51 Sette del mattino. È lunedì di un uggioso

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51 Sette del mattino. È lunedì di un uggioso
SAMYA E L’ALTRA METÀ DEL MONDO
Sette del mattino. È lunedì di un uggioso novembre.
La testa mi scoppia, ho gli occhi gonfi, l’umore tenta di
svincolarsi e liberarsi da un’ingombrante apatia e inquietudine.
Non ho dormito, il pensiero continuo e divorante va alla
nostra ultima telefonata. Mi è arrivata addosso la sua voce
rauca e stanca e una pungente sfiducia mista ad accettazione.
Ha detto che al suo ritorno dal viaggio di lavoro avremmo
dovuto parlare di noi. Non facciamo altro ultimamente.
“... anche se Giorgio cerca di convincerti che avrete un futuro insieme, stai certa che non lascerà sua moglie. Non si
sposa mai l’amante Mara, mai...” mi dice sempre mia madre,
col suo solito modo diretto e il tono preoccupato per il mio
entusiasmo adolescenziale verso quella relazione.
Non la ascolto, sono frasi che si dicono in queste circostanze ma non è il mio caso, io e Giorgio siamo così innamorati, uniti dalla passione, dalla complicità, abbiamo ancora
l’espressione inebetita dei primi appuntamenti e ci diciamo le
frasi insensate prese dal linguaggio degli amanti, sentiamo il
bisogno di viverci, di accoglierci!
Già penso a come arredare la casa in cui andremo ad abitare in primavera. Con sua moglie sono separati in casa da
mesi, vivono in due ali distinte dell’abitazione e lui passa ogni
momento libero con me.
Ma quale amante!
Io sono la donna che lui ama. Non sono l’incontro di due
volte a settimana, a cui non è permesso un futuro insieme.
Mi ha sempre presentato a tutti come la sua donna. Non
devo fare altro che aspettare che ottenga il divorzio.
Da qualche settimana, però, fatico a proseguire accanto a
lui, mi impiglio sempre più spesso nei suoi mille impegni, nei
ritmi di vita forsennati, inciampo nel suo umore intrattabile.
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La complicità prosegue con qualche attrito, la passione ha
perso il bagliore accecante di un tempo.
Sette e quindici. Mi scrollo da questi mesti pensieri che possono di diventare grigi nuvoloni sulla mia giornata.
Da più di un’ora circolano gli autobus e le prime macchine, i
bar hanno acceso le insegne, le edicole sono aperte e il motore
della città sta già rombando.
Preparo il caffè ancora con gli occhi chiusi e lentamente
tutto prende forma e colore.
«Cazzo, la riunione alle otto e mezzo» dico bruciandomi la
lingua con la bevanda bollente.
Aziono la segreteria telefonica, non ho scaricato i messaggi
la sera prima e oggi scopro che... alle cinque arriverà l’idraulico, alle sette mi aspetta il commercialista, segue cena da mia
madre e inaugurazione del locale di un cliente. Pensare che in
questo periodo mi chiuderei un mese in casa per sprofondare,
farmi inghiottire, modellare, assorbire dal grigio e dai chiaroscuri, bene al riparo dai colori accesi e dai rumori!
Camicetta azzurra su pantaloni blu, scarpe basse e un cerchietto per fermare questa massa di riccioli neri che non stanno mai come vorrei. Controllo finale dentro la borsa: agenda,
cellulare, portafoglio, rossetto, profumo, libro, sì, c’è tutto.
Prendo le cartelline con le schede dei clienti e le pratiche degli
ultimi processi.
Sono in macchina, ferma a un semaforo, da un gigantesco
cartellone pubblicitario una signorina dal corpo perfetto e
conturbante ammicca nel suo completo intimo, quando squilla il cellulare.
«È saltata la riunione, Francesco è malato, la sua cliente passa a te, la devi incontrare alle dieci. Ci vediamo al bar sotto
l’ufficio?». Antonella non aspetta la risposta e butta giù.
È una proposta o un ordine? E poi non ho tutta questa
voglia di iniziare il lunedì sentendo discorsi di donne in carriera, problemi politico-sociali, prese di posizione sul lavoro,
analisi introspettive e vivisezioni sui rapporti uomo-donna o
relazioni minate.
Comunque sia parcheggio in seconda fila ed entro nel bar,
pronta ad affrontare la mia collega.
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L’elenco dei tipi di caffè proposti è infinita, quello al gianduia, quello con l’amaretto, quello con la crema e il liquore,
seguono poi le varianti dei cappuccini.
«Signora?» mi chiede un sorridentissimo barista con la riga
da una parte perfettamente laccata.
«Un espresso, senza aggiunta di niente» puntualizzo guardandomi intorno alla ricerca di Antonella.
Arriva strizzata in un lungo cappotto nero legato stretto, i
capelli biondi perfettamente in ordine e un trucco impeccabile.
«Possibile che riusciamo a vederci solo di sfuggita io e te?»
dice con un sorriso eccessivo. Mi arriva la fragranza del suo
profumo fiorito mentre mi bacia sulla guancia.
«Perché domani sera non vieni con Mario a cena da me?
Ci saranno anche gli altri colleghi» propongo senza volerlo
veramente.
«Magari un’altra volta, tesoro. Domani sera abbiamo appuntamento con l’agente immobiliare, sai, stiamo cercando
un appartamento più piccolo, ce n’è uno delizioso proprio qui
dietro, sopra il cinema» sorseggia il suo cappuccino rigorosamente senza zucchero e lascia sul bordo della tazza una spessa
traccia di rossetto «ora che i ragazzi sono a Londra per quel
master ci serve meno spazio, anche se prima o poi riuscirò
a convincere Mario a prendere quella deliziosa villetta fuori
Genova». È odiosa quando dice “deliziosa”, la voce le diventa
più stridula del solito.
«Oh Signur... rieccolo, tutte le mattine viene qui con le sue
cianfrusaglie, non vende mai niente ma trova sempre qualcuno che gli offre il caffè» commenta Antonella ben attenta
a non appoggiare lo sguardo sull’uomo marocchino appena
entrato.
Certo che il poveretto è veramente insistente, in pochi minuti ha tirato fuori tutta la merce dallo zaino, puntando su un
accendigas a forma di mucca che dovrebbe essere il pezzo
forte. Nessuno gli compra niente, allora Mohamed o Abdul
– si chiamano tutti così – chiede alla gente di offrirgli una pasta. Tutti si comportano come se non ci fosse e non mancano
di mormorare frasi del tipo “fra un po’ di anni ci saranno solo più
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loro” o la più classica “ormai si sono presi anche il nostro lavoro e le
nostre case”.
Mohamed si avvicina, è sempre più invadente, mi mette in
mano una confezione di fazzoletti di carta per farmeli comprare, poi ci prova con i calzini da uomo e più io dico di no
più lui insiste. Ha un odore acre e le unghie sporche, il fatto
che mi stia così addosso mi infastidisce.
Cedo e gli offro la pasta, nella speranza che mi lasci stare e
lui non finisce più di ringraziarmi.
Antonella non parla più, guarda l’uomo con un eccesso di
sdegno.
«Questi si comportano come a casa loro, impongono le loro
leggi e le loro usanze primitive e se noi andiamo in Africa o
in Arabia guai a mostrare un crocifisso» dice pagando il conto
anche per me.
«Grazie, quando ci rivediamo?» chiedo recuperando borsa e
cartelline di lavoro.
«In palestra uno di questi giorni, inizia il corso di pilates,
vorrai mica perderlo?!» mi urla uscendo.
È il perfetto sponsor vivente di quelle riviste femminili per
donne in carriera con il terrore di invecchiare, quelle che curano fisico e spirito e si obbligano a leggere contro voglia
almeno due libri al mese o si impongono una mostra d’arte o
un concerto ogni fine settimana.
L’extracomunitario è sparito, finisco di sfogliare il giornale,
ma i soliti discorsi da bar del lunedì mattina sui goal annullati
e i fuorigioco non visti mi fanno scappare.
Mi fermo a comprare il pane prima di andare in ufficio, se
no finisce come tutti gli altri giorni che me ne dimentico.
Appena entro nella panetteria mi invade l’odore del pane
appena sfornato e dei dolci. Aspetto il mio turno e ascolto le
chiacchiere di quelle massaie che parlano in genovese stretto.
Chiedo qualche pagnotta e non resisto ad acquistare anche
una piccola torta di mele.
Quasi dieci euro, una follia!
Cerco il portafogli per pagare ma non lo trovo, rovisto,
svuoto la borsa sul bancone della panetteria ma il portafogli
non c’è più. È il panico. La panettiera mi permette di fare
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qualche telefonata nel retro per bloccare la carta di credito e
mi rincuora inutilmente.
Ecco, offro la pasta a un marocchino e questo mi frega il portafogli. Perché naturalmente è stato lui, non ci sono dubbi!
Avviso l’ufficio che tardo, devo passare prima dai carabinieri
per la denuncia di furto. La cliente del mio collega aspetterà.
Quando arrivo in ufficio Samya è già stata fatta accomodare.
Un’extracomunitaria, deve essere il tema della giornata!
Tento un sorriso che mi viene male. Appoggio il cellulare sulla scrivania, in ansia di avere notizie dai carabinieri.
Sentiamo cosa è successo a questa donna! Di certo il solito
problema col permesso di soggiorno.
È seduta composta e un po’ rigida sulla sedia, il capo coperto
da un velo bianco, il corpo avvolto da una tunica colorata di
giallo e verde. Il volto è scavato ma ha lineamenti bellissimi e
delicati, sopracciglia alte e fini e bellissimi occhi neri, luminosi,
resi ancora più profondi dal kohl di pasta nera che lucida il
bordo delle palpebre. Se mi soffermassi a guardarli meglio, se
facessi sgonfiare la mia rabbia, vi leggerei la sua storia.
Samya mi sorride e mentre parla muove le mani con grazia.
Ha mani rugose e dita fini e lunghe.
La sua piccolina le si stringe al grembo, indossa un piccolo
giubbotto imbottito, logoro ma pulito. La bambina si guarda
intorno, scruta ogni angolo e ingrandisce gli occhioni da cerbiatto. Quando le porgo un cioccolatino esplode in un sorriso
gioioso.
«Francesco per qualche settimana non verrà a lavorare e hanno passato a me il suo caso. Mi chiamo Mara Nardelli, sono il
suo avvocato d’ufficio» le porgo la mano e lei la stringe con
forza, quasi ci si aggrappa e con lo sguardo cerca il mio aiuto
senza mai perdere la naturale dignità.
«Sono stata licenziata dalla fabbrica di cappelli subito fuori
Genova e senza lavoro non mi rinnovano il permesso di soggiorno» dice in un buon italiano, usa un tono di voce molto
basso e mentre parla non smette mai di sorridere.
Che avrà da sorridere? Io sarei incazzata con il mondo e odierei tutti, fossi al suo posto.
«Perché ti hanno licenziata?» passo al “tu” naturalmente.
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«Non lo so, ci tratta come bestie, ma a questo ci sono sempre stata abituata, non mi fa paura, il fatto è che non ci paga
da mesi e la settimana scorsa sono partiti i licenziamenti. Senza lavoro come sfamo i miei figli?».
«Non hai un marito?» le chiedo evitando di guardarla per
non scivolare in quegli occhi disperati e timidi, lucidi di paura
e speranza.
Prendo appunti, annoto informazioni con una scrittura nervosa piena di sottolineature.
«No, sono qui con mia sorella, suo marito e i miei quattro
figli».
«Quattro figli?» non nascondo il mio stupore «e dove vivete?».
«In un appartamento nelle case popolari» poi abbassa lo
sguardo e mi dice a disagio che uno dei suo figli è in prigione
per avere rubato l’incasso in un negozio del centro.
«Ovviamente» aggiungo con una malignità che mi sfugge.
«Immagino che lavoravi senza assicurazione e senza contratto, quindi sarà difficile riavere i tuoi soldi» mi rendo conto
che sto esagerando, ridimensiono il tono della voce e abbozzo
un sorriso che, anche questa volta, non riesce.
Sabrina, la segretaria, mi dice al telefono che è arrivata anche la sorella di Samya.
Aisha, questo è il suo nome, non ha la tunica lunga come
sua sorella, è vestita “all’occidentale”, indossa dei pantaloni
neri e una maglia color crema, molto semplice, senza nessun
decoro, ma anche lei ha il capo coperto da un velo chiaro.
Non ha il fisico esile e la delicatezza di Samya, è più rotondetta e meno aggraziata ma si muove con sicurezza e ha una
buona padronanza del linguaggio.
La saluto stringendole la mano e la faccio accomodare.
«Tu lavori Aisha?» e il mio tono torna professionale.
«Facevo le pulizie a casa di una signora per pochi soldi, ma
sono tornati i suoi figli a vivere con lei e non mi ci vogliono più. Avevo trovato un posto alla biglietteria di un teatro,
ma mio marito non voleva, diceva che tornavo a casa troppo
tardi, non mi occupavo abbastanza della famiglia e vedevo
troppa gente... troppi uomini» l’ultima frase è quasi sussurrata
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«così adesso sono pagata a ore in una sartoria del centro, rammendo, cucio, taglio. Sono brava sa?».
«Non lo metto in dubbio Aisha» e questa volta il sorriso è
più spontaneo, se non altro per solidarietà contro quel marito
tiranno.
«Il signor Luciano ci ha dato il lavoro e l’appartamento, all’inizio era buono con noi» dice Samya per riportare l’attenzione su di sé «poi senza un motivo mi ha lasciata a casa ma
devo sempre pagare l’affitto tutti i mesi. Mi pagava quattrocento euro al mese e me ne chiedeva duecento per l’affitto».
«Perché non gliela racconti tutta Samya, diglielo cosa ti
ha fatto quel figlio di puttana» Aisha alza la voce e cambia
espressione, il volto le si irrigidisce, le vene del collo si gonfiano leggermente.
«Qualche settimana fa ho avuto i calcoli renali e non sono
andata dal medico perché sono clandestina, ma una notte il
dolore era insopportabile, Aisha mi ha portata all’ospedale
dove conosce un dottore bravo che non fa troppe domande
e così per qualche giorno ho avvisato che non potevo tornare
al lavoro» Samya mi parla sempre con gli occhi bassi e la voce
timorosa, mentre sua sorella si è addirittura alzata in piedi e
mi fissa per studiare la mia reazione o forse il mio coinvolgimento.
«È per questo che ti ha licenziata, Samya?» mi alzo anch’io
dalla sedia e mi siedo sulla scrivania per togliere definitivamente ogni barriera formale.
«Mi ha detto che se volevo continuare a lavorare per lui dovevo...» ma non riesce a dirlo.
«Andarci a letto» termina per lei la sorella con la voce graffiata di rabbia che sgorga fuori.
«Hai testimoni? Ti ha molestato davanti a qualcuno?». Faccio un grande sforzo per rimanere distaccata dalla sorte di
queste donne, vorrei usare esclusivamente la mia professionalità ma sento che umanamente ci sto scivolando dentro.
«No, nessuno... a volte entrava in casa mia, ma tutti sanno
che è il padrone dell’appartamento e può farlo. Una volta ha
cercato di sollevarmi il vestito ma poi è entrato mio figlio e
lui se ne è subito andato via. Ho paura che mi faccia del male,
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ma voglio i soldi che mi deve e poi senza lavoro come faccio a
pagare l’affitto e da mangiare per i miei figli?» ha la voce rotta
dal pianto e le mani le tremano tanto che Aisha le toglie la
bambina dal grembo.
«Samya, voglio essere chiara. Tu non sei assunta regolarmente, non hai un contratto, né un’assicurazione e il porco ha
abusato di te senza mai avere testimoni. Sarà difficile riottenere i tuoi soldi in breve tempo. L’unica cosa che posso fare è
fargliela pagare per tutti i suoi traffici illeciti, è un personaggio
conosciuto a Genova ma tu devi trovarti un lavoro il prima
possibile, il tuo permesso di soggiorno sta scadendo e dagli
appunti di Francesco leggo che anche due dei tuoi figli non
sono in regola». Il suo sguardo è smarrito, ha occhi disperati.
«Dovremo darci da fare per trovarti un lavoro il prima possibile» cambio tono per calmarla ma in realtà penso che trovare
lavoro a una donna sudanese vicina ai quarant’anni a Genova
sia un’impresa quasi impossibile.
«Andrò a vedere come sei messa nelle liste di collocamento
e farò in modo di migliorare la tua posizione in graduatoria».
«Ma nel frattempo non posso piazzarmi agli incroci a lavare
i vetri, ho quattro figli».
«Quanti anni hanno? Come riesci a crescerli?».
«I più grandi badano ai piccolini e quando lavorano li lasciano a mia sorella. Siamo bene organizzate ma può capitare che
ogni tanto noi adulti dobbiamo saltare i pasti per darli ai bambini. Domani esce mio figlio dal carcere, così può tornare a
lavorare con mio cognato al mercato» parla con più scioltezza,
ha perso lentamente la timidezza e la paura che le segnavano
il volto poco prima.
«Farò qualche telefonata ai colleghi per sapere a che punto
è l’inchiesta su Luciano Ghezzi, con tutti i reati che ha commesso non dovrebbe essere messo molto bene, ma anche la
giustizia italiana non è messa molto bene, ed è probabile che
sia in giro indisturbato. So come muovermi, a quali porte bussare e ho l’incazzatura giusta che mi fa da motore per andare
fino in fondo. Ci vediamo domani mattina qui sotto alle otto,
dobbiamo andare a sbrigare un po’ di pratiche burocratiche»
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dico risistemando i fogli dentro la cartellina «ufficio del lavoro, ufficio immigrazione. Sei sicura di avermi detto tutto?».
«Oh sì, sicura, sicura».
Samya sorride e scopre denti bianchissimi, si alza dalla sedia
più forte, con rinnovata energia perchè sente il mio affetto diffondersi dentro e farle da impalcatura. È felice, lo vedo, perché
finalmente ha trovato qualcuno che si interessa a lei, che la sostiene senza pietismo e la osserva senza abbassare lo sguardo
e sono certa che è una sensazione che non sentiva da tanto,
troppo tempo.
Esco dall’ufficio e torno nel mio mondo. Una mescolanza di
strane sensazioni si agita dentro. Tristezza, rabbia e voglia di
scrollarmi di dosso tutto quanto per il timore di entrare in una
situazione più grande di me.
Lo sapevo che finiva così, ogni volta che vengo toccata nel
profondo, affondo le mani, annaspo, sollevo ciò che devo
cambiare e lo modello, me ne prendo cura fino a farlo mio.
Passo dalla banca per fare richiesta di una nuova carta di
credito, poi in tribunale per le informazioni su Ghezzi e infine
vado a fare due chiacchiere con il mio amico Marco che gestisce un supermercato nel centro storico. Il mio intento è quello
di fargli assumere il figlio maggiore di Samya. In fondo è grazie
a me se Marco ha vinto una causa di frode che, se andiamo a
vedere bene, è ancora adesso discutibile. Mi è debitore a vita.
«Non sarà facile, con tutte le richieste che abbiamo» mi risponde indolente dopo avergli raccontato la storia della povera
donna.
«Ti faccio sapere» aggiunge con distacco toccandosi la barba
di qualche giorno.
«Un fattorino per le consegne?» incalzo senza abbassare lo
sguardo.
«Un fattorino, forse, è più fattibile» e si fa scappare un sorriso. «Ha tutto in regola?» e mi pianta addosso i suoi rotondi
occhi azzurri solcati da tante piccole rughe.
«No, dico, sei scemo?! Vuoi che ti mandi un clandestino?»
mento spudoratamente e mi alzo prima che se ne accorga.
«Ti chiamo nei prossimi giorni così definiamo la cosa» affermo allontanandomi.
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«Non ho detto che lo prendo» urla Marco celando un sorriso.
«Ma certo che lo assumi, hai un cuore troppo grande!» gli
mando un bacio con la mano. Ruffiana!
Giorgio non mi ha ancora chiamata e non è rintracciabile, non mi ha neppure detto in quale albergo di Roma
soggiorna per assistere a questo meeting sull’architettura di
interni.
Cerco di evitare questa smania che mi opprime e mi aggrappo alle immagini di noi due innamorati, rivedo le fughe
romantiche, le serate in casa, i mercatini di antiquariato nel
fine settimana, le domeniche passate a letto. Giorgio ha una
personalità molto forte e sfrontata che sa come usare: audace,
irriverente e delicato, cinico e incosciente, tutti ingredienti che
tengono legata un donna.
Da qualche tempo però sento qualche spiffero di vento
freddo entrare nei miei spazi lasciati vuoti in una melma di
timori e dubbi.
Passo la serata a casa tra la televisione, il computer e la telefonata di sfogo alle amiche. Nessuno come le donne sa godere di un compiaciuto autolesionismo e adora sfinirsi di “se” e
di “ma” ferma a negare verità che, invece, conosce.
Dopo la seconda camomilla e gli occhi ancora bagnati dal
pianto crollo in un sonno agitato.
Alle otto in punto sono davanti al portone dell’ufficio, Samya è già arrivata, noto subito che oggi è più curata: lo smalto,
il rossetto, l’ hijab rosso fuoco che valorizza i suoi bellissimi
occhi. Thandiwe, la sua bambina, dorme come un angioletto
nel marsupio di stoffa che Samya si è legata dietro la schiena.
«Significa “amata”» mi dice mentre accarezzo la bambina.
Andiamo con l’autobus, c’è troppo traffico in centro, è impossibile parcheggiare.
Gli occhi della gente sono rivolti tutti alla donna sudanese.
La scrutano dalla testa ai piedi, si soffermano sui tratti del volto, molti si scansano perché temono il contatto. Un gruppo di
ragazzine con il piercing all’ombelico e i jeans che scoprono
le mutande starnazzano sedute nell’ultima fila; un uomo in
giacca e cravatta legge la pagina di economia di un quotidiano;
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una massaia urla noncurante al cellulare, nessuno sente il bisogno di fare sedere una signora con un bambino in braccio.
Salgono altri extracomunitari che fanno apprezzamenti pesanti su di me nella loro lingua, lo capisco perché mi guardano
insistentemente e ridono tra loro, uno mi manda un bacio e
subito la gente inveisce, li attacca, vuole quasi farli scendere
ma questi continuano a ridere. Sono lontana da Samya ma la
tengo d’occhio, ha ancora quello guardo smarrito da orfana.
Il controllore le chiede il biglietto.
«Il mio biglietto ce l’ha quella signora laggiù».
«Sì certo, come no, ormai avete imparato tutte i trucchi per
fregarci, per prendere e non pagare, tanto ci siamo noi che
paghiamo per voi» dice mentre annota qualcosa su un blocchetto. «Scenda con me alla prossima fermata».
La gente gli dà ragione, compatti e uniti per cacciare la donna negra che, di sicuro, scenderà per andare a chiedere l’elemosina al primo semaforo, sfruttando la sua creatura per impietosire i passanti anziché cercarsi un lavoro.
«Non è il caso, come le ha detto la signora il suo biglietto ce
l’ho io, ma scendiamo lo stesso volentieri».
Per strada mi accorgo che gli stranieri sono veramente tanti,
l’ho sempre saputo ma non ho mai usato gli occhi per osservare. Le donne con l’hijab, quelle vestite con lunghi gonnelloni e
foulard, camminano silenziose per non fare rumore, per non
disturbare l’occidentale che ha sempre tante cose frenetiche
da fare, o per paura che questi si accorga di loro e le cacci. Le
vedo in giro come perenni clandestine, anche quelle che hanno tutti i documenti in regola, sempre tra di loro, mai in un
bar, in un cinema. Tantissime sono domestiche senza contratto, pagate a ore; le clandestine costano meno e non possono
chiedere niente di più, fanno mestieri che altri non farebbero
mai, badano a persone invalide, anziani abbandonati, portatori di handicap per poche centinaia di euro al mese. Quasi
tutte sono giunte in Italia pagando lautamente il viaggio e un
finto permesso di soggiorno a qualche scellerato.
Agli angoli delle strade, vicino al porto, alla stazione e in
certe viuzze del centro storico c’è l’altro lato della medaglia:
immigrati che spacciano, bambini che rubano, donne capaci
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di tutto per tutelare il loro territorio, persone che impongono
la loro cultura con prepotenza facendo di interi quartieri una
seconda patria con leggi proprie, incapaci di gratitudine verso
chi li ospita, annebbiati dall’odio contro ogni cosa che rappresenta il mondo occidentale senza fare distinzione.
All’ufficio immigrazione sono tutti accalcati, in fila agli
sportelli, infreddoliti, con una serie di fogli in mano che non
sanno gestire, in pasto a inespressivi impiegati che godono a
metterli in difficoltà con problemi burocratici. Tanti volti di
cuoio scavati in anni di fame e disumana fatica di vivere, tanti
occhi smarriti, tante voci che non riescono a uscire, alcuni
sembrano bestie ferite, altri invece sono spavaldi e sprezzanti,
certuni aggressivi e pericolosi.
Provo un misto di compassione e rabbia, mi viene naturale
proteggermi da alcuni loro atteggiamenti, evito certe aggressività e, subito dopo, sento il bisogno di aiutare molti di questi
disgraziati, di prendere la parola per fare valere i loro diritti
in questa società che pende più verso il profitto che verso la
solidarietà.
Trovare un lavoro a Samya è difficile, non è più giovanissima. Un posto pubblico no perché una donna col velo turba i
clienti e poi parla male l’italiano; un lavoro di fatica neppure
perché è di salute cagionevole. Evito “turbamenti” dovuti al
velo ai cittadini di Genova e accetto di farla assumere come
badante di una signora anziana rimasta sola, la paga è poca
roba ma almeno è in regola e posso allungare di un anno il
permesso di soggiorno.
«Grazie avvocato, io tutte quelle parole difficili di legge non
le conosco» mi mostra ancora il suo radioso sorriso, il secondo in due giorni.
«Samya, il lavoro è un po’ lontano da casa tua, devi prendere due autobus e non so neppure se puoi portarti dietro la
piccola, magari in seguito troverai qualcosa di meglio» le dico
entrando in un bar.
La scena degli sguardi insistenti e delle facce diffidenti si
ripete ma Samya adesso si sente forte, non abbassa più lo
sguardo, non si muove più lentamente per non disturbare,
non parla più a voce bassa per non farsi notare.
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«Putroppo per inguaiare Ghezzi posso fare poco, sta pagando le multe dovute e niente più, c’è troppa omertà tra i suoi
dipendenti e troppe conoscenze politiche che gli parano le
spalle».
Mentre spiego a Samya il significato del termine “omertà”
entra una ragazza che attira su di sé l’attenzione degli uomini:
minigonna aderente, scarpe tacco dodici e crocifisso in mezzo
alle tette.
Samya la guarda in modo quasi inespressivo e si sistema il
velo.
« È una mia scelta il velo, mi sento protetta, lo tolgo con chi
sono al sicuro, mi mostro a chi voglio io. Non è un’imposizione, io sto bene così, non riuscirei mai a volere quelle scarpe... vi
invidio altre cose, altre libertà che però voi neppure vedete».
Le sorrido e le trasmetto tutta la mia comprensione e la stima per quelle parole.
Questa sera mi reco da Samya per dirle che mia madre le darà una mano con la bambina. Uscita dall’ufficio passo
prima da casa per una doccia ristoratrice. Jeans, maglione, poncho di lana, trucco leggero, il solito profumo ed esco.
È un quartiere di case popolari, nella parte più grigia della
città, con i muri imbrattati da ogni sorta di messaggio irriverente, cassonetti di immondizia colmi di rifiuti maleodoranti,
piazzole dove rombano e sgommano motorini e scooter scalcinati, immancabili lenzuola e indumenti lavati appesi ai balconi. L’atrio è buio e umido, non c’è l’ascensore, per fortuna
Samya è al primo piano. I miei passi rimbombano e dagli appartamenti tutt’intorno giungono rumori di televisioni accese
o di litigate in famiglia.
Ancora prima di entrare sento un odore forte di spezie. È
un appartamento piccolissimo con un tavolo rotondo al centro, un divano più volte riadattato, il letto in un angolo e tanti
tappeti per terra. Da un minuscolo cucinino, Aziza, la figlia più
grande, sta friggendo una poltiglia gialla. Il bagno deve essere
dietro quella porticina in fondo alla stanza.
Mi obbligano a mangiare da loro, l’ospite è sacro. Temevo
quell’invito, non fosse altro che per quella roba gialla molliccia
che mi capiterà di mangiare.
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«Viene anche il dottore» mi dice Samya mentre termina di
preparare la tavola con i pochi bicchieri e piatti spaiati che ha
in casa «sta curando mio figlio Mohamed, è lui che lo opera
alla gamba, è lui che ci ha portati via dal villaggio».
Samya ha voglia di parlare, di raccontarmi la sua storia e lo
fa di getto, mescola situazioni del presente con immagini del
passato dandomi un quadro poco chiaro e disperato. La ascolto con attenzione cercando di mettere in ordine i suoi ricordi
ma ho bisogno di farle delle domande.
«Cosa ne è stato di tuo marito?» chiedo seduta su uno dei
tappeti.
«È stato ucciso a Kornoy, vicino a Darfur, dai Jajaweed. Hanno saccheggiato tutto il villaggio, ucciso le persone e bruciato
le case. Kornoy si trova in Africa, in Sudan» ci tiene a specificarlo perché l’attenzione pubblica è tutta rivolta alla guerra
in Medio Oriente e il Sudan è abbandonato a se stesso – non
ci sono risorse naturali interessanti là e tanto meno pozzi petroliferi –. Quel paese africano è divorato giorno dopo giorno
dal cancro della violenza, della denutrizione, delle epidemie.
«Io sono fuggita da quel villaggio di cento capanne e ce l’ho
fatta ad arrivare a Mogadiscio con i miei cinque figli e mia
sorella. Lì mi hanno soccorsa gli aiuti umanitari, Federico, il
dottore, lavorava con medici senza frontiere e mi ha aiutata a
raggiungere l’Italia con tutta la delegazione. I miei figli avevano bisogno di cure e il più grande di una protesi per la gamba
amputata. Io sono stata fortunata, altre donne sono andate
fino in Libia per poi tentare la traversata del Mediterraneo e
quasi tutte non ce l’hanno fatta».
Non è una notizia ascoltata distrattamente al telegiornale. È
la testimonianza di una donna torturata nell’anima e nel fisico
che mi sta chiedendo aiuto.
La sua è una realtà talmente terrificante da non riuscire a immaginarla, il suo è un mondo che cola e traspira ferocia e crudeltà, affamato e bramoso di potere e violenza. Soprattutto
non riesco a capacitarmi dell’indifferenza del mondo davanti
a un paese malato terminale che giorno dopo giorno muore
davanti agli occhi di coloro che sono impegnati a inventarsi
guerre altrove.
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La prima cosa che mi ha affascinata dell’uomo, appena è
entrato, è stata la sua imponenza, e non perché sia particolarmente alto o corpulento, ma per l’energia e la vitalità che
emana.
Federico è il dottore del racconto di Samya che ha lavorato
a lungo con medici senza frontiere, adesso è tornato a vivere
a Genova per seguire, con altri colleghi, la causa contro una
potente ditta farmaceutica che ha portato alle stelle il costo
dei vaccini contro la meningite in Somalia.
La sua bellezza non l’ho notata subito, ha un sorriso accattivante e luminosi occhi verdi aperti al mondo, i capelli biondi
sono un po’ spettinati e ha la barba di qualche giorno. Mentre
parla alza spesso il tono della voce e non controlla la risata che
esplode improvvisa. Si siede accanto a me e quando parlo mi
fissa con delicata impertinenza, mi interrompe spesso ma non
smette mai di sorridere.
«Non deve essere stato facile lavorare in Somalia tra guerriglie e condizioni di vita estreme» dico cercando di farmi piacere la poltiglia gialla piazzata sul piatto.
«È da oltre sedici anni che la Somalia vive una continua crisi
umanitaria» risponde con garbo, mi toglie il piatto che mi dà
disgusto e lo sostituisce con uno dove ha messo delle fette di
formaggio e della verdura «Oggi come ieri c’è una struttura
sociale basata sui “clan” che sono gli anziani e i soldati armati.
Non esiste un governo centrale, un interlocutore con cui trattare la nostra presenza nel paese. È un paese violento e pericoloso ma siamo riusciti a mandare avanti almeno una decina
di progetti spostandoci continuamente tra le città somale. I
bisogni di quel popolo vanno oltre l’assistenza sanitaria: manca tutto, cibo, acqua, scuole».
Parla di cose terribili con sgomento controllato, come abituato a tanta sciagura, sorride amaramente e abbassa lo sguardo mentre ricorda le immagini più terribili.
«Parlami della causa che avete fatto alla ditta farmaceutica»
gli chiedo versandogli della birra. La nostra conversazione è
cominciata da un’ora eppure mi sembra impossibile che non
faccia già parte della mia vita.
«I vaccini contro la meningite ci sono, la logistica è pronta,
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la campagna di vaccinazione è avviata e la Pentium solo ora ci
dice che i brevetti degli ultimi vaccini sono quasi triplicati di
costo. La cosa assurda, Mara, è che ci sono posti nel mondo
dove certe medicine vitali fino a qualche anno fa costavano
pochissimo, come in India, ma adesso, con la nuova legge dei
brevetti sui medicinali gli stessi farmaci hanno prezzi assurdi,
anche cinquecento euro a paziente per le malattie più gravi.
Fanno a gara per farsi i soldi sulla sofferenza dei popoli più
poveri. Io per riuscire a salvare qualche vita trasporto i medicinali nascosti nel bagaglio e ogni volta rischio la galera».
Durante la cena multietnica abbiamo toccato anche altri argomenti, non solo il sociale, e abbiamo scoperto di avere gli
stessi gusti musicali, di adorare il teatro, i fumetti, i film di
Woody Allen, la Normandia e l’Andalusia, i mercatini delle
pulci, la bicicletta, la musica afro, lo studio delle religioni, la
campagna toscana e i telefilm degli anni Ottanta.
«Samya, ma se la prossima volta portiamo delle pizze?» chiede ironico Federico facendo ridere la donna somala.
Rido, rido col cuore, rido di gioia, rido perché ne avevo bisogno, rido per l’aria fresca che sta entrando nella mia vita,
per come possono essere così profonde e ineguagliabili emozioni semplici e piccoli gesti, per come tutto ha trovato la sua
direzione naturale, perfettamente incanalato in pochissimo
tempo. Rido per il modo in cui mi guarda Federico, rido per
questa nuova energia che entra prepotente.
Con Fede – ormai siamo intimi –, finisco la serata in un
locale del centro dove dei suoi amici suonano blues, a fine
concerto mi segue con la vespa sgangherata fin sotto il portone. Senza dirci niente saliamo a casa mia, iniziamo ad amarci
nell’ascensore e smettiamo quando il primo sole filtra dalle
persiane.
Uniamo i nostri corpi scossi dai sensi, ci riempiamo e ci
svuotiamo, ci odoriamo avidi e attingiamo dentro di noi la vita
che sgorga. Il respiro è affannato, le frasi sussurrate, le grida di piacere trattenute, le labbra si mordono, la pelle trema.
Dopo l’amore stiamo al buio a parlare di noi, togliamo i veli
ai pensieri, li lasciamo scorrere liberi, rotolano fuori i sogni
trattenuti, le curiosità represse, pronunciamo frasi trattenute
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e mai dette. Le parole si imbrattano di baci, le carezze si impigliano tra i capelli, gli sguardi si cercano nell’infinito spazio
che ora c’è dentro di noi.
All’alba Federico dorme ancora, ha una mano protesa verso
di me che da poche ore gli appartengo. Io invece sono già in
piedi per l’emozione. Mi guardo allo specchio nella mia nudità, i riccioli neri scendono sulle spalle, gli occhi sono ancora
lucidi d’amore. Non mi sono mai vista così bella.
«Buongiorno avvocato» sussurra con gli occhi ancora chiusi
e un sorriso stropicciato si apre lentamente.
«Caffè e cornetto?» chiedo accarezzandogli i capelli.
In risposta mi bacia una mano.
Ora so che la felicità è un caffè e un cornetto con la persona
che ami.
Mia madre sta facendo una censita dei vestiti da dare alla
nostra famiglia “adottata” e questa mattina accompagnerà Samya all’ospedale; metteranno la protesi alla gamba che
Mohamed aveva perso nei bombardamenti a Darfur.
Squilla il telefono, rispondo con in braccio la piccola Thandiwe.
«Sono Giorgio, lo so che è passato qualche mese ma dovevo
riflettere, credo sia giusto parlare» all’improvviso quella voce
diventa estranea, il suo tono grave mi dà quasi fastidio, non
riesco neppure a odiarlo. Me lo vedo che annaspa nella sua
vita scolorita, tra slanci a metà e sogni amputati, mentre si
rotola tra successi professionali e amicizie che contano.
Non mi interessa neppure sapere se il nostro è stato amore.
La sua immagine sbiadisce, i ricordi hanno troppe crepe e i
più fragili crollano.
«È tardi Giorgio» lo dico col sorriso, come se gli facessi una
carezza.
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