“sicurezza nutrizionale”?

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“sicurezza nutrizionale”?
PREVENZIONE
La “sicurezza alimentare” può prescindere dalla “sicurezza
nutrizionale”?
Michele Panunzio, Direttore U.O.C. SIAN ASL FG
“Se si raffrontano i nutrienti contenuti nei vegetali con quelli dei prodotti di origine animale, a parità di
calorie, notiamo come quelli di origine vegetale contengono la stessa percentuale di proteine, più vitamine,
più ferro, più calcio e magnesio, più carboidrati complessi, più fibre; mentre, quelli di origine animale hanno
solo più grassi e colesterolo, il che non va troppo bene”.
Introduzione
La “sicurezza alimentare” può prescindere dalla “sicurezza nutrizionale”? La “sicurezza alimentare” ha lo
scopo di garantire alimenti che non provochino danni alla salute dei consumatori. Essa prende in
considerazione i pericoli fisici, chimi e biologici e ne stima il rischio per ciascuna attività della filiera
alimentare.
Scopo della “sicurezza nutrizionale” è quello di assicurare il giusto apporto di nutrienti per i consumatori.
A prima vista, sembra esservi una netta separazione tra le due, ma non è affatto così!
Una ricerca pubblicata alcune settimane fa [Yessenia Tantamango-Bartley, Karen Jaceldo-Siegl, Jing Fan1,
Gary Fraser, "Vegetarian Diets and the Incidence of Cancer in a Low-risk Population", Cancer Epidemiol
Biomarkers Prev. 2013 Feb;22(2):286-94] su di un’importante rivista scientifica conclude dicendo che la
migliore dieta per la prevenzione dei tumori è quella senza alcun alimento di origine animale (denominata
anche “vegana”). Nel bel libro “THE CHINA STUDY” (Macro Edizioni, 2011), pubblicato da alcuni mesi in
Italia, il professor Colin Campbell, una delle massime autorità mondiali nel campo della nutrizione umana,
illustra con dovizia di dettagli scientifici, i benefici per la salute dell’alimentazione senza alimenti di origine
animale ed i rischi per la salute di quella onnivora. Forse il merito più grande del professor Campbell è stato
quello di aver indagato sul come la percentuale di proteine introdotte con l’alimentazione influisce
sull’attivazione delle sostanze cancerogene.
In un esperimento di un dottorando del laboratorio diretto dal prof. Colin Campbell, a 20 topi di laboratorio
fu somministrata l’Aflatossina-B (un potente carcinogeno) ed una dieta ad alto contenuto di proteine (20%),
ad altri 20 topi Aflatossina-B e dieta a basso contenuto proteico (5%). Dopo alcune settimane, le cavie del
primo gruppo (ad alto contenuto di proteine) svilupparono un cancro al fegato, mentre le altre (a basso
contenuto proteico) nessun tipo di tumore.
I ricercatori indagarono gli effetti a lungo termine, per 100 settimane (l’equivalente dell’intera vita delle
cavie) di Aflatossina-B e dieta con diversa percentuale di proteine: ad un gruppo di topi fu somministrata
Aflatossina-B + 20% di proteine dieta, all’altro gruppo Aflatossina-B + 5 % di proteine dieta. Al termine delle
100 settimane (come se fossero i nostri 80-90 anni di vita), i topi del primo gruppo (Aflatossina-B + 20% di
proteine) erano tutti morti, quelli del secondo (Aflatossina-B + 5% di proteine) erano ancora vivi ed erano
“invecchiati” bene: con il pelo lucido, agili ed abbastanza attivi.
L’effetto della gran quantità di proteine nell’alimentazione è noto anche attraverso studi osservazionali
sull’uomo. Negli anni ’50, vi era un grande interesse per la malnutrizione proteico-calorica (ci ritorneremo
in seguito): un tipo di dieta dove scarseggiano sia le calorie che le proteine. Di solito questa malnutrizione è
una vera e propria denutrizione, si mangia in maniera squilibrata ed insufficiente. Ebbene, nelle Filippine,
un’equipe di ricercatori contrariamente a quanto ci si aspettasse era venuta a conoscenza del fatto che ad
ammalarsi di cancro al fegato erano bambini di 10 anni circa, appartenenti alle classi agiate, e che quindi
seguivano un’alimentazione ad alto contenuto proteico, invece di quelli poveri. I ricercatori, infatti, si
aspettavano che il basso contenuto di proteine nell’alimentazione e l’elevata contaminazione di muffe (e
quindi la presenza di sostanze cancerogene) nei cereali e nei legumi, sarebbero stati responsabili di cancro
al fegato nelle classi sociali più povere. Invece, avevano osservato il contrario: erano i bambini ricchi ad
ammalarsi.
I dettagli di queste indagini sono riportate nel libro già citato all’inizio, del prof. T. Colin Campbell, “The
China Study” e in un video su DVD con lo stesso titolo. La lettura del libro e la visione del DVD, disponibili
anche in italiano (anche se il titolo è in inglese), mi hanno dato la spinta a decidermi a seguire
un’alimentazione a giusto apporto di proteine (circa 10%), e a preferire solo quelle vegetali. Tuttavia, spinto
dalla curiosità del China Study ho visionato altra letteratura e con mia meraviglia, e sono una persona molto
attenta a ciò che in letteratura scientifica viene pubblicato, ho trovato non poche ricerche sugli effetti
deleteri dell’alto contenuto proteico sulla salute.
Proteine e salute.
Proteine e salute è uno di quegli argomenti da decenni studiato ed approfondito da chi si occupa di
nutrizione. Tuttavia, è solo da qualche anno che gli effetti nefasti delle diete iperproteiche sono di dominio
pubblico. Chi non ricorda la dieta del Dottor Atkins, o quelle più recenti di Dùcan e la Tisanoretica? Tutte
queste “diete”, ma potremmo definirle “modelli alimentari”, sono proposte per il dimagrimento facile e a
breve termine, ottenuto con una severa limitazione, se non vera e propria eliminazione dei “carboidrati” ed
uno sbilanciamento sulle proteine. Mangiate, è questo il messaggio, tanta carne, pesce, uova e formaggi e
lasciate perdere i carboidrati. Nell’immediato le cose sembrano funzionare: si perde velocemente qualche
chilogrammo, ci si sente sazi. Queste diete stimolano la formazione di “corpi chetonici” promuovendo una
condizione di “acidosi metabolica”. Atkins, Dùcan e Tisanoretica sono più o meno variazioni sul tema: tante
proteine, pochissimi carboidrati. L’acidosi metabolica dopo qualche settimana provoca “sconquassi”
importanti.
Come riportato nello studio finanziato dallo stesso Centro Atkins, i ricercatori scrivono: «a un certo punto,
durante le ventiquattro settimane, ventotto soggetti (68%) hanno riferito stitichezza, ventisei (63%) alito
pesante, ventuno (51%) mal di testa, quattro (10%) hanno notato una perdita di capelli e una donna (1%)
un aumento del flusso mestruale». Tutti segni e sintomi attribuibili all’acidosi prolungata. Nello studio
durato appena 6 mesi, gli effetti negativi hanno riguardato oltre la metà dei soggetti; pensiamo, quindi, a
cosa può accadere se invece di pochi mesi tale sciocchezza dietetica venisse prolungata ancora per altri
mesi, se non anni: una fine devastante per il metabolismo cellulare, oltre che per gli stessi malcapitati.
Allora, la domanda è: davvero è valida l’equazione più proteine, meno carboidrati uguale salute? Più
proteine si trasforma in più massa muscolare, dimagrimento e benessere? Alla luce dei risultati di molti
studi sembrerebbe proprio di no, anzi è vero il contrario: poche proteine (al massimo il 10%) e soprattutto
da fonti alimentari vegetali, sono le indicazioni che emergono per una salute migliore ed un invecchiamento
attivo. Quest’ultima affermazione è particolarmente degna di nota in considerazione del fatto che per la
prima volta della storia dell’uomo sulla Terra, ben due milioni e mezzo di anni dalla preistoria ad oggi, circa
600 milioni di persone vivono sulla propria pelle un “esperimento” senza precedenti, abitando in paesi
contrassegnati da abbondanza di cibo ed invecchiamento della popolazione, le due corna del dilemma
alimentare.
Le corna del dilemma alimentare.
Le corna del dilemma alimentare (nuovo ed inaspettato nella storia dell’uomo del terzo millennio) del che
cosa mangiare per noi occidentali, sono rappresentate dall’eccedenza alimentare e dall’invecchiamento.
L’eccedenza alimentare (l’industria alimentare sforna ogni giorno oltre 2.800 calorie pro-capite) comporta
il dover fare la scelta e l’approvvigionamento di cibo impensabile fino solo a qualche decennio fa. E come
accade spesso, il rovescio della medaglia di questa inedita possibilità è la comparsa di problemi inaspettati
per la gran parte di noi, quali ad esempio le malattie da eccesso calorico (il sovrappeso, il diabete, le
malattie cardiovascolari, il cancro, ecc.) e l’insicurezza alimentare legata al rischio di contaminazione degli
alimenti, alle frodi e alle sofisticazioni alimentari.
L’eccedenza alimentare ha causato l’effetto paradosso dell’incertezza del consumatore che acquista
prodotti percepiti come “artificiali” (e come dargli torto quando nelle etichette si trova un elenco di
ingredienti che sembrano usciti da un laboratorio di chimica, piuttosto che dalla terra) e generalmente non
si fida di ciò che sta mangiando; se lo fa è perché sapore, comodità e velocità di preparazione, conditi da
pubblicità e mirate strategie di marketing ne promuovono l’acquisto ed il consumo.
L’incertezza alimentare si materializza quando percorriamo le corsie tra gli scaffali dei supermercati. A chi
non è mai capitato di prendere una confezione di alimento, leggere prezzo ed etichetta, rimetterlo sullo
scaffale, prendere un’altra confezione di un’altra marca dello stesso alimento, confrontarne prezzo e
composizione, tornare indietro e così via.
Per l’invecchiamento, l’altro corno del dilemma alimentare, va fatta una precisazione circa il suo significato.
Con “invecchiamento” si intende semplicemente che la gran parte delle persone muore ad un’età più
avanzata rispetto al passato. In Italia, oggi, l’età media alla morte è stimata di 79 anni per i maschi e di 84
anni per le donne. Ciò significa che morire prima di questa età può essere considerata una morte
prematura; oltre tale età media, gli anni di vita in più sono “donati” o “guadagnati”, a seconda di come si
interpreta la propria vita. Ovviamente, l’invecchiamento stressa fortemente i costi dell’assistenza e della
spesa farmaceutica, generando l’insostenibilità economica per le famiglie e per i sistemi sanitari perché la
gran parte delle malattie cronico-degenerative (cardiopatie, tumori, demenze, eccetera) compaiono oltre i
60 anni di età.Queste ultime sono chiamate volgarmente le malattie del “pensionamento”, quasi a
sottolineare il fatto che una volta fuori dal mondo del lavoro non ci aspetta altro che contrarre qualcuna di
esse, assumere dei farmaci e rassegnarci agli “acciacchi”. Come dice un’amica: ogni anno che passa (nella
vecchiaia) aumenta una compressa sul comodino.
Se la speranza di vita fosse di 60 anni (ben prima del pensionamento) la maggior parte delle malattie
cronico-degenerative non si sarebbero ancora manifestate e non ci sarebbe alcun dilemma alimentare.
Il dilemma alimentare nella scelta del cibo giusto esiste nella misura in cui esiste l’invecchiamento!
Le due corna del dilemma alimentare, incertezza alimentare e acciacchi da invecchiamento, sono davvero
inevitabili? Sono il pedaggio che dobbiamo pagare al nostro vivere in paesi “ricchi”? Oppure, possiamo fare
qualcosa? E se si, che cosa?
Per rispondere a tali interrogativi, però, dobbiamo fare un salto all’indietro, a metà dello scorso secolo così
da poter comprendere come tale situazione si è generata e che cosa possiamo fare per vivere meglio, in
salute e senza grattacapi di scelte alimentari, a partire dal “paradigma delle proteine”.
Il Paradigma delle proteine.
Il paradigma delle proteine è nato pressappoco alla fine della seconda guerra mondiale, quando
l’Organizzazione delle Nazioni Unite istituì la FAO ("Food and Agriculture Organization”; in italiano
“Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura”): agenzia specializzata con il mandato di aiutare ad
accrescere i livelli di nutrizione, aumentare la produttività agricola, migliorare la vita delle popolazioni rurali
e contribuire alla crescita economica mondiale. La FAO lavora al servizio dei suoi paesi membri per ridurre
la fame cronica e sviluppare in tutto il mondo i settori dell'alimentazione e dell’agricoltura.
Nella seconda metà del ‘900, coloro che si occupavano della “fame” nei paesi poveri si imbattevano
frequentemente in problemi di cattiva nutrizione, meglio conosciuta con il termine di “malnutrizione”. Le
forme più comuni di malnutrizione riguardavano quella “proteico-calorica” e quella “proteica”: la prima
legata ad un deficit di calorie e di proteine, che determinava condizioni di ridotto sviluppo corporeo, stato
di magrezza eccessiva, ecc.; la seconda, la cosiddetta sindrome di Kwashiorkor, interessava per lo più i
bambini e si manifestava con addome gonfio noto come "pancia a pentola", una decolorazione rossiccia dei
capelli e la depigmentazione della pelle.
Bene, all’epoca il professor Colin Campbell si trovava nelle Filippine per coordinare un progetto condotto
su bambini malnutriti. Così scrive Campbell:
“Parte del progetto si è trasformata in un’indagine sull’insolita incidenza nei bambini filippini di
cancro al fegato, una patologia che di solito interessa i soggetti adulti. Si pensava che la causa del
problema fosse un elevato consumo di aflatossina, una micotossina riscontrata nelle arachidi e nel
frumento. L’aflatossina veniva definita come uno dei più potenti carcinogeni mai scoperti. Per dieci
anni il nostro obiettivo principale nelle Filippine è stato migliorare la malnutrizione infantile fra i
poveri, un progetto finanziato dall’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale. Alla fine
abbiamo fondato circa centodieci centri educativi di “auto-aiuto” in tutto il paese. Lo scopo di
quell’impegno nelle Filippine era semplice: assicurarsi che i bambini ottenessero quante più proteine
possibile. Era opinione corrente che gran parte della malnutrizione infantile fosse causata da una
carenza di proteine, in particolare di quelle presenti nei cibi di origine animale.”
Ma accadde qualcosa di insolito: il professor Campbell, come abbiamo già accennato, osservò una
frequenza elevata di bambini (di circa dieci anni di età) con cancro al fegato; però, i bambini malati senza
tumore erano quelli appartenenti alla classi più povere che assumevano poche proteine, mentre quelli del
ceto medio, dove non si riscontrava alcuna malnutrizione, proteica avevano il cancro. È stato allora che a
Campbell finì sotto gli occhi uno studio di alcuni ricercatori indiani che arrivavano alla stessa scoperta, però
sui topi di laboratorio: il gruppo di cavie a dieta con proteine sopra al 20% + Aflatossina B (potente
cancerogeno) aveva contratto il tumore, mentre l’altro gruppo con il 5% di proteine + Aflatossina B non
mostravano segni di tumore. I ricercatori, invece, si aspettavano che i topi con meno proteine (e quindi con
malnutrizione) fossero quelli più soggetti ad andare incontro allo sviluppo tumorale; ma così non è stato,
anzi è stato vero il contrario. Esattamente ciò che aveva notato Campbell nelle Filippine: bambini delle
classi benestanti avevano il tumore al fegato, quelle dei ceti disagiati no.
Un’elevata percentuale di proteine “accendeva”, o meglio “faceva germogliare”, il cancro seminato con
l’Aflatossina-B. Dimostrando che da sole le sostanze cancerogene non danno alcun cancro, per attivare il
loro potere neoplastico hanno bisogno di un elevato apporto proteico con l’alimentazione. Davvero
sconvolgente!
Ma il professor Campbell è andato oltre queste ricerche e ha potuto constatare come colture cellulari
esposte all’aflatossina B e proteine al 20% per qualche settimana, poi al 5% di proteine mostravano meno
“foci tumorali”; se in seguito venivano aumentate le proteine, aumentavano anche i “foci”: in pratica la
percentuale di proteine poteva “accendere” o “spegnere” i foci tumorali.
Ancora altre scoperte da parte del professor Campbell. Egli ha trovato che le proteine non sono tutte
uguali. Colture cellulari con proteine vegetali di glutine e di soia in presenza Aflatossina-B non presentavano
foci tumorali; colture cellulari con proteine animali di caseina ed Aflatossina-B sviluppavano foci tumorali.
Da qui l’affermazione che le proteine animali e quelle vegetali hanno un impatto diverso per la salute e lo
sviluppo di tumori.
I dati sorprendenti riguardano anche la salute a lungo termine a 100 settimane che come abbiamo visto
equivalgono all’intera vita, come se fossero i nostri 80-90 anni: topi alimentati con proteine animali al 20%
erano tutti morti prima; i topi che erano stati messi a dieta di proteine vegetali erano tutti vivi, attivi, con
pelo liscio e lucente, mostravano scarsi segni di invecchiamento.
Dalla ricerca di laboratorio (su colture cellulari e cavie) a quelle sull’uomo, mediante studi di popolazioni
condotti in Cina (il famoso “THE CHINA STUDY”), Campbell poté osservare che il cancro nei villaggi dove gli
abitanti avevano una alimentazione prevalentemente vegetariana era pressoché assente, in quelli dove la
dieta era onnivora, con una buona presenza di alimenti di origine animale, era presente.
Un nuovo modello alimentare.
Un nuovo modello alimentare emerge sullo sfondo delle ricerca in laboratorio sui topi e nel territorio sulle
persone. Un modello alimentare che non fonda i principi nella quantità, bensì nella qualità. È questa la
principale intuizione della ricerca di Campbell: passare dai valori nutrizionali per grammo di alimenti ai
valori nutrizionali per calorie di alimenti.
Se si raffrontano i nutrienti contenuti nei vegetali con quelli dei prodotti di origine animale, a parità di
calorie, notiamo come quelli di origine vegetale contengono la stessa percentuale di proteine, più vitamine,
più ferro, più calcio e magnesio, più carboidrati complessi, più fibre; mentre, quelli di origine animale hanno
solo più grassi e colesterolo, il che non va troppo bene.
Gli alimenti di origine vegetale quindi hanno una qualità nutrizionale superiore rispetto a quelli di origine
animale. Ciò si evidenzia solo quando, come abbiamo detto, si passa ad esempio dai valori per 100 grammi
a quelli per 500 Kcal di alimento. È, questa, la strada che ci fa comprendere la superiorità qualitativa degli
alimenti di origine vegetale rispetto a quelli di origine animale. Oggi, non è più la quantità minima di calorie
da consumare a preoccuparci (anzi abbiamo sin troppo da mangiare), bensì la necessità di assumere un
giusto apporto di nutrienti e non compromettere la salute.
Ci hanno convinti che gli alimenti di origine animale, almeno per il loro apporto proteico, fossero
qualitativamente superiori ed invece è vero l’opposto.
E non devono preoccuparci certi allarmismi circa i residui di fitosanitari nella frutta e nelle verdure: un po’
perché questi residui sono al di sotto dei limiti consentiti (anche se ultimamente sta emergendo il problema
dei multiresidui) nella gran parte dei campioni analizzati, ed un po’ perché se seguiamo un’alimentazione
qualitativa di tipo vegetariana, i cancerogeni - come abbiamo visto con le ricerche del professor Colin
Campbell - non si attivano (sono semi, come direbbe Campbell, che non germogliano perché manca loro
l’acqua ed il fertilizzante rappresentati dalle proteine animali).
Integrare Istituti di Igiene delle Università e Servizi di Igiene degli Alimenti e della Nutrizione delle ASL
Alla luce delle evidenze del THE CHINA STUDY, quindi, la “sicurezza nutrizionale” viene ben prima di quella
“alimentare”. Nuovi scenari si dischiudono per la ricerca scientifica nella valutazione del rischio. Per noi
operatori di sanità pubblica vi è la necessità di una più stringente collaborazione con le autorità scientifiche,
ad iniziare dalle nostre Università ed in primis dagli “Istituti di Igiene”, come si chiavano un tempo, ora
sezione di Igiene dei Dipartimenti Biomedici.