Lucia Catullo

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Lucia Catullo
Direzione Municipalità di
Marghera
Servizio Sociale
Lucia Catullo (2016), “Problematiche e difficoltà negli interventi di tutela”, intervento
presentato al Workshop: “Affrontare il disagio psichiatrico nei minori”, Convegno
Internazionale: “Prendiamoci cura di me. Pratiche e innovazioni in tutela dei
minori”, Centro Studi Erikson, Rimini 13-14 maggio 2016
Premessa
Il seguente contributo è frutto di spunti di riflessione, domande aperte sorte nella mia
equipe di servizio sociale, trattando progetti di cura e protezione nell'ambito del lavoro di
tutela. Il servizio opera in un territorio problematico della terraferma veneziana
(Municipalità di Marghera del Comune di Venezia) e si occupa della cura protezione e
tutela dei minori da un punto di vista socio-educativo (le equipe si compongono di
assistenti sociali e educatori) in collaborazione con i servizi sanitari e in rapporto con
l’Autorità Giudiziaria, quando non si può operare con la famiglia secondo il principio di
beneficità.
Destinatari dell’intervento sono:
bambini e ragazzi -anche con disagio psicologico/psichiatrico- che provengono
da contesti familiari ed ambientali problematici e deprivati, caratterizzati da
serie difficoltà di natura sociale e relazionale, da gravi conflitti familiari, da
negligenza nelle cure primarie ed educative, abbandono, assenza di protezione
e di attenzione ai loro bisogni fino al grave maltrattamento, violenze
psicologiche e fisiche dirette e indirette;
loro genitori spesso a loro volta con una storia di abbandono, trascuratezza,
maltrattamento che non hanno potuto interiorizzare modelli educativi coerenti e
talora con un disagio psichico/psichiatrico non visto e non curato. Genitori che
non sono in grado di comprendere e regolare i bisogni evolutivi dei figli.
Il presente contributo è articolato tenendo conto delle fasi del processo di aiuto
professionale (segnalazione, valutazione ed intervento), presenta tre casi-studio
incontrati nel corso dell'esperienza e segnala in grassetto alcuni nodi critici.
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©Catullo L. – Convegno internazionale “Prendiamoci cura di me. Pratiche e innovazioni in tutela dei minori” – 13 e 14 maggio 2016
1. La segnalazione
1.1. Casi-studio
Luca: all'epoca della segnalazione fatta dalla scuola dell'infanzia ha 5 anni. La scuola
segnala all'autorità giudiziaria e a noi
la situazione del bambino per delle evidenti
ecchimosi presenti sul corpo, oltre alle forti crisi ad entrare in classe, ai suoi
comportamenti aggressivi e la fatica a stare sul compito e a rispettare le regole. Luca
proviene da un ambiente familiare problematico. La madre di fronte all'evidenza della
segnalazione afferma di aver dato una sberla al figlio perché incapace di gestirlo. Luca ha
solo 5 anni e la mamma ne parla come se fosse un adolescente: “… è irrequieto, spacca
tutto e si arrabbia mettendo le mani addosso anche a me quando provo a dirgli no …” .
Anna: quando la conosciamo ha 13 anni, abusata per anni dal padre durante l'infanzia. A
scuola ha un umore altalenante: a volte appare depressa e apatica altre volte ha un
atteggiamento di sfida e provocatorio verso gli adulti e le regole, offende, entra e esce
dalla classe a suo piacimento. Anna racconta che la madre frequenta gli stessi suoi
ambienti (bar e discoteche), ha avuto una relazione con un minorenne, suo coetaneo e
amico; le dato il permesso di fumare in casa un pacchetto di sigarette al giorno fin dall'età
di 11 anni, a 13 può uscire tutte le sere dopo cena frequentando ragazzi più grandi di lei e
dormire anche fuori casa.
Andrea ha 3 anni quando la scuola dell'infanzia segnala che picchia i compagni senza
un'apparente ragione. I genitori degli altri bambini si lamentano perché dice molte
parolacce. Andrea ha raccontato alle maestre che un compagno l'ha morso, verificato
l'episodio si è scoperto che il morso l'aveva fatto da solo. Spesso si isola,si masturba
compulsivamente. Conoscevamo già la situazione: Mattia proviene da un ambiente
gravemente trascurante e caratterizzato da patologie dei legami: le sorelle sono entrambe
in comunità: educativa la prima, terapeutica la seconda, con diagnosi quest'ultima di
disturbo della condotta (F91) con deficit reattivo dell'attaccamento dell'infanzia.
1.2. Nodi critici
I bambini e i ragazzi quindi ci vengono segnalati prevalentemente da soggetti terzi
spesso con una richiesta urgente di risoluzione del problema, (anche perché sono di
disturbo all'ambiente sociale) a fronte di
una rilevata incapacità dei genitori
nel
riconoscimento del bisogno del figlio e/o nell'attivarsi direttamente e spontaneamente
per farsene carico rivolgendosi ai servizi specialistici (NPI, studi privati...)
2. L’aggancio
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2.1. Casi-studio
La mamma di Andrea che si sente perseguitata e giudicata dai servizi (anche lei come le
figlie è stata in comunità da piccola), ha investito emotivamente su Andrea e ritiene che
suo figlio stia crescendo bene; non vede, o dice di non vedere, quanto la scuola segnala;
sente però di non avere vie di fuga, la sua storia le lo insegna, e quindi accetta di essere
seguita dai servizi per Andrea nell'evidente sforzo di far vedere che lei è una buona madre
e che suo figlio sta bene.
I genitori di Luca apparentemente sembrano porsi in un'ottica di aiuto; nel loro caso la
madre è realmente in difficoltà a gestire i comportamenti abnormi del bambino che arriva a
definire “… un mostro …”; quello che chiede è che qualcuno “… curi …” il figlio. La
mamma è alla ricerca di un “farmaco” miracoloso, ma i genitori non accettano di mettersi
in gioco rispetto alla natura della relazione con il figlio: “… noi genitori abbiamo fatto di
tutto ... forse è a causa del posto dove viviamo e al fatto che all'asilo lo trattano come un
diverso … ”.
2.2. Nodi critici
Fondamentale
nella
fase
dell'aggancio di queste
famiglie
risulta
costruire
la
collaborazione con la famiglia, poiché se probabilmente la famiglia (pur problematica) da
sola non determina un disagio psichico o un vero e proprio disturbo mentale, ed è sempre
un intreccio complesso di fattori (genetici, ambientali, familiari, relazionali, psicologici) che
può portare a un tale disagio, poter contare sul riconoscimento precoce e sulla
consapevolezza per quanto dolorosa del malessere del proprio figlio da parte dei genitori
è presupposto favorevole per poter avviare tempestivi interventi.
Ma come attivare questo percorso di valutazione e cura che richiede una
collaborazione con il minore e con i genitori quando questi ultimi sono deficitari e non
portano o spostano il problema? Come incide il giudizio o la rappresentazione del
servizio?
Dalla nostra esperienza e dal nostro punto di vista socio-educativo rileviamo che la fase di
aggancio è tanto importante quanto critica, in quanto: per i piccoli, questi genitori tendono
a negare, a minimizzare o normalizzare i segnali di sofferenza anche se sono in difficoltà
a prendersi cura di loro; mentre per gli adolescenti, la dinamica è l'esternalizzazione della
colpa e la richiesta dei genitori è che il servizio risolva il problema come se non li
riguardasse perché, anche se sono in difficoltà a gestire e/o a contenere i comportamenti
dei figli, tendono ad attribuire a soggetti terzi o contesti di vita (scuola, territorio, ecc.) la
responsabilità del malessere del figlio.
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In linea di massima accade che i genitori hanno un atteggiamento di ferma chiusura nei
confronti dell'intervento del servizio, su cui incide la forte connotazione ed immagine che
il servizio
ha nel territorio (“… sono quelli che portano via i bambini …”), oppure
accettano di avviare un rapporto di aiuto ma in modo compiacente per timore
dell'intervento dell'autorità giudiziaria quindi senza una reale implicazione e fiducia nei
confronti del servizio.
Inoltre, come abbiamo visto nei casi, la fase d'aggancio è cruciale per creare, attraverso
colloqui di servizio sociale professionale, visite domiciliari, ascolto del minore, un minimo
di riconoscimento del problema e motivazione all'aiuto, e questo in alcune situazioni
spesso rischia di occupare un tempo troppo lungo rispetto ai tempi e alle necessità dei
bambini/ragazzi.
La fase di valutazione
3.1. Casi-studio
Nei confronti di Anna da quando si è scoperto l'abuso non si è attivata una presa in carico
psicologica per la valutazione del trauma, poiché la ragazza esprime un netto rifiuto
all'aiuto, mentre la mamma inizialmente s'implica in un percorso di sostegno per sé, anche
questo presto interrotto. Si avviano quindi interventi educativi domiciliari ed esperienze di
socializzazione nel territorio, azioni che non riducono minimamente il malessere della
ragazza, tanto che vi sono diversi accesi al Pronto Soccorso nei quali viene fatta una
prima diagnosi: “disturbo acuto d’ansia con invio al distretto territoriale per eventuale
valutazione neuropsichiatrica e/o supporto psicologico ” e la somministrazione di
ansiolitici. Anna però si rifiuta di prendere i farmaci e si sottrae, anche dopo soli pochi
appuntamenti, al supporto neuropsichiatrico nel frattempo attivato. A seguito di un agito
molto grave etero-aggressivo nei confronti della madre e dopo l'ennesimo accesso al P.S.,
il gruppo di lavoro (Ulss e Comune) decide di segnalare la situazione all'Autorità
Giudiziaria per un inserimento in comunità di tipologia socio-educativa. Il neuropsichiatra
che ha visitato la ragazza valuta che non vi siano indicatori diagnostici che fanno optare
per la comunità terapeutica.
Andrea: nel gruppo di lavoro portiamo la nostra preoccupazione rispetto a quale rischio
concreto possa essere esposto Andrea per effetto delle dinamiche relazionali/educative
messe in atto dalla madre ( area dell'alimentazione, gioco, cura, linguaggio,
contenimento). La madre con i suoi comportamenti lo mantiene in una situazione
regressiva per la sua età. Andrea viene quindi visitato dal neuropsichiatria: la diagnosi è di
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disturbo del linguaggio per il quale si rende opportuno un percorso logopedico. Non vi
sono indicazioni diagnostiche rispetto alle altre aree di sviluppo o agli altri sintomi di
disagio osservati nell'ambiente scolastico (ma che la mamma nega si verifichino
nell'ambiente domestico).
Luca viene visto dallo psicologo: nelle prime valutazioni non si rileva nessun disturbo
specifico afferente al controllo degli impulsi o attentivi. Tali manifestazioni sono attribuibili
dallo specialista ad aspetti socio-ambientali e pedagogici ed ad una sua incapacità di
gestire correttamente frustrazioni e sconfitte. L'indicazione del professionista è quindi di un
lavoro educativo e di sostegno scolastico attraverso una stretta collaborazione tra tutti gli
adulti coinvolti nel suo processo educativo (scuola ed educatore domiciliare) e
contemporaneamente un lavoro di sostegno ai genitori per aiutarli a modificare/regolare i
propri stili educativi.
3.2. Nodi critici
In questa fase dobbiamo rispondere a questi quesiti: quali relazioni ci sono all'interno di
queste famiglie? Come si collocano questi bambini/adolescenti al loro interno? Sono
malati o “semplicemente” abbandonati/trascurati? I loro comportamenti possono essere
interpretati come modalità disfunzionali per acquisire la propria identità per difendersi o
sfuggire da situazioni drammatiche e rappresentano un concreto rischio di evoluzione e
strutturazione di una psicopatologia?. Tra l'altro quando arrivano da noi in adolescenza c'è
una storia di disagio spesso non riconosciuto. E' la fase dove dobbiamo quindi provare a
dare un senso e comprendere il bisogno/richiesta sottostante ai comportamenti del
bambino/ragazzo attraverso una lettura delle relazioni e delle rappresentazioni interne alle
famiglie.
Dai casi presentati, nelle diagnosi sanitarie appare prevalente l'influenza dell'ambiente
familiare e del contesto di vita (vale a dire la valenza sociale del problema) quindi
l'intervento sulla genitorialità (non è sempre chiaro chi debba farlo) e di protezione
sembrerebbe prioritario rispetto all'intervento clinico sul bambino (anche per il rischio di
medicalizzazione impropria di quest'ultimo posto dai colleghi sanitari). Da parte del nostro
Servizio
Sociale
l'interrogativo
protezione/allontanamento
posto
impropri
o
è
quanto
prematuri
interventi
rischino
di
educativi
o
di
compromettere
ulteriormente la salute psicofisica di quel bambino. Tra l'altro abbiamo più volte verificato
che quando allontaniamo il bambino dal suo ambiente di vita, spesso su mandato
dell'autorità giudiziaria, lo si inserisce certamente all'interno di nuove relazioni nelle quali
comunque porta e rinnova tutto il suo malessere che deve necessariamente essere
compreso e curato.
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Queste premesse abbiamo visto nell'esperienza aprono la strada alla frammentazione
delle azioni successive dove ciascuno rischia di andare nella propria direzione senza
riuscire ad integrare la parte dell'altro. In questo modo alla famiglia vengono dati
messaggi diversi a volte contrastanti. E il rischio di fallimento è molto elevato.
Nella nostra organizzazione del lavoro, che prevede una divisione delle competenze
tra chi si occupa di tutela (operatori sociali del comune) e chi si occupa di interventi
sanitari (Azienda Ulss), questi interrogativi non possiamo risolverli nelle nostre equipe
socio educative, ma dobbiamo necessariamente condividerli con i colleghi dei servizi
sanitari, i quali, però, si attivano solo su richiesta del genitori previa impegnativa del
pediatra di famiglia (ciò rimanda alle difficoltà evidenziate precedentemente nella fase di
aggancio). Quindi, se i genitori non
accolgono l'indicazione di rivolgersi al servizio
specialistico per il figli, già si palesa una prima significativa criticità e il servizio sociale
deve interrogarsi circa l'opportunità/obbligarietà di segnalare la situazione all'Autorità
Giudiziaria per grave negligenza dimostrata dai genitori difronte a un obiettivo
malessere/disagio dei figli (al quale però, in assenza di diagnosi non sappiamo dare un
nome e quindi sostanziare alla stessa Autorità Giudiziaria ).
A fatica quindi si
riesce far arrivare un bambino/ragazzo, che appartiene a queste
famiglie ai servizi specialistici e questo ostacola una diagnosi precoce. Quando
questo avviene (spontaneamente o su mandato dell'autorità giudiziaria) un'altra criticità si
evidenzia all'interno del gruppo di lavoro che si costituisce quando si avvia il percorso
diagnostico dei bambini e ragazzi: spesso l'assenza di un linguaggio comune, codici
interpretativi e di riferimento diversi che rimandano a mandati istituzionali e
professionali distinti, fanno si che si fatichi ad integrare pensieri, saperi e conoscenze
per una valutazione condivisa del disagio e delle azioni di cura e/o protezione da
intraprendere. Il rilievo che il clinico alcune volte pone è che per intraprendere
un'indagine diagnostica e un intervento terapeutico attendibile (efficace) nei confronti di
minori provenienti da famiglie così deficitarie, sarebbe opportuno (specie difronte a quesiti
relativi a disturbi cognitivi e dell'apprendimento, iperattività, deficit generalizzato dello
sviluppo, disturbi della condotta) dapprima “ripulire” il contesto di vita cioè intervenire
sullo stile educativo e l'ambiente relazionale di riferimento del minore, (vale a dire
preparare il terreno per un eventuale percorso diagnostico/terapeutico) partendo dall'idea
che regolando il contesto di vita di quel bambino o collocandolo in un altro ambiente
“funzionerebbe” già meglio.
Quello che noi poniamo dal nostro punto di osservazione è che prima di assumere
qualsiasi
decisione rispetto a quel bambino/ragazzo o genitore dalla quale discenda
un'azione socio-educativa o di protezione sarebbe opportuno comprendere anche qual
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è il bisogno sanitario sotteso a cui il progetto sociale di tutela dovrebbe contribuire a
rispondere.
Questo porta sovente ad una situazione di stallo, perché è come se
le azioni non
potessero procedere simultaneamente ma una conseguente all'altra (con aspettative
reciproche dei servizi gli uni rispetto agli altri).
4. La fase dell'intervento
4.1. Casi-studio
Luca: Il servizio sociale attiva negli anni una serie di interventi educativi a domicilio e di
sostegno e accompagnamento scolastico, interventi mirati a livello scolastico, ma la
condizione del ragazzo diventa sempre più grave. Si propone allora alla famiglia un
percorso comunitario di tipo educativo. I genitori si oppongono. La psicologa del servizio
aziendale ci invita a interrompere tutti gli interventi educativi (il servizio sociale percepito
negativamente dalla famiglia sembra di ostacolo al percorso di cura) e a restare sullo
sfondo, decidendo di occuparsene esclusivamente lei. Ma la situazione non sembra
evolversi e la madre decide allora di accompagnarlo in altri studi medici privati e pubblici,
alla ricerca di una soluzione, le cui diagnosi possono essere sintetizzate in: “disturbo del
comportamento di tipo oppositivo provocatorio di grado severo (cod ICD 10 F31) con
condotte dirompenti ed aggressività eterodiretta. Possibile evoluzione verso un disturbo
della condotta (COD ICD F 91)”. Al ragazzo viene anche prescritta terapia farmacologica
che assume in modo discontinuo per poi interromperla e viene data alla famiglia
indicazione di inserimento del ragazzo in ambiente comunitario. Lo stato di Luca precipita:
non frequenta più la scuola, con un gruppo di ragazzi mette in atto piccole estorsioni
minacce e violenze; comincia anche a bere e a fumare. La gravità della situazione induce
il servizio sociale alla segnalazione alla Procura. A distanza di tempo vengono emessi
diversi decreti in cui è disposto dapprima l'inserimento del minore in comunità educativa e
successivamente, a seguito del rifiuto di ben 45 comunità educative contattate ad
accoglierlo, modificato in inserimento in comunità terapeutica. Una volta inserito in
comunità educativa-riabilitativa, mostra scarso adattamento alla terapia sia psicologica
che farmacologica, agisce comportamenti etero e auto aggressivi ed infine mette in atto
una fuga non facendovi più rientro. E' cronaca di questi giorni l'arresto del ragazzo per un
reato contro la persona.
Anna attraversa due percorsi comunitari educativi entrambi fallimentari e il secondo si
conclude con la fuga dopo la quale la ragazza non farà più rientro. Il neuropsichiatra che
riesce a incontrare la minore, anche se in modo molto discontinuo, riformula la diagnosi in:
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“personalità emotivamente fragile di tipo bordeline-impulsivo-esplosivo aggressivo” e il
gruppo di lavoro decide per l'inserimento in comunità terapeutica, decisione che viene
assunta anche dal Tribunale dei Minorenni. L'inserimento non verrà mai eseguito per netta
opposizione della ragazza a fronte della richiesta delle comunità terapeutiche contattate
che vi sia almeno una “parziale motivazione all'aiuto e collaborazione all'ingresso in
comunità da parte della minore”. A distanza di tempo riusciamo a incontrare Anna e la
mamma. Per la prima volta Anna riesce a balbettare qualcosa rispetto a quanto accadutele
da bambina, imprevedibilmente scatta una richiesta di aiuto. In questi giorni Anna ha
iniziato a frequentare un centro diurno dove viene affiancata quotidianamente da una
psicologa.
Andrea e la mamma vengono inseriti in una comunità educativa madre/bambino.
L'inserimento a distanza di un anno non porta agli esiti sperati. Malgrado affiancata e
spronata la madre di fatto sembra non poter attingere da buone esperienze infantili con le
quali potersi identificare per dare delle risposte ai suoi figli e per poterli sostenere nella
crescita psico-evolutiva. Andrea continua a manifestare un importante disturbo del
linguaggio e a reiterare i comportamenti regressivi e stereotipati soprattutto in presenza
della madre. In situazioni difficoltose manifesta momenti di rabbia e aggressività. Dai test
effettuati dalla psicologa emergono elementi che fanno pensare allo sviluppo di una
struttura di personalità con tratti narcisistici. Si avvia un lungo lavoro da parte degli
operatori coinvolti perchè la madre dia in affidamento il proprio bambino, ma la signora si
oppone con tutta la propria forza; viene quindi chiamata in causa l'Autorità Giudiziara. Il
Tribunale non assume questa ipotesi e chiede ai servizi di continuare un progetto a
supporto della genitorialità e della crescita del bambino. Il Gruppo di lavoro decide di
dimettere la madre e bambino dalla comunità e proporre alla stessa un percorso
psicoterapeutico di gruppo per il sostegno alla genitorialità e Andrea viene seguito a casa
con l'educativa domiciliare e ambulatorialmente dallo psicologo. A distanza di alcuni mesi
in cui si conferma il quadro di una forte carenza della relazione madre/figlio a causa del
quadro pesantemente depressivo della madre, e che Andrea ha bisogno di contesti che
rispondano ai suoi bisogni emotivi e affettivi, la soluzione dell'affido è tenacemente
riproposta alla madre dagli operatori sociali e sanitari, in forma congiunta e integrata,
come tentativo di sottrarre Andrea ad un sorte annunciata. La mamma in questi giorni per
la prima volta ha accettato, ha capito che non ce la fa.
4.2. Nodi critici
L'evoluzione del percorso di aiuto che si evince da queste storie, ci suggerisce alcune
indicazioni operative e lascia aperti alcuni interrogativi. Nella fase dell'intervento lo sforzo
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da fare con i genitori di questi bambini/adolescenti è trovare il giusto equilibrio/confine
tra la non colpevolizzazione e la responsabilizzazione per portarli gradualmente ad
accorgersi del bisogno dei loro figli, a spostare la loro attenzione dalla difesa della propria
identità genitoriale (“genitore buono”) e accettare che da soli non ce la fanno e che i
loro figli hanno bisogno anche di
uno spazio di cura “altro”. Quindi, quello che noi
osserviamo, è che la cura sembrerebbe possibile quando si riesce a lavorare con questi
genitori affinché lascino autenticamente entrare uno spazio “terzo” nella loro vita, quando
li si aiuta ad offrire uno spazio di cura al figlio, ma anche a se stessi, e far si che
sviluppino un minimo di fiducia perché questo si realizzi. E questo, (apparentemente
paradossale) anche quando si è all'interno di una cornice giuridica e in una situazione
di separazione del minore dalla famiglia, perché dalla nostra esperienza abbiamo appreso
che se i genitori non si pongono in quest'ottica, l'aggancio educativo e terapeutico con il
minore è molto complesso e scarsamente proficuo, perché fa fatica a comprenderlo e
accettarlo come una cosa buona per sè. Il costo richiesto al bambino/ragazzo per
implicarsi in un percorso terapeutico sarà molto alto in quanto emotivamente
invischiato nei legami famigliari, il cui “richiamo affettivo” è sempre più forte di qualsiasi
azione terza posta in essere. Da qui una certa opposizione a qualsiasi proposta
progettuale o fughe messe in atto qualora si trovi in comunità. Per questo qualsiasi
percorso di cura sul bambino non può prescindere da un lavoro educativo e
psicologico anche sulle relazioni intra-familiari e sul funzionamento genitoriale a cura di
tutta l'equipe di lavoro.
Cosa favorisce in questi genitori l'apertura all'altro? Cosa consente loro stante le difese
espresse di lasciare entrare nella relazione tra loro e i figli degli spazi di cura terzi? Dalla
nostra esperienza apprendiamo che le cose procedono quando entrambe le parti
sociale e sanitaria entrano in gioco contemporaneamente e ciascun professionista fa il
suo pezzo cercando continuamente d'integrare la parte dell'altro, con l'obiettivo (questo
si) comune di rispondere al bisogno reale del bambino e di farlo star meglio (secondo
un'ottica di tutela diffusa) . Se le famiglie non trovano sponda nelle divisioni vengono
aiutate anche loro ad integrarsi e non frammentare parti di sé nei diversi servizi.
L'integrazione fattiva dei professionisti coinvolti è infatti una modalità operativa che aiuta i
professionisti a non cadere nel rischio della collusione e della triangolazione che
spesso queste famiglie mettono in atto con operatori di servizi diversi e aiuta anche i
professionisti ad acquisire uno sguardo più obiettivo e meno connotato nei loro confronti.
Sintesi
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Le segnalazioni vengono espresse prevalentemente da soggetti terzi con una
richiesta urgente di risoluzione del problema;
fondamentale costruire la collaborazione con la famiglia;
contare sul riconoscimento precoce e sulla consapevolezza per quanto
dolorosa del malessere del proprio figlio da parte dei genitori è presupposto
favorevole per poter avviare tempestivi interventi;
i genitori tendono a negare, a minimizzare o normalizzare i segnali di
sofferenza anche se sono in difficoltà a prendersi cura di loro;
per gli adolescenti, la dinamica è l'esternalizzazione della colpa e la richiesta
dei genitori è che il servizio risolva il problema, tendendo ad attribuire a soggetti
terzi o contesti di vita (scuola, territorio, ecc.) la responsabilità del malessere
del figlio;
incide la forte connotazione ed immagine che il servizio ha nel territorio;
si accetta di avviare un rapporto di aiuto ma in modo compiacente per timore
dell'intervento dell'autorità giudiziaria quindi senza una reale implicazione e
fiducia nei confronti del servizio;
la fase d'aggancio spesso rischia di occupare un tempo troppo lungo rispetto ai
tempi e alle necessità dei bambini/ragazzi;
nelle diagnosi sanitarie l'intervento sulla genitorialità e di protezione sembra
prioritario rispetto all'intervento clinico sul bambino;
da parte del Servizio Sociale l'interrogativo è quanto interventi educativi o di
protezione/allontanamento impropri o prematuri
rischino di compromettere
ulteriormente la salute psicofisica di quel bambino;
frammentazione delle azioni senza riuscire ad integrare la parte dell'altro, con
rischio di fallimento è molto elevato;
divisione delle competenze tra chi si occupa di tutela (operatori sociali del
comune) e chi si occupa di interventi sanitari (Azienda Ulss)
i servizi sanitari si attivano solo su richiesta del genitori previa impegnativa del
pediatra di famiglia;
se i genitori non accolgono l'indicazione di rivolgersi al servizio specialistico per
il figli rischio di segnalare la situazione all'Autorità Giudiziaria per grave
negligenza;
ritardi alla diagnosi precoce;
assenza di un linguaggio comune, mandati istituzionali e professionali distinti
rilievo clinico: per intraprendere un'indagine diagnostica e un intervento
terapeutico attendibile (efficace) nei confronti di minori provenienti da famiglie
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così deficitarie, sarebbe opportuno dapprima “ripulire” il contesto di vita cioè
intervenire sullo stile educativo e l'ambiente relazionale di riferimento del minore
rilievo socio-educativo o di protezione: sarebbe opportuno comprendere anche
qual è il bisogno sanitario sotteso a cui il progetto sociale di tutela dovrebbe
contribuire a rispondere;
situazione di stallo;
trovare il giusto equilibrio/confine tra la non colpevolizzazione e la
responsabilizzazione dei genitori;
aiutarli ad accettare che da soli non ce la fanno;
che i loro figli hanno bisogno anche di uno spazio di cura “altro”;
qualsiasi percorso di cura sul bambino non può prescindere da un lavoro
educativo e psicologico anche sulle relazioni intra-familiari e sul funzionamento
genitoriale a cura di tutta l'equipe di lavoro;
le cose procedono quando entrambe le parti sociale e sanitaria entrano in gioco
contemporaneamente e ciascun professionista fa il suo pezzo cercando
continuamente d'integrare la parte dell'altro;
non cadere nel rischio della collusione e della triangolazione
©Catullo L. – Convegno internazionale “Prendiamoci cura di me. Pratiche e innovazioni in tutela dei minori” – 13 e 14
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