difficoltà, di truffa ai danni dello stato. La definizione normativa non dovrebbe rendere possibile una punibilità generalizzata di tutte quelle forme di occultamento di imponibile non riconducibili al’evasione e qualificate, nella prassi, e in chiave semplificatoria, come elusione / abuso. 53 . Prof. Andrea Carinci Professore Università di Bologna Elusione tributaria, abuso del diritto e applicazione delle sanzioni amministrative 1 Introduzione: i termini del problema Il tema che mi è stato affidato e che sarà oggetto delle considerazioni che seguono è indubbiamente un tema “caldo”, di cui si è discusso diffusamente ed in modo autorevole, ma su cui non sembrano ancora raggiunti risultati sufficientemente univoci e consolidati. Il tema può essere sintetizzato nell’interrogativo se i due fenomeni del contrasto all’elusione e della sanzionabilità dell’elusione (ossia dell’applicazione di sanzioni amministrative o penali in occasione del disvelamento di pratiche elusive) si pongano in un rapporto di consequenzialità necessaria o meno. Se, in altri termini, il contrasto all’elusione implichi naturalmente anche l’irrogazione di sanzioni, ovvero, per ragioni ordinamentali e/o sistematiche, lo escluda, esaurendosi (dovendosi esaurire) nel solo recupero dell’imposta elusa. Per evidenti ragioni di sintesi, si deve dare qui per acquisita la definizione di elusione. Parimenti per acquisito si deve dare l’assunto, da cui bisogna prendere le mosse, secondo cui l’elusione rappresenta un fenomeno riprovato dall’ordinamento. Un fenomeno, in particolare, cui l’ordinamento reagisce con strumenti diversi, per presupposti, modalità di funzionamento e conseguenze, ma con l’obiettivo comune di disinnescare e contrastare il comportamento reputato elusivo. Come noto, gli strumenti tradizionalmente impiegati nel contrasto all’elusione fiscale sono: (i) le misure volte a contrastare specifici comportamenti individuati e tipizzati; (ii) le misure sprovviste di una tipizzazione del comportamento contrastato, ma incentrate sulla predeterminazione di parametri di elusività (risparmio indebito; assenza di valide ragioni economiche ecc.) e con ambiti di operatività più o meno generalizzati; (iii) i principi generali. Ebbene, ai fini che qui interessano, va subito evidenziato che l’attenzione deve essere riservata alle ultime due modalità di contrasto all’elusione. Questo perché il comportamento elusivo oggetto di specifica censura - a ben vedere - si risolve nella violazione della relativa norma diretta a prevenirlo: sicché qui un problema di sanzionabilità dell’elusione, a rigore, neppure si pone, posto che si tratta semmai di sanzionare, non l’aggiramento di una norma, quanto la violazione di una previsione diretta a prevenire un dato comportamento. ELUSIONE TRIBUTARIA, ABUSO DEL DIRITTO E APPLICAZIONE DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE Negli altri due casi, invece, la mancata tipizzazione del comportamento non consentito solleva l’interrogativo se la reazione dell’ordinamento si debba esaurire nella sola applicazione dell’imposta che s’intendeva eludere, ovvero possa/debba portare con sé anche le sanzioni ordinariamente previste per contrastare i fenomeni di sottrazione di materia imponibile. La ragione dell’interrogativo è presto detta. Tralasciando la questione dell’illecito penale, oggetto di altre relazioni, e quindi concentrando l’attenzione alle sole sanzioni amministrative 1, si osserva che la fattispecie sanzionatoria, usualmente evocata trattando di elusione fiscale, è l’art. 1, co. 2, del D.Lgs. n. 471/97, ai sensi del quale “se nella dichiarazione è indicato, ai fini delle singole imposte, un reddito imponibile inferiore a quello accertato o, comunque, un’imposta inferiore a quella dovuta […], si applica la sanzione amministrativa del cento al duecento per cento della maggior imposta […]”. Si tratta, con ogni evidenza, di una fattispecie a condotta libera, dove per l’applicazione della sanzione è (appare) sufficiente una differenza meramente quantitativa tra dichiarato ed accertato. Il comportamento sanzionato è, infatti, la sola omessa dichiarazione del maggior imponibile accertato, senza che assuma valore alcuno la circostanza che tale imponibile sia stato accertato disvelando comportamenti evasivi (condotti in violazione di norme specifiche) piuttosto che elusivi (che quindi abbiano aggirato l’applicazione di una data norma, senza però violarla apertamente). Ragionando in questo modo, però, bisogna poi allora dare atto che la reazione ordinamentale per l’elusione e per l’evasione è sostanzialmente la medesima. Il che, tuttavia, non appare né razionale né proporzionato, trattandosi di vicende intrinsecamente differenti e con un disvalore sicuramente diverso, indubitabilmente maggiore per l’evasione rispetto all’elusione, in aperta violazione dell’art. 3 della Costituzione. Per tali ragioni la risposta all’interrogativo non può reputarsi soddisfatta dalla sola lettura del dato positivo riportato. Occorre, invece, tentare un approccio sistematico, per verificare se, in concreto, la reazione dell’ordinamento all’elusione realmente possa (ovvero debba) essere ulteriore rispetto al solo recupero dell’imposta elusa. 2 Elusione ed abuso del diritto Nonostante una tendenziale (soprattutto ad opera della giurisprudenza) idea di fungibilità tra i due “strumenti” di contrasto al fenomeno elusione, rappresentati dalla clausola antielusiva di portata generale di cui all’art. 37bis del D.P.R. n. 600/73 e dal principio dell’abuso del diritto, appare largamente prevalente l’idea che, proprio sul tema delle sanzioni, s’imponga una differenziazione tra i predetti strumenti. 1 Questo anche se – va detto – la conformazione afflittiva delle sanzioni amministrative, quale si evince dai DD.Lgs. n. 471, 472 e 473 del 1997, rende in larga misura paralleli i ragionamenti per i due sistemi sanzionatori. 56 ELUSIONE TRIBUTARIA, ABUSO DEL DIRITTO E APPLICAZIONE DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE Si ritiene, in particolare, che la matrice giurisprudenziale del principio anti abuso e, quindi, la mancanza di un fondamento normativo per tale strumento di contrasto all’elusione, determini, quale naturale conseguenza, l’inapplicabilità di ogni tipo di sanzione, stante l’assenza di qualsivoglia tipizzazione normativa del comportamento suscettibile di essere censurato e sanzionato. L’applicazione della clausola dell’abuso del diritto, proprio perché non positivizzata, non consentirebbe insomma di soddisfare quei parametri di tassatività e di determinatezza che, in ossequio all’art. 25 della Costituzione, debbono invece sussistere per consentire di punire, anche in via amministrativa, un dato comportamento. Dal momento che le condotte che possono comportare l’applicazione della predetta clausola sono assolutamente indeterminate, ne consegue l’incompatibilità di ogni pretesa sanzionatoria ulteriore rispetto al mero recupero delle imposte eluse. Questa soluzione, del resto, è stata prospettata già nella nota sentenza Halifax (CGE del 21 febbraio 2006, causa C-255/02), dove si è testualmente affermato che “la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre a una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco, bensì e semplicemente a un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni dell’Iva assolta a monte” (punto 93). Ciò a dire proprio che l’applicazione del principio del’abuso del diritto può portare solamente al recupero dell’imposta elusa, ma non pure alla comminazione di sanzioni, per le quali occorre invece una base normativa puntuale e determinata, idonea a specificare in termini chiari ed univoci il comportamento riprovato. In termini non dissimili si è di recente pronunciata anche la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25537 del 30 novembre 2011, dove ha riconosciuto che il principio di legalità, che informa il sistema sanzionatorio tributario anche amministrativo, “porta ad escludere che una sanzione amministrativa in materia tributaria possa essere applicata a fronte della violazione non di una precisa disposizione di legge ma di un principio generale, quale quello antielusivo ritenuto immanente al sistema”. Si affaccia, per questa via, la conclusione di una sostanziale ed irriducibile incompatibilità tra abuso del diritto e sanzioni tributarie. Con la conseguenza che il contrasto all’elusione fiscale, attuato mediante lo strumento dell’abuso del diritto, è destinato ad esaurirsi nel solo recupero dell’imposta elusa, senza anche la comminazione di ulteriori sanzioni. Al contempo però, simile conclusione lascia aperto il quesito con riguardo all’altro strumento di contrasto all’elusione, integrato dalla clausola generale di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/73. Perché qui, in effetti, una tipizzazione, ancorché sommaria, dei comportamenti suscettibili di censura è compiuta in via normativa, sicché – a tacer d’altro - è configurabile quel “fondamento normativo chiaro ed univoco” evocato dalla Corte di Giustizia nel citato caso Halifax. 57 ELUSIONE TRIBUTARIA, ABUSO DEL DIRITTO E APPLICAZIONE DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE 3 Sanzioni ed art. 37-bis del D.P.R. n. 600/73: le opinioni in campo Il tema dell’irrogabilità delle sanzioni, a seguito e per l’effetto dell’applicazione della norma generale antielusiva di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/73, è stato tradizionalmente affrontato e risolto in ragione dell’opzione preferita circa la natura della norma predetta. Ad avviso di coloro che avversano l’applicazione delle sanzioni, l’art. 37-bis rappresenterebbe una norma di natura meramente procedurale, diretta alla sola amministrazione finanziaria e volta a disciplinare l’esercizio di un peculiare potere della stessa. In questo senso militerebbe, in particolare, la collocazione della norma de qua all’interno del D.P.R. n. 600/73 dedicato all’accertamento, in luogo del Tuir, come pure la previsione di un peculiare procedimento in contraddittorio in cui l’Amministrazione non solo “disconosce i vantaggi tributari” ma, soprattutto, applica “le imposte determinate in base alle disposizioni eluse”. Corollario di una simile ricostruzione è riconoscere quale presupposto per l’applicazione dell’art. 37bis l’intervento dell’amministrazione finanziaria e, parallelamente, negare in capo al contribuente l’obbligo di dare spontanea applicazione all’art. 37-bis, in sede di compilazione della propria dichiarazione. Con l’ulteriore conseguenza, evidentemente, di non poter sanzionare il contribuente per non avere tenuto conto dell’art. 37-bis in sede di predisposizione della dichiarazione. Del resto, viene fatto notare, nel testo dell’articolo in oggetto manca ogni previsione riferita all’irrogazione delle sanzioni 2. In questo senso, si sono pronunciate numerose commissioni di merito. La soluzione opposta, che propende per l’applicazione delle sanzioni, ragiona invece assegnando alla norma in commento natura sostanziale. Di norma, cioè, che non disciplina tanto un potere dell’amministrazione finanziaria, quanto e prima individua i corretti termini del dovere di contribuzione, ossia la misura della manifestazione di capacità contributiva colta dalla specifica imposta. Ragione per cui anche il contribuente ne sarebbe il destinatario e, proprio perché tale, sarebbe tenuto a darne applicazione in sede di compilazione della dichiarazione dei redditi3. Con l’inevitabile conseguenza di dover subire, in caso di omissione, l’applicazione delle sanzioni per infedele dichiarazione. 2 Il comma 6, inibendo la riscossione fino alla sentenza di primo grado, si riferisce, in effetti, alla sola maggiore imposta e agli interessi, trascurando le sanzioni. Si può replicare, però, che le sanzioni sono già riscuotibili, per regola generale, solo dopo la sentenza di primo grado (art. 19, D.Lgs. n. 472/97), sicché non vi era alcuna esigenza di farne espressa menzione nel testo del comma citato. 3 Ad avviso di una terza soluzione (Falsitta), infine, l’art. 37-bis andrebbe letto come norma sull’interpretazione; come norma, in particolare, volta a consentire all’amministrazione finanziaria di applicare, per analogia, alla fattispecie elusiva le norme eluse. Ai fini che qui occupano, in ogni caso, anche per questa tesi le sanzioni non sarebbero applicabili, posto che l’analogia esclude, per definizione, la possibilità di soddisfare i principi di tassatività e di legalità, che debbono informare il sistema sanzionatorio. 58 ELUSIONE TRIBUTARIA, ABUSO DEL DIRITTO E APPLICAZIONE DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE Va però osservato che, anche chi riconosce all’art. 37-bis natura sostanziale e, per questa via, conclude per la sanzionabilità del contribuente il quale, in sede di dichiarazione non ne abbia dato applicazione, riconosce la possibilità di verificare, caso per caso, la sussistenza di un’obiettiva condizione di incertezza, ex art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 472/97. L’intenzione, con ogni evidenza, è quella di modulare, in termini equitativi, la portata della sanzionabilità dell’elusione, per riservarla, in linea di principio, ai soli comportamenti più smaccatamente e sfacciatamente elusivi e per lasciare invece esenti da responsabilità quei casi effettivamente dubbi ed incerti. Di questo avviso appare la giurisprudenza della Suprema Corte 4. 4 (segue) l’art. 37-bis quale norma sulle fonti e l’irriducibilità logicaconcettuale di sanzioni ulteriori all’applicazione del tributo nel caso di elusione Alla stregua di quanto visto, si evince che l’applicabilità o meno delle sanzioni in virtù dell’impiego dell’art. 37-bis consegue ad un’opzione qualificatoria in merito alla natura della predetta norma, come formale ovvero sostanziale. Per ragioni diverse, tuttavia, nessuna delle due opzioni appare soddisfacente. Più di recente, si è affacciata in dottrina (La Rosa) una lettura dell’art. 37-bis in parte differente da quelle testé esaminate, che sembra offrire un inquadramento nuovo ma chiaro e convincente, soprattutto in un quadro sistematico, della disposizione in oggetto. Ad avviso di tale dottrina, in particolare, l’art. 37-bis integrerebbe una “norma sulle norme”. Una norma cioè che, abilitando l’Amministrazione finanziaria a non applicare talune norme e ad applicarne altre, consentirebbe di derogare al sistema delle fonti normative ed ai criteri di interpretazione e di applicazione delle stesse: di non applicare, in sostanza, le norme che andrebbero applicate in ragione della sussumibilità nella rispettiva fattispecie astratta della fattispecie concreta, per applicare invece norme ulteriori, la cui ratio ma non la fattispecie appare soddisfatta nel caso concreto. Concepita come “norma sulle norme”, la previsione in oggetto si porrebbe peraltro in termini tendenzialmente speculari con la previsione contenuta al comma 8 del medesimo art. 37-bis, dove, come noto, è disciplinato il cd. interpello disapplicativo, ossia il potere per l’amministrazione finanziaria, su istanza del contribuente, di disapplicare specifiche norme dirette a contrastare comportamenti elusivi. E in entrambi i casi, in effetti, è contemplata la possibilità di non applicare le norme di legge che, secondo i canoni ermeneutici correnti (art. 12 delle preleggi), lo dovrebbero essere. Sennonché, inquadrata in questi termini, ossia come norma che abilita una deroga al sistema delle fonti normative e dei canoni di loro interpretazione ed applicazione, è chiaro che non si può porre un problema di sanzioni. Quello che viene in considerazione è, a ben vedere, un potere affatto speciale, 4 Così Cass. n. 25537/2011, cit. 59 ELUSIONE TRIBUTARIA, ABUSO DEL DIRITTO E APPLICAZIONE DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE necessariamente da riservare alla sola amministrazione finanziaria (come del resto accade con il comma 8 del medesimo articolo 37-bis) e, conseguentemente, sottratto al singolo contribuente. Questi, difatti, non può reputarsi legittimato a non applicare determinate norme di legge per applicarne altre, in ragione peraltro di parametri metagiuridici come “indebiti vantaggi”, “aggiramento delle norme”, “assenza di valide ragioni economiche”. Non legittimato ma, evidentemente, neppure costretto, con la conseguenza che l’applicazione dell’art. 37-bis potrà comportare il solo recupero della maggiore imposta, non pure delle sanzioni. Né vale replicare che l’applicazione dell’art. 37-bis a cura del contribuente costituisce, in realtà, una conclusione necessitata dall’art. 53 della Costituzione: che, in altre parole, l’osservanza della ratio della norma impositiva, e quindi la disapplicazione dei canoni di applicazione delle leggi, rappresenterebbe un obbligo imposto per assicurare il corretto concorso alle pubbliche spese in ragione della reale capacità contributiva. Va osservato, difatti, che l’elusione fiscale non sembra avere niente a che fare con l’art. 53 della Costituzione: l’elusione non è un problema di giusto riparto, se non indirettamente, quanto di credibilità e tenuta del sistema. L’ordinamento contrasta l’elusione non perché non può tollerare che le smagliature nella rete di norme impositive sia utilizzata per sfuggire all’imposizione, posto che, se questa finalità non è esclusiva o prevalente, il comportamento è perfettamente legittimo e tollerato. Ciò per dire che non vi è un rifiuto a priori del comportamento oggettivamente idoneo ad eludere l’applicazione di una norma impositiva, posto che, per restare oggetto di censura, occorre che sia sprovvisto di ragioni giustificative ulteriori rispetto al risparmio d’imposta. Sicché, sono le ragioni economiche ulteriori ad integrare il parametro che determina la legittimità/illegittimità di un dato comportamento ai fini della disciplina antielusiva. Ebbene, le ragioni economiche (la loro sussistenza e sufficienza) ben possono integrare un indice di meritevolezza o meno di un comportamento, ai fini di una valutazione in termini legittimità/illegittimità dello stesso. Riesce difficile invece conciliare la rilevanza di tale indice con il riparto delle spese pubbliche, ossia ad intenderlo quale indice di capacità contributiva: non si comprende, infatti, come e perché lo stesso comportamento possa ritenersi idoneo a fondare il concorso alle pubbliche spese in ragione del fatto di essere accompagnato o meno da valide ragioni economiche. Riceve così ulteriore conferma la conclusione sopra esposta, che induce a leggere la disciplina antielusiva come attribuzione di un potere speciale all’amministrazione finanziaria diretto a contrastare comportamenti ritenuti riprovevoli dall’ordinamento. Comportamenti che sono reputati riprovevoli non in termini assoluti, bensì relativi, ossia solo se ed in quanto sprovvisti di ragioni ulteriori, diverse e prevalenti, da quelle integrate dal desiderio di risparmiare le imposte. Quando, in altre parole, non hanno altra giustificazione che quella di approfittare delle smagliature del sistema. Ragione per cui il sistema predispone strumenti di contrasto. 60 ELUSIONE TRIBUTARIA, ABUSO DEL DIRITTO E APPLICAZIONE DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE Consegue da ciò, la presa d’atto di una naturale inconciliabilità dello strumento antielusivo con l’applicazione delle sanzioni per infedele dichiarazione, dal momento che, trattandosi di un potere speciale accordato all’amministrazione, non è configurabile alcun obbligo dichiarativo inadempiuto in capo al contribuente. Le sanzioni amministrative tributarie appaiono pensate per punire la sottrazione di materia imponibile, laddove il contrasto all’elusione si configura, sostanzialmente, come reazione dell’ordinamento a comportamenti che ne mettono in discussione la completezza, coerenza e funzionalità. Per tale ragione si è portati a ritenere che la reazione e quindi la sanzione dell’ordinamento all’elusione debba essere la sola applicazione delle norme impositive eluse, in luogo di quelle che, in conformità con la gerarchia delle fonti ed i canoni di applicazione delle leggi, andrebbero applicate al caso concreto. Nota bibliografica Attardi C., Elusione fiscale, abuso del diritto e sanzioni tributarie, in Il fisco, 2011, p. 212. Circ. n. 13/IR del 6 febbraio 2010 dell’Istituto di ricerca dei dottori commercialisti e degli esperti contabili. Corasaniti G., Contrasto all’elusione e all’abuso del diritto nell’ordinamento tributario, in Obbligazioni e contratti, 2012, p. 325. Corrado L. R., Elusione tributaria, abuso del diritto (comunitario) e inapplicabilità delle sanzioni amministrative, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 551 Del Federico L., Elusione e illecito tributario, in Corr. trib., 2006, 3110. Falsitta G., Natura delle disposizioni contenenti "norme per l’interpretazione di norme" e l’art. 37 bis sull’interpretazione analogica o antielusiva, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 519. Fransoni G., Efficacia e impugnabilità degli interpelli fiscali con particolare riguardo all’interpello disapplicativo, in AA.VV. (a cura di G. Maisto) Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, p. 77. La Rosa S., Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 785. Marcheselli A., Elusione, buona fede e principi del diritto punitivo, in Rass. trib., 2009, p. 401. Mastroiacovo V., L’economicità delle valide ragioni (note minime margine della recente evoluzione del principio dell’abuso del diritto), in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 449. Screpanti S., Elusione fiscale, abuso del diritto e applicabilità delle sanzioni amministrative, in Rass. trib., 2011, p. 413. 61 Prof. Alberto Comelli Professore Università di Parma L’abuso del processo, con particolare riferimento al processo tributario Sommario: 1. Premesse sull’abuso del processo, quale “tema sempre più ricco di sfaccettature”, al fine di circoscrivere precisamente l’indagine. – 2. L’abuso del diritto, l’abuso del processo ed il loro nesso di collegamento ontologico, tra le situazioni giuridiche soggettive e la loro proiezione (eventuale) nella dimensione processuale. – 3. L’abuso del processo civile, gli artt. 88 e 96 c.p.c. e la recente esperienza giurisprudenziale sulla valorizzazione della regola della correttezza e buona fede, sul giusto processo e sulla sua incompatibilità con l’irragionevole durata dello stesso. – 4. L’abuso del processo nella sentenza delle sezioni unite penali della Suprema Corte n. 155/2012, quale uso distorto del diritto di agire o di reagire in giudizio, ovvero in termini di frode alla funzione. – 5. Due importanti sentenze del Consiglio di Stato, depositate nel 2012, sul generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, che permea sia le condotte sostanziali, sia i comportamenti processuali di esercizio del diritto. – 6. L’abuso del processo tributario: due fattispecie in relazione alle quali è intervenuto il legislatore mediante la mini-riforma del processo in termini alla fine dell’anno 2005. 7. – (Segue): gli artt. 88 e 96 c.p.c., la giurisprudenza delle sezioni unite civili della Suprema Corte sull’abuso processuale ed alcune fattispecie concrete di abuso calibrate sul processo tributario. 8. – Osservazioni conclusive: la figura dell’abuso del processo investe trasversalmente tutte e tre le giurisdizioni domestiche, ma si specifica e si adatta in modo largamente diverso e calibrato all’interno di ciascuna di esse. Dubbi sull’efficacia dell’art. 96, 3° co., c.p.c. al fine di arginare e scoraggiare l’abuso del processo tributario. 1 Premesse sull’abuso del processo, quale “tema sempre più ricco di sfaccettature”, al fine di circoscrivere precisamente l’indagine È opportuno formulare alcune indispensabili premesse metodologiche per circoscrivere precisamente e puntualmente il tema che formerà l’oggetto della presente indagine. L’abuso processuale sarà approfondito particolarmente in relazione al processo civile (1) ed a quello tributario, senza trascurare, (1) Con rifermento al XXVIII convegno nazionale della Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, tenutosi ad Urbino il 23 e 24 settembre 2011, sul tema “l’abuso del processo”, risultano pubblicate, al momento, le relazioni di M. TARUFFO, L’abuso del processo: profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 117 ss. e di G. SCARSELLI, Sul c.d. abuso del processo, in www.studiolegalescarselli.com, oltre al volume, che trae occasione dalla relazione L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO tuttavia, la giurisprudenza più recente con riferimento al processo penale ed a quello amministrativo. Sarà in questo modo possibile il tentativo di fornire un originale contributo che tenga nella dovuta considerazione i tre plessi giurisdizionali nei quali si articola il nostro ordinamento giuridico, vale a dire la giurisdizione ordinaria, quella amministrativa e quella tributaria, ciascuna caratterizzata da una immanente parità e autonomia nei confronti delle altre, con pieno rispetto dei propri percorsi evolutivi e distinte ratione materiae, per le quali manca solamente, secondo una ulteriore prospettiva evolutiva, la piena e definitiva consacrazione a livello costituzionale ( 2). Si tratta, a quanto consta, del primo contributo sul versante tributari stico ( 3), mentre saranno segnalati (alcuni tra i) numerosi approfondimenti sull’abuso processuale da parte degli studiosi del processo civile ai quali, di volta in volta, sarà opportuno fare riferimento. Sotto altro profilo, la presente indagine sarà limitata alle sole ipotesi di abuso posto in essere dalle parti e dai loro difensori, pur non potendo negarsi a priori che anche il giudice possa commettere abusi ( 4). Inoltre, sarà affrontato il tema dell’abuso in modo da ricomprendere sia il concetto di abuso del processo, vale a dire di abuso della tutela giurisdizionale tout court, sia quello di abuso nel processo, inteso come abuso realizzato mediante il compimento di specifici atti che rientrano nella vicenda processuale (5). Viceversa, non saranno esaminati e resteranno, per così dire, “sullo sfondo” i profili deontologici che sono collegati alle scelte processuali degli avvocati svolta, di M. F. GHIRGA, Abuso del processo e sanzioni, Milano, 2012, passim. V. anche L. P. COMOGLIO, Abuso del processo e garanzie costituzionali, in Riv. dir. proc., 2008, 319 ss.; l’ampio lavoro, con un’approfondita indagine storica, di F. CORDOPATRI, L’abuso del processo, vol. I e II, Padova, 2000, passim; A. DONDI, Abuso del processo (diritto processuale civile), Enc. dir., Annali, III, 2010, 1 ss.; ID., A. GIUSSANI, Appunti sul problema dell’abuso del processo civile nella prospettiva de iure condendo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 193 ss. Inoltre, cfr. M. IAPPELLI, Nuove forme di abuso del processo: il procedimento cautelare, in Giur. merito, 2009, sez. II, 1271 ss. (2) Cfr. C. GLENDI, Verso l’unità della giurisdizione tributaria, in L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano, Atti del convegno di Genova, 2-3- luglio 1999, I settanta anni di “Diritto e pratica tributaria”, coordinati da V. UCKMAR, Padova, 2000, 634, il quale auspica l’esplicita consacrazione, a livello costituzionale, dell’autonomo assetto ordinamentale del giudice tributario. (3) Se si eccettua l’approfondito lavoro di C. SCALINCI, Abuso del diritto e abuso del processo in materia fiscale, in L’abuso del diritto, del processo e nel processo, suppl. a Giur. merito, n. 12/2007, 119 ss. (4) La stessa considerazione è svolta da M. F. GHIRGA, Abuso del processo e sanzioni, cit., 29, la quale esattamente osserva che l’abuso da parte del giudice delle prerogative processuali sconfina nell’esame dell’ordinamento giudiziario e della disciplina della responsabilità del magistrato, che attualmente forma oggetto di proposte di riforma. (5) La distinzione è stata operata da M. TARUFFO, L’abuso del processo, cit., loc. cit., 117 e 118. 64 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO (6) e saranno evitate, altresì, valutazioni di tipo etico. Inoltre, non sarà possibile approfondire, in questa ricerca, la giurisprudenza sovranazionale e, segnatamente, della Corte europea dei diritti dell’uomo ( 7) e della Corte di giustizia europea. Non è superfluo osservare, in sede di completamento delle premesse, che il tema dell’abuso processuale ( 8) negli ultimi due decenni ha formato oggetto di una crescente attenzione da parte degli studiosi del processo (soprattutto, di quello civile, ma anche di quello penale), mentre la giurisprudenza ha applicato e chiarito tale concetto in numerose sentenze, facendo emergere una notevole varietà di ipotesi nelle quali l’abuso in questione può essere applicato e calibrato sul caso concreto prospettato dalle parti. Come è stato esattamente osservato (9), si tratta di “un tema sempre più ricco di sfaccettature e di diverse prospettive di indagine”. Tutto questo rende, se possibile, ancora più urgente una riflessione sul versante del processo tributario. Difatti, in questo settore, l’attenzione della dottrina si è rivolta esclusivamente all’elaborazione del concetto di abuso del diritto e non anche a quella dell’abuso del processo, pur essendo questo profilo di grande interesse scientifico. In tale ambito, forse, si è discusso troppo di abuso del diritto e troppo poco di abuso del processo, con tutti i relativi corollari ed è giunto il momento di tentare di affrontare il tema con maggiore equilibrio. Procedendo con ordine, sarà opportuna una breve e preliminare ricognizione del nesso di collegamento tra l’abuso del diritto e l’abuso processuale, suscettibile di giustificare questa relazione nel contesto di un convegno dedicato, come si evince dal titolo, all’abuso del diritto e non anche (almeno a prima vista) a quello del processo. Successivamente, alla luce della dottrina processualcivilistica e dei principali arresti giurisprudenziali, sarà finalmente possibile un approfondimento della problematica che ne occupa nella (6) Cfr. per tutti U. PERFETTI, Abuso del diritto, abuso del processo, deontologia, in Rass. forense, 2008, I, 831 ss.; G. SALVI, Abuso del processo e deontologia dei soggetti processuali, in Cass. pen., 2005, 9094 ss. F. CORDOPATRI, L’abuso del processo, II, cit., 91, rileva che vi sono regole che possono avere anche carattere deontologico, ad esempio quelle “attinenti ai modi di comportamento professionale”. (7) Con particolare riferimento alla giurisprudenza che si è formata, in materia di condizioni di ricevibilità, sull’art. 35, p. 3 (a) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, alla luce della quale è da ritenere abusivo e, quindi, irricevibile il ricorso da parte della Corte europea, quando la condotta o l’obiettivo del ricorrente sono manifestamente contrari alla finalità per la quale il diritto di ricorrere è riconosciuto (cfr., ad esempio, l’arresto Petrovic c. Serbia del 18 ottobre 2011, ric. n. 56551/11, laddove l’abuso, ai sensi dell’art. 35, p. 3 della Convenzione, viene inteso come esercizio dannoso di un diritto, per scopi diversi da quelli per i quali è previsto). (8) E partendo dallo scritto ormai piuttosto risalente nel tempo di G. DE STEFANO, Note sull’abuso del processo, in Riv. dir. proc., 1964, 582 ss. P. CALAMANDREI, Il processo come giuoco, ivi, 1950, I, 32 s., accenna all’abuso del processo e affema che può essere così denominato “per qualche somiglianza colla figura dell’abuso del diritto”. (9) Da M. F. GHIRGA, Abuso del processo, cit., 1. 65 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO prospettiva del processo tributario. Questo segmento della ricerca, peraltro, consentirà di evidenziare due interventi del legislatore che hanno introdotto modifiche al testo del d.lgs. n. 546/1992 nell’ottica di eliminare possibili abusi, nonché altre fattispecie in cui può essere individuato l’abuso processuale, alla luce della più recente esperienza giurisprudenziale. Infine, si cercherà di rispondere alla seguente suggestiva domanda in apicibus: l’abuso del processo tributario può essere distintamente definito rispetto all’abuso processuale in generale (ovvero al concetto di abuso negli altri plessi giurisdizionali), oppure ne costituisce una specificazione, mutatis mutandis, in considerazione del peculiare rito che lo caratterizza? 2 L’abuso del diritto, l’abuso del processo ed il loro nesso di collegamento ontologico, tra le situazioni giuridiche soggettive e la loro proiezione (eventuale) nella dimensione processuale Alcune sintetiche considerazioni sono opportune intorno al collegamento tra i concetti di abuso del diritto (10) e di abuso del processo, senza alcuna pretesa di esaustività. In primis, l’abuso del diritto (11) e l’abuso processuale sono figure ictu oculi ontologicamente connesse ma non sono perfettamente coincidenti e non devono essere confuse. L’inesistenza di una netta (10) Sottolinea esattamente M.F. GHIRGA, Abuso del processo e sanzioni, cit., 5, nota 1, che il tema dell’abuso del diritto “risente della nozione di diritto soggettivo che si adotta”. Forse, si potrebbe superare (o, quanto meno, aggirare) questo problema ipotizzando di allargare il concetto all’abuso di situazioni giuridiche soggettive. (11) Dall’ampio studio monografico di F. CORDOPATRI, L’abuso del processo, II, cit., 85 s., emerge una grande attenzione per i fermenti dottrinari maturati nell’ambito della dottrina civilistica, in relazione alla quale l’Autore afferma che “l’abuso del diritto mostra inequivoci segni di rinascita” rispetto al passato, caratterizzato da un “più o meno marcato ostracismo”. Aggiunge il Cordopatri (a pag. 89) che “sul piano teorico, si suole eleggere a parametro ricostruttivo della nozione di abuso del diritto il difetto di interesse unito all’intenzione di nuocere, oppure la modalità anomala e scorretta dell’esercizio del diritto, cioè la valutazione della faute o della contrarietà alla buona fede oggettiva, o, ancora, il bilanciamento degli interessi; o, infine, la deviazione del potere dallo scopo istituzionale”. E ancora afferma: “dunque, la nozione di abuso del diritto può teoricamente collegarsi con il concetto di esercizio distorsivo del diritto o con il concetto della correttezza e della buona fede in senso oggettivo” (pag. 92). Quale corollario, l’abuso del diritto dovrebbe essere apprezzato non in termini di un atteggiamento soggettivo, ma piuttosto come figura emergente a livello oggettivo. Essa è intimamente correlata al concetto di responsabilità, laddove si afferma, a pag. 90, che “l’abuso del diritto, già sin dalla costruzione della nozione o, se si vuole, sin dal disegno dei profili della fattispecie, non deve né può perder d’occhio il rapporto che lo lega alla responsabilità. In questo senso, l’elezione del punto di snodo dell’abuso nella distorsione dell’esercizio del diritto o, piuttosto, nell’apprezzamento del conflitto interindividuale, meglio, nel bilanciamento degli interessi ha la sua inevitabile ricaduta sulla raccordabilità, o meno, dell’abuso con la responsabilità”. 66 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO separazione concettuale, vale a dire di un diaframma impenetrabile ( 12), scaturisce, a mio parere, da due ordini di considerazioni. Innanzitutto, non sussiste una contrapposizione tra diritto e processo, ma semmai una continuità ontologica, collegata alla proiezione sul versante processuale della tutela delle situazioni giuridiche soggettive. Non vi è una cesura tra l’aspetto sostanziale, inteso in senso ampio, e la relativa tutela giurisdizionale, essendo la realtà giudiziale una dimensione che scaturisce dall’esigenza (costituzionalmente preservata) di garantire una piena e completa realizzazione di tale diritto e delle sue prerogative soggettive. Se vi è un ontologico nesso di collegamento tra diritto e processo, non può negarsi che tale collegamento immanente può estendersi anche alle figure di abuso del diritto (13) e di abuso del processo, a meno che l’abuso sia diversamente configurabile se riferito al rapporto materiale, anziché alla fenomenologia processuale, ma così non è. La nozione di abuso, difatti, e così passo al secondo ordine di considerazioni, sembra costituire, pur con tutta la prudenza necessaria, un concetto in larga misura unitario e onnicomprensivo, il quale si atteggia e si specifica in modo inevitabilmente differente se riferito e parametrato alla sfera dell’aspetto sostanziale, anziché alla tutela giurisdizionale in quanto tale ed alle singole vicende del processo. Secondo questa ipotesi ricostruttiva, l’elemento dell’abuso diventerebbe il minimo comune denominatore o, se si vuole, il “ponte” a livello concettuale suscettibile di unire i due tipi di abuso in questione. Si potrebbe forse sostenere che l’abuso del diritto e l’abuso del processo sarebbero inquadrabili come due species dello stesso genus, costituito dalla figura dell’abuso tout court. Trattasi di un percorso di ricerca nuovo e originale, sul versante tributario, rispetto alle indagini che sono state fino ad ora dedicate al tema dell’abuso del diritto, con una serie di contributi sicuramente apprezzabili ed approfonditi (anche sul piano comparatistico, con particolare riferimento agli ordinamenti tedesco e francese) e, nella maggior parte dei casi, di alto profilo scientifico. Ma la stretta connessione e le interrelazioni che sussistono tra l’abuso del diritto e l’abuso del processo (segnatamente, di quello tributario) sono rimaste in larga misura nell’ombra, pur essendo, invece, un percorso di ricerca che sembra evidenziare spunti ricostruttivi non poco significativi, con inevitabili riflessi sul versante della teoria generale dell’abuso del processo. La presente indagine, che non si occupa specificamente dell’abuso del diritto, ma nemmeno può ignorare quest’ultimo sic et simpliciter, per quanto sopra sostenuto, proseguirà con l’esame del concetto di abuso del processo (12) Secondo la diversa ricostruzione proposta da M. F. GHIRGA, Abuso del processo e sanzioni, cit., 5 s., il tema dell’abuso del processo discende da quello dell’abuso del diritto, quale “applicazione della categoria civilistica alla realtà giudiziale nella sua espressione di prerogative soggettive che nell’ambito della stessa si realizzano”. (13) Tale concetto non va confuso con altre figure contermini, quali, ad esempio, l’eccesso del diritto, laddove “la deviazione dal contenuto porta l’abuso a confondersi inevitabilmente con l’eccesso del diritto”: F. CORDOPATRI, L’abuso del processo, II, cit., 92. 67 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO tributario, dopo aver evidenziato alcune sintetiche considerazioni in tema di abuso sul versante del processo civile ed alla luce di alcune recenti pronunce sia delle sezioni unite penali della Suprema Corte, sia del Consiglio di Stato. 3 L’abuso del processo civile, gli artt. 88 e 96 c.p.c. e la recente esperienza giurisprudenziale sulla valorizzazione della regola della correttezza e buona fede, sul giusto processo e sulla sua incompatibilità con l’irragionevole durata dello stesso In assenza di norme contenute nel c.p.c. italiano che espressamente si applichino all’abuso processuale, è pur sempre necessario identificare i possibili parametri normativi nel codice di rito civile. Innanzitutto, si consideri il disposto dell’art. 88, il quale, come noto, impone alle parti ed ai loro difensori di “comportarsi in giudizio con lealtà e probità” ( 14), vale a dire che non è sufficiente un comportamento legalmente valido, occorrendo un quid pluris costituito dall’agire in modo corretto e onesto (15), valutabile in senso positivo sul piano morale (16), fatta “salva la difficoltà di stabilire di quale morale si tratti, e quando questa entri in gioco” (17). Un altro importante referente normativo è costituito dall’art. 96 c.p.c., norma speciale rispetto al precetto generale contenuto nell’art. 2043 c.c. ( 18), che al (14) Cfr. G. SCARSELLI, Lealtà e probità nel compimento degli atti processuali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 91 ss. (15) Cfr. per tutti E. ZUCCONI GALLI FONSECA, Commento sub art. 88, in Commentario breve al codice di procedura civile, a cura di F. CARPI, M. TARUFFO, Padova, 2012, 335 ss. (16) Per una interessante applicazione del principio di lealtà e di probità processuale, di cui all’art. 88 c.p.c., laddove la Suprema Corte ha ritenuto di non concedere un termine per effettuare la notificazione (in precedenza omessa) dell’impugnazione a una parte totalmente vittoriosa, nell’ipotesi in cui l’impugnazione medesima sia dichiarata inammissibile ovvero improcedibile, v. Cass., sez. un., 3 novembre 2008, n. 26373, in Riv. dir. proc., 2009, 1684 ss. e nota di L. P. COMOGLIO, Abuso dei diritti di difesa e durata ragionevole del processo: un nuovo parametro per i poteri direttivi del giudice? In questo arresto, la S.C. sottolinea che, in considerazione dei poteri di direzione del procedimento attribuiti al giudice dagli artt. 175, 1° co. e 127, 1° e 2° co. c.p.c., il principio della ragionevole durata del processo impone “al giudice di evitare ed impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di energie processuali e formalità da ritenere superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo” o dall’effettività del contraddittorio e dei diritti di difesa “partecipativa”, che sono attribuiti su base paritaria per effetto delle garanzie del giusto processo a tutti i soggetti “nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti”. (17) La locuzione è di M. TARUFFO, L’abuso del processo, cit., loc. cit., 121. (18) In tal senso, cfr. P. NAPPI, Commento sub art. 96, in Codice di procedura civile commentato, dir. da C. CONSOLO, tomo I, Milano, 2010, 1060. L’Autore sottolinea che l’art. 96, rispetto all’art. 2043 c.c., contempla le particolari ipotesi di illecito che abbiano rapporto con la qualità di parte del processo. La specialità della norma è sottolineata anche da D. VOLPINO, L. M. PALIERO, Commento sub art. 96, in 68 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO 1° co. disciplina la fattispecie della parte soccombente che agisce o resiste in giudizio con mala fede o colpa grave, suscettibile di essere condannata, su istanza dell’altra parte, al risarcimento dei danni che sono liquidati, anche d’ufficio, nella sentenza (19). Il successivo 3° co., introdotto dall’art. 45, 12° co., della l. n. 69/2009, ha arricchito in modo generalizzato ( 20) le conseguenze dell’illecito processuale di una nuova sanzione e prevede, in modo singolare e non poco discutibile, un potere del giudice molto ampio e, forse, discrezionale o arbitrario, di sanzionare anche d’ufficio comportamenti non precisamente individuati, mediante la condanna della “parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata” (21), senza indicare un limite massimo alla condanna e Commentario breve al codice di procedura civile, a cura di F. CARPI, M. TARUFFO, cit., 366, in relazione alle diverse ipotesi che possono integrare un illecito processuale. (19) Non osta all’accoglimento della domanda di risarcimento dei danni da lite temeraria l’omessa deduzione e dimostrazione dello specifico danno subito dalla parte vittoriosa, il quale è costituito dagli oneri di ogni genere che questa abbia dovuto affrontare per essere stata costretta a contrastare l’ingiustificata iniziativa dell’avversario e dai disagi affrontati per effetto di tale iniziativa. Conseguentemente, il risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. va inteso in senso non poco ampio, comprensivo del danno sia patrimoniale, sia non patrimoniale. (20) “In ogni caso” (con cui esordisce l’art. 96, 3° co. c.p.c.) si estrinseca in una “formula generica e generale” che “è a dir poco inopportuna”: così P. NAPPI, Commento sub art. 96, cit., 1074. (21) Sottolinea C. GLENDI, Nuove disposizioni generali del codice di procedura civile e processo tributario, in Corr. trib., 2010, 2569, che l’art. 96, 3° co. c.p.c. non dovrebbe avere una funzione risarcitoria o indennitaria, laddove sembra prevalere “un profilo punitivo, di cui peraltro verrebbe a fruire la parte vittoriosa, quale premio per aver cooperato a far emergere una situazione giudicata meritevole di sanzione”, ma restano sfumati ed incerti i relativi presupposti, non essendo chiaro se sono i medesimi dei primi due commi dell’art. 96 ovvero anche altri. Aggiunge poi l’Autore, in senso pienamente condivisibile, che è sconcertante “l’apparente carenza di limiti quantitativi all’esercizio di un potere ancorato al labile ed enigmatico parametro dell’equità, salvo il solo connotato della soccombenza”. Anche M. TARUFFO, L’abuso del processo, cit., loc. cit., 123, critica tale disposizione e sottolinea che la condanna ha per oggetto il pagamento di somme indeterminate, equitativamente determinate dal giudice in virtù di “una sorta di potere discrezionale assoluto”. Ai sensi della sentenza del Tribunale di Prato 6 novembre 2009, in Foro it., 2010, I, 2229, 2232 ss., con nota di G. SCARSELLI, Il nuovo art. 96, 3° comma, c.p.c.: consigli per l’uso, manifesta un abuso del processo l’ipotesi in cui l’esercizio di un’azione convenzionale sia congegnato in modo da essere eccedente e deviato rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale formalmente perseguito ed è orientato ad ottenere un ingiustificato allungamento dei tempi processuali in violazione del principio del giusto processo (nella specie, in un giudizio ordinario di opposizione a decreto ingiuntivo, il Tribunale ha ritenuto di applicare l’art. 96, 3° co. c.p.c. quale sanzione civile a carico del soccombente, suscettibile di evitare che il processo venga instaurato senza ragioni, laddove la vicenda che forma l’oggetto del giudizio evidenzia il pretestuoso ricorso alla giustizia, in termini sia di opposizione meramente dilatoria, sia di condotte processuali correlate e finalizzate unicamente ad ostacolare la realizzazione del diritto del creditore, appunto mediante l’abuso del processo). 69 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO nemmeno la necessaria valutazione sulla colpa grave o la mala fede nell’aver proposto la domanda giudiziale o nell’avervi resistito ( 22). Mancano, tuttavia, dati normativi più precisi, essendo gli artt. 88 e 96 da soli del tutto insufficienti (o, se si vuole, non poco ambigui) al fine di ricavare la nozione di abuso del processo, nel settore del processo civile (23). Al contrario, nel code de procédure civile francese, vi è un precetto, vale a dire l’art. 32-1 (24), che si riferisce espressamente alla parte che agisce in giudizio in modo dilatorio o abusivo, la quale può essere condannata ad pagamento di un importo fino ad un massimo di 3.000,00 euro. In questa norma, peraltro, non viene definito l’abuso processuale, ma vi sono i presupposti per formulare alcune riflessioni sull’azione giudiziale posta in essere in modo abusivo o dilatorio, laddove tale abuso viene represso con una sanzione a carico di chi l’ha commesso e non con l’invalidità di atti ( 25). Sul versante italiano, è particolarmente utile fare riferimento all’esperienza giurisprudenziale di legittimità. Con riferimento alla parcellizzazione in plurime e distinte domande di un unico credito pecuniario, la “coraggiosa” pronuncia delle sezioni unite della Suprema Corte n. 23726/2007 ( 26), ha (22) Sembra che la condanna possa essere pronunciata, anche d’ufficio, senza l’allegazione e la prova della parte vittoriosa di aver subito un pregiudizio dal comportamento della controparte, che abbia indebitamente abusato degli strumenti del processo. (23) Afferma Trib. minorenni Milano, decr. 4 marzo 2011, che lo strumento offerto dall’art. 96, 3° co., c.p.c. è suscettibile di sanzionare comportamenti che denotano un uso pretestuoso o disfunzionale del processo, in danno delle parti in causa e di ogni cittadino che abbia domandato la tutela delle proprie posizioni giuridiche all’Autorità Giudiziaria. Tale articolo è, nella specie, un efficace strumento per garantire la tutela dell’effettività delle relazioni parentali ad opera dello Stato italiano, come richiesta dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia europea, laddove la resistente aveva richiesto reiteratamente l’affidamento esclusivo della minore senza fornire elementi a sostegno della sua domanda, in tal modo limitando fortemente il libero esplicarsi del diritto del ricorrente ad allevare la figlia. (24) Secondo cui: “celui qui agit en justice de manière dilatoire ou abusive peut être condamné à une amende civile d’un maximum de 3 000 euros, sans préjudice des dommages-intérêts qui seraient réclamés”. (25) Cfr. M. F. GHIRGA, Abuso del processo e sanzioni, cit., 2, nota 2. (26) La pronuncia è stata depositata il 15 novembre 2007. Cfr. i commenti di M. DE CRISTOFARO, Infrazionabilità del credito tra buona fede processuale e limiti oggettivi del giudicato, in Riv. dir. civ., 2008, II, 335 ss., il quale sottolinea che l’arresto in questione è coraggioso se non altro perché rovescia un precedente intervento delle stesse sezioni unite del 2000; T. DALLA MASSARA, La domanda frazionata e il suo contrasto con i principi di buona fede e correttezza: il «ripensamento» delle sezioni unite, ivi, 2008, II, 345 ss. Si veda anche P. RESCIGNO, L’abuso del diritto (una significativa rimeditazione delle Sezioni Unite), in Corr. giur., 2008, 745 ss., che definisce il credito frammentato dal titolare in una pluralità di domande come un fenomeno di non frequente verificazione, ma nemmeno eccezionale. 70 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO ribaltato l’orientamento della precedente sentenza n. 108/2000 ( 27), la quale aveva affermativamente statuito sul tema della frazionabilità della tutela giudiziaria del credito, mediante la richiesta di un adempimento parziale da parte del creditore, con riserva di azione per il residuo. La Suprema Corte ha rimeditato la conclusione raggiunta con riferimento al duplice profilo, da un lato, della ragionevole durata del procedimento e, dall’altro lato, del giusto processo (28). In tale prospettiva, quest’ultimo non sarebbe giusto (in relazione alla risposta alla domanda della parte) qualora il suo risultato finale scaturisse da un abuso processuale per effetto dell’“esercizio dell’azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell’attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi” (29). Aggiungono ancora le sezioni unite che è da ritenere costituzionalizzato il canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà ex art. 2 Cost., il quale attribuisce a tale canone “forza normativa e ricchezza di contenuti”, anche in relazione agli obblighi di protezione della persona e delle cose della controparte, quale espressione dell’interesse del partner negoziale. Il criterio della buona fede, quale garanzia del giusto equilibrio tra gli opposti interessi, va considerato come un punto fermo in ogni fase successiva a quella dell’elaborazione dello statuto negoziale (anche in sede modificativa o integrativa) e, dunque, anche nella proiezione giudiziale e non tollera alterazioni in danno del debitore (30). Se fosse consentita la frazionabilità giudiziale (contestuale o sequenziale) dell’unitario credito, il creditore sarebbe facoltizzato a scegliere di adire un giudice inferiore (vale a dire il giudice di pace, più celere nella definizione delle controversie) rispetto a quello che sarebbe competente a conoscere dell’intero credito (il tribunale), senza considerare il non poco significativo aggravio di spese e l’onere di proporre molteplici opposizioni da parte del debitore a fronte delle reiterate e molteplici iniziative giudiziarie intraprese dal creditore. La forzata disarticolazione, da parte del creditore, dell’unità sostanziale del rapporto (31) viola il fondamentale dovere di correttezza e buona fede e, poiché realizzata mediante l’accesso alla tutela giurisdizionale, (27) Depositata il 10 aprile 2000, in Giur. it., 2001, 1143 ss., con note di A. CARRATTA, S. MINETOLA, A. RONCO, Ammissibilità della domanda giudiziale «frazionata» in più processi? (28) Di vero e proprio “incubo della ragionevole durata” parla G. VERDE, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. dir. proc., 2011, 505, il quale non si considera un estimatore del nuovo conio dell’art. 111 Cost., di cui non apprezza l’inizio del testo con una iperbolica allitterazione. M. TARUFFO, L’abuso del processo, cit., loc. cit., 126, afferma che “la realtà della giustizia civile in Italia continua ad essere molto lontana dal principio della ragionevole durata” ed è un’illusione che la ripetuta invocazione retorica di questo principio possa cambiare le cose, in assenza di riforme veramente incisive. (29) Nello stesso senso, v. Trib. Roma, sez. 2, 12 gennaio 2010. (30) In tal senso, v. anche Trib. Milano, sez. V, 8 marzo 2010. (31) In relazione alla fase patologica della coazione all’adempimento. 71 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO si estrinseca in abuso del processo (ostativo all’esame della domanda), non in sintonia, anzi, in contrasto, coi principi del giusto processo e della ragionevole durata dello stesso (32). Conclusivamente, l’arresto in questione individua l’abuso nella condotta del creditore suscettibile di aggravare la posizione del debitore in assenza di una utilità valutabile come degna di essere perseguita e tutelata dall’ordinamento ( 33). Sotto altro profilo, l’abuso della strumentazione processuale è stato individuato dalla Suprema Corte con riferimento alla proposizione della domanda di riconoscimento dell’equa riparazione per la violazione dei termini di ragionevole durata del processo (34). Più precisamente, la Corte di legittimità ha esaminato l’ipotesi nella quale i ricorrenti che erano parti di una stessa procedura innanzi al T.A.R. del Lazio, pur avendo presentato un’identica domanda (35), avevano proposto dieci distinti ricorsi alla Corte d’appello (successivamente da questa riuniti) in funzione del riconoscimento dell’equo indennizzo per l’eccessiva durata del processo ( 36), con il patrocinio del medesimo difensore, pur essendo la domanda basata sul medesimo presupposto giuridico e fattuale. Nel solco tracciato dall’arresto n. 23726/2007, la Suprema Corte sottolinea che la condotta sopra rappresentata configura un abuso dello “strumento processuale”, laddove l’evento causativo del danno e giustificativo della pretesa è identico, così come è unico il soggetto che ne deve rispondere, mentre sono plurimi i soli danneggiati, i quali hanno agito unitariamente nel processo presupposto, manifestando una carenza di interesse ad un esercizio diversificato della potestas agendi in sede di richiesta dell’indennizzo, per di più con un unico patrocinio legale. Tale condotta, peraltro, contrasta, da un lato, “con l’inderogabile dovere di solidarietà sociale che osta all’esercizio di un diritto con modalità tali da arrecare un danno ad altri soggetti che non sia inevitabile conseguenza di un interesse degno di tutela dell’agente” e, dall’altro lato, “con il principio costituzionalizzato del giusto processo, inteso come processo di ragionevole durata”, laddove la proliferazione non (32) Sottolinea con riferimento all’arresto n. 23726/2007, P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, cit., loc. cit., 745, che, se il problema della parcellizzazione o frazionamento della pretesa creditoria viene riferito al credito nel suo aspetto sostanziale, si verifica un abuso del diritto, mentre se si attribuisce rilevanza alla strumentazione processuale al fine di esercitare la pretesa, si può parlare di abuso del processo. In questa prospettiva, secondo l’Autore, “sempre si conferma la stretta connessione dei due profili, del rapporto materiale e dell’azione in giudizio, nell’antica e tormentata questione dell’abuso”. (33) In senso sintonico rispetto alla pronuncia n. 23726/2007, v. Cass. 27 gennaio 2010, n. 1706; Cass. 11 giugno 2008, n. 15476, sulla quale cfr. il commento di B. VERONESE, L’improponibilità della domanda frazionata: rigetto in rito o nel merito?, in Obbl. e contr., 2009, 813 ss. (34) Trattasi dell’ordinanza 3 maggio 2010, n. 10634, in Corr. giur., 2011, 369 s., con nota di C. FIN, Una coraggiosa pronuncia della Corte di legittimità: l’onere delle spese come rimedio contro un uso scorretto dello strumento processuale. (35) Segnatamente, in materia di adeguamento triennale dell’indennità giudiziaria. (36) Ai sensi della legge n. 89/2001. 72 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO necessaria dei procedimenti non può che determinare un generale allungamento dei tempi processuali, con un effetto gravemente negativo sull’organizzazione giudiziaria (37). Alla luce di tale giurisprudenza, l’abuso processuale contrasta con la valorizzazione del principio della correttezza e della buona fede, che scaturisce non tanto (o non solo) dall’art. 88 c.p.c., bensì dall’applicazione del parametro costituzionale dell’inderogabile dovere di solidarietà, ex art. 2 Cost. Parallelamente, trova applicazione il principio del giusto processo, anch’esso costituzionalizzato, che esclude lo svolgimento della vicenda processuale, in qualche misura, abusivo (quanto all’accesso alla tutela giurisdizionale, ovvero al compimento o, all’opposto, al non compimento di determinati atti processuali), laddove determina in re ipsa una irragionevole durata del processo (38). Sotto questo profilo, l’abuso del processo causa un danno all’erario per effetto dell’allungamento del tempo generale nella trattazione dei processi e dell’insorgenza dell’obbligo di versamento dell’indennizzo previsto dalla legge n. 89/2001, oltre ad un danno diretto al litigante (39). Ma se è così, si ritiene quanto meno discutibile l’efficacia dell’art. 96, 3° co., c.p.c. (40) ad arginare il fenomeno dell’abuso processuale, se non altro per la sua formulazione troppo generica e l’assenza di parametri cui commisurare la condanna al pagamento di una somma, anche d’ufficio ( 41). In altre parole, se (37) L’arresto in questione conclude nel senso che l’affermata sussistenza dell’abuso della strumentazione processuale postula l’eliminazione, per quanto possibile, degli effetti distorsivi dell’abuso medesimo e, nella fattispecie, “la valutazione dell’onere delle spese come se unico fosse stato il procedimento fin dall’origine”. (38) Si pensi, ad esempio, ad un ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, in assenza di alcun dubbio in merito alla devoluzione della giurisdizione, al solo fine di guadagnare tempo e, forse, beneficiare in un secondo momento dell’indennizzo ex lege n. 89/2001 per l’eccessiva durata del processo. E, ancora, si consideri un’azione esperita davanti ad un giudice senza dubbio sfornito di giurisdizione, al solo fine di attivare la circolarità dell’azione, in virtù della translatio actionis (o iurisdictionis), recentemente introdotta dall’art. 59 della legge n. 69/2009, a scopo meramente dilatorio, fatto salvo l’indennizzo ai sensi della legge n. 89/2009. (39) In questo senso, cfr. Trib. Varese, sez. I, 21 gennaio 2011. (40) Cfr. Trib. Varese 22 gennaio 2011, n. 98, in Resp. civ. e prev., 2011, II, 2574 ss., con nota di E. MORANO CINQUE, L’abuso del processo come forma di stalking giudiziario: è lite temeraria, in relazione ad un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo tra due società i cui rappresentanti legali erano marito e moglie in fase di separazione giudiziale, nell’alveo di una serie di procedimenti intentati tra le medesime parti nell’arco di due anni giudiziari, a seguito della separazione, con un discutibile trasferimento nel contesto giudiziario del terreno di scontro personale. Tale situazione fattuale, secondo la pronuncia del Tribunale, giustifica la condanna dell’opponente, ai sensi dell’art. 96, 3° co., c.p.c., in presenza di un elemento soggettivo di rimproverabilità (colpa). (41) Prima che fosse aggiunto il 3° co. all’art. 96 c.p.c. ad opera dell’art. 45, 12° co., della legge n. 69/2009, osserva R. GIORDANO, Responsabilità delle parti per le spese ed i danni e abuso del processo, in L’abuso del diritto, del processo e nel processo, cit., 43 ss., 49, che la responsabilità per lite temeraria non è uno strumento 73 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO considerata atomisticamente, la norma di cui si discute non sarà da sola affatto sufficiente, in assenza di altre misure (certamente diverse e ulteriori rispetto alla generale previsione del dovere di lealtà e probità), nella prospettiva di contrastare l’abuso del (e/o nel) processo. 4 L’abuso del processo nella sentenza delle sezioni unite penali della Suprema Corte n. 155/2012, quale uso distorto del diritto di agire o di reagire in giudizio, ovvero in termini di frode alla funzione Pur senza poter approfondire la tematica dell’abuso del processo, con specifico riferimento al processo penale (42), è opportuno segnalare quanto affermato, per quanto qui interessa, dalla recente sentenza delle sezioni unite penali della Corte di cassazione n. 155/2012 (43). Essa muove dalla considerazione secondo cui l’avvicendamento di difensori realizzato a chiusura del dibattimento è stato piuttosto singolare, laddove nel corso del giudizio di primo grado si erano succeduti ben otto difensori, compreso quello che era tornato ad assistere uno degli imputati in appello e in Cassazione. A tacer d’altro, le rinunzie depositate erano identiche nel riferirne la ragione alla scarsità di tempo, ma i difensori sostituiti e quelli nominati (con richieste di termini a difesa dei nuovi difensori) non erano mai comparsi e non risultava accettazione delle nomine fatte in udienza, con l’effetto di “ascoltare e riascoltare” l’imputato “che chiedeva di rendere spontanee dichiarazioni, e acquisire sue ulteriori memorie”. Se anche i profili fattuali evidenziati nella sentenza n. 155/2012 sono più complessi di quelli sopra tratteggiati, essi danno prima facie un’idea del loro svolgimento in senso dinamico e delle ragioni per le quali la Suprema Corte si è occupata della tematica che ne occupa. Alla luce delle specifiche vicende processuali, (anche) l’avvicendamento dei difensori è stato realizzato in modo reiterato e non giustificato da alcuna reale esigenza difensiva, col solo fine di dilatare i tempi processuali, il cui effetto finale è stato quello della declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione. Realizza un abuso del processo il numero esagerato di iniziative difensive, ancorché in astratto ciascuna espressione di una legittima facoltà qualora, come nella specie, sono sufficiente al fine di sanzionare le condotte di abuso realizzate dalle parti all’interno del processo, espressive di slealtà nei confronti della controparte ed idonee a influire sulla durata dello stesso. Tale responsabilità non è uno strumento suscettibile di sanzionare l’utilizzazione abusiva di mezzi processuali posta in essere dalla parte vittoriosa. (42) Si veda comunque, senza alcuna pretesa di esaustività, E. M. CATALANO, Verso le colonne d’Ercole dell’abuso del processo: strategie e ruolo del pubblico ministero, in L’abuso del diritto, del processo e nel processo, cit., 54 ss., 63, secondo cui “la nozione di abuso del processo trova le sue manifestazioni più tipiche sul terreno dell’accezione emotiva del termine abuso, che evoca l’idea di un espediente irreprensibile, ovvero di un atto perfetto e lecito, eppure contrario ai postulati della lealtà e della correttezza processuale”. (43) La pregevole sentenza è stata depositata il 10 gennaio 2012 ed il punto di essa cui si intende fare riferimento è il n. 15. 74 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO in concreto del tutto prive di fondamento e di scopo conforme alle ragioni per le quali tali facoltà sono riconosciute. Più in generale, l’arresto in esame qualifica come “abuso degli strumenti difensivi del processo penale” quelli attivati non al fine di ottenere garanzie processuali effettive o realmente più ampie, o comunque migliori possibilità di difesa, bensì al solo scopo di “una reiterazione tendenzialmente infinita delle attività processuali”. Nella prospettiva di meglio chiarire quando sia consentito “qualificare abusiva una qualsivoglia strategia processuale, civile o penale”, l’arresto in esame sottolinea un importante principio generale. Difatti, aggiunge la Suprema Corte, “è ormai oramai acquisita una nozione minima comune dell’abuso del processo che riposa sull’altrettanto consolidata e risalente nozione generale dell’abuso del diritto, riconducibile al paradigma dell’utilizzazione per finalità oggettivamente non già solo diverse ma collidenti («pregiudizievoli») rispetto all’interesse in funzione del quale il diritto è riconosciuto”. La prospettiva è quella di dotare l’ordinamento di misure, per così dire, di autotutela, nell’ottica di evitare che i diritti da esso garantiti possano essere esercitati o realizzati, anche per effetto di un intervento giurisdizionale, in maniera abusiva, vale a dire eccessiva e distorta. Ne consegue che l’esigenza di individuare precisi limiti agli abusi non è limitata ai rapporti sostanziali, ma si estende anche alle vicende processuali, trascende le connotazioni peculiari dei vari sistemi e caratterizza non solamente gli ordinamenti processuali interni, bensì anche quelli sovrannazionali (44). La soluzione concreta, a livello normativo o interpretativo, “è nel senso che l’uso distorto del diritto di agire o reagire in giudizio, rivolto alla realizzazione di un vantaggio contrario allo scopo per cui il diritto stesso è riconosciuto, non ammette tutela”. In considerazione di quanto precede, l’abuso del processo può essere definito come “un vizio, per sviamento, della funzione; ovvero, secondo una più efficace definizione riferita in genere all’esercizio di diritti potestativi”, quale “frode alla funzione” (45). L’arresto in questione, pertanto, si segnala per l’acuta ricostruzione in apicibus della figura dell’abuso processuale, nel senso ut supra precisato e per i riferimenti alla pertinente giurisprudenza delle sezioni unite civili della Suprema Corte ( 46), della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte europea di giustizia. (44) Con particolare riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e alla giurisprudenza della Corte europea di giustizia. (45) La sentenza delle sezioni unite penali conclude, sul punto, affermando che realizza uno sviamento o una frode alla funzione l’imputato che abusi dei diritti, ovvero delle facoltà, che l’ordinamento astrattamente gli riconosce e “non ha titolo per invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti”. (46) Con particolare riferimento alla sentenza n. 23726/2007, già citata nel testo. 75 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO 5 Due importanti sentenze del Consiglio di Stato, depositate nel 2012, sul generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, che permea sia le condotte sostanziali, sia i comportamenti processuali di esercizio del diritto L’indagine in corso può essere utilmente estesa a due pronunce del Consiglio di Stato recentemente depositate (47). Nella sentenza n. 656/2012 (48), si esamina la tematica della eventuale legittimità della sollevazione dell’eccezione di difetto di giurisdizione in sede di appello, proposta dalla parte che aveva adito la stessa giurisdizione con l’atto introduttivo del primo grado, al termine del quale il T.A.R. aveva respinto il ricorso proposto. La citata sentenza reputa che la risposta non possa essere che negativa e cita in proposito alcune sentenze dello stesso giudice nel solco delle quali il Collegio ritiene di collocarsi (49), giungendo a ritenere inammissibile la censura di difetto di giurisdizione sollevata dall’appellante. Per quanto qui interessa, l’arresto in esame afferma la sussistenza “del principio generale che vieta, anche in sede processuale, ogni condotta integrante abuso del diritto, quale è da ritenersi, a guisa di figura paradigmatica, il venire contra factum proprium dettato da ragioni meramente opportunistiche”. Alla luce della sentenza delle sezioni unite civili della Suprema Corte n. 23726/2007, sopra citata, e della decisione dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3/2011 (50), vige “un generale divieto di abuso di ogni (47) Più in generale, senza pretesa di esaustività, cfr. C. E. GALLO, L’abuso del processo nel giudizio amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2008, 1005 ss. Secondo questo contributo, gli elementi essenziali dell’abuso del processo (il cui concetto è nato sulla scorta delle riflessioni sull’abuso del diritto) sono da individuare nel comportamento volontario di un soggetto del processo, titolare di un diritto o di un potere, utilizzato in modo non adeguato rispetto al fine suo proprio, nella prospettiva di perseguire interessi diversi, la cui realizzazione nuoce al corretto funzionamento del processo. Peraltro, l’abuso del processo è indipendente dall’esito del giudizio, laddove può abusare sia la parte che risulta soccombente, sia quella che risulta vittoriosa: ciò che rileva in entrambi i casi è l’uso non corretto di un determinato istituto. L’ Autore sottolinea, con un certo stupore, che il concetto di abuso del processo è rimasto sconosciuto agli studiosi del processo amministrativo, i quali non solo non lo hanno mai utilizzato, ma non ne hanno ipotizzato financo l’utilizzabilità. V. anche G. TULUMELLO, Brevi note su abuso del diritto e processo amministrativo, in L’abuso del diritto, del processo e nel processo, cit., 104 ss. (48) Trattasi della sentenza depositata il 7 febbraio 2012. (49) Anche in considerazione dell’art. 9 del d.lgs. n. 104/2010 (codice del processo amministrativo), in relazione al difetto di giurisdizione. (50) Depositata il 23 marzo 2011, in Corr. giur., 2011, 979 ss., con nota di F. G. SCOCA, Risarcimento del danno e comportamento del danneggiato da provvedimento amministrativo. Afferma questa decisione, in sintonia con quanto statuito dalla Suprema Corte in proposito, che il divieto di tenere condotte contrarie alla buona fede ha un ancoraggio costituzionale, in virtù dell’art. 2 Cost. e costituisce un canone di valutazione anche delle condotte processuali, operando nella fisiologia come nella fase patologica del rapporto obbligatorio. Cfr. anche L. PENASA, Infine una risolutiva parola dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato sull’onere del 76 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO posizione soggettiva, divieto che, ai sensi dell’art. 2 Cost. e dell’art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di esercizio del diritto” (51). In questa prospettiva, il divieto di abuso del diritto trova applicazione anche nella dimensione processuale ed implica “che ogni soggetto di diritto non può esercitare un’azione con modalità tali da implicare un aggravio della sfera della controparte” (52). Questa sentenza, peraltro, non afferma la sussistenza di un mero nesso di collegamento del concetto di abuso nei rapporti sostanziali e nella proiezione processuale, ma compie un passo in avanti, laddove giunge ad affermare che “il divieto di abuso del diritto diviene anche abuso del processo”, come se si trattasse di una identità ontologica. Essa afferma, poi, che la figura dell’abuso del processo si estrinseca nell’“esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa” (53). La successiva sentenza, resa in forma semplificata, del Consiglio di Stato n. 1209/2012 (54), si riferisce ad un contesto fattuale del tutto diverso, relativo ad un concorso indetto dalla Guardia di finanza per il reclutamento di 952 allievi finanzieri, ove il ricorrente innanzi al T.A.R. del Lazio aveva superato le prove scritte ma era stato giudicato non idoneo alla prova sulle capacità psicoattitudinali. In sede di accoglimento della domanda di sospensione del relativo provvedimento, il T.A.R. aveva prescritto di sottoporre ad una nuova valutazione il ricorrente, il quale, pur senza essere sottoposto a tale reiterazione dell’accertamento attitudinale ( 55), veniva ammesso con riserva cittadino di impugnare l’atto amministrativo fonte di un danno ingiusto, in Resp. civ. e prev., 2012, 165 ss. (51) Peraltro, secondo l’arresto del Consiglio di Stato n. 656/2012, gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto sarebbero i seguenti: “1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare ed il sacrificio cui è soggetta la controparte”. (52) Nello stesso senso, cfr. T.A.R. Calabria, Catanzaro, 6 maggio 2011, n. 654, secondo cui “il divieto di abuso del diritto va inteso anche come divieto di abuso del processo e, pertanto, il creditore deve evitare di esercitare un’azione con modalità tali da impedire un aggravio della sfera del debitore”. (53) In coerenza con la suddetta elaborazione della figura dell’abuso, il Consiglio di Stato ha ritenuto che sussistono gli estremi per integrare un abuso del processo, nell’ipotesi di contestazione della giurisdizione da parte del soggetto che aveva adito tale giurisdizione mediante la presentazione del ricorso introduttivo e, se pur soccombente nel merito, sia risultata vittoriosa sulla questione della giurisdizione in virtù di una pronuncia esplicita, ovvero di una statuizione implicita. (54) Depositata il 2 marzo 2012. (55) Conseguentemente, l’Amministrazione disattendeva l’ordinanza del T.A.R. del Lazio, laddove non provvedeva a reiterare l’accertamento attitudinale dell’aspirante allievo. 77 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO al corso e proseguiva l’iter concorsuale, superava gli esami conclusivi, prestava giuramento e veniva immesso in ruolo. Il Consiglio di Stato respinge l’appello proposto dall’Amministrazione e osserva, al riguardo, che quest’ultima avrebbe dovuto rinnovare il giudizio sulle capacità psicoattitudinali dell’appellato, in ottemperanza all’ordinanza del T.A.R. Non avendo espletato tale rinnovazione, l’Amministrazione ha posto in essere un comportamento contraddittorio, in violazione del divieto generale di venire contra factum proprium. Peraltro, anche questo arresto richiama, in senso pienamente sintonico, i principi enunciati dall’Adunanza generale nella pronuncia n. 3/2011, sopra richiamata e osserva che sussiste “un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva”, applicabile anche sul versante processuale, laddove la parte esercita in modo funzionalmente improprio il potere discrezionale di individuare le strategie difensive più opportune (56). 6 L’abuso del processo tributario: due fattispecie in relazione alle quali è intervenuto il legislatore mediante la mini-riforma del processo in termini alla fine dell’anno 2005 Va segnalato un abuso che era largamente praticato fino all’abrogazione dell’art. 7, 3° co. del d.lgs. n. 546/1992 ad opera dell’art. 3 bis, 5° co., inserito nella legge di conversione n. 248/2005 del d.l. n. 203/2005 (57). Difatti, la norma abrogata consentiva alle commissioni tributarie “di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia”, con una formulazione suscettibile di individuare un ampio potere istruttorio a favore del giudice (laddove era precisamente statuito che “è sempre data alle commissioni tributarie facoltà”) (58). Tuttavia, in non pochi casi, tale potere era concretamente utilizzato dal giudice per acquisire al processo documenti che l’amministrazione finanziaria aveva omesso di produrre tempestivamente, pur essendo tale documentazione rilevante e (56) Quale corollario, secondo la sentenza n. 1209/2012, la condotta dell’Amministrazione non è stata, nella specie, conforme a correttezza e buona fede e la pretesa che essa deduce è stata giudicata non meritevole di tutela, con conseguente rigetto dell’appello. (57) Nel senso che l’art. 7, 3° co. del d.lgs. n. 564/1992 aveva sostanzialmente recepito il disposto del previgente art. 36, 3° co., del d.p.r. n. 636/1972, pur con due differenze non poco significative, cfr. A. COMELLI, Commento sub art. 7, in Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di C. CONSOLO, C. GLENDI, Padova, III ed., in corso di pubblicazione, cui si rinvia per le ampie citazioni bibliografiche e per le considerazioni sul problematico riferimento all’art. 210 c.p.c., ivi comprese le conseguenze dell’inottemperanza all’ordine di esibizione. (58) La formulazione dell’art. 7, 3° co. era caratterizzata da “estrema vaghezza” secondo Corte cost. 19 marzo 2007, n. 109, in GT, 2007, 745 ss con nota di F. BATISTONI FERRARA, La prova nel processo tributario: riflessioni alla luce delle più recenti manifestazioni giurisprudenziali. Con questa pronuncia la Consulta ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, 1° co., del d.lgs. n. 546/1992, sollevata in relazione agli artt. 3 e 24 Cost. 78 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO financo indispensabile al fine di dimostrare uno o più fatti e di emettere la sentenza. Il potere in questione consentiva di rimediare, in sede istruttoria, alle strategie difensive carenti e/o lacunose espletate dall’amministrazione finanziaria e legittimava un intervento del giudice a favore di quest’ultima consentendole, sia pure tardivamente, di produrre in giudizio documenti “necessari per la decisione della controversia”, in esito ad un’ordinanza istruttoria. Quest’ultima, peraltro, da un lato, incideva sulla durata del processo, senza una convincente ragione perché questa dilatazione fosse giustificata e, dall’altro lato (e soprattutto) consentiva all’ufficio tributario di depositare documenti quando, altrimenti, sarebbe stato precluso l’esercizio di tale potere, in quanto già consumato. L’ordinanza istruttoria in esame, pertanto, sarebbe intervenuta “in zona c.d. Cesarini”, vale dire pochi istanti prima del passaggio in decisione della controversia, con grave menomazione del principio dell’imparzialità e della terzietà del giudice, in un assetto ordinamentale che espressamente riconosce e promuove il valore costituzionale del “giusto processo” (59), verso il quale orientare l’inquadramento dei poteri del giudice e delle parti, in una posizione di effettiva parità. In altre parole, il principio del “giusto processo” non tollera l’esercizio del potere del giudice, che in fondo favoriva largamente una parte del processo (di regola, quella pubblica) che si era dimostrata inerte, se non proprio negligente, violando la parità delle armi processuali, che è espressione del canone del giusto processo, sia pure al fine di confezionare una sentenza per la quale era ritenuto rilevante e necessario (vale a dire indispensabile) il deposito dei documenti (60). L’intervento del legislatore che, con la mini-riforma della fine dell’anno 2005, ha abrogato l’art. 7, 3° co., ut supra precisamente citato, va inquadrato opportunamente in questa prospettiva di riequilibrio tra le parti, in sede di istruzione probatoria e, più in generale, tra i soggetti del processo ( 61). Un’altra modifica legislativa che è opportuno segnalare attiene all’art. 53, 2° co., 2° periodo del d.lgs. n. 546/1992, aggiunto dall’art. 3 bis, 7° co. inserito nella legge di conversione n. 248/2005 del d.l. n. 203/2005. Tale disposizione (59) Cfr. F. GALLO, Quale modello processuale per il giudizio tributario?, in Rass. trib., 2011, 11 ss., 12; A. PODDIGHE, Giusto processo e processo tributario, Milano, 2010, passim. (60) Afferma correttamente Cass. 28 marzo 2012, n. 5020, che era inammissibile l’istanza mediante la quale l’ufficio tributario sollecitava l’esercizio dei poteri istruttori officiosi, di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 546/1992, al fine di acquisire gli allegati alla dichiarazione dei redditi del contribuente, sia perché essi erano già in possesso dell’amministrazione finanziaria che aveva formulato la domanda, sia per la violazione dell’art. 6 dello Statuto del contribuente (sia per altri profili, non rilevanti in questa sede). Nello stesso senso, cfr. Cass. 30 dicembre 2010, n. 26392. (61) L’accentuazione della terzietà del giudice è sottolineata anche da Corte cost. 19 marzo 2007, n. 109, cit., laddove il giudice è chiamato in primis a verificare la legittimità del provvedimento amministrativo sul versante della congruità della sua motivazione, in rapporto agli elementi di fatto sui quali esso si fonda ed alla prova degli stessi. 79 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO prevede l’onere in capo all’appellante, qualora l’appello non sia notificato a mezzo dell’ufficiale giudiziario, di depositare “a pena d’inammissibilità” copia dello stesso presso l’ufficio di segreteria della commissione tributaria provinciale che ha pronunciato la sentenza impugnata ( 62). Qualora la notificazione dell’appello sia eseguita mediante ufficiale giudiziario, quest’ultimo fornisce la tempestiva notizia della proposizione dell’appello all’ufficio di segreteria della commissione tributaria provinciale che ha confezionato l’impugnata sentenza, ai sensi dell’art. 123 disp. att. c.p.c., norma applicabile al processo tributario in virtù del generale modulo di raccordo di cui all’art. 1, 2° co. del d.lgs. n. 546/1992 ( 63). Se, per la scelta insindacabile operata dall’appellante, la notificazione dell’appello non avviene per il tramite dell’ufficiale giudiziario e viene espletata direttamente dalla parte a mezzo del servizio postale, ovvero mediante consegna dell’atto (64), l’art. 53, 2° co., 2° periodo del d.lgs. in questione risponde all’esigenza di impedire, o quanto meno ridurre, il rischio del rilascio di erronee attestazioni di passaggio in giudicato della sentenza della commissione tributaria provinciale impugnata innanzi al giudice di secondo grado ( 65). In assenza di questa norma, sarebbe astrattamente possibile che l’appellato possa strumentalmente produrre, innanzi alla commissione tributaria regionale, la sentenza impugnata con l’attestazione del suo passaggio in giudicato, erronea in quanto l’ufficio di segreteria della commissione che ha confezionato e depositato quest’ultima non avrebbe potuto conoscere in alcun modo l’avvenuta impugnazione. Peraltro, non è a tal fine sufficiente a scongiurare il rischio dell’erronea attestazione del passaggio in giudicato della sentenza la richiesta del fascicolo del processo da parte della segreteria (62) Entro il termine perentorio che si identifica con quello di trenta giorni, stabilito per la costituzione in giudizio dell’appellante, in virtù del combinato disposto dell’art. 22, 1° co, richiamato dall’art. 53, 2° co., primo periodo del d.lgs. n. 546/1992: così, tra le tante, la recentissima sentenza della Suprema Corte 23 marzo 2012, n. 4679. (63) La ratio costituita dalla tempestiva ed opportuna informativa della segreteria del giudice di primo grado dell’appello notificato senza il tramite dell’ufficiale giudiziario, in tal modo impedendo l’erronea attestazione del passaggio in giudicato della sentenza della commissione tributaria provinciale, è condivisa da Cass. 23 marzo 2012, n. 4679. (64) Ai sensi dell’art. 16, 3° co. del d.lgs. n. 546/1992, sul quale cfr., per tutti, M. BRUZZONE, Notificazioni e comunicazioni degli atti tributari, Padova, 2006, passim. (65) La Corte costituzionale ha recentemente dichiarato la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 53, 2° co., 2° periodo del d.lgs. n. 546/1992 con ordinanza 15 aprile 2011, n. 141, in Giur. cost., 2011, 1811 ss., con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. Peraltro, questa ordinanza si colloca nel solco tracciato da altre pronunce della Consulta, vale a dire la sentenza 20 gennaio 2011, n. 17, ivi, 2011, 154 ss.; l’ordinanza 11 febbraio 2010, n. 43 e la sentenza 4 dicembre 2009, n. 321, in GT, 2010, 473 ss., con nota di F. PISTOLESI, L’inammissibilità dell’appello per mancato o tardivo deposito della copia in primo grado non contrasta con l’indirizzo di svalutazione dei vizi formali, alla luce delle quali analoghe questioni erano state dichiarate non fondate. 80 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO della commissione regionale nei confronti della segreteria della commissione provinciale, in virtù dell’art. 53, 3° co del d.lgs. n. 546/1992 ( 66). Tale modifica, introdotta come quella in precedenza evidenziata, dalla miniriforma del processo tributario alla fine dell’anno 2005, ha eliminato o comunque fortemente ridotto il margine di rischio di un utilizzo strumentale e, quindi, abusivo, della richiesta alla segreteria della commissione provinciale e della produzione in giudizio innanzi alla commissione regionale presso la quale pende il giudizio d’appello, della sentenza impugnata munita della erronea attestazione del suo passaggio in giudicato. 7 (Segue): gli artt. 88 e 96 c.p.c., la giurisprudenza delle sezioni unite civili della Suprema Corte sull’abuso processuale ed alcune fattispecie concrete di abuso calibrate sul processo tributario In virtù dei principi generali, nonché del modulo di raccordo tra le disposizioni di cui al d.lgs. n. 546/1992 e le norme del c.p.c., di cui all’art. 1, 2° co. di questo d.lgs., sono applicabili in materia di processo tributario gli artt. 88 e 96 del codice di rito civile (67). La domanda di risarcimento del danno da responsabilità processuale aggravata, peraltro, può essere proposta esclusivamente nel medesimo giudizio dal cui esito si deduce l’insorgenza di tale responsabilità e del danno, sia perché nessun giudice può giudicare la temerarietà processuale meglio di quello che decide sulla domanda che si assume temeraria, sia in quanto la valutazione del presupposto della responsabilità processuale è così strettamente collegata con la decisione di merito da comportare la possibilità, se fosse condotta separatamente, di un contrasto di giudicati. Come già anticipato, il richiamo a queste due disposizioni non è suscettibile di fondare, con sufficienti margini di chiarezza, l’elaborazione della figura di abuso del processo, segnatamente con riferimento al processo tributario. Pertanto, occorrerà ragionare in termini necessariamente più ampi, pur partendo dal dato positivo costituito dal combinato disposto degli artt. 88 e 96 c.p.c. (68). (66) Nello stesso senso, cfr. Corte cost. 15 aprile 2011, n. 141, cit. e 11 febbraio 2010, n. 43, cit. (67) A. CHIZZINI, I rapporti tra codice di procedura civile e processo tributario, in Il processo tributario, a cura di F. TESAURO, Torino, 1998, 17, afferma l’applicabilità del dovere di lealtà e probità in virtù dei principi generali e non tanto per il rinvio contemplato dall’art. 1, 2° co. del d.lgs. n. 546/1992. Con rifermento alla responsabilità aggravata, lo stesso Autore ne ammette l’applicabilità nel processo tributario, “pur con qualche dubbio”. È favorevole all’applicabilità al processo tributario dell’art. 96 c.p.c., come novellato dalla l. n. 69/2009, in virtù di “una visione sistematica e conforme ai principi del sistema di tutela giudiziale”, P. SANDULLI, Sull’applicabilità dell’articolo 96 c.p.c. al rito tributario, in Riv. dir. proc., 2011, 646 ss., 651. (68) Comm. trib. reg. Puglia 12 aprile 2010, n. 36, in GT, 2010, 1008 ss., con nota di G. A. GALEANO, G. A .F. FERRI, Risarcimento del danno da lite temeraria ex art. 96 c.p.c. nel giudizio tributario, applica il disposto dell’art. 96 c.p.c. e accoglie la 81 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO A tal proposito, possono essere ricavati elementi utili dalla giurisprudenza delle sezioni unite civili della Suprema Corte, la quale è stata in precedenza già sottolineata. Difatti, essa sembra avere rilevanza non solamente sotto il profilo del rito civile, al quale prioritariamente (ed esplicitamente) si riferisce in punto di frazionamento giudiziale, contestuale o sequenziale, di un credito unitario, ma anche ai fini del processo tributario, essendo i principi ivi richiamati di generale applicazione (69). Pur trattandosi di un percorso di ricerca originale e meritevole di ulteriori approfondimenti e riscontri, questa trasversalità è suscettibile di fondare un travaso di principi che si rendono applicabili ad entrambe le giurisdizioni, fatte salve le specificità che inevitabilmente caratterizzano ciascuna di esse. I principi espressi nella sentenza delle sezioni unite civili n. 23726/2007 possono essere considerati non poco significativi ai fini della presente indagine. Difatti, la Suprema Corte sembra sottolineare con vigore l’importanza, se non proprio la centralità, di due regole, alla luce delle quali dev’essere inquadrata la tematica dell’abuso del processo, vale a dire, da un lato, la valorizzazione del principio di correttezza e di buona fede (oggettiva), quale specificazione in sede processuale degli “doveri inderogabili di solidarietà”, in virtù dell’art. 2 della Carta costituzionale e, dall’altro lato, il canone del giusto processo (oltre all’obiettivo della sua “ragionevole durata”), previsto, come noto, dal novellato art. 111 Cost. La coerente e precisa applicazione delle suddette regole subirebbe un pregiudizio grave se fosse ammessa, in tutto o anche solo in parte, l’esercizio dell’azione giudiziale “in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell’attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi” (70). Accanto domanda di risarcimento del danno in presenza di un “comportamento di natura dilatoria e defatigante per il contribuente” che rivela, nella specie, in capo all’ente impositore “una mancanza assoluta di avvedutezza e di una sia pur minima consapevolezza della legittimità o meno del proprio agire e delle conseguenze che i propri atti andavano a determinare in termini di un abuso del proprio potere, e perciò esercitato in modo evidentemente illecito”. La commissione accoglie la domanda con riferimento al danno morale conseguente all’accertata inesistenza del diritto a chiedere l’iscrizione ipotecaria sul patrimonio del contribuente, condotta che ha prodotto “disagi psicologici”. (69) Afferma P. NAPPI, Commento sub art. 96, cit., 1077 s., che si delinea, nella giurisprudenza di legittimità, la figura dell’abuso processuale come esercizio del potere da parte di chi, pur essendone titolare legittimo, lo utilizza per fini diversi da quelli per i quali tale potere viene riconosciuto dalla legge. Quale conseguenza, l’abuso in esame finisce per consistere nella promozione di una lite, ovvero nella resistenza ad essa, da parte di chi è legittimato ad agire o resistere, ma per scopi ulteriori e diversi da quelli tipici. (70) In senso sintonico, cfr. Cass. 18 settembre 2009, n. 20085: i fatti esaminati in questo arresto si riferivano all’appello proposto da un ufficio tributario dopo la scadenza del termine breve d’impugnazione, decorso dalla data della notifica della sentenza eseguita presso l’ufficio tributario costituito nel giudizio di primo grado e diverso da quello che aveva proposto l’appello. Al riguardo, la Suprema Corte 82 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO all’abuso della tutela giurisdizionale nel suo complesso, non vi sono ragionevoli motivazioni per escludere l’applicazione delle suddette regole, in ogni stato e grado del giudizio, anche all’abuso commesso attraverso il compimento di specifici atti che rientrano nella vicenda processuale, alla luce della duplice accezione di abuso processuale indicata retro nel primo paragrafo. I suddetti canoni costituzionali unitamente, si ritiene, all’art. 24 Cost. ed ai rispettivi corollari specificativi, sembrano fondare, ai fini non limitati al processo civile, ma anche nell’alveo del processo tributario, l’esigenza costituzionalizzata del divieto di utilizzo improprio e strumentale sia dell’accesso alla tutela giurisdizionale, sia della strumentazione processuale nel corso dello svolgimento dinamico della vicenda giudiziale. Dev’essere evitato l’inutile e infruttuoso dispendio di energie processuali, ovvero di formalità superflue, laddove non giustificate dalla struttura dialettica del processo, con particolare ma non esclusivo riferimento al rispetto del principio del contraddittorio, di cui all’art. 101 c.p.c., all’effettiva garanzia della difesa, ex art. 24 Cost., alla meritevolezza della tutela e al diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, in virtù dell’art. 111 Cost., da parte “dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti” (così Cass., sez. un., n. 26373/2008). Conseguentemente, il concetto di abuso del processo (civile o tributario), non solo può essere positivamente enucleato pur in assenza di una norma che espressamente lo contempli nel testo del c.p.c. e/o del d.lgs. n. 546/1992, ma poggia le proprie solide basi in alcuni parametri costituzionali in funzione dei quali esso si specifica. L’abuso in questione può essere precisamente individuato a contrariis, laddove esso è contrario ai “doveri inderogabili di solidarietà”, al canone del giusto processo, nonché, se del caso, alla sua ragionevole durata. Quale che sia la definizione di abuso del processo, esso non può risolversi in una irragionevole compressione dei diritti delle parti e, d’altro canto, spetta al giudice il potere di valutare, caso per caso, se il comportamento adottato da una parte sia o meno abusivo, laddove mancano criteri precisi e uniformi che sottolinea l’inesistenza di rilevanza giuridica esterna processuale del mutamento, con atto amministrativo di organizzazione, della ripartizione di competenza territoriale degli uffici tributari, in relazione al principio di buona fede oggettiva del contribuente, regolativo del processo tributario. Conseguentemente, “la notificazione eseguita nei confronti dell’ufficio tributario non competente a seguito dell’atto di riorganizzazione, non può considerarsi inefficace, e non consente, quindi, all’ufficio competente”, il quale non era stato parte del giudizio di primo grado, di preporre l’appello oltre il termine breve di impugnazione. Difatti, se anche si volesse prescindere dal principio della tutela del legittimo affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che permea tutti i rapporti di diritto pubblico e trova la sua base costituzionale nell’art. 3 Cost., “altrimenti si darebbe vita ad un processo ingiusto in quanto conseguente ad un atto unilaterale di una delle parti, con abuso del diritto di difesa per l’esercizio dell’azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltre che la ragione, dell’attribuzione al suo titolare della potestas agendi”. Nello stesso senso, v. Cass. 5 febbraio 2009, n. 2740. 83 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO indichino il perimetro concettuale di tale valutazione (71), anche alla luce dell’art. 96, 3° co., c.p.c., la cui formulazione, come già evidenziato, è non poco discutibile (72). Sotto altro profilo, non ogni comportamento che può produrre effetti dilatori sul procedimento può essere qualificato come abuso o come atto compiuto in malafede. Per tale ragione, non può ritenersi abusiva la presentazione di una istanza di accertamento con adesione, dopo la notifica dell’avviso di accertamento (ovvero dell’atto c.d. “impoesattivo”), al solo fine di beneficiare della sospensione per novanta giorni del termine per impugnare l’atto stesso innanzi al giudice tributario (73). In tal caso, il contribuente si serve di un’istanza che gli è consentito di presentare (anche se fosse convinto, per ipotesi, che l’accertamento con adesione non sarà perfezionato) e non sembra che commetta un abuso, in quanto persegue in modi legittimi e non in mala fede un suo interesse e l’effetto dilatorio è limitato ad un ragionevolmente breve intervallo temporale (vale a dire, novanta giorni). A titolo meramente esemplificativo, sembra possedere i requisiti per un inquadramento in termini di abuso ( 74) l’espletamento di un’istruttoria amministrativa endoprocedimentale, da parte dell’ufficio impositore, incompleta o gravemente carente, cui segue la notificazione dell’atto impositivo (o “impoesattivo”), l’impugnazione da parte del contribuente e la costituzione in giudizio dell’ufficio medesimo, suscettibile di ribaltare sul giudice tributario la ricerca e l’acquisizione della prova (o di ulteriori prove) dell’evasione, per effetto dell’espletamento dei poteri istruttori dal giudice, nonostante l’abrogazione dell’art. 7, 3° co., del d.lgs. n. 546/1992 e sia pure “nei limiti dei fatti dedotti dalle parti” (così il 1° co. dell’art. 7). (71) In senso pienamente sintonico, cfr. M. TARUFFO, L’abuso del processo, cit., loc. cit., 127 s. (72) D. VOLPINO, L. M. PALIERO, Commento sub art. 96, cit., 369, 371, sottolineano che l’innesto dell’art. 96, 3° co. è stato operato dal legislatore della riforma in virtù della constatata esigenza di potenziare la tutela contro l’abuso del diritto, inteso come fenomeno suscettibile di ricomprendere diversi comportamenti percepiti dall’ordinamento come riprovevoli e che si estendono dall’abuso del processo alla violazione dei doveri di cui all’art. 88 c.p.c. In questa prospettiva, trattasi di un nuovo strumento di deterrenza contro le condotte abusive, il quale sarebbe collocato con coerenza sistematica accanto all’altro deterrente tipico, vale a dire la tutela risarcitoria. La formulazione dell’art. 96, 3° co., peraltro, sarebbe volutamente generica, al fine di non vincolare il giudice nella valutazione di situazioni che ben possono essere eterogenee e sarebbero difficilmente determinabili aprioristicamente. (73) Ai sensi degli artt. 6, 3° co. e 12, 2° co., del d.lgs. n. 218/1997. (74) Si consideri l’espletamento da parte del giudice tributario di poteri istruttori a lui estranei, vale a dire non spettanti ai sensi dell’art. 7, 1° e 2° co., del d. lgs. n. 546/1992, ma di competenza dell’ufficio impositore, quali poteri amministrativi. In questa ipotesi, non si tratta di abuso del processo, laddove si può abusare di un potere di cui si è titolari, mentre non si può abusare di un potere di cui non si è titolari, spettante ad un altro soggetto e, in tal caso, sembra realizzarsi una usurpazione e, segnatamente, di un potere di cui è titolare un diverso soggetto. 84 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO A prescindere da tale fattispecie, si pensi al ricorso avverso la cartella di pagamento ed all’impugnazione della correlativa iscrizione a ruolo con la notifica sia all’ufficio tributario che ha effettuato tale iscrizione a ruolo, sia all’agente della riscossione che ha notificato la cartella. Il contribuente si costituisce in giudizio in due diversi momenti, purché entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, confidando nella omessa riunione dei due procedimenti da parte della commissione tributaria provinciale adita, al solo fine di ottenere due sentenze, di cui almeno una favorevole al contribuente (con autorità di cosa giudicata), precedute da una duplice richiesta di sospensione cautelare, per la quale sarebbe sufficiente anche un solo accoglimento, al fine di paralizzare, sia pure temporaneamente, l’azione esecutiva (75). Le fattispecie sopra tratteggiate sono tutt’altro che frequenti ma non possono essere considerate del tutto improbabili o, peggio, mere ipotesi di scuola, come la pratica dimostra. Il concetto di abuso del processo tributario, peraltro, è suscettibile di essere individuato anche in altri casi, essendo quelli descritti solo una esemplificazione al fine di testare nel concreto i primi risultati della ricerca fin qui svolta. 8 Osservazioni conclusive: la figura dell’abuso del processo investe trasversalmente tutte e tre le giurisdizioni domestiche, ma si specifica e si adatta in modo largamente diverso e calibrato all’interno di ciascuna di esse. Dubbi sull’efficacia dell’art. 96, 3° co., c.p.c. al fine di arginare e scoraggiare l’abuso del processo tributario Al termine dell’indagine, è opportuno sottolineare alcune considerazioni conclusive, pur con la consapevolezza che il percorso di ricerca sull’abuso del processo, almeno sul versante tributario, necessita di ulteriori e meditati approfondimenti. In linea di principio, le molteplici ipotesi di abuso processuale, come emerge dall’esperienza giurisprudenziale, anche di legittimità, sul punto, autorizzano a formulare un concetto di abuso del processo, nonostante le conclusioni forse più prudenti e, in vario modo, aperte alle quali giunge in parte qua Taruffo (76). Secondo questo Autore, la nozione di abuso è “vaga a sfuggente al punto che rimane lecito il dubbio intorno a se essa esista davvero in qualche area dell’ordinamento, o non valga invece la pena di occuparsi solo delle fattispecie normativamente previste, si chiamino esse abuso, mala fede, colpa grave, o in qualunque altro modo”. È senza dubbio condivisibile la difficoltà di definire precisamente il perimetro concettuale dell’abuso, ma la casistica esaminata dalla giurisprudenza fa emergere in modo chiaro l’utilizzo, pur in presenza di una (75) Sembra potersi considerare un abuso, inoltre, l’impugnazione del diniego di autotutela al solo fine di contestare, anche solo indirettamente, quasi “in punta di penna”, l’atto impositivo in precedenza ritualmente notificato al contribuente e da quest’ultimo non tempestivamente impugnato. (76) Cfr. M. TARUFFO, L’abuso del processo, cit., loc. cit., 139. 85 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO condotta formalmente conforme al paradigma normativo, strumentale e distorto della potestas agendi, ovvero di atti all’interno delle singole vicende processuali, che violano il principio di buona fede oggettiva e correttezza, affermato in numerose sentenze delle sezioni unite civili della Suprema Corte quale espressione, anche nella sua dimensione processuale, “dei doveri inderogabili di solidarietà”, di cui all’art. 2 Cost. ( 77). Senza considerare l’ulteriore e concorrente profilo che caratterizza l’abuso quale concetto che si pone in contrasto col principio costituzionalizzato del giusto processo e, segnatamente, della sua necessaria durata ragionevole (78). Queste osservazioni sono estensibili in modo trasversale e generalizzato a tutte le tre giurisdizioni, vale a dire a quella ordinaria, quella amministrativa e quella tributaria. Sembra sussistere, quindi, un concetto di abuso del processo che presenta alcuni tratti comuni con riferimento alle tre giurisdizioni, ma che assume delle inevitabili specificazioni ed adattamenti all’interno delle singole giurisdizioni (79), in funzione della diversa struttura e dell’oggetto del processo. Nel paragrafo precedente sono stati individuati alcuni casi che possono verificarsi solamente con riferimento al processo tributario e non anche in relazione alle altre due giurisdizioni. Questo assunto conferma ulteriormente che, nonostante possa essere individuato, pur con tutte le difficoltà teoriche, un concetto tendenzialmente unitario di abuso del processo, esso si manifesta non poco frequentemente in modo diverso nelle singole giurisdizioni, come è stato dimostrato nel precedente paragrafo in relazione al processo tributario. È stato sottolineato in dottrina (80) che “paradossalmente il riconoscimento circa la scontata impossibilità di ridurre il fenomeno dell’abuso ad un problema di adeguatezza delle norme processuali si accompagna alla ricerca di strumenti legislativi di reazione all’abuso del processo”, orientando le strategie delle parti verso comportamenti nel corso del processo non solo giuridicamente (e formalmente) legittimi, ma anche corretti. Sotto il profilo delle conseguenze e dei rimedi, si può in breve sottolineare che il giudice tributario dovrà di volta in volta valutare e apprezzare la sussistenza e la gravità dell’abuso e si regolerà di conseguenza, se del caso, in virtù dell’art. 96 c.p.c., in presenza di responsabilità aggravata. In particolare, il giudice tributario potrà applicare il (per molti aspetti) criticabile art. 96, 3° (77) Sul versante tributario, i suddetti principi sono stati espressamente applicati da Cass. 5 febbraio 2009, n. 2740. La precedente sentenza della Suprema Corte 20 luglio 2007, n. 16120, afferma il “principio di corretta utilizzazione del processo”, il quale “non vuole che il processo sia utilizzato solo per effetti dilatori o abusivi”. (78) Sottolinea C. SCALINCI, Abuso del diritto e abuso del processo in materia fiscale, cit., 121, che l’abuso del processo “è, essenzialmente, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale e dogmatica”. (79) Come, peraltro, avviene in relazione ad altre tematiche ad ampio raggio, quali, ad esempio, l’effettività e la meritevolezza della tutela giurisdizionale richiesta. (80) Cfr. E. M. CATALANO, Verso le colonne d’Ercole dell’abuso del processo, cit., loc. cit., 63. 86 L’ABUSO DEL PROCESSO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL PROCESSO TRIBUTARIO co., c.p.c. e condannare la parte soccombente sanzionandola, anche d’ufficio, con un ampio potere di determinazione in via equitativa della somma (81). Non sembra, tuttavia, che questa norma sia sufficiente al fine di arginare e scoraggiare il fenomeno patologico dell’abuso del processo tributario, specialmente se la condanna al risarcimento dei danni di cui al 1° co. per lite temeraria e la condanna al pagamento di una ulteriore somma determinata in via equitativa, di cui al 3° co., dovessero essere meramente simboliche ( 82). Questa pragmatica conclusione, tuttavia, non scalfisce l’assunto secondo cui l’applicazione delle norme sulla “responsabilità aggravata” al processo tributario potrà, in qualche misura, contribuire a ridurre e contrastare abusi processuali nei rapporti tra uffici tributari e contribuenti, rafforzando la tutela della parte che ha subito direttamente gli effetti pregiudizievoli di iniziative distorte, eccessive o temerarie, ovvero di strategie processuali meramente dilatorie, pretestuose o del tutto infondate. Ma, allo stato attuale della giurisprudenza, sarebbe forse un errore sopravvalutare i risultati pratici ai quali darà luogo l’applicazione delle disposizioni in tema di responsabilità processuale aggravata, con specifico riferimento al processo tributario. (81) Cfr. N. SANTI DI PAOLA, Condannata Equitalia per lite temeraria ex art. 96, comma 3, c.p.c., in Il civilista, n. 3/2011, 11 ss. (82) Afferma C. E. GALLO, L’abuso del processo nel giudizio amministrativo, cit., loc. cit., 1014 ss., che la repressione dell’abuso del processo dev’essere perseguita con una pluralità di mezzi. In altre parole, il mezzo più ordinario è la condanna alle spese o la compensazione delle spese di causa, in secondo luogo, soccorre lo strumento processuale vero e proprio, laddove il giudice ha la possibilità, intervenendo nel giudizio, di reprimere, se non addirittura di vanificare immediatamente il comportamento abusivo. Infine, il terzo mezzo va individuato nella disciplina deontologica e, soprattutto, nella disciplina deontologica degli avvocati. 87 Prof. Giuseppe Corasaniti Professore Università di Brescia L’interpretazione degli atti e l’elusione fiscale nel sistema dell’imposta di registro SOMMARIO: 1 I termini della questione - 2 Breve sintesi delle contrapposte posizioni giurisprudenziali in punto di interpretazione ed applicazione dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986 - 3 La (corretta) lettura interpretativa dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986 e le ragioni sistematiche alla base della stessa - 3.1 Sulla natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro e sulla conseguente irrilevanza di elementi extratestuali nella sua applicazione - 4 Sull’(in)applicabilità del principio del cd. “divieto di abuso del diritto” quale strumento di contrasto dell’elusione anche nell’ambito dell’imposta di registro - 5 Conclusioni 1 I termini della questione E’ sufficiente un rapido esame della più recente giurisprudenza 1 per rendersi conto i) dello stato di “confusione” e di “incertezza” che sussiste, nell’ambito dell’imposta di registro, in merito all’individuazione dell’esatta natura e funzione della disposizione di cui all’art. 20, d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131, cui una parte di tale giurisprudenza, in specie quella di legittimità 2, attribuisce – 1 Nell’ambito della giurisprudenza di merito, a conferma di quanto sopra, si segnalano, a titolo meramente esemplificativo, due pronunce diametralmente contrapposte: la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. 1°, del 9 ottobre 2009, n. 190 e la sentenza della Commissione tributaria di II grado di Bolzano, sez. 2°, del 20 maggio 2009, n. 36, entrambe in Dir. Prat. Trib., 2010, 565 ss., con mio commento, L’art. 20 del T.U. dell’imposta di registro e gli strumenti di contrasto all’elusione: brevi spunti ricostruttivi a margine di due contrastanti pronunce della giurisprudenza di merito. Sempre nell’ambito della giurisprudenza di merito cfr., tra le altre, Comm. Trib. Reg. dell’Emilia Romagna, n. 34/10/06 del 17 gennaio 2007 (in banca dati Fisconline). 2 Più recentemente si veda Cass., 30 giugno 2011, n. 14367 (in banca dati Fisconline). In precedenza, tra le altre, cfr. Cass. 23 novembre 2001, n. 14900, in Giur. Imposte, 2002, 624; Cass. 25 febbraio 2002, n. 2713, in Foro it., 2002, I, c. 3424, con nota di S. Di Paola; Cass. 7 luglio 2003, n. 10660. In dottrina, tra i primi commenti a queste sentenze cfr. F. Marchetti, La riqualificazione dell’atto soggetto a tassazione ad opera dell’Ufficio del registro: l’interpretazione dell’art. 20 d.p.R. n. 131/1986, in Boll. trib., 2002, 738; S. Donatelli, La rilevanza degli elementi extratestuali ai fini dell’interpretazione dei contratti nell’imposta di registro, in Rass. trib., 2002, 1341; F. Pedrotti, Conferimento di ramo d’azienda e successiva cessione di quote attribuite al soggetto conferente: regime tributario indiretto, in Boll. trib. 2003, 1314. Ed inoltre, riferimenti alla funzione antielusiva del disposto di cui all’art. 20, d.p.r. n. 131 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO in modo non condivisibile – valenza di norma antielusiva e, più in generale, ii) dello stato di “confusione” e di “incertezza” che sussiste in merito all’individuazione di idonei strumenti di contrasto a possibili fenomeni elusivi3 che potrebbero interessare (anche) questo settore impositivo. E’ noto come la “questione” de qua sia sorta con specifico riferimento alle operazioni di conferimento in società di immobili ovvero di aziende 4, (eventualmente) gravati da finanziamenti ipotecari accollati alla società conferitaria e seguite, a breve distanza temporale, dalla cessione a terzi della totalità delle partecipazioni sociali, trattandosi di fattispecie negoziali, queste ultime, ritenute potenzialmente elusive della più onerosa disciplina del 1986 sono contenuti anche in Cass. 31 agosto 2007, n. 18374; Cass., 4 aprile 2008, n. 8772; Cass. 4 maggio 2007, n. 10273; Cass. 7 luglio 2003, n. 10660 (tutte in banca dati Fisconline). Prima di questi arresti giurisprudenziali, la stessa Suprema Corte di cassazione aveva invece aderito alla diversa (e corretta) tesi interpretativa (qui sostenuta) secondo cui il sistema applicativo dell’imposta di registro deve ritenersi incentrato esclusivamente sull’esegesi dell’atto sottoposto a registrazione, a nulla rilevando eventuali elementi intenzionali extratestuali non emergenti da tale atto ma desunti aliunde (in questi termini cfr. Cass. 17 dicembre 1988 n. 6902; Cass. 29 marzo 1983 n. 2239; tutte in banca dati Big-online). 3 Per un pregevole inquadramento, in termini generali, del fenomeno giuridico della elusione fiscale si rinvia a S. La Rosa, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, 785 ss., secondo cui l’elusione e l’antielusione fiscale rappresentano due facce di una stessa medaglia, consentendo “di dire, cioè, che i comportamenti elusivi in realtà assumono tale connotazione giuridica solo come conseguenza degli interventi antielusivi che mirano a contrastarli; di osservare, in altri termini, che la nozione giuridicamente rilevante dell’elusione fiscale dipende sempre dalle norme che regolano l’antielusione; e a monte di tutto, di affermare la necessità che all’esame dei problemi di natura disciplinare suscitati dalle norme sull’elusione fiscale, vengano anteposte delle riflessioni di carattere generale proprio sugli astratti profili teorico-sistematici dei rapporti tra l’elusione e l’antielusione”. 4 Si ricorda che con specifico riferimento all’ipotesi di conferimento d’azienda e successiva cessione delle partecipazioni sociali, l’art. 176, 3° co., T.U. delle imposte sui redditi, approvato con d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917 (d’ora in avanti Tuir), esclude espressamente qualsiasi profilo di elusività di tale operazione, la quale non rileva ai fini dell’art. 37 bis, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 (norma antielusiva di più ampia portata nel settore dell’imposizione reddituale). E’ dunque evidente la contraddittorietà di un “sistema di imposizione” in base al quale la stessa operazione negoziale (conferimento d’azienda seguito dalla cessione delle partecipazioni sociali) viene espressamente qualificata come non elusiva ai fini delle imposte sui redditi, laddove, invece, verrebbe qualificata, dall’Amministrazione finanziaria e da una parte della giurisprudenza, come elusiva ai fini dell’imposta di registro. Questa contraddittorietà emerge in tutti i suoi profili di criticità nella sentenza della Comm. trib. prov. di Firenze, sez. XX, 5 novembre 2007, n. 150 (in banca dati Big-online). Orbene, è fuor di dubbio come tutto ciò non faccia altro che determinare una situazione di incertezza e confusione tra gli operatori. 90 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO impositiva applicabile alla (diversa) operazione negoziale di cessione dell’immobile ovvero dell’azienda5. Difatti, in tali ipotesi l’Amministrazione finanziaria (in sede di contestazione) e parte della giurisprudenza (in sede di decisione delle relative controversie giudiziarie), tendono a dare rilevanza, ai fini della determinazione dell’imposta di registro dovuta, all’“effetto economico finale”, rappresentato dalla cessione, all’acquirente delle partecipazioni, del bene immobile o dell’azienda conferita, censurando il carattere elusivo del ricorso allo schema del conferimento seguito da cessione della partecipazione e, pertanto, assoggettando l’operazione de qua all’imposta di registro dovuta per la cessione dell’immobile o dell’azienda, al lordo di qualunque passività 6. In particolare, secondo le pronunce citate, tale ricostruzione troverebbe fondamento proprio nell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 19867, ai sensi del quale l’imposta, prescindendo dal titolo o dalla forma apparente, deve essere applicata tenendo conto dell’intrinseca natura e degli effetti giuridici degli atti. Secondo questo orientamento interpretativo, infatti, tale norma consentirebbe di determinare l’imposta dovuta in ragione della “causa reale” dell’operazione economica complessivamente realizzata, dunque prescindendo dal nomen iuris attribuito all’atto, ovvero dagli elementi 5 Difatti, ai sensi dell’art. 50, d.p.r. n. 131 del 1986, in tali ipotesi la base imponibile dell’atto di conferimento è determinata al netto delle passività e degli oneri accollati alla società, possibilità questa che non si riscontra, invece, all’interno dell’art. 43 del medesimo decreto per gli atti a titolo oneroso in generale. Ed in ogni caso, nella specifica ipotesi di conferimento di azienda, anche in assenza di eventuali passività accollate alla società conferitaria a seguito dell’atto di conferimento, il carico fiscale previsto per tale atto, così come quello previsto per un’eventuale successiva cessione delle partecipazioni, è di gran lunga inferiore rispetto a quello previsto per la (diversa) fattispecie negoziale della cessione d’azienda. 6 Peraltro, con riferimento alle contestazioni de quibus, un ulteriore profilo di criticità, sino ad ora trascurato, è quello relativo alla corretta individuazione dei soggetti destinatari dei relativi avvisi di liquidazione della maggiore imposta di registro in tal modo asseritamente dovuta. Difatti, assoggettando l’intera operazione negoziale di conferimento e successiva cessione delle partecipazioni all’imposta di registro dovuta per la cessione dell’immobile o dell’azienda, a questo punto l’avviso di liquidazione dovrebbe – correttamente – essere intestato e notificato ai “veri debitori” dell’imposta, cioè “gli acquirenti dell’immobile o dell’azienda”, ossia ai successivi cessionari della partecipazione sociale e non già alla società conferitaria. In questi termini si è espressa la Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, Sez. 1, 27 gennaio 2010, n. 18, la quale ha accolto il ricorso della società conferitaria per carenza di legittimazione passiva della stessa. Sul tema si rinvia alle condivisibili osservazioni di C. Glendi, in commento alla citata sentenza di merito (cfr. Rassegna di giurisprudenza, Nota alla Comm. trib. prov. di Raggio Emilia, Sez. 1, 27 gennaio 2010, n. 18, in Corr. trib. 2010, 650 – 651). 7 In commento alla norma in esame cfr. A. Uricchio, Commento all’art. 20 T.U., in D’Amati, La nuova disciplina dell’imposta di registro, Torino, 1989, 180. 91 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO emergenti dall’”assetto cartolare”, dando invece rilevanza ad un presunto “intento negoziale oggettivamente unico” 8 perseguito dalle parti, ricostruito sulla base (anche e soprattutto) di elementi extratestuali rispetto all’atto sottoposto a registrazione. Sennonché, sulla (il)legittimità di una tale interpretazione sono stati sollevati molteplici dubbi dalla più autorevole dottrina9, che, con approccio esegetico, ha dimostrato come il valore attribuito dalla Suprema Corte di cassazione all’art. 20 risulti incoerente rispetto all’evoluzione normativa di tale disposizione10. 2 Breve sintesi delle contrapposte posizioni giurisprudenziali in punto di interpretazione ed applicazione dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986 Le contrapposte letture interpretative in punto di applicazione del citato art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, possono benissimo riassumersi esaminando, a titolo esemplificativo, il contenuto di due sentenze di merito che, in ragione della netta contrapposizione delle soluzioni giuridiche su cui si fondano, sono perfettamente in grado di descrivere il quadro di profonda incertezza e confusione che connota l’applicazione della citata disposizione. Difatti, da un lato, può segnalarsi la sentenza del 20 maggio 2009, n. 36 11 con cui la Commissione tributaria di II grado di Bolzano, qualificando l’imposta di registro come una “imposta d’atto” e, per l’effetto, disconoscendo qualsiasi rilevanza, nella relativa disciplina, ad eventi successivi all’atto registrato ed extratestuali, sembrerebbe condividere12 le critiche – sulle cui ragioni 8 In questi termini, per una decisa critica del predetto approccio interpretativo della giurisprudenza si veda il Notariato, Studio n. 95/2003/T, Imposta di registro. Elusione fiscale e riqualificazione degli atti, in www.notariato.it. 9 Si veda, funditus, G. Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra l’abuso del <<diritto>> e l’abuso del potere, retro, 2008, 1067 ss.; G. Zizzo, Sull’elusività del conferimento di azienda seguito dalla cessione della partecipazione (nota a Comm. trib. prov. di Firenze, sez. XX, 5 novembre 2007, n. 150, in Giust. Trib., 2008, 277; M. Beghin, L’abuso del diritto nella indefettibile prospettiva del <<vantaggio fiscale>>, in Corr. trib., 2009, 2325 ss.; E. Della Valle, L’elusione nella circolazione indiretta del complesso aziendale, in Rass. Trib., 2009, 375 ss.; G. Stancati, Riqualificazione negoziale e abuso della clausola antielusiva nell’imposta di registro, in Corr. trib., 2008, 1685 ss. Sia consentito, inoltre, il rinvio al mio, Sui profili “elusivi” dei conferimenti societari nell’imposta di registro, in Obbligazioni e Contratti, n. 5 del 2007, 433 ss., Id., Profili tributari dei conferimenti in natura e degli apporti in società, Padova, 2008, 468 ss. 10 Ha definito “antistorica” questa ricostruzione interpretativa G. Stancati, Riqualificazione negoziale e abuso della clausola antielusiva nell’imposta di registro, op. cit., 1687. 11 Già citata in precedenza. 12 Peraltro, la sentenza de qua pronunciata dalla Commissione tributaria di II grado di Bolzano merita di essere segnalata anche per ulteriori aspetti di interesse, diversi da 92 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO sistematiche si tornerà a breve – sollevate dalla citata dottrina con riferimento al predetto orientamento della Suprema Corte di cassazione volto alla valorizzazione dell’art. 20 come norma antielusiva 13. In questo caso la fattispecie negoziale controversa riguardava un atto di conferimento di terreni agricoli in una società in accomandata semplice, relativamente ai quali il soggetto conferente aveva in precedenza contratto un finanziamento ipotecario, poi accollato alla società conferitaria in sede di conferimento, senza, tuttavia, che ciò avesse comportato alcuna liberazione, ad opera della Banca creditrice, del debitore originario/soggetto conferente dagli obblighi derivanti dal predetto contratto di mutuo. Peraltro, nella fattispecie in esame sembrerebbe non esserci stata neppure alcuna successiva cessione delle partecipazioni sociali14. quello qui esaminato. Il riferimento, in particolare, è alla (condivisibile) statuizione relativa all’inapplicabilità nella specie della proroga dei termini prevista dall’art. 11, 1° co., l. 27 dicembre 2002, n. 289. Difatti, da un’attenta lettura della citata disposizione emerge come la definizione agevolata fosse consentita soltanto con esclusivo riferimento: i) ai valori dichiarati dalle parti passibili di rettifica di maggior valore ex art. 52, 1° co., d.p.r. n. 131 del 1986 (art. 11, 1° co., l. n. 289 del 2002); ii) nonché, alla definizione delle violazioni relative alle agevolazioni tributarie (art. 11, comma 1-bis, l. n. 289 del 2002). Tale norma non permetteva, pertanto, di poter accedere alla definizione agevolata anche con riferimento all’ipotesi di accertamento di una maggior imposta, qualificabile quale imposta complementare “residuale”, sulla base di una asserita “riqualificazione” (ai sensi dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986) dell’atto da sottoporre a registrazione. Al tempo stesso viene anche chiarito come il termine decadenziale dell’azione accertatrice dell’Amministrazione finanziaria, nel caso di recuperi a tassazione fondati sul citato art. 20, debba essere individuato in quello di tre anni decorrenti dalla registrazione dell’atto, ex art. 76, co. 2, lett. a), d.p.r. n. 131 del 1986 e non già in quello di due anni dal pagamento dell’imposta proporzionale di cui al co. 1-bis del medesimo articolo. Peraltro, in tal senso si è espressa anche la Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia nell’altra sentenza qui in commento, in cui viene anche chiarito come il predetto termine di tre anni decorra dalla registrazione del (secondo) contratto di cessione delle partecipazioni sociali e non già dalla registrazione del (primo) atto di conferimento. 13 In senso conforme alla sentenza della Commissione tributaria di II grado di Bolzano qui commentata, nell’ambito della giurisprudenza di merito si veda, tra le altre, Comm. Trib. prov. di Treviso, n. 41 del 2009, in Corr. trib., n. 29 del 2009, con commento di M. Beghin, L’abuso del diritto nella indefettibile prospettiva del <<vantaggio fiscale>>, 2325. 14 Con specifico riferimento ad una fattispecie analoga a quella oggetto della sentenza qui commentata, in cui all’atto di conferimento non è seguita la successiva cessione delle partecipazioni, la Commissione tributaria di primo grado di Bolzano, sent. n. 125/1/2007, del 27 dicembre 2007, decidendo sulla pretesa tributaria di assimilare il conferimento di un bene gravato da ipoteca, iscritta a garanzia di un mutuo, ad un'alienazione con corrispettivo in denaro in base all'art. 20 del d.p.r. n. 131 del 1986, ha affermato che, nel caso in cui il socio conferisce l’immobile gravato da mutuo ipotecario alla società, in assenza di trasferimento delle quote sociali, non si 93 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO Ebbene, l’Ufficio, sfruttando l’opzione interpretativa dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986 fatta propria dall’orientamento giurisprudenziale prima richiamato, aveva contestato un’asserita elusività della fattispecie negoziale in esame, poiché, attraverso l’uso legittimo di più figure contrattuali, sarebbe stata realizzata nei fatti una cessione di immobili, con un indebito risparmio dell’imposta di registro. In altri termini, le parti avrebbero simulato un conferimento in società di beni immobili ipotecati, dissimulando una cessione di immobili, al solo scopo di ridurre la base imponibile da assoggettare ad imposta di registro15. Ma - come detto - questa ricostruzione è stata smentita dal Giudice d’appello, ritenendo non corretta la predetta lettura interpretativa del citato art. 20 sulla base delle argomentazioni di cui si dirà a breve. In senso diametralmente opposto, sempre nell’ambito della giurisprudenza di merito, può segnalarsi la sentenza n. 190 del 9 ottobre 2009 con cui la Commissione tributaria di Reggio Emilia – anche qui con riferimento ad un’analoga fattispecie di conferimento di terreno agricolo gravato da mutuo ipotecario, seguito (questa volta) dalla cessione delle partecipazioni sociali sembrerebbe invece allinearsi al predetto orientamento della Suprema Corte di cassazione, riconoscendo, quindi, una funzione antielusiva alla disposizione di cui al citato art. 20, T.U. dell’imposta di registro. configurano gli effetti tipici della compravendita dell’immobile. Il socio «rimane titolare, attraverso il vincolo societario, della disponibilità del bene conferito, che costituisce il mezzo attraverso il quale esercita i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione in nome e per conto della società. Infatti, ex art. 2313 c.c., il patrimonio della società e quello personale del socio accomandatario garantiscono l’adempimento delle obbligazioni assunte dalla società. In altre parole, non è presente l’ultimo anello della catena, consistente nella cessione di quote da parte del conferente, per la realizzazione della fattispecie a formazione progressiva della compravendita». Le conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito sono assolutamente condivisibili, in quanto alla controversia in oggetto non sono applicabili i principi di diritto statuiti dalla Corte di Cassazione nella sentenza 14900/2001. 15 A tal riguardo, la sentenza della Commissione tributaria di II grado di Bolzano, qui commentata, affronta e risolve in modo condivisibile anche un’altra problematica di notevole interesse, quella relativa alla corretta determinazione della base imponibile in caso di registrazione di atti di conferimento con accollo di passività alla società conferitaria. Difatti, in forza del disposto di cui al citato art. 50, del T.U. dell’imposta di registro, al valore intrinseco del bene conferito vanno sottratte le passività e gli oneri accollati alle società. Tuttavia gli Uffici sempre più spesso tendono a contestare la “deduzione” dalla base imponibile delle passività accollate alla società conferitaria in assenza della prova della loro “inerenza”. Ebbene sul punto il Giudice d’appello nella sentenza in commento ha chiarito che “quanto all’argomento dell’assenza di prova che il finanziamento assunto dalla N. fosse destinato al potenziamento degli immobili conferiti, va osservato che l’art. 50 DPR 131/1986 consente la deduzione dal valore del bene delle passività inerenti alla sola condizione che questi vengano accollati alla società conferitaria, come in effetti è avvenuto”. 94 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO Difatti, pur non dichiarandolo esplicitamente, è evidente il riferimento a tale norma laddove si afferma che “è di questa Sezione (oltre che di migliore giurisprudenza di legittimità) la tesi secondo la quale laddove il testo unico dell'imposta di registro stabilisce che il prelievo tributario è applicato sulla base dell'intrinseca natura dell'atto, si ritiene che l'interprete - avuto riguardo ai canoni ermeneutici di cui all'art. 1362 e seguenti del codice civile - deve individuare l'esatta regolamentazione degli interessi perseguiti dai contraenti anche per il tramite di negozi collegati e pattuizioni non contestuali”. Tuttavia, in quest’ultima sentenza il Giudice di merito, dopo aver implicitamente riconosciuto al citato art. 20 una funzione antielusiva, trattandosi di una norma che consentirebbe di tassare non già in ragione degli effetti giuridici dell’atto sottoposto a registrazione, bensì in ragione dell’”effetto economico unico” perseguito dalle parti e ricostruito anche sulla base di vicende negoziali successive ed elementi extratestuali, sembrerebbe comunque voler superare tale problematica (se non addirittura prescinderne) e risolvere la controversia mediante l’applicazione del principio antielusivo del “divieto dell’abuso del diritto”, di recente elaborazione giurisprudenziale16. Difatti, nell’iter motivazionale della sentenza in commento si legge che “l'atto contestato è tipico esempio dell'abuso del diritto”, in quanto “il Collegio ritiene che l'operazione di cui all'atto contestato, oltre allo scopo di ottenere vantaggi fiscali, persegue diversi obiettivi, di natura commerciale, finanziaria, contabile e integra gli estremi del comportamento abusivo in quanto la finalità elusiva si pone come elemento predominante e assorbente della transazione, tenuto conto sia della volontà delle parti implicate che del contesto fattuale e giuridico in cui la transazione stessa viene posta in essere; tenuto altresì conto della tempistica delle diverse operazioni fra loro collegate”. Da ultimo, viene inoltre chiarito come la prova del carattere “abusivo” del comportamento tenuto dalle parti (id est della prevalenza dello scopo di ottenere vantaggi fiscali) incomba sull’Amministrazione finanziaria, onere probatorio questo che nella fattispecie ivi esaminata, secondo il Giudice di merito, sarebbe stato pienamente assolto. E’ quindi evidente come le due sentenze in commento siano perfettamente in grado di rappresentare e “sintetizzare” i diversi e contrapposti orientamenti attualmente esistenti in merito alla natura ed alla funzione dell’art. 20, T.U. dell’imposta di registro, quale potenziale strumento di contrasto di possibili fenomeni elusivi nell’ambito dell’imposta di registro. 16 Si veda, da ultimo, Cass., SS.UU., 23 dicembre 2008, n. 30055, in Dir. prat. trib., 2009, II, 213 ss., con mio commento, Sul generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario, cui si rinvia per gli ulteriori riferimenti giurisprudenziali e dottrinari sull’argomento. 95 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO Orbene, anticipando in parte le conclusioni, è anche evidente come delle due sentenze qui esaminate, sia senza dubbio da condividere quella pronunciata dalla Commissione tributaria di II grado di Bolzano (sebbene non conforme al più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità); difatti quest’ultima dimostra di accogliere e recepire nella soluzione ivi adotta tutti i principali profili di criticità sollevati in dottrina con riferimento all’orientamento giurisprudenziale prima citato, diretto, invece, a riconoscere natura di norma antielusiva alla disposizione di cui all’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986. 3 La (corretta) lettura interpretativa dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986 e le ragioni sistematiche alla base della stessa La Commissione tributaria di II grado di Bolzano nella sentenza poco sopra ricordata, con un conciso ma ben articolato iter motivazionale, ha respinto la tesi dell’Ufficio, ribadendo l’infondatezza della lettura interpretativa dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, da quest’ultimo sostenuta, secondo cui nell’interpretazione degli atti sottoposti a registrazione si dovrebbe dare rilevanza agli effetti economici prodotti e non già agli effetti giuridici. Ed in verità un approccio interpretativo di tal genere – come già ricordato – è stato in più occasioni criticato da una parte della giurisprudenza di merito (prima citata) e dalla più risalente giurisprudenza di legittimità17, nonché (e con più forza) in modo unanime dalla dottrina, per tutte le seguenti ragioni. L’art. 20, in effetti, per un verso costituisce la duplicazione dell’art. 19 della legge di registro precedente, per l’altro rappresenta una specificazione dell’art. 8 del r.d. n. 3269 del 1923, il quale, con analogo intento, richiedeva che l’interpretazione di un atto, ai fini della registrazione, tenesse conto dei suoi effetti18, senza distinguere quelli economici da quelli più marcatamente giuridici19. 17 Per i relativi riferimenti giurisprudenziali si rinvia alle prime note. L’art. 8 del R.D. n. 3269/1923 prevedeva: «Le tasse sono applicate secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti o dei trasferimenti, se anche non vi corrisponda il titolo o la forma apparente. Un atto che, per la sua natura e per i suoi effetti, secondo le norme stabilite nell’art. 4 risulti soggetto a tassa progressiva, proporzionale o graduale, ma non si trovi nominativamente indicato nella tariffa, è soggetto alla tassa stabilita dalla tariffa per l’atto col quale per la sua natura e per i suoi effetti ha maggiore analogia». Per l’autorevole studioso D. Jarach, l’art. 8, comma 2, riproduceva sostanzialmente il contenuto dell’art. 10 del Reichsabgabenordnung (RAO), nella versione del 1934, e dell’art. 6 del Steueranpassungsgesezt, che nell’ordinamento germanico dell’epoca contrastavano l’abuso delle forme negoziali poste in essere dai contribuenti per evitare o ridurre l’imposta. Cfr. D. Jarach, Principi per l’applicazione delle tasse di registro, Padova, 1937, 61. Sulla base di tale prospettazione auterovole dottrina giunge alla conclusione che l’art. 8 della legge di registro del 1923 può essere definito come fonte di una clausola antielusiva di portata generale nel sistema tributario italiano e non solo 18 96 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO La scelta dei legislatori successivi di specificare il carattere giuridico di tali effetti ha risolto il dibattito dottrinale sollevato in precedenza, adottando le indicazioni dei giuristi più autorevoli20, sebbene debba anche darsi conto del fatto che in passato non è mancato chi21, in dottrina, abbia sostenuto che “nel quadro del procedimento di ermeneutica volto ad individuare, attraverso la qualificazione giuridica delle situazioni negoziali oggetto di imposizione, gli effetti che da esse conseguono sul piano giuridico (e non su quello meramente economico), è ben possibile il riscontro del fenomeno dei negozi collegati e indiretti, che si realizza quando le parti adottano uno o più negozi tipici, allo scopo di conseguire, mediante una voluta deviazione della causa dei negozi stessi, un effetto giuridico che, pur non essendo connaturale agli schemi adottati, è tuttavia da questi ultimi consentito e prodotto”. Peraltro, secondo quest’ultima impostazione dottrinale, “questa possibilità di indagine non” sarebbe “preclusa in via assoluta dalla connotazione propria dell’imposta di registro, che è imposta d’atto, in quanto l’esatta qualificazione del negozio giuridico da tassare rende spesso indispensabile la detta indagine, precipuamente al fine di sventare frodi alle leggi finanziarie”22. Su queste premesse, condividendo l’impostazione dottrinale prevalente, e fermo restando che per effetti giuridici sono da intendersi quelli civilistici 23, non v’è dubbio che, sulla base della norma attuale, l’Amministrazione finanziaria può certamente prescindere dal nomen iuris attribuito all’atto dalle parti, ma, nell’esercizio di tale potere di accertamento 24, dovrà limitarsi alla per l’ordinamento dell’imposta di registro o dell’imposta sui trasferimenti di ricchezza. Cfr. G. Falsitta, L’influenza dell’opera di Albert Hensel sulla dottrina tributaristica italiana e le origini dell’interpretazione antielusiva della norma tributaria, in Riv. dir. trib., 2007, 602-604. 19 Per una ricostruzione dell’evoluzione storica della citata disposizione si veda G. Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra l’abuso del <<diritto>> e l’abuso del potere, op. cit., 1077 ss. 20 Cfr. A. Uckmar, La legge del registro, (ed. del 1958), vol. I, 191 ss.; A. Berliri, Le leggi di registro, Milano, 1961, 141 ss. In senso contrario, D. Jarach, Principi per l’applicazione delle tasse di registro, op. cit.; Id., La considerazione del contenuto economico nell’interpretazione delle leggi di imposta, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1937, 54 ss.; Id., Metodo e risultati nello studio delle imposte di registro, in retro, 1938, 93 ss. Per una ricostruzione del dibattito dottrinale cfr. ora G. Marongiu, op. ult. cit. loc.; G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova 2003, 244 ss. 21 Il riferimento è in specie a D. Jarach, I contratti a gradino e l’imposta, in Riv. Dir. fin. sc. fin., 1982, 86, in commento a Cass., sez. I, 9 maggio 1979, n. 2658. 22 In questi termini sempre D. Jarach, op. ult. cit., 86 – 87. 23 Sui rapporti tra diritto tributario e diritto civile cfr. E. De Mita, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, in Riv. dir. trib., 1995, 154. 24 Sulle indicazioni ministeriali più recenti in tema di poteri di accertamento per le imposte di registro, ipotecarie e catastali si veda Agenzia delle Entrate, circ. 6 febbraio 2007, n. 6 (in banca dati Fisconline). 97 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO riqualificazione giuridica dell’atto, senza poter attribuire rilievo alle vicende economiche eventualmente sottese al medesimo o a qualunque altro elemento che sia esterno rispetto all’atto registrato 25. In tal modo l’Ufficio dovrà, quindi, limitarsi ad individuare solo la natura giuridica del contratto, superando l’eventuale classificazione giuridica inesatta o falsa effettuata dai contribuenti allo scopo di conseguire un illegittimo risparmio fiscale (ad esempio, quella che le parti qualificano come conferimento di azienda, potrebbe essere “riqualificata” dall’Ufficio, ai sensi di tale norma, in base agli elementi risultanti dallo stesso atto, come conferimento di complesso immobiliare, superando così il nomen iuris erroneamente dato dalle parti beni immobili) Ne deriva, dunque, che la giurisprudenza che ha esaminato fattispecie asseritamente elusive di conferimento seguito da cessione delle partecipazioni sociali, si sia spinta oltre questo limite, attribuendo al citato art. 20 una portata diversa e più ampia rispetto alle intenzioni del legislatore, affidando a tale disposizione il ruolo (che non le è proprio) di norma generale antielusiva nel contesto delle disposizioni dell’imposta di registro 26. 25 L’ufficio provvederà ad individuare la natura giuridica del contratto, superando l’eventuale classificazione giuridica inesatta o falsa effettuata dai contribuenti allo scopo di conseguire un illegittimo risparmio fiscale, ma non potrà andare oltre. Cfr. G. Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra l’abuso del <<diritto>> e l’abuso del potere, op. cit., 1082 ss.; S. Fiorentino, Riflessione sui rapporti tra qualificazione delle attività private e accertamento tributario, in Rass. trib., 1999, 1066; D. Stevanato, Cessione frazionata dell’azienda e imposta di registro: simulazione o riqualificazione del contratto?, in Riv. giur. trib., 1999, 758 ss.; G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, op. cit., 263 ss. (ivi, alla nota 267, la distinzione tra accertamento della simulazione e riqualificazione), e 293 ss. In giurisprudenza cfr. Comm. trib. centr. 10 maggio 1989 n. 3208, in Società, 1989, 997; Cass. 28 luglio 2000 n. 9944, in Corr. trib., 2001, 125, ed in Riv. dir. fin., 2001, II, 16. Sui limiti alla riqualificazione v. V. Uckmar-R. Dominici, Registro (imposta di), in Digesto discipline privatistiche, sez. comm., XII, Torino 1999, 260 ss.; B. Santamaria, Registro (imposte di), in op. cit., 542 ss.; C. Ferrari, Registro (imposta di), in Enc. giur. Treccani, XXVI, Roma 1991, 9; Melis, op. cit., 293 ss. In giurisprudenza cfr., Comm. trib. centr. 26 settembre 1991 n. 6324, in Corr. trib., 1991, 3749; Comm. trib. II grado Bolzano 31 luglio 1998, in Il fisco, 1999, 11059; Comm. trib. centr. 9 aprile 1992 n. 2736, in Il fisco, 1999, 11059; Comm. trib. reg. Venezia 1 ottobre 1998 n. 181 (tutte in banca dati Fisconline). 26 Cfr. Cass. n. 14900 del 2001, prima citata, secondo cui «anche se non potrà prescindersi dall’interpretazione della volontà negoziale secondo i canoni generali (...) nella individuazione della materia imponibile dovrà darsi preminenza assoluta alla causa reale sull’assetto cartolare, con conseguente tangibilità, sul piano fiscale, delle forme negoziali. La funzione antielusiva (...) sottesa alla disposizione in esame, emerge dunque con chiarezza, mentre l’insistito richiamo alla autonomia contrattuale ed alla rilevanza degli effetti giuridici dei singoli negozi (e non anche di quelli “economici”, riferiti alla fattispecie globale), restando necessariamente circoscritto alla regolamentazione formale degli interessi delle parti, finirebbe per sovvertire gli 98 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO Tale affermazione non può tuttavia essere condivisa, sia per tutte le ragioni poco sopra indicate, sia perché, comunque, la dottrina tributaristica 27 ritiene pacificamente che non esista una norma con finalità antielusive all’interno del T.U. dell’imposta di registro; né l’art. 37-bis, d.p.r. n. 600 del 1973, può supplire a tal fine, rappresentando una disposizione relativa a fattispecie specifiche e valevole solo per le imposte sui redditi. A tale ultimo riguardo occorre anche sottolineare come l’applicabilità nell’ambito dell’imposta di registro di quest’ultima disposizione antielusiva (art. 37-bis, d.p.r. n. 600 del 1973) sia controversa alla luce del nuovo disposto di cui all’art. 53-bis, d.p.r. n. 131 del 1986, introdotto dall’art. 35, co. 24, lett. a), d.l. 4 luglio 2006, n. 223 (conv. con modificazioni nella l. 4 agosto 2006, n. 248), mediante il quale sono stati estesi anche alle imposte di registro, ipotecaria e catastale “le attribuzioni e i poteri di cui agli articoli 31 e seguenti”, d.p.r. n. 600 del 1973. Ebbene, questo rinvio “generico”, in linea di principio, potrebbe essere inteso come comprensivo anche del citato art. 37-bis; tuttavia, sul punto si ritiene di condividere l’opinione contraria manifestata in dottrina 28. enunciati criteri impositivi» e «in tema di imposta di registro, la prevalenza che l’art. 20 del d.p.R. n. 131/1986 attribuisce, ai fini dell’interpretazione degli atti registrati, alla natura intrinseca ed agli effetti giuridici degli stessi sul loro titolo e sulla loro forma apparente, vincola l’interprete a privilegiare il dato giuridico reale rispetto ai dati formalmente enunciati – anche frazionatamente – in uno o più atti, e perciò il risultato di un comportamento sostanzialmente unitario rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali. Ne consegue che una pluralità di negozi strutturalmente e funzionalmente collegati alfine di produrre un unico effetto giuridico finale, vanno considerati, ai fini dell’imposta di registro, come un fenomeno unitario, anche in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva». Per una decisa critica di tale approccio interpretativo si veda, per tutti, G. Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra l’abuso del <<diritto>> e l’abuso del potere, op. cit., 1077 ss. 27 Cfr., per tutti, G. Marongiu, op. ult. cit., 1084 ss.; G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, 299, il quale, in particolare, osserva come l’art. 20 T.U. sia una disposizione sull’interpretazione e qualificazione dei negozi, e non possa esserle quindi assegnata la stessa funzione dell’art. 37-bis del d.p.R. n. 600 del 1973. 28 Si veda per tutti M. Basilavecchia, I nuovi poteri di controllo dell’amministrazione finanziaria nelle imposte di registro, ipotecaria e catastale, Studio n. 68-2007/T del Consiglio nazionale del Notariato, consultabile sul sito www.notariato.it. In senso conforme si veda anche A. Tommasini, Elusione ed abuso del diritto nel sistema dell’imposta di registro, in Corr. trib., n. 14 del 2012, 1033; F. Gallo, Rilevanza penale dell’elusione, in Rass. trib., 2001, 321 ss., spec. 326 s., il quale è peraltro critico sul punto, affermando che «l’aver dimostrato che l’art. 37bis è una norma sostanziale che obbliga il contribuente a tenere un certo comportamento e la cui violazione rende applicabili le sanzioni amministrative e penali non significa che il giudizio sul sistema che ne consegue sia positivo»; L. Del Federico, Elusione e illecito tributario, in Corr. trib., 2006, 3110 ss., che parla di sanzionabilità della c.d. 99 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO Difatti, secondo autorevole dottrina29 l’inapplicabilità in materia di imposta di registro, ipotecaria e catastale dell’art. 37-bis, d.p.r. n. 600 del 1973, deriverebbe dalla prevalente qualificazione30 della stessa come “una norma sostanziale, che va applicata già dal contribuente, vietandogli l’utilizzo fiscale di atti e comportamenti elusivi (…). In tale logica, la collocazione sistematica della disposizione recede, nella gamma dei criteri interpretativi: sia pure collocata nel seno dei poteri degli uffici, la disposizione sarebbe in realtà integrativa del sistema sostanziale delle imposte sui redditi, del TUIR, stabilendo precisi obblighi (o meglio, divieti) a carico del contribuente.” Ebbene, prosegue la citata dottrina, “tale ricostruzione, discutibilissima ma nettamente prevalente, impedisce di coinvolgere la disposizione stessa nel processo di ampliamento dei poteri in sede di accertamento delle imposte indirette, perché essa non avrebbe – soltanto – la funzione di regolare un potere, o un’attribuzione, dell’ufficio; e per poter transitare nel sistema delle imposte indirette avrebbe avuto bisogno di una norma che la inserisse nel contesto delle regole sostanziali (…)”. A tal riguardo, in via incidentale, occorre ricordare che il riconoscimento – non da tutti condiviso in dottrina 31 - della natura di norma sostanziale all’art. “elusione codificata”, cioè quella a fronte della quale esiste una noma di contrasto (come l’art. 37-bis). 29 Il riferimento è a M. Basilavecchia, op. ult. cit., 6 – 7. 30 Secondo G. Falsitta (Natura delle disposizioni contenenti “norme per l’interpretazione di norme” e l’art. 37 bis sull’interpretazione analogica o antielusiva, in Riv. dir. trib., 2010, 521) “non è corretto (…) chiedersi se l’art. 37 bis abbia natura sostanziale o procedimentale e ciò per l’ovvio motivo che l’art. 37 bis è un enunciato <<complesso>>, formato da ben otto commi. E’ per dirla più alla buona, un contenitore assai capiente che ospita una molteplicità di regole che per forza di cose non hanno la stessa natura”. 31 I sostenitori della natura procedimentale dell’art. 37 bis sono elecanti da V. Liprino, L’abuso di diritto in materia fiscale nell’esperienza francese, in Rass. trib., 2009, 473 nota 76. Sulla non sanzionabilità delle condotte elusive si vedano S. La Rosa, Principi di diritto tributario, Torino, 2009, 21; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Parte generale, Torino, 2009, 258; M. Beghin, Diritto tributario, Princìpi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, Torino, 2011, 220 ss.; R. Cordeiro Guerra, Non applicabilità delle sanzioni amministrative per la violazione del divieto di abuso del diritto, in Corr. trib., 2009, 771 ss.; R. Lupi - D. Stevanato, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva, in Boll. Trib. d’inf., 2009, 407; R. Lupi, Abuso del diritto e frode alla legge, tra principi comuni e particolarità legislative nazionali, in Dial. trib., 2008, 120 s.; ID., Elusione, valide ragioni economiche, aggiramenti e sanzioni, ivi, 2007, 386 ss.; M. Basilavecchia, Elusione e abuso del diritto: una integrazione possibile, in Riv. giur. trib., 2008, 742, secondo il quale, richiamando le sentenze della Corte di Giustizia del 2006, la rilevazione dell’abuso del diritto giustifica il recupero delle imposte, ma non l’applicazione della sanzione. 100 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO 37-bis, d.p.r. n. 600 del 1973 incide certamente anche sulla sanzionabilità 32 delle condotte elusive. 32 In punto di sanzionabilità delle condotte elusive si segnala la recente presa di posizione della Corte di cassazione con la sentenza n. 25537 del 30 novembre 2011 (in banca dati Fisconline), secondo cui “E' nota la esistenza in dottrina di una tesi secondo la quale l'art. 37 bis collocato peraltro nel D.P.R. n. 600 del 1973, nel titolo dedicato ad "accertamenti e controlli" ha natura meramente procedimentale e che pertanto, assumendo che il precetto normativo riguardi solo la Amministrazione, la quale "disconosce" gli atti elusivi dichiarati alla stessa non opponibili dell'art. 1, comma 1, del citato art. 37 bis, porta alla conclusione che il contribuente non abbia alcun obbligo giuridico di non esporre nella dichiarazione dei redditi dati tratti da operazioni suscettibili di essere considerate elusive, in quanto ciò non comporta alcuna violazione specifica di norme tributarie, consistendo la elusione in un "aggiramento" e non in una infrazione espressa del precetto di legge. Da tale lettura normativa discende che la dichiarazione dei redditi del soggetto che pone in essere operazioni elusive non può considerarsi infedele, per cui l'unica conseguenza prevista dall'art. 37 bis sarebbe il disconoscimento del vantaggio fiscale cui consegue la tassazione "determinata in base alle disposizioni eluse" (art. 37 bis, comma 2 cit.) e non la applicazione di sanzioni, per le quali, vigendo il principio di stretta legalità tratto dalla normativa in materia penale (D.P.R. n. 472 del 1997) è necessaria una norma che espressamente la preveda. Tale ultima considerazione, certamente condivisibile, porta ad escludere che una sanzione amministrativa in materia tributaria possa essere applicata a fronte della violazione non di una precisa diposizione di legge ma di un principio generale, quale quello antielusivo ritenuto immanente al sistema anche anteriormente alla introduzione di una normativa specifica, come ritenuto da questa Corte (Cass. Sez. Un. n. 30055 del 2008) e dalla giurisprudenza comunitaria. A proposito della quale può rammentarsi che la sentenza "Halifax" citata dalla ricorrente dichiara espressamente che "la constatazione della esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre ad una sanzione per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco". Ad avviso della Corte, tale fondamento normativo "chiaro ed univoco" è attualmente esistente. L'art. 37 bis più volte citato prevede che la Amministrazione, in applicazione del disconoscimento del vantaggio fiscale ritenuto frutto di operazioni elusive, emetta avviso di accertamento, per cui prevede una speciale procedura ed un preciso obbligo motivazionale in relazione al criterio di calcolo delle maggiori imposte. Quanto alle conseguenze di tale atto, il d.lgs. n. 471 del 1997, art. 1, comma 2, recita: "se nella dichiarazione è indicato, ai fini delle singole imposte, un reddito imponibile inferiore a quello accertato, o, comunque, un'imposta inferiore a quella dovuta o un credito superiore a quello spettante, si applica la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento della maggior imposta o della differenza del credito. La stessa sanzione si applica se nella dichiarazione sono esposte indebite detrazioni d'imposta ovvero indebite deduzioni dall'imponibile, anche se esse sono state attribuite in sede di ritenuta alla fonte". Da tale disposizione si evince che la legge non considera per la applicazione delle sanzioni quale criterio scriminante la violazione della legge o la sua elusione o aggiramento, essendo necessario e sufficiente che le voci di reddito evidenziate nella dichiarazione siano inferiori a quelle accertate o siano "indebite" aggettivo espressamente menzionato nell'art. 37 bis, comma 1 cit. In sostanza le sanzioni si applicano per il solo fatto che la dichiarazione del contribuente sia difforme rispetto 101 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO Peraltro, anche l’Agenzia delle entrate nella circolare n. 28/E del 4 agosto 2006 ha lasciato intendere che il rinvio operato dal citato art. 53-bis, d.p.r. n. 131 del 1981 debba essere circoscritto ai soli poteri di indagine e di controllo disciplinati dal d.p.r. n. 600 del 1973. Ciò posto, giova, inoltre ricordare come all’interno del T. U. dell’imposta di registro si riscontrino alcune ipotesi nelle quali l’atto viene assoggettato a tassazione secondo “presunzioni”, senza tener conto della sua qualificazione ed efficacia giuridica, come nel caso, ad esempio, dei trasferimenti tra coniugi o parenti in linea retta, di procura irrevocabile a vendere senza obbligo di rendiconto, di contratto per persona da nominare, o di donazioni e liberalità inter vivos. In questi casi sussiste il diritto dell’Ufficio di disconoscere il comportamento delle parti diretto a conseguire, oltre ché gli effetti tipici dell’atto, anche effetti diversi ed indiretti. A tal riguardo, infatti, è stato condivisibilmente osservato da autorevole dottrina33 come quelle appena indicate rappresentino delle previsioni normative dirette a “prevenire ed arginare fenomeni elusivi e a queste e solo a queste occorre attenersi. Proprio perché l’imposta di registro colpisce l’atto avendo precipuo riguardo al suo contenuto giuridico, nel presupposto che vi sia una corrispondenza tra il tipo contrattuale e il substrato economico dell’operazione, il legislatore ha avvertito l’esigenza di intervenire con apposite disposizioni per reprimere fenomeni di elusione, caratterizzati da una divergenza tra lo schema negoziale adottato dalle parti contraenti e gli scopi pratici da esse perseguiti, diversi ed ulteriori rispetto a quelli connaturati al tipo negoziale”. Orbene, l’esistenza di disposizioni di tal genere non fanno altro che confermare, ulteriormente, come nell’ambito dell’imposta di registro non esista una generale norma antielusiva e come nell’applicazione dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, debba darsi rilevanza agli effetti giuridici (civilistici) degli atti e non già a quelli economici. all'accertamento. Tale conclusione è rafforzata dal testo del comma 6 della stessa disposizione, che prevede che le maggiori imposte accertate siano iscritte a ruolo "secondo i criteri di cui al d.lgs. n. 546 del 1992, art. 68, concernente il pagamento dei tributi e delle sanzioni pecuniarie in corso di giudizio" rendendo così evidente che il legislatore ritiene la applicazione di sanzioni come effetto naturale dell'esito dell'accertamento in materia di atti elusivi. Presupposto di detta applicazione è il dato non contestato della diretta applicabilità alla fattispecie dell'art. 37 bis in relazione all'oggetto dell'accertamento (fusioni societarie, cessioni di quote, minusvalenze e plusvalenze)”. In precedenza si era espressa nel senso dell’inapplicabilità delle sanzioni alle condotte elusive, (seppur) in ragione della sussistenza della causa di non punibilità costituita dalle “obiettive condizioni di incertezza” ex art. 6, co. 2, d.lgs. n. 472 del 1997, Cass. 25 maggio 2009, n. 12042 (in banca dati Fisconline). 33 In questi termini cfr. G. Marongiu, op. ult. cit., 1084 ss. 102 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO Pertanto, l’assenza di una norma generale antielusiva non può che comportare che il risparmio d’imposta di registro derivante dal ricorso a negozi diversi da quelli direttamente produttivi degli effetti voluti dalle parti non sia passibile di censure. Peraltro, anche il precedente indirizzo della giurisprudenza 34 e della prassi35 aveva mostrato di avere contezza di questi risvolti escludendo che la cessione della partecipazione totalitaria in una società equivalga alla cessione dell’azienda sociale o degli immobili sociali. 3.1 Sulla natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro e sulla conseguente irrilevanza di elementi extratestuali nella sua applicazione Ma non è solo la mancanza di una norma generale antielusiva valevole ai fini dell’imposta di registro a limitare i poteri di riqualificazione propri dell’Ufficio, consentendoli solo nelle fattispecie prima richiamate. Vi osta anche qualcosa di più profondo e di più radicato nella tradizione normativa dell’imposta di registro: il suo essere un’”imposta d’atto”. Tale carattere comporta che l’imposta colpisca l’atto sottoposto a registrazione e non già il trasferimento, e impedisce al Fisco di interpretare l’atto soggetto a registrazione valorizzandone gli elementi extratestuali; questi ultimi non possono avere rilevanza perché la tassazione si cristallizza al momento del perfezionamento dell’atto, a nulla rilevando le vicende successive, come la revoca, la novazione, la nullità o l’annullabilità (art. 38, d.p.r. n. 131 del 1986), ovvero il comportamento complessivo delle parti36. 34 Cfr. Comm. trib. centr. 26 marzo 1981 n. 3636, in Comm. trib. centr., 1981, I, 441; Id., 19 maggio 1981 n. 3638, in Giur. imp., 1982, 531; Comm. trib. centr. 25 ottobre 1983 n. 3290, in Foro it., Rep. 1984, voce Ricchezza mobile (imposta), n. 30; Comm. trib. centr. 3 agosto 1984 n. 7826, in Comm. trib. centr., 1984, I, 481; Comm. trib. centr. 7 luglio 1998 n. 3750, in Foro it., Rep. 1998, voce Registro (imposta), n. 166. Contra, Comm. trib. centr. 15 febbraio 1982, in Comm. trib. centr., 1982, I, 189. 35 Cfr. Min. Fin., risol. 28 marzo 1983 n. 251368; ID.. risol. 5 giugno 1989 n. 310356. 36 Sul carattere d’«imposta d’atto» dell’imposta di registro si veda A. Uckmar, La legge del registro, Padova, 1928, I, 197 ss.; A. Berliri, Le leggi di registro, Milano, 1961, 137 ss.; R. Pignatone, L’imposta di registro, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, IV, Padova 1994, 166 ss.; V. Donnamaria, L’imposta di registro nel testo unico, Milano 1987, 50; V.Uckmar - R. Dominici, Registro (imposta di), in Nov. Dig. It., XV, Torino, 1986, 553; B. Santamaria, Registro (imposte di), in “Enc.Dir.”, Milano, 1988, 545; A. Uricchio, Commento all’art. 20 T.U., in D'Amati, La nuova disciplina dell'imposta di registro, Torino 1989, p. 180; S. Lanzillotti – F. Magurno, Il notaio e le imposte indirette, Roma 1998, 117; G. Zizzo, In tema di qualificazione dei contratti ai fini delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, in Riv. dir. trib., 1992, II, 171 ss.; S. Donatelli, La rilevanza degli elementi extratestuali ai fini dell’interpretazione dei contratti nell’imposta di registro, in Rass. trib., 2002, 1341 ss. Il principio è ribadito nella più autorevole manualistica: v., per tutti, G. 103 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO Il quadro sinora delineato, seppur accompagnato da indirizzi contrari 37 – ma minoritari –, non consente di considerare censurabili, ai fini dell’imposta di registro, quelle scelte negoziali dei privati che vedano il conferimento come segmento di una più ampia operazione complessiva risultante dal collegamento di più atti distinti. Anzi, volendosi concentrare sull’ipotesi relativa al conferimento di azienda seguito dalla cessione di quote sociali, giova ricordare che ai sensi dell’art. 176, co. 3, Tuir, il legislatore attribuisce un carattere fisiologico al conferimento neutrale seguito da una cessione delle partecipazioni che consenta di sfruttare il regime della participation exemption; cosicché il nostro sistema, più che favorire il collegamento 38, tende alla segmentazione negoziale. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Milano, 2005, 613 ss. Più di recente cfr. si veda G. Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra l’abuso del <<diritto>> e l’abuso del potere, op. cit., 1082 ss. In giurisprudenza cfr. Cass. S.U., 15 luglio 1972 n. 2349, in Riv. legisl. fisc., 1975, 1079; Comm. trib. centr. 2 dicembre 1976, n. 1041, in Comm. trib. centr., 1976, I, 666; Cass. 17 maggio 1976 n. 1737, in Comm. trib. centr., 1976, II, 318, ed in Riv. legisl. fisc., 1976, 1457; Id., 9 maggio 1979 n. 2658, con nota di D. Jarach, I contratti a gradini e l’imposta, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1982, 79 ss., ; Id., 16 ottobre 1980 n. 5563, in Boll. trib., 1981, 888, ed in Riv. legisl. fisc., 1981, 762; Comm. trib. centr. 4 marzo 1981 n. 2549, in Comm. trib. centr., 1981, I, 294; Id., 29 marzo 1983 n. 2239, in Comm. trib. centr., 1983, II, 892; Cass. 26 giugno 1984, n. 3715, in Riv. legisl. fisc., 1985, 722; Id., 9 gennaio 1987 n. 75, in Riv. legisl. fisc., 1987, 624; Id., 2 dicembre 1993 n. 11959, in Giust. civ., 1994, I, 337, ed in Riv. giur. trib., 1994, 117; Id., 9 maggio 1997 n. 4064, in Giur. it., 1998, c. 1068; Id., 8 maggio 1997 n. 4057, in Giur. it., 1997, I, 1, c. 1161; Comm. trib. II grado Bolzano 31 luglio 1998, in Il fisco, 1999, 11059; Comm. trib. centr. 8 ottobre 1998 n. 4787, in Comm. trib., 1998, I, 832. (37) Sul potere dell’Ufficio di ricostruire l’intenzione complessiva delle parti anche mediante l’utilizzo di dati extratestuali, Cass. 12 aprile 1978 n. 1719, in Foro it., Rep. 1978, voce Registro (imposta), n. 71; Cass. 9 maggio 1979 n. 2658, in Foro it., Rep. 1980, voce Registro (imposta), n. 67, ed in Riv. dir. fin., 1982, II, 79; Comm. trib. centr. 16 giugno 1983 n. 2065, in Comm. trib. centr., 1983, I, 715; Cass. 14 maggio 1984 n. 4097, in Rass. trib., 1984, II, 652; Cass. 9 maggio 1997 n. 4064, in Foro it., Rep. 1997, voce Registro (imposta), n. 81; Comm. trib. centr. 14 febbraio 1998 n. 733, in Foro it., Rep. 1998, voce Registro (imposta), n. 63. In dottrina, ma con riferimento a casi del tutto eccezionali, v. G. MELIS, op. cit., 296. (38) Sul tema cfr. G. Stancati, Conferimento di ramo aziendale e successiva vendita delle partecipazioni: pretestuosità della riqualificazione negoziale, in Dialoghi dir. trib., 2007, 445, seguito dai contributi di A. Perri, Spunti sulla corretta qualificazione degli atti ai fini dell’imposizione indiretta sui trasferimenti, e di S. Chirichigno, Gli effetti giuridici come criterio interpretativo indispensabile per la corretta qualificazione. Ai fini della distinzione, nell’ambito dell’imposta di registro, tra negozio complesso (con causa unica), assoggettato ad unica tassazione, e negozi collegati, soggetti invece ad imposizione plurima, cfr. Cass. 6 settembre 1996 n. 8142, in Riv. giur. trib., 1997, 661, con nota di A. Giovanardi, La dottrina civilistica nell’interpretazione della norma tributaria: negozio complesso, negozi collegati e imposta di registro; Cass. 13 novembre 1996 n. 9938, in Foro it., 1997, I, c. 1206; 104 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO Giova a tal proposito sottolineare che ai sensi dell’art. 21 del T. U., la circostanza che un atto contenga più disposizioni richiede, come norma generale, che la tassazione avvenga su ciascuna di esse in modo autonomo, come si trattasse di atti distinti, a meno che le disposizioni siano tra loro legate da un nesso di reciproca interdipendenza tale da renderle derivanti le une dalle altre. Difatti, così come chiarito dalla stessa Agenzia delle entrate nella circolare n. 10 del 12 marzo 2010, ai fini dell’applicazione della norma in esame occorre far riferimento alla distinzione civilistica tra negozio complesso e negozi collegati, (distinzione) che deve essere effettuata con riferimento alla causa, ossia alla funzione economico-sociale che identifica e qualifica il negozio giuridico. Pertanto, quando in un unico documento sottoposto a registrazione sono contenute più disposizioni, “occorre distinguere a seconda che esse diano vita ad un mero collegamento negoziale, in quanto rette da cause distinte, seppur fra loro funzionalmente connesse, oppure se le diverse disposizioni, derivando le une dalle altre, integrino un atto complesso, riconducibile ad un’unica causa nella quale si fondono i ricorrenti elementi di più negozi tipici o atipici”. Ne consegue che - prosegue sempre l’Agenzia delle entrate nella citata circolare – l’atto complesso va assoggettato ad un’unica imposta come se l’atto contenesse la sola disposizione che dà luogo all’imposizione più onerosa, trattandosi di disposizioni tra loro interdipendenti e dunque configuranti un negozio complesso; diversamente, “le disposizioni che danno vita ad un collegamento negoziale, in quanto rette da cause distinte, sono soggette ciascuna ad autonoma tassazione, in quanto la pluralità delle cause dei singoli negozi, ancorché funzionalmente collegate dalla causa complessiva dell’operazione, essendo autonomamente identificabili, porta ad escludere che le disposizioni rette da cause diverse possano ritenersi derivanti, per loro intrinseca natura, le une dalle altre”. Ebbene, questa corretta posizione interpretativa dell’Amministrazione finanziaria con riferimento al collegamento negoziale esistente tra più disposizioni contenute nel medesimo documento, mette ancor di più in evidenza l’erroneità giuridica e comunque la contraddittorietà della posizione interpretativa dalla stessa assunta con riferimento all’applicazione del citato art. 20. In altri termini, si arriverebbe all’assurdo, e cioè che se il collegamento riguarda più disposizioni negoziali contenute nello stesso documento sottoposto a registrazione, in tal caso il collegamento negoziale è destinato a non rilevare ai fini dell’imposta di registro, nel senso che dovranno essere separatamente assoggettate a tassazione le singole disposizioni negoziali Cass. 12 maggio 2000 n. 6082, in Il fisco, 2000, 11643; G. Arnao, Manuale dell’imposta di registro, Milano, 2005, 120; R. Miceli, Note in materia di atti plurimi e di retrocessione nell’imposta di registro, in Riv. dir. trib., 2001, II, 609; G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, op. cit., 297. 105 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO “ancorché funzionalmente collegate dalla causa complessiva dell’operazione”; di contro, il collegamento negoziale finirebbe per assumere rilevanza ai fini dell’applicazione di un’unica imposta di registro nel caso in cui le disposizioni negoziali collegate siano contenute in atti separati, sottoposti autonomanete a registrazione. Da ultimo, occorre segnalare che ai fini di una riqualificazione della suddetta operazione non può nemmeno soccorrere l’art. 22 del T.U. dell’imposta di registro che, attribuendo rilevanza ad atti precedenti nei limiti dell’enunciazione, trova la sua ratio nella necessità di assicurare un’effettiva tassazione di atti «precedenti» o «presupposti» che assumono per l’appunto rilevanza solo ove non previamente registrati. E’ di tutta evidenza come il richiamo di queste norme 39 dimostri, in termini sistematici, come laddove il legislatore dell’imposta di registro ha inteso attribuire rilievo a vicende esterne al contratto vi ha provveduto espressamente, con disposizioni a carattere eccezionale 40. Ad ulteriore conferma di ciò occorre anche tener presenti le indubbie difficoltà interpretative poste dalla differente soluzione interpretativa (qui criticata) che tende invece a dare rilevanza anche agli elementi extratestuali, in specie sotto il profilo della esatta individuazione del termine decadenziale entro cui l’Ufficio potrebbe recuperare la maggiore imposta dovuta nonché e soprattutto sotto il profilo della corretta individuazione del dies a quo da cui far decorrere tale termine. Difatti, il primo dato che emerge esaminando la disciplina positiva, è la totale assenza di una regolamentazione di tale (senza dubbio) rilevante questione, e già questo dovrebbe rappresentare un chiaro indice della volontà legislativa di escludere la rilevanza di elementi extratestuali in sede di applicazione del citato art. 20. Nonostante ciò gli Uffici “provano” ad individuare un termine decadenziale in via interpretativa, ora forzando l’applicazione della previsione di cui all’art. 76, co. 1, d.p.r. n. 131 del 1986, ai sensi del quale per gli atti non presentati per la registrazione l’imposta deve essere richiesta, a pena di decadenza, nel termine di cinque anni dal giorno in cui avrebbe dovuto essere richiesta la registrazione, ora forzando l’applicazione della previsione di cui al co. 2 del medesimo articolo, in forza del quale l’imposta deve essere richiesta, a pena di decadenza, entro il termine di tre anni che verrebbero fatti decorrere dalla data di registrazione dell’ultimo atto che – secondo l’Ufficio – completerebbe la fattispecie negoziale “a formazione progressiva”. (39) Lo stesso dicasi per quanto previsto dall’art. 24, comma 2, T.U., diretto a prevedere una norma presuntiva in tema di trasferimento delle pertinenze. 40 In tal senso cfr. G. Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra l’abuso del <<diritto>> e l’abuso del potere, op. cit., 1086 ss. 106 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO Si tratta, con tutta evidenza, di soluzioni interpretative “forzate”, perché relative a forme di rettifica e liquidazione chiaramente fuori dal sistema di imposizione, così come concepito dal legislatore tributario. Peraltro, la natura di “imposta d’atto”, seppur con specifico riferimento alla liquidazione dell’imposta principale (così come definita dall’art. 42, co. 1, d.p.r. n. 131 del 1986), è confermata anche dalla disciplina normativa delle procedure di controllo sulle autoliquidazioni, finalizzate al recupero di tale imposta nei confronti del notaio (quale responsabile d’imposta) che ha rogitato l’atto sottoposto a registrazione telematica. Difatti, in forza del disposto di cui all’art. 3-ter, d.lgs. n. 463 del 1997, “gli uffici controllano la regolarità dell’autoliquidazione e del versamento delle imposte e qualora, sulla base degli elementi desumibili dall’atto, risulti dovuta una maggiore imposta, notificano, anche per via telematica, apposito avviso di liquidazione (…)”. Sebbene si tratti solo della procedura di controllo dell’autoliquidazione dell’imposta principale, ciò che merita di essere evidenziato è rappresentato dal fatto che gli elementi in base ai quali l’Ufficio deve basare il controllo – per espressa previsione legislativa - debbano essere costituiti, in via esclusiva, dagli “elementi desumibili dall’atto”41. 4 Sull’(in)applicabilità del principio del cd. “divieto di abuso del diritto” quale strumento di contrasto dell’elusione anche nell’ambito dell’imposta di registro Dimostrata quindi l’”infondatezza giuridica” di un approccio interpretativo volto a qualificare la disposizione di cui all’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, quale norma antielusiva generale, a questo punto non resta che esaminare brevemente i profili di criticità dell’ulteriore tendenza interpretativa – di cui, ad esempio, sembrerebbe aver fatto applicazione la Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia nella sentenza poco sopra ricordata – che vorrebbe finanche superare la problematica relativa alla natura ed alla funzione del citato art. 20, risolvendo la “questione” del contrasto all’elusione nell’imposta di registro mediante la diretta applicazione del principio antielusivo del “divieto dell’abuso del diritto”, di derivazione costituzionale, recentemente elaborato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione42. Difatti, queste ultime, con specifico riferimento alle imposte sui redditi, hanno riconosciuto l’esistenza di un “generale principio antielusivo” la cui fonte, per i tributi non armonizzati a livello a comunitario, “va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano”, id est nei 41 In tal senso cfr. Agenzia del Territorio, circ. n. 3/T-C/31894 del 2 maggio 2002 (in banca dati Fisconline). 42 Il riferimento è alla sentenza Cass., SS.UU., 23 dicembre 2008, n. 30055, prima citata. 107 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione di cui all’art. 53 Cost. In ragione di ciò, pertanto, non sarebbero opponibili all’Amministrazione finanziaria gli effetti fiscali derivanti dall’utilizzo di strumenti negoziali idonei ad ottenere un risparmio d’imposta - sebbene tale utilizzo non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione di legge - tutte le volte in cui ricorrano entrambe le condizioni: i) alla base di tale utilizzo manchino apprezzabili (id est valide) ragioni economiche diverse dalla “mera aspettativa di quel risparmio fiscale” ; ii) il vantaggio fiscale ottenuto risulti essere “abusivo” ossia in contrasto con la ratio o l’obiettivo perseguito dalle disposizioni fiscali che lo prevedono, non risultando pertanto conforme alla corretta attuazione del principio di capacità contributiva 43. Ebbene, questo principio antielusivo, che – come detto - le Sezioni Unite della Corte di cassazione, per le imposte sui redditi, hanno fatto discendere direttamente dall’art. 53 Cost., in alcuni casi inizia ad essere invocato – come nella sentenza della Commissione tributaria di Reggio Emilia - per censurare, ai fini dell’imposta di registro, le operazioni economiche, prima descritte, di conferimento di un bene (immobili o aziende) in società e la successiva alienazione della partecipazione attribuita al conferente, qualificandola, alla luce di tale principio, una “pratica abusiva”, contraria ai principi dell’ordinamento tributario. Ma è evidente la criticità di una soluzione di tal genere. Difatti, l’esistenza del principio antielusivo de quo, frutto esclusivamente dell’elaborazione giurisprudenziale e privo di qualsiasi appiglio normativo, è già stata diffusamente ed autorevolmente confutata in dottrina44 con specifico riferimento alle imposte sui redditi; ed è fuor di dubbio come gli stessi argomenti possono ora essere ugualmente utilizzati per confutare il tentativo della giurisprudenza di merito di estendere il predetto principio antiabuso anche al settore dell’imposta di registro. In particolare, tra i diversi profili di criticità, quello certamente più rilevante che in questa sede merita di essere ancora una volta rimarcato è rappresentato dall’evidente violazione del principio costituzionale di riserva di legge che, ex art. 23 Cost., copre la disciplina dei tributi. 43 In merito alle condizioni necessarie affinché possa correttamente configurarsi un abuso del diritto, anche in base all’elaborazione della Corte di Giustizia, si veda, tra gli altri, I. Vacca, Abuso del diritto ed elusione fiscale, in Riv. dir. trib., 2008, I, 1084 - 1085; L. Carpentieri, L’ordinamento tributario tra abuso e incertezza del diritto, op. cit., 1056 – 1057; M. Beghin, L’elusione fiscale tra presupposti applicativi, esimenti, abuso del diritto ed “esercizi di stile” (nota a Comm. trib. reg. di Milano, sez. XIII, n.85/2008), in Riv. dir. trib., 2008, II, 343. 44 Per una ricostruzione dei diversi profili di criticità del principio antielusivo elaborato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione sia consentito il rinvio al mio, Sul generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario, op. cit., 213 ss., cui si rinvia per gli ulteriori riferimenti giurisprudenziali e dottrinari sull’argomento. 108 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO Più precisamente, in forza di tale principio costituzionale, “l’Amministrazione finanziaria deve individuare una norma che la legittimi a ritenere <<elusivo>> il risparmio fiscale di cui beneficiano le parti, con riguardo alle imposte indirette sugli affari, per effetto della cessione <<indiretta>> di immobili o di aziende sotto forma di partecipazioni sociali, previo conferimento dei medesimi nella società le cui quote sono alienate”45. In altri termini, è necessario che lo strumento di contrasto dei fenomeni elusivi sia previsto in una esplicita fonte legislativa, la quale sola è in grado di evitare il pericolo che la lotta all’abuso del diritto si tramuti in un “abuso del potere”46. In tal senso, infatti, è stato condivisibilmente affermato da autorevole dottrina47 che “i tributi nuovi, nuove discipline di tributi esistenti, interpretazioni che incidono e modificano radicalmente insegnamenti interpretativi consolidati debbono trovare la loro fonte di legittimità nella volontà del Parlamento, nella legge”. Pertanto, “venendo alle ipotesi che stiamo studiando, cioè all’asserita esigenza di una clausola <<anti abuso>> e <<antielusiva>>, nessuno, neppure ai fini di un supposto fine buono, può esercitare un ruolo di supplenza del legislatore, neppure la Corte di cassazione”. Ma se è vero ciò, ne consegue che, mentre i per i tributi armonizzati a livello comunitario nella lotta al fenomeno dell’elusione possono trovare applicazione i “principi antiabuso” elaborati dalla giurisprudenza comunitaria, esistendo la copertura dell’art. 11 Cost., diversamente, per tutti i tributi non armonizzati l’art. 23 Cost. impone l’individuazione di una fonte legislativa dei relativi strumenti di contrasto all’elusione. Orbene, se per le imposte sui redditi è applicabile la norma antielusiva di cui all’art. 37-bis, d.p.r. n. 600 del 1973, lo stesso non può dirsi per l’imposta di registro, in quanto è stato poco sopra dimostrato come non esista nella relativa disciplina una norma antielusiva generale e come tale funzione non possa certamente essere riconosciuta alla disposizione di cui all’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986. Da ultimo, è sempre opportuno tenere a mente che in ogni caso, anche qualora – per assurdo – si finisca comunque per ritenere applicabile (anche) all’imposta di registro il principio “anti-abuso”, resterebbe fermo quanto affermato da autorevole dottrina con riferimento all’operatività del predetto principio in tale ambito impositivo, cioè che “per poter configurare l’abuso del diritto è essenziale il vantaggio fiscale; codesto vantaggio richiede il confronto tra dati omogenei; l’omogeneità impone (…) che non ci si limiti a tassare operazioni che presentino una somiglianza economica rispetto ad 45 In questi termini cfr. G. Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra l’abuso del <<diritto>> e l’abuso del potere, op. cit., 1068. 46 Cfr. sempre G. Marongiu, op. ult. cit., 1075. 47 Cfr. sempre G. Marongiu, op. ult. cit., 1076. 109 L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI E L’ELUSIONE FISCALE NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA DI REGISTRO altre, bensì operazioni che conducono, magari in modo più immediato, ad analogo risultato economico-giuridico, ottenuto dal contribuente mediante la scansione negoziale concretamente attuata”48. 5 Conclusioni Le brevi considerazioni sino ad ora svolte, sottolineando lo stato di grande “incertezza” e “confusione” che affligge gli operatori del diritto, segnano ancor di più l’opportunità di intervento normativo chiarificatore sia in punto di interpretazione ed applicazione della regola “di interpretazione” di cui al citato art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, sia, e per l’effetto, in punto di contrasto di possibili fenomeni elusivi (anche) nello specifico ambito dell’imposta di registro. In tal senso, l’occasione giusta potrebbe essere rappresentata dall’attuazione del principio di delega contenuto nel disegno di legge delega del 16 aprile 2012 (art. 6), mediante il quale dovrebbe affidarsi al Governo il compito di rivedere le vigenti disposizioni antielusive al fine di introdurre “il principio generale di divieto di abuso del diritto, esteso ai tributi non armonizzati” in applicazione di una serie di principi e criteri direttivi ivi meglio esplicitati. Laddove ciò dovesse accadere, l’introduzione di una disciplina normativa generale di contrasto ai fenomeni elusivi, valevole anche con riferimento al settore dell’imposta di registro, dovrebbe avere come effetto anche quello di comportare il definitivo superamento delle problematiche interpretative che – come visto – caratterizzano l’applicazione del disposto di cui al citato art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, riconducendo tale norma nella sua naturale e fisiologica collocazione sistematica, quella di strumento in grado di consentire all’Amministrazione finanziaria di ricostruire gli effetti giuridici prodotti dall’atto sottoposto a registrazione, così come desumibili (soltanto) dal suo contenuto, dunque a prescindere dal nomen iuris utilizzato dalle parti. In ogni caso, anche a prescindere dalla codificazione di una regola generale anti-abuso e dalla “questione” della rilevanza di elementi extratestuali in sede ai applicazione dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1981, deve ritenersi quanto meno necessario un intervento normativo chiarificatore in punto di esatta individuazione del criterio temporale (in specie con riferimento al dies a quo) per la contestazione di fenomeni elusivi in materia di imposta di registro. Difatti, un chiarimento normativo di tal genere sarebbe senza dubbio in grado di ridurre lo stato di “incertezza” e “confusione” che caratterizza il sistema dell’imposizione indiretta. 48 In questi termini M. Beghin. L’abuso del diritto nella indefettibile prospettiva del <<vantaggio fiscale>>, op. cit., 2330. 110 Avv. Caterina Corrado Oliva Dottore di ricerca in diritto processuale tributario presso l’Università di Pisa L’abuso del diritto tra onere di allegazione e onere della prova SOMMARIO: 1 Premessa - 2 I requisiti dell'abuso del diritto e i (pochi) fatti da provare - 3 Allegazione e non contestazione - 4 L’abuso del riferimento all’onere della prova 1 Premessa Ricorrente nella giurisprudenza della Suprema Corte sull’abuso del diritto è il riferimento al problema della spettanza dell’onere della prova. Questo stupisce perché in realtà in materia di abuso del diritto l’onere della prova, rigorosamente inteso quale regola decisoria finale del fatto incerto 1, 1 Pare opportuno chiarire fin d’ora che, nel presente lavoro, allorché si parlerà di onere della prova, si farà riferimento esclusivamente a ciò che la dottrina definisce con la locuzione “onere della prova in senso oggettivo”, e cioè al principio, o meglio, alla regola che consente di risolvere una controversia, anziché pronunciare un non liquet, in caso di prova mancante o non sufficiente di un elemento decisivo, facendone ricadere le conseguenze sulla parte che ne era appunto onerata. La dottrina tedesca (Betzinger, Die Beweislast im Zivilprozess, Berlin, 1910, 63 e Zitelmann, Internationales Privatrecht, Leipzig) nei primi decenni del XX secolo, ha introdotto la distinzione tra onere della prova in senso soggettivo e onere della prova in senso oggettivo. La distinzione in questione, che trova un corrispondente anche nel diritto anglosassone J. B. Thayer, The burden of proof, 4 Harv. L. R., 1890, 45 e ss.; Mcnughton, Burden of production evidence: a function of the burden of persuasion, Harv. L. R., 1955, 1382 e ss. e la distinzione tra burden of producing evidence e burding of persuasion, facendo riferimento rispettivamente all’onere della parte chiamata a fornire la prova di un certo fatto (e quindi, a ciò che verrà definito come onere della prova in senso soggettivo) e all’onere che ha la parte di persuadere l’organo giudicante. Essa ha avuto, invece, un minor séguito nella letteratura italiana (cfr. S. Patti, Prove. Disposizioni generali, commento all’art. 2697 c.c., in Commentario del Codice Civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna, 1987, 12 ss., il quale attribuisce all’influenza esercitata dall’opera di G. A. Micheli la colpa della distrazione della dottrina italiana in proposito. G. A. Micheli, invero, ha del tutto svalutato l’aspetto soggettivo dell’onere della prova. Secondo tale impostazione, l’espressione “onere della prova in senso soggettivo” indica quale parte deve provare un certo fatto, su chi incombe il “carico”, la “charge de la preuve”: “esso incombe sulla parte che intende avvalersi di un fatto a lei L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA favorevole, poiché la prova costituisce il presupposto necessario affinché esso venga preso in considerazione ai fini dell’applicazione di una norma” (S. Patti, Prove. Disposizioni generali, op. cit., 12). Nello stesso senso, si veda S. Patti, Le prove, Giuffrè, 2010, 57. La definizione di onere della prova in senso soggettivo esprime, pertanto, il concetto che la parte interessata alla prova deve assumerne l’iniziativa onde sperare di ottenere una decisione a sé favorevole. L’onere della prova in senso oggettivo indica, invece, la parte nei cui confronti si produce l’effetto negativo nel caso di mancato raggiungimento della prova di una situazione di fatto rilevante ai fini del giudizio. Esso esprime, quindi, il rischio del mancato raggiungimento della prova riguardante un certo tipo di fatto, rischio che dipende, ovviamente, dal convincimento del giudice. Se, infatti, il giudice ha raggiunto il convincimento nonostante che la parte gravata (soggettivamente) dell’onere non abbia fornito le prove, poco importa, la regola di giudizio non opera a suo sfavore; se, invece, nonostante che la parte onerata abbia fornito diverse prove, il giudice le abbia ritenute insufficienti a formare il proprio convincimento, “scatta” la regola dell’onere della prova in senso oggettivo e la parte ne subisce le conseguenze negative. Con riferimento all’onere della prova in senso oggettivo è diffusa ormai l’espressione “regola di giudizio”, poiché la sua funzione è quella di permettere al giudice di porre fine ad un dibattito rivelatosi infruttuoso, lasciando immutata la situazione preesistente, mentre il suo rilievo pratico, per quanto concerne il futuro, è quello di precludere definitivamente il riesame della controversia in virtù degli effetti del giudicato. Tale regola di giudizio, pertanto, una volta esaurita l’istruzione probatoria in maniera infruttuosa o insufficiente, si rivolge al giudice, per permettergli di decidere comunque, e anche alle parti, facendole sottostare alla decisione svantaggiosa per la parte che era onerata della prova non fornita (rileva questa duplice direzione, al giudice e alle parti, dell’onere della prova in senso oggettivo: S. Pugliatti, voce Conoscenza, in Enc. dir., vol. IX, Milano, 1961, 45 ss., 102. In senso parzialmente difforme, V. Andrioli, voce Prova (dir. proc. civ.), in Noviss. dig. it., vol. XIV, Torino, 1967, 260 ss., in particolare 292, il quale distingue onere della prova in senso soggettivo e oggettivo sulla base dei loro diversi destinatari, essendo il primo rivolto alle parti, ed il secondo al giudice). Secondo tale ricostruzione dottrinale, accanto al rischio che ogni parte sente a causa della propria carente, o addirittura mancante, attività probatoria, vi sarebbe un rischio obiettivo della incertezza, che si presenta anche indipendentemente da qualsiasi attività di parte. In tal modo, accanto ad un onere della prova soggettivo, se ne è costruito uno oggettivo, battezzato poi variamente, che ha, a poco a poco, acquisito rilievo determinante, anche perché ci si è resi conto che tutta l’attività probatoria esplicata dalle parti è finalizzata proprio ad esso, cioè al risultato favorevole per una di esse nella fase decisoria finale. Il merito della riconosciuta prevalenza del concetto di onere della prova in senso obiettivo nella dottrina italiana è dovuto soprattutto a G. A. Micheli, L’onere della prova, Padova, 1942, cap. III e a F. Carnelutti, La prova civile, Edizione dell’Ateneo, Roma, 1947, 210; gli A. ricordati si soffermano ad analizzare la preponderanza del criterio oggettivo, giacché rileva che tutto l’aspetto subiettivo del fenomeno si riduce allo studio del potere probatorio riconosciuto alle parti nel processo, costituisce un frammento della stessa teorica della azione, mentre, per comprendere l’aspetto essenziale e caratteristico di esso è necessario insistere sull’aspetto oggettivo dell’onere della prova, quello di regola di giudizio. 112 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA pare abbia invece un ambito di applicazione davvero ridotto, se non addirittura nullo. Ciononostante, molte sentenze della Suprema Corte in tema di abuso del diritto, tramite formule più o meno standardizzate e ripetitive, precisano come, relativamente a questo o quel profilo dell’abuso, l’onere probatorio spetti all’Amministrazione o al contribuente 2. 2 La giurisprudenza della Suprema Corte, in particolare, concerne principalmente l’onere della prova della assenza di valide ragioni economiche diverse dal risparmio di imposta, che è il profilo più delicato in quanto trattasi di aspetti nella disponibilità del contribuente e tuttavia oggetto di una prova negativa. Talvolta la giurisprudenza, però, si occupa anche dell’onere della prova circa gli altri requisiti dell’abuso. Spesso, come si nota dalla breve rassegna qui di seguito svolta, le sentenze parlano indifferentemente di onere di provare, di allegare, di spiegare e precisare. Cass., sez. trib., 4 aprile 2008, n. 8772, formula il seguente principio di diritto: “non hanno efficacia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria quegli atti posti in essere dal contribuente che costituiscano “abuso del diritto”, cioè che si traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale; ed incombe sul contribuente la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico”. Cass., sez. trib., 21 aprile 2008, n. 10257, riprende lo stesso concetto aggiungendo alcune caratteristiche delle ragioni economiche alternative che il contribuente deve provare, allorché l’abuso del diritto dia luogo ad un elemento negativo del reddito o dell’imposta. Tale sentenza, infatti, scrive: “incombe sul contribuente la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico, specie quando l’abuso dia luogo ad un elemento negativo del reddito o dell’imposta”. Investe anche gli oneri dell’Amministrazione, e gli altri requisiti dell’abuso, Cass., sez. trib., 21 gennaio 2009, n. 1465, la quale afferma: “è onere dell’Amministrazione finanziaria – non solo – prospettare il disegno elusivo a sostegno delle operate rettifiche ma – anche - le supposte modalità di manipolazione o di alterazione di schemi classici rinvenute come irragionevoli in una normale logica di mercato se non per pervenire a quel risultato di vantaggio fiscale così come incombe al contribuente allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale spessore che giustifichino operazioni così strutturate”. E si veda anche, Cass., 19 maggio 2010, n. 12249, “si pone a carico del soggetto che ne invoca l’applicazione ai fini fiscali l’onere di provare che l’impiego dello strumento contrattuale in contestazione non aveva il fine essenziale di conseguire un risparmio di imposta”. Ancora, Cass., sez. trib., 22 settembre 2010, n. 20030 statuisce: “la prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale spessore che giustifichino operazioni in quel modo strutturate”. Cass., 21 gennaio 2011, n. 1372: “incombe all’amministrazione finanziaria l’onere di spiegare, anche nell’atto impositivo, perché la forma giuridica (o il complesso di forme giuridiche) impiegata abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto all’operazione economica intrapresa, mentre è onere del contribuente provare l’esistenza di un contenuto economico dell’operazione diverso dal mero risparmio fiscale”. 113 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA A ben vedere, però, raramente tali affermazioni vertono su fatti, che necessitano di prova; esse invece riguardano per lo più valutazioni (es. la validità o meno delle ragioni economiche addotte, la portata distorsiva di una operazione o di una struttura di operazioni) in quanto tali non soggette a prova, ma a dimostrazione puramente teorica, ad argomentazione difensiva. Ancora, molto spesso, in tema di abuso del diritto, i (pochi) fatti, che pur sarebbero suscettibili di prova, risultano incontestati tra le parti, e cioè pacifici: questo elimina sul nascere ogni problema di prova e, per conseguenza, di onere della prova. Tra l’altro, spesso, le sentenze, disattendendo i più elementari tratti dell’onus probandi, spostano l’onere probatorio da un soggetto all’altro in funzione di una precisa scansione funzionale e temporale, secondo la quale l’onere su questo o quell’elemento della fattispecie spetterebbe in prima battuta all’Amministrazione e solo in seconda battuta al contribuente. Eppure, l’onere della prova come regola decisoria finale del fatto incerto, cioè l’onere della prova in senso oggettivo, è assolutamente incompatibile con una scansione temporale di questo tipo, dal momento che opera solo e soltanto nel momento della decisione finale, e non si modifica in ragione della prova fornita da questo o quel soggetto nel corso del giudizio, giacché ha una E’ chiara nel riferirsi all’onere di allegazione, piuttosto che ad un onere della prova, la Cass., sez. trib., 18 febbraio 2011, n. 3947, in cui si legge che “il tema relativo all’esistenza, validità e opponibilità all’amministrazione del negozio da cui deriva, nella sostanza, la pretesa fiscale è acquisito al processo per effetto dell’allegazione da parte del contribuente”; la stessa sentenza rigetta il ricorso dell’Amministrazione finanziaria perché “la ricorrente non ha neppure allegato (essendosi limitata a supporre un obbligo del giudice di verificare, comunque ed in astratto, se le stesse “rispondessero o meno ad effettive esigenze di razionalità economica, o fossero piuttosto finalizzate al perseguimento di illeciti vantaggi fiscali”) quale sia, in effetti, il risparmio fiscale tratto dalla contribuente delle contestate operazioni commerciali poste in essere con le cooperative: segnatamente quale fosse l’irrazionalità economica di quelle operazioni che il giudice del merito avrebbe dovuto rilevare e valutare”. Ancora con riguardo alla prova delle ragioni economiche, nel confronto con gli altri requisiti, la Cassazione, sez. trib., 30 novembre 2011, n. 25537, scrive che il requisito dell’assenza delle valide ragioni economiche, a differenza degli altri due requisiti dell’abuso “può ritenersi implicitamente verificato, ove si assuma […] che l’unico motivo dell’aggiramento della norma tributaria sia il conseguimento di un vantaggio fiscale. Infatti la sentenza afferma che il discrimine tra una attività lecita ed elusiva consiste nel fatto che la seconda e compiuta “essenzialmente (ovvero unicamente, n.d.e.) per il conseguimento di un vantaggio economico (sul piano fiscale)” e ciò esclude, univocamente, la presenza di una valida ragione economica di fondo, la quale, ove esistente, si pone come elemento in primo luogo anteriore, ma comunque diverso e aggiuntivo rispetto al mero vantaggio pecuniario perseguito con l’aggiramento della normativa fiscale. Ciò è così vero che la stessa sentenza richiama, correttamente, il principio giurisprudenziale secondo cui una volta che si sia in presenza di atto che appaia di abuso del diritto l’onere di provare la esistenza di valide ragioni economiche per compierlo ricade sul contribuente (Cass., n. 8772 del 2008)”. 114 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA struttura più semplice, o se si vuole più rozza3: se il giudice non ha raggiunto il convincimento dell’esistenza di un determinato fatto, in base alle prove fornite nel processo e del tutto indipendentemente da chi e come siano state introdotte, egli dovrà decidere in senso sfavorevole alla parte che aveva l’onere di provare4. 3 Da alcuno è stata rilevata l’“ingiustizia” della regola dell’onere della prova, a causa della sua eccessiva “staticità”. L’istituto in questione, invero, porta il giudice, non pervenuto ad un convincimento, ad effettuare un passo indietro, una rinuncia mantenendo la situazione preesistente all’instaurazione del processo (S. Patti, Prove. Disposizioni generali, op. cit., 158). Esso rende così del tutto superflua ed inutile l’attività probatoria già svolta, interrompe definitivamente il processo di avvicinamento alla verità3 che, comunque, nel processo si è svolto, a discapito di quella parte che, nonostante la prova fornita, pur rilevante, non sia riuscita comunque a ingenerare il convincimento nel giudice (G. A. Micheli, L’onere della prova, op. cit., 185 ha rimarcato l’equivalenza, dal punto di vista dell’onere della prova, tra il non provare affatto e il provare ma non sufficientemente). É stato tuttavia rilevato come sia invece giusto, o forse meno ingiusto, che l’incertezza del giudice ridondi a danno di chi era tenuto ad eliminarla, perché ciò “è espressione della fondamentale esigenza del vivere civile, rappresentata dell’agire a proprio rischio (suae quisque artifex fortunae)” Così, V. Andrioli, in Prova (dir. proc. civ.), op. cit., 300, nota 1. La “staticità” dell’onere della prova si giustifica, pertanto, in base al principio, di ragione anzitutto, secondo cui colui che richiede un mutamento dello status quo deve fornire la relativa prova. Se la prova non è fornita o non è sufficiente, indipendentemente dal fatto che ciò dipenda dalla colpevole carenza dell’attività probatoria svolta dalla parte onerata oppure dalla materiale impossibilità di fornirla ovvero dal mancato esercizio dei poteri istruttori di cui il giudice eventualmente disponga o comunque dalla discrezionale valutazione del giudice medesimo circa il mancato raggiungimento del convincimento, le conseguenze sfavorevoli dovranno necessariamente ricadere sulla parte che ha richiesto all’ordinamento una modificazione della situazione preesistente, assumendosi così il rischio dell’iniziativa intrapresa e dovendone sopportare le conseguenze. Ciò, anche se, in ipotesi, i fatti presupposti del diritto vantato dalla parte si erano effettivamente verificati nella realtà, pur non essendo stato possibile acclararlo nel processo. E così, per chiudere con le parole di Carnelutti: “le prove, che sul principio mi parvero uno strumento di giustizia, son finite per capovolgersi in uno strumento d’ingiustizia” (F. Carnelutti, La prova civile, op. cit., 8). La regola dell’onere della prova può comportare, al termine del giudizio, un sacrificio alla “giustizia” e alla verità, pur perseguite nel corso di ogni giudizio per il tramite dell’istruzione probatoria, sacrificio che si giustifica in base ad un bilanciamento di interessi con l’altrettanto fondamentale valore della certezza nei rapporti giuridici che il processo deve assicurare (G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1966 (ristampa), 788 e ss.). Verità e certezza sono i termini che racchiudono il nucleo della problematica ed esprimono la tensione ed il travaglio del giudice, nel perenne sforzo di colmare lo scarto tra l’effettiva conoscenza dei fatti e il loro reale svolgersi. 4 Si veda la nota n. 1 relativamente alla distinzione tra onere della prova oggettivo e soggettivo. 115 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA A ben vedere, dunque, la giurisprudenza, nonostante ritorni più volte sulla distribuzione dell’onere probatorio, spesso si riferisce a tutt’altro (alla dimostrazione logica ovvero all’onere di allegazione) e comunque non tratta la questione in maniera approfondita ma, come spesso accade in materia di onere della prova, si limita ad affermare con tono autoreferenziale, quasi da enunciazione di principio, a chi spetti l’onere nei diversi casi. Nella dottrina sull’abuso del diritto, il tema dell’onere della prova è molto meno trattato; allorché la dottrina affronta tale tematica, acquisisce, e talora parafrasa, le soluzioni della giurisprudenza senza proporre specifici rilievi critici; al più, si riscontrano alcune disquisizioni intorno al problema della prova di un fatto negativo, dato che in tale modo è formulato uno dei requisiti dell’abuso, cioè l’assenza di valide ragioni economiche. Pare dunque che possa essere di interesse una riflessione sull’onere della prova in materia di abuso del diritto, riflessione che sarà condotta seguendo le affermazioni della giurisprudenza, dato che l’abuso stesso è di matrice giurisprudenziale, per apportare ad esse le correzioni che si ritengono necessarie, talora solo terminologiche, talaltra più sostanziali. Questo non solo con l’intento di contribuire, ove possibile, alla chiarificazione del problema sul piano ordinamentale, ma anche con la consapevolezza che tramite la differente configurazione dell’onere della prova si decidono le sorti di un processo: pertanto, specie per un processo che già ha per tema l’abuso del diritto - e quindi un comportamento non normativamente sanzionato, rimesso alla valutazione (leggasi, discrezionalità) del giudice, che addirittura può rilevarlo d’ufficio in sede di legittimità5 - almeno risulti contenuta quella errata abitudine di utilizzare riferimenti all’onere della prova onde giustificare, e mascherare, decisioni emotive ed arbitrarie. 2 I requisiti dell'abuso del diritto e i (pochi) fatti da provare Al fine di affrontare con ordine il problema, è utile partire dai requisiti dell’abuso del diritto, che, secondo l’individuazione della più matura giurisprudenza e della più autorevole dottrina, possono così sintetizzarsi: - operazioni negoziali, anche collegate tra loro, che determinano uso distorto, un aggiramento dei principi e dello spirito (non violazione) di una norma tributaria - (indebito) vantaggio fiscale; - assenza di valide ragioni economiche. Perché si abbia abuso del diritto, quindi, occorre verificare la sussistenza dei tre requisiti indicati. La verifica, tuttavia, non deve necessariamente passare tramite una prova. Ché anzi, come di consueto, la prova riguarda soltanto i fatti, pur giuridicamente qualificati, e, nell’ambito dei requisiti sopra indicati, i fatti sono pochi, marginali e solitamente pacifici. 5 In tal senso, ex plurimis, Cass. ss. uu., 23 dicembre 2008, nn. 30055, 30056, 30057; Cass., sez. trib., 9 dicembre 2009, n. 25726; Cass., sez. trib., 22 ottobre 2010, nn. 21692, 21693; Cass., sez. trib., 11 maggio 2012, n. 7393. 116 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA Ai fini di porre correttamente il problema della prova in materia di abuso del diritto, occorre quindi preliminarmente individuare all’interno dei menzionati requisiti se e quali siano i fatti che possono essere oggetto di prova. Quanto al primo requisito, è, ad esempio, un fatto l’esistenza e l’efficacia di un negozio giuridico, o di una serie collegata di negozi giuridici; è, invece, oggetto di una valutazione la disquisizione sulla loro idoneità ad aggirare la norma, sulla distorsione del sistema da essi provocata, sulla differenza tra l’operazione realizzata e l’operazione che si considera normale. Solo l’esistenza e l’efficacia del negozio, o dei negozi, quindi, sarà oggetto di prova, e non la sua qualificazione come negozio asistematico, anomalo, nonché il confronto con il negozio normale e la valutazione di aggiramento dello spirito della norma. Ancora, quanto al secondo requisito, l’indebito vantaggio fiscale, occorre sceverare il fatto dal giudizio. L’esistenza di un vantaggio fiscale, cioè di un risparmio di imposta numericamente determinato, è un fatto. Invece, la circostanza che esso sia indebito, in quanto scaturisca da un aggiramento dello spirito della norma, è una questione valutativa, che non entra nel giudizio sul fatto e non è oggetto di prova. Lo stesso per il terzo requisito: l’assenza delle valide ragioni economiche. A prescindere dal problema, su cui molto si è soffermata la dottrina, se sia la Amministrazione a dover dimostrare l’assenza di esse o il contribuente a dover provare la loro sussistenza nel rispetto del generale brocardo secondo cui negativa non sunt probanda, anche in questo caso buona parte dell’accertamento del requisito si svolge su un piano diverso da quello del giudizio di fatto. E’ parte di quest’ultimo la questione dell’esistenza delle ragioni economiche, ma la loro validità e altresì la valutazione della loro prevalenza o non marginalità rispetto al risparmio di imposta restano al di fuori dalle problematiche probatorie. Riassumendo, l’abuso del diritto si fonda quindi preminentemente su valutazioni e poco su fatti di cui accertare l’esistenza o meno. I (pochi) fatti da provare sono: l’esistenza ed efficacia del negozio (o dei negozi collegati), la sussistenza di un vantaggio fiscale (nel senso, materiale, di minor pagamento di imposta) e la sussistenza di ragioni economiche. Questi fatti soltanto possono formare oggetto di prova e, per conseguenza, allorché non provati, possono eventualmente determinare l’applicazione della regola decisoria sul fatto incerto. 3 Allegazione e non contestazione Delimitato come sopra l’ambito del giudizio di fatto nei processi vertenti in tema di abuso del diritto, si comprende quanto angusto sia lo spazio per l’applicazione delle regole probatorie. Pochi essendo i fatti da provare, già per questo è marginale il profilo della prova e dell’istruttoria nei processi che hanno per tema l’abuso del diritto. Ma l’applicazione della regola dell’onere della prova è anche enormemente ridotta per altra significativa ragione. 117 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA I pochi fatti, che astrattamente potrebbero necessitare di una prova, nella pratica dei processi in materia di abuso del diritto non la richiedono quasi mai, giacché su di essi non vi è contrasto tra le parti. Nei processi sull’abuso, invero, non vi è, di solito, contestazione circa l’esistenza e l’efficacia di un determinato negozio giuridico o di una serie di operazioni tra loro collegate, che sono riconosciuti da entrambe le parti. Quel che si contesta è se quel negozio o serie di negozio abbiano o meno valenza distorsiva, se realizzino un aggiramento di una norma. Il contrasto tra le parti, quindi, non è mai (o quasi mai) sul fatto, che non è contestato, quanto sulla sua interpretazione e valutazione. Opera, cioè, il principio di non contestazione, secondo il quale, ex art. 115 c.p.c., i fatti non specificamente contestati non abbisognano di essere provati6. Lo stesso accade, generalmente, per gli altri fatti che vengono in rilievo in un processo in tema di abuso del diritto. Ad esempio, l’esistenza di un risparmio di imposta: esso – generalmente - non è contestata nella sua esistenza materiale e nella sua valenza per così dire quantitativa e matematica. E’ molto spesso pacifico tra le parti che quella determinata operazione abbia comportato un pagamento di imposta inferiore rispetto alla operazione alternativa e “normale” ipotizzata dall’Amministrazione finanziaria. Il contribuente, però, generalmente deduce che quel risparmio di imposta non sia indebito, nel senso che non sia frutto di un aggiramento normativo, ma invece sia previsto e voluto, o comunque consentito, dall’ordinamento. In altri termini, anche in questo caso, il fatto del minor pagamento di imposta, di solito, è pacifico tra le parti, quindi non abbisogna di prova, e pertanto non determina, in caso di fallimento della prova, l’applicazione della regola decisoria finale dell’nere della prova. Lo stesso vale per le valide ragioni economiche. 6 In passato, allorché il principio di non contestazione aveva portata solo giurisprudenziale, si poneva il delicato problema della individuazione delle ipotesi di non contestazione, al fine di verificare se, ad escludere la prova di un fatto, ed il correlativo onere probatorio, fosse sufficiente un atteggiamento passivo della controparte, ad esempio un mero silenzio, oppure occorresse un’esplicita ammissione. Aveva affermato che, ai fini di escludere la prova di un fatto, non sarebbe sufficiente una mera “non contestazione” del medesimo ex adverso ma occorrerebbe una esplicita sua “ammissione” F. CARNELUTTI, Prova civile, op. cit., 23 ss. In senso contrario, sulla distinzione tra non contestazione e ammissione esplicita, cfr. L. P. COMOGLIO, Le prove, in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, Vol. 19, tomo 1, III, 182, il quale sottolinea che mentre la non contestazione escluderebbe provvisoriamente la prova, senza però precludere la contestazione successiva, possibile fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, la ammissione esplicita, invece, fornirebbe una prova completa. Oggi, peraltro, il problema è risolto dal diritto positivo, che ha rimarcato il valore di un atteggiamento anche meramente passivo della parte non contumace. La riforma del diritto processuale civile, operata con legge n. 60 del 2009, ha invero modificato l’art. 115 c.p.c. sancendo che “il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”. Per un commento alla nuova normativa, si veda S. PATTI, Le prove, op. cit., 13 ss. 118 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA L’Amministrazione deduce che l’unica ragione che spiega l’operazione realizzata dal contribuente sia quella del risparmio d’imposta; a fronte di ciò, il contribuente può allegare ragioni economiche diverse dal risparmio di imposta che debbono essere valide e pregnanti. Soltanto la sussistenza di tali ragioni è oggetto di prova (con tutte le difficoltà della prova di un fatto psicologico, quale è la ragione determinante un comportamento); ma il vero punto controverso, di solito, non è l’esistenza di questa o quella ragione economica dedotta dal contribuente (e che l’Amministrazione non contesta nella sua mera esistenza), quanto piuttosto la sua validità e significatività. In materia di abuso del diritto, quindi, anche laddove vi siano fatti astrattamente suscettibili di prova, questi sono oggetto di una allegazione delle parti (e/o di un onere di allegazione 7). 7 Parte della dottrina, invero, ritiene che sia configurabile un autonomo onere di allegazione, diverso rispetto all’onere della prova. In tal senso: G. DE STEFANO, voce Onere (diritto processuale civile), in Enc. dir., vol XXX, Milano, 1980, 114 ss., 120; E. T. LIEBMAN, Intorno ai rapporti tra azione ed eccezione, in Riv. dir. proc., 1960, 450. Sostengono che il giudice non possa introdurre come temi di prova neppure i fatti secondari, se non allegati dalle parti, M. CAPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità. Contributo alle teorie della utilizzazione probatoria del sapere delle parti nel processo civile, Giuffré, Milano, 1962, 339 e ss.; G. TARZIA, Il litisconsorzio facoltativo nel processo di primo grado, Milano, 1972, 349 e ss. Lo stesso E. ALLORIO, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale e altri studi, Giuffré, Milano, 1957, 375, afferma che la parte deve formulare i fatti indispensabili per l’identificazione della ragione sostenuta in giudizio, cioè, in definitiva, dell’oggetto del processo. Altra parte della dottrina, invece, afferma l’inutilità del concetto di onere di allegazione. Così, F. CARNELUTTI, La prova civile, op. cit., 21 e ss., in particolare, 22 (in nota), il quale sostiene che l’allegazione del fatto può essere utile perché se ne abbia una trattazione nella sentenza, ma nega recisamente che possa configurarsi un onere di allegazione del fatto parallelo o analogo all’onere della prova. Lo critica S. PATTI, Prove. Disposizioni generali, op. cit., 11, il quale rileva come Carnelutti abbia del tutto dimenticato, nella propria ricostruzione, i fatti notori, in relazione ai quali, nella tesi di Patti, si configura un onere di allegazione, ma non un onere della prova. Secondo l’A., la distinzione tra onere della prova e dell’allegazione si coglie specialmente considerando i fatti che non abbisognano di prova, ma solo di allegazione, quali sono i fatti presunti o i fatti notori. Nello stesso senso, S. P ATTI, Le prove, op. cit., 54 ss. A proposito del fatto che l’onere della prova interessa i soli fatti che hanno bisogno di prova, con esclusione pertanto di quei fatti che sono incontestati tra le parti o che sono notori, cfr. altresì V. ANDRIOLI, Prova (dir. proc. civ.), in Novissimo Digesto Italiano, volume XIV, Torino, 1967, 260 ss., 293, il quale afferma che “tale rilievo lascia intendere la caratteristica fondamentale dell’onere della prova, consistente in ciò che può essere considerato non in astratto, ma con riferimento alle concrete vicende del processo”. Altri in dottrina hanno affermato che è possibile cogliere la rilevanza autonoma dell’onere di allegazione rispetto all’onere della prova in relazione proprio alle ipotesi in cui la parte è dispensata dall’onere di provare e cioè ad esempio per i fatti presunti, che la parte ha l’onere di allegare ma non di provare (es. buona fede ex art. 1147, comma 3, c.c.). Così M. TARUFFO, Studi sulla rilevanza della prova, Cedam, Padova, 1970, 19 ss.; L. MENGONI, Gli acquisti a non domino, Giuffré, Milano, 1975, 358. 119 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA Soltanto laddove il fatto sia contestato, vi è un problema di prova e, allorché questa non sia fornita, l’applicazione della regola dell’onere della prova. Altrimenti, la allegazione, unita alla non contestazione, esclude la necessità di prova e quindi la applicazione di qualsiasi regola probatoria finale. Invece, altra parte della dottrina (R. SACCO, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto, onere della prova, in Riv. dir. civ., 1957, I, 416 e ss.) scorge un perfetto parallelismo tra onere di allegazione e onere della prova; secondo tale tesi, dovrebbero essere allegati soltanto i fatti che devono essere provati, mentre non sarebbe necessario allegare ad esempio i fatti che costituiscono oggetto di una presunzione legale. Tale tesi si fonda sulla negazione di ogni distinzione tra fatti costitutivi e fatti impeditivi. Quanto ai fatti notori, e alla sussistenza per essi di un onere di allegazione, e non di un onere della prova, le conclusioni sono analoghe. V’è chi, come il Patti, afferma che “i fatti su cui si basa il diritto devono essere sempre enunciati dalla parte, anche se si tratta di fatti notori, perché alla parte spetta sempre dichiarare se intende utilizzare i loro effetti giuridici” (S. PATTI, Prove. Disposizioni generali, op. cit., 11). Nello stesso senso: V. DENTI, Ancora sulla nozione di fatto notorio, in Giur. compl. cass. civ., 1947, 265 ss.; L. P. COMOGLIO, Le prove, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, XIX, Torino, 181; G. VERDE, voce Prova, (dir. proc. civ.), in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano, 1988, 613 ss, nota 237. In senso contrario, MONTESANO, Osservazioni sui fatti notori, in Giur. compl. cass. civ., 1947, III, 222 ss., secondo il quale il giudice può utilizzare il fatto notorio indipendentemente dall’allegazione di parte “perché la notorietà esclude il sospetto di parzialità inerente all’autonoma acquisizione della fonte stessa da chi deve valutarla”. Critica Montesano, il Patti, affermando che egli confonderebbe tra massime di esperienza, che in quanto “regole” non devono essere allegate, e i fatti notori, che invece necessitano di allegazione. I dati testuali, ad onor del vero, sembrano confortare la tesi negativa, giacché il codice di procedura civile prevede l’onere della parte di proporre la domanda (art. 112 c.p.c.) così come quello di proporre le prove (art. 115 c.p.c.) ma non un onere di allegazione. L’unica norma da cui potrebbero desumersi argomentazioni in tale senso è l’art. 163, comma 3, c.p.c., laddove prevede “l’esposizione dei fatti ... costituenti le ragioni della domanda”. Tuttavia, è stato obiettato che non è prevista dall’ordinamento alcuna conseguenza sfavorevole a fronte di una eventuale mancato rispetto della ricordata norma (es. nullità della citazione ex art. 164 c.p.c.), di talché non sarebbe possibile qualificare tale allegazione di fatti come un onere (R. SACCO, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto, onere della prova, op. cit., 416). Tale argomentazione non sarebbe convincente, secondo Patti, poiché il mancato adempimento di un onere non deve comportare un risultato sfavorevole, quale la citata nullità della citazione, ma invece concretarsi nella impossibilità di conseguire un risultato favorevole (S. PATTI, Le prove. Disposizioni generali, op. cit., 9). Dall’art. 163, comma 3, c.p.c., invece, deve trarsi la convinzione della correttezza della tesi fondata sulla distinzione tra fatti primari e fatti secondari, secondo la quale l’onere di allegazione sussisterebbe solo in relazione ai primi, mentre con riferimento ai secondi il giudice potrebbe esaminarli anche se non allegati (L. P. COMOGLIO, Le prove, op. cit., 180 e ss.; E. GRASSO, La pronuncia d’ufficio, I, La pronuncia di merito, Giuffré, Milano, 1967, 23 e ss.; S. PATTI, Prove. Disposizioni generali, op. cit., 9 e 91 ss.). 120 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA 4 L’abuso del riferimento all’onere della prova Da quanto visto, risulta con evidenza che la giurisprudenza della Suprema Corte, laddove in tema di abuso del diritto fa sovente riferimento alla ripartizione dell’onere probatorio, si riferisce a profili che solitamente nulla hanno a che vedere con la prova e con l’onere della prova. Per la maggior parte dei casi, trattasi di questioni valutative che il giudice deve risolvere scegliendo tra le argomentazioni dell’una e dell’altra parte ovvero adottando la cd. terza via. È il giudice che dovrà quindi decidere, sulla base delle difese delle parti o della sua valutazione, se le ragioni economiche dedotte siano valide, se il vantaggio fiscale sia indebito, se l’operazione aggiri la normativa tributaria. La stessa giurisprudenza, a ben vedere, spesso parla di onere di “dimostrazione”: l’espressione non va intesa nel senso di prova bensì nel diverso significato di dimostrazione logica, di valida argomentazione difensiva. A parte tutte le circostanze da “dimostrare” solo argomentativamente, e quindi non da provare, restano poi senz’altro, nel giudizio sull’abuso, alcuni fatti astrattamente suscettibili di prova. Ma tali fatti sono prima di tutto oggetto di una allegazione (o onere di allegazione) e solo nel, non frequente, caso in cui a detta allegazione faccia seguito una specifica contestazione della controparte, potrà porsi un problema di prova di essi. E, ove poi detta prova non sia raggiunta, si avrà l’applicazione della regola dell’onere della prova. Tali precisazioni, prima terminologiche, onde distinguere tra dimostrazione argomentativa, allegazione e prova, poi processuali, correlate alla applicazione del principio di non contestazione per i fatti allegati non specificamente contestati, ed infine empiriche, per effetto dalla constatazione della rarissima presenta di un contrasto tra contribuente e Amministrazione sui fatti della fattispecie abusiva, portano a concludere per una rarissima applicazione delle regole dell’istruttoria e specialmente della regola finale dell’onere della prova. Ne è riprova lo stesso, contestatissimo ma frequente, rilievo d’ufficio dell’abuso del diritto, in ogni stato e grado del giudizio e quindi anche in Cassazione. La Suprema Corte può, concretamente, rilevare l’abuso del diritto nel giudizio pendente dinanzi ad essa proprio perché il tema generalmente non involge fatti da provare, ma di solito valutazioni di pochi fatti per lo più incontestati. E allora, viene da chiedersi perché invece la Suprema Corte, in materia di abuso del diritto, tanto parli di onere della prova. L’onere della prova a ben vedere, pur essendo regola semplice e “ineluttabile” 8 (la decisione va presa a sfavore del soggetto che doveva 8 L’onere della prova, infatti, si ricollega al dovere di decidere, ma non lascia “in bianco” tale dovere. La regola dell’art. 2697 c.c. contiene altresì un limite per il contenuto della decisione, o, meglio, stabilisce a priori il contenuto di essa: il giudice deve decidere a sfavore di chi era onerato della prova dei fatti, nei casi in cui questa non sia stata raggiunta. 121 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA provare quel fatto), lascia, però, a monte, una grande margine di discrezionalità: è il giudice, infatti, che, stabilendo se ha raggiunto o meno il convincimento sull’esistenza di un fatto (c.d. principio del libero convincimento), di fatto decide se avvalersi di tale regola dal contenuto vincolato. La regola dell’onere della prova, dunque, non rappresenta un vincolo così ferreo, proprio a seguito del c.d. “principio del libero convincimento” del giudice che garantisce una grande e fondamentale “libertà”. Più precisamente, se è vero che, a seguito del contenuto della regola dell’onere della prova, il giudice ha una soluzione “imposta”, a ben vedere, subito più a monte, egli ha una grande “via di fuga”, in quanto è proprio una sua scelta a determinare l’applicazione o meno della regola medesima 9. 9 La libertà del giudice cui si fa riferimento deriva dal c.d. principio del libero convincimento, istituto del nostro ordinamento un po’ “dimenticato” dalla dottrina, che non si è troppo peritata di svolgerne studi approfonditi, generalmente limitandosi a citarlo come principio tanto fondamentale ed immanente al sistema da divenire perciò quasi un “mito” (l’espressione è di S. Patti, Prove. Disposizioni generali, op. cit., 146), ma, in quanto tale, oggetto di fede e non di studio. Per esprimere tale concetto, significative sono le parole del Nobili, cui si deve una delle poche trattazioni al riguardo, il quale ha osservato che: “a forza di vantare con dogmatica sicurezza il principio del libero convincimento, come fondamento imprescindibile del sistema, da troppo tempo se ne trascura l’approfondimento critico, con la conseguenza di una grande varietà di significati e soprattutto di una immagine equivoca della libertà del giudice” (M. Nobili, Il principio del libero convincimento del giudice, Giuffré, Milano, 1974, 3). Senza certamente pretendere, in questa sede, di colmare la denunciata carenza di approfondimento dottrinale, pare opportuno brevemente tratteggiare quelle caratteristiche del principio del libero convincimento che permettano di approfondirne i rapporti con la regola dell’onere della prova. Innanzi tutto, è utile specificare che il libero convincimento va distinto dalla libera valutazione delle prove, necessariamente legata a regole di logica o di esperienza; il libero convincimento, invece, riguarda un diverso momento, successivo alla valutazione delle prove, e dotato di un maggior grado di libertà. La discrezionalità, nel caso del libero convincimento, concerne non tanto il modo di formazione del convincimento stesso, che deve essere guidato da regole logiche e giuridiche ed è soggetto a controllo tramite l’obbligo della motivazione, ma soltanto l’an del convincimento, la sussistenza o meno di esso. Ed è proprio questa scelta, questa libertà di stabilire se il convincimento sussiste o meno, che si pone alla base della regola dell’onere della prova e che la differenzia, ad esempio, dalle prove legali. La regola sull’onere della prova risponde alla stessa logica delle prove legali, ed in tal senso è vincolante per il giudice: essa prestabilisce il suo operare. Tuttavia, mentre le prove legali gli impongono di esser convinto da esse e di decidere nel senso da esse indicato, escludendo ogni sua valutazione, la regola dell’onere della prova lo vincola soltanto dal punto di vista del contenuto, nel senso che gli impone di decidere contro la parte che non ha fornito la prova della propria domanda o eccezione. Però, per ciò che riguarda l’onere della prova, diversamente da quanto accade per le prove legali, il giudice ha la libertà di stabilire se sussista o meno il proprio convincimento. Il rapporto tra i due concetti di onere della prova e convincimento del giudice è, perciò, un rapporto di stretta alternativa: o il giudice raggiunge il convincimento, 122 L’ABUSO DEL DIRITTO TRA ONERE DI ALLEGAZIONE E ONERE DELLA PROVA Alla base di tale rigorosa regola, quindi, vi è una grande libertà decisionale 10. Ed il tema dell’abuso del diritto, di formazione giurisprudenziale, così fortemente correlato alla discrezionalità del giudice, presuppone – purtroppo - una decisione sostanzialmente “emotiva” sul fatto che il contribuente abbia o meno fatto “il furbo”. In tale contesto, la regola dell’onere della prova, con la sua univocità (se non è provato, non esiste) e la sua autorità di regola decisoria finale, può fornire un ottimo fondamento per la giustificazione di decisioni che, per loro natura, sono valutative e discrezionali, se non arbitrarie. Forse per questo la giurisprudenza sull’abuso del diritto …. abusa del riferimento spesso inconferente all’onus probandi! oppure applica la regola dell’onere della prova. E nell’effettuare tale scelta, il giudice, lo abbiamo detto, è molto libero. La funzione residuale della regola di giudizio è quella di proibire al giudice di dare per esistenti fatti di cui non gli sia stata offerta una prova piena e convincente. Tuttavia, non avendo la legge individuato lo standard minimo di certezza per ritenere provato un fatto, alla fine, la funzione della regola di giudizio finisce con l’essere influenzata dalla diversa maniera di intendere la sufficiente certezza (Così, G. Verde, voce Prova (dir. proc. civ.), op. cit., 626). Si tratta di un grande margine di soggettività e discrezionalità che abbiamo nella regola dell’onere della prova, sempre così legata ad oggettività e razionalità per le esigenze intrinseche della sua funzione decisoria. Il giudice può scegliere se ricorrervi o meno, a seconda che gli elementi probatori lo abbiano convinto oppure no. E non è libertà di poco conto. Tra onere della prova e convincimento, pertanto, sussiste alternativa ma anche consequenzialità, il convincimento essendo fuori e, nel contempo, alla base del dogma dell’onere della prova. 10 “In definitiva – scrive S. PATTI, Prove. Disposizioni generali, op. cit., 155 - la libertà del convincimento riguarda soltanto la sussistenza del convincimento stesso. Qualunque sia il grado di verosimiglianza o di probabilità raggiunto, si considera infatti il giudice libero di ritenersi convinto della verità dei fatti o meno”. 123 Avv. Paolo de’Capitani di Vimercate Harvard Law School International Tax Program Dottore di Ricerca Università di Pisa La spettanza del credito per le imposte estere e la indeducibilità dei manufactured payments in una decisione della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia a cavallo tra elusione ed evasione tributaria SOMMARIO: 1 Introduzione: il caso esaminato dalla CTP di Reggio Emilia. - 2 I presupposti per la concessione del credito per le imposte estere ai sensi del Tuir e delle convenzioni contro le doppie imposizioni sul reddito - 3 Sulla negata deduzione del manufactured payment - 4 Sulla applicabilità delle sanzioni - 5 Conclusioni 1 Introduzione: il caso esaminato dalla CTP di Reggio Emilia. La sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia presenta spunti di interesse in quanto è la prima tra quelle edite 1 ad esaminare talune operazioni che secondo l’Amministrazione finanziaria consentivano a contribuenti residenti di ottenere vantaggi fiscali potenzialmente superiori a quelli economici2. In particolare, il caso di specie riguardava una serie di operazioni compiute da una banca italiana e da una sua società controllata (d’ora in avanti, per comodità, “la Banca”) in riferimento a titoli esteri. Senza poter descrivere le operazioni in oggetto meglio di come sono state descritte nella sentenza stessa, potremmo sintetizzarne la struttura come segue. La Banca italiana acquistava, attraverso contratti di pronti contro termine, la titolarità dei titoli esteri, ma contestualmente si impegnava, con un contratto di swap, a retrocederne i benefici alla controparte. Più precisamente pare si trattasse di un cd. total return swap in cui oltre al ribaltamento di un ammontare pari a quello delle cedole pagate dal titolo era previsto anche il riconoscimento alla controparte di un ammontare pari agli incrementi di valore dello stesso, tanto che secondo l’Amministrazione finanziaria nessun beneficio economico, come nessun rischio (i.e., il derivato aveva una funzione di copertura), derivava dalla titolarità dello stesso a chi formalmente ne era il proprietario. 1 V. al riguardo anche CTP di Genova, sez. 13, 24 marzo 2011, n. 133, che parimenti ha respinto il ricorso della banca ricorrente, confermando la qualificazione di abuso del diritto sostenuta dall’Amministrazione finanziaria. 2 Di operazioni per certi aspetti simili a quelle in esame si era interessata anche la cronaca settimanale: v. L’Espresso del 24 ottobre 2008. LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE Come contropartita della sottoscrizione dello swap, la Banca otteneva una remunerazione del suo investimento ad un tasso parametrato all’Euribor incrementato di uno spread. Lo spread riconosciuto alla Banca italiana, secondo la contestazione dell’Amministrazione finanziaria era peraltro esiguo, tanto da non giustificare l’operazione in assenza dei vantaggi fiscali che ad essa conseguivano: il tasso di interesse percepito al netto del vantaggio fiscale, infatti, sarebbe stato al di sotto delle condizioni di mercato3. Il vantaggio fiscale indebito contestato dall’Amministrazione consisteva nel credito di imposta, effettivo nelle operazioni nn. 2 e 3 e nozionale nella operazione n. 1, che la Banca aveva utilizzato in relazione alle ritenute estere sui flussi reddituali poi ribaltati sulla controparte dello swap. Premesso che la legittimità di un avviso di accertamento dipende dalla sua corretta impostazione, anche dal punto di vista della motivazione, e il giudice non dovrebbe occuparsi in termini più generali del rapporto tributario e che dalla sentenza non è chiaro quale fosse l’iter motivazionale adottato dall’Ufficio accertatore, la soluzione della controversia in termini generali deve inquadrarsi nel complesso rapporto tra le disposizioni di cui agli artt. 1 e 165 Tuir, 37, comma 3, del d.p.r. 600 del 1973 e 37-bis del medesimo decreto presidenziale, oltre, ritengo, all’art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997 e all’art. 89, comma 6, tuir e infine all’art. 109 tuir per quanto concerne la deducibilità dei costi sostenuti dalla Banca. 2 I presupposti per la concessione del credito per le imposte estere ai sensi del Tuir e delle convenzioni contro le doppie imposizioni sul reddito. Prima di trattare l’aspetto relativo ai costi recuperati a tassazione dall’Ufficio, occorre dire che, soffermandosi sulla debenza del credito per le imposte estere vantato dalla ricorrente, la sentenza individua il nodo della questione nella opportunità o meno di riconoscere la fruizione di tale credito nel caso in questione per il fatto che i redditi legati alla proprietà dei titoli non erano di fatto imputabili alla Banca, la quale sin dall’inizio si era contrattualmente obbligata a retrocederli ad altro soggetto, ottenendo in cambio una diversa remunerazione per il suo investimento. In linea con l’interpretazione dell’art. 3 E’ peraltro evidente che non si possono disconoscere le operazioni di un contribuente soltanto perché in assenza di una agevolazione fiscale le stesse non sarebbero state effettuate. Diversamente verrebbe meno proprio il senso delle agevolazioni tributarie riconosciute dal legislatore, e di questo dà atto anche la sentenza: v. da ultimo Cass. 10383 del 12 maggio 2011. Tuttavia, le agevolazioni devono riconoscersi quando ne ricorrono davvero i presupposti e non invece quando la sostanza sia diversa dalla forma. E comunque di agevolazione in senso tecnico può parlarsi soltanto in riferimento alla prima delle tre operazioni esaminate dalla CTP di Reggio Emilia, relativa al godimento del matching credit previsto dall’art. 23 della Convenzione contro le doppie imposizioni sul reddito conclusa tra l’Italia e il Brasile. Relativamente al matching credit v. OECD, Tax Sparing - A Reconsideration, Parigi, 1998. 126 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE 165 tuir sino ad oggi indiscussa 4, le operazioni contestate alla Banca prevedevano che questa fruisse del credito per le imposte estere parametrato sui pagamenti lordi percepiti, senza tener conto dei costi sostenuti, che nel caso di specie comprendevano i manufactured payments con cui un ammontare pari alle cedole incassate sui titoli veniva retrocesso alla controparte. Le operazioni si innestavano inoltre in un contesto caratterizzato dalla differente impostazione del sistema fiscale italiano rispetto a quello inglese, particolarmente in relazione alla imputazione del reddito nel caso di operazioni di pronti contro termine: da qui la possibilità che si verificassero arbitraggi fiscali ritenuti elusivi dalla CTP di Reggio Emilia. La decisione nega infatti la spettanza del credito ricorrendo allo strumento dell’abuso del diritto5. Prima di valutare tale aspetto, tuttavia, pare opportuno svolgere alcune considerazioni preliminari, in un certo senso metodologiche, per il fatto che lo strumento dell’abuso del diritto, così come la clausola generale antielusiva, dovrebbe concettualmente essere utilizzato soltanto quando la fattispecie esaminata sia in tutti i sensi rispettosa della legge formale e ne violi però lo spirito. Occorre quindi affrontare preliminarmente la questione se, nonostante la pianificazione che aveva preceduto queste operazioni, le stesse potessero presentare taluni aspetti di illegittimità che avrebbero potuto essere rilevati senza scomodare il principio dell’abuso del diritto. Non conoscendo i dettagli delle operazioni in questione, che del resto, pur presentando taluni tratti comuni, si differenziavano tra di loro per altri aspetti specifici, non possiamo che procedere per ipotesi. 4 V. ABI, parere n. 607 del 2000, in pareri ABI 2000. La sentenza non tratta direttamente il tema del concorso tra disposizioni pattizie e disposizioni domestiche antielusive: mi limito pertanto a rinviare alla dottrina che ha trattato il tema - da ultimo e anche per i rinvii del caso: Maisto, Norme antielusive, abuso del diritto e convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni, in G. Maisto (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009 - e al Commentario al Modello Ocse, secondo cui “7. The principal purpose of double taxation conventions is to promote, by eliminating international double taxation, exchanges of goods and services, and the movement of capital and persons. It is also a purpose of tax conventions to prevent tax avoidance and evasion. 7.1 Taxpayers may be tempted to abuse the tax laws of a State by exploiting the differences between various countries’ laws. Such attempts may be countered by provisions or jurisprudential rules that are part of the domestic law of the State concerned. Such a State is then unlikely to agree to provisions of bilateral double taxation conventions that would have the effect of allowing abusive transactions that would otherwise be prevented by the provisions and rules of this kind contained in its domestic law. Also, it will not wish to apply its bilateral conventions in a way that would have that effect. 8. It is also important to note that the extension of double taxation conventions increases the risk of abuse by facilitating the use of artificial legal constructions aimed at securing the benefits of both the tax advantages available under certain domestic laws and the reliefs from tax provided for in double taxation conventions”. Il commentario conclude quindi per l’esclusione, in termini generali, di un conflitto tra le disposizioni antielusive domestiche e le disposizioni della convenzione (v. parr. 9.2 e ss. e 22 e ss.). 5 127 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE Presupposto fondamentale per l’ottenimento del credito d’imposta, effettivo o nozionale che sia, è il possesso dei redditi esteri e l’assoggettamento di quei redditi al prelievo anche nel Paese della fonte, individuato secondo le disposizioni di cui all’art. 23 Tuir, lette a specchio. Il possesso del reddito, come noto, è il presupposto primo e indefettibile per l’applicazione del tributo (artt. 1 e 72, Tuir), e costituisce evidentemente una declinazione in concreto del principio di capacità contributiva nell’ambito dell’imposizione reddituale. La relazione di accompagnamento al d.p.r. 597 del 1973, al riguardo, specificava che “più che alla titolarità giuridica dei redditi, la norma intende riferirsi alla loro materiale disponibilità da parte del soggetto d’imposta” 6. Come chiarito dai successivi studi della dottrina, peraltro, la titolarità del reddito non può che seguire la titolarità della fonte di produzione 7. Nel caso di specie non si può negare che – formalmente – la titolarità giuridica della fonte produttiva dei redditi cui si ricollegavano i crediti per le imposte estere apparteneva alla Banca ricorrente. Il punto centrale, tuttavia, stava nella complessità della fattispecie, posto che - per quanto si apprende dalla motivazione della sentenza - ogni rischio e ogni beneficio economico legato a tale fonte produttiva veniva sin da subito ribaltato, per effetto del contratto derivato di total return swap, a favore di un terzo soggetto, secondo lo schema tipico dei contratti derivati di copertura8. Non si può comunque 6 V. Relazione ministeriale alla Commissione parlamentare sullo schema di decreto delegato relativo alla “Istituzione e disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche”, in Le imposte dirette erariali, 1973, III, 137. V. anche le note introduttive a tale relazione, pubblicate sempre in Le imposte dirette erariali del 1973, secondo cui “più che alla titolarità giuridica dei redditi, il legislatore delegante ha inteso riferirsi alla loro materiale disponibilità da parte del soggetto d’imposta, comprendendo nel reddito complessivo non soltanto tutti i redditi propri del soggetto, ma anche quelli altrui dei quali lo stesso abbia la libera disponibilità”. 7 Così Paparella, Possesso di redditi ed interposizione fittizia, Milano, 2000, pag. 157 e ancor prima Magnani, Commento all’art. 30 del DL n. 69/1989, in Le nuove leggi civili commentate, 1990, 1247; poi, con una posizione particolare, Lovisolo, Possesso di reddito ed interposizione di persona, in Dir. Prat. Trib., 1990, I, 1665; v. inoltre Nussi L’imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996; Fedele, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del “cumulo”, in Giur. Cost., 1976, I, 2164; Miccinesi, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1992; Lupi, Usufrutto su azioni: una norma antielusione non si può inventare, in Rass. Trib., 1995, I, 1528, Morello, Frode alla legge, Milano, 1967; Gallo, Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusione, in Dir. Prat. Trib., 1992, I, 1761. 8 A dire il vero non è chiarissimo se ogni tipo di beneficio e di rischio sul titolo fosse davvero trasferito in capo alla controparte dello swap: non si comprende per esempio su chi gravasse il rischio di insolvenza del debitore. Sul punto la CTP di Reggio Emilia afferma che “Lo swap, più che tutelarle dall'eventuale insolvenza dell'emittente, da rischi su cambi o sulla variazione del prezzo dei titoli, privava radicalmente di ragione economica l'acquisto dei bond brasiliani […] nel caso che si discute su Cr. non grava il rischio-paese, ma il rischio cedente, cioè C. Ne consegue che Cr. non ha investito in Brasile, ma in C. Cr. quindi, non ha diritto al beneficio convenzionale per gli investimenti effettuati in Brasile”. 128 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE trascurare che il reddito che aveva subito la ritenuta all’estero era stato incassato dalla Banca grazie al suo acquisto a pronti delle partecipazioni e dei titoli e che solo in un momento logicamente successivo una somma pari a tale reddito era retrocessa alla controparte dello swap. Al riguardo, occorre ricordare che secondo l’orientamento dottrinale prevalente è “irrilevante qualsiasi atto di destinazione del reddito (sia volontario sia ex lege), salvo che ad esso non consegua anche il trasferimento della fonte”. In aggiunta, peraltro, si osservi che lo stesso art. 89, comma 6, prevede che la differenza positiva o negativa tra il corrispettivo a pronti e quello a termine, al netto degli interessi maturati sulle attività oggetto dell'operazione nel periodo di durata del contratto, concorre alla formazione della base imponibile per la quota maturata nell’esercizio; e si può agevolmente dimostrare che gli effetti di una modulazione del prezzo di rivendita a termine possono infine essere analoghi a quelli di uno swap per un ammontare pari alle cedole. La scelta del legislatore nell’art. 89, comma 6, è stata tuttavia di consentire la compensazione tra il differenziale del prezzo a termine e gli interessi percepiti in costanza del contratto. Il fatto che parte delle cedole (rectius, un ammontare pari alle cedole) siano quindi retrocesse via swap o differenziale sul prezzo alla controparte non incide, per espressa previsione normativa, sulla titolarità degli interessi (ed evidentemente degli accessori tributari, come il credito di imposta), che permane in capo all’acquirente a pronti. Ne consegue, salvo quanto diremo più avanti, che nonostante la sottoscrizione dello swap la Banca era, per lo meno secondo l’accezione appena descritta, possessore del reddito in questione. Una questione potrebbe porsi allora sull’ammontare del credito di imposta che in questi casi occorre riconoscere all’acquirente a pronti: ci si potrebbe infatti chiedere se non sia opportuno ridurre l’ammontare accreditabile in misura proporzionale alla somma retrocessa al cedente a pronti, via swap o differenziale sul prezzo. Al momento, tuttavia, prevale come detto la condivisibile opinione contraria, per cui il credito di imposta deve essere riconosciuto sui flussi reddituali percepiti al lordo dei costi relativi (e la retrocessione può considerarsi appunto come un costo per la formazione del reddito in questione, come del resto affermato anche dalla Commissione di Reggio Emilia in relazione al manufactured dividend)9. Ciò detto, in riferimento alle operazioni nn. 2 e 3 esaminate dalla sentenza di Reggio Emilia, un vaglio preliminare avrebbe dovuto valutare anche l’effettiva spettanza del credito di imposta per le ritenute estere: se nello Stato della fonte non si scontano ritenute perché, secondo le regole di tale Stato, quel reddito è imputato ad altri soggetti, e nello specifico al cedente a pronti10, infatti, si potrebbe dubitare dell’opportunità di riconoscere il credito 9 Abi, parere n. 607 del 2000, in Pareri Abi, n. 12; Mayr, La disciplina del credito di imposta per i redditi esteri, parte I, in Boll. Trib., 2005, 749. 10 V. Foti, L’abuso del diritto tra recupero di imposta e sanzioni, in Il Torresino, 1/2011, pag. 8, il quale richiama il caso Pirelli Cable Holding, deciso dalla House of Lords, secondo il quale in una operazione come quella in questione i dividendi e la relativa ritenuta devono essere imputati, ai fini dell’imposta sui redditi inglese, al cedente a pronti, mentre l’acquirente a pronti incassa un ammontare netto pari a 129 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE di imposta in Italia, a prescindere dal concorso del reddito estero alla tassazione in base alle regole nostrane 11. In questa ipotesi, se davvero si addivenisse a una simile soluzione, potrebbe mettersi in dubbio che possa parlarsi di “mera” elusione di imposta, e non invece di vera e propria evasione, perché il credito fu invocato dal contribuente nella sua dichiarazione in assenza dei presupposti previsti dall’art. 165 tuir, e particolarmente per l’assenza del pagamento di una imposta estera, tantomeno a titolo definitivo. In riferimento alla operazione sui titoli brasiliani, pur in assenza di una ritenuta estera effettivamente applicata, si sarebbe dovuto svolgere un analogo ragionamento, verificando se ai sensi della legislazione tributaria locale il reddito (e la conseguente ritenuta nozionale) fossero davvero imputabili alla Banca italiana o piuttosto alla sua controparte. Peraltro, se anche, come probabile, non si fosse concluso nel senso che la mera sottoscrizione del total return swap comportava tout court l’alienazione quello dei dividendi distribuiti dalla società emittente. Analogo il contesto per l’operazione n. 3, relativa a titoli obbligazionari inglesi, ove la ritenuta formalmente operata nei confronti del cessionario a pronti italiano era poi riconosciuta sotto forma di credito di imposta al cedente a pronti: a fronte di un’unica ritenuta, pertanto, si correva il rischio di concedere due rimedi contro la doppia imposizione, il primo previsto dall’ordinamento inglese a favore del cedente a pronti e il secondo sotto forma di credito ex art. 165 tuir nei confronti del cessionario a pronti. 11 In materia di CFC adotta un approccio sostanzialista la circolare 51/E del 6 ottobre 2010 dell’Agenzia delle Entrate, secondo cui il livello del tax rate effettivo subito all’estero deve essere calcolato tenendo in considerazione anche la posizione del socio della controllata estera, “(sottoforma, ad esempio, di accreditamento al socio di tutta o parte dell’imposta estera prelevata in capo alla società partecipata). Ciò anche nel caso in cui si tratti di meccanismi di tax refund che la normativa locale prevede su base generalizzata, a prescindere dalla residenza del socio percettore. In simili circostanze, infatti, la tassazione effettiva degli utili societari non può non essere valutata considerando congiuntamente il binomio socio – società, ovvero la posizione fiscale della società estera che li ha prodotti e quella del socio percettore”. La circolare n. 42 del 12 dicembre 1981 chiariva del resto che “non potrà ritenersi soddisfatta la predetta condizione, richiesta ai fini del riconoscimento della detrazione del tributo estero, ove detto tributo sia stato pagato a titolo di acconto, in via provvisoria oppure, in generale, se ne è previsto il conguaglio con possibilità di rimborso totale o parziale. Sarà, ovviamente, necessario allegare alla dichiarazione dei redditi nella quale si fa valere il diritto al credito d'imposta un'idonea documentazione atta a comprovare la definitività del pagamento”. Sul punto v. Mayr, La disciplina del credito di imposta per i redditi esteri, parti I, II e III, rispettivamente in Boll. Trib., 2005, 741, 2006, 725 e 2007, 1253, nonché le altre istruzioni di prassi ivi richiamate al par. 3.5. Stesso approccio sostanzialista parrebbe emergere dal Commentario Ocse all’art. 23B del Modello di convenzione contro le doppie imposizioni, laddove si fa riferimento alla “tax effectively paid” o “actually paid”. Per quanto non vi siano indicazioni chiare, pertanto, si potrebbe anche ritenere che la restituzione della ritenuta a soggetti pur diversi dal cessionario a pronti italiano sia idonea a pregiudicare il requisito di definitività del pagamento richiesto ai fini dell’accreditamento. 130 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE di fatto del cespite produttivo del reddito12, e se comunque si fosse ritenuta come pagata l’imposta estera, prima di addentrarsi nella valutazione di possibili profili di abuso del diritto13 occorre trattare altre due questioni e precisamente: 1) quella della eventuale interposizione della Banca italiana nel possesso dei titoli e 2) quella della riqualificazione giuridica delle operazioni in esame. *** In merito al primo aspetto14, stando a quanto emerge dalla sentenza, i giudici avrebbero forse avuto spazio per confermare la sussistenza di un accordo trilatero che sorreggeva il tax product acquistato dalla Banca ricorrente, la quale nello stesso istante in cui sottoscriveva l’acquisto dei titoli concludeva anche lo swap con il terzo, appartenente al medesimo gruppo societario dell’emittente: ciò, quantomeno, in relazione alla operazione n. 3, conclusa dalla società controllata dalla Banca consolidante ricorrente con un soggetto collegato all’emittente dei titoli15. La stessa sentenza sul punto accenna a una possibile interposizione quando afferma che l’operazione “non aveva, infatti, altro scopo che quello di permettere ad un soggetto di beneficiare indirettamente di un credito di imposta senza che ne avesse diritto”. Diversamente da quanto detto in riferimento al possesso del mero reddito, infatti, qui si esamina la possibile interposizione della Banca nel possesso della fonte produttiva (i.e. i titoli) e quindi anche del reddito; un possesso strumentalmente collocato in capo ad essa per poi ribaltarne gli effetti 12 In effetti, per quanto vista la contestualità delle operazioni la distinzione sia sottile, il fatto che la titolarità del reddito sia stata alienata dalla Banca per via negoziale non fa che confermare il suo possesso del reddito, seppur solo per lo spazio di un istante: V. Paparella, op. cit., pp. 142 e ss. 13 La Rosa, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, 931, afferma che il concetto di abuso mal si attaglia alla formazione e all’indebito abbattimento dell’obbligazione tributaria, in quanto piuttosto relativo a posizioni giuridiche attive, come diritti, poteri e facoltà, mentre in campo tributario è più corretto far riferimento alla elusione degli obblighi fiscali. Sull’abuso nel diritto tributario internazionale v. il contributo di Pistone in V. Uckmar (a cura di), Diritto tributario internazionale, Padova, 2005, 813. 14 V. Paparella, op. cit., p. 168, secondo il quale “sono da escludere forme di interposizione nel “possesso di redditi”, in quanto le conclusioni prospettate consentono di affermare che l’unica interposizione rilevante è quella relativa alla fonte”. 15 Ma simile conclusione era forse possibile anche in relazione ad altre operazioni dove la controparte del pronti contro termine e dello swap coincidevano o erano comunque soggetti collegati. Sulla possibilità di ricorrere alle presunzioni nell’ambito delle contestazioni di interposizione fittizia di persona v. di recente la sentenza 4737 del 26 febbraio 2010 della Corte di Cassazione (in Corr. Trib., 2010, 1347, con nota di Beghin), relativa al caso di una simulazione al contempo soggettiva e oggettiva contestata ad un calciatore che era accusato di aver interposto una società irlandese nella percezione di redditi per lo sfruttamento della sua immagine che in realtà costituivano una integrazione del suo salario di sportivo, da tassarsi alla stregua dei redditi di lavoro dipendente. 131 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE sull’interponente attraverso lo swap16. La questione si pone quindi in termini diversi rispetto a quella relativa agli effetti della semplice sottoscrizione di uno swap sul reddito di un titolo. E la differenza principale sta evidentemente oltre che nel collegamento tra l’acquisto dei titoli e lo swap anche e soprattutto nella pianificazione di tale complessiva operazione, pianificazione condivisa con la controparte del pronti contro termine e dello swap e, nella terza operazione, anche con l’emittente dei titoli, con il fine di imputare formalmente il possesso della fonte produttiva del reddito in capo a un soggetto che avrebbe beneficiato degli accessori fiscali relativi (i.e. del credito di imposta), salvo poi rimanere tassato soltanto sul (minore) differenziale percepito in base allo swap17. Diversamente dalla pura e semplice sottoscrizione di uno swap, infatti, nel caso concreto si ipotizza che la controparte della cessione dei titoli e quella dello swap coincidessero, e comunque fossero compartecipi, insieme all’emittente, del disegno mirante a far ottenere alla Banca il “vantaggio fiscale” contestato dall’Amministrazione e alla controparte la restituzione delle ritenute inglesi. Non si hanno chiaramente a disposizione gli elementi di fatto per emettere un giudizio su questi aspetti nel caso specificamente esaminato dalla CTP di Reggio Emilia, ma la motivazione lascia appunto immaginare che almeno in relazione alla terza operazione, nonostante la separazione giuridica che occorre mantenere e 16 V. al riguardo il passo della sentenza secondo cui “Lo swap, più che tutelarle dall'eventuale insolvenza dell'emittente, da rischi su cambi o sulla variazione del prezzo dei titoli, privava radicalmente di ragione economica l'acquisto dei bond brasiliani”. E parimenti importanti anche per la qualificazione dell’operazione come abusiva, paiono i passaggi successivi, per cui “A questo punto non può non sorgere l'interrogativo sulla ragione che ha spinto l'istituto a stipulare l'acquisto dei titoli: e la risposta è assolutamente semplice. Se le cedole fossero state percepite direttamente da C. questa non avrebbe avuto diritto a nessun credito d'imposta figurativo; al contrario, solo tramite l'intervento di Cr. è stato possibile ottenere tale risultato. Indipendentemente dalla qualificazione che dell'operazione venga data (pronti contro termine, riporto, pegno, etc.), essa ha determinato un aggiramento della disposizione dell'art. 165 Tuir nella misura in cui prevede che il credito d'imposta nazionale venga concesso entro il limitedell'imposta italiana ritraibile dal reddito estero, dal momento che l'operazione contestata ha determinato la fruizione del credito d'imposta nazionale pur non producendo alcun effetto reddituale e quindi impositivo in Italia. L'operazione è stata posta in essere solo per beneficiare del credito d'imposta figurativo cui C. non aveva diritto, vista l'assenza di una Convenzione Brasile/UK. Cr. non ha effettuato alcun investimento in Brasile, dal momento che, l'intero rischio dell'operazione nonché i connessi benefici - sono imputabili a C. Ciò che caratterizza l'investimento è il rischio che la parte si assume: nel caso che si discute su Cr. non grava il rischiopaese, ma il rischio cedente, cioè C. Ne consegue che Cr. non ha investito in Brasile, ma in C. Cr. quindi, non ha diritto al beneficio convenzionale per gli investimenti effettuati in Brasile”. 17 Diverso sarebbe il caso di operazioni effettuate sul mercato e quindi con controparti della cessione titoli e dello swap diverse e non consapevolmente compartecipi dell’arbitraggio fiscale. In questo senso pare esprimersi Lupi, Simmetrie fiscali e legittimità sistematica della deduzione di minusvalenze a fronte di dividendi esenti, in Dial. Dir. Trib., 2007, 1012-1016. 132 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE ribadire tra società che fanno capo ad un unico gruppo, l’architettura implicasse sin dall’inizio la consapevole partecipazione sia della controparte che aveva sottoscritto il pronti termine e lo swap con la Banca, sia del soggetto emittente18. E certamente questo varrebbe ancor di più, almeno dal punto di vista indiziario, in quei casi ove per esempio fosse dimostrato che i titoli portavano il pagamento di cedole cospicue, volutamente incrementate perché in tal modo si sarebbe massimizzato il vantaggio fiscale per la Banca19. Anche qui, tuttavia, il discorso torna circolarmente alla effettività del pagamento a titolo definitivo della ritenuta, perché se tale ritenuta era stata davvero sopportata dall’acquirente a pronti egli aveva ogni diritto di godere del relativo credito di imposta, non risolvendosi l’interposizione in alcun vantaggio supplementare per questo soggetto (salvo quanto si dirà sulla deduzione del manufactured dividend e, soprattutto, sui profili elusivi), almeno sinché si ammette che il credito deve essere riconosciuto sull’imposta applicata sul pagamento lordo e senza tener conto dei costi di produzione 20. *** Anche nella seconda ipotesi, consistente nella riqualificazione per via interpretativa dei contratti che, pur distinti, parevano in realtà avere una causa unitaria (così la stessa motivazione della sentenza), si sarebbe giunti a contestazioni di evasione fiscale e non di elusione, come del resto avviene anche nelle fattispecie di frazionamento del contratto di cessione di azienda per sottomettersi all’Iva ed evitare invece l’imposta di registro e l’imposizione dell’avviamento 21. A questo riguardo pare utile richiamare una risoluzione dell’Agenzia delle Entrate del 24 luglio 2006 nella quale, proprio in riferimento all’acquisto a pronti di alcune partecipazioni si concluse quanto segue. In quella occasione, la banca italiana istante aveva acquistato a pronti presso una controparte residente nel Regno Unito alcune partecipazioni in società americane e 18 Sulla necessità che il terzo non sia meramente consapevole del pactum fiduciae tra l’interposto e l’interponente, ma che vi partecipi attivamente v. Paparella, op. cit., pagg. 275-276, anche per i richiami giurisprudenziali. Da ultimo ancora su questi aspetti v. Cass., 4737 del 2010, cit., con nota di Beghin; in relazione alle operazioni infragruppo, v. Fransoni, Abuso di diritto, elusione e simulazione: rapporti e distinzioni, in Corr. Trib., 1/2011, 18-19. V. inoltre Cass., 3979 del 3 aprile 2000, in Dir. prat. trib., 2000, II,1346, con nota di Bardinu e commentata anche da Paparella in Banca Dati Fisconline. V. anche Lovisolo, cit. 19 Senza scendere nella valutazione di merito della congruità dei ritorni derivanti dalle operazioni esaminate rispetto alle condizioni di mercato, stando a Foti, op. cit., potrebbe in effetti sembrare il caso di alcune operazioni per certi versi simili a quelle in esame, che portavano il pagamento di cedole pari al 40/50 per cento del capitale investito: v’è peraltro da tenere in considerazione che i rischi legati a queste operazioni erano di varia natura, incluso quello legato alla valuta, e ciò potrebbe in astratto giustificare cedole apparentemente più alte del normale, ma in realtà in linea con i rischi, consistenti, della specifica operazione intrapresa. 20 V. supra nota 9. 21 La Rosa, cit. 133 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE chiedeva all’Amministrazione di poter portare in detrazione ai sensi dell’art. 165 Tuir le ritenute alla fonte del 30 per cento subite negli Stati Uniti. Si noti che la misura della ritenuta applicata negli USA eccedeva quella applicabile in base alla convenzione con l’Italia allora vigente (10 per cento), ma ciò era dovuto alla impostazione americana per cui l’acquirente a pronti, benché fosse esclusa ogni retrocessione di manufactured dividend, non poteva considerarsi quale beneficiario effettivo dei dividendi, con la conseguenza che non trovavano applicazione le aliquote ridotte previste dalla convenzione contro le doppie imposizioni conclusa tra l’Italia e gli Stati Uniti 22. L’unico credito per le imposte estere di cui la banca avrebbe potuto beneficiare secondo l’Agenzia era quello relativo alle ritenute eventualmente applicate in Inghilterra sul corrispettivo finanziario del pronti contro termine. Questa interpretazione si fondava sull’art. 94, comma 2, Tuir, ai sensi del quale, anche ai fini fiscali, il pronti contro termine deve essere considerato alla stregua di una operazione di finanziamento, con la conseguenza che i titoli comperati a pronti restano di proprietà del cedente a pronti. Seguendo tale impostazione anche nel caso esaminato dalla sentenza in commento l’operazione rilevante ai fini fiscali per la Banca sarebbe stata quella con la controparte del pronti contro termine e non quindi lo Stato brasiliano o le società emittenti i titoli. Ne sarebbe conseguito il disconoscimento di ogni credito di imposta applicato sui flussi di dividendi o interessi pagati dai titoli, posto che la fonte di tali redditi doveva piuttosto che ai titoli ricondursi al finanziamento erogato dalla Banca alla controparte del pronti/termine con annesso swap. E’ evidente peraltro che tale disconoscimento non si sarebbe basato sulla clausola generale antielusiva o analoghi principi, bensì sulla diversa applicazione delle disposizioni tributarie alla fattispecie concreta, con quanto ne consegue in termini di oneri procedimentali e, fatta salva l’incertezza interpretativa, applicabilità delle sanzioni. 22 Inoltre, l’Agenzia delle Entrate rispose in quella occasione che il dividendo percepito dalla banca italiana doveva in realtà essere considerato alla stregua degli interessi ex art. 89, comma 6, Tuir, essendo tale reddito prodotto non tanto dalla partecipazione nella società americana quanto piuttosto dalla operazione finanziaria conclusa con la controparte inglese. Questa risoluzione pare tuttavia criticabile per il fatto che nonostante dopo la riforma Ires del 2004 il sistema di tassazione dei dividendi non fosse più improntato sull’imputation system/credito d’imposta, era comunque vigente l’art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997, secondo il quale i dividendi percepiti dall’acquirente a pronti dovevano essere tassati in capo allo stesso e potevano godere del relativo credito d’imposta se ciò fosse stato applicabile anche per il cedente a pronti: la norma aveva chiaramente lo scopo antielusivo di impedire al cedente a pronti di ottenere comunque, indirettamente, il credito di imposta che invece gli era negato dalla legge. V. la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 1/E del 19 gennaio 2007, par. 8, relativa all’aggiornamento dell’art. 2, comma 3, citato al nuovo meccanismo di tassazione dei dividendi introdotto con la riforma Ires. V. anche, nel senso della possibile sopravvivenza dell’art. 2, comma 3, citato anche dopo la riforma Ires e prima del suo adattamento, Assonime, circ. 14 luglio 2004, n. 32, par. 6.2. 134 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE Occorre tuttavia approfondire il ragionamento sul citato art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997, perché la risoluzione appena richiamata intervenne nel luglio 2006, prima quindi che la disposizione fosse aggiornata per adeguarla alla riforma Ires e alle nuove regole di tassazione dei dividendi 23. Si potrebbe quindi dedurre che prima dell’aggiornamento, intervenuto ad opera del d.l. 3 ottobre 2006, n. 262, l’Agenzia ritenesse non operante l’art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997, proprio in quanto obsoleto rispetto alla abolizione del credito di imposta avvenuta con la riforma Ires 24. E d’altra parte, come chiarito anche dalla circolare 1/E del 2007, conforterebbe questa interpretazione l’art. 2, comma 20, del d.l. 262/2006, secondo il quale la novella legislativa doveva applicarsi ai contratti stipulati dopo il 3 ottobre 2006. La questione tuttavia, come detto, non è pacifica, posto che il principio che reggeva la versione dell’art. 2, comma 3, introdotto in costanza del sistema di tassazione dei dividendi previgente la riforma del 2004 poteva comunque ritenersi valido, mutatis mutandis, anche in relazione al nuovo sistema di parziale esclusione dei dividendi dalla formazione della base imponibile Ires. E non può dimenticarsi che era comunque vigente, per gli interessi, l’art. 89, comma 6, tuir, che in relazione ai contratti di pronti contro termine li imputa al cessionario a pronti nella misura maturata in costanza del contratto. Per completare le basi del ragionamento occorre infine ricordare che l’art. 7quater, comma 4, del d.l. n. 5 del 10 febbraio 2009 ha ulteriormente modificato l’art. 2, comma 3, che oggi recita “Nel caso dei rapporti di cui alle lettere g-bis) e g-ter) del comma 1 dell’articolo 44 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, e delle operazioni che producono analoghi effetti economici, al soggetto cui si imputano i dividendi, gli interessi e gli altri proventi, si applica il regime previsto dall’articolo 89, comma 2, del medesimo testo unico, e successive modificazioni, ovvero spettano l’attribuzione di ritenute o il credito per imposte pagate all’estero, soltanto se tale regime, ovvero l’attribuzione delle ritenute o il credito per imposte pagate all’estero, sarebbe spettato al beneficiario effettivo dei dividendi, degli interessi e degli altri proventi”. Ai sensi dell’art. 7quater del d.l. 5/2009, peraltro, “Per le operazioni effettuate anteriormente alla data di entrata in vigore delle modifiche apportate dal comma 4, resta ferma la potestà dell’Amministrazione di sindacarne l’elusività fiscale secondo la procedura di cui all’articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni”. La nuova disposizione si interessa quindi di disciplinare, oltre alla imputazione del dividendo ai fini impositivi, anche l’imputazione degli accessori tributari relativi a quel dividendo e pertanto ritenute e crediti di imposta ad esso relativi, prevedendo una regola analoga a quella del primo 23 Anche per il caso in esame, riguardando esso il periodo di imposta 2004, non era chiara la possibilità di applicare comunque l’art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997. 24 Contra v. invece come detto Assonime, circ. 32 del 2004, par. 6.2, più possibilista in ordine alla sopravvivenza della disposizione anche prima del suo aggiornamento ad opera del d.l. 262 del 2006. 135 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE periodo della disposizione, secondo il quale tali accessori devono imputarsi all’acquirente a pronti, a patto che essi fossero accessibili anche al cedente a pronti/acquirente a termine, espressamente qualificato come il beneficiario effettivo dei dividendi. Diversamente, essendovi il rischio di manovre elusive per lo sfruttamento di arbitraggi, crediti e ritenute non potranno essere riconosciuti nemmeno all’acquirente a pronti, salva l’eventuale presentazione di un interpello disapplicativo ai sensi dell’art. 37bis, comma 8, d.p.r. 600/1973. Se il caso deciso dalla CTP di Reggio Emilia si ripresentasse oggi, pertanto, la Banca italiana non potrebbe avvantaggiarsi del matching credit previsto dalla convenzione Italia-Brasile, dal momento che il cedente a pronti era un soggetto residente in Inghilterra, che mai avrebbe potuto godere di tale credito nozionale, appunto disciplinato dalla convenzione Italia-Brasile25. Allo stesso modo dovrebbe probabilmente rispondersi per le altre due operazioni contestate alla Banca italiana: se esse fossero state realizzate sotto la vigenza della nuova disposizione le sarebbero stati negati i crediti per le ritenute (eventualmente) subite in Inghilterra in relazione a dividendi e cedole pagati da società inglesi; la controparte del pronti contro termine, infatti, anch’essa inglese, non avrebbe potuto utilizzare alcun credito d’imposta ai fini della tassazione in Italia26. E allo stesso modo il dividendo avrebbe dovuto, in linea di principio, essere tassato per l’intero, dal momento che la controparte del pronti termine non avrebbe potuto godere dell’esclusione di cui all’art. 89, comma 2, tuir, salvo appellarsi – nonostante la differenza del caso - alla giurisprudenza comunitaria che ha indotto l’introduzione dell’art. 27, comma 3ter, d.p.r. 600/197327. Come si vede, l’effetto sostanziale dell’art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997 è infine simile a quello ottenuto con l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate nell’interpello del 2006 prima citato: i componenti positivi di reddito percepiti dalla Banca italiana devono essere tassati per l’intero (secondo quella impostazione ai sensi dell’art. 89, comma 6, avendo essi natura intrinseca di interessi da finanziamento, secondo questa quali dividendi che non godono della esclusione da tassazione del 95 per cento del loro ammontare). In un caso come quello affrontato dalla CTP di Reggio Emilia, peraltro, questo totale concorso alla formazione della base imponibile 25 La questione non cambia oggi dopo la modifica dell’art. 83 Tuir in relazione ai soggetti IAS, posto che anche per essi, ai sensi dell’art. 3, comma 3, d.m. 1° aprile 2009, n. 48, deve darsi prevalenza alla forma giuridica delle operazioni di pronti contro termine e simili per quanto concerne l’attribuzione di crediti di imposta e ritenute e che ai sensi del successivo comma 4 deve comunque applicarsi l’art. 89, comma 6, tuir. V. Agenzia delle Entrate, circ. 7/E del 28 febbraio 2011, par. 4.4. 26 In questo senso v. Mignarri, Le novità antielusive sulle stock option e sui contratti pronti contro termine, in Bancaria, 2007/6, 38 e in Fisconline, nonché DragonettiPiacentini-Sfondrini, Manuale di fiscalità internazionale, Milano, IVa ed., 2010, pag. 638 e Trabucchi, op. cit., 1008. Sul fatto che i rischi di elusione fiscale attraverso contratti finanziari si annidino più che altro nelle operazioni con controparti non residenti v. già Assonime, circ. 13 del 2006, cit., par. 3.1.2. 27 Corte di Giustizia, Commissione c. Italia, C-540/07 del 19 novembre 2009. 136 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE dovrebbe poi essere bilanciato dalla deducibilità del manufactured dividend retrocesso alla controparte (v. infra in merito all’art. 109, comma 8, tuir)28. E allo stesso modo nessun credito potrebbe essere riconosciuto alla Banca per quanto concerne eventuali ritenute (effettive o nozionali) subite sui pagamenti dei dividendi o delle cedole dei titoli acquistati a pronti, essendo semmai possibile portare in detrazione quelle patite sugli interessi pagati in forza del pronti termine dalla controparte di tale contratto. Ciò detto, pur a fronte delle cospicue probabilità di arbitraggi e asimmetrie tra gli ordinamenti, parrebbero profilarsi, a causa dell’art. 2, comma 3, possibili contrasti con l’art. 24 del modello Ocse, che impone il divieto di discriminazione, così come con i principi di diritto comunitario, che mal sopportano una chiusura automatica come quella operata dal sistema attualmente in vigore, pur fondata su esigenze di tutela della base imponibile29. Ad ogni modo, a parte la peculiare e discutibile presa di posizione dell’Agenzia delle Entrate nella risoluzione del 2006 30, può dirsi in 28 Sostengono correttamente la deducibilità del manufactured dividend Assonime, circ. 32 del 2004, cit, par. 6.2 e circ. 13 del 21 aprile 2006, oltre a Trabucchi, La rilevanza fiscale del manufactured dividend - brevi riflessioni de jure condito e de jure condendo, in Dialoghi di diritto tributario, 2007, 1008 e 1011, ricordando che tale flusso reddituale è (normalmente) interamente imponibile in capo al percettore. V. in particolare la circ. 13 del 2006 cit. alla nota 81 per una critica all’art. 109, comma 8, tuir. 29 Avanza dubbi di compatibilità con il diritto UE Trabucchi, op. cit., 1008. In ambito Iva una conclusione per la legittimità delle operazioni – effettivamente realizzate – che sfruttano la mancata completa armonizzazione degli ordinamenti Iva dei Paesi UE è stata raggiunta dalla Corte di Giustizia con le sentenze del 22 dicembre 2010, C277/09, RBS Deutschland Holdings e 103/09, Weald Leasing Ltd. Al riguardo rinvio a Zizzo, L’elusione tra ordinamento nazionale ed ordinamento comunitario: definizioni a confronto e prospettive di coordinamento, in Maisto (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009. In tema di arbitraggi fiscali e loro legittimità nel contesto internazionale v. da ultimo Manca, L’arbitraggio fiscale internazionale e l’ordinamento italiano, in Dir. prat. trib. int., 2010/3, 1233. 30 Discutibile non perché irragionevole in assoluto, ma perché contraria all’impostazione del sistema tributario risultante dall’art. 89, comma 6, tuir (pur relativo ai soli interessi) e dall’art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997 (pur bisognoso, a quel tempo, di aggiornamento alla riforma Ires): impostazione di sistema poi “confermata” a partire dal 3 ottobre 2006, dal nuovo art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997; si tenga inoltre presente, sempre in questo senso, che l’art. 7quater, comma 4, del d.l. 5/2009 ha ribadito che anche per il passato i crediti e le ritenute dovevano imputarsi all’acquirente a pronti, salvo il sindacato di elusività dell’operazione. Una questione potrebbe sorgere su quanto a ritroso il legislatore abbia inteso estendere (rectius, confermare) il suddetto sindacato di elusività: in particolare, ci si potrebbe domandare se il periodo tra il 2004 e la novella del 2006 sia ricompreso nella conferma di sindacabilità elusiva o invece non vi si sottragga, perché in tale periodo il sistema doveva intendersi fondato su un regime di qualificazione giuridica delle operazioni di pronti contro termini come quello delineato dalla descritta risoluzione dell’Agenzia delle Entrate del luglio 2006. Ritengo peraltro che ciò sia da escludere alla luce del contesto normativo complessivo, vista anche la pur tardiva conferma nel 2006 137 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE conclusione che il sistema già allora prevedesse l’imputazione di redditi e crediti di imposta all’acquirente a pronti, escludendo riqualificazioni come quella operata nella citata risoluzione. Come detto, peraltro, la novella ha fatto salva l’applicazione della disposizione antielusiva di cui all’art. 37bis per le fattispecie pregresse. Questo inciso inserito dal legislatore stesso induce quindi a considerare davvero soggette al sindacato di elusività – una volta esaurite le verifiche preliminari di cui sopra - anche le operazioni in questione, relative al periodo di imposta 2004, se lo stesso legislatore ha insistito nel precisare che eventuali manovre tese ad attribuire all’acquirente a pronti crediti e ritenute non spettanti al cedente a pronti potevano già essere attaccate dall’Amministrazione con l’art. 37bis31 32. Occorre infatti rimarcare che il punto centrale dell’art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997 consiste nel ribadire che, nonostante la causa di finanziamento del pronti contro termine e di contratti analoghi e nonostante l’irrilevanza della cessione ai fini della tassazione (art. 94, comma 2, tuir), i dividendi devono essere imputati fiscalmente al cessionario a pronti, nonostante egli non ne sia l’effettivo beneficiario, come confermato dalla versione della disposizione risultante dalla modifica del 200933. Questa scelta si giustifica con il sistema di tassazione “formalistica” dei dividendi, che volta per volta e per cassa sono tassati in capo al socio che detiene, allo stacco della cedola, la partecipazione, a prescindere – in linea di principio - da eventuali obblighi di retrocessione del manufactured dividend. Quando il caso concreto si presti a possibili arbitraggi, per via del diverso trattamento applicabile al cedente a pronti rispetto a quello previsto per l’acquirente, entra oggi in funzione la dell’impianto dell’art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997, nei tratti essenziali che già lo caratterizzavano fino alla riforma Ires del 2004. 31 Sulla cautela che deve guidare il giudice nell’applicazione della clausola antielusiva v. da ultimo Cass., 21 gennaio 2011, n. 1372, ove peraltro anche un accenno alla distinzione tra le operazioni di riorganizzazione societaria e aziendale (da rispettarsi maggiormente) rispetto a quelle puramente finanziarie: la sentenza è pubblicata con il commento critico di Stevanato in Corr. Trib., 9/2011, 673 e ss. 32 Al riguardo v. di recente la circolare 32/E dell’8 luglio 2011, secondo la quale, in relazione alle istanze di rimborso connesse all’applicazione della ritenuta ridotta sui dividendi ai sensi dell’art. 27, comma 3ter, d.p.r. 600/1973, “La seconda fattispecie [di costruzione di puro artificio] attiene al caso in cui la società percettrice dei dividendi abbia acquistato il titolo, da cui i medesimi dividendi provengono, tramite operazioni di trasferimento temporaneo consistenti nell’acquisto delle azioni cum cedola e nella successiva retrocessione delle medesime azioni ex cedola e, esplicitamente o implicitamente, dei relativi frutti (manufactured dividend) a vantaggio di una identificata controparte non legittimata a godere del trattamento fiscale dei dividendi intracomunitari. Nel caso in cui emergano i suddetti elementi, si procederà al disconoscimento della condizione oggettiva di accoglimento dell’istanza sulla base dell’interesse generale a contrastare le frodi fiscali”. 33 Nello stesso senso si v. anche la relazione governativa al d.lgs. 416/1994; la risoluzione del Ministero delle finanze, n. 306/E del 23 dicembre 1996; le istruzioni alla dichiarazione dei redditi emanate a partire dal 1994; la relazione governativa al d.lgs. 461/1997 e la già citata circolare 1/E del 2007 dell’Agenzia delle Entrate. 138 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE disposizione antielusiva specifica, che nega l’esclusione da tassazione del dividendo e la fruizione dei crediti per le imposte pagate all’estero. La disciplina ordinaria, invece, leggendo a contrario l’articolo 2, comma 3, prevede che dividendi crediti e ritenute siano imputati proprio all’acquirente a pronti, e ciò anche per le fattispecie pregresse. Di qui la necessità avvertita dal legislatore, in assenza di valide ragioni economiche, di ricorrere – per il passato – piuttosto che a una riqualificazione della operazione alla stregua di quanto effettuato dalla risoluzione 24 luglio 200634, alla clausola antielusiva di cui all’art. 37bis35, a torto ritenuta già in astratto inapplicabile dal collegio reggiano perché i contratti derivati di swap non rientrerebbero tra le operazioni suscettibili di contestazione in quanto estranei all’art. 67, comma 1, lett. c-ter, Tuir. Dimentica infatti il Collegio giudicante che la lettera f) dell’art. 37-bis, comma 3, si riferisce alle operazioni aventi ad oggetto i beni e i rapporti di cui all’art. 67, comma 1, lettere da c) a c-quinquies), del testo unico, e quindi a tutti i derivati, ivi inclusi anche gli swap, e alle cessioni di partecipazioni e titoli, anche in dipendenza di contratti a termine. Qui si apre però il tema della applicabilità della clausola antielusiva anche agli arbitraggi internazionali. Sulla possibilità di ricorrere al principio generale dell’abuso del diritto per sbarrare la strada agli arbitraggi fiscali internazionali, infatti, potrebbero sorgere legittimi dubbi a seguito di quanto, pur in ambito Iva, statuito dalla Corte di Giustizia nelle sentenze del 22 dicembre scorso36. Sin tanto che permane una distinzione tra sistemi tributari che non sono minimamente armonizzati, infatti, si potrebbe anche sostenere che gli effetti tributari ottenuti in un Paese non dovrebbero influenzare la valutazione della legittimità di una operazione ai fini dell’altro sistema tributario37. La lettera della norma non lascia tuttavia lo spazio per tracciare una distinzione tra arbitraggi domestici e internazionali. E arriviamo quindi alla valutazione di elusività delle operazioni in esame. La questione sorge nella misura in cui da un lato si consideri come assolta in via definitiva l’imposta estera agli effetti dell’art. 165 tuir e dall’altro risulti che la controparte del pronti termine beneficiava di uno speculare rimedio contro la doppia imposizione: in questo caso, effettivamente, saremmo di fronte a un arbitraggio fiscale internazionale. Discorso solo in parte diverso vale per l’operazione n. 1, ove già ab origine il sistema brasiliano non prevedeva l’applicazione di ritenute e il matching credit avrebbe potuto essere goduto soltanto da un residente italiano in base 34 Questa possibilità di riqualificazione è infatti smentita proprio dal nuovo art. 2, comma 3, d.lgs. 461/1997, che conferma l’imputazione delle cedole al cessionario a pronti, confermandone anche la natura (di dividendi o interessi, a seconda dei casi). 35 Si noti la tempistica dell’introduzione dell’art. 7quater, comma 4, citato, che segue di poco l’accertamento di pratiche simili a quelle in esame: v. supra sub nota 2. La disposizione è stata introdotta con d.l. 10 febbraio 2009, n. 5. 36 V. supra nota 29. 37 Con riferimento alla rilevanza del pagamento delle imposte estere per l’art. 37bis, v. Ludovici, La rilevanza dei tributi esteri ai fini dell’art. 37bis del d.p.r. 600/1973, in Maisto (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009. 139 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE alla convenzione bilaterale Italia-Brasile. Non risulta infatti dalla decisione se il Brasile considerasse davvero la Banca italiana quale beneficiario effettivo degli interessi e se pertanto la stessa potesse a buon diritto reclamare il tax sparing credit convenzionale: ove così non fosse, un’altra volta, il contribuente avrebbe illegittimamente reclamato il credito d’imposta. Ipotesi di routing simili a quelle della fattispecie relativa ai titoli brasiliani sono peraltro state oggetto di attenzione anche nel citato Rapporto Ocse sul tax sparing del 1998. In relazione ad esse, in effetti, anche ove fosse confermata la spettanza formale del matching credit parrebbe doversi confermare la possibilità di attuazione di un sindacato antielusivo, tanto più stringente nel momento in cui si valuti la legittimità di operazioni finanziarie 38. In tutti e tre i casi, il profilo più discutibile delle operazioni in esame è stato comunque quello di giocare sulla rilevanza del pagamento lordo ai fini del credito per le imposte estere, effettivo o nozionale, unitamente, per le operazioni nn. 2 e 3, al recupero della ritenuta estera in capo alla controparte: lì ha colpito la contestazione di elusività mossa dall’Amministrazione, facendo leva sulla pianificazione dell’operazione, sulla consapevole partecipazione da parte della Banca italiana e sulla contestualità dell’operazione attiva e di quella che abbatteva il reddito imponibile in Italia. 3 Sulla negata deduzione del manufactured payment Quanto alla negata deduzione dei costi sostenuti dalla Banca in dipendenza dei contratti in questione, consistenti nella retrocessione alla controparte inglese del manufactured dividend e del manufactured interest, la Commissione ha condiviso l’impostazione dell’avviso impugnato, basandosi, per il manufactured dividend, sull’art. 109, comma 8, tuir e per il manufactured interest sul difetto di inerenza. Per le operazioni su partecipazioni, la soluzione si è fondata sull’equiparazione dell’assetto contrattuale stabilito dalle parti con il pronti termine e lo swap a quello di un diritto analogo al diritto di usufrutto, espressione utilizzata proprio dall’art. 109, comma 8. In dottrina si è sostenuto che questa disposizione dovrebbe essere utilizzata per impedire il verificarsi di arbitraggi fiscali, precisando però che tali arbitraggi dovrebbero essere quelli tra la posizione fiscale del cedente le partecipazioni, eventualmente avvantaggiatosi del regime PEX, e quella dell’acquirente a pronti/usufruttuario che porterebbe in deduzione il costo del diritto in questione. L’Agenzia delle Entrate ha invece chiarito che “la limitazione alla deducibilità del costo del diritto di usufrutto non si rende applicabile nell’ipotesi in cui la cessione del diritto di usufrutto o di altro diritto analogo non comporti anche il trasferimento della titolarità dei dividendi agli effetti fiscali” (circ. 26/E del 16 giugno 2004), con ciò ribadendo che la indeducibilità, come da lettera della disposizione, è collegata alla parziale esclusione dal prelievo sugli utili, e non al regime applicabile al cedente. 38 In tal senso, come detto sub nota 32, Cass., 1372/2011, cit. 140 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE Nel caso di specie il costo da sterilizzare ai fini fiscali è stato considerato essere il manufactured payment, perché senza tale restituzione giammai la controparte avrebbe acconsentito all’operazione. Non si comprende in realtà, nel caso in commento, se il diniego della deduzione fosse ancorato al fatto che i dividendi avevano concorso solo in parte alla tassazione italiana per effetto dell’art. 89, commi 2 e 3, tuir, ovvero al fatto che il manufactured dividend non fosse poi tassato nel Regno Unito. Ricorrevano infatti entrambe le condizioni. Più che alla solo parziale concorrenza a tassazione dei dividendi percepiti dalla banca, però, l’asimmetria, come sottolineato dalla dottrina 39, sembrerebbe doversi riferire alla mancata tassazione del manufactured payment nelle mani della controparte, dal momento che la legislazione inglese considerava questo pagamento alla stessa stregua del dividendo, già da subito imputabile alla controparte inglese della banca italiana 40. Tant’è, però, il testo dell’art. 109, comma 8, è chiaro e difficilmente si potrà indurne una interpretazione differente, vista anche la analogia della ratio antielusiva di questa disposizione rispetto a quelle di cui ai commi 3bis e ss., che sterilizzano le operazioni di dividend washing41. Ancorare la indeducibilità del manufactured payment alla solo parziale concorrenza a tassazione del dividendo sottolinea comunque una contraddizione in relazione alla – parimenti negata – deduzione del manufactured interest. Applicare l’art. 109, comma 8, infatti, pare confermare implicitamente l’inerenza del costo/manufactured dividend, connesso appunto alla percezione di utili parzialmente esclusi dal prelievo e pertanto, in assenza della disposizione in esame, deducibile. Come si può allora, in relazione a titoli obbligazionari che però sono oggetto della medesima tipologia di operazioni, negare che il manufactured interest retrocesso alla controparte sia inerente? In queste ipotesi, in cui in primo luogo gli interessi maturati in capo alla banca italiana sono stati tassati in Italia per l’intero ai sensi dell’art. 89, comma 6, tuir e in secondo luogo il manufactured interest sarà con ogni probabilità comunque tassato anche all’estero non è corretto negare la deduzione alla banca italiana, anche alla luce del già richiamato divieto di discriminazione. Laddove si potessero realizzare, nel caso concreto, arbitraggi fiscali (per esempio legati allo sfasamento tra maturazione ex art. 89, comma 6, e pagamento degli interessi), sarà eventualmente opportuno azionare la clausola antielusiva, piuttosto che affidarsi al difetto di inerenza. 39 V. Assonime, circ. 32 del 2004, par. 6.2, cit. e Trabucchi, op. cit. Sulla disciplina fiscale dei manufactured payments nel Regno Unito v. Manufactured Payments Guidance Notes su www.hmrc.gov.uk/mpgn/index.htm; v. inoltre Foti, op. cit. 41 V. Pacieri-Trabucchi-Lupi, Compravendite di azioni, derivati di copertura ed elusione fiscale sul cd. “dividend washing”, in Dial. Dir. Trib., 2007, 981. 40 141 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE 4 Sulla applicabilità delle sanzioni Sebbene la Commissione abbia ritenuto che nel caso di specie la natura professionale del contribuente e la dettagliata ricerca di un sistema per sottrarsi al pagamento della “giusta” imposta sostenessero l’applicazione delle sanzioni42, è noto che secondo taluni l’unica rettifica conseguente alla contestazione dell’elusione fiscale/abuso del diritto debba essere quella sui tributi aggirati, senza invece poter applicare alcuna sanzione. Questa impostazione, accolta con diverse sfumature anche da giudici supremi 43 e propugnata in dottrina44, si fonda sul fatto che l’elusione fiscale non comporta una violazione diretta del precetto normativo, ma soltanto un suo aggiramento, talché il principio di capacità contributiva e di eguaglianza impongono il ristoro della situazione che si sarebbe avuta in assenza dell’aggiramento. Non potrebbero invece, in assenza di violazioni, applicarsi 42 Anche la CTP di Genova, sez. 13, 24 marzo 2011, n. 133 ha confermato in un caso analogo a quello in esame, l’applicabilità delle sanzioni, nonostante la contestazione si basasse sull’abuso del diritto. 43 La Corte di Giustizia, nella sentenza 21 febbraio 2006, C-255/02, Halifax, al paragrafo 93, ha chiarito che «occorre altresì ricordare che la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre a una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco, bensì e semplicemente a un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni dell’Iva assolta a monte (...)». Al successivo punto 94 la sentenza Halifax ha quindi aggiunto: «ne discende che operazioni implicate in un comportamento abusivo devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato». Analoghe affermazioni si ritrovano anche al punto 56 di un’altra sentenza della Corte di Giustizia, la sentenza 14 dicembre 2000, C-110/99, Emsland-Stärke, richiamata dalla stessa sentenza Halifax: affermano i Giudici comunitari che «contrariamente a quanto affermato dalla Emsland-Stärke, l'obbligo di rimborsare le restituzioni percepite, qualora l'esistenza dei due elementi costitutivi di una pratica abusiva venisse confermata, non violerebbe il principio di legalità. Infatti, l'obbligo di rimborso non costituirebbe una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento giuridico chiaro e non ambiguo, bensì la semplice conseguenza della constatazione che le condizioni richieste per l'ottenimento del beneficio derivante dalla normativa comunitaria sono state create artificiosamente, rendendo indebite le restituzioni concesse e giustificando, di conseguenza, l'obbligo di restituzione». L’Agenzia delle Entrate ha fatto propri i principi espressi da questa giurisprudenza nella circolare 13 dicembre 2007, n. 67. La Corte di Cassazione, invece, non si è sinora espressa nei perentori termini adottati dalla Corte di Giustizia, e ha preferito per il momento limitarsi a disapplicare le sanzioni per il ricorrere, nei casi di contestazioni basate sull’abuso del diritto, di obiettive condizioni di incertezza interpretativa (Cass., 25 maggio 2009, n. 12042, in Giust. civ., 2010, 6, I, 1460). Nonostante in termini estremamente sintetici, peraltro, Cass., 19 maggio 2010, n. 12249, parrebbe ammettere l’applicazione delle sanzioni anche in relazione a fattispecie elusive, così come, pur in relazione a un processo penale e a un provvedimento cautelare, Cass., sez. III pen., 26723 del 7 luglio 2011. 44 V. Maisto (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, e in particolare il contributo di Mucciarelli, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici. 142 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE le sanzioni. Ciò in forza del principio di legalità, ispirato dal diritto penale, cui si rifà l’odierno sistema sanzionatorio tributario. E anche il legislatore tributario pare orientato in questo senso, quando nell’art. 3 del d.lgs. 472 del 1997 afferma che “nessuno può essere assoggettato a sanzione se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione” e nell’art. 2 del medesimo decreto che “le sanzioni amministrative previste per la violazione di norme tributarie sono la sanzione pecuniaria, consistente nel pagamento di una somma di denaro, e le sanzioni accessorie, indicate nell’art. 21, che possono essere irrogate solo nei casi espressamente previsti” (enfasi aggiunta). E si noti che proprio la Relazione di accompagnamento al d.lgs. 358 del 1997 che introdusse la clausola antielusiva di cui all’art. 37bis d.p.r. 600/1973 afferma che “l’elusione avviene nel rispetto della normativa vigente, senza che il contribuente si sottragga agli obblighi di comunicazione e di documentazione di volta in volta previsti (dichiarazione, emissione di documenti, loro conservazione, eccetera). Il concetto di “fraudolenza” 45 è quindi fonte di incertezza tra una concezione “penalistica”, sostanzialmente vanificatrice della norma, e diverse concezioni tributaristiche (fatte proprie anche dal Se.C.I.T.), su cui peraltro la norma non forniva sufficienti indicazioni. E’ stato quindi ritenuto opportuno sostituire l’avverbio “fraudolentemente” con espressioni che rendano meglio il nucleo essenziale dei comportamenti elusivi, cioè l’utilizzazione di scappatoie formalmente legittime allo scopo di aggirare regimi fiscali tipici ottenendo vantaggi che ordinariamente il sistema non consente e indirettamente disapprova: è solo sotto questo particolare profilo che tali vantaggi possono ritenersi “indebiti”, espressione che - nel contesto di una norma antielusione e correlata con il resto di tali disposizioni – non può certo riferirsi a comportamenti esplicitamente vietati dall’ordinamento, per contrastare i quali non c’è certo bisogno di norme di questo tipo”. Tanto è vero questo che lo stesso articolo 37bis si riferisce unicamente alle maggiori imposte accertate, senza mai menzionare la possibilità che dalla sua applicazione consegua l’irrogazione di sanzioni. E’ evidente peraltro che se la sentenza si fosse basata su un impianto motivazionale legato alla evasione d’imposta piuttosto che alla elusione la questione non si sarebbe nemmeno posta, essendo ovvia in tal caso l’astratta applicabilità delle sanzioni46. Laddove tuttavia le ritenute estere fossero 45 Previsto dalla precedente norma antielusiva contenuta nell’art. 10 della legge 408 del 1990. 46 Nelle more della pubblicazione di questo commento, peraltro, la Cassazione è intervenuta sulla questione con la sentenza n. 25537 del 30 novembre 2011, secondo cui “E' nota la esistenza in dottrina di una tesi secondo la quale l'art. 37 bis collocato peraltro nel D.P.R. n. 600 del 1973, nel titolo dedicato ad "accertamenti e controlli" ha natura meramente procedimentale e che pertanto, assumendo che il precetto normativo riguardi solo la Amministrazione, la quale "disconosce" gli atti elusivi dichiarati alla stessa non opponibili dell'art. 1, comma 1, del citato art. 37 bis, porta alla conclusione che il contribuente non abbia alcun obbligo giuridico di non esporre nella dichiarazione dei redditi dati tratti da operazioni suscettibili di essere considerate elusive, in quanto ciò non comporta alcuna violazione specifica di norme tributarie, 143 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE consistendo la elusione in un "aggiramento" e non in una infrazione espressa del precetto di legge. Da tale lettura normativa discende che la dichiarazione dei redditi del soggetto che pone in essere operazioni elusive non può considerarsi infedele, per cui l'unica conseguenza prevista dall'art. 37 bis sarebbe il disconoscimento del vantaggio fiscale cui consegue la tassazione "determinata in base alle disposizioni eluse" (art. 37 bis, comma 2 cit.) e non la applicazione di sanzioni, per le quali, vigendo il principio di stretta legalità tratto dalla normativa in materia penale (D.P.R. n. 472 del 1997) è necessaria una norma che espressamente la preveda. Tale ultima considerazione, certamente condivisibile, porta ad escludere che una sanzione amministrativa in materia tributaria possa essere applicata a fronte della violazione non di una precisa diposizione di legge ma di un principio generale, quale quello antielusivo ritenuto immanente al sistema anche anteriormente alla introduzione di una normativa specifica, come ritenuto da questa Corte (Cass. Sez. Un. n. 30055 del 2008) e dalla giurisprudenza comunitaria. A proposito della quale può rammentarsi che la sentenza "Halifax" citata dalla ricorrente dichiara espressamente che "la constatazione della esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre ad una sanzione per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco". Ad avviso della Corte, tale fondamento normativo "chiaro ed univoco" è attualmente esistente. L'art. 37 bis più volte citato prevede che la Amministrazione, in applicazione del disconoscimento del vantaggio fiscale ritenuto frutto di operazioni elusive, emetta avviso di accertamento, per cui prevede una speciale procedura ed un preciso obbligo motivazionale in relazione al criterio di calcolo delle maggiori imposte. Quanto alle conseguenze di tale atto, il d.lgs. n. 471 del 1997, art. 1, comma 2, recita: "se nella dichiarazione è indicato, ai fini delle singole imposte, un reddito imponibile inferiore a quello accertato, o, comunque, un'imposta inferiore a quella dovuta o un credito superiore a quello spettante, si applica la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento della maggior imposta o della differenza del credito. La stessa sanzione si applica se nella dichiarazione sono esposte indebite detrazioni d'imposta ovvero indebite deduzioni dall'imponibile, anche se esse sono state attribuite in sede di ritenuta alla fonte". Da tale disposizione si evince che la legge non considera per la applicazione delle sanzioni quale criterio scriminante la violazione della legge o la sua elusione o aggiramento, essendo necessario e sufficiente che le voci di reddito evidenziate nella dichiarazione siano inferiori a quelle accertate o siano "indebite" aggettivo espressamente menzionato nell'art. 37 bis, comma 1 cit. In sostanza le sanzioni si applicano per il solo fatto che la dichiarazione del contribuente sia difforme rispetto all'accertamento. Tale conclusione è rafforzata dal testo del comma 6 della stessa disposizione, che prevede che le maggiori imposte accertate siano iscritte a ruolo "secondo i criteri di cui al d.lgs. n. 546 del 1992, art. 68, concernente il pagamento dei tributi e delle sanzioni pecuniarie in corso di giudizio" rendendo così evidente che il legislatore ritiene la applicazione di sanzioni come effetto naturale dell'esito dell'accertamento in materia di atti elusivi. Presupposto di detta applicazione è il dato non contestato della diretta applicabilità alla fattispecie dell'art. 37 bis in relazione all'oggetto dell'accertamento (fusioni societarie, cessioni di quote, minusvalenze e plusvalenze)”. In ambito penale, inoltre, si v. Cass., 26723 del 7 luglio 2011 e 7739 del 28 febbraio 2012, per cui l’elusione fiscale può assumere, a certe condizioni, rilevanza anche penale: v. Marcheselli, Numerosi e concreti ostacoli si contrappongono alla punibilità di elusione fiscale e abuso del diritto, in Giur. Trib., 2011, 852; De Mita, Il reato resta l’evasione non l’elusione, in Il Sole24Ore, 21 luglio 2011; Corso, Una elusiva sentenza della Corte di Cassazione sulla rilevanza penale dell’elusione, in Corr. 144 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE davvero state pagate a titolo definitivo, non solo l’applicazione delle sanzioni, ma anche il diniego del credito di imposta non sarebbero fondati, non essendosi realizzato alcun vantaggio indebito per la Banca. 5 Conclusioni L’analisi della sentenza in esame induce a riflettere sul concorso di motivazioni che talvolta sorregge le rettifiche operate dai verificatori e le decisioni dei giudici. Sebbene volti a rafforzare la intima convinzione dei verificatori per cui operazioni come quelle esaminate devono essere contrastate, questi passaggi rischiano tuttavia di divenire controproducenti per la stessa Agenzia delle Entrate, che già oggi in diverse occasioni muove contestazioni basate su motivazioni concorrenti di violazione di specifiche disposizioni tributarie e comunque abuso del diritto/elusione fiscale ex art. 37bis. Oltre che in una minor chiarezza della motivazione – a volte tale da comportare la nullità dell’atto47 - una motivazione tale impone agli Uffici una serie di gravami procedimentali, previsti dall’art. 37bis e invocati anche nel caso di specie dalla Banca ricorrente, ma probabilmente necessari anche nei casi di contestazioni basate sull’abuso del diritto di matrice costituzionale, non ultima l’impossibilità di procedere a riscossione frazionata in pendenza del giudizio di primo grado. Si è invece del parere che il primo metro di valutazione delle operazioni poste in essere dal contribuente deve essere il rispetto della legge tout court e quindi il verificarsi di una sua violazione diretta. In sostanza, la disamina del caso da parte della CTP avrebbe dovuto prendere le mosse dalla verifica dell’effettiva applicazione del prelievo estero nei confronti del contribuente che voleva avvantaggiarsi del credito di imposta ai sensi dell’art. 165 tuir. Superato questo esame, laddove l’operazione contrastasse in concreto con lo spirito della legge tributaria, allora sì, sarebbe stato giustificato il ricorso alla clausola antielusiva dell’art. 37bis. Il preminente elemento abusivo delle operazioni esaminate pare essere stato lo sfruttamento della rilevanza del flusso reddituale lordo ai fini del credito, effettivo o nozionale, per le imposte estere, unitamente al recupero della ritenuta estera da parte del cedente a pronti inglese. Trib., 2012, 1074; Id., Abuso del diritto in materia penale: verso il tramonto del principio di legalità?, in Corr. Trib., 2011, 2937. Sempre la CTP di Reggio Emilia, con sentenza n. 135 del 26 marzo 2012, in relazione a un caso di stock lending, ha recentemente annullato l’atto di irrogazione sanzioni che l’Agenzia delle Entrate aveva notificato a un consulente di un contribuente che aveva effettuato un’operazione ritenuta elusiva. Il testo in formato PDF della sentenza è reperibile sul sito del Sole24Ore nella sezione Norme e Tributi/ Documenti. 47 V. Cass., 30 novembre 2009, n. 25197, in Fisconline, secondo la quale un avviso di accertamento basato su una motivazione alternativa è nullo. In quel caso, peraltro, la motivazione dell’avviso sul quale si è espressa la Cassazione non era solo alternativa, ma addirittura contraddittoria. 145 LA DISTINZIONE TRA ELUSIONE ED EVASIONE L’operazione sui titoli brasiliani presenta aspetti similari, salvo il recupero della ritenuta estera, mai subita: si tratta certamente di un aspetto delicato, ma come nel caso di specie, caratterizzato ab origine dalla coincidenza delle controparti e da una probabile pianificazione, gli stessi effetti possono essere realizzati sul mercato in operazioni segmentate e con controparti diverse, rendendo la contestazione di elusione da parte dell’Amministrazione assai più ardua. Il rigetto del ricorso fa perno sull’elusione fiscale, ma considera in maniera non del tutto convincente comunque applicabili le sanzioni, toccando un tema molto delicato e che sicuramente vedrà ulteriori interventi giurisprudenziali 48. E’ chiaro però che se la contestazione dell’Agenzia delle Entrate e il rigetto del ricorso si fossero basati semplicemente sulla violazione di legge per carenza dei presupposti di cui all’art. 165 Tuir, simili considerazioni sarebbero state superflue, essendo pacifico trattarsi di fenomeni di evasione e non di elusione fiscale. Può essere peraltro che la strada dell’abuso del diritto sia parsa la più sicura per bocciare operazioni dal sapore indigesto49. . 48 E infatti, nelle more della pubblicazione di questo commento sono intervenute le decisioni di cui alla nota 46. 49 In questo senso, in termini più generali, Fransoni, Abuso di diritto, elusione e simulazione: rapporti e distinzioni, in Corr. Trib., 1/2011, 13. Anche la Cassazione, peraltro, ultimamente si è lasciata sfuggire riferimenti all’abuso del diritto relativamente a fattispecie da valutarsi più correttamente secondo la disciplina dell’interposizione fittizia di persona: v. Cass., 26 febbraio 2010, n. 4737, in Corr. Trib., 2010, 1346, con nota di Beghin. 146 Prof. Adriano Di Pietro Professore Alma Mater Studiorum Università di Bologna Abuso del diritto in materia tributaria: profili comparati . La relazione sarà inserita nel sito www.uckmar.net Avv. Thomas Fox Avvocato (München) L’abuso del diritto nell’ordinamento tedesco Il caso della normativa anti treaty shopping SOMMARIO: 1 Premessa: Normative antielusione nell’ordinamento tedesco 1.1 La norma generale antiabuso - 1.2. - Normative specifiche antiabuso - 2 Sviluppi della norma anti treaty shopping - 3 Elementi fondamentali della norma anti treaty shopping - 3.1 Aspetti generali - 3.2. Dettagli applicativi 4 Conclusione. 1 Premessa: Normative antielusione nell’ordinamento tedesco. Con effetto dal 1° gennaio 2012è entrata in vigore una nuova struttura della norma anti treaty shopping dell’ordinamento tedesco, ovvero il § 50d, comma 3 dell’ Einkommensteuergesetz (EStG). Prima di analizzare la nuova disposizione, insieme alla relativa circolare ministeriale del 24 gennaio 2012, è a mio avviso utile e opportuno ricordare come l’ordinamento tedesco fronteggia l’abuso del dirittoe l’elusione fiscale in un contesto più generale. 1.1. – La norma generale antiabuso. Come noto, da oramai quasi 100 anni l’ordinamento tributario tedesco prevede una clausola generale antielusione 1. Tale clausola generale fu introdotta nella Reichsabgabenordnung nel 1919 a seguito del caso Mitropa, nel quale il Reichsfinanzhof aveva assunto la posizione che in assenza di clausole speciali o generali antielusione non fosse possibile giungere a una tassazione del negozio elusivo. Nel contesto dell’introduzione della clausola generale venivano introdotte anche due altre norme importanti nel contesto antielusivo, ovvero le disposizioni relative all’interpretazione economica (wirtschaftliche Betrachtungsweise) e al negozio simulato (Scheingeschäft). Queste disposizioni –recepite (con qualche modifica) nella Abgabenordnungnel 1977 – costituiscono ancora oggi gli strumenti legislativi di base in merito all’elusione fiscale. Dalla sua introduzione, la norma generale antielusione ha subito una serie di modifiche, anche per adattare la norma ai frequenti interventi della giurisprudenza. Tale giurisprudenza assume la presenza di un abuso ai sensi del § 42 AO quando il contribuente sceglie una forma giuridica che – in relazione allo scopo economico perseguito – (a) non è adeguata, (b) intende ridurre o evitare l’imposizione e (c) non è giustificabile con motivi economici 1 Per un’analisi approfondita della norma generale antiabuso dell’ordinamento tedesco vedi la notevole opera di P. Pistone, Abuso del diritto ed elusione fiscale, 1995. IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE ITALIANA o altri motivi di rilievo al di fuori di motivi fiscali2. Una forma giuridica – così la Corte Federale Fiscale – non è adeguata quando il contribuente non si avvale della forma giuridica tipica predisposta dal legislatore per il raggiungimento di determinati fini economici, ma, invece, utilizzi una forma giuridica e struttura insolita che – in base al concetto legislativo – non permetta il risparmio di imposte. Al contribuente non è riconosciuta la facoltà di far riferimento alla forma giuridica o al negozio giuridico messi in atto nei casi in cui un terzo non avrebbe scelto tale forma giuridica o tale negozio giuridico in vista dello scopo economico effettivamente ricercato dal contribuente. Va notato comunque, che non ogni forma giuridica che comporta un risparmio fiscale è da qualificare come elusiva ai sensi della norma generale antielusione. Infatti, la giurisprudenza riconosce a ogni contribuente il diritto di mettere in atto negozi e forme giuridiche che sfruttino al meglio le possibilità di risparmio di tasse 3. Accertato un abuso del diritto ai sensi della clausola generale del § 42 AO,la pretesa del tributo si realizza in modo che la forma giuridica risulti adeguata ai precedenti economici. Il prelievo tributario, dunque, ha luogo indipendentemente dal fatto che non si sia effettivamente verificato il presupposto d’imposta. Il § 42 AO, disconoscendo la forma giuridica scelta, applica la norma impositiva che il contribuente ha cercato di aggirare assumendo una forma giuridica adeguata e ragionevole in vista dello scopo economico perseguito. L’applicazione del § 42 AO comporta dunque una finzione di una forma giuridica economicamente adeguata alla quale si applica la normativa fiscale aggirata. 1.1 Normative specifiche antiabuso. Mentre il vantaggio di una norma generale antiabuso è dato dalla sufficiente flessibilità di poter essere applicate a una moltitudine di fattispecie elusive in diversi rami dell’ordinamento tributario, tale generalizzazione è allo stesso tempo fonte di non pochi problemi in sede di applicazione, primo fra tutti il contenimento dei poteri dell’Amministrazione Finanziaria, o meglio, la tutela delle garanzie riconosciute dall’ordinamento al contribuente. La giurisprudenza ha, di conseguenza, da sempre applicato la norma generale antiabuso in maniera restrittiva. Rispondendo a questa problematica, dagli anni settanta ad oggi il legislatore tedesco ha introdotto numerose clausole specifiche antiabuso in diversi rami dell’ordinamento fiscale. Principale esempio è la normativa dell’Außensteuergesetz (legge tributaria estera), nei concetti base simile alla normativa statunitense sulle cd. controlled foreign corporation, volta a fronteggiare l’erosione di base imponibile a favore di altre sovranità fiscali. Di maggior rilievo sono le disposizioni dei §§ 7 – 14 dell’Außensteuergesetz riguardanti le partecipazioni in società interposte estere. La tecnica normativa adottata da 2 Sentenze della Corte Fiscale Federale (Bundesfinanzhof – BFH)in data 7 luglio 1998 – VIII R 10/96, in: Bundessteuerblatt (BStBl.) II 1999, pag. 729 e segg., e in data 29 agosto 2007 – IX R 17/07, BStBl. II 2008, pag. 502 e segg. 3 BFH in data 7 luglio 1998 – VIII R 10/96, BStBl. II 1999, pag. 729 e segg. 150 IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE ITALIANA tali norme è di ricondurre al soggetto controllante residente certe fattispecie reddituali formalmente afferenti alla società estera interposta. A differenza della norma generale antiabuso del § 42 AO, la normativa dell’Außensteuergesetz non disconosce le società interposte, ma opera in base ad una finzione giuridica e considera distribuiti alla controllante i relativi redditi esteri (Hinzurechnungsbesteuerung). Altro esempio di rilievo in questo contesto sono le convenzioni internazionali contro la doppia imposizione stipulate dalla Germania. Soprattutto le più recenti modifiche a trattati esistenti e le stipule di nuovi trattati contengono norme volte a contrastare l’abuso dei benefici della rispettiva convenzione. Tali norme antiabuso operano all’interno del corpo normativo della specifica convenzione, negando determinati benefici o introducendo ulteriori requisiti per avvalersi dei benefici convenzionali. A differenza della normativa interna del § 50d, comma 3 EStG di cui si tratterà di seguito, tali norme antielusive sono parte integrante della fonte convenzionale e, di regola, come lex specialis prevalgono sulle norme generali del diritto interno (in particolare sul § 42 AO), qualora le norme convenzionali antielusione trattino una determinata materia. La disciplina antielusiva forma così parte dell’accordo tra i due Stati contraenti. La Germania, come altri Stati (primi tra tutti gli Stati Uniti), ha sentito la necessità di modificare tali norme di diritto internazionale convenzionale introducendo una norma interna unilaterale che – secondo la volontà del legislatore – prevale sulle norme internazionali. Questo fenomeno di treaty overriding sta alla base della norma anti treaty shopping o (anti Directive shopping4) inserita nell’ordinamento tedesco nel 1994. 2 Sviluppi della norma anti treaty shopping. Dividendi erogati da società residenti in Germania a soggetti passivi residenti all’estero, canoni (royalties) e determinati interessi (attinenti a crediti immobiliari) sono soggetti a una ritenuta alla fonte (Kapitalertragsteuer o Abzugsteuer). I soggetti passivi esteri possono però richiedere l’esonero o la riduzione della ritenuta alla fonte in base a un trattato sulle doppie imposizioni, la cd. Direttiva Madre-Figlia, la cd. Direttiva su Interessi e Canoni5, queste ultime due introdotte nel diritto interno tedesco. Ai fini procedurali ciò avviene mediante una domanda di rimborso della ritenuta effettivamente detratta dalla società erogante o mediante una richiesta di esonero dall’obbligo di applicare la ritenuta, richiesta da inoltrare primo 4 In quanto la norma vuole prevenire anche l’abuso delle direttive europee, in particolare la cd. Direttiva Madre-Figlia integrata nell’ordinamento tedesco (Direttiva Consiglio CE 30/11/2011, n. 2011/96/UE, G.U.U.E. 29/12/2011, n. L345, che è una rifusione della cd. direttiva madre-figlia (n. 90/435/CEE) concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati Membri diversi). 5 Direttiva Consiglio 2003/49/CE del 3 giugno 2003concernente il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra società consociate di Stati membri diversi. 151 IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE ITALIANA dell’erogazione dei redditi in specie. Sia il rimborso che l‘esonero anticipato sono però soggetti all’applicazione (o meglio: non applicazione) della norma anti treaty shopping. Sussistono i presupposti applicativi di tale norma, al contribuente estero vengono negati i benefici convenzionali e delle direttive europee. 2.1. Originariamente, la logica della norma anti treaty shopping del § 50d, comma 1° (precursore dell’attuale comma 3) EStG era (più o meno) chiara: La norma era volta ad impedire l’attribuzione dei benefici previsti dalle disposizioni interne di derivazione comunitaria e dalle norme convenzionali per i redditi prodotti nel territorio della Germania da parte di società non residenti, nella misura in cui queste ultime sono partecipate da persone cui non sarebbe stato riconosciuto il beneficio se avessero percepito direttamente tali redditi. Infatti, il relativo comma del § 50d disponeva che il beneficio (esenzione o riduzione dell’imposta) non spettasse nel caso in cui occorressero contemporaneamente i tre seguenti presupposti (“criteri di sostanza”):(1) mancata attribuzione dei benefici in caso di percezione diretta del reddito;(2)assenza di valide ragioni economiche per l’interposizione della società non residente;(3)mancato svolgimento di una propria attività economica da parte della società non residente. Per assicurarsi dell’applicazione dei benefici convenzionali era dunque sufficiente che il soggetto estero potesse comprovare che uno dei tre requisiti di cui sopra non fosse dato. Come conseguenza dell’applicazione del § 50d, comma 1aEStG, la società non residente non aveva diritto a fruire dei benefici (esenzione o riduzione dell’imposta) previsti dalle disposizioni interne di derivazione comunitaria (in particolare il § 44d EStG) e delle disposizioni convenzionali. In questo caso, comunque, occorreva valutare la situazione di ciascun socio della società interposta in base alla sua quota di partecipazione: Se tali soci hanno diritto a fruire dei benefici in caso di percezione diretta dei redditi di fonte tedesca, alla società interposta non residente spettava l’agevolazione fino alla misura pari all’ammontare dello sgravio che sarebbe stato attribuito al rispettivo socio. 2.2. Mentre la norma originaria aveva un profilo applicativo delineato e concreto, con effetto dal 2007 la norma ha subito una modifica in seguito alla giurisprudenza della Corte Federale Fiscale. Tale modifica, a parte spostare al comma 3 del § 50d EStG le disposizioni rilevanti, comportava due sostanziali cambiamenti, ovvero che per avvalersi dei benefici convenzionali o di quelli della Direttiva Madre-Figlia e della Direttiva su Canoni e Interessi(1) tutti i tre criteri di cui sopra dovessero essere comprovati, e (2) il soggetto estero dovesse ricavare più del 10% del proprio reddito da attività commerciale propria. La dottrina aveva da sempre dubitato della compatibilità della norma con il diritto europeo, in particolare con riferimento alle decisioni della Corte di Giustizia Europea “Inspire Art” (C-167/01), “Cadbury Schweppes” (C196/04) e “Denkavit” (C-170/05). Tale critica si è fatta più aspra con la modifica del 2007, in quanto la norma non prevedeva la possibilità di provare 152 IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE ITALIANA che l’interposizione del soggetto estero – pur non soddisfacendo i criteri del § 50d, comma 3 EStG – non costituisca abuso del diritto. 2.3. Nel 2010, la Commissione Europea ha formalmente chiesto alla Germania di modificare la norma del § 50d, comma 3 EStG6. La Commissione non ha criticato l'obiettivo della norma antielusiva, ma solamente i requisiti sproporzionati imposti a società estere per dimostrare l’esistenza di una notevole attività economica (ovvero dimostrare che più del 10% del reddito sia generato da attività economica propria). Poiché non è consentita al soggetto estero la prova contraria, la Commissione considera sproporzionato tale requisito in vista dell’obiettivo di voler prevenire l’evasione fiscale. La Germania ha risposto a tale richiesta modificando ulteriormente la norma del § 50d, comma 3 EStG7, modifica entrata in vigore dal 1° gennaio 2012.Gli elementi salienti della rinnovata norma sono di seguito esposti. 3 Elementi fondamentali della norma anti treaty shopping. 3.1 Aspetti generali. La norma del § 50d, comma 3 EStG dal 1° gennaio 2012 statuisce che una società estera non ha diritto al beneficio convenzionale o ai benefici di una direttiva europea (ovvero: esenzione o riduzione dell’imposta) nella misura in cui la società estera sia partecipata da soci ai quali tali benefici non sarebbero attribuiti in caso di percezione diretta del reddito (cd. shareholder test) e; (1) i redditi della società non residente non siano frutto di una propria attività economica (cd. business income test), nonchè (2a) in merito a questi redditi non sussistano valide ragioni economiche per l’interposizione della società non residente (cd. business purpose test); oppure (2b) la società non residente non sia dotata di una struttura adeguata rispetto alla propria attività economica per partecipare al commercio generale (cd. substance test). La rinnovata disposizione comporta due modifiche sostanziali nei confronti della versione precedente della norma: (1) Non è più necessario poter comprovare il soddisfacimento contemporaneo di tutti e tre i criteri di sostanza (vedi sopra al 2.1.); invece, i criteri sono suddivisi in diverse tipologie della norma. Il soggetto non residente – oltre ai casi in cui riesca a dimostrare di qualificare per i benefici convenzionali in caso di diretta percezione dei redditi –, dunque, in futuro potrà evitare l’applicazione della norma antielusiva in due alternative, ovvero soddisfacendo (a) il business income test, oppure (b) entrambi il business purpose test e il substance test. 6 7 Comunicato stampa del 18 marzo 2010, IP/10/298. Con legge del 07.12.2011, BGBl. I 2011, pag. 2592 e segg. 153 IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE ITALIANA (2) La seconda modifica importante riguarda le modalità di intervento della norma antielusiva. Mentre la versione precedente disponeva o un disconoscimento o un riconoscimento completo dei benefici, la versione attuale prevede una suddivisione pro quota dei benefici nella misura in cui siano soddisfatti i due test (a) e (b) di cui sopra. Il nuovo approccio costituisce una “apportionment rule” che distingue tra reddito “buono” e reddito “nocivo” (ai fini dell’applicazione della norma antielusiva), spartizione che rileva ai fini del mantenimento dei benefici convenzionali e delle direttive europee. Il reddito del soggetto non residente non è considerato “nocivo” ai sensi della norma in quanto generato tramite propria attività commerciale dal soggetto non residente. Lo scaglione di reddito che non ricade in questa categoria può ancora qualificare come “buono” nella misura in cui (a) sia dimostrabile che sussistano valide ragioni economiche (o comunque non fiscali) per l’interposizione del soggetto non residente e (b) che la società non residente disponga di una struttura adeguata rispetto alla propria attività economica per partecipare al commercio generale. Lo scaglione residuale è infine considerato nocivo. I benefici convenzionali e delle direttive europee sono applicati solo nella misura in cui la società non residente abbia dimostrato di avere redditi “buoni”; nella misura in cui sussistano scaglioni di reddito “nocivo”, invece, la norma rimanda all’analisi dei presupposti applicativi oggettivi (ovvero i test (a) e (b)) a livello dei rispettivi soci. Solo se ciascun socio riesce a soddisfare questi requisiti, i benefici convenzionali o delle direttive europee sono mantenuti. Va notato infine che – oltre ai casi in cui i test (a) e (b) di cui sopra siano soddisfatti – la norma antielusiva non si applica nelle fattispecie in cui le azioni del soggetto non residente siano regolarmente quotate in una borsa (sia in Germania sia in un Paese della Comunità Europea o dello Spazio Economico Europeo), come anche nei casi in cui il soggetto non residente qualifichi come società di investimento soggetta all’Investmentsteuergesetz (legge tributaria in merito agli investimenti) 8. 3.2 Dettagli applicativi. 3.2.1. – Il cd. business income test Il § 50d, comma 3 EStG dispone che nella misura in cui la società non residente generi redditi attraverso una propria attività economica, la società non residente ha diritto ai benefici convenzionali e delle direttive europee. La circolare ministeriale del 24 gennaio 2012 chiarisce l’interpretazione dell’amministrazione finanziaria in merito al concetto di reddito da propria attività commerciale: una propria attività commerciale che rilevi ai sensi del business income test richiede la partecipazione al commercio generale nel paese di residenza; inoltre tale attività deve eccedere la mera amministrazione di beni; 88 Vedi § 50d, comma 3, quinto periodo EStG. 154 IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE ITALIANA una attività propria può consistere anche nella prestazione di servizi nei confronti di una o più società controllate se tali servizi sono resi at arm’s length; la mera attività di amministrazione di asset (per conto proprio o terzi), invece, non qualifica; una società holding può essere considerata avere una propria attività commerciale se la società amministri attivamente (active management) due o più partecipazioni di un certo rilievo economico. La società holding deve attivamente intervenire e influenzare a lungo termine (anche) le importanti decisioni manageriali delle partecipate; l’amministrazione e altre attività della società holding non possono essere esternalizzate (in via di outsourcing) a società del gruppo o a terzi; se sussiste un legame funzionale tra l’attività delle partecipate e della società non residente, dividendi, interessi e canoni percepiti da tale partecipate qualificano come reddito da attività commerciale propria della società non residente. Bisogna constatare che l’abbandono del limite del 10% non ha semplificato l’applicazione della norma antielusiva, anzi: In vista del meccanismo di ripartizione del reddito in “buono” e “nocivo” e della soddisfazione dei diversi test, anche a livello dei soci della società non residente, sono aumentati gli oneri della prova e la necessità di documentare meticolosamente la provenienza dei redditi e della attività della società non residente. 3.2.2. Il cd. business purpose test Secondo l’opinione espressa nella circolare ministeriale del 24 gennaio 2012, una valida ragione economica (o comunque non fiscale) per l’interposizione della società non residente non sussiste se la società non residente serve solamente a salvaguardare asset domestici in tempi di crisi o per agevolare future disposizioni ereditarie o, infine, per garantire il futuro economico dei soci. Non qualificano come valide ragioni motivi attinenti ai rapporti infragruppo, come ad es. la necessità di coordinare e organizzare il gruppo, espansione dei rapporti con clienti, costi, preferenze geografiche. Purtroppo, la norma non stabilisce chiaramente quali possano essere ragioni valide. La circolare ministeriale del 24 gennaio 2012 stabilisce che la pianificazione di attività che generi redditi considerati positivi secondo la business income rule (vedi sopra al 3.2.1.) qualifichi come valida ragione economica. Inoltre, dovrebbe costituire una valida ragione ai sensi del § 50d, comma 3 EStG anche la formazione di una società non residente se la società ha la funzione di headquarter di un gruppo che opera su scala mondiale oppure se tale società ha lo scopo di acquistare e finanziare partecipazioni in altre società. 3.2.3. Il cd. substance test La circolare ministeriale del 24 gennaio 2012 riporta tre esempi nei quali è possibile riscontrare indicazioni per una sufficiente sostanza economica ai fini del substance test: 155 IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE ITALIANA l’esistenza di un management e di altro personale sufficiente per l’attività della società non residente; il personale della società non residente ha sufficienti qualificazioni per adempire ai compiti della società; i rapporti negoziali tra la società non residente e altre società del gruppo e persone affiliate corrispondano allo standard at arm’s length. 3.2.4. Questionario L’amministrazione finanziaria ha cominciato a inviare ai contribuenti che in passato si sono avvalsi di benefici convenzionali e di direttive europee un (nuovo) questionario per individuare eventuali problemi di attuazione della nuova norma. Va notato che anche le società che sono in possesso di un certificato di esonero rilasciato prima del 1° gennaio 2012 non possono usufruire di tale esonero se non qualificano la normativa modificata. Il questionario prevede che la società non residente fornisca, tra le altre, le seguenti informazioni: (1) l’ultimo bilancio (incluso il conto economico); (2) una previsione in merito al reddito 2012; (3) un rendiconto in merito al reddito lordo e proventi, dettagliati per tipo di reddito; (4) una dettagliata esposizione delle ragioni economiche per l’interposizione della società estera; (5) tutti i numeri telefonici e fax come anche gli indirizzi internet e e-mail; (6) documentazione in merito al personale impiegato, inclusi i contratti di lavoro, un resoconto dei contributi sociali e dei salari; (7) una descrizione dei rischi e delle funzioni svolte; (8) il contratto di affitto per l’ufficio; (9) una dichiarazione ad altre attività degli amministratori (per altre società); (10) una dichiarazione circa l’esternalizzazione (outsourcing) di funzioni amministrative / manageriali in capo a terzi provider di servizi; (11) la somma del salario effettivamente corrisposto agli amministratori; (12) una dichiarazione se – oltre al salario – gli amministratori ricevano ulteriori compensi. Soprattutto le domande in merito alle categorie e tipologie di reddito si dimostreranno essere un onere considerevole sulla via del raggiungimento dei benefici convenzionali o delle direttive europee. 4 Conclusione. La nuova versione del § 50d, comma 3 EStG – nonostante i chiarimenti apportati dalla circolare ministeriale del 24 gennaio 2012 – su alcuni, ma importanti aspetti applicativi rimane poco chiara (ad es. circa il metodo per calcolare la quota pro rata). Inoltre, nonostante il legislatore tedesco abbia modificato la norma per renderla compatibile con la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea e il diritto comunitario, in merito rimangono ancora alcuni dubbi. Infatti, secondo la decisione “Columbus Container Services” la Corte Federale Fiscale ha constatato che norme unilaterali antielusive devono essere interpretate in tal modo (restrittivo) da permettere 156 IL PRINCIPIO DELLA PEREQUAZIONE FINANZIARIA NELLA COSTITUZIONE ITALIANA al contribuente di poter provare una motivazione lecita per la forma giuridica scelta9. Va notato, inoltre, che la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea da tempo postula che società residenti e società non residenti hanno gli stessi diritti in merito al trattamento di dividendi da essi percepiti e, di conseguenza, anche alle società non residenti dovrebbe essere consentito il diritto al rimborso della ritenuta alla fonte come ciò avviene per le società residenti10. In una recente decisione, la Corte Federale Fiscale ha confermato l’esistenza di tale diritto anche in assenza di una normativa interna 11. La Corte non ha discusso le conseguenze dell’esistenza di tale diritto in merito alla norma antielusiva del § 50d, comma 3 EStG.A fronte degli argomenti portati avanti dalla Corte sembrerebbe però coerente affermare che in queste fattispecie (ovvero rimborso di ritenute alla fonte da parte di soggetti non residenti) la norma antielusiva del § 50d, comma 3 EStG non sia più applicabile. Infatti, tale norma non si applica a soggetti residenti in Germania. Ad ogni modo è auspicabile una completa integrazione ed equiparazione del trattamento delle società non residenti con quello delle società residenti. 9 BFH del 21 ottobre 2009 – I R 114/08, BStBl. II 2010, pag. 774 e segg. Vedi da ultima la decisione della Corte di Giustizia Europea nel caso Commissione / Germania del 20 ottobre 2011 - C-284/09, IStR 2011 p. 840 e segg. 11 BFH del 11 gennaio 2012 – I R 25/10, DStR 2012 pag. 742 e segg. 10 157 Prof. Cesare Glendi Professore Emerito Università di Parma L’abuso dei rilievi d’ufficio della Suprema Corte di Cassazione Premessa metodologica. Divagazioni sulla parola «abuso». Dall’abuso del «diritto all’abuso del «processo». Ulteriori specificazioni. L’«abuso dei rilievi d’ufficio del giudice» in generale. L’abuso del rilievo d’ufficio da parte del «giudice di legittimità», in particolare. Le peculiarità del diritto tributario e del processo tributario. La difficile problematica di una rigorosa definizione della varietà di fenomeni latamente elusivi e/o abusivi in materia tributaria ai fini della loro introduzione nel processo, sub specie di componenti dell’”oggetto” e/o dei “motivi” e/o di mere “questioni”. Distinzioni e approfondimenti. Analisi e confronti tra processo civile e processo tributario. In particolare sul tema specifico del rilievo d’ufficio delle questioni pregiudiziali di merito e di rito. L’art. 183 c.p.c. e l’art. 20 del D. lgs. n. 546/1992. I limiti del rilievo d’ufficio. L’uso e l’abuso del c.d. giudicato implicito. Il limite del contraddittorio, in senso formale e in senso sostanziale, alla lue dell’art. 111 c.p.c. Il novellato art. 101 c.p.c. La non facile problematica sul trattamento delle violazioni della regula iuris consacrata in detta norma. La specialissima disciplina contenuta nell’art. 384, 3° comma, c.p.c. per il rilievo d’ufficio delle questioni da parte delle Sezioni Unite di Cassazione. Esame della giurisprudenza di vertice in tema di elusione e/o abuso. La perniciosa tendenza alla “sostitutività” della funzione giurisdizionale, soprattutto a livello apicale. Il rischio dello straripamento dei poteri anche a danno della Pubblica Amministrazione. L’abuso del rilievo d’ufficio da parte della Cassazione come figura tipica di abuso della funzione giurisdizionale. Rimedi e sanzioni. La tutela risarcitoria. L’ipotetico ricorso alla Corte di giustizia. Conclusioni. Prof. Salvatore La Rosa Professore Emerito Università di Catania Abuso del diritto ed elusione fiscale: differenze e interferenze SOMMARIO: 1 Osservazioni introduttive sulla delega per la revisione delle disposizioni antielusive - 2 Brevi riflessioni sulla riferibilità del “divieto di abuso del diritto” alla materia tributaria… - 3 …sulla natura e gli effetti giuridici delle clausole antielusive - 4 …e sulla prospettata generalizzazione dell’ambito di operatività dell’antielusione. 1 Osservazioni introduttive sulla delega per la revisione delle disposizioni antielusive. Il titolo di questo intervento mi è stato suggerito dalla lettura dell’art. 6 del recente disegno di legge delega fiscale, nonché dalla volontà di trarre spunto da quella delega per svolgere talune riflessioni proprio sul rapporto tra l’abuso del diritto e l’elusione fiscale, dato che, nonostante tutto quel che su questo rapporto è già stato detto e scritto, non mi sembra che il dibattito abbia ancora raggiunto risultati che possano dirsi convincenti e condivisi. Sotto la rubrica “Disciplina dell’abuso del diritto ed elusione fiscale” si prevede nel suddetto art. 6 una delega ad “…attuare la revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di introdurre il principio generale del divieto dell’abuso del diritto esteso ai tributi non armonizzati…”; ma dalla lettura dei successivi principi e criteri direttivi emerge con chiarezza l’intento di procedere ad un qualcosa di non poco diverso dalla mera “revisione” delle vigenti disposizioni antielusive, e dalla stessa generalizzazione dell’area di operatività dell’attuale art. 37 bis del DPR n. 600/1973. E ciò, non solo perché nulla viene detto in ordine alla sorte delle molteplici disposizioni antielusive “analitiche” esistenti nel nostro ordinamento, e ad aspetti non secondari delle stesse regole contenute nel suddetto art. 37 bis (il quale, anzi, non viene neanche richiamato), ma anche perchè quei principi e criteri direttivi appaiono dominati dal convincimento del doversi superare la stessa distinzione tra l’evasione e l’elusione fiscale mediante l’introduzione di un generale divieto di abuso delle norme tributarie, ed una migliore definizione della fattispecie normativa della condotta fiscalmente abusiva. Mi sembra, cioè, che, rispetto all’assetto normativo in atto vigente, si vorrebbe operare un vero e proprio salto qualitativo, vietando in termini generalissimi (e solo conseguentemente rendendo quindi inopponibile al Fisco) ogni comportamento negoziale che possa dirsi unicamente determinato dall’intento di conseguire un risparmio d’imposta; così automaticamente attraendo nell’area degli illeciti tributari, e della vera e propria evasione, tutto ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: DIFFERENZE E INTERFERENZE quel che, invece, viene ancora solitamente qualificato in termini di elusione. In particolare, le principali innovazione che si vorrebbero apportare al vigente assetto normativo consistono: a) nell’identificazione della condotta abusiva nell’“…uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione…” e nell’essere “…causa prevalente dell’operazione …” lo “…scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali…” (invece che, come dispone l’art. 37 bis, nei comportamenti “…diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario…”); b) nella negazione della configurabilità di una condotta abusiva solo nei casi in cui l’operazione risulta “…giustificata da ragioni extrafiscali non marginali…” (invece che sorretta da “…valide ragioni economiche…”); c) nella previsione dell’“…inopponibilità…” agli uffici finanziari degli strumenti attuativi delle condotte abusive e del conseguente loro potere di “…disconoscere il relativo risparmio d’imposta…” (invece che di procedere all’accertamento tributario “…applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse…”); d) nell’affermazione della necessità che la motivazione dell’accertamento contenga “…una formale e puntuale individuazione della condotta abusiva…”, nonchè dell’incombenza sugli uffici finanziari dell’“…onere di dimostrare il disegno abusivo e le modalità di manipolazione e alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati nonché la loro non conformità ad una normale logica di mercato, gravando invece, sul contribuente l’onere di allegare la esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concorrenti che giustifichino il ricorso a tali strumenti…” (così introducendo profili probatori delle condotte “abusive”, del tutto estranei alle norme contenute nell’art. 37 bis); e) e nella negazione della “…rilevanza penale dei comportamenti ascrivibili a fattispecie abusive…” (con implicita affermazione dell’applicabilità delle sanzioni amministrative, insussistente nelle disposizioni di cui all’art. 37 bis del DPR 600). Al tempo stesso, si prevede che debba comunque essere garantita “…la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale…”; con una formulazione, tuttavia, che appare ad un tempo superflua ed oscura, restando da stabilire se l’espressione “diverso carico fiscale” debba essere intesa come non implicante un minor carico fiscale rispetto al regime tipico dell’operazione medesima. Si è in definitiva in presenza di un disegno di legge delega che si pone, quanto meno, a metà strada tra la mera revisione e la profonda innovazione dell’esistente apparato normativo antielusivo; al punto da rendersi anche astrattamente ipotizzabile la coesistenza sia di nuove regole antiabuso che della pregressa disciplina antielusiva di cui all’art. 37 bis del DPR n. 600/1973, in ragione di una loro intrinseca diversità; cosa che talora viene già affermata nella comune esperienza professionale, ma sulla quale si rende a mio avviso sempre più opportuno (e forse anche doveroso) lo svolgimento di sia pur veloci riflessioni ricostruttive. 162 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: DIFFERENZE E INTERFERENZE 2 Brevi riflessioni sulla riferibilità del “divieto di abuso del diritto” alla materia tributaria… Nell’anzidetta prospettiva, e guardando alle emanande nuove norme nell’ottica del divieto di abuso del diritto, una prima puntualizzazione che ritengo di dover far attiene all’improprietà dell’espressione “divieto” che dovrebbe accompagnare l’introduzione della clausola volta ad impedirlo. Quella parola è in realtà fuorviante, perché non si prevede l’introduzione di alcuna sanzione aggiuntiva e specifica per le condotte ivi definite come “abusive”; i cui effetti vengono ancora e pur sempre definiti in termini di “inopponibilità” agli uffici finanziari dei relativi strumenti giuridici attuativi, in modi e termini non diversi da quanto già disposto dall’art. 37 bis del DPR 600. Il che vuol dire che, a rigore, le condotte abusive in realtà non sarebbero comunque sempre e di per sé annoverabili tra quelle fiscalmente vietate. Ma a ciò va aggiunto che rappresenta a mio avviso una impropria forzatura anche, ed a monte, la stessa evocazione della nozione dell’abuso del diritto come fondamento delle risposte normative ai tentativi di conseguire, nel rispetto della legge, indebiti vantaggi fiscali. Come è noto, questo collegamento è a noi derivato dalla giurisprudenza comunitaria, ove l’ambito di operatività del generale divieto di abuso del diritto (comunitario), inizialmente sancito come limite azionabile dagli Stati membri nei confronti delle modalità di esercizio delle libertà comunitarie (di stabilimento, circolazione, ecc.), era poi stato dalla Corte di Giustizia posto a fondamento (con la nota sentenza Halifax del 2006) anche della contestabilità (negli ordinamenti dei singoli Stati membri) dei comportamenti elusivi di obblighi tributari scaturenti da norme interne soggette a vincoli comunitari. E parimenti noto è che questo approccio della giurisprudenza comunitaria, inizialmente fatto proprio dalla nostra Corte di Cassazione in relazione a controversie concernenti tributi soggetti (appunto) ai vincoli comunitari ed insorte anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 37 bis del DPR 600/1973, è poi stato già esteso (a seguito dei noti interventi delle Sezioni Unite avutisi nel dicembre 2008) all’intero ordinamento tributario, in ragione del doversi ritenere in esso immanente il divieto di abuso del diritto, in quanto radicato nel fondamentale principio di capacità contributiva. Adesso, sembra che si vorrebbe procedere all’espresso recepimento normativo di questi controversi approdi giurisprudenziali del passato. E ciò, se per un verso rafforza le riserve che su quegli approdi sono già state avanzate in passato, induce per altro verso a formulare un triplice ordine di notazioni critiche sulla stessa opportunità (almeno, dal punto di vista del nostro ordinamento) sulla strada che verrebbe così concretamente imboccata. A) Nella nostra tradizione culturale, anzitutto, il divieto di ”abuso del diritto”, ha un contenuto ed un ambito di operatività che dovrebbe renderlo di per se stesso irriferibile al campo dei rapporti tributari, per carenza dei relativi presupposti logico-giuridici. Comunque se ne identifichi la fonte, certo è, infatti, che quel divieto tipicamente attiene solo all’esercizio delle situazioni giuridiche attive (diritti, 163 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: DIFFERENZE E INTERFERENZE poteri, facoltà), ed è volto a porre dei generali limiti al loro esercizio, a tutela di quanti possono vedere pregiudicati i loro interessi proprio da quell’esercizio; mentre le discipline tributarie sono costituite dalla vasta serie degli obblighi e divieti che le leggi pongono a carico del contribuente; e va da sé che di tali situazioni soggettive, in quanto passive, egli non può fare “uso”, e tanto meno può “abusare”, essendo invece tenuto a comportamenti di puro e semplice adeguamento ed osservanza. A tal proposito, non può non suscitare perplessità la previsione del fatto che, per l’illustrazione del disegno abusivo, si chieda all’Amministrazione di dimostrare “…le modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati nonché la loro non conformità ad una normale logica di mercato…”, poichè, laddove queste circostanze ricorrono (come in ogni ipotesi di simulazione), si ricade de plano nell’area dei comportamenti fiscalmente illeciti (e non soltanto “abusivi”), già legittimamente perseguibili in base alle disposizioni generali. Nel caso in cui, ad esempio, una cessione d’azienda venga realizzata frazionando l’operazione complessiva in una pluralità di trasferimenti distintamente riguardanti le sue singole componenti (al fine di fruire del più favorevole regime IVA, in luogo dell’imposta di registro, e di evitare la tassazione dell’avviamento), gli Uffici finanziari ben possono ricostruire e far valere l’unitarietà dell’operazione negoziale indipendentemente da ogni discorso di “abuso del diritto”, pur essendosi in ipotesi di utilizzazione certamente distorta dell’autonomia negoziale; la giurisprudenza ha anzi sempre collocato i comportamenti così descritti nell’area della vera e propria evasione fiscale; e si farebbe soltanto opera di confusione evocando adesso, per situazioni di questo tipo, la nozione dell’abuso del diritto. B) A ciò va poi ancora aggiunto che le conseguenze giuridiche degli “abusi del diritto” dovrebbero necessariamente consistere - proprio in quanto si versa in ipotesi di inosservanza di un divieto - nell’invalidità civilistica degli atti e negozi posti in essere, ovvero su quello dell’irrogazione di sanzioni (di ogni possibile tipo); mentre a fronte dei comportamenti volti al conseguimento di indebiti vantaggi tributari quel che deve principalmente stabilirsi è, in positivo, quali regole propriamente tributarie debbano applicarsi ai comportamenti che, pur essendo formalmente rispettosi delle disposizioni fiscali, ne aggirano il contenuto. In altri termini, è un risposta comunque incompleta e inadeguata, ai fini specificamente tributaristici, lo stabilire cosa debba esattamente intendersi per “abuso” nel diritto tributario; poiché nulla così facendo si dice ancora, ed in positivo, sul regime fiscale che deve poi applicarsi alle operazioni ritenute “abusive”. C) Il terzo ordine di riserve, infine, discende dal fatto che, se all’affermazione del nuovo principio generale antiabuso (nei modi e termini definiti dal disegno di legge delega) dovesse attribuirsi una portata integralmente sostitutiva delle molto più articolate disposizioni contenute nel vigente art. 37 bis, lungi dal consentirsi un più fondato ed equilibrato contrasto dei comportamenti elusivi, se ne frenerebbe ed ostacolarebbe il valido ed efficace contenimento. 164 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: DIFFERENZE E INTERFERENZE Perseguire l’elusione fiscale attraverso l’ottica dell’abuso del diritto significa infatti muovere concreti passi nel senso dell’equiparazione concettuale e normativa dell’elusione e dell’evasione fiscale; ma anche, e con ciò stesso, con il porre le premesse per future riaffermazione della diversità di tali fenomeni, in ragione dell’essere solo la seconda, e non anche la prima, connotata dall’illiceità dei comportamenti del contribuente. Di queste future e prevedibili prospettive forniscono del resto un chiaro indizio due discutibili aspetti dello stesso disegno di legge delega. 1°) Il primo è ravvisabile nell’affermazione secondo la quale dovrebbe escludersi la configurabilità di una condotta abusiva solo quando l’uso distorto degli strumenti giuridici è giustificato da “…ragioni extrafiscali non marginali…”. Sembra, invero, che tale espressione obiettivamente finisca con l’attrarre nell’area delle condotte “abusive” tutti i comportamenti che risultano unicamente dettati dal fine (esclusivamente “fiscale”) del risparmio di imposte, se caratterizzati dal ricorso ad un uso anomalo o “distorto” degli strumenti giuridici (si pensi, per fare dei banali esempi, all’acquisto di una villa a fini residenziali tramite una società appositamente costituita, o alla cessione di diritti di usufrutto al coniuge per beneficiare dei minori livelli impositivi ai quali essa è soggetta, alla rinunzia ad una cospicua eredità che risulti unicamente giustificata dall’intento di evitare il pagamento di una doppia imposta di trasferimento sul passaggio dei beni dal defunto a subentra nel diritto di accettare l’eredità, alla trasformazione di una società agricola di capitali in società di persone determinata dalla volontà di beneficiare del regime catastale di determinazione del reddito, ecc.). Tendenze di questo tipo sono del resto già presenti negli attuali comportamenti operativi degli Uffici. E’ facilmente prevedibile che, alla fine, finirà con il prevalere il riconoscimento del non potersi di per sé considerarsi “distorto” l’uso degli strumenti giuridici a meri fini di risparmio d’imposta; e quindi anche con il pervenirsi ad una sostanziale vanificazione del tentativo di procedere alla formalizzazione del concetto delle condotte fiscalmente “abusive”. 2°) Il secondo, è da ravvisare nella parallela ed espressa previsione dell’irrilevanza penale delle condotte abusive e del loro essere invece assoggettabili alle normali sanzioni amministrative (anche se con riscossione differita, in caso di ricorso, sino alla pronunzia del giudice di primo grado). Anche questa previsione può dirsi frutto del tentativo di assimilare le condotte abusive ai comportamenti illeciti, pur se particolarmente sofisticati; ma con risvolti che non possono ancora una volta non suscitare perplessità, non vedendosi (per un verso) come, una volta ricondotti gli “abusi” nell’area dei comportamenti illeciti, possa poi escludersi la rilevanza penale proprio per quelli maggiormente connotati, sul piano dell’elemento psicologico, dal meditato intento di sottrarre all’imposizione materia altrimenti imponibile; ovvero come (e per altro verso) alle condotte ipoteticamente “abusive” potrebbero sempre e comunque correlarsi le sanzioni previste per i veri e propri illeciti tributari, in assenza di vere violazioni di specifiche norme tributarie. 165 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: DIFFERENZE E INTERFERENZE In sintesi, la prospettiva dell’”abuso del diritto” si rivela concretamente inidonea a selezionare e caratterizzare effettivamente i comportamenti fiscalmente elusivi, in quanto per un verso finisce con l’attrarre tra di essi tutta l’area dei comportamenti determinati da legittime finalità di risparmio d’imposta, e per altro verso con il renderli sempre e comunque sanzionabili. 3 …sulla natura e gli effetti giuridici delle clausole antielusive Se, per le ragioni anzidette, deve ritenersi improprio e fuorviante l’inquadramento della problematica dell’elusione fiscale nella prospettiva dell’abuso del diritto, qualche veloce riflessione occorre adesso svolgere sui modi nei quali debbono intendersi e definirsi, in uno Stato di diritto, la funzione e gli effetti delle clausole antielusive, come quella in atto regolata dall’art. 37 bis del DPR n. 600/1973. A questo proposito, penso anzitutto che debba muoversi, per un verso, dal fondamentale rilievo dell’essere l’elusione una nozione (come quelle dell’evasione, della rimozione, della traslazione, ecc.) eminentemente sociologica, economico-finanziaria, e comunque metagiuridica (poiché, per il giurista, non possono esistere comportamenti intermedi tra l’osservanza e l’inosservanza di quel che le leggi dispongono), e, per altro verso, dell’essere essa una conseguenza ed un riflesso di quella che altrove ho qualificato una “fisiologica patologia” delle moderne discipline tributarie; le quali sono sempre più minuziose, articolate, analitiche, asistematiche, sotto la spinta di esigenze sia di certezza sui comportamenti da tenere che di aderenza delle discipline fiscali alle sempre più diversificate forme dei fenomeni economico-giuridici che si intendono colpire; ma con ciò stesso moltiplicano le strade che i contribuenti possono percorrere nella ricerca delle soluzioni fiscalmente più convenienti per le loro iniziative; e diventano quindi esse stesse motivo di successivi interventi normativi, volti a sbarrare le strade che, benché percorribili, vengono poi dal legislatore considerate troppo vantaggiose per i contribuenti, e quindi elusive. In altri termini, i connotati veri ed essenziali dei comportamenti elusivi stanno nel loro essere frutto (più che dei maliziosi intenti dei contribuenti) nelle inevitabili falle, lacune, ed imperfezioni in genere di apparati normativi sempre più frammentati e parcellizzati; e le risposte che gli ordinamenti possono dare (e concretamente danno) a queste possibili evenienze, se non suscitano particolari dubbi e difficoltà tecnico-giuridiche quando consistenti in interventi correttivi, integrativi e modificativi delle precedenti disposizioni, sollevano invece questioni non poco delicate e complesse quando si procede all’introduzione di vere e proprie “clausole antielusive”, dall’area di operatività più o meno estesa. La funzione propria di queste clausole sta infatti nel consentire agli Uffici finanziari di procedere alla disapplicazione (appunto, “antielusiva”) delle disposizioni che dovrebbero applicarsi in ragione dei fatti concretamente verificatisi, e di determinare invece le imposte dovute sulla base delle norme eluse, malgrado non se ne siano verificati i presupposti di fatto; ed esse costituiscono quindi straordinari ed eccezionali “tappabuchi” ordinamentali, 166 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: DIFFERENZE E INTERFERENZE che per un verso degradano e depotenziano al livello pararegolamentare la valenza normativa delle disposizioni che il legislatore rende “disapplicabili” (pur se a certe condizioni) nella fase dell’accertamento tributario, e per altro verso derogano al fondamentale principio di cui all’art. 12 delle preleggi, ove si dispone che il ricorso ai principi è possibile solo in assenza di espresse disposizioni, e non anche per disattendere quel che da esse già risulta. Penso, in altri termini che alle clausole antielusive debba guardarsi come a disposizioni regolatrici (non dei comportamenti dei contribuenti, né dei procedimenti tributari, ma) dello stesso rapporto tra le diverse “fonti” coesistenti all’interno degli ordinamenti giuridici. Mi pare che proprio ad una prospettiva di questo tipo facesse sostanziale riferimento (al di là delle espressioni adoperate) la stessa Corte di Giustizia con la nota sentenza Halifax del 2006, nella quale non certo a caso si caratterizzava l’elusione come comportamento non illecito, si escludeva l’applicabilità di sanzioni, e si delineavano comportamenti operativi che comportavano una complessiva ridefinizione della disciplina fiscale applicabile ai comportamenti elusivi nella totalità dei loro aspetti, sia a favore che sfavore del contribuente, indipendentemente da ogni considerazione dei più o meno maliziosi disegni da esso perseguiti. E ritengo che proprio in questa prospettiva debba definirsi la natura e gli effetti delle disposizioni contenute nel nostro art. 37 bis. Sul come tutto ciò possa farsi, non posso ovviamente in questa sede dilungarmi. Osservo soltanto che le clausole antielusive, in quanto consentono la disapplicazione delle norme che dovrebbero applicarsi, comportano obiettivi sacrifici della fondamentale esigenza della certezza del diritto; la loro area di operatività dovrebbe restare sempre rigorosamente circoscritta alle aree disciplinari che lo stesso legislatore predetermina (stabilendo le condizioni e i limiti entro i quali alla disapplicazione della legge può pervenirsi); e dovrebbe in ogni caso essere sorretta dall’espressa affermazione dei superiori principi di settore (non certo identificabili nel supremo principio di capacità contributiva) che poi giustificano la soluzione adottata. Poiché, anche le contestazioni di elusione fiscale debbono poi pur sempre correlarsi, nei loro contenuti oggettivi e soggettivi - non diversamente dagli accertamenti di evasione - a quel che è richiesto dalle norme che si ritengono eluse. In definitiva, più che di se e come debba intendersi e definirsi l’abuso delle norme tributarie, sarebbe bene che si parlasse di se, in quali casi e con quali limiti possa consentirsi la disapplicazione antielusiva delle norme medesime da parte degli uffici finanziari. 4 …e sulla prospettata generalizzazione dell’ambito di operatività dell’antielusione. Mi avvio a concludere ricordando che con le norme adesso contenute nell’art. 37 bis del DPR n. 600/1973 fu nel 1997 dal legislatore attuato un sostanziale compromesso tra contrapposte esigenze giustiziali e di certezza del diritto, poiché, se da un lato si aprì la strada alla possibilità della disapplicazione 167 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: DIFFERENZE E INTERFERENZE antielusiva delle norme tributarie da parte degli Uffici finanziari, dall’altro quella possibilità fu espressamente circoscritta dalle sole discipline fiscali di talune operazioni (essenzialmente societarie), specificamente individuate attraverso una elencazione a mio avviso tassativa, e che è poi stata progressivamente ampliata. E non certo a caso le aperture alla possibilità della disapplicazione di talune discipline tributarie furono accompagnate dall’introduzione sia dello specifico “interpello” ad un apposito Comitato per le operazioni antielusive, sia di una serie di disposizioni equitative sulle quali non è qui il caso di dilungarsi. Nel momento in cui si dovrebbe almeno in parte sconvolgere quel selettivo disegno normativo, mediante l’introduzione di un generale divieto dell’abuso del diritto, esteso ai tributi non armonizzati, occorre infine chiedersi se passi di questo genere siano veramente necessari e non siano quanto meno prematuri. In proposito, i dubbi sono a mio avviso legittimi, poichè le norme contenute nel vigente art. 37 bis sono in realtà già di per se stesse certamente riferibili anche all’area dei tributi “non armonizzati” (e cioè alle imposte dirette); l’introduzione di uno specifico divieto di abuso del diritto dovrebbe a rigore ritenersi superflua se si ritiene che i comportamenti elusivi siano illeciti e sanzionabili in base alle normali regole sanzionatorie (pur se con esclusione delle sanzioni penali); e, soprattutto, l’impianto normativo dell’art. 37 bis non ha ancora avuto verifiche giurisprudenziali adeguate alla complessità e delicatezza delle molteplici problematiche che rimangono ad esso correlate. In passato, la giurisprudenza della Cassazione è stata invero non poco condizionata dal dover pronunciare su comportamenti e controversie antecedenti l’entrata in vigore dell’art. 37 bis; e proprio questa antica ed obiettiva lacuna è stata alla base del ripescaggio dal diritto comunitario della nozione dell’abuso del diritto come limite generale all’operato dei contribuenti, nonché del dibattito sull’estensibilità di tale nozione anche all’area dei tributi non armonizzati. Ma quei dibattiti appartengono ormai al passato; mentre attengono al presente le questioni relative alle concrete implicazioni sostanziali, procedimentali e processuali dell’art. 37 bis; e sarebbe forse bene che l’eventuale dilatazione e generalizzazione dell’ambito di operatività di quella disciplina fosse quanto meno preceduta da un adeguato rodaggio giurisprudenziale su quel che esso già dispone in relazione ad una ben precisa (e non poco ampia) area di operazioni potenzialmente elusive. Poiché l’estensione della disapplicabilità antielusiva a tutte le norme sostanziali tributarie comporterebbe una grave compromissione della fondamentale esigenza della certezza del diritto; alla quale è auspicabile che non si proceda a cuor leggero. 168 Avv. Alessandra Mereu Dottore di ricerca in Diritto e procedura penale presso l’Università di Genova Abuso del diritto ed elusione fiscale: rilevanza penale o mera mancanza di una explicatio terminorum? Alcune riflessioni a margine del caso “Dolce & Gabbana” (Cassazione penale, Sezione II, 28 febbraio 2012, n. 7739 e Tribunale di Milano, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, 29 aprile 2011) SOMMARIO: 1 L’abuso del diritto e l’elusione fiscale: due concetti a confronto. - 2 Il caso “Dolce e Gabbana”: la ricostruzione del fatto e la vicenda processuale - 3 Le decisioni del Tribunale di Milano e della Corte di Cassazione - 3.1 L’elusione fiscale secondo il Giudice dell’udienza preliminare. - 3.2 La decisione della Corte di Cassazione. - 3.3 L’infondatezza del reato di truffa aggravata ai danni dello Stato in entrambi i gradi di giudizio. - 4 Rilievi critici: la tesi dell’irrilevanza penale dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto e il disegno di legge sulla delega fiscale approvato dal Consiglio dei Ministri n. 24 del 16.04.2012. - 4.1 L’atipicità dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto: la violazione del principio di legalità. - 4.2 La liceità dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale sotto il profilo civile e tributario - 4.3 La procedura di interpello ex art. 16 d. lgs n. 74/2000. - 4.4 L’elusione fiscale e l’abuso del diritto al cospetto delle figure di incriminazione di cui al d.lgs n. 74/2000: il reato di dichiarazione infedele. - 4.5 L’irrilevanza penale del prezzo incongruo. - 5 Conclusioni. L’esterovestizione tra elusione fiscale ed evasione internazionale. 1 L’abuso del diritto e l’elusione fiscale: due concetti a confronto. L’attribuire rilevanza penale a fenomeni integranti le figure dell’elusione fiscale o dell’abuso del diritto presenta aspetti di estrema delicatezza e porta l’interprete a percorrere strade impervie, nel tentativo di cogliere le note fondamentali di un fenomeno vario ed eterogeneo. L’assenza di una definizione normativa della categoria civilistica di antica creazione dottrinaria1 e la tipizzazione dell’elusione fiscale nella clausola 1 La nozione di abuso del diritto, quale categoria concettuale autonoma rispetto a quella di illecito, scaturisce unicamente dalla sensibilità analitica della scienza contemporanea. Una ricerca storica dell’istituto in esame ha infatti mostrato come tale istituto fosse sconosciuto al diritto romano: se negli editti di Gaio si abbozza un primo riconoscimento al fatto che l’esercizio di un diritto possa toccare interessi altrui, a ciò ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? generale di cui all’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973, impongono di cercare altrove, nel pensiero della dottrina e della giurisprudenza - nazionale e comunitaria -, le cifre caratteristiche degli istituti in questione. Se una nota comune vuol essere trovata tra l’istituto dell’abuso del diritto e quello dell’elusione fiscale, la medesima può essere ravvisata nella divergenza che separa lo scopo perseguito dall’agente rispetto a quello per il quale viene riconosciuto dall’ordinamento quello specifico diritto. L’essenza del fenomeno abusivo è stata infatti colta nel contrasto dello stesso con il “valore o interesse” per il quale il diritto medesimo è riconosciuto: l’atto compiuto nell’esercizio del diritto non trova il suo limite unicamente negli specifici obblighi normativi che ne segnano i confini sul piano orizzontale ed estensivo, ma incontra ulteriori limiti sul piano verticale e intensivo, cioè sul piano valorativo della norma da cui l’agente ripete il suo diritto medesimo2. Abusa del proprio diritto colui che lo esercita in vista di un fine diverso da quello avuto di mira dal legislatore. non viene tuttavia ricollegata alcuna conseguenza sul piano sanzionatorio in quanto “colui che agisce nell’esercizio del proprio diritto e causa danno ad altri non agisce né per dolus né per vis né commette damnum iniuria datum “. Solamente sulla fine del XIX secolo la dottrina francese dell’epoca (Saleilles) nota come la responsabilità civile venga connessa all’esercizio del diritto soggettivo che, pur oggettivamente conforme al diritto, sia compiuta con l’intenzione di nuocere o comunque sia contraria alla destination economique ou social du droit subjectf. Secondo il Planiol “le droit ne sont presque jamais absolus”, ma sono limitati nel loro scopo e sottoposti nel loro esercizio a diverse condizioni. Il superamento di queste, l’abuso del diritto, costituisce un atto illecito. Nella teorizzazione della dottrina francese l’abuso del diritto non costituisce una categoria distinta dall’atto illecito “in quanto quella che è sostanzialmente una convergenza dell’atto illecito e dell’atto abusivo nella comune classe degli atti contrari al diritto, viene assunta come piena e assoluta identità di caratteri dell’uno e dell’altro. Secondo il Planiol “il diritto cessa dove l’abuso incomincia”. L’esigenza di ricondurre l’abuso del diritto nell’ambito dei principi della teoria della responsabilità tramandati dalla dottrina tradizionale, fondata sul dogma secondo il quale all’esercizio del diritto non si connetterebbe una situazione di irresponsabilità, è alla base del pensiero di Planiol. Secondo Dabin invece sul piano della legalità l’abuso è inconcepibile per la contraddizione logica in cui si cadrebbe a parlare di un atto “tout à la fois conforme au droit et contrarire au droit”. L’abuso del diritto sarebbe pensabile unicamente in riferimento ad una legitimitè morale. Sarebbe l’esercizio di quel diritto che, senza oltrepassare i limiti legali, oltrepassi i limiti costituiti dai nostri doveri verso gli altri. Sull’abuso del diritto si v. AA.VV., L’abuso del diritto, in Diritto Privato 1997, Padova, 1998; D’AMELIO, Abuso del diritto, in Novissimo Digesto italiano, vol. I., Torino, 1974; RODOTÀ, Diritto (Abuso del), in Enciclopedia forense, Vol. III, Milano, 1958; ROMANO, (voce) Abuso del diritto, in Enciclopedia del diritto, Vol. I, Milano, 1958, p. 166; RESCIGNO, L’abuso del diritto, Il Mulino, 1998; SANTORO-PASSERELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli 1954; LEVI, L’abuso del diritto, Milano, 1993. 2 GIORGIANNI, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, 1963. L’A. definisce il fenomeno abusivo come “la qualificazione connessa normativamente a quel comportamento relativo all’esercizio di un determinato diritto soggettivo che, non difforme dagli specifici obblighi normativi previsti a delimitazione 170 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? Anche nell’elusione fiscale si profilano elementi di contrasto tra la legittimità formale dei comportamenti posti in essere e lo scopo perseguito dall’agente: consistendo tale fenomeno nel “ricorso a procedimenti leciti che consentono di non realizzare la fattispecie imponibile o di realizzarne una meno onerosa per il contribuente”3, esso si sostanzia in una “tensione fra forme legali e sostanza economica degli affari”4. L’obiettivo elusivo è infatti raggiunto attraverso una strumentalizzazione degli istituti fiscali e degli schemi negoziali i quali, se pur piegati al raggiungimento di scopi ad essi propriamente estranei, sono tuttavia validamente e regolarmente documentati all’Amministrazione finanziaria, alla quale non è occultato il minimo passaggio. Tale connotazione consente dunque di sottolineare come nell’elusione fiscale non vi sia alcuna artificiosità del comportamento materiale, ma della sola veste giuridica. Se nella difformità teleologica della sostanza dalla forma può essere quindi riassunta la cifra comune degli istituti in questione, le differenze si colgono invece sia nella diversa matrice storica e nel diverso inquadramento dogmatico dell’abuso del diritto, da una parte, e dell’elusione fiscale, dall’altra, sia nel diverso ruolo (complementare e di chiusura del sistema) assegnato al fenomeno abusivo rispetto a quello elusivo. L’abuso del diritto nasce infatti come categoria civilistica di ordine generale 5 alla quale l’ordinamento tributario ricorre, invocandone l’immanenza di un dell’esercizio del diritto, sia tuttavia difforme dall’interesse o valore che sta a criterio della qualificazione che di quel comportamento medesimo fa un esercizio del diritto soggettivo”. 3 MANGIONE, in Diritto penale tributario, a cura di MUSCO, cit., p. 89. L’A. ricorda come non sia da confondere con l’elusione fiscale il c.d. tax saving, “pianificazione organizzata del contribuente affinché le sue scelte economiche vengano legittimamente orientate verso soluzioni differenti rispetto a quelle tassate e maggiormente tassabili. Il risparmio di imposta è per l’appunto la scelta del comportamento lecito ma fiscalmente meno oneroso per il contribuente e rientra pienamente nella sua sfera di libertà”. 4 ALESSANDRI, L’elusione fiscale, in Riv. it.dir.e proc. pen, 1990, p. 1075 5 RODOTÀ, Diritto (Abuso del), in Enciclopedia forense, Vol. III, Milano, 1958, ricorda come non solo sia controversa la portata, le definizione stessa dell’abuso del diritto, ma la sua stessa esistenza quale categoria operante nel nostro ordinamento. Secondo l’A. le situazioni eterogenee accomunate sotto l’etichetta abuso del diritto presentano tre elementi in comune: a) un atto in sé lecito; b) l’intenzione di recare nocumento ad altri; c) un danno o un molestia attuale per un terzo. L’abuso si verificherebbe pertanto tutte le volte in cui “l’esercizio di un diritto, pur non travalicando i confini che per legge gli sono assegnati, incide nella sfera giuridica altrui tanto da danneggiarla concretamente”. Per ROMANO, Abuso del diritto, 1958, l’assenza di una norma di carattere generale che contempli l’abuso del diritto è un problema di teoria generale del diritto. La formula progettata era di dubbio tecnicismo e avrebbe potuto rivelarsi infondata per l’assunzione dello scopo quale elemento cui riferire l’abuso. L’A. definisce il comportamento abusivo come “il non esercizio o l’esercizio secondo criteri diversi da quelli imposti dalla natura della funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere”. Si è in presenza di una alterazione della 171 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? principio, per supplire alla tassatività delle ipotesi normativamente previste come elusive dal legislatore6. funzione obiettiva dell’atto alla quale l’ordinamento reagisce con un rifiuto di tutela. Sull’argomento si v. altresì Cfr. BRECCIA, L’abuso del diritto, in AA.VV., L’abuso del diritto, in Diritto Privato 1997, Padova, 1998. L’A. ravvisa il nodo fondamentale della teoria dell’abuso del diritto nello iato che separa lo schema legale di un diritto e il suo contenuto da una parte e il “fatto del suo esercizio dall’altra”. In questa direzione riprende il pensiero del Pugliatti, secondo il quale tra la ricostruzione del contenuto di un diritto sulla base dei parametri forniti dalle regole giuridiche e la valutazione delle conseguenze di un comportamento, che pretenda di conformarsi a quel contenuto, c’è un giudizio che resta interno al sistema giuridico considerato nel suo complesso ma che al tempo stesso si precisa nelle circostanze del fatto rilevanti. L’attività abusiva si distingue dalla tipica attività illecita per la complessità dell’accertamento dell’illiceità: non si tratta di constatare in assoluto e in astratto l’inesistenza di un diritto, ma si tratta di escludere la legittimità delle modalità di esercizio del diritto nelle circostanze di fatto. L’atipicità del diritto si manifesta nello scarto tra lo schema legale per sua essenza tipico e 1’esperienza del singolo conflitto d’interessi. Per BUSNELLI-NAVARRETTA, Abuso del diritto e responsabilità civile, ibidem, p. 182, vi è una contraddizione logica tra abuso e illiceità: l’obiettivo di riconoscere un’autonomia all’abuso deve partire proprio dal riconoscimento della piena giuridicità dell’abuso. RESCIGNO, L’abuso del diritto, Il Mulino, 1998 ricorda come sul tema dell’abuso del diritto le posizioni dottrinali siano irriducibilmente divise: da un lato vi è chi ritiene fondamento logico e di giustificazione positiva la nozione di abuso del diritto (V. ROTONDI, L’abuso di diritto, in Riv.dir.civ. 1923, p. 105 per il quale l’abuso del diritto è “un fenomeno sociale non un concetto giuridico, anzi uno di quei fenomeni che il diritto non potrà mai disciplinare in tutte le sue applicazioni che sono imprevedibili: è uno stato d’animo, è la valutazione etica di un periodo di transizione, è quel che si vuole, ma non una categoria giuridica e ciò per la contraddizione che non consente”), dall’altro lato, tra coloro che riconoscono il problema giuridico dell’abuso vi è una grande varietà nel ravvisare i limiti all’esercizio dei diritti, parlandosi ora di normalità, moralità, socialità. 6 In materia di imposta sul valore aggiunto non si può non ricordare l’orientamento della Corte di Giustizia, recepito nell’ordinamento italiano dalla Corte di Cassazione, che valorizza il ricorso all’abuso del diritto quale principio di ordine generale, in tal modo supplendo alla mancanza nel settore dell’Iva di una generale norma antielusiva. In particolare con le pronunce rese dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee nei procedimenti C-255/02 (“Halifax”), C- 419/02 (“Bupa Hospitals”) e C223/02 (“University of Huddersfield”) –in Rass. trib., 2006, n. 3, p. 1016 con nota di PICCOLO, Abuso del diritto ed Iva: tra interpretazione comunitaria ed applicazione nazionale– i giudici lussemburghesi hanno formalizzato in termini chiari e precisi il concetto di comportamento abusivo, prima percepibile quale elemento insito nelle pieghe del diritto comunitario. La Corte di Cassazione, nel recepire tale orientamento, ha quindi ritenuto che in presenza di un comportamento abusivo, l’Amministrazione finanziaria possa disconoscerne gli effetti ai fini fiscali, pur in assenza di una norma positiva che sancisca tale potere sia nell’ordinamento comunitario sia nell’ordinamento penale (si v. Cassazione, 5 maggio 2006, n. 10352; Cassazione, ordinanza 4 ottobre 2006 n. 21731 e da ultimo Cassazione, 16 gennaio 2008 n. 8772, in fisconline). Infine i principi suddetti sono stati altresì recepiti dall’Agenzia delle Entrate con circolare del 13 dicembre 2007 n. 67 (si v. al riguardo SANTACROCE, Il concetto comunitario di abuso del diritto in una recente circolare delle Entrate 172 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? L’abuso del diritto, diversamente dall’elusione, si connota infatti per la sua contrapposizione non a specifici e determinati obblighi normativi, ma al valore o interesse per cui l’ordinamento riconosce il diritto medesimo. Da qui il rapporto di genere a specie intravisto tra l’abuso del diritto e l’elusione fiscale7, dove al primo, quale principio generale insito nelle pieghe del diritto comunitario, è stato riconosciuto un ruolo di supplenza proprio in quei settori (come quello dell’imposta sul valore aggiunto) caratterizzati dalla mancanza di una generale norma anti-elusiva. In questo contesto i giudici comunitari hanno così definito come abusivo quel comportamento apparentemente conforme alla VI direttiva e alla legislazione nazionale, ma posto in essere al solo scopo di ottenere un beneficio fiscale contrario all’obiettivo perseguito dalle disposizioni stesse8. sull’elusione nell’Iva, in Dialoghi di diritto tributario, 2008, n. 1, p. 115). Sull’abuso del diritto si v. AA.VV., L’abuso del diritto, in Diritto Privato 1997, Padova, 1998; D’AMELIO, Abuso del diritto, in Novissimo Digesto italiano, vol. I., Torino, 1974; RODOTÀ, Diritto (Abuso del), in Enciclopedia forense, Vol. III, Milano, 1958; ROMANO, (voce) Abuso del diritto, in Enciclopedia del diritto, Vol. I, Milano, 1958, p. 166; RESCIGNO, L’abuso del diritto, Il Mulino, 1998; SANTORO-PASSERELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli 1954; LEVI, L’abuso del diritto, Milano, 1993. 7 Così MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici in MAISTO (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, p. 425. 8 Nella giurisprudenza comunitaria si v. Corte di Giustizia UE 10.11.2011, causa C126-10 nel sito internet https//eur-lex.europa.eu, caso nel quale la domanda di pronuncia pregiudiziale verteva sull’interpretazione dell’art. 11, n. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 23 luglio 1990, 90/434/CEE, relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, alle scissioni, ai conferimenti d’attivo ed agli scambi d’azioni concernenti società di Stati membri diversi. La domanda era stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Foggia – Sociedade Gestora de Participações Sociais SA e il Secretário de Estado dos Assuntos Fiscais in merito al rifiuto di quest’ultimo di autorizzarla ad effettuare un trasferimento di perdite fiscali in seguito ad un’operazione di fusione di imprese facenti parte dello stesso gruppo. La Corte, ricordando come, in forza dell’art. 11, n. 1, lett. a) della direttiva 90/434, gli Stati membri, possano revocare il beneficio fiscale qualora l’operazione di scambio di azioni abbia, in particolare, come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l’evasione fiscali, e in particolare quando l’operazione non sia effettuata per valide ragioni economiche, quali la ristrutturazione o la razionalizzazione delle attività delle società partecipanti all’operazione, può comportare una presunzione nel senso che la detta operazione abbia tale obiettivo (v., in tal senso, citate sentenze Leur-Bloem, punti 38 e 39, nonché Kofoed, punto 37). Per quanto riguarda la nozione di «valide ragioni economiche» ai sensi di detto art. 11, n. 1, lett. a), la Corte ha già avuto occasione di precisare che dalla formulazione e dagli obiettivi di tale art. 11, come da quelli della direttiva 90/434 in generale, risulta che tale nozione trascende la mera ricerca di un’agevolazione puramente fiscale. Pertanto, un’operazione di fusione per scambio di azioni unicamente volta a raggiungere tale scopo non può costituire una valida ragione economica ai sensi di detta disposizione (sentenza Leur-Bloem, cit., punto 47). Di conseguenza, può costituire una valida ragione economica un’operazione di fusione fondata su più obiettivi, tra i quali possono anche figurare considerazioni di natura tributaria, a condizione tuttavia che queste ultime non siano preponderanti nell’ambito 173 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? Il percorso di astrazione da ipotesi particolari al riconoscimento di una regola generale, ha invero, in tempi recenti, caratterizzato anche il fenomeno elusivo, il quale se ab origine trovava esclusivamente riscontro in singole ipotesi tassativamente determinate dal legislatore, oggi si rinviene invece anche nell’esistenza di un generale principio antielusivo, avente la propria fonte nei principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano9. La Corte di Cassazione ha infatti ritenuto immanente al sistema il principio secondo il quale “il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustificano l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale” [enfasi aggiunta]. Da qui l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria di quei negozi giuridici volti all’ottenimento di un indebito vantaggio tributario, anche al di fuori delle singole ipotesi normativamente previste dal legislatore. 2 Il caso “Dolce e Gabbana”: la ricostruzione del fatto e la vicenda processuale. La delicata questione della rilevanza penale dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto è stata di recente affrontata dalla Corte di Cassazione e dal dell’operazione prevista. Infatti, conformemente all’art. 11, n. 1, lett. a), della direttiva 90/434, la constatazione che un’operazione di fusione è diretta esclusivamente ad ottenere un’agevolazione fiscale, e non è quindi effettuata per valide ragioni economiche, può costituire una presunzione che tale operazione ha come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l’evasione fiscali. Risulta dalla giurisprudenza della Corte che, per accertare se l’operazione prevista abbia un tale obiettivo, le autorità nazionali competenti non possono limitarsi ad applicare criteri generali predeterminati, ma devono procedere, caso per caso, ad un esame globale dell’operazione di cui trattasi. Infatti, l’istituzione di una norma di portata generale che escluda automaticamente talune categorie di operazioni dall’agevolazione fiscale, a prescindere da un’effettiva evasione o frode fiscale, eccederebbe quanto è necessario per evitare una tale frode o evasione fiscale e pregiudicherebbe l’obiettivo perseguito dalla direttiva 90/434 (sentenza Leur-Bloem, cit., punti 41 e 44). 9 Cassazione, Sezioni Unite, 23 dicembre 2008, n. 30055, n. 30056 e n. 30057 in Corriere tributario, 2009, n. 6, p. 43 e ss. Con nota di Lupi-Stevenato, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una generale norma antielusiva. Secondo la Corte di cassazione il fondamento di un generale principio antielusivo deve essere rinvenuto nei principi costituzionali: in particolare i principi di capacità contributiva ex art. 53, 1° c. Cost. e di progressività dell’imposizione ex art. 53, 2° c. Cost. i quali costituiscono il fondamento, non soltanto, delle norme impositive in senso stretto, ma anche di quelle che “attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi”. 174 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? Tribunale di Milano, chiamati a pronunciarsi sulla responsabilità penale di due noti stilisti italiani per il reato di dichiarazione infedele ex art. 4 d. lgs n. 74/2000 e truffa aggravata ai danni dello Stato ex art. 640, 2° e 3° c. c.p.: il giudice meneghino ha pronunciato sentenza di non luogo a procedere per insussistenza del fatto di reato, mentre la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio ad altro giudice il proscioglimento nel merito del Tribunale di Milano. Il caso riguarda la realizzazione di una complessa operazione di ristrutturazione societaria volta alla cessione di uno dei più noti marchi della moda a una società di diritto e residenza lussemburghese. Il compimento di tale operazione si era resa necessaria, secondo le giustificazioni offerte dai contribuenti, per far fronte all’esigenza di spersonalizzare la gestione del suddetto marchio, la proprietà del quale faceva capo, in quote paritarie, ai due stilisti personalmente. La cessione era pertanto volta a sottrarre il marchio alle ripercussioni di eventuali (e pare anzi effettivi) dissidi tra le due persone fisiche, che lo avevano creato e per tanti anni gestito direttamente, tanto che lo stesso sistema bancario aveva giudicato la situazione di contitolarità del medesimo un forte elemento di debolezza al quale si doveva porre rimedio. Alla cessione del marchio, avvenuta per il corrispettivo pattuito di 360 milioni euro, sulla base di una valutazione effettuata da una primaria società di consulenza, faceva quindi seguito la sua concessione in licenza alla società operativa italiana del gruppo dei due stilisti, dietro il pagamento di un canone determinato nella misura compresa tra il 3 e l’8% del fatturato secondo le diverse linee di prodotto. L’operazione di ristrutturazione societaria sottraeva pertanto la percezione delle royalties ai due stilisti personalmente, in favore della neocostituita società lussemburghese, la quale aveva negoziato un accordo di negoziazione del livello impositivo (c.d. ruling) con l’amministrazione finanziaria di quel paese comportante l’applicazione di un prelievo assai ridotto sui suoi utili (pari al 4 per cento); la società italiana licenziataria del marchio deduceva, invece, per conto suo, i pagamenti dei canoni ai fini Ires e Irap. Dal momento che gli utili realizzati dalla società lussemburghese venivano, in ultima analisi, distribuiti ai due soci (attraverso la catena di controllo del gruppo formata da un’altra società lussemburghese e dalla holding italiana), la realizzazione dell’operazione suddetta permetteva, dal punto di vista strettamente fiscale, alle due persone fisiche di trasformare proventi tassati come redditi diversi (i canoni) in dividendi, fruendo al contempo del ruling lussemburghese che attenuava di molto il gravame fiscale “consolidato”. Secondo l’Amministrazione finanziaria tale operazione di ristrutturazione societaria sarebbe stata realizzata al solo fine di sottrarre ad imposizione le royalties prodotte dai marchi: in sostanza l’esterovestizione della società lussemburghese, ritenuta solo fittiziamente risiedere nel paese estero, unitamente alla cessione simulata del marchio ad un prezzo inferiore a quello che fisiologicamente sarebbe stato pattuito in un regime di libero mercato, avrebbero integrato, per l’ente verificatore, la figura del c.d. abuso del diritto. 175 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? Sotto il profilo penalistico, le fattispecie di incriminazione al cospetto delle quali punire i comportamenti suddetti sono state individuate dalla Pubblica Accusa nel reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 d.l gs n. 74/2000 e nel reato di truffa aggravata ai sensi dell’art. 640, 1° e 2° c. c.p.: il primo è stato contestato ai due stilisti per aver indicato nella propria dichiarazione tributaria elementi attivi di reddito inferiori a quelli effettivi (consistenti, nella prospettiva accusatoria, nella differenza tra il corrispettivo al quale sarebbe dovuta avvenire la cessione del marchio e il minor prezzo effettivamente pagato); del secondo sono stati invece chiamati a rispondere, accanto ai noti stilisti, gli amministratori di fatto della società lussemburghese e il commercialista responsabile dell’operazione, rei di aver ingannato l’Erario sul paese di reale tassazione dei redditi prodotti dalla società esterovestita, causando così ad esso un ingente depauperamento patrimoniale. Sulla rilevanza penale della complessa operazione giuridico-economica realizzata si sono pronunciati, con decisioni di segno opposto, il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano e la Suprema Corte di Cassazione (adita con ricorso presentato dalla Pubblica Accusa e dall’Agenzia delle Entrate, costituitasi parte civile). Il giudice di merito ha ritenuto di pronunciare sentenza di non luogo a procedere per insussistenza del fatto di reato, sulla base dell’applicazione del criterio di giudizio (che sovraintende l’epilogo dell’udienza preliminare) per il quale il proscioglimento si impone come doveroso quando la “valutazione prognostica circa i possibili esiti di una eventuale istruzione dibattimentale” porti ad “una soluzione chiusa, caratterizzata dall’infondatezza dell’accusa ovvero da una insufficienza e/o contraddittorietà degli elementi di prova” non superabile con il prosieguo del processo: nel caso di cui si tratta, si legge nel motivare della sentenza di proscioglimento, non soltanto, “il fatto storico [risulta] compiutamente accertato e sostanzialmente non controverso tra le parti”, ma anche i profili di diritto, pur “se sotto il profilo strettamente tributario, appaiono suscettibili di letture e interpretazioni alternative”, conducono, sotto il profilo penalistico, “ad un’unica decisione finale” (id est: il proscioglimento nel merito degli imputati). La Corte di Cassazione, diversamente valutando invece la rilevanza penale delle differenti questioni fiscali sottoposte al suo giudizio, ha espresso importanti principi di diritto, rimettendo al giudice del rinvio la rivalutazione del caso alla luce di quanto statuito. 3 Le decisioni del Tribunale di Milano e della Corte di Cassazione . 3.1 L’elusione fiscale secondo il Giudice dell’udienza preliminare. Il diverso approccio interpretativo al fenomeno dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto ha portato il giudice di prime cure e il giudice di legittimità a conclusioni diverse in merito alla rilevanza penale di tale tipologia di comportamenti. 176 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? Il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale meneghino motiva il proscioglimento nel merito per il reato di dichiarazione infedele sulla base delle seguenti argomentazioni. In primo luogo viene sottolineato come l’operazione di ristrutturazione societaria fosse stata effettivamente realizzata: effettiva e reale è stata infatti la cessione del marchio dagli originari comproprietari alla società di diritto lussemburghese, effettivo e reale è stato il pagamento del prezzo pattuito (essendo state le prime rate regolarmente pagate ed essendo stata sottoposta a tassazione la plusvalenza realizzata dai cedenti). L’assenza di qualsiasi nota di simulazione e decettività nei comportamenti posti in essere è stato pertanto l’elemento fondamentale che ha consentito al giudice di prime cure di ritenere non integrata la figura di incriminazione di cui all’art. 4 d. lgs n. 74/2000. Il reato di dichiarazione infedele, si legge infatti nel motivare della sentenza, “implica la percezione di un reddito effettivo superiore a quello dichiarato ed accertato secondo i criteri del processo penale” e non già “l’obbligo di dichiarare un reddito, e quindi subire la relativa tassazione, secondo il criterio presuntivo del valore normale, anche se diverso da quello reale”. Così opinando, il Tribunale di Milano mostra di non attribuire alcuna rilevanza alla presunzione tributaria di cui all’art. 9 d.P.R. n. 917/1986, e non soltanto per l’inutilizzabilità nel processo penale delle presunzioni proprie del diritto tributario, ma soprattutto perché il criterio del valore normale è assolutamente ininfluente nella prospettiva del reato tributario contestato, non punendo per l’appunto esso la discrepanza tra quanto indicato nella dichiarazione fiscale e un opinabile “giusto prezzo” del bene o della prestazione ceduta, ma il divario tra quanto effettivamente percepito e quanto indicato nella dichiarazione dei redditi. In altre parole, la responsabilità penale per il reato di dichiarazione infedele necessita la “prova del nascondimento dei corrispettivi” e non già che “il prezzo dichiarato non sia quello determinato presuntivamente dalla legge”: prova, questa, ritenuta assolutamente manchevole nel caso in questione (“nulla dice – e nulla dirà mai – che [i due stilisti] hanno effettivamente percepito un corrispettivo superiore a quello dichiarato di 360 milioni di euro”) e in ordine alla quale non hanno deposto neanche elementi indiziari, quali la tenuta irregolare delle scritture contabili, l’esistenza di una contabilità in nero, accertamenti bancari o testimoniali. Per contro il prezzo della cessione risulta stabilito secondo “una procedura trasparente agli occhi (notoriamente attenti) del mercato” (essendo stata richiesta una valutazione del valore del marchio ad una prestigiosa società di consulenza) ed esso è stato comunque ritenuto pattuito “nell’ambito della libertà contrattuale delle parti, che hanno così deciso di regolare i rapporti tra di loro”. Se nessun dubbio è sorto in ordine all’effettività della cessione e alle realità del prezzo, ad uguali conclusioni il giudice meneghino è inoltre giunto con riguardo all’effettività della sede estera della società acquirente il marchio. 177 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? La negazione dell’esterovestizione della società lussemburghese (intesa come dissociazione tra sede formale e sede reale dell’impresa esclusivamente finalizzata ad usufruire di un più favorevole regime fiscale) è motivata, dal giudice di prime cure, sulla considerazione della tipologia di attività svolta dalla società estera. Il Tribunale di Milano ha all’uopo ritenuto che, essendo risultato l’oggetto sociale della Gado Sarl limitato alla sola gestione dei marchi, sintomi di effettivo svolgimento dell’attività imprenditoriale dovessero essere valutate non l’attività creativa, le decisioni del managment, la produzione o la commercializzazione dei prodotti (attività rimaste effettivamente in Italia ed estranee all’oggetto sociale), ma solo quelle attività, quali l’iscrizione del marchio negli appositi registri, la sottoscrizione dei contratti di licenza, l’attività di tutela dalle contraffazione e la percezione delle relative royalties, pertinenti invece all’oggetto sociale. In questa prospettiva, sono stati pertanto ritenuti sussistenti elementi di fatto idonei ad escludere la presenza di una esterovestizione della società anzidetta, la scelta di collocare all’estero la sede della quale è stata, anzi, ritenuta una forma di esercizio del diritto di stabilimento di cui agli artt. 49 e ss. del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Considerati pertanto infondati gli elementi probatori addotti dalla Pubblica Accusa (id est: cessione simulata dei marchi, verso un corrispettivo incongruo inferiore al loro valore normale, ad una società lussemburghese esterovestita), il Tribunale di Milano ha reputato insussistenti entrambe le ipotesi accusatorie sollevate (per le motivazioni a sostegno dell’insussistenza del reato di truffa ai danni dello Stato si veda infra), anche motivando sotto il profilo dell’irrilevanza penale dell’elusione fiscale. Definito l’istituto in questione come “una concatenazione di atti e procedimenti leciti che consentono di non realizzare la fattispecie imponibile o di realizzarne una meno onerosa per il contribuente, perseguendo ultimamente un obiettivo perseguito dalla legge”, il giudice meneghino ha ritenuto l’elusione fiscale una questione di puro diritto, nella quale gli “artifici non stanno nei fatti, tutti rappresentati e documentati in modo conforme alla legge” né nella “divergenza tra voluto e realizzato”, non essendovi alcun interesse a “mostrare una realtà diversa da quella effettiva”: in questa prospettiva è quindi evidente il divario che separa, nel pensiero del Tribunale di Milano, il fenomeno elusivo da quei fenomeni, connotati da fraudolenza o decettività, suscettibili invece di rientrare nell’ambito applicativo dei reati di truffa o frode fiscale. Supportano ulteriormente l’incedere argomentativo del giudice di prime cure alcune riflessioni di sistema. L’elusione fiscale si caratterizza per la sua atipicità: la descrizione impressa al fenomeno elusivo dall’art. 37 bis non è infatti di certo bastevole -sul versante penale- a conferire determinatezza al medesimo, con la conseguenza che, sotto questo profilo, il fenomeno in questione, si pone in contrasto con il fondamentale principio (di origine illuministico-liberale) di legalità, per il quale il reato è solo il fatto tipico, ovvero il fatto descritto per tipi legali. 178 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? Non può sottacersi, inoltre, secondo il Tribunale meneghino, il profilo dell’elemento soggettivo del reato che connota le figure di incriminazione di cui al d. lgs n. 74/2000: alla previsione del dolo specifico, limitata al solo fine di evadere (e non già di eludere) le imposte, non può non essere infatti conferito un rilievo particolare, tale per cui la condotta incriminata (alla tipizzazione della quale partecipa senz’altro la particolare finalità che deve animare il comportamento dell’agente) deve essere circoscritta alle sole ipotesi di evasione in senso tecnico. La natura procedimentale (e non già sostanziale) dell’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973 -si legge nella decisione di primo grado- costituisce, infine, elemento ulteriore a sostegno dell’irrilevanza penale dell’elusione fiscale. La norma generale antielusiva comporta, infatti, soltanto il potere dell’Amministrazione finanziaria di disapplicare agli effetti fiscali il regime prescelto dal contribuente, senza l’irrogazione di alcuna sanzione amministrativa. Conferire rilevanza penale a tale fenomeno porterebbe pertanto ad una antinomia di sistema, punendo in sede penale ciò che non è punito in sede tributaria. 3.2 La decisione della Corte di Cassazione. Sulla questione della rilevanza/irrilevanza penale dell’elusione fiscale sembra invece essere stata di diverso avviso la Corte di Cassazione la quale, nel rinviare la sentenza impugnata al Tribunale di Milano, ha enunciato al riguardo importanti principi di diritto. Dopo aver ricordato la genesi storica dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale, e l’orientamento giurisprudenziale (nazionale e comunitario) in materia sviluppatosi e giunto alla ricordata proclamazione dell’esistenza nel sistema di un generale principio antielusivo, svincolato dalla violazione di una specifica disposizione (Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 30055 e 30057 del 23/12/2008), il giudice di legittimità, riconosciuta l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in materia, ha argomentato a sostegno della tesi della rilevanza penale dell’elusione fiscale. In questa direzione, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure (che, nella lettura del dolo specifico, ha valorizzato l’argomento letterale dell’utilizzo del termine “evasione” e non già “elusione”) viene innanzitutto sottolineato come la definizione di imposta evasa sia “molto ampia” e, come tale, “idonea a ricomprendere [in essa] l’imposta elusa”. Essa viene infatti ritenuta dai giudici di legittimità come la differenza tra “l’imposta effettivamente dovuta” e “l’imposta dichiarata”, ovvero come la differenza tra l’imposta che si sarebbe dovuta applicare a seguito dell’operazione elusa e quella, invece, autoliquidata sull’operazione elusiva. Così opinando, i giudici di legittimità accolgono quanto sostenuto dalla minoritaria (seppur autorevole) dottrina, per la quale la condotta del fatto tipico è integrata “per il solo fatto che vi è una differenza tra l’elemento attivo dichiarato e quello effettivo”, non dovendo essa necessariamente conseguire “sul piano qualitativo, a falsità e simulazioni”, ma potendo anche “deriva[re] solo da una divergenza quantitativa”. In modo simmetrico sono 179 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? state altresì interpretate la componenti negative di reddito, nel senso, appunto, “di elementi (anche reali) indeducibili in quanto divergenti per eccesso rispetto a quelli effettivi”10. Supporta ulteriormente il convincimento della Corte di Cassazione circa la rilevanza penale del fenomeno elusivo l’istituto del c.d. interpello di cui all’art. 16 d. lgs n. 74/2000, il quale esclude la punibilità dei comportamenti elusivi se posti in essere in adeguamento al parere richiesto al Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive. Letta a contrario tale norma fonda, nel pensiero dei giudici di legittimità, la rilevanza penale dei comportamenti elusivi realizzati al di fuori della procedura di interpello: si legge infatti nel motivare della sentenza come non sarebbe necessaria “un’esimente speciale per la tutela dell’affidamento, se l’elusione fosse irrilevante dal punto di vista penale”. La considerazione per la quale la procedura di interpello è attivabile per l’applicazione delle disposizioni contenute nel d.P.R. n. 600/1973, art. 37 c.3 e art. 37 bis, e quindi con riferimento alle sole specifiche fattispecie elusive previste dalla normativa tributaria, conduce la Corte di Cassazione a ridimensionare la portata del principio di diritto per il quale l’elusione fiscale è tout court penalmente rilevante, ritenendo invece che possano acquisire rilevanza penale quei soli comportamenti “corrispond[enti] ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge”. Così ragionando, i giudici di legittimità escludono che nel campo penale possa essere affermata, così come avvenuto per il settore civile e tributario, “l’esistenza di una generale regola antielusiva, che prescinda da specifiche norme antielusive”, ritenendo invece che possano acquisire rilevanza penale le sole condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva. L’enunciazione di un principio di tal fatta non comporta inoltre, nel pensiero della Corte di Cassazione, alcuna violazione del principio di legalità imperante nel diritto penale: l’attribuire rilevanza penale a fenomeni meramente elusivi porta, infatti, ad un risultato interpretativo “conforme ad una ragionevole prevedibilità, tenuto conto della ratio delle norme, della loro finalità e del loro inserimento sistematico”. Opinare diversamente significherebbe trasformare il principio di legalità “in principio di impunità, pur in presenza di una descrizione della fattispecie elusiva provvista dei necessari caratteri di determinatezza”. In questo contesto, è inoltre la nuova filosofia sottesa alla riforma penaltributaria attuata con il d. lgs n. 74/2000 a supportare ulteriormente il convincimento per il quale l’elusione fiscale non può, nei limiti anzidetti, non avere aprioristicamente rilevanza penale: se abbandonato il modello del c.d. “reato prodromico” (che connotava la previgente disciplina di cui alla l. n. 516/1982), le nuove figure di incriminazione “sono incentrate sul momento della dichiarazione fiscale e si concretizzano nell’infedeltà dichiarativa, il 10 GALLO, Rilevanza penale dell’elusione, cit., p. 321. 180 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? comportamento elusivo non può essere considerato tout court penalmente irrilevante” . Sulla base di questi principi di diritto, la Corte di Cassazione ha pertanto rimesso al giudice del rinvio il compito di valutare la rilevanza penale delle operazioni societarie realizzate. L’infondatezza del reato di truffa aggravata ai danni dello Stato in entrambi i gradi di giudizio. Se sul tema della rilevanza penale dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale il giudice di merito e il giudice di legittimità si sono espressi in modo difforme, pur attraverso percorsi argomentativi differenti hanno invece concordato sulla inconfigurabilità del reato di truffa ai danni dello Stato, imputati del quale erano stati, oltre i due noti stilisti, gli amministratori di fatto della società lussemburghese e il commercialista responsabile dell’operazione. Il reato di cui all’art. 640 c.p. era stato ravvisato nel comportamento fraudolento posto in essere dagli imputati i quali, attraverso la simulata cessione del marchio ad una società solo fittiziamente residente all’estero, avrebbero indotto in inganno l’Erario sul paese di reale tassazione dei redditi prodotti dalla società esterovestita, causando così ad esso un ingente depauperamento patrimoniale. Il Tribunale di Milano (dopo aver notato come la Pubblica Accusa avesse preferito alla strada dei reati tributari –che avrebbe portato ad una imputazione per omessa dichiarazione a carico dell’amministratore delegato della società lussemburghese-, quella del diritto penale “classico” -che ha portato invece all’imputazione per truffa), ha ritenuto insussistente il reato contestato sulla base di argomentazioni svolte in punto fatto, secondo le quali la figura di incriminazione contestata è manchevole sotto il profilo sia della condotta artificiosa, sia dell’induzione in errore, sia dell’atto di disposizione patrimoniale. L’assenza della condotta artificiosa del reato di truffa è discesa, nel pensiero del giudice di prime cure, dal mancato ravvisamento di qualsiasi profilo simulatorio o decettivo nel comportamento posto in essere dagli imputati: essendosi profilata la cessione del marchio come un’operazione reale e la sede della società lussemburghese come effettiva, si è ritenuto non integrata quella “simulazione o dissimulazione che opera sulla realtà esterna, creando nella vittima una falsa rappresentazione della realtà medesima” nella quale la dottrina ritiene consistere l’artificio di cui all’art. 640 c.p.11: Alla manchevolezza del primo segmento della vincolata condotta truffaldina, è seguita altresì l’assenza, nel caso in questione, della sequenza induzione in errore-atto di disposizione patrimoniale, nella quale si concretizza quella necessaria cooperazione della persona offesa alla propria diminuzione 3.3 11 In questo senso, infra multis, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., p.338. Sulla tematica dell’idoneità degli artifici e raggiri si v. altresì DE MATTEIS, Impossibilità della induzione in errore ed idoneità degli artifizi e raggiri nel delitto di truffa, in Riv.giur.sarda, 1991, n. 1, p. 210. 181 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? patrimoniale, che distingue il reato di truffa dagli altri reati di aggressione unilaterale al patrimonio della vittima12. In questa prospettiva, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale meneghino, non soltanto, ha ritenuto insussistente una induzione in errore del Fisco italiano, non essendosi la società lussemburghese “minimamente qualificata agli occhi dell’Agenzia delle Entrate italiana e, di conseguenza [non avendo] reso alcuna dichiarazione fiscale”, ma non ha anche ritenuto integrato l’atto di disposizione patrimoniale il quale, se pur può avere “carattere omissivo”, non può tuttavia essere ravvisato nel fatto che gli organi 12 In questo senso ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, vol. I., cit. p. 336. L’A. sottolinea come il consenso della vittima, carpito fraudolentemente, caratterizzi il reato di truffa e lo distingui sia dal furto sia dall’appropriazione indebita, che per contro presuppongono il dissenso della vittima. Nella truffa, invece, l’agente mediante artifizi e raggiri riesce ad ottenere che la vittima si danneggi da sé: “consegni una cosa, assuma un’obbligazione, rinunzi ad un suo diritto, compia insomma un atto di disposizione pregiudizievole per il suo patrimonio e vantaggioso per altri”. Nello stesso senso LA CUTE (voce) Truffa (dir.vig.), in Enc.dir., cit., p. 261 il quale sottolinea come l’atto di disposizione patrimoniale rappresenti una componente essenziale nel reato di truffa: “fin dall’inizio del programma criminoso tutta l’iniziativa del soggetto attivo è in funzione della prospettiva dell’atto di disposizione patrimoniale che il soggetto passivo dovrà compiere; lo scontro tra due intelligenze si snoda tra il tentativo di convincere il soggetto passivo a danneggiarsi da sé, superare le naturali resistenze prima di accedere alla persuasiva insistenza sulla convenienza e sulla opportunità di porre in essere l’atto di disposizione patrimoniale e l’ingiusto profitto. L’atto di disposizione segna quindi il passaggio da un fenomeno interno della psiche del soggetto passivo ad un effetto esterno consistente nel trasferimento patrimoniale; la vittima sotto l’influsso del processo lesivo azionato dal reo si determina ad agire efficacemente nell’ambito della propria sfera patrimoniale”. Sull’argomento si v. altresì PEDRAZZI, Inganno ed errore nei delitti contro il patrimonio, Varese, 1955-1956, p. 61. Secondo l’A. “la truffa è caratterizzata […] dalla cooperazione della stessa vittima al fatto lesivo: bisognerà dunque che il fatto della vittima basti a modificare direttamente la situazione patrimoniale, cagionando il danno e il profitto. Ossia, chiarisce opportunamente la dottrina, il fatto della vittima deve essere causa immediata dell’evento, senza che sia necessaria un’ulteriore attività del reo: altrimenti sarebbe quest’ultima a dare il tono al processo causale, e la fisionomia dell’offesa muterebbe radicalmente: la condotta del soggetto passivo avrebbe un valore preparatorio. Su questo punto ci sembra necessaria una precisazione: fra il fatto della vittima e il risultato non deve frapporsi un’attività del reo che abbia carattere di usurpazione unilaterale; non muterebbe la fisionomia del fatto una condotta del reo di natura diversa: una condotta che si limitasse ad attuare una volontà manifestata dalla stessa vittima. Supponiamo che la vittima, indotta in errore, consenta al reo di impossessarsi di una sua cosa: l’impossessamento consentito non costituirebbe più un’usurpazione unilaterale, e l’offesa non perderebbe la sua fisionomia fraudolenta; resterebbe da discutere in quale momento l’offesa si consuma: se nel momento del consenso o in quello dell’impossessamento effettivo; ma è già una questione di minor importanza, in ogni caso l’effetto andrebbe riportato alla volontà della vittima. Cioè: nell’accertare l’immediatezza di operazione di mezzo, bisogna tener conto solo dei fattori che hanno una propria autonoma rilevanza”. 182 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? di controllo “non contestino l’evasione tributaria, né tanto meno nel fatto che l’Erario si limiti a subire l’inadempienza dell’agente” 13. La Corte di Cassazione esclude invece la fondatezza del ricorso della Pubblica Accusa, nella parte in cui ritiene configurabile nel caso di specie il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, sulla base di considerazioni di diritto, che fanno leva sul recente insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, per il quale sussiste un rapporto di specialità tra le figure di incriminazione di cui agli artt. 2 e 8 d. lgs n. 74/2000 e il delitto di truffa ai danni dello Stato, in quanto qualsiasi condotta fraudolenta diretta all’evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all’interno del sistema normativo dei reati tributari, salvo il particolare caso in cui dalla condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale, quale l’ottenimento di erogazioni pubbliche 14. 13 In questi casi manca quella necessaria cooperazione della vittima alla causazione dell’evento del reato, che costituisce un anello indispensabile nella concatenazione degli eventi causali della condotta truffaldina: l’Erario non omette, indotto in errore, di esercitare un suo credito nei confronti del contribuente, ma si limita a subire da questi un minor versamento di imposte: in queste ipotesi è stato sottolineato come “sia estremamente ardita la pretesa di ricondurre tale perdita ad un atto di disposizione patrimoniale del danneggiato (requisito implicito della truffa) giacché lo Stato non risulta essersi spogliato mediante un comportamento proprio del suo diritto, ma è leso per effetto di un comportamento altrui nella pretesa di vedere adempiuta la prestazione di imposta” (si v. Cass., Sez. V, 30 gennaio 2007 n. 3257 in RISPOLIBUSATO, Reati tributari, percorsi giurisprudenziali, Milano, 2007, p. 132). In questo senso si è pronunciato anche quell’orientamento giurisprudenziale meno recente secondo il quale “lo Stato non si spoglia da sé di un proprio diritto, ma subisce l’inadempimento dell’obbligato nella convinzione, fraudolentemente provocata dall’agente, che la prestazione non sia dovuta” (Cassazione, 11 novembre 1956, in Giust.pen., 1960, II, c. 808), con la conseguenza che non può configurarsi un atto dispositivo “ciò non tanto perché l’atto stesso non possa concretizzarsi in una rinuncia al credito, quanto perché il successivo controllo non integra gli estremi della condotta tipica del soggetto passivo a norma dell’art. 640 c.p., non concretando un atto di disposizione con cui lo Stato si spoglia di un suo bene patrimoniale” (Cassazione, Sez. II, 23 febbraio 1972, in Ind.pen., 1979, p. 291). 14 Cassazione, Sezioni Unite, 19 gennaio 2011, n. 1235, in questa rivista, 2011, n. 2, pp. 337 e ss. con nota di MEREU, La frode Iva tra truffa e frode fiscale: il concorso apparente di norme/concorso di reati al vaglio delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. L’A. sottolinea come con questa importante pronuncia le Sezioni Unite della Corte di Cassazione abbiano risolto il contrasto giurisprudenziale sussistente in materia di concorso apparente di norme/concorso di reati tra frode fiscale e truffa aggravata ai danni dello Stato. “Sulla base di un raffronto strutturale tra le fattispecie e applicando il principio di specialità, la Cassazione ritiene il reato di frode fiscale speciale rispetto al reato di truffa, in quanto caratterizzato da uno specifico artificio (l’uso di fatture o da altri documenti per operazioni inesistenti). Non scalfiscono inoltre il rapporto di genere a specie intercorrente tra le fattispecie de quibus, gli elementi del danno e profitto, giacché questi “dati fattuali di evento non possono trasformare una tale situazione di identità ontologica dell'azione in totale diversità del fatto”. Decisiva appare anche la considerazione per la quale la negazione dell'esistenza di un rapporto di specialità tra i due reati si pone in contraddizione con 183 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? Opinare diversamente porterebbe ad una utilizzazione strumentale “di una ipotesi delittuosa comune contro il patrimonio, quale la truffa aggravata ai danni dello Stato, per alterare, se non stravolgere, il sistema di repressione penale dell’evasione disegnato dalla legge”: si legge infatti nel motivare dei giudici di legittimità come i meccanismi della repressione penal-tributaria “escludono che possa ascriversi anche a titolo di truffa ai danni dello stato quelle condotte che, previste e sanzionate dal d. lgs n. 74/2000, non abbiano altra diretta finalità che l’evasione o l’elusione dell’obbligazione tributaria”. 4 Rilievi critici: la tesi dell’irrilevanza penale dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto e il disegno di legge sulla delega fiscale approvato dal Consiglio dei Ministri n. 24 del 16.04.2012. Il diverso approccio del Tribunale di Milano e della Corte di Cassazione al tema della rilevanza penale dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto riflette il contrasto dottrinale e giurisprudenziale sorto in materia nel corso degli anni, che ha visto contrapporsi i fautori delle due diverse tesi. La tesi rigorista, per la quale il risultato di un comportamento elusivo può senz’altro coincidere con l’indicazione di elementi attivi inferiori a quelli effettivi o all’indicazione di costi che altrimenti non sarebbero emersi e che, proprio per questo, devono essere considerati fittizi, è stata sostenuta dalla minoritaria (seppur autorevole) dottrina15, dalla Guardia di Finanza nella nota circolare n. 1 del 200816 e dalla giurisprudenza in qualche sporadica occasione17. lo spirito della riforma del sistema penale tributario il quale, basato sull’abbandono del modello del reato prodromico, focalizza l’attenzione penale sul momento dichiarativo, sull’esclusione del tentativo per i delitti dichiarativi e sul divieto di concorso tra emittente e utilizzatore di fatture per operazioni inesistenti. Unica eccezione alla negazione del concorso di reati viene ravvisata nella esistenza di un profitto ulteriore e diverso rispetto all'evasione fiscale, come l'ottenimento di finanziamenti pubblici: in questo caso non sussiste infatti alcun problema di specialità tra norme, perché la medesima condotta viene utilizzata per finalità diverse e, violando diverse disposizioni di legge, il disvalore penale del fatto non si esaurisce nell’ambito del sistema dei reati tributari”. 15 GALLO, Rilevanza penale dell’elusione, in Rassegna tributaria, 2001, n.2, p. 321. 16 Circolare della Guardia di Finanza 2008, n.1, in Ilfisco.it 17 Corte appello Bologna, 21 aprile 2004, n. 788, nella bancadati www.jurisdata.it, per la quale “l’elusione fiscale costituisce reato quando il contribuente con il suo comportamento finalizzato alla sottrazione del pagamento delle imposte, pone in essere una delle condotte che unitariamente considerate integrano un reato o che integrino gli estremi di una violazione fiscale”. Più di recente si v. Cassazione, 18 marzo 2011, n. 6723, pronunciatasi a seguito di ricorso proposto nei confronti della decisione del Tribunale del riesame con la quale veniva confermata l’applicazione della misura cautelare reale del sequestro preventivo; Cassazione 26/05/2010, n. 29724, ricordata dagli stessi giudici di legittimità con la decisione in commento, riguardante un caso di estero vestizione. 184 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? La tesi dell’irrilevanza penale dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale è stata invece sostenuta dalla dottrina maggioritaria 18. Ad essa ha fatto seguito la giurisprudenza sia di merito sia di legittimità la quale, seppur interrotta da quelle poche pronunce espressesi a favore della rilevanza penale di tali fenomeni, si sta pian piano imponendo come orientamento maggioritario e consolidato in materia19. La diatriba sembra tuttavia trovare una definitiva soluzione: il Consiglio dei Ministri ha infatti recentemente approvato il disegno di leggo sulla delega fiscale “per dare maggiore certezza al sistema tributario, migliorare i rapporti con i contribuenti e proseguire nel contrasto con l’evasione fiscale”, statuendo l’irrilevanza penale dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale. In esso si legge infatti come il secondo capitolo della legge delega, dedicato ai rapporti tra Fisco e contribuente, non soltanto introduca “una definizione generale dell’abuso del diritto che, recependo la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione, sarà unificata a quella dell’elusione, rendendola applicabile a tutti i tributi”, ma preveda anche una “revisione del sistema sanzionatorio penale secondo criteri di predeterminazione e proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti”, nel quale l’applicazione del reato tributario deve essere esclusivamente rivolta ai “comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e utilizzo di documentazione fiscale falsa”. In questa prospettiva si prevede pertanto “l’esclusione della rilevanza penale per i comportamenti ascrivibili all’abuso del diritto e all’elusione fiscale”. L’introduzione legislativa di un principio di tal portata porrebbe pertanto fine al contrasto di opinioni in materia: essa è auspicata, non soltanto per ragioni di maggior certezza legislativa e uniformità nell’applicazione del diritto, ma soprattutto perché si ritiene vi siano molteplici ragioni che fondatamente conducano a sostenere l’irrilevanza penale dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale. L’atipicità dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto: la violazione del principio di legalità. L’assenza di una definizione normativa della categoria civilistica dell’abuso del diritto e la tipizzazione dell’elusione fiscale in una norma (per il 4.1 18 In dottrina infra multis Cfr. D’AVIRRO, Elusione, Evasione tributaria e frode fiscale, in AA.VV., La riforma del diritto penale tributario -D. lgs. 19 marzo 2000 n. 74- (a cura di) D’AVIRRO-NANNUCCI, Padova, 2000, p. 127; BRIGAZZI, Gli eventuali riflessi penalistici dei più diffusi fenomeni di elusione fiscale, in Dir.pen.proc., 1999, n. 41, p. 486; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale tributario, cit.; GALLO, Elusione, risparmio di imposta e frode alla legge, cit., p. 384; ADONNINO, Parere del Ministero delle finanze e del Comitato Consultivo per l’applicazione delle norme antielusive e rilevanza penale dell’elusione, in Riv.dir.trib., 2001, 2, p. 239; ALESSANDRI, L’elusione fiscale, in Riv. it.dir.e proc. pen, 1990, p. 1075; MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici in MAISTO (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, 421 ss.. 19 Si rimanda alle note dalla n. 38 alla n. 43. 185 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? penalista) non certo dettagliata (id est: l’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973) evidenziano un dato fondamentale legato all’insanabile contraddizione tra le necessaria atipicità degli istituti di cui si tratta e la necessaria tipicità, invece, dell’illecito penale. Tale nota fondante dei fenomeni in questione si pone infatti in contrasto con il fondamentale principio, di origine illuministico-liberale, per il quale il reato è solo il fatto tipico, ovvero il fatto descritto per tipi legali20. Nella tipizzazione dei fatti incriminati in modelli legali, il principio di legalità e il sotto-principio di tassatività (dal primo derivante) impongono al legislatore il dovere di procedere ad una precisa determinazione della fattispecie legale, affinché risulti tassativamente stabilito ciò che è penalmente lecito e ciò che è penalmente illecito, al fine di garantire la certezza della legge. In questo contesto il principio di tassatività, pur non postulando una incompatibilità assoluta con la formulazione della fattispecie di incriminazione attraverso elementi normativi, bandisce tuttavia nella descrizione del fatto di reato l’utilizzo “di elementi vaghi, normativi od emozionali, che comportino l’indeterminatezza del precetto”21. Tali considerazioni hanno pertanto insinuato nella dottrina il dubbio di poter individuare una norma incriminatrice “rispettosa del principio di legalità (sotto il versante della precisione e della determinatezza) e nel contempo redatta in modo tale da comprendere nella sua portata definitoria comportamenti tanto sfumati e generici, come quelli riconducibili alle categorie dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale”22. In questa prospettiva rende ancor più fondato il dubbio della legittimità di una figura di incriminazione di tal fatta l’evoluzione normativa che ha subito il reato di abuso d’ufficio23: l’abuso innominato (di cui alla versione 20 MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 2008, p, 50. L’A. ricorda come per la “concezione formale il reato è tutto ciò e solo ciò che è previsto dalla legge come tale. Considerato in astratto (c.d. aspetto precettivo), ossia quale ipotesi delineata dal legislatore, il reato è il fatto tipico. La tipicità, cioè l’essere il fatto descritto per tipi legali, è un carattere essenziale del reato. La tipizzazione dei fatti incriminati in modelli legali, cioè la descrizione legislativa dei modelli vietati, è la tecnica di produzione della norma da parte del legislatore. Il perno su cui ruota la concezione formale del reato è la fattispecie legale o tipica, che costituisce l’approdo del principio illuministico-liberale del nullum crimen sine lege ed è lo strumento tecnico attraverso cui vengono soddisfatte le esigenze garantiste di certezza giuridica e di difesa contro l’arbitrio giudiziario, proprie di tale principio”. 21 MANTOVANI, Diritto penale, cit., p, 107. L’A. ricorda come il principio di tassatività sia rispettato quanto la figura di incriminazione raggiunge il grado di determinatezza necessario e sufficiente a consentire al giudice di individuare, ad interpretazione compiuta, il tipo di fatto dalla norma disciplinato. 22 MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici in MAISTO (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, p. 421. 23 L’originaria fattispecie di abuso d’ufficio innominato, stante il difetto di tassatività e determinatezza della fattispecie, ha portato parte della dottrina a chiedere una riforma della figura di incriminazione finalizzata ad una maggior tassatività della 186 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? precedente la modifica attuata con la L. 16.7.1997 n. 234) si poneva infatti, secondo l’opinione dominante, in contrasto con il principio di legalità e tassatività della legge penale, in quanto l’abuso veniva genericamente punito di per se stesso e non si poneva in funzione della violazione di una specifica disposizione di legge. Risulta evidente come tale dato assuma una particolare pregnanza nella prospettiva di studio del presente lavoro. Se l’esigenza di maggior determinatezza della legge penale ha, infatti, portato il legislatore a intervenire sulla fattispecie meglio specificandone la condotta di abuso “in funzione della violazione di norme di legge o di regolamento”, non è chi non veda come il conferire rilevanza penale ad una generica condotta di abuso, che si pone in violazione non di una specifica disposizione di legge ma di un vago e indeterminato interesse sotteso alla qualificazione giuridica di quel comportamento in termini di diritto (o di potere), contrasti inevitabilmente con i principi cardine del diritto penale, presidiati sul piano costituzionale. Così ragionando, non si può quindi non convenire con chi ha ritenuto la categoria dell’abuso “strutturalmente estranea al mondo del diritto penale per la sua incompatibilità con il fondante principio di legalità […] La natura essenzialmente atipica dell’illecito costituente l’abuso del diritto si pone in contrasto irrimediabile con il corollario della necessaria tipicità di qualunque fattispecie penalmente sanzionata”24. Alla conclusione della necessaria atipicità del fenomeno abusivo e della conseguente irrilevanza penale del medesimo perveniva d’altronde già, all’inizio del secolo scorso, la dottrina civilistica ricordata per la quale “la figura giuridica dell’abuso, prendendo rilievo unicamente dalla difformità valorativa del comportamento e non anche dalla difformità da obblighi normativi specifici non può dar luogo a responsabilità penale. Sotto questo profilo, infatti, l’abuso si profila come fatto atipico cioè come un fatto non riconducibile ad una precisa fattispecie legale”25. Ad uguali conclusioni si deve prevenire con riguardo all’elusione fiscale, la cui tipizzazione nella disposizione normativa di cui all’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973 non è di certo soddisfacente per il penalista: la descrizione del comportamento elusivo in uno o più atti “collegati tra loro” posti in essere in “assenza di valide ragioni economiche” in “aggiramento di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario”, al fine di ottenere riduzioni d’imposta o rimborsi altrimenti indebiti, non rispetta, infatti, evidentemente, i parametri della determinatezza e della tassatività della fattispecie penale. In questo contesto, mal si comprende quindi il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione, per il quale “può affermarsi la rilevanza penale di stessa. Si v. PADOVANI, Commento alla modifica dell’art. 323 c.p., in Leg.pen., 1997, p. 741; SEMINARA, Il nuovo delitto d’abuso d’ufficio, in Studium Juris, 1997, p. 1251. 24 Così MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici, cit.,p. 428. 25 GIORGIANNI, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, 1963, p. 201 187 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva”, in presenza della quale non è dato ravvisarsi un “contrasto con il principio di legalità”: la rilevanza penale dell’elusione fiscale nei limiti anzidetti porta, nel pensiero dei giudici di legittimità, ad un “risultato interpretativo conforme ad una ragionevole prevedibilità, tenuto conto della ratio delle norme, della loro finalità e del loro inserimento sistematico”. La pregnanza del principio di legalità, che trova rilievo costituzionale all’art. 25, 2° c. Cost., è infatti tale da non consentire deroghe o limitazioni di alcuna sorta, con la conseguenza che non può in alcun modo essere considerata bastevole, ai fini dell’affermazione della rilevanza penale di un comportamento, la sua sussumibilità all’interno di una norma tributaria. La figura di incriminazione penale costituisce pertanto il solo metro al cospetto del quale valutare la tipicità della condotta. Così ragionando, si concorda quindi con quanto statuito dal Tribunale di Milano, il quale nel constatare come “il principio regolatore della materia [sia] il principio di legalità, che sancisce un nesso inscindibile tra sanzione penale e fatto, tassativamente e precisamente descritto in una norma penale” è giunto invece a negare rilevanza penale all’elusione fiscale “caratterizzata da una marcata atipicità, che confligge con il principio di tipicità e determinatezza della fattispecie penale”. La liceità dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale sotto il profilo civile e tributario. Come notato dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Milano, l’elusione fiscale si caratterizza, oltre che per la sua atipicità, anche per la sua liceità, sotto il profilo civile e fiscale, consistendo esso in una “concatenazione di atti leciti”, volti all’aggiramento della normativa fiscale. Per quanto riguarda il fenomeno abusivo, nonostante una prima (e ormai superata) teorizzazione dell’abuso del diritto in termini di illiceità (per la quale l’abuso del diritto non costituisce una categoria distinta dall’atto illecito “in quanto quella che è sostanzialmente una convergenza dell’atto illecito e dell’atto abusivo nella comune classe degli atti contrari al diritto, viene assunta come piena e assoluta identità di caratteri dell’uno e dell’altro”26), l’opinione maggioritaria ritiene oggi che a tale istituto sia estraneo ogni connotato di illiceità già sotto il profilo civilistico 27. La dottrina italiana di metà del secolo scorso ha infatti conferito all’abuso del diritto una propria autonomia concettuale, individuandolo come un atto in sé lecito. In questo contesto abuso e illecito vengono considerati concetti diversi e strutturalmente autonomi: sempre riprendendo le parole del Giorgianni si è ritenuto che la violazione della “disciplina specifica dell’esercizio di un diritto” non possa che dar luogo “alla qualificazione giuridica di illiceità”, mentre la violazione dello scopo per il quale il diritto medesimo è 4.2 26 27 GIORGIANNI, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica,cit., p. 90. RODOTÀ, Diritto (Abuso del), in Enciclopedia forense, cit, p. 188 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? riconosciuto porta invece “ad una configurazione giuridica ben diversa e cioè a quella figura che la scienza giuridica chiama con il nome di abuso”28. A medesime conclusioni parte della dottrina tributaristica è giunta con riguardo al fenomeno elusivo il quale è stato ritenuto non inquadrabile all’interno della categoria dell’illecito amministrativo, in quanto la sanzione prevista dal ricordato art. 37 bis, nel consistere nella sola inopponibilità al Fisco del vantaggio ottenuto attraverso l’aggiramento della normativa fiscale, mostra un carattere più propriamente “ripristinatorio/restitutorio” che non sanzionatorio29.. In questo senso si è anche pronunciata di recente la Corte di Cassazione, Sezione tributaria, la quale ha sottolineato come: “il contrasto all’elusione, quando non vi sia condotta fraudolenta, non ha come finalità quella di penalizzare il contribuente che non abbia commesso violazioni, ma quella di garantire l’eguaglianza del trattamento fiscale attraverso la riconduzione al regime loro proprio delle operazioni impropriamente sottratte a tale regime” 30 . 28 GIORGIANNI,, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, 1963. Per 1’A. è abusivo il comportamento relativo all’esercizio di un determinato diritto concesso dall’ordinamento giuridico; di tale comportamento non vi deve essere uno specifico divieto normativo, in quanto il comportamento difforme dalla specifica disciplina normativa concreta il contenuto non già della forma qualificativa in termini di abuso, ma della forma qualificativa in termini di illecito. La seconda condizione è che vi sia una disciplina normativa del comportamento a cui si riferisca la figura dell’abuso: disciplina che posta la prima condizione enunciata, non può essere se non un divieto generale, cioè una disciplina, esplicita o implicita, relativa all’esercizio del diritto soggettivo in generale. La terza condizione, infine, è che siffatta disciplina relativa, esplicita o implicita, all’esercizio del diritto soggettivo in generale, sia prevista in ordine all’interesse o valore alla cui stregua va esercitato il diritto stesso. La disciplina specifica e la disciplina generale, anche quando siano ambedue relative all’esercizio del diritto in ordine all’interesse o valore alla cui stregua lo si compia, mettono capo tuttavia a qualificazione giuridiche diverse. La disciplina specifica dell’esercizio di un diritto dà luogo alla qualificazione giuridica di illiceità. La disciplina generale, invece, dal momento che l’esercizio del diritto che essa prevede non si presenta come difforme da alcun obbligo che vieti l’uso di un diritto determinato in ordine all’interesse o valore alla cui stregua lo si compia, ma si riferisce all’esercizio del diritto in generale, come comportamento da non compiere in vista di uno scopo diverso da quello per cui il diritto medesimo è riconosciuto, dà luogo ad una configurazione giuridica ben diversa e cioè a quella figura che la scienza giuridica chiama con il nome di abuso. Quando il comportamento abusivo sia individuato come causa della lesione di un diritto o di un interesse giuridicamente protetto, si presenta come fonte o presupposto di responsabilità civile, cioè come presupposto di quella conseguenza giuridica che è l’obbligo del risarcimento del danno. Se poi la responsabilità per abuso convergerà con la responsabilità per illecito sul medesimo piano sanzionatorio, da ciò nulla potrà argomentarsi contro la distinzione strutturale relativa alle due diverse figure giuridiche. 29 DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, in FALSITTAFANTOZZI (diretto da) L'ordinamento tributario italiano, Milano, 1993. 30 Corte di Cassazione, 12 novembre 2010, n. 2294 nella bancadati www.jurisdata.it. 189 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? In questo contesto risulta quindi evidente come attribuire rilevanza penale a fenomeni fiscalmente leciti (come sottolinea il Tribunale di Milano) porti ad una palese antinomia di sistema, venendo punito penalmente ciò che non lo è fiscalmente. Si deve inoltre rammentare come al diritto penale acceda il principio di necessarietà, per il quale l’intervento punitivo della sanzione criminale, non soltanto, deve essere riservato alla tutela di beni fondamentali e contro offese di una certa gravità (la c.d. meritevolezza o proporzionalità della tutela penale31), ma deve anche intervenire come extrema ratio per l’inadeguatezza delle sanzioni (civili o amministrative) a colpire il fenomeno illecito (c.d. principio di sussidiarietà). Così opinando, non è chi non veda come conferire rilevanza penale a fenomeni leciti in altri rami dell’ordinamento violi anche i menzionati principi che caratterizzano il diritto penale. 4.3 La procedura di interpello ex art. 16 d. lgs n. 74/2000. Motivo ulteriore, che i sostenitori della tesi rigorista, pongono a supporto della rilevanza penale dell’elusione fiscale, si fonda sull’istituto del c.d. interpello di cui all’art. 16 d. lgs n. 74/2000, il quale esclude la punibilità dei comportamenti elusivi se posti in essere in adeguamento al parere richiesto al Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive. La disposizione in questione è stata, come visto, particolarmente valorizzata dalla Corte di Cassazione la quale, sulla base della considerazione per cui la procedura di interpello è attivabile con riferimento alle sole specifiche fattispecie elusive previste dalla normativa tributaria, ha ritenuto penalmente rilevanti quei soli comportamenti “corrispond[enti] ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge”. Si ritiene tuttavia non degna di alcun accoglimento tale argomentazione, per molteplici ordini di considerazioni. Innanzitutto, l’argomentazione a sostegno di una tale tesi si fonda su una lettura a contrario dell’esimente di cui si tratta, tale per cui se l’adeguamento al parere elimina la punibilità, la mancata richiesta del medesimo o la sua inottemperanza comporta invece la rilevanza penale dell’operazione realizzata. Si ritiene tuttavia una simile impostazione inaccettabile, non soltanto, per il vizio logico di fondo che la connota, ma soprattutto perché si pone in netto contrasto con quanto affermato dallo stesso legislatore nella Relazione al d.lgs. 74/2000, nella quale si è espressamente chiarito che “la disposizione di cui all’art. 16 è unicamente di favore per il contribuente e non può in alcun modo essere letta ‘a rovescio’, ossia come diretta a sancire la rilevanza 31 Si ricorda che in questo senso si è pronunciato anche il Consiglio del Ministri nel disegno di legge per la delega fiscale ricordato, il quale ha sottolineato come la revisione del sistema sanzionatorio penale debba avvenire secondo “i criteri di predeterminazione e proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti”. 190 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? penalistica della fattispecie lato sensu elusive non rimesse alla preventiva valutazione dell’organo consultivo” [enfasi aggiunta]32. L’opinione maggioritaria ritiene, quindi, che né il mancato adeguamento al parere espresso, né il compimento dell’operazione senza aver richiesto lo stesso possono dar luogo di per sé a responsabilità penale 33 Al più, è stato osservato, “il mancato adeguamento al parere potrà costituire un mero indizio, cioè un fattore meritevole di approfondimento da parte degli organi competenti e non già una fonte di prova determinante della responsabilità penale del soggetto”34. Si deve, infine, ricordare come l’inserzione della causa di non punibilità del ricordato art. 16 non abbia in realtà apportato alcuna novità al sistema, in quanto alla stessa conclusione si giungeva già alla luce dei principi generali del diritto penale: come noto l’art. 5 c.p., che disciplina l’errore nella legge penale, alla luce della rilettura fornita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 364/1988, importa l’efficacia scusante dell’errore incolpevole, nel quale rientra senza ombra di dubbio l’errore derivante dall’affidamento riposto in pareri dell’autorità amministrativa 35. L’elusione fiscale e l’abuso del diritto al cospetto delle figure di incriminazione di cui al d.lgs n. 74/2000: il reato di dichiarazione infedele. L’analisi fin qui condotta, pur avendo messo in luce le ragioni principali che conducono ad escludere rilevanza penale all’abuso del diritto e all’elusione fiscale, non può esimersi dal guardare ora ai reati tributari, al fine di vagliare la sussumibilità dei comportamenti elusivi o abusivi sotto il profilo fiscale all’interno delle figure di incriminazione di cui al d. lgs n. 74/2000 36. 4.4 32 Si v. Relazione al d. lgs n. 74/2000 in Guida al diritto, 2001, p. 37. Cfr. D’AVIRRO, L’adeguamento al parere del Ministero delle Finanze o del Comitato consultivo quale causa di esclusione della punibilità, in AA.VV., La riforma del diritto penale tributario -D. lgs. 19 marzo 2000 n. 74- (a cura di) D’AVIRRONANNUCCI, cit, p. 127; IZZO, Esclusione del dolo per effetto di interpello e pareri dell’Amministrazione finanziaria, in Il Fisco, 2000, p. 8003; NAPOLEONI, I fondamenti del diritto penale tributario, nel d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74, cit., p. 238 34 PEZZUTO, L’esclusione della punibilità, in Diritto penale tributario, Padova, 2002, p. 450 35 MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici, cit., p. 423. 36 In questo senso MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici, cit., p. 423, il quale, dopo aver analizzato gli elementi caratteristici dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale, esamina la rilevanza penale di tali fenomeni alla luce dei reati tributari: “perché la ricerca possa aspirare ad una accettabile proficuità, occorre dapprima individuare in maniera precisa in che cosa consistano i comportamenti riportabili rispettivamente alle figure dell’abuso del diritto (in materia tributaria) e dell’elusione fiscale (tenendo provvisoriamente ferma la distinzione cennata tra abuso del diritto ed elusione fiscale): per tal modo soltanto è possibili disporre del primo dei termini indispensabili per effettuare quel giudizio di relazione, il secondo estremo del quale consiste nel controllare se l’ordinamento 33 191 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? Esclusi i reati di cui agli artt. 2 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) e 3 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici), i quali richiedono un quid pluris normalmente non rinvenibile nell’elusione fiscale o nell’abuso del diritto (ovvero l’uso di documentazione fiscale falsa –art. 2- e la falsa rappresentazione delle scritture contabili e l’utilizzo di mezzi fraudolenti –art. 3-), l’attenzione deve essere rivolta al reato di dichiarazione infedele ex art. 4, la cui condotta prescinde invece da aspetti o connotati di fraudolenza e il cui mendacio è punito di per se stesso. L’infedele dichiarazione è infatti un reato di natura residuale, che punisce tutte quelle ipotesi di falso in dichiarazione consistenti nella mera indicazione di elementi attivi inferiori al loro effettivo ammontare e/o di elementi passivi fittizi, non preceduti né supportati dall’utilizzo di fatture false o di altri artifici37. E’ stata proprio la semplicità descrittiva della norma, e la sua apparente ambiguità, a portare alle menzionate tesi contrapposte: da una parte, per i sostenitori della tesi rigorista gli incerti confini della fattispecie non sono tali da escludere la punibilità del contribuente che, ricorrendo ad operazioni elusive, calcoli e indichi in dichiarazione una base imponibile inferiore a quella che avrebbe, invece, determinato qualora non avesse fatto ricorso all’elusione (come sostenuto dalla stessa Corte di Cassazione laddove ha ritenuto l’imposta elusa ricompresa nell’imposta evasa); dall’altra parte, i sostenitori della tesi opposta sottolineano invece l’intrinseca eterogeneità dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale, in quanto “comportamenti perfettamente regolari da un punto di vista formale, la cui maliziosità si esprime nell’assenza di una valida ragione commerciale o economica dell’operazione e nell’emergere di un esclusivo fine di sottrarsi all’imposizione tributaria”, dall’evasione fiscale, connotata invece da elementi di fraudolenza e decettività. In questa direzione si è pronunciato, d’altronde, lo stesso Tribunale di Milano, che ha ritenuto l’elusione fiscale una questione di puro diritto, nella quale gli “artifici non stanno nei fatti, tutti rappresentati e documentati in modo conforme alla legge” né nella “divergenza tra voluto e realizzato”, non essendovi alcun interesse a “mostrare una realtà diversa da quella effettiva”. Depone inoltre a sostegno di tale interpretazione la già ricordata relazione governativa al d.lgs n.74/2000, la quale sottolinea la necessità di “un minimum di attitudine all’inganno nei confronti del Fisco” anche con riferimento “al delitto di dichiarazione infedele” 38, con la conseguenza che si vigente conosce fattispecie incriminatrici descrittive di condotte tipiche, alle quali ultime corrispondano quei comportamenti”. 37 L’inferiore portata lesiva della condotta viene espressa anche attraverso la previsione di soglie di punibilità: la soglia fissa di rilevanza penale del fatto è parametrata sui 103.291,38 euro; la soglia mobile è rapportata al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, deve essere superiore ad euro 2.065.827,60. Entrambe le soglie devono essere superate perché il fatto acquisisca rilevanza penale. 38 Relazione al d.lgs. 74/2000, in Guida al diritto, 2000, p. 37. 192 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? è ritenuto non integrato il reato del citato art. 4 tutte le volte in cui non fosse riscontrabile nella condotta un certo grado di capacità decettiva. Ed è indubbio che il medesimo non possa essere ravvisato in comportamenti effettivamente avvenuti e rappresentati all’Amministrazione finanziaria in modo regolare e trasparente e nei quali l’unica maliziosità consiste nella veste giuridica ad essi attribuita39. In altre parole, secondo questa linea di pensiero, possono integrare la figura di incriminazione di cui al ricordato art. 4 quelle sole dichiarazioni fiscali consistenti in una mendace rappresentazione della realtà oggettiva, sub specie di “omessa indicazione di ricavi realmente acquisiti al patrimonio del dichiarante, ovvero di indicazione di costi non materialmente sostenuti, e non già le dichiarazioni tributarie la cui (pretesa) infedeltà consista (e si esaurisca) nella erronea applicazione di norme giuridiche o nella inesatta valutazione di elementi attivi o passivi, residuando in tal caso eventualmente spazio per la contestazione amministrativa, la corretta riqualificazione della operazione censurata e l’imputazione dei relativi elementi reddituali” 40. 39 MUSCO, Brevi note sulla riforma del diritto penale tributario, in Rassegna tributaria, 2010, n. 5, p. 1179. Secondo l’A. “non sono penalmente rilevanti le operazioni ritenute dai verificatori […] solo incongrue, illogiche, antieconomiche, ovvero inerenti a contratti nulli o annullabili”. Nello stesso senso secondo il quale la tesi sostenuta dall’Amministrazione finanziaria che “ricollega il concetto di imposta evasa anche ai costi non deducibili o non di competenza” non può essere accolta in quanto “porterebbe ad un ampliamento della sfera delle condotte penalmente rilevanti ben al di là dei confini della precedente legge n. 516/1982 in evidente contrasto con il principio di un diritto penale dell’extrema ratio che caratterizza la riforma del 2000”. Così ragionando, l’A. ritiene che “non dovrebbero costituire violazioni penalmente rilevanti, in quanto elementi attivi effettivi, tutte quelle grandezze (ovviamente non dichiarate) che sono fiscalmente rilevanti, ma che trovano il loro fondamento in convenzioni di natura prettamente fiscale, come le forfettizzazioni, le presunzioni legali, le normalizzazioni, i maggiori corrispettivi determinati in base al criterio del transfer pricing, le plusvalenze per trasferimento all’estero della sede [etc..]”: se, infatti, ricorda l’A. “il concetto di effettività dell’Amministrazione finanziaria è nel senso di correttamente determinato in base alle regole tributarie”, in ambito penalistico il concetto di effettività è invece da “cogliere in relazione alla realtà, per cui costituiscono componenti positivi effettivi quelli rispondenti alla realtà dei fatti, cioè quelle grandezze fiscalmente rilevanti che derivano direttamente dal vero; il che consente per un verso di restituire al termine effettività il significato tipicamente attribuitogli nell’ambito della normativa fiscale e, per altro verso, di sottrarre alla rilevanza penale tutte le componenti di reddito che sono soggette a procedimenti estimativi. Sostenere il contrario significa che i reati di cui al d. lgs. n. 74/2000 andrebbero ben oltre il concetto di frode fiscale di cui alla precedente L. n. 516/1982 che era limitato ai “fatti materiali” non rispondenti al vero ed escludeva, così, tutte le poste di tipo valutativo”. 40 MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici in MAISTO (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, cit., 421 ss.. 193 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? Sostiene l’argomentare della tesi contraria alla rilevanza penale dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto anche il maggioritario orientamento giurisprudenziale. Nell’affrontare la rilevanza penale di una complessa operazione societaria riconducibile allo schema del leveraged buy-out, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto la condotta in esame “esula[re] la contestazione e non assume[re] (trattandosi di elusione) interesse a fine penale”. In senso nettamente opposto da quanto statuito con la recente pronuncia in commento, la Corte di Cassazione ha invece in quell’occasione ritenuto la violazione di norme antielusive “in linea di principio non comporta[re] conseguenze di ordine penale”41. Nello stesso senso si è pronunciata anche la giurisprudenza di merito 42. In un primo caso, il Tribunale piemontese, chiamato a decidere della rilevanza penale di una complessa ristrutturazione societaria, ha ritenuto “l’elusione fiscale, intesa come manovra che permette all’agente di conseguire per via diversa il medesimo risultato economico che la legge intendeva assoggettare ad imposizione, un comportamento di per sé lecito”; in un secondo caso, il Tribunale di Milano, in funzione del Giudice per le indagini preliminari 43, ha disposto il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste nei confronti di una operazione di fusione per incorporazione, asseritamente priva di valide ragioni economiche e unicamente diretta, nella prospettiva accusatoria, ad ottenere indebite riduzioni d’imposta, sulla base dell’effettività “tanto sul piano fattuale quanto su quello giuridico dei negozi giuridici adottati”, con conseguente insussistenza del reato dichiarativo “essendo nel caso di specie tutti gli elementi di fatto ed i presupposti giuridici dello stesso stati riconosciuti esistenti”. Nel senso di non ravvisare alcun reato nelle complesse operazioni societarie per l’effettività dei negozi giuridici posti in essere e l’assenza di qualsiasi profilo simulatorio o comunque decettivo nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, si è pronunciata infine anche quella giurisprudenza che, pronunciatasi in merito alle operazioni c.d. di dividend washing e dividend 41 Cassazione, V Sez., 18 maggio 2006, n. 23730 in www.jurisdata.it. Si v. Tribunale Pinerolo, G.i.p., 10 luglio 2000 in Diritto e pratica tributaria, 2001, II, p. 66 con nota di Perini, Fusione di società tra elusione, frode fiscale e nuovo diritto penale tributario. Il caso concerneva una serie di fusioni per incorporazione, ognuna delle quali accompagnata da una consistente rivalutazione dei beni appartenenti alle società incorporate, con conseguente emissione di notevoli disavanzi di fusione. La disciplina tributaria vigente all’epoca dei fatti consentiva di utilizzare il disavanzo di fusione per incrementare (sia direttamente sia indirettamente, attraverso la rivalutazione dei cespiti patrimoniali) gli ammortamenti riconosciuti fiscalmente, con la conseguente possibilità di abbattere il reddito imponibili negli esercizi successivi alla fusione. In sostanza l’accertamento di effettività (intesa come esclusione del loro carattere simulato) delle operazioni bancarie e societarie ha impedito di ravvisare in esse gli estremi di comportamenti fraudolenti e di conferire quindi alle stesse rilevanza penale. 43 Tribunale di Milano, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, dott. Grigo, 20 novembre 2002, inedita. 42 194 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? stripping, è sempre giunta a negare loro rilevanza penale, confinandole nel terreno meramente elusivo 44. 44 In questo filone si ricordano in ordine cronologico i seguenti provvedimenti. In un primo caso la Procura della Repubblica di Ravenna avanza richiesta di archiviazione per insussistenza del fatto di reato nei confronti di una costituzione di un usufrutto azionario tra una società italiana e la sua controllante estera, operazione che “celerebbe un contratto di cessione di dividendi in elusione delle norme fiscali sulla ritenuta e sul credito di imposta”. La Procura ha ritenuto l’operazione penalmente irrilevante “perchè il contratto di usufrutto non è simulato avendo i contraenti voluto proprio e solo quel contenuto e questi effetti indicati nell’atto” (Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna, Richiesta di archiviazione del 3 settembre 1994, in Il Fisco, 1994, p. 8190). Nello stesso senso si veda la decisione del Giudice per le Indagini preliminari di Vicenza, con la quale è stata disposta l’archiviazione del caso, non realizzando “il meccanismo delle operazioni di usufrutto azionario EsteroItalia il delitto di frode fiscale di cui all’art. 4 l f) l. 7 agosto 1982 n. 516, in quanto la fonte del reddito viene in tal caso rivelata al Fisco senza alcuna manovra ingannatoria”. Nel motivare della decisione si legge infatti che “il contribuente che rivela che il reddito netto da dividendi è pari al costo di acquisizione […] sottopone fedelmente al Fisco gli elementi della propria base imponibile. L’applicabilità della norma anti elusiva dell’art. 37 comma 3, del d.P.R. n. 600/1973 è un problema di ordine strettamente fiscale, non penale” (Giudice per le Indagini preliminari di Vicenza, decreto 13 settembre 1995, in Il Fisco, 1995, p. 9385). Ancora si veda la sentenza del Tribunale di Udine, che, decidendo in ordine alla rilevanza penale di un contratto di leaseback dissimulante un contratto di mutuo con patto commissorio e con ciò integrante gli estremi del c.d. dividend stripping, ha così motivato l’irrilevanza penale del fatto: “…la non corrispondenza al vero sta tutta nella qualificazione giuridica del rapporto contrattuale. Non vi è alcun dubbio che le parti abbiano voluto i contratti stipulati così come espressi e disciplinati nelle clausole, poiché da esse derivano i benefici economici per i contraenti e che quindi non vi sia stata alcuna attestazione di contenuto negoziale diverso da quello voluto. La divergenza è una divergenza non materiale ma di valutazione giuridica. Siamo quindi del tutto al di fuori della fattispecie astratta, anche a prescindere dalla simulazione dei contratti” (Tribunale di Udine, sentenza 5 luglio 1997, n. 167 in Il Fisco, 1997, p. 13321. Nello stesso senso si è pronunciato sempre il tribunale di Udine con sentenza 3 ottobre 1996, n. 422, in Il Fisco, 1997, p. 2716). Sulla stessa linea di pensiero si è posto altresì il Tribunale di Pordenone secondo il quale “nei comportamenti in esame – id est: dividend stripping – non sussistono gli estremi della frode fiscale [..] in quanto in essi il profilo evasivo discende esclusivamente dalla riqualificazione giuridica del rapporto negoziale effettivamente intercorso tra le parti e la mera riqualificazione giuridica del contenuto rappresentato nei documenti negoziali non è in sé idonea a connotare la condotta in termini di fraudolenza. Invero l’artificio che integra la frode è costituito da una prospettazione o rappresentazione di una realtà diversa da quella effettiva, mentre la riqualificazione si sostanzia in una valutazione di natura giuridica sul contenuto negoziale reso ostensibile al soggetto accertatore, ove la divergenza dalla realtà effettiva si individua non nel dato storico o materiale rappresentato, ancorché rilevante come fatto giuridico, ma nella denominazione o nella qualificazione invocata rispetto a tali emergenze” (Tribunale di Pordenone, 12 luglio 1997, in Il Fisco, 1997, p. 9991). Corte d’Appello di Trieste, 15 luglio 1998, n. 696 in Il Fisco, 1998, p. 11921. Conferma, infine, l’orientamento della giurisprudenza di merito citato la decisione della Corte di Appello di Trieste, con la quale si è ravvisato 195 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? Nel senso di interpretare il concetto di effettività della componente positiva o negativa di reddito diversamente in ambito fiscale (nel quale assume il significato di correttamente determinato in base alle regole tributarie) e in ambito penalistico (nel quale il concetto di effettività è invece da “cogliere in relazione alla realtà, per cui costituiscono componenti positivi effettivi quelli rispondenti alla realtà dei fatti, cioè quelle grandezze fiscalmente rilevanti che derivano direttamente dal vero”45), si sta infine pronunciando anche un sempre più copioso orientamento del Tribunale meneghino 46, eloquentemente nel dividend stripping un “comportamento meramente elusivo”, in quanto tale non integrante gli estremi di cui all’art. 4 l. 516/1982. 45 MUSCO, Brevi note sulla riforma del diritto penale tributario, in Rassegna tributaria, 2010, n. 5, p. 1179. Secondo l’A. “non sono penalmente rilevanti le operazioni ritenute dai verificatori […] solo incongrue, illogiche, antieconomiche, ovvero inerenti a contratti nulli o annullabili”. Nello stesso senso secondo il quale la tesi sostenuta dall’Amministrazione finanziaria che “ricollega il concetto di imposta evasa anche ai costi non deducibili o non di competenza” non può essere accolta in quanto “porterebbe ad un ampliamento della sfera delle condotte penalmente rilevanti ben al di là dei confini della precedente legge n. 516/1982 in evidente contrasto con il principio di un diritto penale dell’extrema ratio che caratterizza la riforma del 2000”. Così ragionando, l’A. ritiene che “non dovrebbero costituire violazioni penalmente rilevanti, in quanto elementi attivi effettivi, tutte quelle grandezze (ovviamente non dichiarate) che sono fiscalmente rilevanti, ma che trovano il loro fondamento in convenzioni di natura prettamente fiscale, come le forfettizzazioni, le presunzioni legali, le normalizzazioni, i maggiori corrispettivi determinati in base al criterio del transfer pricing, le plusvalenze per trasferimento all’estero della sede [etc..]”: se, infatti, ricorda l’A. “il concetto di effettività dell’Amministrazione finanziaria è nel senso di correttamente determinato in base alle regole tributarie”, in ambito penalistico il concetto di effettività è invece da “cogliere in relazione alla realtà, per cui costituiscono componenti positivi effettivi quelli rispondenti alla realtà dei fatti, cioè quelle grandezze fiscalmente rilevanti che derivano direttamente dal vero; il che consente per un verso di restituire al termine effettività il significato tipicamente attribuitogli nell’ambito della normativa fiscale e, per altro verso, di sottrarre alla rilevanza penale tutte le componenti di reddito che sono soggette a procedimenti estimativi. Sostenere il contrario significa che i reati di cui al d. lgs. n. 74/2000 andrebbero ben oltre il concetto di frode fiscale di cui alla precedente L. n. 516/1982 che era limitato ai “fatti materiali” non rispondenti al vero ed escludeva, così, tutte le poste di tipo valutativo”. 46 In questo contesto, non si possono non ricordare le parole con le quali la Procura delle Repubblica di Milano ha motivato la richiesta di archiviazione (successivamente accolta dal Giudice delle indagini preliminari), con cui ha ritenuto insussistente il reato di dichiarazione infedele in presenza di “costi effettivamente sostenuti ma ritenuti sono indeducibili e/o non inerenti oppure semplicemente connessi ad attività negoziali. La norma penale si riferisce infatti a costi fittizi cioè privi di substrato materiale e non anche a costi fiscalmente non deducibili, non inerenti o connessi a contratti diversamente qualificati” (richiesta di archiviazione 14.10.2009, Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano e decreto di archiviazione del 3.12.2009, inediti). Sempre nel senso di comprendere nel concetto di costo passivo fittizio (id est: di elemento attivo inferiore al suo effettivo ammontare) il solo elemento negativo di reddito effettivamente non sostenuto, si è pronunciato il Giudice delle 196 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? rappresentato dall’enunciazione del principio di diritto per il quale, nel caso di “strumenti negoziali reali ed effettivi (anche complessi ed articolati) ma tali da aggirare la normativa fiscale” a seguito del quale il contribuente si limiti “a riportare fedelmente in dichiarazione i dati economici e contabili dell’attività negoziale realmente posta in essere (anche se diversamente qualificata in sede di verifica fiscale) non può correttamente parlarsi né di esposizione di dati passivi fittizi, perché gli atti sono stati realmente realizzati e fedelmente contabilizzati, né tantomeno di omessa indicazione di attività occultate, dal momento che in tale concetto non può rientrare l’importo risparmiato e non versato al Fisco”47. L’orientamento giurisprudenziale ricordato ha trovato infine conferma nella già menzionata sentenza della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, la quale ha precisato che l’estensione interpretativa del termine ‘fittizio’ a operazione connotate in senso elusivo o di abuso del diritto può valere soltanto e limitatamente a fini fiscali, ma non come presupposto per l’applicazione di una sanzione (nel caso deciso dalla Corte di Cassazione: di natura tributaria). L’equivalenza tra ‘fittizio’ ed elusivo’ può essere infatti accettata limitatamente alla rideterminazione del tributo dovuto e al non riconoscimento del vantaggio fiscale, ma non può essere ammessa quanto alla irrogabilità delle sanzioni, che non sono applicabili, per difetto di legge che le preveda, per le condotte solo elusive o di abuso del diritto. Si deve inoltre sottolineare come l’argomentare della Corte di Cassazione si svolga nell’ambito dell’illecito amministrativo (tributario), dove il principio di legalità ha una pregnanza minore che non (come visto) in sede penale, settore nel quale il principio enunciato deve valere quindi a fortiori ratione48. Indagini preliminari presso il Tribunale di Monza il quale ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura della Repubblica secondo cui “la deduzione di costi indeducibili realmente sostenuti non integra il reato di cui all’art. 4 d.lgs n. 74/2000 che prevede, ai fini del giudizio sull’infedeltà della dichiarazione, che la stessa indichi elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o costi passivi fittizi”(richiesta di archiviazione della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Monza del 17.05.2010 accolta con decreto di archiviazione del Tribunale di Monza, Ufficio GIP, del 19.05.10, inediti). 47 Così richiesta di archiviazione del 22.02.2010 della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, accolta con decreto di archiviazione del Tribunale di Milano, Ufficio del Giudice delle Indagini preliminari del 18.08.2010 inediti 48 Corte di Cassazione, 12 novembre 2010, n. 2294 nella bancadati www.jurisdata.it. Chiamata a decidere sull’elusività di un’operazione c.d. di dividend washing, la Suprema Corte ha così ritenuto che “operazioni economiche quali quelle contestate, realizzate al solo fine di ottenere un vantaggio fiscale, sono operazioni fittizie in quanto elusive perché attuate per un fine distorto, nel senso che, mentre incidono, diminuendolo, sul gettito fiscale, contrastano con l’utilità sociale, che costituisce limite alla realizzazione di qualsiasi valida iniziativa economica”. Ritenendo pertanto che l’espressione “fittizio” possa equivalere a “non riconosciuto dal Fisco” ai soli ed esclusivi fini tributari (cioè della sussistenza del debito di imposta), la Corte sottolinea chiaramente che alla stessa conclusione (equivalenza tra fittizio e non riconosciuto dal Fisco) non è lecito pervenire con riguardo all’aspetto sanzionatorio. Così ancora 197 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? 4.5 L’irrilevanza penale del prezzo incongruo. Proprio sulla base di queste argomentazioni il Tribunale di Milano ha quindi ritenuto non penalmente rilevante l’operazione societaria realizzata dai due noti stilisti italiani, l’effettività di tutti i passaggi della quale (dalla realità della cessione del marchio per quel determinato corrispettivo alla effettività della sede estera della società lussemburghese), è stato l’elemento che ha portato a ritenere non fondata la figura di incriminazione contestata. Sorregge tale soluzione interpretativa un ulteriore ordine di considerazioni che, sempre legate al principio per il quale solo l’inesistenza ontologica (e non già fiscale) di un’operazione può ricevere sanzione penale, si concentra più propriamente sulla congruità/incongruità del prezzo di trasferimento. Dopo aver correttamente affermato che le presunzioni fiscali (e quindi anche quella del valore normale) non possono avere nel campo penale alcun valore probatorio -se non meramente indiziario- (per l’evidente incompatibilità tra una prova precostitutita, quale è la presunzione, e il principio del libero convincimento del giudice il quale, svincolato da verità formali, deve ricercare nel processo penale la verità materiale dei fatti 49), il Tribunale di Milano si sofferma sulla inutilità di un’ulteriore perizia estimativa che individui il “giusto prezzo” di cessione del marchio, perché ciò che penalmente conta non è l’aver indicato nella dichiarazione tributaria un prezzo diverso da quel che opinabili regole di mercato ritengono sia quello giusto, ma è l‘aver indicato nella dichiarazione dei redditi un prezzo diverso da quello effettivamente intercorso tra le parti. L’ineccepibile argomentare del Tribunale meneghino trova conferma nello stesso tenore letterale della figura di incriminazione contestata (id est: l’indicazione in dichiarazione di costi passivi fittizi): l’origine etimologica del termine fittizio (dal latino ficticius derivato di fingere), nel rinvenire il testualmente Cass. Sez. trib., 12.11. 2010, 22994: esplicitamente in questo senso, per la dottrina tributaria, Uckmar, Corasaniti, de’Capitani di Vimercate, Diritto tributario internazionale, Manuale, Padova, 2009, pp. 230 e ss 49 Si v. MEREU, Le presunzioni fiscali nel processo penale. La presunzione di utilizzo di fondi non tassati per effettuare gli investimenti detenuti in paradisi fiscali di cui all’art. 12 d.l. n. 78 del 2009, in Rivista di Diritto e Pratica tributaria, 2010, n. 1, p. 145 e ss. L’A. sottolinea come lo stesso etimo del termine presunzione riveli l’incompatibilità del suo utilizzo nel processo penale “ la praesumptio, quale “procedimento logico necessario a stabilire una relazione tra due fatti sulla base di una regola di esperienza codificata dal legislatore”, si contrappone alla probatitio e viene ritenuta compatibile soltanto con quelle scelte legislative disponibili a consentire l’ingresso nel processo a prove normativamente precostituite e individuate in parametri oggettivi mediante il riconoscimento anticipato del valore da attribuire ai fatti oggetto dell’accertamento giudiziale. La prova per presunzioni esonera infatti il giudice dal giudizio su una o più vicende costitutive del fatto oggetto dell’accertamento, in quanto le stesse sono già state valutate in via preventiva dal legislatore. […] Così opinando risulta evidente come le presunzioni risultino estranee alla materia penale, il cui scopo probatorio, alieno da verità ipotetiche e formali, deve tendere a raggiungere la “certezza naturale”, ovvero la verità effettiva e reale delle cose” 198 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? significato dello stesso nel “privo di corrispondenza con la realtà, finto, inconsistente, immaginario”50, rivela come con tale espressione si voglia far riferimento ad un concetto di inesistenza materiale del sostantivo al quale lo stesso si riferisce. Diverso è invece il concetto di incongruità, al quale accede il significato di “dominato da disordine o confusione, inadeguato, sproporzionato per difetto”51: il prezzo incongruo non è un prezzo inesistente (anzi se fosse tale non si potrebbe di certo disputare della sua congruità), con la conseguenza che è la stessa lingua italiana, prima ancora del diritto, che impone di attribuire agli aggettivi de quibus una valenza semantica propria e ben definita52. Supporta tale ragionamento la stessa giurisprudenza formatasi in materia di transfer pricing, tipologia di operazione nella quale si disputa proprio della congruità del prezzo di trasferimento che deve essere applicato nelle transazioni tra società appartenenti ad un medesimo gruppo societario, al fine di assicurare che le condizioni pattuite siano in linea con quelle che sarebbero state concordate tra soggetti indipendenti. Chiamata a decidere sulla rilevanza penale di operazioni di tal fatta, la giurisprudenza ha ritenuto che “i componenti di reddito contestati dai verificatori quali costi indeducibili od elementi attivi non dichiarati derivanti da operazioni di transfer pricing infragruppo sono chiaramente e correttamente indicati nella loro oggettiva esistenza nelle scritture contabili obbligatorie” con la conseguenza che “tale situazione di fatto non permette di attribuire rilevanza penale ai comportamenti censurati dai verificatori atteso che gli elementi passivi fittizi assumono un carattere che integra la fattispecie di dichiarazione infedele laddove non corrispondono al vero, non essendo valutabile ai fini penali la mera diversa valutazione sull’inerenza del costo da portare in deduzione […] trattandosi di operazioni di transfer pricing, regolarmente rappresentate nelle scritture obbligatorie, [le stesse] non 50 Devoto-Oli, Dizionario della lingua italiana, Milano, 2001. Devoto-Oli, Dizionario della lingua italiana, Milano, 2001. 52 MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici in MAISTO (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, cit., 421 ss.. Secondo l’A. la tesi che ravvisa il costo passivo fittizio anche nel costo meramente indeducibile non è convincente: “già sul piano del valore semantico del termine ‘fittizio’ […] posto che accede a tale termine un portato chiaramente espressivo di una ‘non corrispondenza con la realtà, come facilmente ricavabile dal sostantivo finzione e dal verbo ‘fingere’ che, etimologicamente affini, ne determinano il campo di significato linguistico”. Nel convincimento che “in sede penale la nozione di fittizietà ha una sua precisa valenza, che indica una condotta recettiva (o il suo risultato), nella quale l’autore del fatto realizza uno scarto tra il reale e la rappresentazione dello stesso”, l’A. prosegue ricordando come anche con riferimento ad altre fattispecie penali (id est: falso in bilancio) “al termine fittizio, riferito all’utile illegalmente distribuito in violazione del disposto del previdente art. 2621 co. 1 n. 2 c.c. veniva attribuito in genere il valore di non esistente, cioè di non effettivamente conseguito. Sicché la qualificazione di fittizio vale a significare la rappresentazione apparente di un dato della realtà (economica, finanziaria, negoziale) non effettivamente esistente”. 51 199 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? evidenziano nessun tipo di fittizietà e simulazione idonea a configurare la fattispecie di cui all’imputazione”53 Così opinando, la difformità del prezzo pattuito per la cessione del marchio dal c.d. valore normale da attribuire al medesimo non è un elemento che può di per sé solo acquisire rilevanza penale, essendo necessaria, per l’integrazione del reato di cui all’art.4, la “prova del nascondimento” della differenza tra i due valori. In questo senso la presunzione del valore normale può assumere nel processo penale il limitato significato di campanello d’allarme di una eventuale condotta evasiva compiuta a monte, ma giammai costituire la mera discordanza da esso la prova della commissione del reato di infedele dichiarazione. 5 Conclusioni. L’esterovestizione tra elusione fiscale ed evasione internazionale. La filosofia scolastica tradizionale richiedeva al principio di ogni dialogo la c.d. explicatio terminorum, ovvero la chiarificazione semantica della terminologia usata, ritenuta necessaria per una corretta comprensione del vocabolario utilizzato, e per evitare di scoprire, all’esito di esso, di aver inteso con il medesimo termine realtà fenomenologiche diverse. 53 Procura della Repubblica di Milano, richiesta di archiviazione del 04.10.2011, accolta con decreto del Giudice delle indagini preliminari del 03.11.2011 (inediti). Nella stessa direzione si è pronunciato altresì il Tribunale di Milano, il quale ha ritenuto l’operazione di transfer pricing non integrare gli estremi del reato di dichiarazione infedele: “non costituisce il reato di cui all’art. 4 d. lgs. 74/2000” sostiene il giudice meneghino “il fatto di indicare nella dichiarazione dei redditi di una società controllante elementi attivi derivanti dalla vendita di beni ad una società controllata, beneficiaria di un regime agevolato ai fini delle imposte dirette, con applicazione al prezzo di vendita di un rincaro (nella specie del 4%) inferiore a quello praticato nei confronti di clienti terzi (nella specie circa del 20%) ed inferiore comunque (nella specie di oltre sei punti percentuali) al ricarico che si sarebbe dovuto applicare per remunerare tutti i costi di produzione, difettando il dolo specifico dell’evasione di imposta e trovando viceversa l’operazione una giustificazione economica nelle operazioni infragruppo” (Tribunale di Milano, 21 settembre 2006, in Foro ambrosiano, 2006, 3, 376, con nota di Troyer). Nello stesso senso si è pronunciato il Tribunale di Ancona con un recente decreto di archiviazione, nel quale si legge che “il compimento di una serie di operazioni reali ed effettivamente esistenti delle quali viene però contestata l’incongruità del costo (operazioni transfer pricing)” non può acquisire rilevanza penale in quanto “non può parlarsi di dati fittizi perché gli stessi sono stati effettivamente realizzati e contabilizzati, né di omessa indicazione o occultamento di operazioni realmente compiute perché tutte le operazioni risultano dalla dichiarazione” (Così decreto di archiviazione, 10.10.2011 del tribunale di Ancona, Giudice delle Indagini preliminari, inedito). 200 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? La sensazione che si sia in questo caso verificato proprio ciò che, con l’explicatio terminorum, si intendeva evitare è forte. Leggendo infatti la decisione della Corte di Cassazione sorge il dubbio che il perimetro designato dal giudice di legittimità al fenomeno elusivo sia molto più ampio rispetto a quello ad esso conferito dalla dottrina e dalla giurisprudenza citate: in altri termini la sensazione è che la Corte di Cassazione abbia attribuito all’elusione fiscale una rilevanza tale da far convergere in essa ogni operazione, apparentemente corretta, ma sostanzialmente svolta in violazione di qualsiasi regola fiscale. Vediamo perché. Si è visto come il merito della vicenda riguardi sostanzialmente un caso di esterovestizione: da esso principia la Corte di Cassazione, la quale antepone, al tema della rilevanza penale dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale, la questione relativa alla disciplina fiscale applicabile all’esterovestizione internazionale. La struttura del motivare dei giudici di legittimità è in questo senso eloquente nell’evidenziare l’iter logico dai medesimi seguito. Dopo aver enunciato le argomentazioni sulla base delle quali il reato di truffa è stato ritenuto non applicabile al caso in questione (punto 3 della sentenza), e dopo essersi domandata se nella condotta attribuita agli imputati non potessero comunque ravvisarsi gli estremi dei reati tributari di cui al d. lgs n. 74/2000 (punto 4), la Corte di Cassazione affronta per l’appunto la questione dell’esterovestizione della società lussemburghese (punto 4.1.). Ad essa segue la parte motiva dedicata all’elusione fiscale (punto 4.2), all’abuso del diritto (4.3.) e, infine, quella relativa alla loro rilevanza penale (alla quale sono stati dedicati i paragrafi dal 4.4 al 4.9.). Enunciati i principi di diritto menzionati, la Corte di Cassazione conclude quindi con il ricordare come sia compito del giudice penale valutare se la società, acquirente dei marchi, sia da considerarsi residente in Italia oppure all’estero, senza essere all’uopo vincolato dalle ricostruzioni compiute in sede tributaria dall’Amministrazione finanziaria (punto 5), e come rientri tra i poteri del giudice dell’udienza preliminare la riqualificazione del fatto imputato “in quanto l’esatta attribuzione del nomen juris è connaturale all’esercizio della giurisdizione” (punto 6). Così argomentando, i giudici di legittimità mostrano in modo evidente come il cuore della questione (la cui valutazione rimettere al giudice del rinvio) riguardi proprio l’esterovestizione della società lussemburghese, la rilevanza penale della quale dev’essere, secondo il loro pensiero, esaminata non alla luce del reato di truffa (strada scelta dalla Pubblica Accusa e ritenuta inapplicabile), ma alla luce di un diverso reato tributario. Nel perseguire questa strada, la Corte di Cassazione ha tuttavia ritenuto di dover affrontare la tematica della rilevanza penale dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale, come se la questione dell’esterovestizione costituisse una species di questo più ampio genus. Conferma ulteriormente tale impostazione la circostanza per la quale i giudici di legittimità citano, tra la giurisprudenza che sosterrebbe la rilevanza penale dell’elusione fiscale, i 201 ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE: RILEVANZA PENALE O MERA MANCANZA DI UNA EXPLICATIO TERMINORUM? propri precedenti afferenti invece il diverso tema dell’esterovestizione internazionale54. Assumendo tale dato come presupposto di partenza, la Corte di Cassazione si è trovata quindi di fronte ad un bivio: o negare rilevanza penale all’elusione fiscale e, nella sua prospettiva, anche ai fenomeni di esterovestizione, o per contro affermarla e poter così punire, anche penalmente, tale tipologia di comportamenti. Dall’enunciazione del principio di diritto per il quale solo l’elusione fiscale prevista in specifiche disposizioni antielusive può assumere rilevanza penale, è scaturita quindi la possibilità di dare una risposta punitiva anche al trasferimento fittizio di sede all’estero, che trova, per l’appunto, nella legislazione di settore uno specifico riconoscimento normativo (art. 73, c. 3 d.P.R. n. 917/1986). Il ragionamento dei giudici di legittimità, corretto nelle conclusioni (ovvero nel voler conferire rilevanza penale al fenomeno dell’esterovestizone), è tuttavia erroneo nel percorso argomentativo seguito, nella parte in cui pare considerare l’esterovestizione un fenomeno elusivo, attribuendo così all’elusione fiscale una ampiezza di contenuti che non le è propria. L’esterovestizione societaria non è infatti un fenomeno elusivo, ma un fenomeno di evasione fiscale internazionale, consistente in una dissociazione tra residenza formale e residenza sostanziale, al quale l’ordinamento reagisce attraverso la riqualificazione della residenza fiscale nel territorio italiano e il conseguente assoggettamento a tassazione dei redditi conseguiti dal soggetto estero vestito. In questa prospettiva esso costituisce senza ombra di alcun dubbio un illecito penale, sotto il profilo del reato di omessa dichiarazione dei redditi da parte degli amministratori della società esterovestita, senza che al riguardo sorgesse in alcun modo la necessità di disturbare l’elusione fiscale, l’abuso del diritto e la questione della loro rilevanza penale. 54 Si v. il punto 4.4. della decisione della Corte di Cassazione sul caso in questione, nel quale si richiama espressamente la sentenza della Corte di Cassazione 26/05/2010, n. 29724, riguardante un caso di estero vestizione ed enunciante il seguente principio di diritto: “L’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale IVA da parte di società avente residenza fiscale all’estero sussiste se questa ha stabile organizzazione in Italia, che ricorre anche quando la società straniera abbia affidato, anche di fatto, la cura dei propri affari in territorio italiano ad altra struttura munita o meno di personalità giuridica, prescindendosi dalla fittizietà o meno dell’attività svolta all’estero dalla società medesima”. In quel caso era stato contestato il reato di cui all’art. 5 d. lgs n. 74/2000 ad una società avente residenza fiscale all’estero, ma che non possedeva un legame con il territorio di quello Stato. 202 Prof. Pasquale Pistone Professore Università di Vienna L’abuso del diritto nella giurisprudenza tributaria della Corte di Giustizia dell’Unione Europea Introduzione L’obiettivo di questo lavoro è di analizzare la dimensione tributaria dell’istituto dell’abuso del diritto alla luce del contributo della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. E’ infatti indubbio che la Corte sia il vero artefice di una ricostruzione ermeneutica che realizza una osmosi tra le tradizioni giuridiche di molti ordinamenti degli Stati membri dell’Unione Europea ed un principio già intrinseco nel diritto sovranazionale, secondo cui la tutela giuridica del diritto dell’Unione Europea viene riservata alle sole situazioni in cui l’applicazione dello stesso venga invocata in buona fede. In questi termini, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha realizzato nel contempo una fusione tra categorie giuridiche nazionali e principi di diritto sovranazionale, ricavando al livello interpretativo un vero e proprio trapianto legale. Viene infatti restituito al diritto degli Stati membri un istituto giuridico, quale l’abuso del diritto, capace di acquisire una fondamentale importanza per effetto del rango gerarchicamente sovraordinato che va riconosciuto al diritto sovranazionale negli ordinamenti giuridici degli Stati membri. Questo studio analizza in primo luogo gli aspetti metodologici dell’interpretazione delle norme e dell’estrazione dei principi in un contesto di pluralismo giuridico retto dal primato del diritto dell’Unione Europea che vincola l’esercizio delle competenze altrimenti mantenute a livello degli Stati membri in materia fiscale. Successivamente, l’attenzione verrà spostata sul punto centrale di riflessione, ossia quello dei rapporti tra la categoria giuridica sovranazionale dell’abuso del diritto e quella del fenomeno tributario dell’elusione fiscale. In tale sede si porranno le basi per i tre punti in cui si articolerà il nucleo del presente studio, ossia (i) il confronto tra gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali nazionali ed europei, (ii) l’analisi evolutiva delle sentenze tributarie e non tributarie della Corte di Giustizia Europea in tema di abuso del diritto e (iii) il potenziale impatto della recente sentenza 3M Italia sui futuri sviluppi in tema di abuso, intorno a cui si articoleranno anche le conclusioni di questo lavoro. L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA 1 Aspetti metodologici Per cogliere l’essenza della attività ermeneutica della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sull’abuso del diritto in materia tributaria occorre partire da due questioni preliminari di carattere metodologico, che attengono all’esistenza di un pluralismo giuridico retto dal primato del diritto sovranazionale su quello degli Stati membri in una materia in cui questi ultimi mantengono ampiamente la potestà impositiva al livello nazionale, subordinandone l’esercizio al rispetto del diritto dell’Unione Europea 1. In primo luogo, bisogna chiedersi se sia possibile configurare per l’abuso del diritto una diversa dimensione rispetto a quella che allo stesso possa essere riconosciuta ai fini civilistici. Tradizionalmente gli ordinamenti giuridici europeo-continentali prospettano una dipendenza delle categorie giuridichetributarie da quelle civilistiche quale risultato dell’unità del diritto. In tale contesto l’unità dell’ordinamento giuridico rappresenta il punto di partenza per una metodologia ermeneutica che ha rigettato a livello dottrinale il particolarismo di alcune branche, come ad esempio quella tributaria, che pure presentano specifiche esigenze di tutela nel contesto di una relazione tra soggetto privato e soggetto pubblico dell’obbligazione in cui quest’ultimo è nel contempo portatore dell’interesse della collettività e depositario della potestà tributaria ed impositiva. Esistono però diversi modi di configurare il rapporto tra diritto civile e diritto tributario per quanti intendono affrontare il problema seguendo una metodologia che valorizzi l’esigenza di assicurare il primato del diritto sovranazionale su quello degli Stati membri, anche tenendo conto che nell’Unione Europea l’autonomia qualificativa del diritto sovranazionale è indispensabile per ottenere la omogenea interpretazione ed applicazione dello stesso su tutto il territorio. Del resto, non può dimenticarsi che nell’Unione Europea la tradizione giuridica europeo-continentale si confronta con quella anglosassone, che non conosce il legame genetico tra diritto civile e diritto tributario e pur tuttavia mantiene l’unità dell’ordinamento giuridico al livello interpretativo ed applicativo. Questo lavoro non si propone di effettuare un vero e proprio confronto tra ordinamenti giuridici di civil law e common law, ma presuppone, ai fini dell’analisi, una serie di punti fermi nei rapporti tra gli stessi all’interno dell’Unione Europea ed ai fini della ricostruzione ermeneutica dell’istituto dell’abuso del diritto nell’ordinamento sovranazionale europeo e del trapianto legale che del suddetto istituto che viene effettuato verso gli Stati membri. Questi punti fermi possono essere così brevemente prospettati. Ciascun sistema giuridico nazionale può avere al proprio interno un diverso assetto dei rapporti con il diritto tributario e quindi determinare una diversa dimensione delle categorie giuridiche e del loro adattamento alla materia tributaria. All’interno di ciascun sistema giuridico può essere riconosciuta 1 Su tali aspetti il presente lavoro costituisce il proseguimento delle riflessioni dedicate ad Andrea Amatucci in Pistone, P., Pluralismo giuridico ed interpretazione della norma tributaria, in Scritti in Onore di Andrea Amatucci, vol. I, 2011, pp. 231263. 204 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA una diversa funzione all’attività interpretativa svolta in sede applicativa, capace dunque di cristallizzare la dimensione concreta di un principio esistente all’interno del sistema giuridico stesso, ovvero di determinare l’ambito applicativo di una determinata norma o di una norma che consente all’ordinamento di reagire ai fenomeni di aggiramento delle proprie norme. Non interessa dunque ai fini in esame indagare oltre sulla possibilità che l’eventuale rinvenibilità dell’istituto dell’abuso del diritto possa rappresentare il risultato di una reazione endogena della norma ai tentativi del suo utilizzo per finalità diverse da quelle per cui la stessa è stata predisposta dal legislatore, ovvero l’espressione di una reazione esogena del sistema per effetto di una apposita clausola normativa prevista per contrastare specifici fenomeni indesiderati dal legislatore od in modo più ampio, secondo gli schemi di una clausola generale. Queste precisazioni non devono indurre a ritenere che il presente lavoro si astenga dall’affrontare i problemi principali dell’abuso del diritto. Servono invece a porre le basi di una innovativa metodologia ricostruttiva sovranazionale, che riconosce l’esigenza di confrontare l’interprete con i problemi concreti del diritto tributario e che non pone questa disciplina nel quadro di secondo livello, presupponendo una dipendenza dalle categorie civilistiche, come invece sarebbe normale negli ordinamenti giuridici di tradizione europeo-continentale. Non si può e non si deve infatti studiare il diritto sovranazionale rimanendo attaccati alle categorie del diritto nazionale, giacché, se così fosse, l’interprete potrebbe realizzare risultati diversi a seconda dell’ordinamento nazionale e della tradizione giuridica di partenza. Una metafora può ben illustrare la nuova prospettiva di questa interpretazione che si ritiene debba trovare applicazione ai fini in esame, ed in generale per verificare l’impatto del diritto sovranazionale sulle categorie giuridiche del diritto tributario nazionale. Quasi come in una realtà tridimensionale, le dimensioni di ciascun istituto giuridico sovranazionale possono essere colte soltanto con gli appositi occhiali che suppliscono all’incapacità dell’occhio umano di vederle quando la stessa è proiettata su uno schermo piatto. In effetti, la dimensione giuridica propria dell’abuso del diritto alla luce del diritto dell’Unione Europea può essere paragonata a un fenomeno tridimensionale, in cui la profondità fornisce una dimensione ulteriore rispetto a quelle che si appiattiscono all’interno dei singoli ordinamenti giuridici nazionali di common law o di civil law. La tridimensionalità implica poi che la realtà sovranazionale osservata con gli appositi occhiali possa poi essere riflessa nell’attività che l’interprete svolge al livello nazionale al momento di interpretare le norme del proprio ordinamento giuridico, conferendo alla suddetta attività un ambito che corrisponde a quello entro il quale il primato del diritto sovranazionale su quello nazionale lo consenta. Possiamo quindi prospettare vari corollari di questa prima premessa metodologica. Non è necessario che la dimensione tributaria dell’abuso del diritto sia derivata da quella civilistica ed è anzi ben possibile che quella civilistica sia 205 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA influenzata in tutto o in parte da quella tributaria. A questo riguardo basti ricordare che la Corte di Giustizia Europea non può attivare da sola la propria giurisdizione, ma soltanto intervenire quando ciò sia richiesto da un giudice nazionale (rinvii pregiudiziali), dalla Commissione Europea (procedure di infrazione) od in altre situazioni tassativamente elencate (ad esempio su richiesta di uno Stato membro). Potrebbe dunque ben verificarsi in modo occasionale uno sviluppo giurisprudenziale in materia tributaria dovuto alla concomitanza di una pluralità di cause pendenti in una specifica materia e la successiva applicazione della stessa interpretazione in cause pendenti in altri ambiti, come ad esempio quello civilistico. Non è necessario che le diverse categorie civilistiche provenienti dagli ordinamenti giuridici nazionali rilevino necessariamente ai fini della determinazione di quella tributaria dell’abuso del diritto nell’ottica del diritto nazionale. In questo senso potremmo trovarci, come in effetti accade, di fronte ad una situazione in cui simulazione, frode alla legge ed abuso del diritto potrebbero essere configurate in modo unitario alla luce del diritto sovranazionale ai fini di determinare la dimensione sovranazionale dell’istituto dell’abuso del diritto in materia tributaria. Non è quindi necessario che le due dimensioni (civilistica e tributaria) dell’abuso coincidano, in quanto potrebbero prospettare diverse applicazioni a diversi fini ed in relazione a diverse tipologie di rapporti giuridici. E’ però possibile che non esistano in realtà due dimensioni sovranazionali dell’istituto dell’abuso del diritto, ma una sola dimensione, che si applica in contesti diversi. Questo è quanto il presente lavoro intende accertare, tenendo presente il punto di arrivo di precedenti elaborazioni svolte su questa tematica 2. Per realizzare questa attività è però ora necessario prospettare la seconda premessa metodologica in precedenza prospettata. Tale premessa è strettamente correlata ai corollari della prima ed alla necessità di tener presente la possibilità che l’abuso del diritto sia dotato di una duplice dimensione sovranazionale, da determinarsi in funzione di ciò che concretamente costituisca l’oggetto dell’abuso. Questa attività ricostruttiva va effettuata concretamente alla luce dell’articolo 54 della Carta Fondamentale dei Diritti dell’Unione Europea, approvata con il Trattato di Nizza nel 2000 ed alla quale il Trattato di Lisbona ha conferito effetti vincolanti a partire dal 1° dicembre 2009. Il suddetto articolo, rubricato “abuso del diritto”, sancisce in sostanza che la Carta non possa essere interpretata in modo da implicare l’esistenza di un diritto di intraprendere attività o compiere atti volti a ledere i diritti e le libertà riconosciuti nella Carta stessa od a limitarli in modo maggiore di quanto da essa previsto. 2 A questo riguardo ci si propone in questa sede di proseguire un percorso interpretativo e ricostruttivo iniziato in Pistone, P., Abuso del diritto ed elusione fiscale, Padova, CEDAM, 1995, e portato avanti in vari altri scritti, principalmente in lingua italiana, inglese e spagnola e pubblicati in Europa e Sudamerica. 206 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA A questo riguardo, per poter correttamente svolgere la ricostruzione dell’istituto dell’abuso del diritto alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e per poter svolgere riflessioni utili ad auspicabili sviluppi della suddetta giurisprudenza nel futuro, occorre chiedersi se la Carta intenda riferirsi ad una dimensione soggettiva od oggettiva dell’abuso del diritto. La differenza tra le due dimensioni può cogliersi tenendo presente che si può abusare di un diritto soggettivo, ossia di una facultas agendi riconosciuta ad una determinata persona dall’ordinamento, ma altresì di una specifica norma dell’ordinamento, ossia di una norma agendi che regola l’esistenza del diritto. La dimensione soggettiva dell’abuso non va dunque configurata solo in ragione della rilevanza dell’elemento soggettivo per la sussistenza dello stesso, quanto piuttosto in modo da determinare se si debba intendere che l’oggetto dell’abuso sia la situazione giuridica soggettiva riconosciuta ad un singolo, ovvero la norma che la regola. Potrebbe astrattamente ritenersi che tale differenza abbia un ruolo limitato. Forse questa affermazione potrebbe essere corretta da una prospettiva civilistica, visto che al di là delle configurazioni dei limiti positivi nel diritto degli Stati membri dell’Unione Europea per l’esercizio di un diritto con finalità antisociali (ossia tendenti a ledere l’esercizio del diritto altrui) 3, la disciplina dei rapporti intersoggettivi privati deve assicurare una armoniosa ricomposizione dei rispettivi interessi in linea con l’ordinamento giuridico. Tuttavia, pare a chi scrive che, diversamente da ciò che può accadere per colui che intenda esercitare il proprio diritto per nuocere ad altri, ai fini impositivi non possa tanto e solo rilevare questa esigenza, quanto piuttosto quella di assicurare che il prelievo dei tributi ed ogni attività o procedimento ad essa strumentale possa realizzarsi in piena conformità con le norme che regolano il fenomeno impositivo. In questo senso, come si è già affermato in precedenti scritti, l’istituto dell’abuso del diritto entra in stretto collegamento con il fenomeno dell’elusione fiscale e con l’esigenza di consentire all’ordinamento di reagire alle attività con cui il contribuente intende sottrarsi all’obbligo di contribuire al sostegno della spesa pubblica evitando l’applicazione delle norme impositive od indebitamente invocando l’applicazione di quelle agevolative od esentative. Nel contesto tributario l’accento va dunque posto sulla esigenza di assicurare una corretta applicazione della normativa, proteggendola da tentativi che ne frustrino gli obiettivi senza determinare un aperto conflitto con la stessa, come accadrebbe nel caso in cui il contribuente non dichiarasse e/o non pagasse tributi per i quali si è realizzato il relativo presupposto impositivo 4 o addirittura si impegnasse a compiere atti per evitare che il Fisco venisse a conoscenza del 3 Esempio di questa tutela piena, ma funzionale, può riscontrarsi nella Costituzione italiana e nella dimensione che la stessa riserva al diritto di proprietà, superando gli schemi dell’assolutezza di impronta napoleonica. 4 In questo senso ci si intende riferire al ben noto fenomeno dell’evasione fiscale. 207 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA suddetto fatto5. Importa dunque più di comprendere se l’abuso abbia impedito la applicazione della norma a quelle situazioni di fatto in cui il legislatore avrebbe previsto l’obbligo di contribuire al sostegno pubblico, che se il contribuente abbia esercitato i propri diritti per nuocere ad altri. Con ciò però non si intende implicare che quest’ultima dimensione possa diventare del tutto irrilevante, ma piuttosto che la libertà del contribuente di organizzare le proprie vicende giuridiche debba trovare un limite nell’esigenza di assicurare la corretta applicazione della norma e non invece di nuocere all’esercizio di diritto da parte altrui. In questo senso può cogliersi l’esigenza di oggettivare il riscontro dell’attività abusiva e del relativo elemento soggettivo nei fatti posti in essere e nell’esistenza di un confronto con quelli al verificarsi dei quali il legislatore può aver inteso applicare una determinata norma tributaria. Nella prospettiva della presente analisi, ed al fine di svolgere pienamente la seconda premessa metodologica, occorre allora chiedersi cosa significhi in concreto abuso del diritto secondo la citata disposizione della Carta Europea dei Diritti Fondamentali e quale sia l’ambito entro il quale la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea possa ricostruirla in materia tributaria. Due elementi, ossia la formulazione letterale della suddetta disposizione e la sua collocazione all’interno della Carta, potrebbero a prima vista fornire un primo elemento per propendere in favore della tesi secondo cui di abuso del diritto si dovrebbe parlare con una preminenza dell’esercizio di una facultas agendi per finalità antisociali. Il primo elemento, quello cioè relativo alla formulazione letterale, indica chiaramente un riferimento al divieto di esercitare un diritto per ledere gli altrui diritti. Il secondo elemento, quello cioè relativo all’inserimento della suddetta disposizione nella Carta Europea dei Diritti Fondamentali, prova che l’obiettivo della norma sia quello di assicurare al cittadino dell’Unione Europea un diritto fondamentale in base al quale non può essere privato dei singoli diritti riconosciuti dal diritto dell’Unione Europea nel contesto delle relazioni di pluralismo giuridico attraverso cui lo stesso produce i suoi effetti all’interno degli ordinamenti nazionali, se non nei casi previsti dalla Carta stessa. In questo senso la Carta produce appieno la sua funzione di fonte delle fonti giuridiche che sanciscono i diritti delle persone all’interno dell’Unione Europea. Prima di giungere a conclusioni, forse affrettate, in relazione al significato del riferimento all’abuso del diritto nell’art. 54 della Carta Fondamentale dei Diritti dell’Unione Europea, vi sono ancora due elementi da prendere in considerazione ai fini interpretativi. 5 In questo caso si determina una fattispecie di frode fiscale, che condivide gli elementi costitutivi dell’evasione fiscale, di cui costituisce una species caratterizzata per la particolare gravità e pericolosità per l’ordinamento. Ne consegue che, anche la reazione da parte dell’ordinamento giuridico può assumere i connotati di una maggiore severità senza determinare violazioni al principio di proporzionalità, cui il diritto dell’Unione Europea attribuisce il ruolo di guardiano della tutela dei diritti del singolo da eccessive reazioni dell’ordinamento giuridico. 208 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA Il primo elemento emerge dall’analisi plurilinguistica, che, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea6 deve contribuire alla ricostruzione del significato delle norme del diritto dell’Unione Europea, attribuendo alle stesse un significato che assicuri uniformità attraverso le sue diverse lingue ufficiali. In particolare, è la lingua inglese a fornire interessanti spunti, in quanto questa disposizione parla di “abuse of rights”, laddove il termine diritto viene espresso da quella lingua non solo dall’espressione ‘right’, dotata di una chiara connotazione relativa alla situazione giuridica soggettiva del singolo, ma anche dal termine ‘law’, che si riferisce invece al diritto inteso come norma giuridica ed ordinamento. Ci si potrebbe allora chiedere se il dato letterale nella versione ufficiale della Carta Europea dei Diritti Fondamentali possa aggiungere un elemento decisivo per ritenere che essa non ha mai inteso riferirsi alla protezione della corretta applicazione delle norme giuridiche, quanto piuttosto solo ai termini ed alle condizioni entro le quali i singoli possono esercitare i propri diritti. Questa conclusione, che pure potrebbe rappresentare in linea di principio una conclusione conforme all’interpretazione di quell’elemento, va allora confrontata con le altre lingue ufficiali dell’Unione Europea. Per quanto direttamente interpretabile da chi scrive non sovvengono elementi utili per confermare o smentire questa conclusione, visto che in molte altre lingue ufficiali manca questa diversità tra le due dimensioni e viene utilizzata una terminologia omogenea in cui facultas agendi e norma agendi infatti coincidono. La ricerca può poi proseguire con ulteriori elementi provenienti dalla terminologia finora interpretata dalla Corte di Giustizia Europea in lingua inglese, che, nelle sue cause in materia tributaria, ha finora sempre parlato di “abuse of rights” e mai di “abuse of law”. Varie possono essere le conclusioni cui si potrebbe pervenire su questa base, ma chi scrive ritiene che non possano essere rinvenuti elementi rilevanti ai fini della presente indagine. Infatti, la prima sentenza in cui la Corte di Giustizia Europea si è dovuta confrontare con la sussistenza del divieto di abuso del diritto in materia tributaria è stata la causa Halifax (in tema di imposta sul valore aggiunto)7, rimessa da una Corte inglese, dunque in lingua inglese. Questo elemento è determinante. La Corte nazionale in quella causa ha ritenuto necessario in quell’occasione chiedere alla Corte di Giustizia Europea se dovesse applicarsi in una materia regolata dal diritto secondario quel divieto dell’abuso del diritto che quest’ultima Corte aveva fino a quel momento applicato al di fuori del diritto tributario. Nell’importare il concetto di abuso del diritto all’interno dell’ordinanza di rimessione della causa Halifax, essa ha allora attribuito all’abuso quella formulazione letterale che maggiormente si confaceva al proprio ordinamento giuridico, parlando di abuse of rights. Fermo restando che per l’ordinamento giuridico inglese 6 CGUE, 13.4.2000, causa C-420798, W.N., para. 21-22. Si veda amplius su queste tematiche Maisto, G. (ed.), Multilingual Texts and Interpretation of Tax Treaties and EC Tax Law, IBFD Publications, 2005, in particolare il contributo di Alber, S., Multilingualism and interpretation of EU Law, pp. 105. 7 CGUE, 21.2.2006, causa C-255/02, Halifax et aa. 209 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA parlare di abuso del diritto di per sé non ha senso - visto che, almeno per quanto concerne la materia tributaria, la reazione ai fenomeni di elusione fiscale si attua, secondo la giurisprudenza Ramsay dai primi anni ’80 del secolo scorso, applicando la prevalenza della sostanza sulla forma - si trattava allora di trovare una formulazione che in grado di assicurare in lingua inglese quanto meno una dimensione comprensibile a quella giurisprudenza europea elaborata in tema di abuso del diritto. Se abuse of rights ha poco senso, ancor meno lo avrebbe avuto abuse of law, visto che ancor meno si potrebbe configurare nell’ordinamento giuridico inglese quel tipo di fenomeno, in quanto l’applicazione della legge non può essere abusata. Dopo l’arrivo alla Corte, la causa Halifax ha quindi mantenuto in lingua inglese la formulazione adottata dalla Corte nazionale, fatto, questo, del tutto normale, visto che si tratta di una causa rimessa in via pregiudiziale, in cui dunque il giudice nazionale chiede aiuto per l’interpretazione del diritto dell’Unione Europea che ha bisogno di applicare ad una causa pendente dinanzi ad esso. Nemmeno si sono potuti determinare cambi di tipo linguistico nella pur eccellente ricostruzione dell’istituto dell’abuso del diritto fatta dall’avv. Gen. Maduro nelle sue conclusioni, redatte in lingua originale portoghese e tradotte in inglese mantenendo il riferimento al termine abuse of rights quale esso era pervenuto dalla Corte nazionale. Da quel momento in poi, o per maggiore precisione, da quello in cui la causa Halifax è stata fatta oggetto di sentenza, la terminologia di abuse of rights è stata mantenuta immutata. Probabilmente questo è imputabile al valore di precedente di tale sentenza, i cui paragrafi sono regolarmente richiamati tanto nelle successive sentenze tributarie (anche in materia di imposte diretta a partire dalla causa Cadbury Schweppes). Da ricostruzioni personalmente effettuate da chi scrive con il servizio di traduzione giuridico-linguistica della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel corso di appositi seminari di studio, questa metodologia corrisponde all’esigenza di mantenere immutato il quadro in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha sviluppato per la prima volta la propria attività interpretativa in assenza di ulteriori specifiche manifestazioni di intervento sul tema da parte della Corte stessa. Dal dato plurilinguistico emerge dunque che la dicotomia in lingua inglese e la rilevanza dell’espressione abuse of rights non è necessariamente indicativa di una sfumatura giuridica volta a sostenere la rilevanza del divieto di abusare del diritto come facultas agendi. Del resto, applicando le tecniche ermeneutiche di interpretazione uniforme, sembra difficile pensare che si potrebbe giungere ad una conclusione diversa, tenuto conto del dato omogeneo proveniente dalle altre lingue e dell’esigenza di ricostruire la volontà di chi ha redatto l’art. 54 della Carta Fondamentale o dell’interpretazione fornita al divieto di abuso del diritto da parte della Corte di Giustizia Europea nella propria giurisprudenza sulle libertà fondamentali. Nemmeno si potrebbe arrivare a conclusioni diverse se si adottassero le nuove teorie che ammettono la rilevanza dell’interpretazione unica anche in presenza di un testo redatto ufficialmente in più versioni linguistiche, visto che non sarebbe possibile ammettere che la normativa europea della Carta 210 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA Fondamentale e l’interpretazione che la Corte di Giustizia Europea ha finora fornito delle libertà fondamentali siano state in sostanza svolte in lingua inglese e poi tradotte nelle altre lingue 8. Avendo quindi accertato l’insussistenza di elementi conclusivi provenienti dall’interpretazione plurilingue, ci si deve ora confrontare con un secondo elemento, chiedendosi quale sia la possibile utilità di applicare l’art. 54 della Carta Fondamentale alla materia tributaria con un significato che vieti l’esercizio antisociale di un diritto, piuttosto che la corretta applicazione di una norma. A questo riguardo si ritiene che anche nella misura in cui si volesse ritenere prevalente un riferimento al divieto di una facultas agendi, sarebbe necessario comprendere quali diritti e quali libertà non dovrebbero concretamente essere lesi. A parere di chi scrive nella materia tributaria non si potrebbe in tale caso fare a meno di riferirsi ad un contesto in cui al soggetto non sarebbe consentito di realizzare pratiche che siano in contrasto con il diritto dell’Unione Europea. In tal senso non si potrebbe allora fare a meno di ricordare che la Carta, ed il divieto di abuso del diritto contenuto nell’art. 54, finirebbero per ricordare che non si può invocare l’applicazione del diritto dell’Unione Europea in relazione a pratiche abusive e che queste ultime sono in sostanza definite nell’interpretazione della Corte di Giustizia Europea secondo le modalità che questo studio prospetterà di seguito. In questo senso può già affermarsi che la dimensione tributaria dell’abuso del diritto non può essere confinata all’interno del solo ambito del divieto dell’esercizio di un diritto per finalità antisociali. Ad essa deve invece riconoscersi un ambito operativo più ampio, in cui cioè l’oggetto del divieto viene determinato sulla base di quanto il singolo ordinamento tributario non tollera, cioè quei fenomeni di elusione fiscale, che costituiscono aggiramento della normativa tributaria e sui quali ci si soffermerà nel prosieguo di queste riflessioni. 2 Abuso del diritto ed elusione fiscale Nonostante prima della fine del millennio scorso fosse arduo parlare di abuso del diritto in relazione all’elusione fiscale, questo tema è probabilmente ormai entrato nel novero di quelli che hanno una rilevanza centrale in materia tributaria e che attraggono maggiormente ogni tipo di utente di questa branca del diritto. Attrae i contribuenti ed i loro difensori, che ne studiano le problematiche al fine di evitare che possa costituire un grimaldello per forzare la porta della certezza del diritto che è a salvaguardia suprema dei diritti dei singoli rispetto all’esercizio del potere impositivo. 8 Anzi, è noto che, al di là delle lingue officiali dei singoli procedimenti, la lingua di lavoro nella Corte di Giustizia Europea è principalmente quella francese ed è quindi in quella lingua che si forma il consenso tra i giudici che formulano la sentenza, la cui formulazione letterale fa poi pienamente fede in tutte le lingue dell’Unione Europea. 211 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA Attrae l’amministrazione finanziaria, che ha realizzato come essa rappresenti uno strumento per superare le sabbie mobili procedimentali delle disposizioni normative succedutesi nel corso di decenni, stratificando una reazione dell’ordinamento senza coerenza e incisività applicativa. Attrae i giudici. Nell’epoca della costruzione del diritto tributario globale i giudici italiani si sono resi conto che il divieto di abuso nel diritto rappresenta un limite alla possibilità di invocare l’applicazione della norma agendi in materia tributaria all’interno dell’ordinamento di molti Paesi del mondo. Su questa base la giurisprudenza si è così sforzata, a partire dal 2005, di realizzare un trapianto legale di questo istituto all’interno dell’ordinamento italiano, in cui esso era sostanzialmente mancato, od era stato larvatamente presente nella forma affine, ma con finalità diverse dell’abuso del diritto come esercizio di facultas agendi, ossia di un diritto per finalità di nuocere al godimento di diritti altrui. Attrae il legislatore, che si è reso conto del conflitto latente tra il trapianto giurisprudenziale dell’abuso operato a livello interpretativo e l’esigenza di garantire la certezza del diritto, specialmente in presenza dei presupposti applicativi per la norma contenuta nella disciplina per il procedimento sulle imposte dirette (ossia l’art. 37bis d.p.r. 600/73). Tale conflitto ha spinto il legislatore ad intraprendere con decisione la strada della riforma della normativa con la delega di recente affidata al Governo. Attrae anche gli studiosi del diritto tributario italiano, che ormai dedicano ampie pagine all’analisi di queste problematiche, prospettandone i più vari profili. Mi propongo di svolgere in questa sezione alcune riflessioni che dimostrano l’importanza di un’analisi di diritto comparato e sovranazionale per comprendere in che direzione è possibile ed opportuno che si sviluppi il diritto tributario italiano a questo riguardo. A questo proposito è opportuno sottolineare che l’analisi della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea rappresenta non soltanto il punto centrale delle riflessioni di questo lavoro, ma anche il punto di partenza di qualsiasi studio che si proponga di conoscere l’attuale dimensione dell’abuso del diritto in materia tributaria all’interno dell’Unione Europea. Essa è infatti autore primo della teoria dell’abuso nel diritto sovranazionale ed è ad essa che i singoli ordinamenti devono rifarsi per determinare i rispettivi ambiti entro i quali è possibile che il sistema tributario contrasti le pratiche elusive. Come già si è avuto modo di precisare in precedenza in questo scritto, la Corte è quel foro in cui si collegano e fondono le tradizioni ed istituti giuridici degli Stati membri dell’Unione Europea. Questi vengono assorbiti dal sistema sovranazionale e restituiti agli Stati membri con il crisma del primato del diritto dell’Unione sulle fonti nazionali. E’ in quella sede che la diversità dei singoli sistemi nazionali cede il passo all’armonia sovranazionale delle fonti del diritto, quasi a formare un tutt’unico, come in un sistema di vasi comunicanti dalle diverse forme, in cui il livello dell’acqua si mantiene pienamente omogeneo. 212 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA In ragione della rilevanza di questo fenomeno di osmosi e metamorfosi giuridica, l’analisi terrà anche conto della sentenza sul caso 3M Italia (C417/10), pronunciata dalla Corte di Giustizia Europea il 29 marzo 2012, che non chiude tutti gli interrogativi su questa materia nell’ottica del diritto dell’Unione Europea, forse a causa di una eccessiva prudenza da parte della Corte stessa. Preciso però sin da questo momento che, in materia di imposta sul valore aggiunto, a mio giudizio non esistono più spazi per la previsione di clausole generali antielusione diverse dagli standards fissati inizialmente dalla sentenza Halifax (C-255/02) e successivamente perfezionatisi con l’evoluzione di quel filone giurisprudenziale. Infatti, se le norme antielusione in questo ambito fossero meno incisive, si rischierebbe di incidere sul sistema comune di imposizione sul valore aggiunto in modo che quest’ultimo non tollera. Se invece esse fossero troppo blande, sorgerebbe il problema contrario di una loro potenziale rilevanza dall’opposto versante del divieto di aiuti di Stato. E’, quest’ultima, una problematica ancora non chiaramente definita dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, che non ha ancora avuto modo di pronunciarsi esplicitamente su di essa, ma può scorgersi una luce per l’evoluzione giurisprudenziale in questa direzione, anche tenuto presente che la materia del divieto degli aiuti di Stato ha subito una radicale evoluzione con la sentenza sul caso Gibilterra9, dove la via della soft law al contrasto alla concorrenza fiscale dannosa si è incontrata con quella della hard law basata sugli Artt. 107 e 108 TFUE. L’analisi si svilupperà in quattro punti che di seguito sono brevemente delineati. Ciascuno di essi costituirà oggetto di un’analisi separata nei successivi paragrafi di questo scritto. In primo luogo, inquadrerò il tema della relazione tra l’abuso del diritto ed il fenomeno dell’aggiramento delle norme tributarie, meglio noto come elusione fiscale, tracciando un confronto tra gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali dei Paesi dell’Unione Europea e l’iter che la Corte di Giustizia Europea ha affrontato a partire dalla sentenza Halifax. Questa impostazione potrà facilitare il modo in cui si è realizzato il trapianto legale in parola, evidenziando anche gli aspetti innovativi che lo stesso ha determinato. In secondo luogo, analizzerò una serie di sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea (tra il 2006 ed il 2010) in tema di abuso del diritto ed elusione fiscale, onde verificare se sussistono gli estremi per configurare una specificità fiscale della teoria dell’abuso del diritto nella giurisprudenza europea. In terzo luogo, svolgerò alcune precisazioni sulla causa 3M Italia, per verificarne il possibile impatto diretto ed indiretto sull’ordinamento tributario italiano, nonché quello sulla causa C-529/10, Safilo, attualmente ancora 9 CGUE, sentenza 15.11.2011, cause riunite C-106/09 P e C-107/09 P, Commissione vs. Governo di Gibilterra e Regno Unito; Spagna vs. Governo di Gibilterra e Regno Unito. 213 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA pendente davanti alla Corte di Giustizia Europea ed anch’essa rimessa dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione. Trarrò infine alcune conclusioni, tenendo in considerazione l’orientamento delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione che configura in relazione all’elusione fiscale un problema di capacità contributiva, su cui però la Corte Costituzionale non ha finora mai avuto l’occasione di pronunciarsi. 3 Abuso del diritto ed aggiramento delle norme tributarie nell’interpretazione giurisprudenziale comparata ed europea Occorre analizzare innanzitutto un problema di base, ossia quello relativo all’aggiramento della fattispecie impositiva che il contribuente ricerca al fine di ottenere un risparmio di imposta. E’ ben chiaro che per il diritto dell’Unione Europea il Mercato Interno è la dimensione comune dell’Europa che intende dare dei vantaggi. Pertanto, il fatto di ottenere dei vantaggi, sia pure di natura fiscale, in relazione all’esistenza delle diverse sovranità degli Stati membri - come sapete, infatti, in linea di principio, la sovranità in materia tributaria è rimasta a livello degli Stati membri - non rappresenta in linea di principio un elemento di criticità. Il problema sta piuttosto nel delimitare, nel tracciare una linea di demarcazione tra quei risparmi di imposta che costituiscono un vantaggio ammissibile secondo i principi giuridici dell’Unione Europea e quelle situazioni in cui si appalesa con maggiore evidenza una fattispecie di aggiramento di una fattispecie impositiva (in realtà la terminologia corretta sarebbe aggiramento di una fattispecie impositiva per l’indebito ottenimento di una norma che comporta un trattamento fiscale più favorevole). A questo riguardo è necessario sforzarsi per riconciliare l’orientamento europeo testé menzionato con l’obiettivo di evitare che il diritto dell’Unione Europea si tramuti in uno strumento per consentire ai contribuenti di ottenere dei vantaggi in materia fiscale che non sono tollerati dai singoli ordinamenti tributari nazionali, in quanto inconciliabili con la struttura delle norme previste da questi ultimi e, più in generale, con l’esercizio della potestà impositiva a livello nazionale. Probabilmente in materia di imposte dirette, il culmine di questo tentativo di riconciliazione lo possiamo trovare nella sentenza pronunciata dalla Corte di Giustizia Europea sulla causa Cadbury Schweppes10. Allo stato attuale tale sentenza dimostra come il criterio utilizzato dalla Corte per riconciliare queste esigenze in modo tecnicamente accettabile, sia per gli studiosi, sia per coloro che si occupano per diritto tributario a livello nazionale e sovranazionale, si identifica nell’individuazione di una costruzione di puro artificio. Questo termine, utilizzato ed analizzato nella sentenza di cui sopra, deve essere compreso in modo tecnicamente adeguato 10 214 CGUE, sentenza 12.9.2006, causa C-196/04 Cadbury Schweppes. L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA sia dalla prospettiva del diritto dell’Unione Europea, sia da quella delle tradizionali categorie giuridiche tributarie. In particolare, come già si è avuto modo di accennare in precedenza, queste ultime presentano una tradizionale tripartizione delle forme di risparmio di imposta, configurando quelle dell’elusione e dell’evasione fiscale (di cui la frode fiscale è un’espressione di particolare gravità), ma ammettendo altresì una ulteriore categoria, in cui il risparmio consegue a scelte di tipo economico. Pertanto, ad esempio andare alla stazione in bicicletta non è un’elusione delle accise sugli idrocarburi, poiché attiene ad una scelta di tipo economico: è dunque un tipo di risparmio di imposta che generalmente non viene mai messo in discussione dagli ordinamenti. Diversamente, nelle altre due forme si riscontra un problema di contrasto diretto od indiretto con le norme tributarie ed in particolare nell’ipotesi di evasione fiscale il risparmio consegue ad un già verificato presupposto di fatto dell’imposta (ossia il fatto al cui verificarsi scaturisce in via mediata o immediata l’obbligo di pagare il tributo), mentre nell’ipotesi di elusione fiscale si ha un aggiramento del fatto, ossia il contribuente cerca dal punto di vista formale di evitare che si verifichi tale fatto. Questa tripartizione sembra ormai comunemente accettata dalla dottrina e dalla giurisprudenza tributaria dei vari Paesi, mentre non altrettanta omogeneità esiste quanto alle tecniche che vengono utilizzate nei vari ordinamenti giuridici nazionali al fine di scoprire le pratiche elusive. In questa sede non si approfondiranno invece gli aspetti relativi alle norme di contrasto all’evasione, che si caratterizzano per una maggiore omogeneità, dovuta principalmente al fatto di ruotare intorno all’esistenza di una violazione diretta del presupposto di una norma impositiva od agevolativa e si differenziano soprattutto in ragione della rilevanza solo amministrativa o, più di frequente anche penale (a volte con la previsione di soglie minime di rilevanza), della condotta che dà luogo all’infrazione. Per simili ragioni si prescinderà dall’analizzare le tecniche di contrasto alla frode fiscale, in cui è presente una ancor maggiore omogeneità di reazione, vista la particolare gravità del fenomeno e dell’azione di solito commissiva del contribuente, volta ad evitare che il mancato pagamento dell’imposta possa essere scoperto dalle autorità finanziarie. E’ comunque opportuno precisare in questa sede che la categoria della frode fiscale (in ambiti diversi da quelli dell’imposta sul valore aggiunto, che è per sua natura oggetto di armonizzazione a livello europeo e quindi viene tenuta fuori da questa analisi) non è unanimemente riconosciuta come un insieme separato da quello dell’evasione fiscale per almeno due ordine di ragioni, che trovano applicazione in diversi ordinamenti tributari nazionali degli Stati membri dell’Unione Europea. In quello del Regno Unito e dell’Irlanda le ipotesi di evasione sono generalmente graduate in ragione della loro gravità, ma senza giungere al punto da concepire l’esistenza di un verso e proprio diverso fenomeno, come quello della frode fiscale. Nella tradizione dei paesi francofoni, ed in particolare dell’ordinamento francese, l’espressione “fraude fiscale” viene invece usata come vero e proprio sinonimo di evasione fiscale 215 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA e per questa ragione manca un ulteriore genus per designare quello che ai fini dell’ordinamento italiano viene definito come frode fiscale. L’esistenza di una autonoma categoria si rinviene invece negli ordinamenti tributari tedesco, austriaco ed olandese, così come in quello spagnolo e portoghese. Veniamo ora ad impostare il problema delle relazioni tra l’elusione e le tecniche sviluppate dagli ordinamenti tributari degli Stati membri dell’Unione Europea. L’analisi di questi aspetti è infatti fondamentale per comprendere quella tridimensionalità dell’abuso del diritto in materia tributaria, per effetto della quale la Corte di Giustizia Europea ha realizzato un trapianto degli istituti giuridici nazionale all’interno del diritto sovranazionale, che ha poi a sua volta restituito una base perché questi ultimi possano esercitare il contrasto alle forme di elusione fiscale secondo le modalità più consone al rispettivo contesto ed entro i limiti ammissibili dal diritto dell’Unione Europea. Come già si accennava in precedenza, sarebbe in linea di principio errato dire che esiste una relazione omogenea da un punto di vista della struttura giuridica del problema dei rapporti con l’istituto dell’abuso del diritto negli ordinamenti degli Stati membri dell’Unione Europea. Infatti, in linea di principio l’abuso del diritto è radicato negli ordinamenti tributari austriaco, belga, francese, olandese, svedese e tedesco, così come, in misura minore in quello portoghese e spagnolo. E’ invece un fenomeno solo apparentemente presente nell’ordinamento tributario britannico ed in quello irlandese, che al più riescono a concepire il fenomeno dell’abuso nella sua diversa accezione soggettiva di esercizio di un diritto per finalità antisociali (dunque come abuso di una facultas agendi) e che pur sempre hanno finora efficacemente contrastato l’elusione fiscale per il mezzo di tecniche equivalenti di origine ed applicazione giurisprudenziale (già in precedenza si richiamava in questo scritto la cd. giurisprudenza Ramsay, sviluppata dalle corti inglesi a partire dai primi anni ’80 del secolo scorso) e che ora, nel caso del Regno Unito, stanno per procedere all’introduzione di una clausola normativa antielusione. L’esistenza dell’abuso del diritto negli ordinamenti in precedenza citati non implica automaticamente che lo stesso abbia in ciascuno di essi la stessa estensione. Abbastanza emblematica sembra il confronto tra i sistemi francese da una parte e quelli austriaco e tedesco dall’altro. In Francia, probabilmente a causa dell’evoluzione del diritto privato e della stretta dipendenza del diritto tributario da quest’ultimo, si concepisce l’abuso del diritto nelle due varianti della simulazione (abus de droit-simulation) e della frode alla legge (abus de droit-fraude à la loi), dimostrando la capacità dell’istituto dell’abuso del diritto di ricomprendere al suo interno tutte le situazioni in cui il prelievo impositivo non riesce ad attuarsi in modo conforme ai fatti realmente verificatisi, sia per effetto di una situazione da caratterizzare diversamente da quella che appare ai fini della titolarità giuridica di un diritto, sia per effetto di un aggiramento della fattispecie impositiva da parte del contribuente. In Austria ed in Germania si segue invece una linea interpretativa ed applicativa che separa nettamente il 216 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA negozio apparente (Scheingeschäft) da quello elusivo (Umgehungsgeschäft). Questa differenza di base prende poi corpo in materia fiscale per effetto dell´esistenza di una legge generale tributaria, che qualifica le fattispecie di aggiramento della fattispecie impositiva o di indebito ottenimento di quella agevolativa alla stregua di abuso del diritto (Rechtsmißbrauch). Il filtro della legge generale tributaria condiziona la qualificazione ai fini impositivi delle categorie giuridiche generali, impedendo alla radice ogni forma di frammistione fra simulazione ed abuso del diritto, così da inquadrare la prima nell’ambito dell’evasione e da erigere il secondo a baluardo del contrasto all’elusione fiscale. Se dunque vi è simulazione, ci si trova di fronte a fattispecie di mera apparenza di una forma alla quale non corrisponde la sostanza o che riflette una sostanza diversa da quella che si manifesta ictu oculi e dalla quale non si può far dipendere il prelievo impositivo. Diversamente, nella misura in cui si verifichi un abuso del diritto, la tensione tra forma e sostanza dà luogo ad una fattispecie in cui il risparmio d’imposta risulta attraverso l’effetto aggiramento di una norma impositiva (o conseguito grazie all’indebita applicazione di una norma agevolativa). Nel caso in cui le due ipotesi prevedono il coinvolgimento di altri soggetti, è dunque ben possibile ricondurre i due fenomeni rispettivamente negli alvei dell’interposizione fittizia e dell’interposizione reale. Ciò ovviamente non impedisce di contrastare il fenomeno elusivo con ulteriori norme specifiche, come ad esempio quelle sul beneficiario effettivo, sui prezzi di trasferimento o sulle società controllate estere, visto che non esiste una necessaria alternatività tra norme generali e norme speciali di contrasto all’elusione. In realtà l’interpretazione potrebbe addirittura prevenire la necessità di una reazione esterna della norma impositiva al tentativo del suo aggiramento, così come ha da decenni affermato la cd. Innentheorie nella dottrina e giurisprudenza austriaca. In quest’ottica, seguendo schemi in sostanza analoghi a quelli dell’interpretazione teleologica è la norma stessa che impedisce il fenomeno elusivo, fino al punto da superare il dato letterale alla ricerca della volontà normativa e quindi di ciò che il legislatore ha voluto in sostanza contrastare. Le critiche ad un uso eccessivamente disinvolto dello strumento interpretativo sono però comuni da parte dei sostenitori della cd. Außentheorie, che subordinano questo tipo di risultato all’attribuzione di specifici poteri di riqualificazione all’amministrazione finanziaria, per i quali è appunto necessario che siano rinvenibili gli estremi dell’applicabilità della norma generale antielusione, ossia dell’abuso del diritto. A tali critiche viene dai primi risposto che un sistema giuridico in sé perfetto non conosce lacune che l’interprete non possa colmare a livello di una corretta ermeneutica. Questo elemento sembra ancor più determinante in quei sistemi che postulano un tipo di interpretazione secondo la realtà economica, come ad esempio quello belga, che riconosce il diritto a caratterizzare le fattispecie impositive alla stregua della reale funzione riconducibile alle stesse, eliminando ogni effetto anomalo che possa dar luogo ad ingiustificati arricchimenti od ad indebiti vantaggi. 217 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA Al di fuori dell’Unione Europea questo parametro caratterizza anche l’influenza dell’azione di indebito arricchimento esperibile dal fisco nell’ordinamento tributario russo. Nell’Unione Europea esso invece avvicina l’approccio tipico all’elusione fiscale negli ordinamenti europeo-continentali con quello che invece è proprio delle tecniche di prevalenza della sostanza sulla forma del tipo elaborato dalla giurisprudenza britannica con la sentenza Ramsay nei primi anni ’80 del secolo scorso. Dall’analisi comparata con i sistemi tributari nazionali degli altri ordinamenti giuridici europeo-continentali emerge dunque come la reazione all’elusione fondata sul divieto dell’abuso del diritto necessiti dell’esplicita previsione di una clausola all’interno del singolo ordinamento. In questo senso non vi è dubbio che non sia possibile in tali ordinamenti tributari l’istituto dell’abuso del diritto al livello interpretativo: laddove esiste, esso presuppone l’applicabilità di una apposita clausola. Come diceva l’illustre studioso tedesco Albert Hensel vari decenni fa, il vero problema dell’elusione comincia lì dove non fallisce l’interpretazione 11. In questo senso, alla Innentheorie formulata da Wolfgang Gassner ormai quaranta anni orsono 12, l’ordinamento austriaco affianca una apposita norma antiabuso contenuta nel paragrafo 22 della Bundesabgabenordnung (con un contenuto in sostanza equivalente a quello del paragrafo 42 della Abgabenordnung tedesca). Tali approcci all’elusione fiscale sono regolarmente oggetto di applicazione da parte della Corte Costituzionale e della Suprema Corte Amministrativa Federale dell’Austria13, così come dalla giurisprudenza tributaria tedesca. Questa base di partenza dell’analisi si trova però ad interagire con il dato rappresentato dall’ordinamento sovranazionale, che riconosce l’esistenza del divieto dell’abuso del diritto, ricavandola dai principi comuni all’ordinamento della gran parte degli Stati membri, conferendo allo stesso una dimensione diversa e correlata all’obiettivo di non consentire che il primato del diritto sovranazionale su quello interno possa essere invocato in situazioni abusive o fraudolente. Per comprendere le conseguenze di questo trapianto legale e della nuova dimensione che all’abuso viene conferita dall’ordinamento sovranazionale e che quest’ultimo a sua volta restituisce agli Stati membri con l’aggiunta dell’effetto di primato sulla normativa nazionale. Veniamo quindi ora ad esaminare questa dimensione alla luce delle categorie del diritto dell’Unione Europea. Prima di svolgere l’excursus sul contrasto all’elusione fiscale nell’ordinamento di alcuni Stati membri dell’Unione Europea si è fatta menzione della rilevanza centrale che assume a questo riguardo, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, il concetto di costruzione di puro artificio. 11 Die echte Steuerumgehung beginnt erst dort, wo die Auslegung versagt. Gassner, W., Interpretation und Anwendung der Steuergesetze - kritische Analyse der wirtschaftlichen Betrachtungsweise des Steuerrechts, Wien, 1972. 13 VwGH 22.9.2005, 2001/14/0188; VwGH 17.10.2007, 2006/13/0014. 12 218 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA E’ ora opportuno fornire a questo concetto una dimensione più concreta ed uno specifico ambito applicativo. La Corte di Giustizia Europea di certo non ha inteso lavorare su elementi che rientrano in ipotesi di mera fittizietà, perché tali ipotesi rappresenterebbero situazioni di mera apparenza non fondate su un dato sostanziale e sarebbero perciò tali da rientrare nelle ipotesi di evasione piuttosto che di elusione. Questo è chiaro nella sentenza Cadbury Schweppes quando si dice che l’applicazione dell’imposizione sulle società controllate estere da parte dello Stato di residenza della controllante sarebbe applicabile in modo generale solo nei casi di mera apparenza della società controllata stessa, ossia in casi che in sostanza sono diversi da quelli per cui la suddetta normativa è stata prevista. Nella giurisprudenza della Corte sono però rinvenibili precedenti che dimostrano la consapevolezza di questa differenza tecnica tra le due fattispecie di elusione ed evasione anche indipendentemente dallo schema dell’abuso del diritto. Infatti, in particolare negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, la Corte è stata chiamata ad affrontare problemi di elusione ed evasione fiscale in tema di imposta sul valore aggiunto in una serie di pronunce, come quella sul caso Naturally Yours Cosmetics Ltd14. In quel periodo non era ancora così evidente l’impatto della giurisprudenza della Corte in materia fiscale, né ancora così radicata quella giurisprudenza, culminata nella sentenza Emsland-Stärke15, di cui le sentenze Halifax, Cadbury Schweppes e tutte le pronunce successive in materia tributaria costituiscono concreta applicazione. Nella sentenza Emsland-Stärke, la Corte ha chiaramente negato che il diritto dell’Unione Europea potesse essere invocato per porre in essere fattispecie abusive. Ciononostante, al tempo della sentenza Naturally Yours Cosmetics Ltd. la Corte si è trovata di fronte ad ipotesi di evasione e elusione ed ha abbozzato quel criterio, poi successivamente recepito con il riferimento alle costruzioni di puro artificio, culminate nell’analisi fatta con la sentenza Cadbury Schweppes. Tale sentenza non è stricto sensu il punto di partenza della giurisprudenza fiscale della Corte. Infatti, come già si diceva, il punto di partenza reale in cui si trovano gli elementi, la teorizzazione dell’abuso del diritto è la sentenza Halifax. E’ quindi in questa sentenza che possono rinvenirsi alcuni paragrafi che presentano quegli elementi soggettivo ed oggettivo, che integrano gli estremi di un abuso del diritto. Nella sua giurisprudenza fiscale però, la Corte di Giustizia si trova a fare i conti con il problema delle costruzioni di mero artificio ed in particolare con il fatto che l’elemento intenzionale o soggettivo, se non riflesso con i fatti posti in essere dal soggetto, non è in grado di condizionare il modo in cui concretamente si attua il prelievo tributario. Pertanto, noi possiamo trovare un elemento di specificità nella giurisprudenza “non fiscale” della Corte nel modo in cui si considera l’elemento soggettivo che si affianca all’elemento 14 15 CGUE, sentenza 23 novembre 1988, causa 230/87, Naturally Yours Cosmetics Ltd CGUE, sentenza 14 dicembre 2000, causa C-110/99, Emsland-Stärke. 219 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA oggettivo, rappresentato dal fatto di ricercare un risparmio di imposta in aggiramento di una fattispecie impositiva. Mettendo insieme questi due componenti, l’elemento che caratterizza la costruzione di mero artificio sta nel fatto che la pratica abusiva si può rinvenire quando ci sia una situazione in cui una società non abbia una sostanza adeguata alle funzioni che la stessa svolge (caso Cadbury). La Corte nazionale, nell’effettuare il rinvio pregiudiziale in materia tributaria si trova ad affrontare le questioni che riguardano l’esercizio di prerogative a livello nazionale, ovvero un giudice nazionale ha un problema e per la sua soluzione deve analizzare il diritto dell’Unione Europea, c’è da interpretare il diritto dell’Unione, quindi rinvia la questione alla Corte, in particolare alla Corte è arrivata una questione in tema della cd normativa CFC sulle società controllate estere. Tale normativa presenta la situazione in cui lo stato membro diverso da quello di residenza della società controllante ha un regime di vantaggio rispetto al regime dello stato in cui risiede la società controllante, in sostanza tali vantaggi possono essere ottenuti anziché costituire una società figlia nello stesso stato di residenza della società madre si costituisce in un altro stato membro, (nel caso di specie si trattava di una questione che riguardava il Regno Unito e la Repubblica di Irlanda). La Corte di Giustizia in questa sentenza ha confrontato una società madre britannica che aveva una società figlia in Irlanda in cui vi è un aliquota standard per la tassazione del reddito delle società al 12,5% ed evidentemente era un regime più favorevole rispetto a quello che avrebbe trovato applicazione se ci fosse stata una società figlia nel Regno Unito. In particolare, la Corte (para. 45 della sentenza) ha anche operato un confronto tra la fattispecie concreta e due situazioni ipotetiche, in cui rispettivamente si costituiva una società figlia nel Regno Unito ed una società figlia in un altro Stato membro con un livello di imposizione inferiore a quello britannico, ma non in grado di far scattare l’applicazione della normativa sulle società controllate estere. In particolare, nella prima ipotesi, il confronto ha anche tenuto conto del fatto che la eventuale applicazione di un’agevolazione fiscale ad una società figlia nel Regno Unito non sarebbe stata compensata dall’applicazione di una normativa analoga a quella di tipo CFC, che invece rimuove gli effetti vantaggiosi della minore imposizione sulla società figlia estera. Nella sentenza Cadbury dunque la Corte ha ricomposto e delimitato questa categoria di costruzioni di mero artificio, non legandola specificamente né alle ipotesi di elusione, né a quelle di evasione, ma limitandosi a configurare la fattispecie concreta, che in quanto oggetto della normativa CFC rappresentava un’ipotesi di elusione fiscale ai sensi delle categorie tributarie, come una situazione in cui il diritto dell’Unione Europea non consentiva l’applicazione della norma nazionale in assenza di una pratica abusiva. In questo senso potrebbe affermarsi che abusive possano essere sia le pratiche elusive, sia quelle di evasione fiscale. Tuttavia, l’analisi del caso concreto, relativo all’applicazione di una normativa antielusione, quale è quella sulle società controllate estere, induce a riferire il concetto di costruzione di mero 220 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA artificio alle sole fattispecie elusive. In questo senso la mancanza di sostanza che le caratterizza e che assurge a loro elemento distintivo, va riconosciuta, come affermato dalla Corte nella sentenza Cadbury Schweppes16, nella mancanza di una adeguata dotazione di personale, locali ed apparecchiature in relazione alle funzioni che la società è chiamata a svolgere. Nella prospettiva di analizzare l’impatto del diritto sovranazionale sul diritto tributario italiano, anche alla luce dell’influenza che su entrambi produce il diritto comparato, sembra allora opportuno svolgere alcune brevi considerazioni sul riferimento alle “costruzioni di mero artificio” esplicitamente inserito al comma 8ter dell’art. 167 TUIR per effetto della novella del 2009. Questo consentirà di prospettare alcune conclusioni sulle modalità in cui si è realizzato il trapianto normativo e sui possibili problemi esistenti a questo riguardo. L’intenzione legislativa di introdurre un riferimento esplicito allo standard di compatibilità in base al quale la Corte di Giustizia Europea esclude la possibile esistenza di violazioni al principio di non discriminazione è evidente e non necessita di commenti. In tali situazioni il legislatore, assumendo come modello categorie giuridiche sovranazionali, decide di conformarsi ad esse anche da un punto di vista concettuale e pertanto accetta implicitamente anche di seguirne l’interpretazione, in conformità con quanto ritenuto dalla Corte di Giustizia, che è l’interprete unico del diritto dell’Unione Europea. Pertanto, si deve ritenere che sono costruzioni di mero artificio quelle che il diritto dell’Unione Europea ritiene tali e che il contribuente deve poter fornire la prova contraria richiesta dalla disposizione in parola seguendo gli standards europei. L’oggetto di tale prova, conformemente alla giurisprudenza europea, non potrà essere diverso dai criteri indicati dal paragrafo 67 della sentenza Cadbury ed in precedenza richiamati. Inoltre, l’incidenza del diritto dell’Unione Europea potrà avvertirsi anche in sede delle modalità con cui la suddetta prova deve essere fornita: occorrerà rispettare il principio della libertà della prova e non richiedere al contribuente modalità troppo onerose per fornire la prova stessa, giacché altrimenti potrebbero insorgere ostacoli procedurali all’esercizio del diritto, che equivarrebbero a non garantire l’effettività dello stesso. Personalmente, ritengo che un conflitto quantomeno latente possa a questo riguardo emergere sia in ragione dell’estremo rigore dei criteri indicati a livello della prassi ministeriale, sia per effetto dell’obbligo di richiedere previo interpello. Su questi temi sarebbe quindi bene che fossero rimesse questioni in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea o che la Commissione prendesse iniziative nell’ambito preliminare che porta a valutare l’eventualità di aprire una apposita procedura di infrazione. 16 Cfr. CGUE, Cadbury Schweppes, cit., para. 67. 221 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA 4 Giurisprudenza tributaria e non tributaria della Corte di Giustizia Europea in tema di abuso del diritto E’ necessario ora osservare se all’interno della giurisprudenza fiscale della Corte di Giustizia Europea vi sia una unitarietà degli elementi di specificità rispetto a quella che potremo considerare giurisprudenza generalista della Corte in tema della Corte. Per fare questo è necessario tracciare prima un confronto tra la giurisprudenza in tema di libertà fondamentali ed IVA (da una parte) e quella relativa alle direttive in materia di imposte dirette, che sembra mostrare alcune peculiarità. E’ infatti alla luce di queste che è possibile comprendere la reale dimensione specifica del divieto dell’abuso del diritto in materia fiscale e quindi poterlo confrontare con quello relativo a tutti gli altri ambiti del diritto. In particolare, c’è una sentenza in relazione al diritto secondario dell’Unione Europea in materia tributaria, ossia quella sul caso Kofoed17, che a mio giudizio non può destare alcune perplessità. Tale pronuncia verte in particolare sull’art.11, par.1, lett. a) della Direttiva 90/434/CE sulle fusioni, attualmente riformulato dalla Direttiva 123/2006 in modo da consentirne l’applicazione anche alle società europea e cooperativa europea. La formulazione letterale di tale articolo e la sua natura di norma priva di un effetto diretto sono probabilmente da individuare come le cause principali della perplessità di chi scrive in merito alla sentenza pronunciata dalla Corte di Giustizia Europea sul caso in parola. Tale norma fa salva la possibilità per gli Stati Membri di applicare la propria normativa nazionale antiabuso anche in presenza di un regime fiscale comune a livello dell’Unione europea. Questa direttiva è stata concepita negli anni 60’ del secolo scorso, ma ha dovuto attendere anni per le difficoltà enormi dell’armonizzazione nelle imposte dirette anche a causa della regola della unanimità nelle deliberazioni del Consiglio in materia fiscale. In quel periodo (come del resto tuttora) vi era una marcata ostilità degli Stati membri al primato dell’Unione europea in questa materia, in cui si temevano gli effetti di un trasferimento ancorché parziale di sovranità tributaria dal livello nazionale a quello europeo. Inoltre, in tema di pratiche abusive, non si era ancora realmente sviluppata quella giurisprudenza che avrebbe poi consentito di escludere ogni utilizzo del diritto comunitario (ora dell’Unione Europea) nell’ambito di pratiche con finalità abusive. Alla luce di queste considerazioni risulta chiara la necessità di una clausola del tipo di quella inserita nella direttiva fiscale sul regime comune delle fusioni e risulta altrettanto chiara anche la ratio che la stessa intende perseguire. Soffermiamoci ora sulla sentenza Kofoed e sulle conseguenze che l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia è in grado di determinare sull’ambito oggetto della nostra analisi. 17 CGUE, sentenza 5.7.2007, causa C-321/05, Kofoed. 222 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA Nel sistema danese non esiste una clausola generale antiabuso, antielusione od antievasione, ma soltanto clausole specifiche. Il giudice danese si è così trovato di fronte ad una fattispecie in cui percepiva un aggiramento del regime fiscale comune introdotto nell’ordinamento danese in trasposizione della direttiva suddetta ed all’art. 11, ma non disponeva di uno strumento giuridico nazionale per contrastarla. In questo contesto, il contribuente ha allora dedotto che non essendoci, in diritto danese, alcuna clausola che attua quella riserva contenuta nell’articolo 11 della direttiva, egli avrebbe avuto il diritto di utilizzare il regime comune della direttiva fiscale sulle fusioni indipendentemente da ogni altra considerazione. Sorprendentemente, la Corte ha confermato la posizione del contribuente, affermando che nonostante il divieto di invocare il diritto comunitario in relazione a pratiche abusive, la norma di cui all’art.11 della direttiva è una norma non direttamente esecutiva nell’ordinamento nazionale, poiché necessita di un provvedimento nazionale di attuazione. Mancando quest’ultimo, manca anche la possibilità di contrastare l’utilizzo della direttiva nell’ambito di pratiche che aggirano l’imposizione fiscale. Le perplessità risiedono nel fatto che l’art.11 è una norma di salvaguardia contenuta in una direttiva europea. Per sua stessa natura, la direttiva rappresenta uno strumento giuridico di diritto secondario europeo. Come tale, ritengo che la soluzione prospettata dalla Corte permetta l’impiego di uno strumento di diritto secondario per perseguire finalità abusive, risultando perciò in pieno contrasto con un principio consolidato nella giurisprudenza della Corte, secondo cui non si può invocare il diritto dell’Unione Europea nell’ambito di pratiche abusive. Altrettante perplessità si registrano in un’altra e più recente sentenza della Corte di Giustizia Europea in tema di direttiva fusioni, quella cioè pronunciata sul caso il 20 maggio 2010 sulla causa C-352/08, Zwijnenburg18. In tale fattispecie, il contribuente aveva utilizzato il regime della direttiva per aggirare un’imposta diversa da quelle rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva, ossia un’imposta sui trasferimenti. Ancora una volta a mio giudizio sorprendentemente, la Corte è giunta in sostanza alla conclusione che la direttiva fusioni può essere utilizzata per perseguire finalità abusive. Il percorso argomentativo è però stato diverso, avendo la Corte raggiunto tale conclusione sulla base del fatto che il diritto dell’Unione Europea non implica una completa armonizzazione del diritto tributario e l’imposta sui trasferimenti, oggetto dell’aggiramento, non rientra nell’ambito della normativa oggetto del diritto dell’Unione Europea. Si rimane perplessi perché non solo c’è un abuso del diritto, inteso in materia tributaria come abuso delle forme giuridiche per il perseguimento di finalità di risparmio fiscale con aggiramento della fattispecie impositiva, ma anche perché stiamo parlando in generale del giudice dell’Unione che interpreta il suo diritto giungendo ad una conclusione che ignora un principio dell’Unione secondo cui non si può invocare il diritto dell’Unione per attuare pratiche 18 CGUE, sentenza 20.5.2010, causa C-352/08, Zwijnenburg. 223 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA abusive. Resta ovviamente fermo ed impregiudicato che il giudice del diritto dell’Unione non può e non deve interpretare il nostro diritto tributario nazionale, essendo quest’ultimo una prerogativa di esclusiva competenza del giudice nazionale. Alla luce di queste pronunce bisogna comprendere che i risultati dell’analisi giurisprudenziale in tema di diritto secondario dell’unione determinano uno scostamento dal quadro che altrimenti sarebbe unitario, ferma restando la specificità dell’elemento soggettivo rispetto a quello stemperamento dello stesso elemento di cui si parlava in precedenza. La più recente sentenza sulla causa Foggia19 avrebbe potuto essere un’occasione per la Corte di superare la critica testé delineata, facendo luce sul significato concreto di valide ragioni economiche ai sensi dell’art. 11.1.a della Direttiva fusioni in relazione ad una fattispecie in cui la riorganizzazione era avvenuta al fine principale di assorbire le perdite di società interne al gruppo. Tuttavia, al di là della trasposizione dell’equivalenza tra ragioni prevalentemente fiscali ed assenza di valide ragioni economiche, pure a mio giudizio criticabile, la Corte ha lasciato ogni altro aspetto alla prova contraria davanti al giudice nazionale, lasciando quindi sussistere l’incertezza e il contrasto di fondo prima evidenziato. 5 La sentenza 3M Italia ed il suo possibile impatto Un ulteriore punto – il terzo di quelli in precedenza indicati - è rappresentato dalle due cause (3M Italia e Safilo), rimesse in via pregiudiziale dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione in tema di abuso del diritto. Le cause in questione probabilmente sono emerse da una tensione strutturale nei rapporti tra il legislatore ed il potere giudiziale in relazione al mantenimento dei principi del diritto in presenza di misura di natura eccezionale. Com’è noto, le cause riguardano quel fenomeno (volgarmente chiamato “rottamazione”) di definizione delle cause di lunga durata pendenti davanti ai giudici tributari tramite il pagamento di un importo minimo, che hanno in sostanza rappresentato una delle tante forme di condono che contornano la storia del diritto tributario italiano. Tenuto conto del fatto che entrambe le cause 3M Italia e Safilo sollevano questo problema, la sentenza del 29 marzo 2012 con cui la Corte di Giustizia ha escluso ogni problema di compatibilità per la normativa italiana nel caso 3M Italia potrebbe anche far venir del tutto meno l’esigenza che la Corte di Giustizia Europea si pronunci nuovamente sul caso Safilo. Il problema interpretativo sollevato dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione può essere brevemente prospettato nei tre aspetti di seguito indicati. In primo luogo, vi è un elevato grado di verosimiglianza quanto alla possibilità di configurare la fattispecie concreta alla stregua di una pratica abusiva. 19 CGUE, sentenza 10.11.2011, causa C-126/10, Foggia. 224 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA In secondo luogo, l’orientamento ormai consolidato della sezione tributaria della Corte di Cassazione (in parte ispirato alla giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia) contrasta le pratiche elusive invocando un’interpretazione conforme al divieto di abuso del diritto. Pertanto, nel caso di specie il giudice nazionale sa che sarebbe in linea di principio possibile applicare la suddetta interpretazione, ma non ha il potere di attuare la sua revisione giudiziale, perché nel frattempo è intervenuto il legislatore, privandolo di questo potere a seguito dell’emanazione di norme che consentono una definizione agevolata di questo tipo di fattispecie. E’ ben comprensibile che un giudice di ultima istanza rimetta questioni in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea, tenuto conto degli obblighi previsti dal diritto primario dell’Unione Europea. Ci si chiede però se sia realmente quest’ultima ad avere la giurisdizione per risolvere le suddette questioni in via interpretativa. In particolare, tenuto conto del fatto che le suddette questioni riguardano in sostanza l’applicabilità di un generale principio di contrasto alle pratiche abusive in materia tributaria ed ad un problema di compatibilità con la disciplina sugli aiuti di Stato, ci troviamo di fronte ad un problema di duplice natura. In primo luogo, se una breve finestra temporale per applicare questo regime di definizione agevolata possa o meno rappresentare un aiuto di Stato e la commissione ha chiaramente detto che è un aiuto di Stato. In secondo luogo, ci si chiede se siano ammissibili le questioni che riguardano l’applicabilità del divieto di pratiche abusive secondo il diritto dell’Unione Europea per limitare la previsione a livello normativo di misure agevolative in relazione a pratiche evidentemente abusive. Mentre la prima questione presenta un innegabile elemento di comunanza con le fattispecie rientranti nell’ambito del divieto di aiuti di Stato, il secondo gruppo di questioni, quello cioè relativo all’abuso, è di più complessa soluzione. Infatti, si potrebbe astrattamente ragionare come segue. Se lo sviluppo interpretativo con cui la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha estratto il generale principio di contrasto dell’abuso è una ricostruzione giurisprudenziale italiana, ancorché ispirata alla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, come potrebbe escludersi che questo gruppo di questioni non attiene ad un problema meramente interno. In questo senso si giungerebbe alla conclusione che non vi è una interpretazione del diritto dell’Unione Europea di cui ha bisogno il giudice interno, di talché le questioni sarebbero da ritenere inammissibili. La sentenza della Corte di Giustizia Europea non si è spinta fino ad affermare questo, ma ha comunque negato che esista un problema di compatibilità con il diritto dell’Unione Europea e con il principio del divieto dell’abuso del diritto nel caso di specie. Infatti, nel paragrafo 30 della sentenza 3 M Italia essa afferma che “il procedimento non ha ad oggetto una controversia in cui i contribuenti si avvalgono o potrebbero avvalersi in modo fraudolento od abusivo di una norma del diritto dell’Unione” Aggiungendo poi che 225 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA “nel caso di specie, le sentenze Halifax e Part Service, pronunciate in materia di imposta sul valore aggiunto e alle quali fa riferimento il giudice del rinvio nel domandarsi se il principio del divieto dell’abuso di diritto da esse sancito si estenda al settore delle imposte non armonizzate, non sono pertinenti” In questo senso si può ritenere che la risposta sia essenzialmente negativa in merito all’esistenza di un principio generale di diritto dell’Unione Europea che si estenda ad ogni ambito giuridico, ivi compresi quelli in cui non è in questione alcun aspetto di diritto sovranazionale. Il successivo paragrafo 31 poi chiarisce che questa affermazione consegue all’impossibilità di comprendere se il quadro fattuale metta in discussione l’applicazione di una libertà fondamentale e per questo “non è pertinente nemmeno la giurisprudenza della Corte relativa all’abuso di diritto nel settore della fiscalità diretta, elaborata in particolare nelle sentenze Cadbury Schweppes, Thin Cap Group Litigation, etc.” Anche questo può comprendersi e condividersi come espressione della tradizionale prudenza della Corte nell’intervenire su materie non oggetto di una cessione di sovranità e vincolate al rispetto del solo primato del diritto sovranazionale primario. Tuttavia, il paragrafo 32 arriva a conclusioni che per un verso sono forse troppo spinte e per altro verso poco chiare, laddove afferma che “nel diritto dell’Unione non esiste alcun principio generale dal quale discenda un obbligo per gli Stati membri di lottare contro le pratiche abusive nel settore della fiscalità diretta e che osti all’applicazione di una disposizione come quella di cui trattasi nel procedimento principale, qualora l’operazione imponibile derivi da pratiche siffatte e non sia in discussione il diritto dell’Unione” Non è infatti vero che non esista un principio generale di diritto dell’Unione relativo all’obbligo di contrastare le pratiche abusive. Il suddetto inciso deve infatti intendersi in modo da ritenere che lo stesso principio abbia, in materia di imposte dirette, una valenza che è limitata dalla necessità di dimostrarne l’incidenza concreta sul diritto dell’Unione. E nel caso 3M Italia non bisogna dimenticare che esisteva una fattispecie transnazionale, ma che forse la rilevanza della stessa non sia stata debitamente messa in luce dal giudice nazionale, che ha cercato di ottenere una pronuncia di carattere più generale sul divieto dell’abuso del diritto. La Corte di Cassazione in realtà aveva forse già percepito di essersi spinta oltre quanto la Corte di Giustizia Europea ha stabilito in tema di contrasto alle pratiche abusive. In altri termini, ancorché nel diritto dell’Unione Europea vi sia un principio secondo cui quest’ultimo non possa essere invocato per il perseguimento di pratiche abusive, la Corte di Giustizia non è ancora arrivata ad affermarlo in modo generale in tutta la materia fiscale, ivi compresa quella che attualmente rientra nell’ambito esclusivo della sovranità nazionale, ancorché pur sempre con un esercizio della potestà subordinato al rispetto del primato del diritto dell’Unione Europea. 226 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA Questo aspetto è stato criticato in dottrina italiana e probabilmente le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione hanno inteso porre rimedio a tale difficoltà, spostando il fronte sul versante costituzionale ed invocando a livello interpretativo l’esigenza di evitare che le pratiche abusive possano realizzare una diversa ripartizione del carico fiscale rispetto a quella che corrisponderebbe all’effettiva manifestazione di capacità contributiva e per tal via sollevare problemi di incompatibilità con l’art. 53 Cost. Su tale questione però ancora la Corte costituzionale non si è pronunciata in modo pieno. Ed allora si comprende come la sezione tributaria della Cassazione stia cercando di avere piena chiarezza da parte dei giudici del diritto dell’Unione Europea per un problema che è scaturito dalla propria interpretazione. Personalmente, ritengo quindi auspicabile una nuova pronuncia sulla questione da parte della Corte di Giustizia Europea Sarebbe importante considerare a questo riguardo un argomento che potrebbe essere invocato per sostenere un orientamento giurisprudenziale nel senso auspicato. Con la sentenza Leur Bloem20 la Corte si è pronunciata in tema di direttiva fusioni in relazione ad ipotesi in cui il legislatore nazionale olandese aveva operato un’ultratrasposizione delle direttiva fusioni, ossia adottando il regime europeo anche in relazione alle operazioni di riorganizzazione realizzate interamente tra società residenti in Olanda. Nella sentenza Leur-Bloem la Corte di Giustizia ha sancito che se il legislatore, non essendovi obbligato, ha scelto di far applicare il diritto dell’Unione Europea anche in relazione alle situazioni meramente interne, allora sarà giocoforza obbligato a garantirne altresì l’interpretazione ed applicazione in conformità a quanto stabilito dalla Corte di Giustizia Europea, onde assicurare la corretta e coerente attuazione del suddetto regime. Ritengo allora che l’approccio di questa sentenza (cd. approccio Leur Bloem) possa intendersi non soltanto applicabile alle ipotesi normative di ultratrasposizione della direttiva, ma anche a quelle ipotesi in c’è un’ispirazione alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, garantendo così un’esigenza di coerenza tra la prosecuzione di questo filone giurisprudenziale a livello nazionale e quello da cui lo stesso è derivato e che, come più volte si è detto, vieta la possibilità di invocare il diritto dell’unione europea in relazione a pratiche abusive in presenza di un elemento oggettivo e di un elemento soggettivo debitamente riflesso nei fatti. 6 Conclusioni In sintesi, ritengo che il quadro giurisprudenziale fiscale europeo in tema di divieto di pratiche abusive presenti elementi comuni con quello generalista nel diritto dell’Unione Europea, con specificazioni relative all’elemento soggettivo, che si rendono necessarie per realizzare un adeguamento alle problematiche fiscali, e temporanee peculiarità sul versante del diritto secondario imputabili al fatto che la Corte di Giustizia Europea non ha preso 20 CGUE, sentenza 17.7.1997, causa C-28/95, Leur-Bloem. 227 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA in considerazione le ripercussioni della propria interpretazione in chiave di compatibilità con i principi del diritto primario dell’Unione Europea. Su questa base comune si innesta poi l’elemento interpretativo riconducibile alla giurisprudenza tributaria della Corte di Cassazione, che ha sviluppato un proprio filone derivandolo da quello della giurisprudenza europea e che, anche dopo la pronuncia 3M Italia, potrebbe utilmente essere mantenuto nella misura in cui la Corte di Giustizia Europea ne riconoscesse la rilevanza e le peculiarità pur senza incidere sulla iniziale matrice europea, possibilmente per via di un’estensione della propria giurisprudenza Leur-Bloem a livello interpretativo giudiziale. Il risultato dell’analisi di diritto comparato induce a manifestare perplessità sul fatto che sia corretto configurare l’abuso del diritto a mero livello interpretativo, ossia senza l’esistenza di una apposita clausola. Su questa base non sembra che il dato proveniente dal diritto sovranazionale possa apportare significativi cambiamenti. Il dato del diritto sovranazionale, nella giurisprudenza fiscale, esclude comunque che l’abuso del diritto vada necessariamente inteso come sinonimo dell’esercizio di un diritto per finalità antisociali. Esso costituisce invece una reazione dell’ordinamento all’utilizzo di fattispecie atipiche per ragioni prevalentemente legate all’obiettivo di conseguire un risultato di risparmio di imposta, sfruttando la tensione tra forma e sostanza a proprio vantaggio. Ulteriori perplessità sorgono però in un ordinamento, quale quello italiano, che attualmente ha una clausola settoriale antielusione, la cui applicazione viene completamente superata per effetto dell’impiego dell’istituto dell’abuso del diritto a livello interpretativo. In questo senso siamo certi che la annunciata attuazione della delega con l’introduzione di una clausola generale antielusione farà certezza e coprirà la lacuna esistente, superando i problemi che attualmente sacrificano i diritti dei contribuenti sull’altare della tutela dell’interesse erariale. In questo senso si spera che anche l’art. 54 della Carta Fondamentale dei Diritti dell’Unione Europea potrà giocare un suo ruolo specifico. 228 Prof. Francesco Prosperi Professore Università di Macerata L’abuso del diritto nella fiscalità vista da un civilista SOMMARIO: 1 Premessa metodologica e delimitazione dell’indagine 2 L’abuso del diritto tributario nell’evoluzione giurisprudenziale. - 3 Abuso del diritto tributario, frode alla legge e simulazione. - 4 La nullità del contratto tipico elusivo per mancanza di causa: inconfigurabilità. - 5 L’abuso del diritto quale principio inespresso di rilevanza costituzionale e il fondamento costituzionale dell’abuso del diritto tributario. - 6 Abuso del diritto tributario e adeguatezza del rimedio dell’inopponibilità dell’atto elusivo all’Amministrazione tributaria. - 7 Il contratto elusivo quale abuso della libertà contrattuale. - 8 Il falso problema dell’inconciliabilità dell’abuso del diritto con la certezza del diritto oggettivo. – 9 Opportunità di un intervento legislativo volto a delimitare l’operatività dell’abuso del diritto tributario: l’esempio del § 42 della legge generale tributaria tedesca. 1 Premessa metodologica e delimitazione dell’indagine E’ ben noto che nel nostro ordinamento, a differenza di quanto è avvenuto nella gran parte dei Paesi dell’Europa continentale, manca una previsione che vieti l’abuso del diritto. Ciò, anche questo è risaputo, ha determinato un profondo contrasto di opinioni sulla possibilità di considerare un tale divieto comunque vigente quale principio inespresso, dividendosi la dottrina tra quanti rifiutano decisamente la praticabilità di una siffatta interpretazione in nome della certezza del diritto e quanti, di contro, la sostengono con entusiasmo ritenendo che l’abuso del diritto costituisca uno strumento, se non indispensabile, utile a evitare che il rispetto formale della legge determini risultati iniqui. Polemica che si è inevitabilmente riproposta a seguito dell’incisivo impiego dell’abuso del diritto che in materia tributaria ne ha fatto di recente la giurisprudenza di legittimità, inaugurando un orientamento che sembra suscitare più critiche che consensi. Critiche, tuttavia, che, dico subito, non mi paiono del tutto convincenti. Prima, peraltro, di affrontare il merito della questione, mi sia consentito di svolgere qualche breve notazione metodologica, che ritengo opportuna anche per spiegare la mia presenza in questo convegno. E’ mia convinzione che l’ordinamento giuridico debba necessariamente concepirsi come unitario e coerente, in quanto caratterizzato da principi ispiratori comuni, sì che l’interpretazione di ogni singola disposizione non può che essere sistematica, derivando la giustificazione di ognuna dalla posizione che occupa nella gerarchia delle fonti e dei valori che caratterizza L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA l’intero sistema. Poiché se così non fosse mancherebbero i criteri per valutare razionalmente l’opera dell’interprete di individuazione della norma applicabile al caso concreto, la quale potrà, evidentemente, essere contestata solo sostenendone l’incompatibilità con altre disposizioni o con i principi generali dell’ordinamento. L’ingresso in ambito tributario dell’abuso del diritto, che è nozione storicamente nata e modernamente sviluppatasi in ambiente civilistico, costituisce, in questo senso, una prova evidente dell’impossibilità di tracciare rigidi steccati tra i diversi settori dell’ordinamento giuridico, per quanto si debbano rispettare le peculiarità proprie delle varie discipline. Per un tale motivo non mi sento di condividere l’idea che possa applicarsi allo studio della normativa fiscale un metodo interpretativo proprio, come, invece, sostenuto, sulla scia della dottrina tedesca, dalla Scuola pavese di Benedetto Griziotti negli anni Quaranta del secolo scorso. Metodo definito “funzionale” e in applicazione del quale la soluzione del problema dell’elusione fiscale era risolto in radice senza far ricorso ad alcun principio generale, espresso o inespresso che fosse, ma semplicemente muovendo dall’assunto che il tributo è un fatto essenzialmente economico, sì che esso andrebbe applicato avendo riguardo unicamente alla sostanza economica delle operazioni e non alla loro forma contrattuale civilistica. Soluzione, in verità, da valutare criticamente se si pretende di giustificarla in nome dell’autonomia del diritto tributario, ma che appare costituire la risposta più adeguata al problema dell’elusione fiscale e che, come si vedrà, finisce per essere sostanzialmente accolta attraverso il ricorso all’abuso del diritto. Se, dunque, nell’ottica dell’unità dell’ordinamento giuridico può ritenersi giustificata l’attenzione del civilista per il diritto tributario, inaccettabile e del tutto fuori luogo sarebbe la sua pretesa di essere portatore di una competenza di livello superiore a quella degli specialisti della materia. I concetti, anche quelli più cari alla teoria generale del diritto, non sono, infatti, che strumenti di lavoro validi fino a che servono a capire i problemi concreti emergenti dalla società e a risolverli nel modo più adeguato, altrimenti devono essere rielaborati ed affinati. E se il necessario adattamento della dogmatica al continuo evolversi dei rapporti sociali è compito al cui assolvimento concorrono con pari dignità quotidianamente tutti i giuristi, qualunque sia il settore in cui operano, non v’è dubbio che i contributi più significativi provengano da coloro che si occupano di discipline più di altre investite dal rapido mutamento del contesto legislativo ed economico-sociale, come mi sembra accada oggi per il diritto tributario. Il confronto con i tributaristi costituisce, quindi, per il civilista una preziosa occasione per saggiare la tenuta dei concetti con cui è solito operare, tanto più se si tratta di concetti, come quello dell’abuso del diritto, che sono molto controversi nella stessa dottrina civilistica. Lungi, quindi, da me ogni presunzione di poter dare indicazioni risolutive, le mie riflessioni saranno essenzialmente volte a verificare se la teorica dell’abuso del diritto, così come si è sviluppata in ambito civilistico, si possa considerare utile a risolvere il problema dell’elusione fiscale o se, invece, il 230 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA suo impiego a tale scopo risulti improprio e, quindi, inadeguato a sorreggere le conclusioni cui la giurisprudenza è in merito pervenuta. Passerò poi ad esaminare se il contratto elusivo costituisca una forma di abuso, oltre che del diritto tributario o, meglio, del diritto soggettivo al risparmio fiscale, anche della libertà di determinare il contenuto del contratto e, dunque, se il divieto di abuso del diritto riguardi anche gli atti di autonomia privata. Affronterò, infine, la questione, sempre ricorrente quando si affronta il tema dell’abuso del diritto, se il suo accoglimento sia compatibile con la certezza del diritto. 2 L’abuso del diritto tributario nell’evoluzione giurisprudenziale. Quale punto di partenza per la disamina che intendo svolgere può essere assunto il concetto essenziale di abuso del diritto generalmente condiviso, secondo cui esso concerne ipotesi in cui un comportamento, pur integrando formalmente gli estremi dell’esercizio di un diritto soggettivo (o di altra situazione giuridica soggettiva), deve ritenersi, sulla base di criteri sostanziali, privo di tutela giuridica. Sui criteri in base ai quali effettuare una tale valutazione le posizioni sono, in realtà, molto diversificate, ma la questione può essere qui tralasciata, dovendosi restringere l’esame unicamente al modo in cui la giurisprudenza ha applicato il divieto di abuso del diritto in materia tributaria. Divieto che, per l’appunto, secondo le Sezioni Unite della Cassazione (Cass., S.U., 23.12.2008, nn. 30055, 30056 e 30057), costituisce un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento dei vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Esso trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte sui redditi, nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione (art. 53 Cost.), senza contrastare con il principio della riserva di legge (art. 23 Cost.), non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. L’abuso del diritto comporta, infine, sempre a giudizio delle Sezioni Unite, l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione Finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione. Il ricorso all’abuso del diritto si pone, quindi, in questo senso, nel solco della norma antielusiva cosiddetta generale prevista dall'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 (introdotto dall’art. 7 del d. lgs. 8 ottobre 1997, n. 358), secondo la quale sono, per l’appunto, inopponibili all'amministrazione finanziaria gli 231 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA atti, fatti e negozi, anche collegati tra di loro, che siano contemporaneamente privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare norme tributarie e volti ad ottenere una riduzione del carico fiscale altrimenti indebita. Con l’effetto sostanziale di assoluto rilievo, peraltro, di estenderne la portata oltre i presupposti specificamente indicati dal terzo comma della norma. Da altro angolo visuale, valutando, cioè l’esito cui sono pervenute la Sezioni Unite in prospettiva diacronica, si può scorgere una coerente linea evolutiva del sistema nel contrasto all’elusione contributiva in risposta, certo, della progressiva diffusione dei comportamenti elusivi dei contribuenti, che hanno nel tempo assunto forme e contenuti sempre più sofisticati e che si avvalgono sempre più spesso anche di collegamenti transnazionali. Si è, infatti, passati da un ordinamento che ignorava una clausola generale antielusiva e affidava la reazione all’elusione a specifiche disposizioni, all’introduzione di una nozione generale di elusione, pur limitata a particolari situazioni, dapprima per opera dell’art. 10, l. n. 408 del 1990 e successivamente, come si è detto, con l’art. 7 del d. lgs n. 358 del 1997, per finire con il ritenere che l’ordinamento tributario sia caratterizzato dalla presenza di un principio generale antielusivo, desumibile dal concetto di divieto di abuso del diritto, e, in quanto tale, svincolato da ogni riferimento a fattispecie tipizzate. Quadro cui deve aggiungersi, per completezza, il recente orientamento della Cassazione penale che ha sancito la rilevanza penale della condotta elusiva che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge e purché sia stata superata la soglia minima di punibilità prevista per l'evasione fiscale (Cass. pen, 28.02.2012, n. 7739). Prima, peraltro, di passare ad analizzare l’impianto argomentativo della soluzione indicata dalle Sezioni Unite, mi sembra sia utile ricordare brevemente il contesto che l’ha originata. Essa fa, in particolare, seguito a alcune decisioni delle Sezioni Tributarie della Cassazione che avevano già fatto ricorso al divieto dell’abuso del diritto in funzione antielusiva abbandonando il precedente orientamento espresso dalla sua stessa giurisprudenza che riteneva doversi sanzionare il contratto elusivo con la nullità per mancanza di causa o per frode alla legge, pur riconoscendo “l'emergenza di un principio tendenziale, che – in attesa di ulteriori specificazioni della giurisprudenza comunitaria – deve spingere l'interprete alla ricerca di appropriati mezzi all'interno dell'ordinamento nazionale per contrastare il diffuso fenomeno dell'abuso del diritto, in specie del diritto tributario” (v., in particolare Cass., 21.10.2005, n. 20398, nonché Cass., 26.10.2005, n. 20816 e Cass., 14.11.2005, n. 22932, tutte in tema di dividend washing). Il mutamento di prospettiva si ha, come è noto, sotto la spinta della decisione della Corte di Giustizia sul caso Halifax del 21.2.2006, secondo la quale «la sesta direttiva in materia tributaria deve essere interpretata come contraria al diritto del soggetto passivo di detrarre l’iva assolta a monte, allorché le operazioni che fondano tale diritto integrino un comportamento abusivo». Con la precisazione che affinché “possa parlarsi di comportamento abusivo le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva, e della 232 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA legislazione nazionale che le traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni” e deve “altresì risultare, da un insieme di elementi obiettivi, che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale». Con la conseguenza che «ove si constati un comportamento abusivo, le operazioni implicate devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato». In quanto le statuizioni della Corte di Giustizia hanno, al pari delle norme comunitarie direttamente applicabili cui ineriscono, operatività immediata negli ordinamenti interni, la Cassazione non poteva che adeguarsi ad una tale indicazione e ciò ha fatto con la sentenza del 5 maggio 2006, n. 10353, nella quale si afferma che «la sesta direttiva aggiunge nell’ordinamento comunitario, direttamente applicabile in quello nazionale, alla tradizionale bipartizione dei comportamenti dei contribuenti in tema di iva, in fisiologici e patologici (propri delle frodi fiscali), una sorta di tertium genus in dipendenza del comportamento abusivo ed elusivo del contribuente, volto a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale ed autonoma ragione economica giustificatrice delle operazioni economiche che risultano eseguite in forma solo apparentemente corretta ma in realtà elusiva». Orientamento che è stato confermato dalla giurisprudenza successiva, la quale ha avuto modo anche di precisare che: i) «il disconoscimento del diritto alla deduzione per oneri derivanti da meccanismi elusivi (…) prescinde dall’accertamento della simulazione o del carattere fraudolento dell’operazione» (Cass., sez. trib., 29 settembre 2006, n. 21221); ii) non sono idonee ad escludere l’abusività del comportamento «ragioni economiche meramente marginali e teoriche, inidonee a fornire una spiegazione alternativa dell’operazione rispetto al mero risparmio fiscale» (ibidem); iii) «incombe sul contribuente fornire la prova dell’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico» (Cass., sez. trib., 16 gennaio 2008, n. 8772; Cass., sez. trib., 21 aprile 2008, n. 10257). A puntualizzare l’opinione della Corte di Giustizia in merito è, poi, intervenuta la sentenza sul caso Part Service srl del 21 febbraio 2008, la quale, alla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte di Cassazione - per sapere se la nozione di abuso del diritto, definita dalla sentenza Halifax come “operazione essenzialmente compiuta ai fini di conseguire un vantaggio fiscale”, fosse da intendere nel senso che l’ abuso di diritto ricorre solo quando la finalità del risparmio di imposta sia l’unica che giustifica l’operazione, o anche quando questa finalità si accompagni a ragioni economiche pur assolutamente marginali od irrilevanti -, ha risposto che l’esistenza di una pratica abusiva può essere affermata anche qualora il perseguimento di un vantaggio fiscale costituisca lo scopo essenziale, ancorché non esclusivo, non essendo l’abuso impedito allorché nell’operazione concorrano - pur marginalmente - altre ragioni economiche, 233 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA come quelle, ad esempio, ispirate da considerazioni di marketing, di organizzazione e di garanzia. L’estensione dell’abuso del diritto alle imposte sui redditi era, quindi già stata operata dalle Sezioni Tributarie della Cassazione, ma facendo esclusivamente riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia sul caso Halifax e, dunque, al solo diritto europeo ( Cass., 2006/21221; 2008/8772; 10257/2008 e 25374/2008). Le Sezioni Unite hanno, pertanto, semplicemente avallato un tale indirizzo, sebbene, come già sottolineato, con l’importante precisazione che l’esistenza del principio generale antielusivo in tema di tributi non armonizzati deve essere rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria bensì “negli stessi principi costituzionali che informano l'ordinamento tributario italiano e, in particolare, nei principi di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione» di cui all'art. 53 Cost. Con successive decisioni il giudice di legittimità ha, poi, provveduto a chiarire e precisare ulteriormente i presupposti per l’applicazione del principio dell’abuso del diritto, rimanendo, peraltro, all’interno delle indicazioni tracciate dalle Sezioni Unite. Unicamente su queste, dunque, soffermerò l’attenzione. 3 Abuso del diritto tributario, frode alla legge e simulazione. Il primo aspetto da porre in rilievo è che il ricorso all’abuso del diritto consente alle Sezioni Unite di sanzionare il contratto elusivo con la mera inopponibilità all’Amministrazione finanziaria, senza incidere in alcun modo sulla validità ed efficacia del contratto dal punto di vista civilistico. L’abuso del diritto viene in tal modo ricondotto, come si è già sottolineato, interamente nell’ambito del meccanismo previsto dall’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 del 1973. Soluzione che appare come la più adeguata al fenomeno elusivo. Né sembra condivisibile la convinzione, espressa da un’accreditata dottrina civilistica (Gentili), secondo la quale il ricorso all’argomento dell’abuso, inteso specificamente quale abuso di forme giuridiche, risulterebbe retorico ed inutile, dato che l’inopponibilità dell’atto elusivo passerebbe necessariamente per lo svelamento della realtà economica ad esso sottesa e che l’atto stesso dissimula e, quindi, per l’impugnativa per frode o simulazione. La frode alla legge di cui all’art. 1344 c.c. presenta, in effetti, molti punti di contatto con l’abuso del diritto, tanto da doversi ritenere una sua manifestazione sintomatica. La norma, infatti, essendo diretta a non consentire alle parti di perseguire un fine illecito mediante la conclusione di un contratto di per sé lecito, si buon ben dire che vieti l’abuso (del diritto di determinare il contenuto) del contratto. La possibilità di estendere la fattispecie della frode alla legge alla frode fiscale scontra, tuttavia, con il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui le norme imperative alle quali si riferisce l'art. 1344 sono unicamente le norme civilistiche proibitive, le norme, cioè, che vietano il compimento di determinati negozi, e non le norme meramente inderogabili. Convinzione che risulta suffragata dall’art. 234 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA 10 dello «Statuto dei diritti del contribuente» (l. 27/07/2000 n. 212), ai sensi del quale «Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto». Il ricorso all’abuso del diritto si rende, dunque, necessario non tanto perché la frode alla legge non costituisca essa stessa un’ipotesi di abuso del diritto, quanto piuttosto per sanzionare gli usi del contratto immeritevoli di tutela che pur non rientrino nella fattispecie della frode alla legge. Per quanto concerne, invece, la simulazione, essa presuppone un contrasto tra l’atto apparentemente posto in essere dalle parti e gli effetti sostanziali dalle stesse realmente voluti, discrepanza che non sussiste nel contratto elusivo, che è diretto a realizzare gli effetti realmente voluti, ancorché al solo fine di ottenere un risparmio fiscale. Né vale obiettare che, mancando per definizione di una sostanza economica corrispondente, altrimenti non configurandosi alcuna indebita elusione, le forme dell’atto elusivo sono “vere e volute” solo per i fini fiscali, così come ogni atto simulato è “voluto” formalmente almeno nella misura necessaria a poterlo opporre al terzo che simulando si tenta di ingannare. Ciò in quanto si può definire simulato soltanto l’atto non realmente voluto, mentre l’ipotesi dell’atto voluto ma privo della sostanza economica corrispondente pone il diverso problema della qualificazione dell’atto, come è esemplificato dalla vendita nummo uno, o, al limite, della nullità dell’atto per mancanza di causa. 4 La nullità del contratto tipico elusivo per mancanza di causa: inconfigurabilità. Il contratto non avente altro scopo che quello di perseguire un vantaggio fiscale non sembra, tuttavia, che possa essere ritenuto nullo per mancanza di causa, come invece affermato dalla Cassazione nei casi di dividend washing e dividend stripping. Ciò per la ragione che, distinguendo nettamente il codice civile la causa dai motivi anche quando questi siano comuni alle parti e determinanti del consenso (art. 1345 c.c.), per causa deve necessariamente intendersi la funzione che il contratto è obiettivamente in grado di svolgere a prescindere dalle ragioni concrete e contingenti che hanno spinto i contraenti a concluderlo. Sì che, se il contratto concluso al solo scopo di risparmio fiscale risulta di per sé idoneo a realizzare la funzione sociale o giuridica che gli è propria, non può considerarsi privo di causa né in astratto né in concreto, potendo soltanto sollevarsi il dubbio che sia affetto da nullità per illiceità dei motivi, equivalendo, appunto, gli interessi particolari delle parti che nella specifica circostanza il contratto è diretto a soddisfare ai motivi e non alla causa. Dubbio che, tuttavia, si dissolve immediatamente alla luce di quanto detto a proposito del contratto in frode alla legge: non integrando l’elusione di norme fiscali la frode alla legge deve, evidentemente, escludersi la illiceità dei motivi di ogni contratto orientato in tal senso. Ritengo, dunque, che il ricorso all’abuso del diritto in funzione antielusiva si riveli utile a superare i limiti e le incongruenze evidenziati dai tentativi di contrastare le pratiche elusive attraverso le categorie civilistiche della nullità. Neppure si può dubitare della intrinseca ragionevolezza della soluzione, 235 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA posto che il divieto di abuso del diritto è espressamente regolato dalla nome tributarie di numerosi Paesi europei e, in particolare, dal § 42 della legge generale tributaria tedesca, che prevede l’abuso di conformazione giuridica facendone derivare l’inefficacia rispetto al fisco. Probabilmente è questa disposizione che ha ispirato la Corte di Giustizia nell’opera di individuazione dell’abuso del diritto al risparmio fiscale come principio sotteso al diritto comunitario. Ed è, evidentemente, a questa concezione di abuso che hanno aderito le Sezioni Unite, che, come appunto avviene nell’ordinamento tedesco, ne hanno individuato la conseguenza nell’inefficacia e non nell’illiceità dell’atto. 5 L’abuso del diritto quale principio inespresso di rilevanza costituzionale e il fondamento costituzionale dell’abuso del diritto tributario. Ciò posto, resta ovviamente da stabilire se sia consentito supplire alla mancanza nel nostro ordinamento di una norma analoga a quella contenuta nel § 42 della legge tributaria tedesca richiamando un principio inespresso e oltremodo controverso come quello del divieto di abuso del diritto. Che i principi, così come le norme, possano essere inespressi e, dunque, desunti da un complesso di regole o, anche, dall’intero ordinamento, non è, in verità dubitabile. Del resto lo stesso principio della certezza del diritto che viene tradizionalmente opposto all’ammissibilità nel nostro ordinamento del divieto di abuso del diritto è, notoriamente, un principio inespresso. Si è, tuttavia, dubitato che sia corretto desumere in via interpretativa un tale principio direttamente dalle norme costituzionali, le quali, essendo essenzialmente rivolte a porre i parametri che devono essere rispettati nella produzione legislativa, sarebbero inidonee a regolare concreti rapporti fiscali, valendo, tutt’al più, a far ritenere che la mancanza di una clausola generale antielusiva costituisca, nel nostro ordinamento, una lacuna alla quale il legislatore dovrebbe porre rimedio. Una tale considerazione critica non può, tuttavia, essere accolta, trascurando che la Costituzione, come ogni altra legge, è innanzi tutto un atto normativo che contiene disposizioni precettive e che la presenza di lacune costituisce una delle ipotesi meno discusse di applicazione diretta delle norme costituzionali da parte del giudice comune. Oltre ciò, va sottolineato che l’abuso di diritto come principio inerente a tutte le situazioni giuridiche patrimoniali è stato giustificato dalla dottrina civilistica anche sulla base di un riferimento alla Costituzione e, in particolare, all’art. 2 e all’art 3, comma 2. Il richiamo dell’art. 53 Cost. operato dalle Sezioni Unite a giustificazione dell’estensione del divieto di abuso ai rapporti tra contribuenti e Amministrazione tributaria si pone, dunque, lungo questa linea di pensiero e non si può, pertanto, considerare in alcun modo metodologicamente scorretto. L’elusione fiscale non è, infatti, che una ipotesi specifica dell’abuso del diritto, così come l’art. 53 Cost. costituisce applicazione del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. 236 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA Lo stesso percorso argomentativo è, d’altra parte, rinvenibile nella configurazione dell’abuso del processo, cui, per l’appunto, la giurisprudenza è pervenuta ritenendo l’uso distorsivo dello strumento processuale, per un verso, lesivo dei generali canoni della buona fede oggettiva e della correttezza relazionale - in quanto contrastante, in ottica sostanziale, con il dovere di solidarietà enucleato dall’art. 2 Cost. -, e, per altro verso, dissonante, in ottica processuale, con la garanzia prescrittiva del giusto processo assicurata dall’art. 111 Cost. (cfr., in particolare, Cass., 22.12.2011, n. 28286; Cass. Sez. Un., 15.11.2007, n. 23726; nonché, ma con riferimento unicamente al generale canone della buona fede che, ispirato all’art. 2 Cost., trova applicazione anche con riferimento alla fase processuale, Cons. St., Sez. IV, 2 marzo 2012, n. 1209) . V’è ancora da dire che l’ancoraggio della figura dell’abuso del diritto ai principi costituzionali consente di depurarla da ogni connotazione soggettivistica e di fondarne, quindi, il giudizio unicamente sulla congruità dell’atto in relazione ai valori sociali oggettivati nell’ordinamento. Si supera in tal modo l’idea che l’animus nocendi sia un elemento costitutivo della nozione di abuso del diritto e ciò spiega perché la giurisprudenza della Cassazione, nell’applicare la figura all’elusione fiscale, prescinda da ogni indagine sui motivi individuali che hanno determinato il compimento dell’atto elusivo. 6 Abuso del diritto tributario e adeguatezza del rimedio dell’inopponibilità dell’atto elusivo all’Amministrazione tributaria. La conseguenza che le Sezioni Unite fanno derivare dall’abuso del diritto è, come più volte sottolineato, quella dell’inopponibilità dell’atto all’Amministrazione tributaria, cioè dell’inefficacia relativa. Anche una tale indicazione appare coerente con l’elaborazione dottrinale in tema di abuso. L’orientamento espresso in una delle più meditate riflessioni sull’argomento (Salv. Romano) è, infatti, nel senso che l’estrema varietà di ipotesi in cui l’abuso del diritto può concretamente verificarsi, non consente di formulare una regola generale, salvo quella di non consentire la tutela da parte dell’ordinamento dei poteri, diritti e interessi esercitati in modo abusivo. Regola, si precisa, che “richiede di essere tradotta nel particolare regolamento del diritto vigente in quanto assume, nelle singole ipotesi, aspetti profondamente diversi”. Quale esempio di rimedio all’abuso veniva fatto, con specifico riferimento ai casi di simulazione e di clausole vessatorie, proprio l’inefficacia dell’atto abusivo, mentre altri esempi erano indicati nella rescissione, nell’annullabilità o nella decadenza da un potere. Esempi ai quali deve certamente aggiungersi l’improponibilità della domanda giudiziale nell’ipotesi di abuso del processo, secondo l’opinione espressa al riguardo dal giudice di legittimità (Cass., 22.12.2011, n. 28286). Ne deriva, in definitiva, quindi che, nei casi non previsti, il giudice deve ritenersi legittimato ad individuare il rimedio più appropriato valutando attentamente la natura degli interessi in conflitto nel caso concreto. 237 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA Secondo, del resto, quello che è l’insegnamento della migliore dottrina (Rescigno), la quale ha giustamente sottolineato che “il problema dell’abuso riguarda propriamente la comparazione di interessi che siano in conflitto nello svolgimento di un particolare rapporto o nella posizione del regolamento di interessi”. E l’inopponibilità all’Amministrazione finanziaria del contratto diretto essenzialmente ad ottenere un vantaggio fiscale sembra il rimedio più idoneo a bilanciare l’interesse delle parti a conservare comunque gli effetti giuridici del contratto e quello del fisco al superamento della forma contrattuale utilizzata a fini elusivi per far emergere l’effettiva operazione economica ad essa sottesa. Rimedio che non soltanto si pone, come detto, lungo la linea delle disposizioni espressamente dettate a contrastare l’elusione fiscale, ma che è anche coerente con la conseguenza generalmente prevista per il contratto concluso i frode ai creditori (art. 2901 c.c.), cui il contratto in frode al fisco deve essere assimilato, conseguenza che, tra l’altro, la giurisprudenza estende all’ipotesi di contratto elusivo della par condicio creditorum nell'ambito di procedure concorsuali (Cass., 14.04.2011, n. 8541). 7 Il contratto elusivo quale abuso della libertà contrattuale. L’elusione fiscale può essere considerata una forma di abuso del diritto al risparmio fiscale. Il comportamento elusivo è, tuttavia, attuato mediante contratti conclusi in una forma anormale rispetto alla funzione realmente perseguita dalle parti, forma adottata all’unico scopo di conseguire un risparmio fiscale che non si sarebbe avuto se la forma del contratto fosse stata coerente con la sua funzione. Si pone, dunque, in prospettiva generale, la questione se la teorica dell’abuso del diritto sia applicabile anche all’esercizio della libertà negoziale, e, in particolare, della libertà di determinare il contenuto del contratto, che dovrebbe così considerarsi ontologicamente e strutturalmente limitata al suo interno, oltre, quindi, i casi espressamente previsti. Ebbene, che le libertà e, dunque, anche la libertà contrattuale, non possano escludersi dal discorso sull’abuso è stato da tempo chiarito, sottolineandosi che “se l’esercizio del diritto si compie (almeno per ciò che riguarda la possibilità di modificare o di estinguere un precedente rapporto negoziale) attraverso un negozio giuridico, e cioè attraverso un atto di autonomia (e quindi di libertà), è evidente che non si può limitare il profilo dell’abuso ai soli diritti” escludendone le libertà (Rescigno). Il problema che nel nostro ordinamento si pone è, quindi, piuttosto se la figura dell’abuso del diritto in materia contrattuale sia o no distinguibile dalla correttezza e dalla buona fede, che, come l’abuso del diritto, sono espressione del dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e si prestano ad essere allo stesso modo considerate quali limiti costitutivi dell’autonomia privata . Si tratta, in verità, di principi in larga parte sovrapponibili, come dimostra esemplarmente l’esperienza tedesca. Il BGB contiene, infatti, una norma specifica che vieta l’abuso del diritto, contenuta nel § 226, secondo la quale “L’esercizio del diritto è inammissibile se può avere il solo scopo di 238 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA provocare danno ad altri”. E’ noto, tuttavia, che la repressione dell’ abuso del diritto da parte della giurisprudenza ha trovato il proprio fondamento normativo, principalmente, nel § 242, che sancisce il principio della buona fede (Treu und Glauben). Ciò in base alla considerazione che occorre distinguere il momento statico della titolarità del diritto da quello dinamico del suo esercizio, il quale è suscettibile di valutazione da parte del giudice ai sensi, appunto, del § 242. Soluzione imposta, in realtà, dall’esigenza di superare l’elemento soggettivo richiesto da § 226 per configurare l’abuso del diritto, requisito la cui difficoltà di prova finisce per rendere sostanzialmente inoperante il principio. Nella giurisprudenza della nostra Cassazione emerge l’idea che il principio di buona fede e il divieto di abuso del diritto si integrino a vicenda, “costituendo la buona fede un canone generale di comportamento cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l’interpretazione dell’atto giuridico di autonomia privata e prospettando l’abuso la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti”; con la precisazione che il divieto di abuso del diritto “costituisce un criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede” (Cass., 18 settembre 2009, n. 20106). In altre occasioni, tuttavia, si assume che sia la condotta lesiva del generale dovere di buona fede a risolversi in un abuso (così Cass., 22 dicembre 2011, n. 28286, cit., a proposito dell’abuso del processo), a conferma della difficoltà di distinguere nettamente i due concetti. Non è certo questa la sede per approfondire convenientemente la questione. Mi limito, quindi, a dire che a mio parere le norme codicistiche relative alla buona fede e alla correttezza devono considerarsi alcune delle più significative espressioni del più generale principio del divieto di abuso del diritto. Il quale, investendo ogni ambito dei rapporti giuridici, si presta a sanzionare comportamenti contrattuali scorretti che sfuggono alla regola della buona fede e della correttezza. Questa, infatti, vincola soltanto i contraenti, sì che se può essere utilmente richiamata per sanzionare i comportamenti abusivi posti in essere da una delle parti in danno dell’altra (c.d. abuso nel contratto), ad essa sfugge l’ipotesi in cui i comportamenti abusivi siano posti in essere da entrambe le parti (c.d. abuso del contratto) a danno di terzi e, in particolare, a danno del fisco, come nel caso che qui ci occupa, che ben può, invece, essere ricondotto entro l’operatività del divieto di abuso dell’autonomia negoziale. Il punto non può essere esaurito senza sottolineare che la soggezione dell’autonomia privata al divieto di abuso del diritto risulta positivizzata dalla norma di chiusura ( art. 54) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea firmata a Nizza il 7 dicembre 2000, che in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha acquisito lo stesso valore giuridico dei Trattati. La norma, rubricata “Divieto dell’abuso del diritto”, prevede, in particolare, che “Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta”. L’intento del legislatore 239 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA europeo è chiaramente quello di scongiurare un’applicazione impropria dei diritti e delle libertà declinati dalla Carta stessa. Ivi compresa, quindi, la libertà di impresa riconosciuta all’art. 16, che, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, implica la libertà di concorrenza e la libertà contrattuale. Indicazione che, trasposta nel nostro ordinamento – il quale è, peraltro, ormai parte integrante di quello dell’Unione europea -, dimostra la perfetta conciliabilità del divieto di abuso dell’autonomia privata con i valori costituzionali espressi dall'art. 41 Cost., norma che, proprio come l’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali, si considera giustificativa della libertà contrattuale oltre che della libertà imprenditoriale. 8 Il falso problema dell’inconciliabilità dell’abuso del diritto con la certezza del diritto oggettivo. – Opportunità di un intervento legislativo volto a delimitare l’operatività dell’abuso del diritto tributario: l’esempio del § 42 della legge generale tributaria tedesca. Rilevato che l’utilizzo dell’abuso del diritto in funzione antielusiva operato dalle Sezioni Unite appare giustificato da un’interpretazione sistematica dell’ordinamento nonché coerente con l’elaborazione dottrinale della nozione, non resta che spendere alcune considerazioni sui rischi esiziali da sempre paventati per la certezza del diritto che determinerebbe il riconoscimento al giudice di un potere così ampio come quello di sindacare la meritevolezza dell’atto di esercizio del diritto soggettivo. Necessariamente sintetiche come il contesto impone. Noto è che il timore dell’arbitrio rispetto all’ordine certo rappresentato dal codice civile è alla base della mancata codificazione del principio dell’abuso del diritto, nonostante che esso fosse previsto dal progetto ministeriale definitivo del codice stesso. La dottrina che per prima si è adoperata a dimostrarne la vigenza quale principio implicito (Natoli) ha, tuttavia, sottolineato al riguardo che, al contrario, è l’assenza del principio che comprometterebbe la certezza del diritto, giacché la pretesa dell’esercizio indiscriminato del diritto soggettivo si traduce nei fatti in una resa all’arbitrio individuale e nella negazione di ogni autorità della legge. Considerazione probabilmente venata da un eccesso di radicalità, ma non priva di verità, dato che non si può certamente affermare che i numerosi ordinamenti di Civil Law nei quali l’abuso del diritto è espressamente previsto siano afflitti da un’incertezza del diritto sconosciuta al nostro ordinamento, in cui l’abuso del diritto, oltre a non essere codificato, è stato impiegato dalla giurisprudenza, prima dell’inversione di tendenza registratasi negli ultimi anni, in casi estremamente limitati. Segno evidente che la discrezionalità giudiziale connessa all’applicazione del principio dell’abuso del diritto, che non si distingue, del resto da quella concernente l’impiego di qualunque altro principio generale, può essere tollerata dall’ordinamento giuridico, poiché, come appare con chiarezza nella prospettiva ampia e distaccata del diritto comparato, “il problema 240 L’ABUSO DEL DIRITTO NELLA FISCALITÀ VISTA DA UN CIVILISTA appassionante del ruolo del giudice, della certezza del diritto è [..] lontano dal tema dell’abuso, la sua soluzione dipende infatti dal sistema di formazione e di reclutamento dei giudici […] e da molte altre variabili la cui influenza è di molto superiore alla teoria dell’abuso” (Gambaro). 9 Opportunità di un intervento legislativo volto a delimitare l’operatività dell’abuso del diritto tributario: l’esempio del § 42 della legge generale tributaria tedesca. Con questo non si vuol negare l’opportunità di interventi legislativi tesi a delimitare la discrezionalità del giudice in settori in cui, come quello tributario, la prevedibilità delle decisioni giudiziarie appaia particolarmente importante. Posto, tuttavia, che l’operatività del divieto di abuso del diritto relativamente ai tributi conformati dal diritto europeo non può essere posta in discussione, ragioni di coerenza consiglierebbero di collocare l’intervento legislativo all’interno del medesimo principio. Un utile esempio parrebbe allora essere costituito, in questo senso, dal testo riformato alcuni anni fa del § 42 della legge generale tributaria tedesca, che recita: «1. La legge tributaria non può essere elusa attraverso un abuso di conformazione giuridica. Se la fattispecie di un negozio è prevista da una specifica norma tributaria intesa ad impedire l’elusione fiscale, i suoi effetti saranno quelli previsti da questa norma. Negli altri casi la pretesa tributaria deriva dalla sussistenza dell’abuso, nel significato previsto dal 2° comma, nella stessa misura in cui sarebbe derivata se fosse stata utilizzata una conformazione giuridica adeguata alla pratica degli affari. 2. Sussiste un abuso quando viene scelta una conformazione inadeguata, che determina per il soggetto d’imposta o per il terzo un vantaggio fiscale non previsto ove fosse stata utilizzata una forma adeguata. Ciò non vale ove il soggetto di imposta provi che esistono ragioni, diverse da quelle fiscali, di particolare rilevanza nel quadro complessivo del rapporto, che giustificano la scelta». Ma si tratta di una riflessione da affidare agli specialisti della materia, non avendo io al riguardo alcuna competenza da esprimere se non quella del comune contribuente. 241 Prof. Pietro Rescigno Professore Emerito nella Università “La Sapienza” di Roma L'abuso del diritto (copia del testo originale del 1965) Prof. Pietro Rescigno Professore Emerito nella Università “La Sapienza” di Roma L'abuso del diritto (Una significativa rimeditazione delle Sezioni Unite) Le Sezioni unite civili della Cassazione, nel novembre 2007 (Cass. 15 novembre 2007, n. 23726), hanno riesaminato un tema che era oggetto di vivace contrasto nella dottrina e nella giurisprudenza; la diversità di opinioni era persistita al di là di una prima pronuncia (risalente al 2000) delle stesse Sezioni unite. Si spiega col perdurante dissenso la nuova rimessione, che ha indotto la Corte ad una approfondita rimeditazione e ad un ripensamento, giustificato anche dall'aver portato alla luce talune peculiarità della fattispecie esaminata e decisa nella pronuncia ora superata. Il problema è quello della "parcellizzazione'o "frazionamento'della pretesa creditoria, e della possibilità di qualificare in tali ipotesi come "abusivo'il comportamento del creditore. Riferito al credito inteso nell'aspetto sostanziale, si verificherebbe un abuso del diritto; se si guarda al processo come strumento usato per esercitare la pretesa, si può essere indotti a parlare di abuso del processo. Sempre si conferma la stretta connessione dei due profili, del rapporto materiale e dell'azione in giudizio, nell'antica e tormentata questione dell'abuso. L'autore di questo breve editoriale ha dedicato all'abuso del diritto un saggio ormai risalente, apparso nella "Rivista di diritto civile'del 1965 dopo che in una versione minore era stato nel 1963 il discorso inaugurale dell'anno accademico bolognese. Nel ripubblicare nel 1998, per i tipi del "Mulino', lo scritto assieme ad altri due che ne avevano costituito integrazione e sviluppo, avevo ritenuto di aggiungere un'avvertenza, una postfazione ed una nota bibliografica contenente altresì richiami della più recente giurisprudenza. Pre e post-fazione volevano servire a collocare il saggio nel suo tempo, e ricordare al lettore talune rilevanti novità (in primo luogo legislative) che nei vari settori avevano ridisegnato oggetto e confini della realtà osservata. Il saggio, è opportuno rammentarlo, aveva preceduto la riforma del diritto familiare e l'introduzione del divorzio, e lo Statuto dei lavoratori, per fermarci a due materie che vi apparivano visitate con insistita assiduità. Anche al di fuori degli interventi del legislatore e delle conquiste dell'autonomia collettiva, potevano intanto registrarsi, soprattutto in virtù di una giurisprudenza sensibile e coraggiosa, vedute assai più larghe in ordine alla sindacabilità dell'esercizio di libertà, potestà, poteri, diritti potestativi, diritti soggettivi (per riprendere il consueto elenco in cui venivano e vengono ancora riassunte, articolate, distinte le varie prerogative private). Ma il discorso sull'abuso conosceva e generalmente incontra un passaggio ineliminabile con riguardo alla proprietà ed al credito, le due tipiche figure del diritto soggettivo; nel parlare di proprietà e credito si astrae delle L'ABUSO DEL DIRITTO (UNA SIGNIFICATIVA RIMEDITAZIONE DELLE SEZIONI UNITE) posizioni estreme che finiscono per ridurre la categoria dei diritti soggettivi ad una soltanto delle due figure e per emarginarne l'altra, in ragione dell'esclusiva esaltazione del momento della soddisfazione immediata dell'interesse del titolare, come avviene nella proprietà, o dell'esigenza dell'altrui cooperazione che è invece il connotato indeclinabile del rapporto obbligatorio. L'esame delle decisioni giudiziali di fine secolo confermava intanto un dato già emerso dalla ricostruzione del sistema positivo, una costruzione non irrigidita nelle espresse previsioni normative e non fuorviata dai silenzi di altre discipline. Poteva dunque ribadirsi, nel ripercorrere gli itinerari della giurisprudenza, il modesto (ed in ogni caso non determinante) valore del divieto degli atti emulativi dettato per la proprietà, ancor più disvelato da una lettura che continua a rifiutarne l'applicazione in presenza di una sia pur minima utilità ricavata dall'autore dell'atto. La circoscritta rilevanza e la restrittiva interpretazione della norma ne precludevano pertanto, contro remote illusioni, il carattere di principio fondativo del sistema in ordine al controllo del giudice sui modi di realizzazione delle prerogative private. Si arricchivano invece di pregnante significato, e di un senso che riusciva a travalicare i confini dell'obbligazione e del relativo regime, i canoni della correttezza e della buona fede sanciti per il debitore ed il creditore e riaffermati con particolare intensità nella disciplina del contratto (e per la fase esecutiva in grado ancor più accentuato). Per riprendere gli esiti della personale ricerca, approdi che coincidevano in larga misura con le proposte avanzate ed i risultati raggiunti da un'ampia dottrina in quella lontana stagione, si suggeriva dunque di muovere dalla normativa sulla correttezza e la buona fede, "parametri'della condotta che nel rapporto obbligatorio viene imposta al creditore come al debitore, nel segno del rispetto della sfera giuridica di ciascuno dei soggetti. Anche per questa via si scopriva nel rapporto obbligatorio il "paradigma a cui ricondurre tutte le relazioni intersoggettive rilevanti per il diritto: si rovesciava in tal modo l'antica prospettiva, ed erano proprietà e diritti reali a ricevere integrazione dalla scoperta di limiti e di doveri ordinati attorno alla pretesa, più che il diritto di credito a ricevere delimitazioni dell'antica formula della aemulatio proibita al proprietario. Le considerazioni di fine secolo (il saggio, come ricordavo, è stato riproposto nel 1998) segnalavano dunque il progressivo "svuotamento'della norma su gli atti emulativi e indicavano come più rassicurante criterio di generale portata (e del resto la formula delle "clausole generali'storicamente insiste sulla flessibilità e sull'adeguamento dei contenuti in ragione delle suggestioni e delle attese della società) la regola di correttezza. Di altre norme il discorso sull'abuso cercava di far tesoro (si pensi alla disciplina del motivo illecito o della condizione meramente potestativa), ma dal principio di correttezza si traevano gli argomenti più persuasivi, oltre che dotati di una innegabile elasticità che ne consentiva in concreto l'adattamento alle specifiche situazioni. 246 L'ABUSO DEL DIRITTO (UNA SIGNIFICATIVA RIMEDITAZIONE DELLE SEZIONI UNITE) Mi parve significativa in questo orizzonte di pensiero una pronuncia della S.C. del 1997, a Sezione semplice (pres. Cantillo, est. Carbone), che nel tema dell'abuso inquadrava il "frazionamento" del credito operato dal creditore al fine di radicare il giudizio davanti ad un giudice diverso da quello a cui sarebbe spettato decidere la controversia in ragione dell'intera "misura" del credito. Di quella pronuncia erano riportati ampi brani, nella convinzione che al problema "storico" dell'abuso di diritto - una vicenda di storia delle idee, riflessa negli istituti in cui si concretizzano gli interessi e le speranze degli uomini - sia utile, anzi indispensabile ogni documento, in primo luogo la sentenza di una magistratura autorevole quale è la S. C., una tappa del lungo faticoso cammino che dalla discrezionalità e dall'arbitrio nell'esercizio dei diritti conduce, con gradazioni diverse, alla sindacabilità e al controllo, sino ad arrivare alla dichiarata illegittimità dell'atto ed alla responsabilità civile dell'autore. La sentenza del "97 acquista ulteriore importanza se si riflette che a stenderla fu un magistrato e studioso, V. Carbone, che ora nella qualità di primo presidente della Corte ha presieduto il Collegio a Sezioni Unite del novembre 2007 (estensore della sentenza il cons. Morelli, a sua volta già noto per avere redatto pregevoli decisioni). Il ragionamento e la motivazione delle Sezioni Unite riprendono e riaffermano la ratioallora espressa; rimeditazione e ripensamento, per usare i termini adoperati con riguardo alla avvertita e manifestata necessità di "non tener fermo" l'orientamento adottato nel 2000 (e favorevole a ritenere compatibile con i poteri del creditore la frammentazione della pretesa e della domanda), sono fondati principalmente su un "quadro normativo" (di cui si impone una interpretazione adeguatrice) che ha conosciuto ulteriore sviluppo. Si allude a due aspetti dell'evoluzione, da un lato alla sempre crescente valorizzazione della correttezza e della buona fede, sino a tradurle in valori "costituzionali'suscettibili di essere assunti nei doveri di solidarietà (politica, economica, sociale), dall'altro alla "ragionevole durata'e al "giusto'processo, ragionevolezza e "giustezza'che appaiono messe in discussione ed a rischio quando l'esercizio dell'azione si svolga "in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi". Il fenomeno, non di frequente verificazione e tuttavia nemmeno eccezionale, del credito "frammentato'dal titolare in una pluralità di domande - con la motivazione, esplicita o sottintesa, di ottenere così giudizi più rapidi e meno costosi, in ragione del giudice competente e in concreto adito - aveva registrato, dopo la sentenza del "97 e ancor più dopo l'indirizzo adottato dalle S.U. nel 2000, reazioni differenti (e se ne faceva cenno in principio), e nella dottrina, talora nell'ambito di contributi a carattere monografico sul tema, più voci si erano espresse nel senso della legittimità della scelta operata dal creditore. Per una informazione analitica ed esauriente si può rinviare alle note di commento che all'ultima Cassazione dedicano in Nuova giur. civile commentata (2008, 458) A. Finessi e F. Cossignani, con speciale riguardo, 247 L'ABUSO DEL DIRITTO (UNA SIGNIFICATIVA RIMEDITAZIONE DELLE SEZIONI UNITE) rispettivamente, agli aspetti sostanziale e processuale della questione. Anche i due giovani autori svolgono valutazioni critiche del nuovo indirizzo e del ritorno allo schema logico cui rinviava la sentenza del "97 (da Cossignani, in verità, si insiste piuttosto sulla considerazione che il creditore, nell'agire senza riserva per una parte sola della pretesa, rischia di esporsi all'eccezione di giudicato nelle azioni future, mentre nell'ipotesi di riserva dovrebbe essere avvertito dal giudice dell'inefficacia al riguardo dell'atto cautelativo, e incoraggiato ad integrare il petitum così scongiurando la consumazione del diritto al residuo). Si contesta in primo luogo il mutamento del quadro normativo, poiché era già allora cresciuto e si era arricchito di dignità costituzionale il valore degli enunciati di buona fede e correttezza nel rapporto obbligatorio: la "novità', sul punto, generalmente sembra costituita dall'imposizione del dovere al creditore, mentre la critica insiste sul necessario parallelo riferimento al debitore, e sottolinea come la "parcellizzazione'della pretesa si innesti sulla inadempienza dell'obbligato (ma trascurando che nei casi di specie il debitore si è opposto col contestare in tutto o in parte il credito contro di lui esercitato). L'altro motivo di censura, nella "nota'ricordata e nella dottrina che la precede, risiede nella denunciata svalutazione dei meccanismi posti nel sistema a tutela del debitore contro le pregiudizievoli conseguenze economiche della frammentazione della pretesa (in primo luogo, l'offerta dall'intera prestazione e la costituzione in mora del creditore, o invece una domanda riconvenzionale di accertamento negativo del credito). Sempre in chiave critica della tesi dell'abuso, si contesta infine che possa argomentarsi, nel senso della necessaria unitarietà del rapporto e degli strumenti di esercizio del diritto, da altre regole relative al credito, a cominciare dal diritto del titolare di rifiuto di un adempimento parziale. La norma dettata nell'art. 1181, pur confermando il principio che la prestazione deve eseguirsi in unica soluzione, salve diverse previsioni della legge e degli usi (ma con la ribadita estraneità al novero delle eccezioni degli art. 277 e 278 c.p.c., dove il "frazionamento'può essere operato dal giudice in un procedimento instaurato per l'integrale adempimento), non escluderebbe la "parcellizzazione' che possa risultare rispondente ad esigenze apprezzabili del creditore. Una sostanziale adesione alla pronuncia ed all'indirizzo "recuperato' si trova invece nel commento di A. Ronco, in Giur. it. 2008, 931, che avrebbe tuttavia desiderato dalla S. C. "una più generale e coraggiosa ricostruzione", in verità difficile da compiere nell'enunciazione di un principio; il principio deve ricondursi per Ronco ad una concezione pubblicistica del processo e dell'azione, ma appare in verità suscettibile di essere in modo coerente riportato anche all'idea privatistica della disponibilità delle parti circa i diritti controversi. Attorno al tema dell'abuso si rinnovano, come il lettore agevolmente può constatare, le obiezioni e le riserve che sempre hanno accompagnato il riconoscimento della generale figura (anche quando si tratta, come in taluni 248 L'ABUSO DEL DIRITTO (UNA SIGNIFICATIVA RIMEDITAZIONE DELLE SEZIONI UNITE) ordinamenti accade, di un istituto positivamente regolato) e ancor più l'individuazione delle singole fattispecie da ricondurre alla stessa. Le originarie e non sopite perplessità derivano dalla difficoltà di ravvisare l'abuso, e cioè una deviazione dalle sostanziali finalità assegnate alla prerogativa in virtù del riconoscimento normativo: anche nella sentenza delle S.U. si parla di deviazione, accanto all'ipotesi di "eccesso', parola che una risalente dottrina usava invece per collocare l'atto al di fuori dei confini del diritto soggettivo esercitato e per qualificarlo come illecito (e per tale via superava o si illudeva di eliminare lo stesso problema dell'abuso). A me sembra che il dissenso, sotto il quale è facile ritrovare l'antica ricorrente preoccupazione di ammettere poteri di controllo e apprezzamento del giudice invasivi rispetto a prerogative riconosciute ai privati e soprattutto pericolosi per la certezza del diritto, non possa sminuire l'importanza della decisione e la validità del principio che enuncia. La sentenza ravvisa l'abuso nella condotta del creditore destinata ad aggravare la posizione debitoria senza una utilità oggettivamente valutabile come degna di essere individualmente perseguita e dall'ordinamento tutelata: intesa in questi termini, è un momento, se si vuole un capitolo, della vicenda intellettuale che si nasconde dietro la formula ed è stata faticosamente elaborata dall'interprete. Il vantaggio della semplificazione e della minore onerosità dei "concorrenti'giudizi intentati (e non è irrilevante che nella fattispecie esaminata dalle S.U. nel 2000 si sia trattato di giudizi iniziati in maniera distinta secondo una sequenza temporale, mentre nel caso del 2007 si era in presenza di azioni intraprese contemporaneamente), scaturente dalla competenza a decidere del giudice di pace, non è apparso alla S.C. bastevole a realizzare l'oggettiva presenza di un interesse positivamente apprezzabile, idoneo a giustificare l'aggravata posizione del debitore (e dunque un sacrificio ulteriore rispetto allo schema elementare della soggezione che connota il rapporto obbligatorio). L'unità del rapporto sostanziale da cui scaturivano le "frazioni'del credito (frammenti che giustificavano le varie fatturazioni, ma non incidevano sulla unitarietà del contratto di durata da cui erano derivate le prestazioni eseguite e le obbligazioni da adempiere) è apparsa alla S.C. ragione sufficiente, in una valutazione comparativa degli interessi, per far prevalere l'interesse del debitore ad essere convenuto per il debito intero (che in tutto o in parte esso venga contestato, è profilo di non decisiva rilevanza) rispetto all'interesse del creditore a "parcellizzare' la pretesa nella ricerca di un diverso giudice competente. Sulla qualificazione della condotta descritta come "abusiva'(che non è, come è ovvio, un enunciato insuscettibile di eccezioni e di limiti da ravvisare nella concretezza delle singole fattispecie), la sentenza riveste l'interesse che aveva suscitato la pronuncia del 1997 e che mi aveva indotto, nel rapido e breve "aggiornamento'del tema, a segnalarla come particolarmente significativa dell'evolversi di un principio nato e sviluppato soprattutto ad opera della giurisprudenza. Che le Sezioni unite civili siano tornate sulla via allora indicata, con una elaborazione che non è autocritica (rispetto al 2000) ma 249 L'ABUSO DEL DIRITTO (UNA SIGNIFICATIVA RIMEDITAZIONE DELLE SEZIONI UNITE) pensoso chiarimento e persuasiva ripresa di un indirizzo allora aperto, è dato non trascurabile per chi ha dedicato qualche pagina al tema dell'abuso e ritenne di segnalare la sentenza del "97 come un dato di sicuro rilievo: per intenderci in modo semplice, al pari della pronuncia che, anticipando l'intervento legislativo, considerò abuso del diritto il disconoscimento di paternità da parte del marito che aveva acconsentito all'inseminazione eterologa, stavolta elevando a indice di abusività della condotta il divieto di venire contra factum proprium, nel segno di una necessaria coerenza dell'agire e della tutela degli affidamenti suscitati. 250 Prof.ssa Livia Salvini Professoressa Università Luiss di Roma A margine della sentenza Dolce&Gabbana: la costituzione di parte civile dell’Amministrazione Finanziaria 1 Il rilievo dei principi affermati da Cass., sez. II pen., n. 7739/2012 in merito alla sanzionabilità penale dell’elusione fiscale ha messo in ombra la prima parte della motivazione, quella in cui la sentenza affronta il problema della legittimazione dell’Agenzia delle Entrate, costituita parte civile, ad impugnare la sentenza di non luogo a procedere emessa dal Tribunale penale. Il tema della costituzione di parte civile dell’Amministrazione finanziaria (intesa per ora, in termini generali, con riferimento sia all’Agenzia, sia al Ministero dell’Economia e delle Finanze) nei giudizi penali per i reati fiscali non è stato spesso trattato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, benché esso rivesta una sicura importanza pratica, vista la sempre maggiore frequenza con cui l’Amministrazione si costituisce in tali giudizi. Sotto il profilo teorico, questo tema è stato affrontato anche con pregevoli interventi, ma soprattutto nella vigenza del vecchio sistema penaltributario delineato dalla l. n. 516/1982, sistema che sanzionava principalmente – come noto – i reati prodromici all’evasione. Sembra probabile, già ad un primo esame, che la questione meriti di essere di nuovo esaminata alla luce del sistema attualmente recato dal d.lgs. n. 74/2000 che sanziona invece i reati di evasione, soprattutto per quanto attiene all’individuazione del danno che può essere oggetto dell’azione di responsabilità civile dell’Amministrazione. Così come l’interesse alla costituzione di parte civile presentava aspetti senz’altro diversi nel previgente sistema, in cui la sentenza irrevocabile pronunciata nel giudizio penale aveva autorità di cosa giudicata nel processo tributario quanto ai fatti materiali accertati, rispetto a quanto non accada ora, in presenza di un (sempre più imperfetto, peraltro) sistema di “doppio binario”, cioè di indipendenza dei due giudizi. Tuttavia, come si vedrà, alcuni dei temi a suo tempo trattati restano, per la loro centralità, ancora assolutamente attuali: primo tra tutti, quello dei rapporti tra l’esercizio dell’azione di risarcimento nel processo penale, da un lato, e l’attuazione del rapporto di imposta attraverso l’accertamento, la sua eventuale definizione stragiudiziale e il processo tributario, dall’altro. La questione della costituzione di parte civile è divenuta poi più complessa in tempi relativamente recenti anche sotto il profilo soggettivo a seguito dell’istituzione dell’Agenzia delle Entrate, poiché si è posto il problema di una possibile differenziazione della posizione dell’Agenzia rispetto a quella A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA del Ministero, in relazione anche alle modifiche apportate alla disciplina del processo penale dalla riforma del 1988. Anche la prima parte della sentenza “Dolce & Gabbana” e le questioni che essa pone meritano dunque un esame. Dato l’oggetto di quel giudizio, non tutte le complesse questioni sopra accennate trovano trattazione nella pronuncia; tuttavia, essa può costituire un utile punto di partenza anche per le ulteriori considerazioni che proverò a sviluppare. 2 La sentenza parte da un presupposto, di carattere prettamente processualpenalistico, che qui conviene assumere come dato di partenza, e cioè che solo la persona offesa dal reato, costituita o meno parte civile, e non anche la persona danneggiata, costituita parte civile, possa impugnare la sentenza di non luogo a procedere (art. 428, comma 2, c.p.p. 1). Ciò perché tale impugnazione è per sua natura destinata alla tutela esclusiva degli interessi penalistici della persona offesa; ed infatti la sentenza emessa all’esito dell’udienza preliminare – quale è appunto quella di non luogo a procedere di cui qui si discute – è priva di effetti irrevocabili nel merito della controversia e non può quindi incidere sull’azione risarcitoria. Come ha affermato Cass. SS.UU. pen. n. 25695/2008 - cui si deve anche una accurata ricostruzione, non priva di spunti critici, del sistema delle impugnazioni delle sentenze di proscioglimento emergente dalla l. n. 46/2006 – l’interesse della persona offesa, concorrente con quello della pubblica accusa fino a configurare un’azione penale privata, è esclusivamente quello di ottenere il rinvio a giudizio dell’imputato, dovendosi decisamente escludere ogni possibile effetto civile ricollegabile all’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere; e ciò anche se non è dato comprendere esattamente 2 il motivo per cui l’art. 428 comma 2 cit. attribuisca alla persona offesa che sia costituita parte civile poteri impugnatori più ampi di quella che non sia costituita come tale 3. 3 La distinzione tra persona danneggiata e persona offesa, com’è noto, risiede nel fatto che la persona offesa è titolare dell’interesse giuridico protetto, 1 La norma in questione attribuisce alla persona offesa che non sia costituita parte civile la facoltà di proporre ricorso per cassazione solo in caso di violazione delle norme sul contraddittorio recate dall’art. 419, ed alla persona offesa costituita parte civile la facoltà di impugnare per tutti gli ordinari motivi di ricorso per cassazione previsti dall’art. 606. 2 Il sistema così ricostruito non presenta tuttavia, per Cass. SS.UU. cit., profili di dubbia costituzionalità. 3 V. nota 1. 252 A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA anche se in modo non prevalente, dalla disposizione incriminatrice (e come tale è soggetto del procedimento ed ha diritto di ricevere la notifica degli atti introduttivi del giudizio – art. 419 c.p.p.), mentre la persona danneggiata è quella che ha subito il danno patrimoniale e/o morale derivante dal comportamento costituente reato, e può pertanto costituirsi parte civile nel processo penale per ottenerne il risarcimento, in via alternativa rispetto all’esperimento di un’ordinaria azione risarcitoria civile. Normalmente la persona offesa e quella danneggiata coincidono, ma tale coincidenza non è necessaria, stante la diversità dei diritti sostanziali di cui ciascuna vanta la titolarità. La possibilità di una dissociazione delle due figure, e della correlata legittimazione della sola parte offesa all’impugnazione per Cassazione della sentenza di non luogo a procedere, pone in ambito fiscale l’eventualità della divaricazione della posizione del Ministero dell’Economia e delle Finanze, da un lato, e dell’Agenzia delle Entrate, dall’altro. Nel giudizio in questione i difensori degli imputati avevano eccepito l’inammissibilità del ricorso dell’Agenzia delle Entrate, costituita parte civile, proprio partendo dal presupposto che l’impugnazione fosse consentita alla sola parte offesa. I difensori, in particolare, osservavano che “i reati tributari mirano a tutelare il patrimonio dell’Amministrazione finanziaria e la persona offesa deve essere individuata non nell’Agenzia delle Entrate che, quale ente strumentale, potrebbe assumere le vesti di persona danneggiata, ma nel Ministro pro-tempore dell’Economia e delle Finanze”. Ministro che, invece, non aveva impugnato. La Cassazione – che, sciogliamo subito la suspence, ha invece ritenuto ammissibile il ricorso dell’Agenzia – sviluppa il suo ragionamento su due linee concorrenti: in primo luogo, sostiene che l’Agenzia mutua dal Ministero la qualità di parte offesa; successivamente, osserva che in ogni caso l’Agenzia può ritenersi, di per sé, parte offesa. 4 La sentenza in esame inizia con l’osservare, sulla scorta di Cass. SS.UU. civ. n. 3116/2006 4, che a seguito della istituzione dell’Agenzia si è verificata a favore di questa una successione a titolo particolare nei poteri e nei rapporti giuridici strumentali all’adempimento dell’obbligazione tributaria, “anche se il destinatario del gettito fiscale – senza intermediazione alcuna – rimane sempre lo Stato”. L’Agenzia, tuttavia, gestisce in via esclusiva il contenzioso fiscale, ed ha – anche attraverso l’esercizio del potere di autotutela – il potere di disporre del diritto sostanziale dedotto in giudizio. “E’ evidente, pertanto, che la legge affida all’Agenzia delle Entrate la tutela dell’interesse dello Stato alla completa e tempestiva percezione del tributo”. Ne deriva, secondo 4 Su cui v., da ultimo, le considerazioni sistematiche di TABET, Natura e funzioni delle Agenzie fiscali, in Riv. Dir. Trib. 2011, 253. 253 A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA la Cassazione, che l’Agenzia, quale parte esclusiva del processo tributario, deve essere considerata la sola legittimata a costituirsi parte civile per l’adempimento di obbligazioni tributarie, anche se è l’Amministrazione finanziaria, cioè il Ministero, che deve considerarsi parte offesa (salvo che quest’ultima non voglia far valere la tutela di ulteriori e diverse situazioni giuridiche lese). Del resto, osserva la Corte, se ciò non fosse vero all’Agenzia dovrebbe essere negata in radice la stessa legittimazione a costituirsi parte civile: infatti nessun danno sarebbe ravvisabile a suo carico, posto che le somme da esse recuperate affluiscono direttamente al bilancio dello Stato. Ma ciò si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza, che invece riconosce pacificamente tale legittimazione 5. 5 Seguendo un iter logico alternativo, la Cassazione osserva poi che la stessa Agenzia, a ben vedere, può essere qualificata come persona offesa dai reati previsti dal d. lgs. n. 74/2000, poiché ad essa “è stata affidata la tutela dell’interesse al corretto adempimento dell’obbligazione tributaria e (che) può utilizzare molteplici strumenti, non esclusi quelli di carattere penale, per rimuovere gli ostacoli al perseguimento dell’interesse affidatogli per legge”. A questa conclusione non osta, proseguono i giudici di legittimità, il principio della reciproca indipendenza tra procedimento penale e processo tributario, poiché questo principio sotto diversi profili mostra delle attenuazioni. Ad esempio, gli organi requirenti e giudicanti, anche penali, sono tenuti a comunicare alla Guardia di Finanza fatti di cui siano venuti a conoscenza che possono configurarsi come violazioni tributarie (art. 36 d. p. r. n. 600/1973) e si può quindi affermare che “il processo penale è considerato, per scelta legislativa, un veicolo privilegiato di notizie di rilevanza fiscale”. Inoltre, la prevalente giurisprudenza della sezione tributaria ritiene che il patteggiamento costituisca un elemento di prova per il giudice tributario, il quale deve spiegare le ragioni per le quali l’imputato avrebbe ammesso un’inesistente responsabilità e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione 6. Ed infine, la Corte adduce la nota questione del raddoppio dei termini per l’accertamento in caso di violazione comportante l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p., e la relativa C. Cost. n. 247/2011, che indica tra le finalità del “raddoppio” quella di 5 La Corte cita su questo punto Cass., sez. III pen., n. 35456/2010, ma v. nello stesso senso Cass., sez. II pen., n. 43302/2010. Quest’ultima sentenza afferma altresì che, non essendo l’Agenzia un organo dello Stato, non è necessaria l’autorizzazione da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri (affermazione ripresa anche dalla pronuncia in commento) e che la costituzione di parte civile può avvenire ad opera della sede centrale dell’Agenzia, ovvero da parte dei suoi uffici periferici. 6 Cass., sez. trib., nn. 2724/2001, 19505/2003; 24587/2010. 254 A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA “garantire all’Amministrazione l’utilizzo degli elementi istruttori emersi nel corso delle indagini condotte dall’autorità giudiziaria per un periodo più ampio rispetto a quello previsto per l’accertamento”. 6 Mi sembra che questa sentenza presti il fianco a considerazioni critiche sotto ambedue i versanti argomentativi. Per quanto attiene al primo - che muove dall’individuazione del Ministero come persona offesa e che attribuisce comunque all’Agenzia la legittimazione ad impugnare la sentenza di non luogo a procedere in virtù della sua posizione di unico soggetto cui per legge è demandata la tutela anche processuale di tale interesse – si può osservare che la trasposizione sul piano che ci riguarda dei principi enunciati da Cass. SS.UU. civ. n. 3116/2006 sulla legittimazione dell’Agenzia ad causam ed ad processum nel processo tributario non appare del tutto soddisfacente. Se è vero, infatti, che viene riconosciuta ai fini processuali tributari in capo all’Agenzia la titolarità delle situazioni soggettive che vengono fatte valere nel processo, è anche vero che a ciò si giunge riaffermando sotto il profilo sostanziale l’esistenza in capo al solo Ministero della titolarità, diretta e non mediata dall’Agenzia, dell’obbligazione tributaria. Avrebbe probabilmente meritato, allora, qualche ulteriore considerazione da parte della Corte il fatto che, ai fini dell’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, è la stessa norma, così come interpretata dalla Corte, ad attribuire la legittimazione alla sola persona titolare dell’interesse offeso, e cioè nel nostro caso appunto il Ministero. Come ha affermato Cass. SS.UU. civ. cit., la disciplina normativa dell’Agenzia delle Entrate comporta “una separazione tra titolarità di posizioni giuridiche sostanziali – nella specie, l’acquisizione in via immediata del gettito tributario – (che resta in capo al Ministero) ed esercizio dei poteri e dei diritti necessari ad assicurare tale gettito (trasferito all’Agenzia)”, da cui consegue appunto la legittimazione processuale dell’Agenzia nei giudizi tributari. Ma nel giudizio penale di cui qui si tratta, le situazioni soggettive che legittimano all’impugnazione non sono affatto quelle strumentali all’attuazione dell’obbligazione tributaria e certamente nulla hanno a che fare con il merito della pretesa e con la “assicurazione del gettito”, neanche sotto forma di risarcimento del danno; al contrario, la premessa da cui parte la sentenza in esame, anche sulla base dei precedenti, è che tali situazioni sono solo quelle della persona offesa, e quindi di natura esclusivamente penalistica, dirette ad ottenere il rinvio a giudizio del reo. Intendo dire, con ciò, che è il legislatore del processo penale ad individuare direttamente la legittimazione in capo alla persona offesa, ponendosi ai fini 255 A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA processuali a monte del trasferimento delle funzioni strumentali dal Ministero all’Agenzia 7. Né sembra una valida obiezione quella avanzata ad absurdum dalla stessa Corte, laddove osserva che se l’Agenzia non potesse impugnare la sentenza di non luogo a procedere perché non è titolare del rapporto di imposta, essa non potrebbe neanche mai costituirsi parte civile, non potendo dirsi danneggiata dai comportamenti evasivi del contribuente. La questione dell’individuazione del danno che la parte civile può far valere nei processi penali per i reati tributari è tutt’altro che pacifica e non consta che essa sia stata mai seriamente esaminata dalla giurisprudenza (sul che tornerò oltre); pare dunque arduo fondare sul debole precedente invocato dalla Corte una qualche dimostrazione delle conclusioni raggiunte nella sentenza. Mi pare comunque che l’obiezione non colga nel segno perché dando per scontato – come sembra fare la Corte sulla scorta del fatto che i reati fiscali di cui è processo sono reati di evasione – che l’azione di risarcimento abbia ad oggetto l’imposta evasa, il suo esercizio rientra invece pienamente nell’ambito della funzione di recupero del gettito che si è visto essere propria dell’Agenzia. In altri termini, se oggetto dell’azione di danno è il recupero del tributo, è scontato che l’Agenzia sia legittimata ad esercitarla, perché la sua funzione è appunto quella di attuare la pretesa fiscale; non si tratta qui della titolarità del diritto di credito, ma della titolarità dei poteri di accertamento. Casomai, il problema – che però la Corte non si pone affatto – è ancora una volta a monte: ed è il problema se l’esercizio di tale azione sia compatibile con la disciplina fiscale del rapporto di imposta e con la sua attuazione, demandata all’Agenzia. Del resto, che l’iter logico della sentenza in esame sia incerto emerge con evidenza dal fatto che il secondo percorso argomentativo seguito – quello che individua direttamente nell’Agenzia la parte offesa – muove da un (sempre implicito) presupposto diverso dal primo, e cioè che l’interesse sostanziale leso dai reati ascritti all’imputato sia quello al corretto esercizio dei poteri propri dell’Agenzia, e cioè quelli di controllo ed accertamento. Questa parte della motivazione non appare tuttavia particolarmente chiara: essa si sofferma infatti su alcuni dei punti di frizione del principio del c.d. “doppio binario” con il diritto positivo, il quale prevede invece la trasmigrazione, anche con effetti sostanziali, di dati e informazioni dal procedimento penale a quello fiscale. Sembra dunque che per la Cassazione l’interesse penalistico fatto valere dall’Agenzia con l’impugnazione sia quello di poter favorire tale trasmigrazione, valendosi à rebours dei relativi effetti nell’attuazione del rapporto di imposta. Del tutto atipicamente, l’interesse della persona offesa – Agenzia delle Entrate che si manifesta tramite l’impugnazione non sarebbe dunque quello al 7 A meno di non individuare, riduttivamente, le funzioni dell’Agenzia in una generica rappresentanza processuale del Ministero. 256 A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA perseguimento del reo, ma si esaurirebbe e troverebbe soddisfazione nel semplice svolgimento del processo. 7 L’analisi della posizione dell’Agenzia quale parte offesa tocca, come si è visto, alcuni temi che riguardano anche la sua posizione quale danneggiata e la sua costituzione come parte civile nel processo penale, ed in particolare nelle fasi del giudizio in cui si decide, nel merito, della colpevolezza dell’imputato (mentre nella sentenza “Dolce & Gabbana” si trattava della legittimazione ad impugnare la sentenza di non luogo a procedere). Terminato l’esame della sentenza, vorrei dunque occuparmi della costituzione dell’Agenzia quale parte civile. Tra i molti aspetti interessanti, per motivi di tempo mi limiterò a qualche sintetica considerazione su quelli principali, ovvero: se l’Agenzia possa costituirsi quale parte civile nel processo penale e quale sia, in caso affermativo, il danno per cui l’Agenzia può agire; quale rapporto ci sia tra il soggetto passivo e l’oggetto di tale azione, da un lato, e il soggetto passivo e le vicende del procedimento e del processo tributari, dall’altro. 8 Come si è già accennato, la giurisprudenza della Cassazione pare ammettere la costituzione di parte civile dell’Agenzia con riferimento ai reati ex d. lgs. n. 74/2000 per il risarcimento del danno costituito dall’ammontare dell’imposta evasa. I precedenti, a quanto mi consta, non sono numerosi: in questo senso si è pronunciata Cass., sez. III pen., n. 35456/2010 (in cui l’imputato di emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti era, sembra, il titolare di una ditta individuale), nonché Cass., sez. II pen., n. 43302/2010 alla quale erano state poste alcune interessanti questioni (tra le quali quelle nodali della “inesistenza di un danno patrimoniale concernente la pretesa di imposta, in quanto le pretese impositive sarebbero incompatibili con un’accezione civilistica del danno quale quella presupposta dalle norme sostanziali e processuali sull’azione civile nel processo penale e sulle eccepita inesistenza del danno non patrimoniale, morale e/o esistenziale in mancanza di fatto previsto quale illecito civile ex art. 2043 c.c.” 8), sulle quali purtroppo essa non si è pronunciata in quanto si trattava di un procedimento concluso con patteggiamento, in cui il Tribunale non può decidere sulla domanda della parte civile 9. 8 In quel giudizio l’Agenzia aveva richiesto danni patrimoniali per € 59 mln per crediti di imposta e rimborsi non spettanti e € 0,45 mln per risorse umane impiegate, più € 20 mln per danni non patrimoniali. 9 Si veda anche sul tema – in quel caso di teorica applicazione – Cass., sez. III pen., n. 38710/2004 su cui tornerò oltre trattando del sequestro conservativo. 257 A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA Anche nel previgente sistema penaltributario la giurisprudenza di legittimità ammetteva la costituzione di parte civile dell’Amministrazione Finanziaria. Tuttavia, in considerazione del fatto che i reati sanzionati dalla l. n. 516/1982 erano “prodromici” all’evasione fiscale e non si concretavano in una sottrazione d’imposta all’Erario, si osservava che “il danno patrimoniale, che legittima la costituzione di parte civile, viene ricercato dalla dottrina nello ‘sviamento e turbamento dell’attività della pubblica Amministrazione diretta all’accertamento tributario’ nonché con l’impegno dei mezzi umani e materiali necessari a stabilire il comportamento delittuoso ed impedire il compimento del disegno di evasione fiscale posto in itinere dal reo” (Cass., sez. III pen., n. 5554/1991; conf. Cass., sez. III pen., n. 7338/1993), con la conseguenza che tale danno veniva individuato non nel debito di imposta, bensì nel costo del personale e delle strutture impiegate nell’attività di controllo ed accertamento 10. 10 Questa conclusione – fino a quel momento corretta – avrebbe potuto sembrare contraddetta, nella sua logica, dalla disposizione contenuta nell’art. 6 l. n. 30/1997, che aveva previsto quale circostanza attenuante nel processo penale per i reati fiscali “il risarcimento del danno cagionato all’erario come diretta conseguenza della mancata corresponsione dei tributi”. Per un approfondito esame di questa norma e della configurazione di tale danno in rapporto ai “reati prodromici” v. Cass., sez. III pen., n. 536/2000. Nella sostanza la Corte afferma che il legislatore ha voluto introdurre nel sistema fiscale una specifica regolamentazione dell’attenuante del risarcimento del danno prevista dall’art. 62, n. 6), c.p. proprio in ragione del fatto che i reati fiscali di cui alla l. n. 516/1982 non sono di danno, compresi quelli di frode fiscale, e quindi l’attenuante prevista dal c.p. non sarebbe stata loro naturaliter applicabile. La norma in discorso, tuttavia, significativamente non parla di risarcimento del danno cagionato dal reato, ma di quello cagionato dalla mancata corresponsione dei tributi. Con il che si lasciava peraltro aperto il problema del risarcimento del danno ulteriore, patrimoniale (costo dell’accertamento) e non patrimoniale: POLLARI, Il risarcimento del danno in materia penale tributaria, in Il Fisco, 1999, 6435 e GRAZIANO, Aspetti penalistici dei recenti provvedimenti deflattivi del contenzioso, in Rass. Trib. 2003, 525; problema che il d. min. 11 aprile 1997 di attuazione dell’art. 6 cit. risolveva pragmaticamente prevedendo nel modello di dichiarazione che la Direzione regionale delle entrate doveva compilare per la quantificazione del danno anche l’indicazione della “entità del risarcimento del danno ulteriore” rispetto al tributo evaso. Prima dell’emanazione dell’art. 6 cit. la giurisprudenza negava, sulla base della norma generale del c.p., l’applicazione dell’attenuante proprio in considerazione dell’oggetto giuridico tutelato dalla l. n. 516/1982: v. Cass. sez. III pen., del 18/1/1994 citata criticamente da TINTI, Il risarcimento del danno nei processi penali per i reati tributari, in Il Fisco 1998, 4397. La questione è più linearmente (inserendosi in un sistema in cui vengono sanzionate fattispecie di evasione) risolta nell’attuale disciplina dei reati fiscali dall’art. 13 d. lgs. n. 74/2000, che prevede come circostanza attenuante il pagamento del debito tributario (per un completo esame della questione tra vecchio e nuovo ordinamento v. MASTROGIACOMO, Commento all’art. 13 d. lgs. n. 74/2000, in Diritto e procedura penale tributaria, a cura di CARACCIOLI – GIARDA – LANZI, Padova, 2001, 381 ss.). 258 A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA 9 L’Amministrazione Finanziaria ovviamente non dubita della propria qualità di parte offesa e della propria legittimazione a costituirsi parte civile. Essa si è espressa su questo tema nella vigenza dell’attuale sistema penaltributario con la circ. n. 154/E del 2000, nella quale tra l’altro si rileva che la partecipazione diretta al processo consente l’eventuale acquisizione di elementi utili ai fini dell’annullamento parziale o totale della pretesa tributaria o di una sua integrazione. Quanto all’oggetto dell’azione, si osserva che esso non può essere rappresentato, di per sé, dall’esercizio della pretesa tributaria, ma potrà consistere, in sintonia con quanto previsto dall’art. 13 d. lgs. n. 74/2000, in una richiesta di risarcimento del danno coincidente con il debito tributario, comprensivo delle sanzioni amministrative, anche se non applicabili in virtù del principio di specialità tra sanzione penale ed amministrativa sancito dall’art. 19 d. lgs. cit. 11. 10 La dottrina ha trattato la questione della costituzione di parte civile dell’Amministrazione Finanziaria nel processo penaltributario principalmente nella vigenza della l. n. 516/1982 12, ponendosi in primo luogo la questione di fondo, e cioè quella se la pretesa tributaria possa essere oggetto del risarcimento. La risposta è stata, generalmente, negativa. Si osserva a tale proposito, sotto il profilo sostanziale, che la pretesa impositiva trova la sua causa nella capacità contributiva e non nell’illecito, e che pertanto essa non potrà mai essere oggetto di un’azione risarcitoria civile da esercitare nel processo penale 13. Nella relazione di accompagnamento si riconduce tale disposizione a quella generale del codice penale sopra citata, ravvisandosi gli elementi di specialità nei più accentuati effetti premiali. 11 A prescindere da ogni altra considerazione di carattere più generale, per cui si rinvia al prosieguo, si può rilevare che dovrebbe invece escludersi a priori - a parte ogni questione inerente il principio di specialità tra sanzioni penali e sanzioni amministrative fiscali – che le sanzioni possano essere oggetto dell’azione risarcitoria, in quanto la loro irrogazione costituisce esercizio di un potere autoritativo. Conf. Cass., sez. III pen., n. 38710/2004. 12 Invero, la questione è stata controversa fin dall’emanazione della l. n. 4/1929, come illustra NOVARA, Reati in materia di imposte sui redditi e di Iva e costituzione di parte civile dell’Amministrazione finanziaria, in Rass. Trib. 1986, I, 109 ss. 13 RUSSO, Problemi in tema di rapporti tra processo penale e processo tributario, in Riv. Dir. Fin. 1984, I, 453 ss.; BASILAVECCHIA, Dubbi sulla ammissibilità della partecipazione dell’Amministrazione finanziaria al processo penale per i reati tributari, in Rass. Trib. 1986, II, 404 ss.; NOVARA, op. loc. cit.; 259 A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA A tale argomento si aggiungeva poi che stante il bene protetto dalle fattispecie incriminatrici fiscali, di carattere prodromico rispetto all’evasione, mancava qualsiasi collegamento – la cui presenza è invece necessaria per la configurabilità di una responsabilità civile da illecito penale - tra commissione del reato e pretesa tributaria 14. Peraltro, l’individuazione dell’interesse protetto dal legislatore della l. n. 516/1982 con la trasparenza e la corretta attuazione del rapporto fiscale poneva l’ulteriore questione se il danno patrimoniale risarcibile potesse essere individuato proprio nel costo dell’attività amministrativa resa necessaria dalla violazione, da parte del contribuente, dei suoi obblighi fiscali strumentali e se potesse poi configurarsi un danno morale, costituito dalla lesione del prestigio dell’Amministrazione, ovvero dalla lesione dell’interesse “diffuso” 15 alla fedeltà fiscale. Anche a tali interrogativi la dottrina prevalente tendeva a dare risposta negativa, rilevando, tra l’altro, che non può concepirsi un danno, patrimoniale o non, che possa essere fatto valere nel solo processo penale e non anche nella sede civile (non consta, infatti, che l’Amministrazione faccia valere tali danni in sede di procedimento fiscale o in sede civile con separato giudizio) 16. La correttezza di tali conclusioni doveva tuttavia misurarsi con il fatto che, all’epoca, non vigeva un principio di “doppio binario” tra processo tributario e processo penale, ma si manifestava invece un’autorità della cosa giudicata penale, quanto ai fatti materiali accertati, nel processo tributario ai sensi dell’art. 12 l. n. 516/1982. Alcuni osservavano, al riguardo, che in base ai principi generali processuali una tale autorità in tanto poteva legittimamente manifestarsi in quanto fosse data all’Amministrazione finanziaria, parte nel processo tributario, la possibilità di partecipare, quale parte civile, al processo penale 17 18. 14 In questo senso tutti gli Autori citati alla nota precedente. NOVARA, op. loc. cit. 16 Tra gli altri, RUSSO, op. loc. cit. ; BASILAVECCHIA, op. loc. cit.; in termini possibilisti, GALLO, Tecnica legislativa e interesse protetto nei nuovi reati tributari: considerazioni di un tributarista, in Giur. Comm. 1984, I, 303. 17 V. ampiamente sul tema, anche per le citazioni dei numerosi Autori che se ne sono occupati, SCHIAVOLIN, L’utilizzazione fiscale delle risultanze penali, Milano, 1994, passim e spec. 593 ss. L’Autore, alla luce del nuovo codice di procedura penale, ipotizza che la partecipazione dell’Amministrazione al processo quale parte offesa dal reato possa conciliare l’esigenza di un’applicazione dell’art. 12 cit. conforme a Costituzione con la non configurabilità di un’azione di danno della stessa Amministrazione. 18 GLENDI, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984, 801 ss. si pone invece il problema, opposto, dell’inesistenza del potere, in capo al contribuente che intenda in prospettiva far valere in proprio favore l’efficacia del giudicato penale, di far costituire l’Amministrazione nel giudizio penale. 15 260 A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA 11 Venendo ora a qualche osservazione attinente l’ordinamento attuale, si deve subito rilevare che restano insuperabili ed insuperati gli argomenti che si fondano sulla radicale diversità di causa giuridica tra obbligazione tributaria e danno civile. Argomenti che, come si è visto, si pongono a monte della questione del bene giuridico protetto dai reati fiscali. Ne consegue che, sebbene nell’attuale sistema del d. lgs. n. 74/2000 tale bene sia costituito dall’obbligo di contribuzione alle spese pubbliche, come disciplinato dal legislatore, e quindi i reati colpiscano fattispecie di evasione, deve restare fermo, in linea di principio, che la pretesa tributaria non può costituire oggetto dell’azione risarcitoria da esercitare nel processo penale mediante la costituzione di parte civile dell’Agenzia delle Entrate. Si noti, al riguardo, che – come risulta anche dalla relazione al codice nell’attuale disciplina il sistema processualpenalistico tende a privilegiare, attraverso una serie di regole, l’esercizio dell’azione civile nella sede sua propria, e cioè appunto quella civile, per evitare che il problema del risarcimento del danno condizioni l’accertamento della responsabilità penale 19 , alterando tra l’altro l’equilibrio delle parti del processo 20. Già tale sistema depone, quindi, per la non ammissione dell’Agenzia quale parte civile. Ma a guardare la stessa questione dal versante fiscale, una tale conclusione non può che uscirne rafforzata. Ed infatti, il sistema del procedimento di accertamento, di riscossione, dell’accertamento del debito di imposta nel processo tributario, appare in sé perfettamente concluso e ben suscettibile di assicurare il perfetto soddisfacimento degli interessi erariali nella sede loro propria, senza permettere sconfinamenti nella sede penale. Questa considerazione vale a maggior ragione se si riflette che la costituzione di parte civile permetterebbe all’Agenzia di avvalersi di strumenti cautelari ulteriori – e a diverse condizioni – rispetto a quelli già esaustivamente previsti dalle norme fiscali, quali il sequestro o la confisca 21. 19 Si potrebbe obiettare, al riguardo, che la costruzione dei reati fiscali prevede il superamento di determinate soglie di evasione, per cui il giudizio penale deve comunque avere ad oggetto la determinazione della pretesa fiscale. Tuttavia, altro è il fatto del superamento della soglia, altra è la quantificazione esatta della pretesa tributaria, e tanto più del danno nel suo complesso, ove esso dovesse comprendere anche il “costo dell’accertamento” e i danni morali. 20 V. per tutti sul punto TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 2011, 156 ss. 21 Cass. n. 38710/2004 cit. rileva che solo l’Amministrazione finanziaria, attraverso la costituzione di parte civile, a non anche il P.M. è legittimata a far valere le proprie pretese risarcitorie; quest’ultimo, quindi, non è legittimato a chiedere il mantenimento del sequestro. Cass., sez. III pen., n. 10120/2011 si occupa invece della confisca e dei suoi rapporti con gli esiti del procedimento fiscale, stabilendo che in caso di definizione della pretesa fiscale viene meno il presupposto della confisca. 261 A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA Ed infine, depone naturalmente in questo senso il fatto che nella disciplina attuale è codificato dall’art. 20 d. lgs. n. 74/2000 il principio di totale indipendenza tra i processi penale e tributario 22, che ha fatto venir meno le questioni che si agitavano nella vigenza dell’art. 12 l. n. 516/1982. 12 L’assetto complessivo dell’assai articolata disciplina dei rapporti tra procedimento e processo tributario da un lato e processo penale dall’altro impone tuttavia cautela nelle conclusioni. In primo luogo, si deve considerare che l’art. 13 l. n. 74/2000 prevede che il pagamento del debito tributario, anche mediante adesione o conciliazione, costituisce circostanza attenuante nel processo penale. Questa disposizione può essere letta in due divergenti prospettive. Da un lato, infatti, potrebbe ritenersi che la sua funzione sia semplicemente quella di non escludere irragionevolmente che nel processo penaltributario il reo potesse fruire dell’attenuante prevista in via generale dall’art. 62 c.p. 23; dall’altro, essa potrebbe essere considerata la conferma che il danno che si può far valere in sede penale è costituito proprio dal tributo evaso. Ambivalente appare anche la previsione del successivo art. 14, per il quale se i debiti fiscali risultano estinti per prescrizione o decadenza, il reo può fruire dell’attenuante offrendosi di pagare una somma da lui indicata a titolo di equa riparazione dell’offesa recata all’interesse pubblico tutelato dalla norma violata. Questa norma da un lato sembra risolvere negativamente la questione, che era stata posta nel previgente sistema, della possibilità per l’Amministrazione di costituirsi parte civile per far valere l’intero debito fiscale nel caso in cui la pretesa tributaria non potesse essere più azionata nelle sedi proprie. Dall’altro, lascia intendere che esiste un’offesa all’interesse erariale, considerata come tale nel processo penale, valutabile economicamente, anche se il suo ammontare non coincide con quello dell’imposta che si assume evasa 24. In secondo luogo, si deve considerare che il declamato principio del “doppio binario” mostra limiti sempre più evidenti. Oltre a quelli indicati dalla sentenza “Dolce & Gabbana”, non possono qui non menzionarsi quelli, evidentissimi, derivanti dalla nuova disciplina dei “costi da reato” di cui 22 L’eventuale costituzione dell’Agenzia quale parte civile porrebbe poi il problema, che non può essere qui trattato ma per il quale si rinvia alla trattazione da parte di SCHIAVOLIN e GLENDI, citt., dell’esistenza di preclusioni probatorie nel processo tributario idonee ad escludere che il giudicato penale faccia in esso stato ai sensi dell’art. 654 c.p.p. 23 V. retro nota 10. 24 Probabilmente si potrebbe riproporre in questo caso la questione se il danno possa essere costituito dal “costo dell’accertamento”, ovvero discendere dalla lesione di interessi morali. 262 A MARGINE DELLA SENTENZA DOLCE&GABBANA: LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA all’art. 14, comma 4 bis, l. n. 537/1993. Stante il fatto che il legislatore ha previsto – per tentare di puntellare la legittimità costituzionale di una disposizione che aveva e conserva evidenti profili di illegittimità – che una sentenza penale definitiva favorevole al contribuente comporta il rimborso dell’imposta eventualmente versata a seguito della ripresa a tassazione dei costi, come si potrà negare, sia pure ferme restando tutte le decisive obiezioni sopra mosse, la legittimazione dell’Agenzia a costituirsi parte civile? 13 Un accenno finale ad un problema che mi sembra di grande rilievo, e cioè quello della possibile dissociazione soggettiva tra contribuente ed imputato, problema che costituisce una sorta di “convitato di pietra” nella questione in esame. Ammettendo infatti che l’Agenzia possa costituirsi parte civile, quale danno può essere fatto valere nei confronti dell’imputato che sia ad esempio l’amministratore della società che ha posto in essere l’ipotizzata violazione fiscale? Può essere tale danno costituito dal debito d’imposta della società? Il tema – a quanto mi consta – è stato affrontato, e risolto affermativamente, solo nell’ipotesi, invero marginale, in cui l’Amministrazione sia impossibilitata a far valere la sua pretesa in capo alla società per fatto (illecito) imputabile allo stesso amministratore, configurandosi in effetti in questo caso una fattispecie di danno civile 25. Mi sembra che invece, in termini generali, la risposta debba essere, per gli stessi motivi ora indicati, negativa. Ed infatti, non sussiste alcuna obbligazione tributaria tra l’imputato e l’Amministrazione su cui il preteso danno possa fondarsi, né – a parte appunto l’ipotesi marginale sopra esaminata – alcun illecito civile riconducibile all’imputato stesso. Non senza considerare, ancora una volta, che la legge fiscale disciplina in modo tassativo ed esaustivo le ipotesi in cui può essere azionato, in sede di riscossione, un debito fiscale altrui (art. 36 d.p.r. n. 602/1973 che prevede la responsabilità degli amministratori/liquidatori) e che non sembra che essa possa essere superata tramite l’esercizio dell’azione di responsabilità civile nel processo penale (come, ancora una volta, non consta che una tale azione di danno sia mai stata esercitata nella sede civile). 25 RUSSO, op. cit., nota (24). 263 Prof. Filippo Sgubbi Professore Università di Bologna Relazione sui profili penali La relazione sarà inserita nel sito www.uckmar.net Avv. Paolo Stizza Dottore di ricerca presso l’Università di Bergamo L’obbligo del contraddittorio in caso di contestazione di operazioni abusive SOMMARIO: 1 Premessa - 2 La giustizia tributaria nell’accertamento e l’obbligo del contraddittorio come principio generale dell’ordinamento. - 3 L’estensione analogica delle garanzie procedimentali previste dall’art. 37-bis del d.p.r. n. 600 del 1973 alle ipotesi di contestazioni basate sull’abuso del diritto. - 4 Le conseguenze derivanti dalla violazione dell’obbligo del contraddittorio nella fase endoprocedimentale 1 Premessa Come noto, se nell’ordinamento tributario italiano esiste un principio generale antiabuso fondato in alcuni casi su una norma, in altri su un principio generale comunitario e in altri ancora sul principio di capacità contributiva, detto principio generale, nella sua fase attuativa e applicativa, dovrebbe passare attraverso un procedimento unico e unificato perché se il bene protetto (il contrasto all’elusione) è unico, unica deve essere la procedura per accertarla, con uguale garanzia per tutti i contribuenti. Tuttavia, de lege lata abbiamo un procedimento speciale che include un contraddittorio, disciplinato dall’art. 37-bis del d.p.r. n. 600 del 1973 (d’ora in avanti, art. 37-bis), e un procedimento generale che non ha alcuna disposizione ad hoc. Considerando, poi, che l’art. 37-bis è stato considerato dalla Cassazione 1 come un minus specifico, contenuto nel plus dato dal principio generale emergono profili problematici nella specificazione del procedimento applicabile. Ci si dovrà, dunque, domandare se esista un obbligo di contraddittorio insito nell’ordinamento e conseguentemente domandarsi quale tipologia di contraddittorio sia necessario applicare alle fattispecie abusive. In particolare, sarà opportuno chiedersi se possano essere estese le garanzie procedimentali previste dall’art. 37-bis del d.p.r. n. 600 del 1973 a tutte le fattispecie abusive e conseguentemente se la richiesta obbligatoria di chiarimenti e l’obbligo di motivazione rafforzata siano applicabili anche alle fattispecie di rettifica per divieto di abuso, al di fuori delle fattispecie indicate dall’art. 37-bis. 1 Cfr. Cass., sentenza n. 12042 del 2009. In tal senso vedi E. Marello, Elusione fiscale ed abuso del diritto: profili procedimentali e processuali, in Giurisprudenza italiana, 2010. L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI OPERAZIONI ABUSIVE Tanto più alla luce del consolidarsi di un orientamento secondo il quale sarebbe insito nel nostro ordinamento un obbligo di contraddittorio che si può rinvenire non solo nell’ordinamento comunitario ma anche nei principi stabiliti dallo Statuto dei diritti del contribuente. 2 La giustizia tributaria nell’accertamento e l’obbligo contraddittorio come principio generale dell’ordinamento. del Come ormai noto, dalla giurisprudenza europea emerge chiaramente che il principio del contraddittorio assurge a principio generale dell’ordinamento comunitario2 il quale si deve estende ai tributi armonizzati. Il riferimento è chiaramente alla sentenza Sopropè3, con la quale la Corte di Giustizia ha affermato che “il rispetto dei diritti di difesa costituisce un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo. In forza di tale principio i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione. A tal fine essi devono beneficiare di un termine sufficiente”. In tale pronuncia emergono in modo chiaro i tratti della partecipazione difensiva4 ovvero la necessità che il contribuente sia messo al corrente delle contestazioni che l’Amministrazione finanziaria intende muovere nei suoi confronti per poter manifestare utilmente il proprio punto di vista; la necessità “che l’Amministrazione esamini, con tutta l’attenzione necessaria, le osservazioni della persona o dell’impresa coinvolta”, riservandosi il congruo lasso di tempo e, si potrebbe aggiungere, dimostrando che vi sia stata considerazione per gli argomenti difensivi. Evidentemente la violazione di tali obblighi si tradurrebbero nell’illegittimità della pretesa impositiva per violazione del diritto comunitario, con un vizio rilevabile in ogni stato e grado del processo. Certamente questo principio può essere riferito ai soli tributi armonizzati. In tale ambito, dunque, rientrerebbero non solo la materia doganale ed accise, ma anche ovviamente l’IVA in tutti i casi in cui l’accertamento non è preceduto da un processo verbale di constatazione e non risultano applicabili 2 Sulla giurisprudenza comunitaria si permetta il rinvio a P. Stizza, Nuovi profili del contraddittorio nell’accertamento sintetico, in La concetrazione della riscossione nell’accertamento, V. Uckmar, C. Glendi (a cura di), Padova, 2011, p. 365 ss. 3 Corte di Giustizia UE, 18 dicembre 2008, causa C-349/07, in GT-Riv. dir. trib., 2009, p. 203 con commento di A. Marcheselli, Il diritto al contraddittorio nel procedimento amministrativo tributario è diritto fondamentale del diritto comunitario. Il precedente di tale decisione si può rinvenire nella sentenza Cipriani, 12 dicembre 2002, causa C-395/00 in materia di accise relativa ad una controversia fra Distillerie Fratelli Cipriani SpA contro Ministero delle Finanze. 4 Così L. Salvini, La cooperazione del contribuente e il contraddittorio nell’accertamento, Corr. trib., 2009, p. 3576. 268 L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI OPERAZIONI ABUSIVE le disposizioni dell’art. 12 dello Statuto dei diritti del contribuente sulla facoltà del contribuente di presentare deduzioni prima dell’emissione dell’atto impositivo. Tale principio generale potrebbe essere certamente applicato anche alle imposte dirette nel caso in cui l’amministrazione fiscale di uno Stato membro intenda escludere la possibilità di godere di determinati vantaggi fiscali che possano incidere nell’esercizio di una delle libertà fondamentali garantite dal diritto europeo. Escludendo tali ipotesi, sull’applicabilità dell’obbligo del contraddittorio anche nell’ambito delle imposte dirette non c’è certamente un sicuro dato normativo. Anzi. Stante l’inapplicabilità alla materia tributaria dell’art. 13 della l. n. 241 del 1990, la partecipazione del contribuente al procedimento tributario doveva essere espressamente prevista dal legislatore. Alcuni ritengono che il referente normativo vada rinvenuto nell’art. 12, comma 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, il quale non deve essere applicato solamente nei procedimenti che si concludono con il rilascio del verbale di chiusura ma anche alle verifiche c.d. a tavolino, in quanto le esigenze di partecipazione del contribuente non possono mutare col mutare della metodologia di indagine seguita dall’ufficio 5. E’, tuttavia, vero che l’influenza che sta avendo il diritto comunitario sul diritto nazionale potrebbe spingere la Suprema Corte di Cassazione a rinvenire il fondamento di tale principio, nei tributi non armonizzati nell’art. 97 della Cost. secondo il principio di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa. Pur in assenza di una norma scritta che preveda l’obbligo di contraddittorio nella fase endoprocedimentale, il principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost. dovrebbe portare alla sua affermazione, come, peraltro, è avvenuto in tema di abuso del diritto da parte delle Sezioni Unite della Cassazione sulla base degli artt. 3 e 53 della Cost.6 In tal modo si verrebbe ad assecondare un 5 In tal senso cfr. A. Viotto, I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria nel quadro dei diritti inviolabili di libertà sanciti dalla costituzione, Milano, 2002, 314. Contra R. Miceli, La partecipazione del contribuente alla fase istruttoria, in A. Fantozzi, A. Fedele (a cura di), Statuto dei diritti del contribuente, p. 690, secondo cui il comma 7 dell’art. 12 ha previsto la garanzia della partecipazione del contribuente nella fase accertativa solo nel caso in cui vi fossero delle verifiche svolte presso il contribuente. Diversamente non risulta la predisposizione di processi verbali di chiusura nell’ambito di indagini svolte presso gli Uffici. 6 Sulla necessità di estendere il principio del contraddittorio anche alle ipotesi non espressamente previste cfr. G. Ragucci, Il contraddittorio come principio generale dell’ordinamento comunitario, in Bancadati Fisconline a commento della sentenza CE causa C-349/07. In precedenza si era espresso per la necessità di una sua introduzione F. Moscehtti, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino, in Dir. prat. trib., 1983, p. 1938, secondo cui la funzione di imposizione tributaria non può essere svolta secondo il principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., se prima del suo esercizio non vengano sentite le ragioni del soggetto passivo di tale funzione. Conforme successivamente, A. Di Pietro, Il contribuente nell’accertamento delle imposte sui redditi: dalla collaborazione al contraddittorio, in V. Uckmar (a cura di), 269 L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI OPERAZIONI ABUSIVE moto evolutivo delle forme dell’intervento pubblico nella materia dei tributi che le adegua agli standards europei7. Un supporto fondamentale potrebbe venire dalla forza espansiva dei principi stabiliti dalla CEDU ed in particolare dall’applicabilità dell’art. 6 CEDU anche alla materia tributaria, per ora esclusa nonostante significative aperture8. L’obbligo di contradditorio, viepiù, è stato considerato immanente nel sistema tributario in forza del principio generale dell’azione amministrativa del giusto procedimento qualora l’Ufficio faccia ricorso a delle presunzioni semplici9. Nel presupposto che l’interesse fiscale non possa costituire una deroga al principio di capacità contributiva effettiva, né al diritto di difesa o ai principi del giusto procedimento, è necessario enfatizzare il ruolo del contradditorio come espressione di un principio generale dell’ordinamento la cui violazione o irregolarità comporterà la nullità insanabile del successivo avviso di accertamento. In particolare negli accertamenti di tipo presuntivo che operano un sostanziale inversione dell’onere probatorio il contraddittorio è un elemento essenziale ed imprescindibile del giusto procedimento in quanto costituisce il mezzo più efficace per consentire un necessario adeguamento delle presunzioni alla concreta realtà reddituale oggetto dell’accertamento. L’accertamento dell’elusione implica, infatti, in ogni settore dell’ordinamento tributario, l’esercizio di un’ampia e complessa attività valutativa, soprattutto in relazione alle valide ragioni economiche, la quale viene sempre più frequentemente effettuata tramite il ricorso a presunzioni semplici (o semplicissime), che in quanto tali comportano margini di errore nella determinazione dell’imponibile da sottoporre a tassazione10. L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano, I settanta anni di Diritto e pratica tributaria, Padova, 2000, p. 577. 7 A. Di Pietro, La tutela del contribuente nel nuovo acquis europeo del diritto tributario formale, A. Di Pietro (a cura di), La tutela europea ed internazionale del contribuente nell’accertamento tributario, Padova, 2009, p. VII e ss. 8 Il riferimento è alla sentenza Ravon della Corte europea dei diritti dell’uomo e alla precedente sentenza Jussila. Per un’approfondita analisi della portata espansiva di tale pronunce e più in generale per la tutela del contribuente nell’integrazione giuridica europea si rinvia per tutti a L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010. 9 Così Sentenza della Corte di Cassazione n. 2816 del 2008. Successivamente le Sezioni Unite della Cassazione nella sent. n. 26635 del 18 dicembre 2009 hanno sancito la nullità dell’avviso di accertamento non preceduto dall’invito al contraddittorio nell’ambito di un accertamento basato sui parametri e sugli studi di settore 10 Sull’assolvimento dell’onere della prova da parte dell’Ufficio in ipotesi di abuso del diritto si rinvia all’attento studio di P. Russo, L’onere probatorio in ipotesi di “abuso del diritto” alla luce dei principi elaborati in sede giurisprudenziale, in Il fisco, 2012, p. 1301. 270 L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI OPERAZIONI ABUSIVE Come giustamente è stato affermato, anche le disposizioni antielusive incidono sulla consistenza della prestazione patrimoniale 11. Per tale ragione, anche a garanzia dell’efficienza e dell’imparzialità dell’agire amministrativo, il legislatore ha ritenuto opportuno prevedere a carico dell’autorità procedente, come giusto contrappeso alla sua attività valutativa, l’obbligo di interpellare il contribuente, ponendolo in condizione di produrre gli elementi e i dati utili per una corretta ricostruzione della fattispecie. Se, dunque, siamo in presenza di un principio generale dell’ordinamento applicabile anche ai tributi non armonizzati è evidente che ci dovrà chiedere quale tipo di garanzie procedimentali possano essere riservate alle contestazioni fondate sull’abuso del diritto, di derivazione costituzionale o comunitaria, in assenza di una norma espressa. 3 L’estensione analogica delle garanzie procedimentali previste dall’art. 37-bis del d.p.r. n. 600 del 1973 alle ipotesi di contestazioni basate sull’abuso del diritto. La formula dell’art. 37-bis del d.p.r. n. 600 del 1973 stabilisce che non sono opponibili al Fisco “gli atti, fatti e i contratti anche fra loro collegati (...) privi di valide ragioni economiche diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”. Secondo la definizione della Suprema Corte di Cassazione, invece, il divieto di abuso del diritto è un “generale principio antielusivo” riassumibile nella seguente massima “il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”12. Appare evidente che vi è una quasi perfetta coincidenza della norma di cui all’art. 37-bis e del principio antiabuso di matrice giurisprudenziale: dove la norma sull’elusione fa riferimento a “riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”, il principio dell’abuso impiega l’espressione “indebiti vantaggi fiscali”; mentre il primo richiama “atti fra loro collegati (...) diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario”, il secondo si riferisce allo “utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici”; infine, l’elusione riguarda gli atti “privi di valide ragioni economiche”, l’abuso di diritto ha ad oggetto operazioni realizzate “in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione”. E’ evidente che le due nozioni tendono a coincidere quanto all’efficacia prescittiva, ovvero la non opponibilità all’Amministrazione finanziaria di talune condotte e all’individuzione dei caratteri generali della condotte non 11 Cfr. M. Beghin, «L'abuso del diritto tra rilevanza del fatto economico e poteri del magistrato », in Corr. Trib. n. 40/2009, pag. 3288 12 Così SS.UU., 23 dicembre 2008, n. 30055. 271 L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI OPERAZIONI ABUSIVE opponibili13. Esse si differenziano per ciò che attiene all’ambito di applicazione: il principio generale riguarda qualunque operazione, il 37-bis ha ad oggetto solo talune operazioni fiscali elencate nel terzo comma. Ebbene, come affermato dalla stessa Corte di Cassazione 14, l’art. 37-bis, si pone come species del genus più ampio dell’abuso del diritto, divenendo una disposizione meramente ricognitiva di un principio generale, già insito nell’ordinamento. Conseguentemente, se una medesima fattispecie ricade nell’ambito applicativo di entrambe le norme, il concorso fra norme va risolto in base al principio di specialità15, ossia deve trovare applicazione la norma la cui fattispecie presenta maggiori elementi caratterizzanti e risulti, pertanto, “speciale” rispetto all’altra. Tale specificazione ha una ricaduta applicativa molto significativa in punto di garanzia procedimentali concesse dall’ordinamento. Abbiamo, infatti, un procedimento speciale che include un contraddittorio, disciplinato ex lege, e un procedimento generale che non ha alcuna disposizione ad hoc. Come già ricordato, se nell’ordinamento tributario italiano esiste un principio generale antiabuso fondato in alcuni casi su una norma, in altri su un principio generale comunitario e in altri ancora sul principio di capacità contributiva, detto principio generale, nella sua fase attuativa e applicativa, dovrebbe passare attraverso un procedimento unico e unificato perché se il bene protetto (il contrasto all’elusione) è unico, unica deve essere la procedura per accertarla, con uguale garanzia per tutti i contribuenti. Orbene per taluni, l’unico procedimento previsto è quello disciplinato dall’art. 37-bis e quindi gli atti di accertamento al di fuori di detta procedura sono illegittimi. Se così non si concludesse, palese sarebbe la violazione della Costituzione perché un diverso trattamento di identiche fattispecie comporterebbe la violazione dell’art. 3 (principio di uguaglianza), dell’art. 24 (diretto alla difesa) e dell’art. 97 (imparzialità della pubblica amministrazione). In dottrina, infatti, è stato riconosciuto che l’orientamento giurisprudenziale costituisce, in sostanza, un’intepretazione abrogatrice del comma 3, che limita l’applicazione del principio antiabuso alle operazioni ivi tassativamente indicate16. Nei commi successivi non vi sono limitazioni. Devono perciò essere sempre applicati nel settore delle imposte sul reddito, anche quando l’azione della finanza non riguarda una delle operazioni 13 In tal senso cfr. G. Fransoni, Abuso di diritto, elusione e simulazione: rapporti e distinzioni, in Corr. trib., 2011, p. 13. 14 Cass., sentenza n. 12042 del 2009. 15 Per questa definizione si rinvia a A. Pagliaro, “Concorso di norme” (dir. pen.), in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 545. Secondo l’Autore, alla base del principio di specialità vi è l’esigenza di attribuire la possibilità di applicazione alla norma speciale, giacché se anche nelle ipotesi in cui questa è applicabile si dovesse dare la precedenza alla disposizione generale, la norma speciale non si applicherebbe mai. 16 Così per tutti cfr. F. Tesauro, La motivazione degli atti d’accertamento antielusivi ed i suoi riflessi processuali, in Corr. trib., 2009, p. 3634. 272 L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI OPERAZIONI ABUSIVE indicate nell’art. 37-bis, ma assume come sua “ragione giuridica” la clausola generale antielusiva. Logica vorrebbe che se il contrasto dell'elusione è generalmente applicabile proprio perché di natura costituzionale, identica fosse la procedimentalizzazione per tutti i tributi, diretti e indiretti, comunitari e nazionali, a pena di avere un «abuso » di prima serie e un «abuso » di serie minore, uno disciplinato e tutelato, a forma obbligata, e uno libero. Con la conseguenza che, nel momento in cui in ultima istanza si contestasse a un contribuente una scelta elusiva, costui potrebbe invocare l'insussistenza della pretesa perché azionata al di fuori e a prescindere dalle forme rigorose previste dall'art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e quindi con violazione del principio di uguaglianza. Se il principio invocato è unico e unificato, unica deve essere la procedura di contestazione 17. Per tale ragione il procedimento disciplinato dall'art. 37-bis non può che ritenersi applicabile anche alle operazioni riconducibili al fenomeno elusivo (abusivo) di origine giurisprudenziale. Configurandosi una lacuna tecnica 18 in materia di accertamento delle attività abusive, il procedimento speciale previsto dall'art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973 può dunque trovare applicazione analogica, con conseguente estensione dei diritti e obblighi, ivi previsti a tutela del contribuente, all'accertamento di operazioni abusive 19. Come noto sia le operazioni elusive ex art. 37-bis sia quelle abusive le quali trovano fondamento nella Costituzione hanno la stessa ratio legis quantomeno sotto il profilo degli effetti. In entrambi i casi, infatti, vengono disconociuti gli effetti fiscali di taluni atti giuridici, rendondoli inopponibili all’Amministrazione finanziaria. Per altri, diversamente l’art. 37-bis rappresenta una norma ad applicazione tassativa: il comma 3 limita l’ambito applicativo della norma. Estendere le garanzie procedimentali ex art. 37-bis alle fattispecie abusive si risolverebbe in un’interpretazione abrogante dello stesso, nel quale il legislatore ha voluto legittimare uno specifico potere, circondato nel suo esercizio da apposite cautele. L’interprete non può, dunque, estendere il procedimento di cui all’art. 37-bis alle fattispecie abusive ma al più potrà rilevare l’illegittimità costituzionale dello stesso articolo20. Ritenere necessario un contraddittorio generico nel corso del procedimento di rettifica è ben diverso dal ritenere applicabile proprio il procedimento di cui all’art. 37-bis. 17 G. Marongiu, Abuso del diritto, poteri di accertamento e principio di legalità, in Corr. trib., 2009, p. 3631. 18 Cfr. Bobbio, Lacune del diritto, in Nov. Dig. It., IX, Torino, 1963, 423, per la distinzione tra lacuna ideologica e lacuna tecnica. 19 In tal senso cfr. M. Pierro, Abuso del diritto: profili procedimentali, in Giust. trib., 2009, p. 410, la quale ritiene analogicamente estendibile il procedimento di cui all’art. 37-bis anche nell’accertamento di operazioni abusive configurabili nelle imposte indirette. Contra G. Zizzo, Clausola antielusione e capacità contributiva, Rass. trib., 2009, p. 486. 20 In tal senso cfr. E. Marello, op. cit. 273 L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI OPERAZIONI ABUSIVE Un altro modulo applicativo del contraddittorio si rinviene nell’art. 12, comma 7 della legge n. 212/2000 grazie al quale il contribuente può, entro sessanta giorni dalla notifica del verbale, presentare osservazioni e l’avviso di accertamento non può essere emanato prima del decorso di tale termine e della (facoltativa) presentazione di osservazioni. Anche questa può essere considerata un’attuazione del contraddittorio se, poi, alla facoltà di proporre osservazioni viene aggiunta l’invalidità della motivazione che non dia conto dei motivi per i quali le osservazioni presentate dal contribuente sono da rigettare. questa si aggiunge Una reale lacuna residuerebbe nel caso in cui la rettifica per ragione di abuso emergesse per la prima volta nell’atto impositivo sia perché il funzionario che forma l’avviso si discosta dal verbale, sia perché manca, per i più svariati motivi, il processo verbale di chiusura delle operazioni, o il contribuente non è stato chiamato a formulare le proprie osservazioni in relazione al negozio che si presume abusivo. Tuttavia, a ben vedere, il contraddittorio ex art. 37-bis e quello ex art. 12, comma 7, dello Statuto non rappresentano forme partecipative interscambiabili per cui, in mancanza di uno, è possibile avvalersi dell’altro. Anche se fosse possibile difendersi da una contestazione di abuso del diritto già in sede di osservazioni al processo verbale ex art. 12, comma 7, dello Statuto, risulta comunque imprescindibile una fase di interlocuzione ex art. 37-bis, quarto comma. A nulla dovrebbe rilevare che l’abusività di una condotta sia emersa già nel momento della chiusura della verifica. Inoltre con l’art. 12, comma 7, è il soggetto interessato alla verifica che, spontaneamente, può attivare la fase di interlocuzione endoprocedimentale. Diversamente, l’art. 37-bis, quarto comma, inizia proprio con un atto di impulso dell’Amministrazione procedente, obbligatorio e motivato a pena di nullità. A ciò si aggiunga che maggiore tutela è fornita in termini di invalidità dell’atto non preceduto da richiesta di chiarimenti 21. 4 Le conseguenze derivanti dalla violazione contraddittorio nella fase endoprocedimentale dell’obbligo del La previsione dell’obbligo del contraddittorio pone il problema di verificare le conseguenze, sul piano dell’invalidità del successivo avviso di accertamento, della mancata attivazione dello stesso da parte dell’Ufficio 22. 21 E’ noto che, infatti, che vi è un contrasto giurisprudenziale in tema invalidità dell’avviso di accertamento notificato prima dello scadere del termine di 60 giorni previsto dall’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 200021. La questione di recente è stata rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. 22 Sulle conseguenze della violazione del contraddittorio per tutti si rinvia al recente contributo di A. Fantozzi, Violazioni del contraddittorio e invalidità degli atti tributari, in Riv. dir. trib., 2011, I, p. 137 ss. L’influenza del diritto europeo nella disciplina generale sull’azioni amministrativa è analizzata da L. Del Federico, La 274 L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI OPERAZIONI ABUSIVE L’estensione analogica delle garanzie procedimentali contenute nell’art. 37bis alle fattispecie abusive porterebbe con se maggiori garanzie in termini di invalidità degli avvisi di accertamento non rispettosi delle garanzie ivi previste. Ai sensi dell’art. 37-bis, commi 4, 5 e 6, “4. L'avviso di accertamento è emanato, a pena di nullità, previa richiesta al contribuente anche per lettera raccomandata, di chiarimenti da inviare per iscritto entro 60 giorni dalla data di ricezione della richiesta nella quale devono essere indicati i motivi per cui si reputano applicabili i commi 1 e 2. 5. Fermo restando quanto disposto dall'articolo 42, l'avviso d'accertamento deve essere specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alle giustificazioni fornite dal contribuente e le imposte o le maggiori imposte devono essere calcolate tenendo conto di quanto previsto al comma 2. 6. Le imposte o le maggiori imposte accertate in applicazione delle disposizioni di cui al comma 2 sono iscritte a ruolo, secondo i criteri di cui all'art. 68 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 , concernente il pagamento dei tributi e delle sanzioni pecuniarie in pendenza di giudizio, unitamente ai relativi interessi, dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale.” Nell’art. 37-bis del d.p.r. n. 600 del 1973 è contenuto l’obbligo di invitare il contribuente a esporre le proprie deduzioni “a pena di nullità” e sempre a pena di nullità, l’avviso di accertamento deve motivare in relazione alle giustificazioni fornite dal contribuente, la c.d. motivazione rafforzata. L’espressa previsione della sanzione della nullità dell’avviso benché per parte della dottrina non elimini completamente il dubbio circa la possibilità di individuare una nullità in senso proprio, è comunque sufficiente ad escludere che il vizio contemplato possa essere considerato di carattere meramente formale e come tale inidoneo a produrre l’annullamento ex art. 21 octies, 2 comma della l. n. 241 del 199023. Da tutto ciò ne consegue che nel caso di attivazione del contraddittorio e di risposta del contribuente, l’ufficio dovrà tenere in debita considerazione le osservazioni del contribuente al fine di non rendere vano, nei fatti, l’attivazione del contraddittorio stesso. In altre parole il contraddittorio anticipato non deve essere trasformato in un mero passaggio formale ma l’Ufficio dovrà dare conto nella motivazione delle ragioni che eventualmente rilevanza della legge generale sull’azione amministrativa in materia tributaria e l’invalidità degli atti impositivi, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 729. 23 In tal senso cfr. M. Basilavecchia, Per l’effettività del contraddittorio, in Corr. trib., 2009, p. 2369. L’art. 21 octies, 2 comma della l. n. 15 del 2005 modificativa della l. n. 241 del 1990 prevede che “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.” Sulle diverse posizioni dottrinali circa l’applicabilità della legge n. 241 del 1990 in materia tributaria si rinvia all’articolo A. Fantozzi, op. cit., p. 150 e ss. 275 L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI OPERAZIONI ABUSIVE la porteranno a disattendere la posizione del contribuente (la c.d. motivazione rafforzata). Anche con riferimento a questo si può richiamare le sentenze della Cassazione a Sezioni Unite, n. 26635, 26636, 26637, 26638 del 2009 che hanno specificato che “la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel mero rilievo del predetto scostamento dai parametri, ma deve essere integrata con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente in sede di contraddittorio”. Anche la Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 244 del 200924 ha sottolineato la centralità della motivazione dell’atto di accertamento che nel caso di specie doveva contenere le ragioni di particolare urgenza contenute nell’art. 12 dello Statuto che possono giustificare la compressione dei sessanta giorni entro i quali il contribuente può presentare le deduzioni al processo verbale di constatazione prima della notifica dell’avviso di accertamento. La Corte Costituzionale ha ribadito che i vizi della motivazione danno luogo ad insanabile nullità dell’atto e non a mera irregolarità. L’omessa valorizzazione degli elementi offerti dal contribuente comporterebbe un illegittimo sacrificio dei valori del diritto alla difesa in sede procedimentale e del buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione. Pertanto, nel caso in cui l’Ufficio omettesse di considerare le osservazioni del contribuente in sede di contraddittorio, l’atto di accertamento sarebbe illegittimo per difetto di motivazione come riconosciuto dalla Corte di Cassazione in un caso nel quale l’Ufficio non aveva adeguatamente replicato alle deduzioni del contribuente in sede di applicazione del redditometro 25. Alla luce di tali principi non si condivide l’orientamento contenuto in una recente sentenza della Cassazione26, secondo cui non sono state violate le garanzie di cui all’art. 37-bis, comma 4, nel caso in cui la verifica si chiuda con un processo verbale di constatazione. Secondo la Suprema Corte, benché non si stato attivato il procedimento di cui all’art. 37-bis, “il contraddittorio con la contribuente – a conoscenza della quale erano stati portati, prima dell’emissione dell’avviso di accertamento, tutti i rilievi operati dai verificatori – è stato regolarmente instaurato dall’Amministrazione, prima dell’emanazione dell’atto impositivo…” E’ evidente, dunque, che l’obbligo di contraddittorio ex art. 37-bis darebbe maggiori garanzie in termini di tutele e di maggior aderenza della pretesa tributaria all’effettiva capacità contributiva del contribuente. L’estensione di tali garanzie procedimentali consentirebbe all’Ufficio di iscrivere a ruolo l’imposta solo dopo la sentenza di primo grado. Concludendo è altresì evidente che per porre rimedio ad una situazione di estrema incertezza v'è una sola via, quella del consenso istituzionale, del confronto ed eventualmente della legge di cui già si discute nel progetto di legge delega secondo il quale dovrà essere introdotta una norma antielusive 24 In Corr. trib., n. 36 del 2009 con commento di A. Marcheselli. Cass., 22 febbraio 2008, n. 4624. In tal senso in dottrina cfr. M. Marcheselli, op. cit. 26 Cass., n. 7393 del 11 maggio 2012 su banca dati Fisconline. 25 276 L’OBBLIGO DEL CONTRADDITTORIO IN CASO DI CONTESTAZIONE DI OPERAZIONI ABUSIVE generale che dovrà prevedere, specifiche regole procedimentali, che garantiscano un efficace contraddittorio con l’amministrazione fiscale e salvaguardino il diritto di difesa in ogni fase del procedimento di accertamento ed in ogni stato e grado del giudizio tributario. 277 Prof. Francesco Tesauro Professore Università Milano - Bicocca L’abuso nel diritto tributario italiano (testo provvisorio) SOMMARIO: 1 Premessa. - 2 La riqualificazione dei negozi nell’imposta di registro. - 3 Le norme con ratio antielusiva e l'art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. - 4 L’atto impositivo antielusivo: procedimento e motivazione. - 4.1 Il procedimento e la motivazione dell’atto impositivo antielusivo. - 5 Il divieto di abuso come clausola generale non scritta, nel diritto comune e nel diritto fiscale. - 5.1 Applicazione delle norme procedimentali contenute nell’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 ad ogni ipotesi di accertamento antielusivo. - 6 Il rilievo d’ufficio, nei processi di rimborso, delle eccezioni relative ai vizi dei negozi posti a base della domanda. 6.1 Il rilievo d’ufficio, nei processi d’impugnazione, di eccezioni non consentite neppure alla parte resistente. - 7 La cassazione delle sentenze di merito per difetto di esame ex officio della (possibile) elusività della condotta del contribuente. - 8 Doppia concorrente qualificazione (come evasione ed elusione) della medesima condotta. 1 Premessa. Il mio primo contatto con l’elusione fiscale, di cui ho ricordo, è una nota a sentenza di Euclide Antonini, pubblicata nella Giurisprudenza italiana del 19591. Non a caso, Antonini, per definire l’elusione, e differenziarla dall’evasione, citava due note opere istituzionali di autori non italiani (Blumenstein e Hensel). L’elusione è un concetto estraneo alle opere istituzionali italiane fino agli anni ’80; inevitabile ricordare le Istituzioni di diritto tributario di A.D. Giannini e il Corso di Micheli. Nella prima edizione delle mie Istituzioni di diritto tributario, parte generale, che risalgono al 1987, di elusione si parla in tema di interpretazione, e si cita (non a caso) un civilista (la monografia di Morello sulla frode alla legge) 2. L’interesse della dottrina per l’elusione sembra accentuarsi negli anni ’80: compaiono saggi3, voci di enciclopedia4, monografie5. 1 Cfr. E. ANTONINI, Gli atti simulati e l’imposta di registro e sulle successioni, in Giur. it., 1959, IV, 99, ripubblicata con il titolo “Evasione ed elusione di imposta” (gli atti simulati e le imposte di registro e sulle successioni)” nella raccolta E. ANTONINI, Studi di diritto tributario, Milano, 1959, 3. 2 U. MORELLO, Frode alla legge, Milano, 1969. 3 A. LOVISOLO, Evasione ed elusione, in Dir. prat. trib., 1985, 1198; P. P ACITTO, Attività negoziale, evasione ed elusione tributaria: spunti problematici, in Riv. dir. fin., 1987, I, 727; F. GALLO, Brevi spunti in tema di evasione fiscale e frode alla legge, in Rass. trib., 1989, I, 11. L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO 2 La riqualificazione dei negozi nell’imposta di registro. Di elusione si parlava – come testimonia Antonini - soprattutto in tema di imposta di registro, ove l’elusione era contrastata mediante riqualificazione del negozio registrato6. Il principio che i negozi debbano essere valutati singolarmente 7, senza tener conto di elementi extratestuali 8, è stato da tempo abbandonato. La giurisprudenza ritiene che possano essere presi in considerazioni più negozi collegati. Se non erro, la prima sentenza della Cassazione che ha dato rilievo al collegamento negoziale e al risultato finale di una data operazione è del 1979. Il caso è quello della donazione di buoni del tesoro da un genitore al figlio, seguita dalla cessione onerosa di un immobile, sempre dal padre al figlio, il cui prezzo era pagato mediante retrocessione dei buoni del tesoro (dal figlio al padre). In tal modo, il trasferimento dell’immobile era assoggettato all’imposta di registro, e non alla (più onerosa) imposta sulle donazioni (e successioni). La Corte d’appello ambrosiana, nel 1976, aveva tenuto fermo il concetto tradizionale, per il quale l’imposta deve essere applicata agli effetti giuridici dei singoli atti, con la conclusione che la donazione dei buoni del tesoro non era soggetta ad imposta (perché avente per oggetto dei buoni del tesoro), e la cessione del terreno era qualifica e tassata come vendita, o permuta, non come donazione9. La Cassazione ribaltò il verdetto della Corte milanese. La sentenza fu annotata da Jarach, che utilizzò la metafora dei "contratti a gradini", per indicare una pluralità di contratti, tutti finalizzati ad un unico effetto finale, a cui è stato dato rilievo ai fini della tassazione 10. Ormai, la rilevanza giuridico-fiscale del risultato finale di più contratti è diritto vivente. La giurisprudenza ha considerato elusivi i conferimenti, seguiti da cessione delle quote del conferente alla stessa società conferitaria 11. 4 S. CIPOLLINA, Elusione fiscale, in Digesto commerciale, Torino, 1990. P. TABELLINI, L’elusione fiscale, Milano, 1988; S. CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale, Padova, 1992. Cfr., ora, P. PIANTAVIGNA, Abuso del diritto fiscale nell’ordinamento europeo, Torino, 2011. Per il diritto comparato si veda AA.VV., L’elusione fiscale nell’esperienza europea, a cura di A. Di Pietro, Milano, 1999. 6 La riqualificazione è prevista dall’art. 20 del Testo unico del registro (“L'imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”). 7 Cass., 12 maggio 2000, n. 6082, in Fisco, 2000, 11643; Id., 6 settembre 1996, n. 8142; Id., 13 novembre 1996, n. 9938. 8 Cfr. Cass. 9 gennaio 1987, n. 75; Id., 17 dicembre 1988, n. 6902. 9 Appello Milano, 18 giugno 1976, in Giur. it., 1978, I, 2, 99, con nota di N. DOLFIN, Negozio indiretto e imposta di registro. 10 Cfr. Cass., 9 maggio 1979, n. 2658, in Riv. dir. fin., 1982, II, 79, con nota di D. JARACH, I contratti a gradini e l'imposta di registro. 11 Ci si riferisce a Cass., 23 novembre 2001, n. 14900, in Foro it., 2002, I, 3414 e 25 febbraio 2002, n. 2713, ibidem. Nei due casi l’effetto giuridico finale è unitario, nel 5 280 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO I due atti sono stati riqualificati come cessione d’azienda, dal conferente alla conferitaria, allorquando la conferitaria acquisisce sia l’azienda, sia le partecipazioni. Se le componenti di una azienda vengono cedute ad uno stesso soggetto con contratti distinti, applicando l’imposta sul valore aggiunto, l’amministrazione finanziaria può pretendere l’imposta di registro, riqualificando i due contratti come mezzi con cui è stata realizzata una cessione di azienda12 . I poteri di indagine e controllo, previsti per le imposte sui redditi negli artt. da 31 a 45 del D.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, si applicano anche all’imposta di registro, oltre che all’imposta ipotecaria e catastale 13. L’art. 37-bis del D.p.r. n. 600 si applica all’imposta di registro? L’art. 37-bis prevede la tassazione di un fatto che doveva essere realizzato, e non è stato realizzato. Ma l’imposta di registro presuppone l’esistenza di un atto scritto, di cui viene eseguita la registrazione. Se è omessa la richiesta, la registrazione può avvenire d’ufficio, ai sensi dell’art. 15 TU registro, solo acquisendo lo scritto 14. Non è ammessa la tassazione di un atto che i contribuenti avrebbero dovuto stipulare e non hanno stipulato. Ecco perché l’art. 37-bis del D.p.r. n. 600 non può applicarsi all’imposta di registro. 3 Le norme con ratio antielusiva e l'art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Tutti i sistemi fiscali sono disseminati di norme con ratio antielusiva. In Italia, lo scopo antielusivo non sta fuori della norma, ma è giuridicamente rilevante. Le norme tributarie che hanno lo “scopo di contrastare comportamenti elusivi” sono una categoria tipizzata dal legislatore, essendo prevista una “procedura di clearance” che permette all’Amministrazione di autorizzarne la disapplicazione, su richiesta del contribuente, nei casi concreti in cui non ricorrano profili elusivi 15. senso che in uno stesso soggetto si concentra sia la proprietà del bene conferito, sia la partecipazione totalitaria; e ciò li differenzia dal conferimento, che sia seguito dalla cessione delle partecipazioni ad un soggetto diverso dalla conferitaria. 12 Cass., 12 maggio 2008, n. 11769. 13 Si veda l’art. 53-bis del D.p.r. 26 aprile 1986, n. 131, che è stato inserito nel Testo unico del registro dall’art. 35, comma 24, del D.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv. con L. 4 agosto 2006, n. 248. 14 Cfr. Cass., 8 agosto 1990, n. 8062, in Fisco, 1990, 6353; Id., 15 gennaio 2001, n. 523, in Giust. civ., 2001, I, 1571. 15 L’art. 37-bis, comma 8, del D.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, stabilisce che possono essere disapplicate “le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d'imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall'ordinamento tributario”, se non possono verificarsi effetti elusivi. Norma singolare. Il legislatore pone norme antielusive, ma ne consente la disapplicazione. Altri due casi di interpello disapplicativo sono nell’art. 110, comma 11, del T.u.i.r., che regola la deducibilità dei componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese domiciliate in Paesi con regime fiscale privilegiato; e negli artt. 167 e 281 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO Altra cosa sono le norme espressamente antielusive, con cui il legislatore attribuisce all'Amministrazione finanziaria il potere di qualificare come elusiva una determinata operazione e di imporre il pagamento del tributo eluso. Nell’ordinamento giuridico italiano non vi è, in forma esplicita, una clausola antielusiva generale, come, dal 1919, nel diritto tedesco 16. La prima clausola antielusiva ha portata limitata: «E` consentito all’amministrazione finanziaria disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di concentrazione, trasformazione, scorporo, cessione d’azienda, riduzione di capitale, liquidazione, valutazione di partecipazioni, cessioni di crediti e cessione o valutazione di valori mobiliari poste in essere senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d’imposta»17. (art. 10, L. 29 dicembre 1990, n. 408). Ha portata limitata anche l'art. 37-bis del D.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, che “innesta il modello della clausola generale antielusiva sul metodo analitico tipico della scrittura normativa fiscale”18. Il primo comma dell’art. 37-bis è definitorio. Vi è elusione, secondo tale norma, quando sia conseguito un vantaggio fiscale (riduzione d’imposta o rimborso), "altrimenti indebito", conseguito cioè per effetto dell’aggiramento di un obbligo o divieto fiscale, e l’operazione sia priva di “valide ragioni economiche”. La sussistenza di un vantaggio fiscale non è tanto un requisito, quanto l’essenza stessa dell’elusione. Un vantaggio è “indebito” qualora l'operazione risulti "diretta ad aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario". Del resto, come è stato notato, “il modello che emerge dall’analisi della giurisprudenza comunitaria presenta un’articolazione concettuale molto simile”19. La giurisprudenza comunitaria ha escluso che costituisca un abuso del “diritto di stabilimento” il creare una società nello Stato membro le cui 168 del T.u.i.r., che prevedono il regime di trasparenza per i soggetti residenti che possiedono partecipazioni di controllo o di collegamento in Paesi con regime fiscale privilegiato. Cfr. S. LA ROSA, Nozione e limiti delle norme antielusive analitiche, in Corr. trib., 2006, 3092. 16 La Reichsabgabenordnung conteneva due clausole antielusive: una riguardava l'interpretazione economica della legge tributaria (a fini antielusivi), l'altra era una clausola generale espressamente antielusiva (cfr. A. HENSEL, Diritto tributario, trad. it., Milano, 1956, p. 142). Nel 1934 fu emanata una legge di riforma tributaria (Steueranpassungsgesetz) che riaffermava il principio dell'interpretazione della legge tributaria secondo il suo contenuto economico, aggiungendo che essa dovesse essere interpretata anche secondo la "concezione popolare" (oltre che secondo la visione nazista del mondo). Nel 1977 è stata riformulata l’Abgabenordnung, ma non è stata più riprodotta la norma sull'interpretazione economica delle leggi tributarie. 17 L. 29 dicembre 1990, n. 408, art. 10. 18 S. CIPOLLINA, Elusione fiscale ed abuso del diritto: profili interni e comunitari, in Giur. It., 2010, 1224. 19 S. CIPOLLINA, Elusione fiscale ed abuso del diritto, cit. 282 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO norme di diritto societario appaiono meno severe 20, o per fruire di una legislazione fiscale più vantaggiosa 21. Data la diversità dei livelli di imposizione negli Stati membri, la ricerca del risparmio fiscale, mediante l’insediamento di strutture societarie in Stati che adottano un regime tributario favorevole, non costituisce di per sé un comportamento riprovevole. Sono invece elusive le costruzioni societarie puramente artificiose, prive di reale organizzazione e di concreta attività, costituite essenzialmente per spostare materia imponibile verso paesi a bassa fiscalità 22 . Per accertare il vantaggio indebito, se siamo di fronte ad uno schema c.d. circolare, l’assenza di risultati economici rende di per sé elusiva l’operazione. Altrimenti occorre confrontare due comportamenti: quello, fiscalmente meno oneroso, che è stato posto in essere, e quello, fiscalmente più oneroso, che è stato evitato. Va da sé che il modello deve essere concretamente praticabile, a disposizione del contribuente, non una ipotesi dipendente dalla volontà di terzi. Non vi è aggiramento se i due schemi sono fiscalmente equivalenti, pur se è stato adottato quello fiscalmente meno oneroso 23. Vi è aggiramento solo se uno dei due modelli si pone come modellostandard, come operazione economica fisiologica, che il contribuente avrebbe dovuto seguire, in linea con la ratio, oltre che con la lettera, delle norme impositive. E se il diverso modello che è stato seguito è invece anomalo ed ha comportato l’aggiramento di un precetto fiscale. Meno chiaro è il concetto di aggiramento di un divieto, perché il diritto tributario non contiene divieti in senso proprio. Qui il termine divieto è da riferire alle norme fiscali che escludono un effetto vantaggioso (come le norme che escludono l’applicazione di misure agevolative, o limitano la deducibilità di costi ecc.). Non è richiesto che vi sia abuso delle forme giuridiche civilistiche (come esige la norma tedesca): può dunque esservi elusione fiscale anche quando l’operazione è impeccabile secondo le norme del diritto civile. L’abuso degli strumenti civilistici può essere sintomo di elusione fiscale, ma non è, di per sé, elemento costitutivo dell’elusione fiscale. L’elusione è esclusa da “valide ragioni economiche”24 . Questo requisito va inteso, sulla scorta della giurisprudenza comunitaria, come necessità che 20 Corte di giustizia, 9 marzo 1999, causa n. 212/97, punto 27, Centros, in Giur. it., 2000, 767. 21 Corte di giustizia, 30 settembre 2003, causa C-167/01, Inspire Art, punto 96. 22 Corte di giustizia, 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes. 23 Quando un soggetto passivo ha la scelta tra due operazioni, non è obbligato a scegliere quella che implica un maggiore carico fiscale. Al contrario, ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale (Corte di giustizia, 21 febbraio 2008, causa C-425/06, Part Service, punto 47). 24 Le ragioni economiche sono da intendere in senso lato, come comprensive di qualsiasi ragione extrafiscale. Inoltre, le ragioni che debbono giustificare un’operazione non sono, né possono essere, predeterminate a priori, non sono un numero chiuso. Per accertare se un’operazione è elusiva, “le autorità nazionali 283 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO l’operazione economica sia motivata, in modo “essenziale”, da ragioni extrafiscali. Si richiede, in altri termini, che lo scopo economico dell’operazione sia tale, per cui l’operazione sarebbe stata compiuta anche senza vantaggi fiscali. Oltre che negli schemi elusivi circolari (dai quali non deriva alcun risultato economico apprezzabile) 25, vi è elusione anche quando l’operazione non è priva di ragioni economiche, ma abbia come fine “essenziale” quello fiscale (fine senza il quale l’operazione non sarebbe stata posta in essere) 26. 4 L’atto impositivo antielusivo: procedimento e motivazione. Il primo comma dell’art. 37-bis non si limita a definire l’elusione, ma ne formalizza gli effetti facendo una Zusammenfassung della norma francese e belga e di quella tedesca. Un primo effetto della condotta elusiva è definito in termini di “inopponibilità” all’Amministrazione finanziaria degli atti, fatti e negozi elusivi. Sotto questo profilo, l’art. 37-bis è simile all’art. L-64 del “Livre des procédures fiscales”, e all’art. 344 del “Code des impôts sur les revenus” belga, che sanzionano come non “opposables” all’Ammininistrazione finanziaria gli atti abusivi 27. competenti non possono limitarsi ad applicare criteri generali predeterminati, ma devono procedere, caso per caso, ad un esame globale dell'operazione” (Corte di giustizia, 17 luglio 1997, causa C-28/95, Leur-Bloem, in Rass. trib., 1997, 1265). 25 Un esempio significativo di operazione elusiva, priva in assoluto di motivazione economica, è dato dalle “esportazioni a U", nelle quali, al fine di usufruire della restituzione di dazi doganali per l'esportazione di prodotti agricoli, le merci vengono consegnate al destinatario estero e immediatamente restituite, senza alcuna utilizzazione, all'esportatore. Cfr. Corte di giustizia, 14 dicembre 2000, in causa C110/99, Emsland - Starke GmbH. 26 Nella sentenza della Corte di giustizia (Grande sezione), 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax si afferma che il soggetto passivo IVA non ha il diritto di detrarre l’imposta assolta a monte quando vengono poste in essere operazioni che hanno come scopo essenziale un vantaggio fiscale. La sentenza Halifax è parte di un trittico di sentenze, tutte del 21 febbraio 2006, con le quali il giudice comunitario ha affermato il principio generale antiabuso in materia di Iva; cfr. sentenza 21 febbraio 2006, causa C-223/03, University of Huddersfield, in Rass. trib., 2006, 3, 1032, e sentenza 21 febbraio 2006, causa C-419/02, BUPA Hospitals, ivi, 2007, 1, 268. 27 Ecco il testo dell’art. L-64: “Afin d'en restituer le véritable caractère, l'administration est en droit d'écarter, comme ne lui étant pas opposables, les actes constitutifs d'un abus de droit, soit que ces actes ont un caractère fictif, soit que, recherchant le bénéfice d'une application littérale des textes ou de décisions à l'encontre des objectifs poursuivis par leurs auteurs, ils n'ont pu être inspirés par aucun autre motif que celui d'éluder ou d'atténuer les charges fiscales que l'intéressé, si ces actes n'avaient pas été passés ou réalisés, aurait normalement supportées eu égard à sa situation ou à ses activités réelles”. L’art. 344, § 1, del «Code des impôts sur les revenus” (1992) recita: « N'est pas opposable à l' administration des contributionsdirectes, la qualification juridique donnée par les parties à un acte ainsiqu'à des actes distincts réalisant une même opération lorsquel' administration constate, par présomptions ou par d'autres moyens 284 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO Il secondo effetto riecheggia la norma tedesca. Si prevede che l’Amministrazione finanziaria “disconosce i vantaggi tributari” conseguiti e può sancire il pagamento delle “imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’Amministrazione”. Si prevede che è dovuta l’imposta in base alla norma elusa, analogamente al diritto tedesco, ove si prevede che la pretesa fiscale sorga come se fosse stato posto in essere un negozio con forma giuridica adeguata alla realtà economica 28. Nell’art. 37-bis vi è una particolare conformazione del potere impositivo. L’inopponibilità all’Amministrazione delle condotte elusive può essere desunta dal generale principio antiabuso, presente – come dirò - in ogni settore di ogni ordinamento. Riflesso della inopponibilità è l’applicazione della norma elusa. Nulla questio quando la norma elusa è applicata al comportamento posto in essere. E’ il caso, ad esempio, in cui un contratto viene riqualificato, e l’Amministrazione applica, a quel contratto, una norma diversa da quella applicata dal contribuente (una aliquota più alta, per esempio); ed è il caso in cui l’Amministrazione disconosce un componente negativo di reddito, considerandolo frutto di abuso. Il secondo comma dell’art. 37-bis sembra delineare, però, una speciale conformazione del potere impositivo, in quanto attribuisce all’Amministrazione il potere di tassare non ciò che è stato posto in essere, ma un “dover essere”; non il negozio posto in essere, ma quello adeguato alla realtà economica. Gli avvisi emessi in base all’art. 37-bis sono dunque atti impositivi che possono non essere espressione dell’ordinario potere impositivo, ma di una forma particolare di potere impositivo, perché, ferme restando le imposte (eventualmente) dovute sul comportamento effettivamente posto in essere, impongono il pagamento di un quid supplementare, pari alla differenza tra de preuvevisés à l'article 340, que cette qualification a pour but d'éviter l' impôt,à moins que le contribuable ne prouve que cette qualification réponde à desbesoins légitimes de caractère financier ou économique ». 28 Nell’Abgabenordnung del 2007 il § 42 dispone che la norma fiscale non può essere aggirata mediante l’abuso delle forme giuridiche (Durch Missbrauch von Gestaltungsmöglichkeiten des Rechts kann das Steuergesetz nicht umgangen werden), che vi è abuso quando sono posti in essere negozi giuridici in forma non adeguata alla realtà economica (Ein Missbrauch liegt vor, wenn eine unangemessene rechtliche Gestaltung gewählt wird, die beim Steuerpflichtigen oder einem Dritten im Vergleich zu einer angemessenen Gestaltung zu einem gesetzlich nicht vorgesehenen Steuervorteil führt) e che la pretesa fiscale sorge come se fosse stato posto in essere un negozio adeguato alla realtà economica (entsteht der Steueranspruch …. wie er bei einer den wirtschaftlichen Vorgängen angemessenen rechtlichen Gestaltung entsteht). Cfr. P. PISTONE, Abuso del diritto ed elusione fiscale, Padova, 1995, p. 67; P. FISCHER, L’esperienza tedesca, in AA.VV., L’elusione fiscale nell’esperienza europea, a cura di Di Pietro, cit., p. 207; S. MARTINENGO, L'abuso del diritto in Germania e il § 42 Abgabenordnung,in Rass. trib., 2010, 659. 285 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO imposte dovute in base ad un fatto non posto in essere ed imposte dovute sul comportamento realizzato. E’ quel che avviene, ad esempio, in tema di scissione con conferimento alla beneficiaria di immobili della scissa, seguita dalla cessione delle quote della scissa, quando l’Amministrazione finanziaria tassa la plusvalenza che sarebbe stata realizzata se l’immobile fosse stato ceduto dalla scissa a terzi. In ogni caso, l’Amministrazione applica una norma che esiste: non c’è quindi violazione dell’art. 23 Cost. 4.1 Il procedimento e la motivazione dell’atto impositivo antielusivo. Il provvedimento impositivo antielusivo è emesso in esito ad uno speciale procedimento impositivo, con contraddittorio obbligatorio; l’amministrazione finanziaria, prima di emettere l’avviso di accertamento, deve chiedere chiarimenti al contribuente, il quale ha l’onere di rispondere entro sessanta giorni, esponendo le ragioni economiche, per le quali è stata realizzata l’operazione. Presenta caratteri peculiari anche la motivazione degli avvisi di accertamento antielusivi. Come in tutti i provvedimenti amministrativi, dev’essere indicato il fatto, che è alla base del provvedimento, e dev’esserne indicata la “ragione giuridica”. Conviene soffermarsi sul punto perché il tema interessa i poteri del giudice. La motivazione dei provvedimenti impositivi antielusivi è peculiare perché dev’esservi indicato il vantaggio fiscale conseguito. Occorre che l’avviso contrapponga, allo schema di comportamento realizzato, il modello-standard; ed occorre confrontare il regime fiscale meno oneroso, cui è soggetto il comportamento posto in essere, con il regime fiscale più oneroso, che il contribuente ha evitato. In secondo luogo, nella motivazione dell’avviso dev’essere indicata la ragione per cui l'operazione posta in essere era "diretta ad aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario". La motivazione deve chiarire, ponendo a confronto le due (o più) alternative che il contribuente avrebbe potuto percorrere, perché i due schemi non sono ritenuti fiscalmente equivalenti. Dev’essere spiegato perché lo schema seguito non rispetta la ratio delle norme applicate, mentre altro è lo schema ortodosso, in linea con la ratio, oltre che con la lettera, delle norme impositive. Occorre che venga indicata con precisione la norma aggirata, essendo l’elusione da riferire ad una norma precisa, non ai principi generali dell’ordinamento tributario. In terzo luogo, la motivazione deve indicare che il contribuente non ha agito per “valide ragioni economiche”. Prima di emettere l’avviso di accertamento, l’amministrazione deve chiedere chiarimenti al contribuente, il quale ha l’onere di rispondere entro sessanta giorni. La richiesta dell’ufficio deve avere per oggetto, in particolare, le ragioni economiche, per le quali è stata realizzata una determinata operazione. E la motivazione dell’avviso dev’essere “rafforzata”, perché deve riguardare anche le deduzioni del contribuente. Come si vedrà, nei processi contro i provvedimenti impositivi “ordinari” (relativi cioè a fatti di evasione) il giudice non può rilevare d’ufficio che vi è 286 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO stata elusione, come se potesse sostituire all’atto impugnato una sentenza con la motivazione che dev’essere contenuta in un provvedimento antielusivo. 5 Il divieto di abuso come clausola generale non scritta, nel diritto comune e nel diritto fiscale. L’art. 37-bis è un insieme di norme procedimentali: il terzo comma limita l’applicazione dei commi uno e due alle fattispecie ivi elencate (nel terzo comma). In quanto formato da norme procedimentali, non incide sull’operare del principio generale antiabuso. A proposito del quale è utile confrontare l’abuso del diritto in ambito civilistico con l’abuso nel diritto fiscale. Vi sono ordinamenti il cui codice civile contiene enunciazioni generali del divieto di abuso. E’ il caso del diritto svizzero e del diritto tedesco. Il nostro codice civile, come quello francese, non contiene una clausola generale, ma norme specifiche antiabuso. Analogamente, vi sono ordinamenti fiscali che contengono una clausola generale antielusiva, come l’ordinamento tedesco, quello francese, quello belga e quello spagnolo29. Altri ordinamenti, come il nostro, contengono solo norme specifiche con ratio antiabuso. Ora, nel diritto privato, la mancanza di una clausola generale antiabuso non ha impedito alla giurisprudenza di affermare la vigenza di un principio generale antiabuso, senza bisogno di fondamenti costituzionali30. 29 La Ley General Tributaria del 1963 disciplinava l’elusione ("Fraude de ley") all’art. 24, riformato nel 1995. Cfr. F. P EREZ ROYO, L’esperienza spagnola, in L’elusione fiscale nell’esperienza europea, a cura di A. Di Pietro, cit., p. 173. La Ley General Tributaria ora in vigore (Ley 58/2003, del 17 di dicembre) disciplina il "Conflicto en la aplicación de la norma tributaria" nell'art. 15, che trascrivo: "1. Se entenderá que existe conflicto en la aplicación de la norma tributaria cuando se evite total o parcialmente la realización del hecho imponible o se minore la base o la deuda tributaria mediante actos o negocios en los que concurran las siguientes circunstancias: a) Que, invidualmente considerados o en su conjunto, sean notoriamente artificiosos o impropios para la consecución del resultado obtenido. b) Que de su utilización no resulten efectos jurídicos o económicos relevantes, distintos del ahorro fiscal y de los efectos que se hubieran obtenido con los actos o negocios usuales o propios”. 2. Para que la Administración tributaria pueda declarar el conflicto en la aplicación de la norma tributaria será necesario el previo informe favorable de la Comisión consultiva a que se refiere el artículo 159 de esta Ley. 3. En las liquidaciones que se realicen como resultado de lo dispuesto en este artículo se exigirá el tributo aplicando la norma que hubiera correspondido a los actos o negocios usuales o propios o eliminando las ventajas fiscales obtenidas y se liquidarán intereses de demora, sin que proceda la imposición de sanciones". Nella stessa Ley General Tributaria del 2003, l’art. 159 completa l’art. 15 dettando norme procedimentali. 30 Cfr. U. NATOLI, Note preliminari ad una teroria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1958, 26; SALV. 287 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO In diritto privato, «la ragione per invocare la repressione dell’abuso risiede normalmente in una lacuna delle regole puntuali»31. Il principio è che «quando un soggetto, con la sua azione, oltrepassa i limiti entro i quali va contenuto il suo diritto, egli viene ad abusare del diritto stesso, onde la sua attività assume carattere illecito e il danno che ne deriva è antigiuridico»32. Compulsando i repertori e le moderne banche dati, non è difficile rintracciare sentenze che applicano il divieto di abuso nel diritto privato. La casistica è ricca. Cito, a titolo di esempio, le sentenze che reprimono: l’abuso del diritto di proprietà 33; l’abuso, da parte della banca, del diritto di recesso ad nutum dall’apertura di credito a tempo indeterminato34; il recesso abusivo dal contratto di fornitura35; l’esercizio abusivo del diritto di voto da parte del socio di una società di capitali 36; l’abuso del creditore, che fraziona la pretesa creditoria 37; l’abuso del diritto di chiedere il fallimento del proprio debitore38; l’abuso del diritto di recesso del concedente nel contratto di concessione di vendita di autovetture39. - l’abuso di un comune, che invocava la risoluzione di un contratto di locazione per inadempimento, pur avendo altre vie per tutelare i propri interessi e pur essendo l’inadempimento di scarsa importanza 40. Se questo è lo stato delle cose nel diritto civile, dobbiamo a questo punto notare che, nei sistemi fiscali in cui non vi è una clausola generale espressa, ROMANO, Abuso del diritto: c) diritto civile attuale, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 166; P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205; C. SALVI, Abuso del diritto: 1) Diritto civile, in Enc. Giur. Treccani, vol. I; S. PATTI, Abuso del diritto, in Dig. priv.., sez. civ., vol. I, Torino, 1987, p. 1. 31 R. SACCO, L’esercizio e l’abuso del diritto, in Alpa et al., Il diritto soggettivo, Torino, 2001, 281-373, spec. 319. 32 Cass., 27 febbraio 1953, n. 476, in Giur. it., 1954, I, 1, 106. 33 Cass., 15 novembre 1960, n. 3040, in Foro it., 1961, I, 256. 34 Cass., 21 maggio 1997, n. 4538, in Foro it., 1997, I, 4679. 35 Cass., 16 ottobre 2003, n. 15482. 36 Cass., 26 ottobre 1995, n. 11151, in Giur. comm., 1996, II, p. 329; Cass., 17 luglio 2007, n. 15942, in Riv. not., 2009, 640. 37 Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726, in Corriere giur., 2008, 745, con nota di P. RESCIGNO, L’abuso del diritto (una significativa rimeditazione delle sezioni unite). 38 Cass., 19 settembre 2000, n. 12405, in Foro it., 2001, I, 2326, secondo cui deve essere revocato il fallimento dichiarato su ricorso della banca creditrice, proposto al solo scopo di esercitare una indebita pressione sul debitore e, perciò, con abuso del diritto di fare istanza di fallimento. 39 Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, in Giur. it., 2010, 552. Si tratta del caso Renault, su cui, tra molti, cfr. F. GALGANO, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contratto e impresa, 2011, 311; P. RESCIGNO, «Forme» singolari di esercizio dell’autonomia collettiva (i concessionari italiani della Renault), ivi, 2011, 589; F. ADDIS, Sull’excursus giurisprudenziale del «caso Renault», in Obbligazioni e Contratti, 2012, 245. 40 Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2010, n. 13208, in Giur. it., 2011, 795, con nota di P. RESCIGNO, Un nuovo caso di abuso del diritto. 288 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO la giurisprudenza ha ugualmente affermato la vigenza di un principio antiabuso immanente. Basti pensare – per non citare l’esperienza americana – al diritto inglese41 e al diritto comunitario (ora UE). In assenza di una clausola generale espressa, la nostra giurisprudenza ha seguito indirizzi formalistici e non ha sviluppato strumenti anti-elusione sino al 2005. Avendo per lungo tempo negata la vigenza di un principio generale antielusivo, la nostra giurisprudenza tributaria non ha seguito la via della giurisprudenza civilistica, o di quella tributaria anglosassone e comunitaria, ma – per la forza di inerzia dei suoi precedenti - ha ritenuto necessario un appiglio positivo. Si è posta, perciò, alla ricerca. Nel 2005 lo ha ravvisato, ma in una pronuncia rimasta isolata, nell’art. 1344 cod. civ., secondo cui è nullo, per illiceità della causa, il contratto che "costituisce il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa"42. Più note sono le sentenze che hanno ritenuti nulli per difetto di causa i negozi stipulati per fini di risparmio fiscale 43. Il 2006 è l’anno di Halifax44 : la Corte di giustizia ha affermato che il soggetto passivo IVA non ha il diritto di detrarre l’imposta assolta “a monte” allorché la detrazione è basata su un comportamento abusivo, applicando, così, alla fiscalità, un principio generale già da tempo affermato e sviluppato in altri settori del diritto comunitario (il principio secondo cui i singoli non possono avvalersi abusivamente delle norme comunitarie) 45. La nostra Cassazione, essendo alla ricerca di un aggancio positivo, ha subito utilizzato la giurisprudenza comunitaria e ne ha desunta l’applicabilità nel diritto interno del principio antiabuso comunitario, principio che, a sua volta, è fondato su una clausola inespressa. 41 Cfr. S. CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale, cit., p. 145 ss. Cfr. Cass., 26 ottobre 2005, n. 20816, in Dir. prat. trib., 2006, II, 248, con nota di G. CORASANITI, La nullità dei contratti come strumento di contrasto alle operazioni di dividend washing nella recente giurisprudenza della Suprema Corte. In senso contrario, in precedenza, Cass., sez. trib., 3 settembre 2001, n. 11351, in Giur. it., 2002, 1102, secondo cui le norme tributarie sono inderogabili ma non imperative, perché non hanno carattere proibitivo. 43 La giurisprudenza ha ritenuti nulli, per difetto di causa, i contratti con cui erano realizzate operazioni di dividend stripping (Cass., 14 novembre 2005, n. 22932, in Giur. it., 2006, 1077) e di "dividend washing" (Cass., 21 ottobre 2005, n. 20398, ivi, 2007, 4, 867), contraddicendo il suo precedente orientamento (Cass., 3 aprile 2000, n. 3979, ivi, 2000, 1753). Si veda S. CIPOLLINA, Elusione fiscale ed abuso del diritto: profili interni e comunitari, in Giur. it., 2010, 1224. 44 Sentenza della Corte di Giustizia (Grande Sezione), 21 febbraio 2006, causa C255/02, cit. 45 Si vedano le sentenze 11 ottobre 1977, causa C-125/76, Cremer; 2 maggio 1996, causa C-206/94, Pailetta; 3 marzo 1993, causa C-8/92, General Milk Products; 12 maggio 1998, causa C-367/96, Kefalas; 30 settembre 2003, causa C-167/01, Diamantis. 42 289 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO Il principio antiabuso comunitario è stato esteso, dalla nostra giurisprudenza, dai settori armonizzati a quello delle imposte dirette 46, ma l’applicazione di regole comunitarie antiabuso nei settori non armonizzati non poteva non apparire poco o punto convincente 47. La nostra giurisprudenza si è allora posta alla ricerca di un fondamento normativo che le consentisse di affermare il principio antiabuso nei settori fiscali non armonizzati, e ha creduto di averlo scovato direttamente nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione 48. In giurisprudenza - ogni citazione è superflua - è ora consolidato l’assunto che nel nostro ordinamento il divieto di abuso del diritto trova la sua derivazione, per quel che concerne i tributi armonizzati (IVA, accise, diritti doganali ecc.), da un principio generale del diritto comunitario, e, per gli altri, dall’art. 53 Cost. E’ un vizio di noi tributaristi italiani invocare l’art. 53 ad ogni piè sospinto, come una pietra filosofale, una formula alchemica, che risolve tutti i problemi. Le norme costituzionali sono però norme-parametro, non sono selfexecuting; esprimono principi, ai quali il legislatore deve conformarsi 49. Non è stato considerato che una clausola generale antielusiva può valere anche come clausola non scritta, immanente nell’ordinamento, senza bisogno di una enunciazione espressa, o di un fondamento superlegislativo. E, che i singoli non possano avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme di diritto è un principio di qualsiasi ordinamento, la cui vigenza nel diritto comunitario e nel diritto civile è stata affermata senza agganci al diritto scritto (salvo norme specifiche). Può essere affermata nel nostro ordinamento senza bisogno di richiamare il diritto europeo o le norme costituzionali, analogamente a ciò che avviene nel diritto comune. Aggiungo, e concludo sulle norme costituzionali, che affermare la vigenza del principio antiabuso inespresso non comporta violazione della riserva di legge (art. 23 Cost.). 46 Cass., 29 settembre 2006, n. 21221, in Giur. It., 2008, 5, 1297 ss., con nota di S. GIANONCELLI, Contrasto all'elusione fiscale in materia di imposte sui redditi e divieto comunitario di abuso del diritto. L’estensione del principio enunciato nella sentenza Halifax è stato poi ribadito da Cass., 4 aprile 2008, n. 8772, in Giur. It., 2008, 8, 2084; Id., Cass., 21 aprile 2008, n. 10257, in Riv. dir. trib., 2008, II, 448; Id., 17 ottobre 2008, n. 25374 (causa Part Service), in Giur. it., 2009, 503. 47 Cfr. F. TESAURO, Divieto comunitario di abuso del diritto (fiscale) e vincolo da giudicato esterno incompatibile con il diritto comunitario, in Giur. It., 2008, 4, 1031. 48 Si vedano le sentenze delle sezioni unite 23 dicembre 2008, n. 30055, 30056, 30057. 49 Silvia Cipollina, op. cit., osserva come la concretizzazione del principio di capacità contributiva richieda “la mediazione necessaria della norma fiscale ordinaria, che identifica la fattispecie legale e quindi fornisce i parametri per la sua valutazione”. 290 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO Quando è applicata la clausola antiabuso, il fondamento del credito fiscale non è la clausola antiabuso, ma la norma elusa: cioè una norma impositiva, positivamente statuita da un atto di rango legislativo. Applicazione delle norme procedimentali contenute nell’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 ad ogni ipotesi di accertamento antielusivo. Che rapporto vi è tra clausola antiabuso inespressa e art. 37-bis ? A me pare che, fermo restando che il primo e il secondo comma si applicano solo alle fattispecie elencate nel comma 3 (non possiamo far finta che non esista il limite espresso nel comma 3), nulla impedisce di applicare gli altri commi alle fattispecie elusive relative alle imposte dirette. In caso di accertamento di imposte dirette, fondato sulla clausola generale antielusiva, devono essere applicati i commi 4, 5, 6 e 7 dell’art. 37-bis, T.u.i.r. , perché in quei commi non vi sono limitazioni. Devono perciò essere sempre applicati nel settore delle imposte sul reddito, anche quando l’azione dell’amministrazione finanziaria non riguarda una delle operazioni indicate nell’art. 37-bis, ma assume come sua “ragione giuridica” la clausola generale antielusiva. Deve cioè essere sempre applicato il comma 4, in tema di contraddittorio; il comma 5, in tema di motivazione dell’avviso di accertamento; il comma 6, in tema di riscossione, ed il comma 7, in tema di rimborsi. Ma, quando sia affermata l’applicazione generale delle garanzie procedimentali previste dall’art. 37-bis in ogni accertamento antielusivo di imposte sui redditi, resta da stabilire quali siano le garanzie in caso di accertamenti antielusivi di altre imposte. Escludendo il contraddittorio, “avremmo un procedimento speciale che include un contraddittorio, disciplinato ex lege, e un procedimento generale che non ha alcuna disposizione ad hoc”50. La dottrina, con motivazioni diverse, sembra unanime nell’affermare l’obbligatorietà del contraddittorio in ogni ipotesi di accertamento antielusivo 51 . L’obbligatorietà del contraddittorio deriva, secondo molti, dai principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, sanciti dall’art. 97 Cost.52 . 5.1 50 E. MARELLO, Elusione fiscale ed abuso del diritto: profili procedimentali e processuali, in Giur. it., 2010. 51 Cfr. A. CONTRINO, Il divieto di abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti giuridici e connotati strutturali, in Dir. prat. trib., 2009, I, 477 ss.; M. NUSSI, Abuso del diritto: profili sostanziali, procedimental-processuali e sanzionatori, in Giust. Trib., 2009, 323; M. PIERRO, Abuso del diritto: profili procedimentali, in Giust. trib., 2009, 410. 52 E. MARELLO, L’accertamento con adesione, Torino, 2000, p. 124; G. RAGUCCI, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009, p. 231; G. MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2010, p. 142; A. M ARCHESELLI, Accertamenti tributari e difesa del contribuente, Milano, 2010, p. 19; L. FERLAZZO 291 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO Infine, il contraddittorio nei procedimenti amministrativi è però obbligatorio secondo il diritto dell’Unione europea53. Ed è tale anche secondo il diritto interno, perché l’art. 1 della legge n. 241 del 1990 richiama i principi dell’ordinamento comunitario54. 6 Il rilievo d’ufficio, nei processi di rimborso, delle eccezioni relative ai vizi dei negozi posti a base della domanda. La giurisprudenza è consolidata nel dire che “il rango comunitario e costituzionale del principio di divieto di abuso del diritto comporta la sua applicazione d'ufficio da parte del giudice tributario, a prescindere, dunque, da qualsiasi allegazione, al riguardo, ad opera delle parti in causa (Cass. S.U. 30055/08, Cass. 1372/11)”55. A me paiono necessarie due puntualizzazioni. La prima: non esistono principi che, in ragione del loro rango nello Stufenbau, siano per tale motivo rilevabili d’ufficio; occorre invece discutere di eccezioni riservate alla parte, e di eccezioni rilevabili d’ufficio. La seconda è che occorre distinguere tra processi tributari di impugnazione (di atti impositivi) e processi tributari di rimborso. Nei processi di rimborso, ha vigore il generale potere del giudice di rilevare d’ufficio, a norma dell’art. 112 cod. proc. civ., le eccezioni che non sono riservate alle parti56. Nelle sentenze del 200557, con cui la Corte di cassazione dichiarò nulli dei contratti stipulati al fine di conseguire indebitamente dei crediti d’imposta su dividendi, la Corte rilevò d’ufficio la nullità dei contratti. Nei casi esaminati da tali sentenze, il contribuente fondava la sua impugnazione degli avvisi di accertamento sui contratti di compravendita di azioni e di costituzione di usufrutto, di cui il giudice ha rilevato d’ufficio la nullità per difetto di causa. Il problema è dunque se sia rilevabile d’ufficio la nullità di un contratto, che il contribuente pone a fondamento della sua azione. La nullità dei contratti è rilevabile d’ufficio, ai sensi dell’art. 1421 c.c. (anche in sede di legittimità), ma questa norma va coordinata con il principio dispositivo (art. 99 c.p.c.) e con il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.). NATOLI - G. INGRAO, Il rispetto del contraddittorio e la residualità dell’accertamento tributario, in Boll. trib., 2010, 485. 53 Corte di giustizia, 18 dicembre 2008, causa n. C-349/07, Sopropé, in Rass. trib., 2009, 570, con nota di G. RAGUCCI, Il contraddittorio come principio generale del diritto comunitario e in GT – Riv. giur. trib., 2009, 210, con nota di A. M ARCHESELLI, Il diritto al contraddittorio nel procedimento amministrativo tributario è diritto fondamentale del diritto comunitario. 54 F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, vol. I, IX ed., Torino, 2011, p. 167. 55 Cass., 11 maggio 2012, n. 7393, che viene qui citata come riepilogativa della precedente giurisprudenza della S.C. 56 La tesi esposta nel testo è stata già sostenuta in F. TESAURO, La rilevabilità d'ufficio della nullità dei contratti elusivi nel processo tributario, in Corr. Trib., 2006, 3128. 57 Cass., 21 ottobre 2005, n. 20398; Id., 14 novembre 2005, n. 22932. 292 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO Il giudice non può rilevare d’ufficio un elemento costitutivo della domanda, perché ciò significherebbe accogliere una domanda diversa da quella proposta. Quindi il giudice non può rilevare d’ufficio una nullità, ex art. 1421 c.c., se la nullità è un elemento fondativo della domanda e se l’attore non l’ha dedotta. Se invece l’attore agisce basandosi sugli effetti e, quindi, sulla validità di un contratto (come quando agisce per l’esecuzione di un contratto); se, insomma, gli effetti di un contratto sono un elemento fondativo della domanda, il giudice può rilevare d’ufficio la nullità del contratto, perché le eccezioni, se non sono riservate alle parti, possono essere rilevate d’ufficio. A norma dell’art. 112 c.p.c. il giudice «non può pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti». Il giudice può quindi rilevare d’ufficio le eccezioni, in tutti in casi in cui non vi sia una norma espressa che lo escluda. E sono numerosissime le massime, in cui la Cassazione ribadisce che vige nel nostro ordinamento «il principio della normale rilevabilità di ufficio delle eccezioni, derivando la necessità dell’istanza di parte solo da una specifica previsione normativa». E’ quindi conforme alle regole che sia sollevata d’ufficio l’eccezione di nullità di un contratto, quando sugli effetti di quel contratto è fondata la domanda dell’attore58. È solo quando è elemento costitutivo della domanda che la nullità non può essere rilevata d’ufficio59. È dunque necessario distinguere il caso in cui una nullità si ponga come elemento costitutivo della domanda dell’attore dal caso in cui sia oggetto di eccezione del convenuto. Nel processo tributario, prima di porsi questo problema, occorre stabilire chi è attore e chi è convenuto. Non è infatti nuova, e non è estranea alla giurisprudenza, la tesi secondo cui attore, nel processo tributario, è il Fisco. Le sentenze del 1985 60 definiscono correttamente il processo tributario come processo di impugnazione di provvedimenti amministrativi, in funzione del loro annullamento, nel quale dunque il contribuente è attore, l’Amministrazione resistente. 58 Cass. civ., Sez. III, 20 ottobre 2004, n. 20548, Id., 29 marzo 2004, n. 6191. Si consideri il seguente caso. Un dipendente avanzava una pretesa verso il datore di lavoro affermando la nullità di una clausola del contratto collettivo; la Cassazione ha affermato che qualora sia la parte attrice a chiedere la dichiarazione di invalidità di un atto, la pronuncia del giudice deve essere circoscritta alle ragioni di legittimità enunciate dall’interessato e non può fondarsi su altri elementi, rilevati di ufficio. Se la nullità è elemento costitutivo della domanda dell’attore, il giudice non può rilevarla d’ufficio (Cass., Sez. lav., 29 novembre 1996, n. 10681). La nullità può essere rilevata in sede di gravame solo se il giudice non esorbita dalla materia del contendere delimitata dall’atto d’impugnazione (Cass. civ., Sez. III, 29 marzo 2004, n. 6191, cit.). La nullità deve risultare ex actis, ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, essendo i poteri officiosi del giudice limitati al rilievo della nullità e non intesi ad esonerare la parte dall’onere probatorio gravante su di essa (Cass. civ., Sez. II, 28 gennaio 2004, n. 1552). 60 Cass. n. 20398 del 2005, cit. e Id. n. 22932 del 2005, cit. 59 293 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO Viene precisato che «la cognizione del giudice tributario ha per oggetto il rapporto giuridico», ma nell’ambito di «un processo di annullamento di un atto autoritativo che, se non rimosso, fissa in modo definitivo l’an e il quantum dell’obbligazione tributaria. Si tratta, come generalmente riconosciuto, di un classico esempio di azione costitutiva, il cui esercizio non comporta, per il ricorrente, l’assunzione della qualità di convenuto, anche se non si accogliesse l’orientamento che ricollega l’esercizio dell’azione costitutiva all’esistenza di un diritto potestativo sostanziale»61. Se dunque attore è il contribuente, il giudice ben può rilevare d’ufficio la nullità del contratto, nei casi in cui il contribuente fonda su di esso la sua domanda giudiziale, perché la nullità si pone come ragione di rigetto della domanda, ossia come eccezione rilevabile d’ufficio. Da quanto detto sin qui si deduce che il giudice non può rilevare d’ufficio una ragione di nullità dell’atto impositivo, perché tale vizio è un elemento costitutivo della domanda dell’attore. Rilevare d’ufficio un vizio dell’atto impositivo che non è stato dedotto dal ricorrente equivale ad accogliere una domanda non proposta. Se invece ragionassimo considerando attore il Fisco, dovremmo riconoscere al giudice tributario il potere di rilevare d’ufficio i vizi di nullità dell’atto impositivo. Il rilievo d’ufficio, nei processi d’impugnazione, di eccezioni non consentite neppure alla parte resistente. Se l’Amministrazione ha emesso un avviso di accertamento avente come “ragione giuridica” la violazione dell’obbligo di dichiarazione (cioè, come si dice correntemente, un fatto qualificato come evasivo), non le è consentito, nel processo, “cambiare le carte in tavola” e invocare il divieto di abuso. Ciò è una conseguenza del carattere impugnatorio del processo tributario, in cui l’amministrazione finanziaria non esercita un autonomo potere di azione, ma difende l’atto impugnato e, quindi, non può fondare la sua difesa su una 6.1 61 Da tempo, del resto, la Corte di cassazione ha abbandonato la concezione dichiarativa del processo tributario. È stato riconosciuto a chiare lettere che il giudice tributario ha il potere di annullare gli atti impositivi (Cass., Sez. I, 23 marzo 1985, n. 2085; Id., SS.UU., 3 marzo 1986, n. 1322; Id., Sez. I, 19 dicembre 1986, n. 7735; Id., SS.UU., 26 ottobre 1988, n. 5786; Id., 4 gennaio 1993, n. 8). Ed è stata respinta la tesi che «ravvisa l’oggetto del processo tributario nel diretto accertamento, con funzione dichiarativa, dell’esistenza e dell’ammontare dell’obbligazione ex lege, a prescindere dagli atti attraverso i quali si esercita l’azione amministrativa», precisando che «il processo è strutturato come impugnativa di specifici provvedimenti dell’amministrazione e il giudizio concerne la legittimità formale e sostanziale degli stessi, sicché, da un lato, vengono in rilievo i vizi relativi alla regolarità formale degli atti o del procedimento o, più in generale, inerenti all’osservanza di norme di azione, e dall’altro il riesame del merito del rapporto d’imposta – dunque l’accertamento dell’obbligazione tributaria – avviene in funzione dell’atto impugnato, in quanto il giudice deve direttamente accertare, nei limiti della contestazione, i presupposti materiali e giuridici della pretesa dell’amministrazione assunti a fondamento del provvedimento medesimo» (Cass., 3 marzo 1986, n. 1322). 294 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO “ragione giuridica” diversa da quella posta a fondamento dell’atto impositivo. Il processo tributario d’impugnazione è promosso da un ricorso che ha come petitum necessario l’annullamento totale o parziale dell’atto amministrativo, come pone in chiaro l’art. 17-bis, comma 8, del D. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546; il giudice, dal canto suo, deve giudicare la fondatezza della domanda di annullamento, come proposta dal contribuente. Il giudice non può respingere un ricorso contro un avviso di accertamento basandosi ex officio sulla clausola generale antielusiva, se tale non è la “ragione giuridica” posta a fondamento dell’avviso di accertamento. Abbiamo visto che, secondo l’art. 112 cod. proc. civ., il giudice può rilevare le eccezioni che non siano riservate alla parte. Questo principio si applica anche nel processo tributario, ma il giudice non può rilevare d’ufficio (sostituendosi all’amministrazione) un presupposto d’imposta, o una “ragione giuridica”, che non siano stati posti a base dell’avviso di accertamento. Perciò la tesi secondo cui il giudice può rilevare e applicare d’ufficio la clausola generale antielusiva “non è in linea con i principi che governano il processo tributario e, ancor prima, con l’obbligo della motivazione degli atti impositivi, che debbono precisamente indicare, secondo le norme che li regolano, i presupposti di fatto e le considerazioni di diritto posti a fondamento della pretesa”62. E’ da respingere, perciò, l’assunto giurisprudenziale, che, pur riconoscendo “il principio secondo cui le ragioni poste a fondamento dell'atto impositivo segnano i confini del processo tributario, che è un giudizio di impugnazione dell'atto, sicché l'Ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse e modificare la motivazione dell'atto nel corso del giudizio”, lo infrange affermando, senza fondamento, che quel principio “va coordinato con il potere che ciascun giudice ha - in quanto connaturale all'esercizio stesso della giurisdizione, quand'anche abbia ad oggetto il mero riesame di atti - di qualificare autonomamente la fattispecie demandata alla sua cognizione, a prescindere dalle allegazioni delle parti in causa”63. 62 Così M. CANTILLO, Profili processuali del divieto di abuso del diritto: brevi note sulla rilevabilità d’ufficio, in Rass. trib., 2009, p. 475, che aggiunge: “L’oggetto del giudizio è delimitato, anche con riguardo ai poteri cognitivi e decisionali del giudice, appunto dalle allegazioni addotte nell’atto impositivo dell’Amministrazione e dai motivi del ricorso del contribuente, non essendo consentito alle parti introdurre fatti ed elementi diversi da quelli enunciati (come sanciscono gli artt. 7 e 24 del D.Lgs. n. 546/1992)”. Inoltre, il negozio ritenuto elusivo non è nullo ma inopponibile all’amministrazione; “non si discute, in pratica, di un contratto ex se invalido, bensì della sua inefficacia nei confronti dell’Amministrazione, in quanto qualificabile come abuso; e ciò significa che l’illiceità del comportamento deve essere espressamente dedotta con l’atto impositivo a fondamento della pretesa tributaria” (CANTILLO, op. loc. cit.). Non è dunque applicabile l’art. 1421 del codice civile. 63 Cass., 11 maggio 2012, n. 7393, cit.; Id., 9 dicembre 2009, n. 21446. 295 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO Il potere del giudice di riqualificare la fattispecie, a prescindere dal contenuto dell’atto impositivo, non esiste. Che significa “riqualificare la fattispecie” ? E’ evidente che la Cassazione, evocando il suo potere di riqualificare la fattispecie, mira ad accreditare l’idea che dispone di un potere che prescinde dal contenuto dell’atto impugnato e dalla domanda del contribuente. Ma, nel processo tributario, il giudice può verificare d’ufficio se il contribuente fonda la sua impugnazione su titoli validi, e valutare se un negozio, che il contribuente pone a base della sua impugnazione, che l’attore pone a base della sua impugnazione, sia o non sia valido. Non può, però, riqualificare la fattispecie sostanziale (cioè il fatto assunto a base dell’atto impositivo) sostituendo, al fatto o alla qualificazione giuridica contenuti nel provvedimento impugnato, un fatto diverso o un titolo giuridico diverso. In sostanza, la Cassazione ritiene che il giudice potrebbe rifare la motivazione dell’atto impugnato, sostituendo, in un avviso motivato dall’Amministrazione in termini di evasione, una motivazione (giudiziale)in chiave di abuso del diritto; il giudice potrebbe, dunque, riscrivere ex novo la motivazione dell’accertamento, definendo elusione una fattispecie che l’Amministrazione finanziaria ha definito evasione. Vi sono dei criteri identificativi della domanda, a cui il giudice deve attenersi (ex art. 112 c.p.c.) anche nei processi d’impugnazione, come il processo amministrativo 64 e tributario; e criteri identificativi del credito del Fisco (il presupposto d’imposta e la norma impositiva, indicati nella motivazione dell’atto impugnato). Il giudice tributario deve muoversi entro questo perimetro, segnato dalla motivazione dell’atto impugnato e dai motivi del ricorso. 64 Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 12 dicembre 2008, n. 6169: “Non incorre nel vizio di ultrapetizione la sentenza la quale utilizzi parametri normativi di riferimento o considerazioni diverse da quelle indicate dal ricorrente, atteso che il motivo di ricorso individua il vizio e gli elementi contenutistici che lo caratterizzano, mentre il giudice - muovendo dal contenuto sostanziale della domanda di annullamento - può assumere, nella valutazione della fondatezza della censura, parametri diversi da quelli indicati, purché restino fermi l’identificazione e la qualificazione del vizio dedotto; è infatti regola generale quella per cui il giudice debba concretamente esercitare il potere giurisdizionale nell’ambito della esatta corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., pacificamente applicabile al processo amministrativo; tale regola rappresenta, proprio con riferimento al concreto esercizio della potestas judicandi, l’espressione precipua del potere dispositivo delle parti, nel senso che il giudice non può pronunciare oltre i limiti della concreta ed effettiva questione che le parti hanno sottoposto al suo esame e dunque oltre i limiti del petitum e della causa petendi, ulteriormente specificati nell’ambito del processo amministrativo attraverso l’articolazione dei motivi di ricorso; ne consegue che sussiste il vizio di ultrapetizione laddove il giudice (come nel caso di specie) abbia attribuito alla parte una utilitas che non era stata richiesta e laddove (con particolare riferimento al processo amministrativo, fondato sulla denuncia di motivi di illegittimità) abbia esaminato e accolto il ricorso per un motivo non prospettato dalle parti”. Si veda anche Cons. Stato, sez. V, 2 novembre 2009, n. 6713. 296 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO Egli deve stabilire se è fondato il ricorso, proposto con un dato atto impositivo: può interpretare la domanda e l’atto impugnato, ma non può valutare la fondatezza del ricorso come se l’atto impugnato avesse una contenuto diverso da quello che ha. Se l’Amministrazione afferma nell’avviso che una certa operazione è formata da negozi simulati, e il contribuente lo impugna sostenendo che i negozi non sono simulati, il giudice deve stabilire se gli atti sono simulati o no. Se non sono simulati, deve accogliere il ricorso; non può giudicarli non simulati, ma considerarli ugualmente idonei a sorreggere l’atto impugnato. Non può dire che l’operazione è elusiva e respingere per tale motivo l’impugnazione del contribuente: ciò significa pronunciarsi su una domanda diversa da quella proposta. Ciò non è possibile, neppure richiamando il rango costituzionale e comunitario del divieto di abuso, o il principio iura novit curia (che significa che il giudice conosce le norme, non che le applica d’ufficio oltre i limiti dell’art. 112 c.p.c.). 7 La cassazione delle sentenze di merito per difetto di esame ex officio della (possibile) elusività della condotta del contribuente. Posto l’assioma che può rilevare d’ufficio la elusione, per la Cassazione il passo è stato breve per porre un principio ulteriore, e cioè che occorra valutare sempre, da parte del giudice di legittimità, se il giudice del merito si è posto, d’ufficio, il problema dell’elusione. Se ciò non è avvenuto, vi sono sentenze in cui la Cassazione – pur giudicando infondato o inammissibile il ricorso dell’Avvocatura - , annulla la sentenza impugnata, e rinvia affidando al giudice del rinvio il compito di esaminare d’ufficio se c’è stata o no elusione 65. Ma può anche capitare che né il contribuente, né l’Ufficio impositore, né l’organo giudicante, riescano a scovare, nel caso concreto, tracce dell’elusione66. Il caso cui mi riferisco riguarda una società che ha acquistato da un privato del materiale lapideo; la parte venditrice, non considerandosi imprenditrice, non ha emesso fattura. Non si capisce dove sia l’elusione, che in materia di Iva si configura quando viene detratta un’imposta sugli acquisti che non è detraibile; ma chi acquista 65 Si veda Cass., 26 ottobre 2011, n. 22258, in Corr. trib., 2012, 272, con nota di M. BASILAVECCHIA, Cassazione della sentenza senza esame dei motivi: nuovi impieghi dell’abuso del diritto. 66 Si veda Cass., 13 gennaio 2011, n. 687. Il caso riguarda una società che aveva acquistato dei beni da un soggetto che riteneva di non essere un imprenditore; l’operazione non era stata assoggettata ad Iva, e la Cassazione non si è limitata a rilevare la mancata regolarizzazione fiscale Iva da parte dell’acquirente, ma ha rinviato al giudice di secondo grado affidandogli il compito di accertare se vi è stata elusione o abuso. Non si riesce però a comprendere in che cosa possa esser consistito il vantaggio fiscale indebito del compratore, che non aveva né pagata né detratta l’Iva (nell’Iva, l’abuso consiste nell’indebita detrazione). 297 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO senza Iva non detrae nulla e quindi non può esservi neppure l’ombra dell’elusione. 8 Doppia concorrente qualificazione (come evasione ed elusione) della medesima condotta. Un’osservazione finale. La passione della Cassazione per l’elusione e per l’abuso è tale per cui non vi sono solo casi in cui è qualificata elusione ciò che il Fisco ha definito evasione67, ma vi sono anche casi in cui, pur confermando il giudizio evasivo del Fisco, la Cassazione aggiunge – come se non bastasse - che c’è anche elusione. I due fenomeni sono sommati. Evasione e, per soprammercato, elusione. Mi riferisco, a titolo di esempio, ad una sentenza 68 in cui il giudice del merito aveva accertato che una società sportiva aveva ingaggiato un calciatore e pattuito con lui un certo compenso, del quale una parte è qualificata compenso per lo sfruttamento d'immagine mediante la stipulazione di contratti fittizi tra altre società del Gruppo di appartenenza della società di calcio. Osserva la Cassazione che il giudice del merito ha “correttamente colto, e posto alla base della sua decisione, la sostanza del fenomeno come sopra descritto, inquadrandolo altresì, con l'esplicito riferimento al calciatore come effettivo possessore per interposta persona del reddito, nella previsione della disposizione contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3”. La Cassazione potrebbe fermarsi qui, ma non le basta. E aggiunge che “la qualificazione giuridica della fattispecie deve essere operata con il riferimento alla legittimità dell'accertamento in quanto inerente a un meccanismo, come quello descritto, artificiosamente posto in essere allo scopo di ottenere indebiti vantaggi di natura fiscale”. Richiamare il “principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio d'imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici”; e richiamare le tre sentenze del 23 dicembre 2008, n. 30055, sembra essere ormai divenuto il marchio che suggella e conferisce ad esse un grado superiore di giustizia. 67 Emblematico il caso esaminato da Cass., 11maggio 2012, n. 7393, cit.. L’Amministrazione sosteneva l’indeducibilità di una svalutazione di partecipazioni perché effettuata in violazione di una norma, con la creazione di una società fittiziamente interposta tra società italiana e società residente in un Paese a fiscalità privilegiata; la Cassazione ha invece respinto il ricorso ragionando in termini di elusione. 68 Cass., 26 febbraio 2010, n. 4737. 298 L’ABUSO NEL DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO Vero che è l’abuso del diritto, in Francia, secondo la definizione che ne fornisce l’art. L-64 del “Livre des procédures fiscales”, comprende sia l’elusione, sia simulazione, ma neppure in Francia i due fenomeni sono considerati concorrenti. 299