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CARLO CENINI
COGNOME, NOME E NOMIGNOLO NEI MALAVOGLIA
Imperciocchè, essendo cosa evidente, e da verun negata
non essere i nomi se non puri purissimi accidenti…
Alessandro Manzoni, I promessi sposi.
Prima di esser tale, il soprannome fu una parola, un motto, una facezia […].
Giuseppe Pitrè, Usi e costumi del popolo siciliano.
I - Un’introduzione
Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di
Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente
di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non
voleva dir nulla, […].1
Non a caso, è con un nome, e con il voler negare significato a quel
nome, che il romanzo trova il suo inizio. Malavoglia: a prima vista, il significato più comune dell’espressione, quello di svogliatezza, non si
adatta a personaggi che, al di là dell’esito delle loro azioni, non sono
certo svogliati o inattivi. La spiegazione del nome è tutta in quel «come
dev’essere»: questi nomignoli, suggerisce il Verga, hanno un significato
antifrastico, e cioè il loro significato vero è proprio il contrario di quello che appare. Sarà quindi proprio l’operosità dei personaggi ad aver
dato origine al nomignolo.2 Ma, ad un altro e più profondo livello, Malavoglia può diventare un nome rivelatore: se guardiamo con attenzione, e leggiamo mala voglia, voglia malvagia, insomma, cattivo desiderio,
ecco che il nomignolo finisce con l’assumere un preciso valore morale,
un valore morale negativo. La mala voglia è allora non solamente la
svogliatezza, bensì il desiderio innaturale di uscire dalla propria condizione, desiderio che se da una parte genera il progresso, dall’altra è la
causa della rovina di alcuni «deboli che restano per via».3 Nel romanzo
assisteremo appunto al percorso della famiglia verso la rovina, ossia
1 G. VERGA, I Malavoglia, testo critico e commento di F. Cecco, Torino, Einaudi 1995,
cap. I, par. 1.
2 Ivi, nota al par. 1.
3 Ivi, Prefazione, par. 7.
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verso l’adesione al significato profondo del proprio nomignolo.4
In quest’apertura l’autore traccia anche una precisa distinzione tra
cognome e nomignolo. Apparentemente, il confine è netto: il cognome
viene ereditato dalla persona fin dalla nascita, e in modo a r b i t r a r i o
(«[…] si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla […]»).
In questa categoria dell’arbitrario entra anche il nome proprio, con l’ovvia differenza di non essere ereditario, bensì attribuito alla nascita. Il
nomignolo, invece, viene attribuito dopo che una qualche caratteristica
della persona sia emersa, come se si trattasse di un secondo battesimo;
in questo caso, non c’è arbitrarietà. Ma due elementi, nel corso del romanzo, interverranno a disturbare questo panorama nitido: da un lato,
l ’ e r e d i t a r i e t à , aumentando l’effetto di arbitrarietà, farà sì che il
nomignolo finisca per assumere le caratteristiche di un cognome (cosa
che avviene già con Malavoglia, che l’autore ha dovuto precisare essere
un nomignolo, e non un cognome); dall’altro lato, e spesso contemporaneamente, il s i g n i f i c a t o creerà una corrente di verso opposto,
facendo sì che cognome, nome e nomignolo si rivelino le chiavi per
comprendere il ruolo, e a volte persino il destino, del personaggio (cosa che, di nuovo, abbiamo visto avvenire con Malavoglia, il cui significato riposto riemerge in modo inatteso).
La società in cui Verga si e ci immerge è primitiva,5 e, se abbiamo
potuto isolare le categorie dell’arbitrarietà e dell’ereditarietà, è perché
lì esse sono ancora attive nella loro rimozione del significato dal nomignolo. È come se Verga avesse colto il momento in cui il nomignolo si
sta per fossilizzare in forme certe, senza aver ancora perso la sua vitalità. Tale vitalità sembra attrarre nel suo vortice anche nome e cognome: un umile pescatore non coglierà la distinzione tra nome e nomignolo, e il significato del nome verrà preso per buono, come se fosse
un nomignolo.
Stabilita così l’importanza che il nome ha nell’economia della trama
del romanzo, e poiché tutta la folla di personaggi dei Malavoglia spesso
non è descritta altrimenti che attraverso il proprio nome, risulterà utile
analizzare alcuni nomi e nomignoli del romanzo, e il loro significato.
4
Un'analisi più approfondita del nome Malavoglia in G. ALFIERI, Lettera e figura nella
scrittura dei «Malavoglia», in Atti del Congresso Internazionale di Studi (Catania, 26-28 novembre 1981), II, Catania 1982, pp. 580 sgg.; cfr. anche W. HEMPEL, Giovanni Vergas Roman «I Malavoglia» und die Wiederholung als erzählerisches Kunstmittel, Köln-Graz, Bohlau
Verlag 1959, p. 151.
5 Cfr. G. DEVOTO, Giovanni Verga: i « piani del racconto», in Itinerario stilistico, Firenze, Le Monnier 1975, pp. 200 sgg.
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Una ricerca di questo tipo potrà forse illuminare ulteriormente una zona, quella del processo creativo, che l’autore vorrebbe tenere in ombra:
una ricerca indiscreta, dunque, e invadente.
Ho scelto la metafora come filo conduttore del mio intervento: come si vedrà, infatti, il nome nel romanzo svolge un ruolo che oscilla tra
la metafora viva e la metafora spenta (catacresi)6: in altre parole, i nomi
o i nomignoli verranno occasionalmente “riattivati” nel loro significato
profondo. Apparirà altresì chiara la motivazione che mi ha spinto ad
insistere sul tema della metafora, quando si ponga attenzione al fatto
che metafora e onomastica si riportano al principio più generale della
sostituzione.
Non ho la pretesa di esaurire un argomento così ricco; tralascerò
quindi l’analisi dei nomi della famiglia Toscano Malavoglia, per concentrarmi su alcuni dei personaggi minori. Spesso nelle mie considerazioni mi avvarrò delle opere di Giuseppe Pitrè, il grande folclorista siciliano caro allo stesso Verga.7
II - Due casi preliminari: la Vespa e Alfio Mosca
La Vespa.8 Cugina dell’usuraio zio Crocifisso, lo sposerà per avere i
suoi soldi.
Nel personaggio della Vespa in particolare, c’è qualcosa di analogo
agli animali di Esopo; la Vespa rappresenta, più che un essere umano,
un tratto psicologico saliente: è, insomma, più vespa che donna. È bene notare fin da adesso come il nomignolo sia il frutto di un punto di
vista esterno, di un giudizio. Il processo per cui quello che io penso di
un personaggio diventa il suo nomignolo, verrà ripercorso altre volte,
in particolare nel caso dello zio Crocifisso e del figlio della Locca, ma a
ritroso (il nome proprio o il nomignolo ereditato, ambedue arbitrari,
determinano quello che io penso del personaggio, o, nel caso di Crocifisso, quello che il personaggio è), creando un cortocircuito che avrà
conseguenze ben più drammatiche che nel caso presente:
6
Cfr. H. LAUSBERG, Elementi di retorica, Bologna, il Mulino 1969, §§ 178, pp. 228-31;
B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, Milano, Bompiani 1989, pp. 148-9, 160-71.
7 Cfr. Biblioteca di Giovanni Verga. Catalogo, a c. di C. Lanza, S. Giarratana e C. Reitano, Catania, Assessorato regionale dei Beni Culturali e Ambientali della P. I. Sopraintendenza ai Beni Librari per la Sicilia orientale 1985, pp. 349 sgg.
8 Cfr. G. ALFIERI, Lettera e figura nella scrittura de «I Malavoglia», Firenze, Accademia
della Crusca 1983, pp. 49, 95, 114.
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1. La Vespa allora si appuntellò le mani sui fianchi, e sfoderò la lingua come un
pungiglione.
Cap. II, par. 25
2. Io non l’ho trovato il marito, saltò su la Vespa con tanto di pungiglione.
Cap. III, par. 11
3. Ma la Vespa […] ronzava continuamente da comare Grazia, dalla cugina
Anna e dalla Mangiacarrubbe, […].
Cap. VII, par. 28
4. La Vespa è infuriata come fossimo in luglio! Sghignazzava compare Tino.
Cap. VIII, par. 7
Il procedimento è chiaro: del nomignolo della Vespa viene riattivato
il significato originario, nel primo caso con una similitudine tra lingua
e pungiglione, negli altri tre con una metafora che non fa che adeguarsi
al significato del nomignolo Vespa.
Il caso 1 è il più pregnante; ci offre una specie di sintesi delle due figure (quella umana e quella dell’insetto): un insetto con le mani sui
fianchi. L’identità tra donna e insetto è qui tanto forte che dobbiamo
ricordare che cosa l’insetto rappresenta, perché ci sia chiaro quale dei
due termini (la vespa o la ragazza) è più “reale”.
Esiste dunque una metafora madre non dichiarata e antecedente il
testo, ed è precisamente quella in cui una ragazza capricciosa e aggressiva viene identificata con una vespa.9 Dopo essere nata, la metafora si
pietrifica in un nomignolo che può rivitalizzarsi di quando in quando,
a mo’ di gioco di parole o barzelletta.
5. […] gli uomini le ronzavano sempre attorno a tentarla come ci avesse il miele nelle gonnelle.
Cap. XIII, par. 28
6. Le ragazze fra di loro prendevano le parti di Mosca, contro quella brutta Vespaccia.
Cap. II, par. 24
Nell’esempio 5, assistiamo a una sorta di epidemia metaforica, come
se gli uomini potessero avvicinare la Vespa solo a patto di ronzare come insetti.10 Questo succede anche nell’esempio 6, dove la compresen9 La
metafora fa parte dell’immaginario popolare siciliano: cfr. G. PITRÈ, Usi e costumi,
credenze e pregiudizi del popolo siciliano, III, Palermo, edizioni “il Vespro” 1978, p. 347; e
cfr. anche VERGA, I Malavoglia, cit., cap. XV, par. 18: «[…] padron Cipolla […] andava bighellonando […] come un cane di macellaio, dacchè gli era entrata in casa quell’altra vespa
della Mangiacarrubbe».
10 Si ricordi a questo proposito che non solo le api, ma anche le vespe nostrane Polistes
si nutrono di miele (cfr., ad esempio, il Lessico Treccani alla voce Vespa).
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za di due insetti sulla scena offre l’appoggio per un vero e proprio volteggio fra i significati del nomignolo e, nel caso di compare Alfio, del
cognome dei due personaggi: il cognome Mosca si è lasciato contagiare
nella rivitalizzazione. Ma qui le cose iniziano a complicarsi.
Alfio Mosca. Povero carrettiere, è innamorato di Mena Malavoglia,
che però non riuscirà a sposare. È odiato dall’usuraio Campana di legno, che credendolo un corteggiatore di sua cugina la Vespa lo fa sorvegliare dallo zio Santoro.
7. - e lo zio Santoro […] gli diceva […] [allo zio Crocifisso] che era lì per questo, e non passava una mosca senza che ei non lo sapesse; […].
Cap. V, par. 13
8. - Ho incontrato or ora compare Mosca; […] andava a ronzare nella sciara,
[…].
Cap. VIII, par. 20
Valga per i due passi succitati quanto detto per la Vespa, con una
precisazione importante: non esiste qui una metafora madre che istituisca un’identità tra persona e insetto, o meglio: poiché qui si tratta di un
cognome e non di un nomignolo, la scelta originaria della mosca per
identificare una persona avrà avuto ragioni troppo remote per essere in
qualche modo rintracciabili come caratteristiche del personaggio Alfio,
il quale non ha niente che possa richiamare una mosca. Così, come il
nome viene assegnato del tutto arbitrariamente, anche la metafora che
ne deriva è arbitraria.
Tuttavia, tale arbitrarietà non ci autorizza a evitare l’analisi: come ho
detto più sopra, non sarà strano che, in un povero villaggio di pescatori, un nome dotato di significato venga recepito come se fosse un soprannome. Nella tradizione popolare siciliana, «La mosca è tipo di piccolezza».11 Questa valenza si traduce sia nello scarso peso che compare
Mosca ha nella considerazione della gente, sia nella scarsa opinione che
lui stesso ha di sé: parlando con la Mena della morte di Bastianazzo,
egli arriva a sostenere che volentieri sarebbe morto al suo posto, perché non avrebbe «fatto danno a nessuno, e nessuno avrebbe pianto».12
Qui la mosca suggerisce un azzeramento della persona. Ma a questo livello, i contorni si fanno sfumati, e il ruolo del nome non è così netto:
qui come altrove nel romanzo, se è effettivamente il personaggio Mosca a suggerire la piccolezza dell’individuo di fronte alla vastità del
11
12
PITRÈ, Usi e costumi…, op. cit., III, pp. 332-3.
VERGA, I Malavoglia, cit., cap. IV, par. 11.
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mondo, tale suggerimento avviene non per mezzo del nome, ma attraverso una valorizzazione simbolica del mestiere di carrettiere. Unico a
spostarsi nella realtà pietrificata del villaggio, il carrettiere fa pensare
alla vastità del mondo «il quale è tanto grande che se uno potesse camminare e camminare sempre, giorno e notte, non arriverebbe mai
[…]»;13 sentendo il rumore dei carri si immagina gente diversa, che
«non sapeva nulla di compare Alfio, nè della Provvidenza che era in
mare, nè della festa dei Morti; […]».14 La mosca e il carro confluiscono quindi in compare Alfio per creare un campo simbolico che si riferisce alla mobilità, alla piccolezza, alla sparizione. Ma è comunque il
carro la figura fondamentale: la mosca aggiunge semplicemente una
sfumatura in più, pertinente solo al simbolo del carrettiere, non al personaggio di Alfio nella sua interezza.15 In questo modo il cognome
sembra mantenere il suo carattere di puro accidente: più avanti mostrerò come sia questa una delle peculiarità dell’arte onomastica del
Verga.
In una seconda valenza popolare, quella di “persona molesta e oziosa”,16 la metafora subirà una rivitalizzazione ad opera dello zio Crocifisso, che esasperato dalla gelosia per la Vespa definirà compare Mosca
«Un fannullone! che non sa far altro che andare attorno col carro dell’asino, e non possiede altro. Un morto di fame! Un birbante […]».17
In questo secondo caso, il punto di vista distorto dello zio Crocifisso
trova nel nome Mosca il catalizzatore per il proprio giudizio negativo.
Vediamo ora un ultimo esempio, in cui l’autore, sfruttando le possibilità offerte dal significato etimologico di un nome proprio,18 gioca ed
equivoca, al di là di una vera e propria valorizzazione metaforica.
9. e quelli che avevano bevuto levavano i pugni in aria, […] e se la prendevano
persin colle mosche che volavano.
Anche compare Mosca era di quelli che badavano ai fatti propri, e se ne andava
tranquillamente, insieme al suo carro, in mezzo alla gente che gridava coi pugni in
aria.
Cap. VII, par. 25 e 37
13
Ivi, cap. II, par. 37.
Ibid.
15 Un’interessante analisi del valore simbolico del carro è in P. DE MEIJER, Costanti del
mondo verghiano, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia editore 1969, pp. 107 sgg.
16 Vedi nota 10.
17 VERGA, I Malavoglia, cit., cap. V, par. 12.
18 Cfr. L. RENZI, Etimologia scientifica e etimologia retorica, in corso di stampa. Colgo
l’occasione per ringraziare il prof. Renzi per i suoi preziosi consigli.
14
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10. - Guardatevi la salute, compare Alfio. Alla Bicocca mi hanno detto che la
gente muore come le mosche, dalla malaria.
Una sera si fermò […] Alfio Mosca, […] aveva acchiappato le febbri alla Bicocca, ed era stato per morire, […].
Cap. VIII, par. 30 e cap. XV, par. 8
È un momento fondamentale per il fine di questa ricerca. La catacresi iniziale sembra realizzarsi nel futuro, dopo qualche paragrafo nel
primo caso, addirittura dopo interi capitoli nel secondo: come le mosche, Alfio passa in mezzo alla gente che leva «i pugni in aria»; come le
mosche, rischia di morire di febbre alla Bicocca.
Non si tratta più di metafora rivitalizzata: piuttosto, il gioco di parole e il contenuto etimologico del cognome sembrano voler assegnare a
viva forza nella realtà il destino della mosca a compare Alfio. Una “metafora coatta”, potremmo dire; ma c’è qualcosa di più che una semplice
metafora: il fatto che Alfio Mosca corra realmente gli stessi rischi delle
sue sorelle catacretiche mette in luce un aspetto al quale ho già accennato: a volte il nome con il suo significato sembra influenzare l’esistenza di chi lo deve portare; e, a ben guardare, nell’andare in contro a un
destino che il gioco di parole e il proprio nome prefigurano, sembra
quasi che compare Alfio subisca una maledizione.
III - Nome e ingiuria: il figlio della Locca, la Zuppidda, Piedipapera, Campana di legno
[…] cercate del dottor Azzecca-garbugli, raccontategli…
Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome.
Bisogna dire il signor dottor… Come si chiama ora? Oh to’!
non lo so il nome vero: lo chiaman tutti a quel modo.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi.
Scrive il Pitrè:
I soprannomi o agnomi sono molto comuni nel popolo: e più questo vive di vita ristretta, lontana dal consorzio sociale della città, e più i soprannomi sono ovvii
e naturali: anzi, a tutto dire, il soprannome è spesso il vero nome col quale la persona e la famiglia è ordinariamente conosciuta ed anche chiamata quando esso
non è una vera ingiuria sanguinosa.
[…] Una circostanza […] che non deve mancare nella formazione e propagazione d’un agnome, è lo spirito d’antipatia, di satira che lo anima; giacchè “la nostra maligna natura, dice un grande scrittore, ne fa parer dolce l’amaro che da altrui s’ingolla„; e noi più che al bene siamo portati al male. Gli agnomi perciò trovano addentellato nei difetti corporali, nelle abitudini e ne’ vizî d’una persona e in
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tutto ciò che agli occhi del popolo appare men buono.
Vengo ora ad un saggio di soprannomi siciliani, ‘nciurii, […].19
Il figlio della Locca. È una semplice “comparsa”; suo fratello Menico
muore nella tempesta in cui si perde il carico di lupini dei Malavoglia.
Nei paragrafi 30 e 31 del secondo capitolo alcuni personaggi discutono della sempre più grave penuria di pesci; Fortunato Cipolla ne attribuisce le cause alla aumentata presenza di vaporetti nel mare. Il figlio della Locca fa notare a compare Tino che di vaporetti ce n’è ancora di più a Siracusa o Messina, eppure da lì il pesce arriva «a quintali
con la ferrovia». Sebbene l’obiezione sia sensata, Menico viene cacciato
a male parole e scapaccioni, cosicchè
11. se ne andò strillando e dandosi dei pugni nella testa, che tutti lo pigliavano
per minchione perchè era figlio della Locca.
Cap. II, par. 31
Il nomignolo ingiurioso estende qui il proprio significato al figlio di chi
lo porta (la Locca, dal siciliano loccu, idiota, a sua volta ispanismo da loco,
pazzo), condannandolo a subire un punto di vista e un giudizio deformanti, con conseguenze più tragiche di quanto avviene per la Vespa: questa volta il nome è una prigione per il personaggio. Se infatti per la Vespa
o per la Locca stessa l’uso del nomignolo poteva essere giustificato, qui
non lo è, ma per i compagni del figlio della Locca è come se lo fosse.
Quest’esempio offre l’occasione di affrontare l’altro aspetto dei nomignoli dei Malavoglia: l’ereditarietà.
La Zuppidda. Pettegola del paese, cerca di far sposare la sua capricciosa figlia Barbara. Proprio di Barbara l’autore dice:
12. […] - chè Zuppidda la chiamavano perchè il nonno di suo padre s’era rotta
la gamba […]
Cap. IX, par. 65
Ma è in sua madre Venera che il nomignolo si rinnoverà nel suo significato ultimo.
Il nome Venera è associato al culto del Venerdì Santo;20 con curiosa
assonanza, un altro venerdì compare nel sintagma Vènnari Zuppiddu,21
19
PITRÈ, Usi e costumi…, op. cit., II, pp. 211 sgg.
Cfr. E. DE FELICE, Dizionario dei nomi italiani. Origine, etimologia, storia e frequenza
di oltre 18.000 nomi, Milano, Mondadori 1986, p. 350.
21 Cfr. G. PITRÈ, Proverbi siciliani, raccolti e confrontati con quelli degli altri dialetti d’Italia,
20
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‘il venerdì zoppetto’, ossia il terzo venerdì del carnevale. Il Pitrè22 dedica ampio spazio a «quella che potrebbe dirsi la religione del Venerdì»,23 mettendone in luce tutte le implicazioni superstiziose. Venendo più precisamente a parlare del nostro “venerdì zoppetto”, dice:
Non so […] da che derivi l’appellazione di […] venerdì del zuppiddu… […] il
Guastalla […] mette avanti l’ipotesi che quel zuppiddu possa essere un avanzo di
diavolo, divenuto un essere a parte, metà mitologico, metà reale, […].24
E soprattutto:
[…] il Venerdì Zoppetto rappresenterebbe il rovescio della medaglia del Venerdì Santo.25
Altrove26 egli indica in Zuppiddu uno dei sei principali diavoli presenti
nelle credenze popolari. Se dunque il significato del nome è legato ad un
culto sacro, la somma del nome e del nomignolo porta a capovolgere in
senso diabolico il valore cristiano, che è salvifico, del Venerdì Santo.
E il personaggio della Zuppidda appare veramente demoniaco, a cominciare dalla sua presentazione: vediamo una comare invelenita e pettegola, «una lingua d’inferno, di quelle che lasciano la bava»,27 che gira
per le vie del paese reggendo sempre la conocchia perché non faccia
rumore sui ciottoli; così, quando meno te l’aspetti te la ritrovi dietro le
spalle senza capire donde sia venuta, «con quegli occhi che dovevano
mangiarseli i vermi».28
13. […] la Zuppidda […] compariva sempre all’improvviso, per dire la sua come il diavolo nella litanìa, chè nessuno s’accorgeva di dove fosse sbucata.
Cap. II, par. 15
14. Comare Venera la Zuppidda faceva il diavolo […].
Cap. IX, par. 10
Una seconda connotazione soprannaturale della comare è da rintracciare nella sua conocchia, oggetto inscindibile dal personaggio, che
assume a volte il valore di arma malefica da usare contro la più prosaiIII, Palermo, Pedone Lauriel 1880, in ed. anastatica a c. di A. Rigoli, Palermo, edizioni “il
Vespro” 1978, pp. 36-7.
22 ID., Usi e costumi…, op. cit., IV, pp. 256 sgg.
23 ID., Proverbi siciliani…, op. cit., I, p. CLXXVII.
24 ID., Usi e costumi…, op. cit., I, pp. 61-2.
25 Ivi, IV, p. 261.
26 Ivi, IV, p. 65.
27 VERGA, I Malavoglia, cit., cap. II, par. 16.
28 Ivi, cap. I, par. 11.
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ca pistola di don Michele il brigadiere, corteggiatore della figlia.29
15. […] che se vedeva passare don Michele per la sua strada voleva cavargli gli
occhi con la conocchia che teneva in mano, in barba alla pistola che teneva sulla
pancia, […].
Cap. X, par. 55
16. […] e don Michele ronza sempre per la via del Nero, senza nessuna paura
di comare Zuppidda e della sua conocchia! Lui ci ha la pistola.
Cap. XII, par. 42
17. [la Zuppidda] stava a guardia di sua figlia colla conocchia in mano.
Cap. XIII, par. 15
L’esempio 17 ricorda molto da vicino una strega dell’immaginario
popolare siciliano, la “Vecchia di li fusa”, che custodisce il tesoro della
Grotta di Mangione con la sua conocchia.30
Più avanti, troveremo altri esempi dell’operazione verghiana di ribaltamento del mito cristiano. Per ora basti notare che, ancora una volta, abbiamo assistito all’azione congiunta di ereditarietà e significato:
sebbene semplicemente ereditario, il nomignolo ha acquistato un senso
nuovo e decisamente più pregnante di quello originario, puramente
descrittivo, destinato al bisnonno di Barbara.
Compare Piedipapera. Sensale, avrà una parte importante nella rovina dei Malavoglia fingendo di acquistare dallo zio Crocifisso il credito
dei lupini.
Piedipapera, piedi di papera, di anitra: si noti di sfuggita che il termine proprio della metafora sono anzitutto le zampe del volatile, che
vengono chiamate piedi, in una sorta di rapido viaggio di andata e ritorno del termine umano dall’uomo all’animale, animale che finisce per
restare intrappolato, zampe e tutto, in compare Tino:
Piede di Tino > zampa della papera > piede della papera > Tino Piedipapera
Della papera compare Tino assume non solo l’andatura, ma anche il
carattere sonoro: ecco un breve elenco di verbi preso da diversi capitoli: Piedipapera «schiamazzava», «vociava», «sghignazzava», «strillava».
18. Con Piedipapera [lo zio Crocifisso] non poteva sfogarsi perchè gli rimbeccava subito che i lupini erano fradici […]
Cap. VI, par. 25
29
30
Ivi, cap. II, nota al par. 16; ALFIERI, Lettera e figura…, op. cit., p. 56.
PITRÈ, Usi e costumi…, op. cit., IV, p. 416.
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19. […] tutto sta a prendere Piedipapera per il collo, […].
Cap. VIII, par. 14
La papera presta al personaggio anche il becco e il collo; come sopra
compare Alfio, Piedipapera sembra aderire, ma senza costrizione, al significato più letterale del proprio nomignolo: sebbene venga chiamato
“papera” solo perché “zoppo”, egli non è semplicemente zoppo, in
qualche modo è anche una papera. La metafora animale, che nasce dal
passo zoppicante, si è estesa agli altri tratti caratterizzanti passibili di
una valorizzazione umana.
Non basta: il significato del nomignolo viene esplorato anche nelle
sue implicazioni simboliche più riposte. E anche questa volta il diavolo ci mette lo zampino. In particolare, don Giammaria il vicario rivolgerà più volte a compare Tino insulti del genere «piede del diavolo» e
simili, e don Michele il brigadiere, mettendo in guardia la Mena da
compare Tino, cita il proverbio «Gli disse Gesù Cristo a San Giovanni, degli uomini segnati, guàrdatene» (Cci dissi gesù Cristu a San Giuvanni: di li singaliati guardatìnni 31). Per finire, nel capitolo secondo si
racconta di un gatto della cugina Anna ammazzato da una pedata di
Piedipapera.32
È importante notare come in compare Tino il significato del nomignolo si apra a un largo campo d’azione, perché in Grazia, la moglie di
Piedipapera, la metafora della papera subisce al contrario una desemantizzazione: la donna viene anch’essa chiamata comare Piedipapera,
senza essere zoppa, né tantomeno una papera: il nomignolo si sta tramutando in cognome.
Il cognome, per ritornare sull’ereditarietà, spesso non è altro che un
nomignolo passato di padre in figlio fino a perdere il suo significato.33
Qui, attraverso un’onomastica animale che, più che Esopo, può ricordare i nomi dei pellerossa, viene ripercorsa, per così dire, la genesi del
cognome, in un tempo mitico di identità pura col mondo naturale che
per noi (e per compare Alfio, e, se vogliamo, per comare Piedipapera)
è ormai perduto.
Per concludere con compare Tino, citerò un ultimo caso, che riconferma la diabolicità del personaggio.
31
Cfr. PITRÈ, Proverbi siciliani…, op. cit., I, p. 165.
Cfr. VERGA, I Malavoglia, cit., cap. II, nota al par. 13, p. 36.
33 Cfr. E. DE FELICE, Dizionario dei cognomi italiani: origine, etimologia, storia, diffusione e frequenza di oltre 14.000 cognomi, Milano, Mondadori 1986, pp. 16-7.
32
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20. A mastro Vanni gli piacerebbe levar le castagne dal fuoco con lo zampino
di Piedipapera.
Cap. VIII, par. 14
Piedipapera, proprio con il suo “zampino”, finirà per essere uno degli strumenti della rovina dei Malavoglia, interpretando contro di loro
il ruolo malefico che la sua deformità fisica richiederebbe.
Campana di legno. Ovvero zio Crocifisso, è l’avarissimo e avidissimo
usuraio che rovinerà i Malavoglia.
Contrariamente all’abitudine dell’autore di non dare descrizioni circostanziate dei personaggi, il capitolo quarto del romanzo si apre con
una presentazione di Campana di legno e dello zio Crocifisso. Come si
vede, il consueto panorama onomastico è capovolto: normalmente,
può accadere che più persone abbiano lo stesso nome; qui, due nomi
hanno lo stesso referente, appartengono alla stessa persona. Perché
non succede come con i Malavoglia Toscano, dove uno dei due nomi è
caduto?
Fin da questo capitolo, capiamo che i due nomi dell’usuraio sono
ambedue utili, in quanto appartengono alle due diverse funzioni narrative -come direbbe Propp- che il personaggio svolge:34 l’usuraio è
Crocifisso quando deve dare soldi o quando non riesce a riceverli, è
Campana di legno quando deve ascoltare le preghiere dei debitori e
quando deve essere pagato. Potremmo anche dire, continuando ad
utilizzare il linguaggio di Propp, che in Crocifisso abbiamo la funzione
del donatore, che aiuta l’eroe; al contrario, Campana di legno rappresenta la funzione del danneggiamento, la quale spetta all’antagonista.
Questo richiamo al grande folclorista russo ha lo scopo di illustrare,
da una parte, il legame che salda Verga a veri e propri universali antropologici, legame che, a questo livello, possiamo addirittura considerare inconscio; dall’altra, vuole sottolineare la doppiezza intrinseca del
personaggio, doppiezza che trova nei due nomi una sintesi estrema e
potente:
21. […] avrebbe prestato anche la camicia; ma poi voleva esser pagato, senza
tanti cristi; ed era inutile stargli a contare ragioni, perchè era sordo, […]
Cap. IV, par. 5
«Senza tanti cristi», lui, il Crocifisso! Un autentico sdoppiamento.
Le due funzioni convivono in un’unica persona, e sono sostanzial34
Cfr. V. PROPP, Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi 1966, pp. 31 sgg.
COGNOME, NOME E NOMIGNOLO NEI MALAVOGLIA
123
mente il frutto di due punti di vista: la stessa persona è Crocifisso di
fronte a se stesso, Campana di legno di fronte agli altri. Preferisco però
occuparmi separatamente dei due nomi, poiché, se ambedue sono metafore, Campana di legno è un’ingiuria, Crocifisso è una condanna.
Campana di lignu, fig. dicesi di simulata sordità e quindi del non risponder
nulla; […].35
22. […] per questo lo chiamavano Campana di legno, perchè non ci sentiva da
quell’orecchio, quando lo volevano pagare con delle chiacchere, […]
Cap. IV, par. 1
23. […] e dimenava il capo che sembrava un campana senza batacchio davvero.
Cap. I, par. 20
24. Campana di legno faceva il sordo, e dimenava il capo, come Tartaglia.
Cap. X, par. 82
25. Campana di legno, duro come un sasso, si stringeva nelle spalle, e badava a
ripetere che a lui non gliene importava, e attendeva ai fatti suoi.
Cap. II, par. 27
26. Io voglio i miei denari, ripicchiava Campana di legno con le spalle al muro.
Cap. VI, par. 24
Della monotonia, veramente legnosa, di Campana di legno nelle sue
reazioni e nei suoi pensieri si potrebbero dare numerosi altri esempi,
tutti dello stesso tenore. Campana di legno si manifesta come monocorde nei pensieri e sordo alle preghiere mediante uno scompenso sonoro: il contrasto con il suono che ci si attenderebbe da una campana
vera.
L’ultimo esempio, con quel metaforico «ripicchiava», accentua ancora di più l’aspetto sordo-sonoro di questo nome: è come se il personaggio picchiasse la campana che lui stesso è, o come se, per non sentire le loro richieste, trasformasse tutti i creditori in altrettante campane
di legno: il nome è una maschera, un rifugio per il personaggio.
27. Ella ha gettato i suoi occhi su di suo zio Campana di legno, la furbaccia!
Cap. II, par. 23
Qui la «furbaccia» è la Vespa, che vorrebbe sposare lo zio, e che nel
procedere del romanzo si vedrà opporre un’ostinata quanto simulata
sordità. Come sopra con compare Alfio, il nomignolo sembra prefigurare un avvenimento: gettando gli occhi su Campana di legno, la Vespa
non potrà che trovarsi a fronteggiare uno che fa il sordo. Ma qui c’è
una svolta, veramente magistrale.
35
G. PITRÈ, Spettacoli e feste popolari siciliane, Palermo, edizioni “il Vespro” 1978, p. 213.
124
CARLO CENINI
28. Lo zio Crocifisso alle volte non ci sentiva, e invece di abboccar l’esca seguitò a saltar di palo in frasca, […].
Cap. V, par. 4
29. Lo zio Crocifisso lasciava dire e non udiva, ora che dirimpetto si vedeva la
porta di compare Alfio con tanto di catenaccio.
Cap. IX, par. 48
Perché ora il sordo è Crocifisso, e non Campana di legno? Perché il
sordo sarà crocifisso: esacerbata, la Vespa farà del matrimonio con lo
zio una questione di puntiglio, e una volta sposato con la bizzosa ragazza, Campana di legno sparirà letteralmente dalla pagina: dopo il
matrimonio, il nomignolo Campana di legno per indicare il personaggio, compare una o due volte, contro le oltre venti di zio Crocifisso. In
questo senso, una pregnantissima metafora tra la Vespa e la croce è nel
quindicesimo capitolo, in cui lo zio Crocifisso insegue Alfio Mosca e
«cercava di mandargli anche la Vespa […], chissà che non si fossero
rammentati dell’amore antico, […], e compare Mosca non riescisse a
levargli quella croce di su le spalle.»36
Ora uno dei due nomi non è più utile, e può cadere; ormai non c’è
che lo zio Crocifisso, che, come c’era da aspettarsi, subirà un tracollo,
assistendo impotente alla dilapidazione della roba da parte della “dolce” metà.
30. La Vespa era sempre a spendere e spandere, che se l’avessero lasciata fare
avrebbe vuotato il sacco in una settimana; e diceva che la padrona adesso era lei,
tanto che tutti i giorni c’era il diavolo dallo zio Crocifisso.
Cap. XIII, par. 24
31. - Questa è stata la volontà di Dio! andava dicendo picchiandosi il petto; - la
volontà di Dio è stata che io m’avessi a pigliare la Vespa per castigo dei miei peccati!Cap. XIII, par. 27
Nell’esempio 31 ritorna il “picchiare”, un verbo caro al personaggio…
Di nuovo, il Pitrè è di grande aiuto per stabilire una connessione essenziale con l’humus popolare siciliano. Infatti, il nomignolo Campana
di legno va fatto risalire all’antico motteggio Campana di lignu, Pasqua
‘mpressu, ‘campana di legno, Pasqua è vicina’.37 Tornerò più avanti sulla valenza “pasquale” del nomignolo; mi basta per ora mostrare la connessione tra il significato del nomignolo Campana di legno e quello del
nome Crocifisso, lasciando di nuovo la parola al Pitrè:
36
37
VERGA, I Malavoglia, cit., cap. XV, par. 15. Il corsivo è mio.
PITRÈ, Proverbi siciliani…, op. cit., III, p. 21.
COGNOME, NOME E NOMIGNOLO NEI MALAVOGLIA
125
Chi sa che una volta non si facesse uso di campane di legno? perché un antico
motteggio prenunzia la imminenza della Pasqua: Campana di lignu, Pasqua ‘mpressu; se pure sotto la figura della campana di legno non voglia intendersi il silenzio
che si fa alla contemplazione dei dolori del Cristo.38
Non si potrebbe desiderare una didascalia migliore, per quel “picchiare”.
IV - Due nomi blasfemi: zio Crocifisso, la Provvidenza
Zio Crocifisso39
32. Lo zio Crocifisso strillava come se gli strappassero le penne mastre, […].
Cap. II, par. 1
33. […] la vera disgrazia è toccata allo zio Crocifisso che ha dato i lupini a credenza.
Cap. III, par. 13
34. […] il vero disgraziato è lo zio Crocifisso, che ci perde il credito dei suoi
lupini.
Cap. IV, par. 28
35. No! rispose padron ‘Ntoni, no! chè bisogna pagare il debito allo zio Crocifisso, […].
Cap. IV, par. 31
36. […] lo zio Crocifisso alla fin fine era cristiano, e non aveva dato ai cani il
suo giudizio.
Cap. II, par. 4
37. […] zio Crocifisso […] si lamentava come Cristo in mezzo ai ladroni, […].
Cap. II, par. 25
38. E il mio catechismo lo so, aggiunse lo zio Crocifisso per non restare in debito.
Cap. II, par. 28
39. Lo zio Crocifisso se ne stava ginocchioni a piè dell’altare dell’Addolorata,
con tanto di rosario in mano, e intuonava le strofette con una voce di naso che
avrebbe toccato il cuore a satanasso in persona.
Cap. III, par. 1
40. […] era un buon diavolaccio, […].
[…] le sue bilancie, […] erano false come Giuda, […], ed hanno un braccio
lungo e l’altro corto, come San Francesco.
Cap. IV, par. 2 e 3
41. […] se volevano truffargli la roba, […], la truffavano a Cristo, com’è vero
Dio! Chè quello era un debito sacrosanto come l’ostia consacrata […].
Cap. IV, par. 8
38
39
ID., Spettacoli e feste…, op. cit., p. 213.
Cfr. ALFIERI, Lettera e figura…, op. cit., p. 75.
126
CARLO CENINI
42. - Io voglio la roba mia, che l’ho fatta col sangue mio come il sangue di Gesù
Cristo che c’è nel calice della messa, e par roba rubata, […].
Cap. VIII, par. 22
«Si atteggia a vittima»: così l’autore descrive nei suoi appunti preparatori il personaggio dello zio Crocifisso.40 I primi esempi, così come
l’ultimo del capitolo precedente, valgono a mostrare come il nome Crocifisso provochi attorno a sé il proliferare di un campo semantico religioso e, soprattutto, a sottolineare come egli sia Crocifisso non solo per
sé ma anche per i Malavoglia debitori, che finiscono coll’identificarsi
con le sue pene e col sentire un obbligo quasi sacro verso l’usuraio.
Ma è lo stesso zio Crocifisso a sciogliere la metafora definitiva su se
stesso.
43. […] la mia roba par roba rubata, ma quel che fanno a me lo fanno a Gesù
Crocifisso che sta in croce; […].
Cap. VI, par. 43
C’è una differenza cruciale tra la metafora del Crocifisso e il gioco
onomastico di compare Mosca e di Piedipapera: per compare Alfio l’identificazione con l’insetto era occasionale e fondata sull’omonimia;
un po’ più profondamente, per Piedipapera l’animale era rivelatore di
nuovi aspetti del personaggio. Ma per lo zio Crocifisso, l’identificazione col proprio nome vuole essere costitutiva del personaggio stesso, il
quale con Campana di legno viene a formare un binomio indissolubile
vittima–carnefice (“vittima” del povero e carnefice del povero), mostrando nelle due figure le facce complementari dell’usura: il soccorso
e – l’esborso (e si rilegga l’esempio 40, che con il riferimento a Giuda
crea un autentico groviglio tra le figure del Salvatore e del Traditore).
Parafrasando le Sacre Scritture,41 e in un certo senso mettendole in
pratica, lo zio Crocifisso suggerisce un parallelismo non più semplicemente nominale tra sé e il Cristo, tramutando, nell’esempio 43, il proprio nome in una terribile bestemmia: si ricordi come l’idea di un debito incolmabile dell’umanità nei confronti del Salvatore sia costitutiva
della religione cattolica. Ora, per la proprietà transitiva, dalle parole
dello zio Crocifisso si ricava la bestemmia: Cristo è un usuraio. Si tratta
di una bestemmia, poiché nel fondo dello zio Crocifisso non alberga il
perdono, ma un suono di legno.
40
VERGA, I Malavoglia, cit., Appendice IV, p. 387.
Mt. 25, 40: «In verità, vi dico che tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli
di questi miei fratelli, l’avete fatto a me».
41
COGNOME, NOME E NOMIGNOLO NEI MALAVOGLIA
127
Anche il nomignolo Campana di legno ha un suo legame con la figura del Salvatore: come ho già ricordato, il nome è legato all’usanza di
suonare una campana di legno nei giorni prima di Pasqua. Ma non si
tratta, come abbiamo visto, di una semplice nota di colore popolare;
suggerendoci l’idea della risurrezione, infatti, l’autore vuole mostrare
nei due nomi le facce complementari della religione: il sacrificio e la
salvezza. Il parallelismo tra la figura di Gesù e quella dell’usuraio non
si ferma qui: gli esempi 32, 37 e 41, che potrebbero moltiplicarsi, mostrano chiaramente il legame viscerale tra l’usuraio e la propria «roba»,
la quale viene ad identificarsi con il sangue di Cristo e con l’ostia. Proseguendo nel paragone, possiamo allora vedere una “morte” dell’usuraio nel momento in cui presta il denaro, seguita da una “resurrezione”, o meglio da una “Pasqua”, quando il denaro viene restituito. Perché proprio la Pasqua sarà il giorno della “resa dei conti”: nel capitolo
ottavo, infatti, Campana di legno e compare Piedipapera si accordano
per rovinare i Malavoglia, stabilendo come ultimo termine per il pagamento del debito dei lupini il giorno di Pasqua:
44. Aspettiamo a Pasqua; […] ma voglio essere pagato sino all’ultimo centesimo, […].
Cap. VIII, par. 22
Il paragrafo successivo, che apre uno squarcio d’illusoria serenità
per il ritorno della vita in primavera e per i preparativi alla casa del Nespolo per le nozze tra Mena Malavoglia e Brasi Cipolla, porta in principio una “firma” che non ci può ingannare. Ricordiamo ancora una volta il motto Campana di lignu, Pasqua ‘mpressu; qui abbiamo:
45. La Pasqua infatti era vicina.
Cap. VIII, par. 23
Che ne è precisamente la traduzione. A questo punto, l’idea della
compresenza nello stesso personaggio delle due funzioni di Propp non
apparirà più peregrina: l’usuraio è per il popolo contemporaneamente
un salvatore cui va tutta la gratitudine e un persecutore che merita tutto l’odio: È proprio la confusione continua delle due funzioni a generare nel debitore un distruttivo senso di colpa nei confronti del proprio
carnefice (si veda l’esempio 35). Nell’usuraio sono veramente contenute la funzione di aiutante e quella di antagonista, funzioni che il personaggio fonde in sé con ambivalenza crudele.
Pasqua vicina: come dire, stanno finendo i tempi duri, usciremo dai
guai, l’usuraio è stato la nostra provvidenza.
128
CARLO CENINI
46. […] era la provvidenza per quelli che erano in angustie, […].
Cap. IV, par. 4
La Provvidenza.
47. Così fu risoluto […] il viaggio della Provvidenza, che era la più vecchia delle barche del villaggio, ma aveva il nome di buon augurio.
Cap. I, par. 23
La barca dei Toscano Malavoglia assume nel movimento della trama
un ruolo assolutamente centrale. Nonostante il nome sia «di buon augurio», abbiamo appena visto (esempio 46) che esso può nascondere
delle insidie. Procediamo ora lungo l’asse temporale del romanzo, partendo dai commenti del villaggio al ritrovamento della barca, naufragata con il carico di lupini:
48. - Bella Provvidenza, eh! padron ‘Ntoni! Ma lo speziale è protestante ed
ebreo, ognuno lo sapeva.
Cap. III, par. 17
49. La provvidenza l’avevano rimorchiata a riva tutta sconquassata, […]. Bella
provvidenza che avete! gli diceva don Franco, […].
Cap. V, par. 19
50. - Una Provvidenza rattoppata! - sogghignava lo speziale - […].
Cap. VII, par. 9
Cominciamo col notare l’alternanza grafica Provvidenza - provvidenza, sufficiente nella sua stringatezza ad istituire l’identità assoluta tra la
barca e la volontà di Dio, identità che volta a volta assume connotati
tragici, ironici, comici. Non solo: alla illusoria rinascita della barca è
dedicato uno dei rarissimi sprazzi veramente lirici del romanzo.
51. Così tornano il bel sole e le dolci mattine d’inverno anche per gli occhi che
hanno pianto, e li hanno visti del color della pece, e ogni cosa si rinnnova come la
Provvidenza, che era bastata un po’ di pece e di colore, e quattro pezzi di legno,
per farla tornare nuova come prima, e chi non vede più nulla sono gli occhi che
non piangono più, e sono chiusi alla morte.
Cap. VII, par. 11
Qui la pece è l’ingrediente maledetto: subito dopo aver consolato
«gli occhi che hanno pianto» e che hanno visto i giorni «del color della
pece», spietatamente direi, e sotterraneamente, la pece viene nuovamente iniettata, proprio alle radici della speranza. Le già citate parole
dello speziale («Una Provvidenza rattoppata!»), che precedono il passo
di un solo paragrafo, assumono così una luce ben più nera di quella del
puro gioco di parole.
COGNOME, NOME E NOMIGNOLO NEI MALAVOGLIA
129
52. […] e avevano rattoppato un’altra volta la Provvidenza, che adesso pareva
davvero una ciabatta; eppure si metteva da parte qualche lira. Avevano comprato
una buona provvista di barilotti, e il sale per le acciughe, se San Francesco mandava la provvidenza (sic!),42 la vela nuova per la barca, e messo un po’ di denaro nel
canterano.
Cap. X, par. 78
53. Stavolta San Francesco l’aveva proprio mandata, la provvidenza.
Cap. X, par. 85
54. […] e un miglio prima di arrivare al paese si sentiva che San Francesco ci
aveva mandata la provvidenza; […].
Cap. X, par. 91
55. Allora a Trezza e ad Ognina, era venuta la provvidenza, con tutti quei forestieri che spendevano. Ma i rigattieri torcevano il muso, se si parlava di vendere
una dozzina di barilotti d’acciughe, e dicevano che i denari erano scomparsi, per
la paura del colera.
Cap. XI, par. 27
Nel capitolo decimo, come si vede, assistiamo al tentativo di rinascita, di resurrezione della famiglia. Le potenze divine sembrano favorevoli; in ogni luogo si fa viva la provvidenza, quella vera, mandata nientemeno che da san Francesco (ma, di nuovo, si legga l’esempio 40: il legame segreto tra la barca e l’usuraio, tra Dio e l’usuraio è veramente micidiale). Ma l’errata, l’impossibile valutazione delle forze in gioco conduce ogni speranza al naufragio, non più solo della barca, questa volta, ma
della famiglia intera, e della casa. L’identità Provvidenza - provvidenza si
fa volta a volta più o meno labile, per poi sparire: il gioco dell’ironia.
56. […] e se non fosse stato per l’ultimo temporale in cui si è persa la Provvidenza, che è stata una vera grazia di Dio, la fame quest’inverno si sarebbe tagliata
col coltello!
Cap. IV, par. 23
57. […] la Provvidenza, colla pancia piena di grazia di Dio, tornava a casa,
[…].
Cap. X, par. 10
Due casi esemplificativi di quanto detto più sopra: la «grazia di
Dio» associata al nome della barca ha valore positivo nel secondo caso,
dove il racconto ha i toni della pesca miracolosa. Nel primo caso, «grazia di Dio» e «Provvidenza» reagiscono con violenta repulsione reciproca, che è specchio della repulsione tra i Malavoglia e il resto del villaggio-mondo: l’elogio del temporale viene dalla bocca del contadino
Fortunato Cipolla, che aveva promesso il figlio Brasi a Mena, ritirandosi
42
Il corsivo è mio.
130
CARLO CENINI
dall’affare dopo il tracollo della famiglia e la perdita della dote.
58. La casa dei Malavoglia era sempre stata una della prime a Trezza; ma adesso colla morte di Bastianazzo, e ‘Ntoni soldato, e Mena da maritare, e tutti quei
mangiapane pei piedi, era una casa che faceva acqua da tutte le parti.
Cap. IV, par. 26
«Una casa che faceva acqua da tutte le parti». Provvidenza, barca,
casa: l’immagine della barca è metafora, per così dire, in factis, degli altri due elementi, che ne vengono sopraffatti: la barca metaforica che si
annida nella casa e nella provvidenza finisce col trascinare nel suo inabissarsi le due realtà sorelle.
Alla barca va associata l’idea di mare, di marea, di burrasca, di corrente. Nella prefazione, la «fiumana» è un’ulteriore metafora che pertiene all’acqua, elemento primordiale dell’intera creazione. Il romanzo
si apre con varie «burrasche» che trascinano via diversi componenti
della famiglia, lasciando superstiti quelli della casa del nespolo. Metafora in factis: le burrasche, apparentemente metaforiche, si riveleranno
rapidamente e letalmente reali, facendo dei Malavoglia un capolavoro
di coesione con l’intera struttura del ciclo dei Vinti, poiché esso stesso è
il primo termine della metafora da cui nasceranno, o avrebbero dovuto
nascere, i successivi romanzi; la metafora: il mondo è un mare.
V - Per una conclusione
Al contrario di Giacomo Devoto che pensava per l’Europa a una storia senza
nomi (un po’ come Croce aveva pensato a una storia soltanto di idee), io non credo che sia possibile una storia senza nomi e neanche una vita senza nomi.
Gianfranco Folena, 23 maggio 1993.43
Nei Malavoglia i nomi sono specchio ed enigma della storia. Nel
modo in cui i personaggi del romanzo sono stati creati, e cioè semplicemente nominandoli e lasciando che andassero incontro al significato
profondo del loro nome, c’è qualcosa che ricorda da vicino il mito della creazione, che in molte culture primitive è intesa come un nominare
le cose per separarsi da esse:44 in altre parole, i nomi hanno dato a volte l’impressione di contenere in nuce il destino del personaggio. Ed è
43
G. FOLENA, Antroponimia letteraria, RION, II (1996), 2, pp. 356 sgg.
Cfr. M. SCHNEIDER, La nascita musicale del simbolo, in Il significato della musica. Simboli, forme, valori del linguaggio musicale, trad. it., Milano, Rusconi 1979, pp. 91-114, dove
viene offerta un’ampia panoramica sull’argomento.
44
COGNOME, NOME E NOMIGNOLO NEI MALAVOGLIA
131
qui, come avevo anticipato, che si manifesta in pieno la capacità mimetica del Verga: egli ha avuto cura di mostrare il momento in cui il nome
sembra essere specchio segreto del personaggio, ma anche il momento
in cui mostra di non esserlo più. Compare Mosca non segue sempre le
sorti di una mosca, i Malavoglia non sono tutti animati dalla febbre del
progresso, non tutti i nomi vengono valorizzati nel loro significato, e
così via. La pratica letteraria dell’onomastica subisce insomma una sorta di slogamento: se infatti in molta onomastica letteraria i nomi sembrano sempre calzare “a pennello” (senza andare troppo lontano, si
pensi ai nomi dei Promessi sposi), nei Malavoglia nome, cognome e nomignolo hanno mantenuto la loro i m m o b i l i t à , cui il destino mutevole dell’uomo si può adattare solo a intermittenza.
«Prima di esser tale, il soprannome fu una parola»: le parole del Pitrè potremmo dire tranquillamente che valgano anche per molti nomi e
cognomi.45 Questo aiuta a capire due cose; la prima è che, da un punto
di vista soggettivo, la distinzione tra cognome, nome e nomignolo non
è così netta. Per esempio, Malavoglia è un cognome per gli abitanti del
villaggio, un nomignolo per chi vada a consultare il libro della parrocchia; Malavoglia, semplicemente Malavoglia, sarà infine il nome-cognome-nomignolo dato a ’Ntoni dai brigadieri che lo arresteranno. La seconda è che questi nomi godono di due referenti; da un lato, essi indicano la persona, dall’altro hanno un significato proprio, più o meno
coerente con la persona stessa. La parentela stretta con le figure di sostituzione appare ora evidentissima, ma è altresì chiara la differenza tra
i due procedimenti. La figura di sostituzione codifica un legame che è
in qualche modo implicito negli oggetti, e che viene rivelato dall’esperienza; nella denominazione tale legame è già dato; saranno poi eventualmente i fatti a darne una conferma, non sempre prevedibile. Questi
nomi, in quanto nomi propri e cognomi, non sono metafore, bensì possono diventarlo; in quanto nomignoli, essi non sono più metafore, ma
possono tornare ad esserlo. E non è un caso che spesso sia un gioco di
parole, una catacresi, una “non più metafora” a giocare il ruolo di catalizzatore per questo ritorno del significato; da una parte, il morire come
le mosche, il ronzare; dall’altra Alfio Mosca: le due metafore spente subiscono una sorta di attrazione magnetica, di illuminazione reciproca, e
la mosca torna a ronzare. Non è facile determinare lo statuto retorico
di tale procedimento; si può parlare di metafora che si annida, di me45
Cfr. DE FELICE, Dizionario dei nomi italiani…, op. cit., pp. 9 sgg.; ID., Dizionario dei
cognomi italiani:…, op. cit., pp. 9 sgg.
132
CARLO CENINI
tafora in agguato, di una sostituzione quasi arbitraria, che attende di ricevere, o di riottenere, una conferma, più o meno letterale: in questo
senso diventa chiaro il possibile legame tra nome e maledizione, cui accennavo proprio riguardo a Mosca.
Ancora una volta, è grande il mimetismo, inteso precisamente come
nascondimento dell’artificio: il verbo ronzare (e così rimbeccare, ripicchiare, ecc.) viene usato anche per altri personaggi, i cui nomi non sono
pertinenti. Così l’artificio di Mosca che ronza non è più una maledizione, e nemmeno una metafora: può essere scambiato per una semplice
coincidenza linguistica, e passare inosservato. A differenza di altri scrittori, che inseguono altri fini, Verga non ha dimenticato che solo occasionalmente l’esistenza di un uomo può entrare in dialogo con l’arte
minima, poco vitale, del nome.
Poco vitale, e però vitale. Non va sottovalutata la forte influenza psicologica del significato di un nome, dalla quale erroneamente ci crediamo immuni; non solo negli umili pescatori, ma nell’uomo in generale rimane una specie di segreta, superstiziosa convinzione nel potere magico
del nome, convinzione che, per esempio, ci impedirà di battezzare nostro figlio con il nome di GIUDA;46 che ha spinto molte persone a mutare il proprio nome di battesimo; e che ha spinto, per fare un ultimo
esempio che ci riporta in mare, due giornalisti del «Corriere della sera»,
a scrivere, di un uomo caduto dalla sua barca durante una burrasca:
Quattro giorni in mezzo al Tirreno aggrappato a una zattera, alla deriva nel mare in tempesta. Salvo quando ormai non c'era più speranza, dopo che aerei ed elicotteri avevano rinunciato a cercarlo. Si chiama, a ragione, Marcello Fortunato.47
Non so trovare, per questo intervento, una conclusione migliore dell’immagine di un naufrago in mare, salvato dal proprio nome.
46 Cfr. L. STERNE, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, trad. it., Milano,
Mondadori 1992, pp. 51 sgg. E cfr. anche L. PIRANDELLO, Uno, nessuno e centomila, Milano,
Mondadori 1992, pp. 50 sgg.
47 A. PINA e G. ZASSO, Salvo dopo quattro giorni su una zattera nel Tirreno in tempesta,
«Corriere della sera», 10 agosto 2001, p. 1.