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8. L’INGEGNERIA POSSIBILI SANITARIA OPZIONI TRASFERIMENTO A IN NEI MAHAJANGA SCALA REALE PVS; SUL E REPLICABILITA’ 8.1 L’approccio multidisciplinare al problema L’ingegneria ambientale nei PVS è una disciplina che andrebbe trattata in modi diversi rispetto a quanto si fa comunemente nei Paesi Occidentali. In linea generale, se i processi e le dinamiche in gioco rimangono gli stessi , i problemi ambientali ed i retroterra socioeconomici e culturali sono diversi (E. Dahi, 1990). In tal modo anche i criteri progettuali e realizzativi, i materiali, le scelte tecnologiche dovrebbero essere selezionati in funzione della realtà locale; un approccio multidisciplinare al problema è quindi importante affinché gli appartenenti alle comunità locali possano risultare i reali beneficiari; nasce quindi la necessità di affrontare problemi extra – ingegneristici e di lavorare assieme ad un’equipe con diverse competenze (P.Deverill, S. Bibly, A. Wedgwood, I. Smout, 2002) Il concetto di “tecnologia appropriata” non va in questo senso confuso con quello di “tecnologia semplice” rispetto alle tecnologie “convenzionali”. Spesso l’introduzione di tecnologie appropriate si rivela più complicata rispetto all’uso di tecnologie convenzionali, tenuto conto anche del divario tecnologico tra il Mondo Occidentale e i PVS, che può porre dei limiti alla trasferibilità dell’opera, ma anche alla capacità stessa di comunicare notizie e dati e di operare delle scelte adeguate affinché la comunità locale ne possa beneficiare. Questi aspetti dell’ingegneria ambientale vengono studiati da qualche decennio anche a livello universitario, come ad esempio all’Università di Loughborough in Gran Bretagna, dove è attivo il WEDC (Water Engineering Developing Centre), fonte di molte delle pubblicazioni e dei libri consultati per questa tesi (http://www.lboro.ac.uk/ departments/cv/wedc/index.htm). Il centro si occupa di pianificazione, gestione di infrastrutture per lo sviluppo in paesi a basso reddito e di ricerca; l’attività è legata alle problematiche dell’approvvigionamento idrico e dello smaltimento dei reflui. Il WEDC si 182 occupa specificamente del ruolo e dell’operato di ONG “tecniche” operanti nel settore dell’acqua (I. Smout, 1996). Analogamente, sono attivi alcuni corsi di ingegneria ambientale nei PVS all’Università Tecnica di Danimarca e corsi promossi da ISF Spagna, in varie università spagnole relativi alla metodologia della progettazione nella cooperazione nei PVS e allo sviluppo sostenibile (vedasi ad esempio il sito http://www.upv.es/isf/frame_p.htm ). In questo capitolo vengono esposti in modo sommario questi concetti, fondamentali per le attività di cooperazione internazionale come ad esempio quelle condotte da ISF a Trento, ma utili anche in situazioni diverse nell’ambito di progetti in PVS, e servono a completare il quadro generale di presentazione di questo lavoro, concepito e svolto come attività ingegneristica di volontariato nell’ambito della cooperazione. 8.2 La cooperazione per lo sviluppo; ciclo del progetto e pianificazione 8.2.1 Lo sviluppo sostenibile (tratto da: A. Riba, S. Boni, 2003) Nell’ambito delle strategie di sviluppo propugnate dagli organismi governativi e non governativi per i paesi del Sud del mondo (dove per Sud del mondo si intende una generica situazione di povertà; i termini nord/sud del mondo nel campo della cooperazione sono preferibili rispetto alla definizione ufficiale ma discutibile di Paesi in Via di Sviluppo e Paesi Sviluppati), va facendosi strada da un decennio il concetto di sviluppo sostenibile, che ha notevoli implicazioni sul piano delle scelte in un progetto di cooperazione, siano esse in ambito tecnico, sociale, politico od economico. Lo sviluppo sostenibile è “lo sviluppo in grado di soddisfare le necessità attuali senza compromettere la capacità delle generazioni future per soddisfare le loro proprie necessità” (Brundtland Report, relazione della Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo, 1987).e delimita le necessità attuali da soddisfare (solidarietà intragenerazionale); la novità sta però nella volontà di non compromettere le possibilità delle generazioni future di soddisfare alle loro necessità (solidarietà intergenerazionale). Ciò sposta su un altro piano il concetto di sviluppo e soprattutto di progresso, condizionandoli ai limiti naturali delle risorse. 183 Per questo motivo vengono proposte le 3 leggi della sostenibilità: - per una fonte rinnovabile (suoli, aria, risorse boschive) il ritmo sostenibile di sfruttamento non può essere maggiore del ritmo di rigenerazione - per una fonte non rinnovabile (combustibili fossili, elementi minerali) il tasso sostenibile di sfruttamento o uso non può essere maggiore del ritmo con cui una fonte rinnovabile, usata in modo sostenibile, può sostituire l’elemento non rinnovabile (principio di ammortizzazione) - per un elemento inquinante il tasso sostenibile di emissione non può essere maggiore del ritmo col quale l’elemento inquinante può essere riciclato, assorbito o sterilizzato dall’ambiente. E’ancora possibile distinguere tra sviluppo sostenibile in ambito ambientale, sociale ed economico, per quanto queste categorie non si possano presentare slegate nella strutturazione di un progetto di cooperazione internazionale. Riguardo all’ambito di interesse di questa tesi, si menziona la sostenibilità ambientale, ovvero un tipo di sviluppo che non produca danni permanenti alla biosfera, né agli ecosistemi particolari. Quelli che vengono definiti i 3 capitali pro capite, sociale (salute, educazione, famiglia, comunità…), naturale (cibo, acqua, energia, ecosistemi, fruibilità delle bellezze naturali) e tecnologico (edifici, infrastrutture, informazioni) devono essere mantenuti per tutti nel tempo – o, meglio, aumentati se possibile, per garantire uno sviluppo sostenibile. In particolare si parla di sostenibilità debole se viene mantenuto il capitale totale pro capite indipendentemente dalla sua composizione (sociale, naturale, tecnologico), sostenibilità sensibile se viene mantenuto il capitale totale pro capite e dei livelli critici minimi di ciascun capitale, e di sostenibilità forte se vengono mantenuti tutti e 3 i capitali. Parallelamente al concetto di sviluppo sostenibile si utilizza quello di capacità di carico, intesa come il numero più elevato di una specie (in questo caso quella umana) che può essere sopportata da un habitat in maniera indefinita. Quando questo livello di popolazione viene superato, iniziano a scarseggiare le risorse ed il sistema può arrivare al collasso. Nel caso dell’uomo gioca ovviamente un ruolo fondamentale il modo in cui le risorse vengono utilizzate e dai residui prodotti; per l’uomo il concetto di risorsa dipende anche dalle necessità che una comunità vuole soddisfare, dalle scelte tecnologiche e da come queste si evolveranno. 184 8.2.2 Concetti e definizioni generali riguardo alla cooperazione per lo sviluppo (tratto da: A. Riba, S. Boni, 2003) La Cooperazione per lo Sviluppo comprende l’insieme di azioni realizzate da attori pubblici e privati, tra stati con diverso reddito relativo con l’intento di promuovere il progresso economico – sociale del Sud in modo che si riduca il disequilibrio con il Nord e risulti sostenibile. I principi della cooperazione internazionale che sono andati sviluppandosi nel dopoguerra si basano su equità, solidarietà, interesse mutuo, corresponsabilità. Riguardo alla cooperazione governativa, ad essa è possibile ascrivere ad esempio l’attività di cooperazione dei governi nazionali membri del CAS (Comitato di Aiuto allo Sviluppo, del quale fanno parte i paesi industrializzati), identificabile con l’AUS (Aiuto Ufficiale allo Sviluppo) e con l’attività delle istituzioni che fanno capo alle Nazioni Unite (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale). Accanto a questa esiste la Cooperazione non Governativa, i cui attori del Nord del mondo sono le Organizzazioni non Governative (ONG). Una definizione esaustiva del loro ruolo e delle loro attività è stata fornita ad esempio dall’OXFAM, ONG inglese tra le più sviluppate in Europa: “Le ONG sono organizzazioni di carattere sociale, indipendenti ed autonome, giuridicamente fondate e che operano senza fini di lucro. La loro azione è orientata verso la Cooperazione allo Sviluppo e verso la ricerca di accordi di aiuto tra Governi con l’obiettivo di provocare solidarietà e promuovere lo sviluppo tra i popoli del Terzo Mondo…” Esistono diversi tipi di ONG, a seconda dei modelli a cui esse possono essere riferite. Le caratteristiche fondamentali del loro operato nell’ambito della cooperazione non governativa sono: - Carattere privato - Carattere sociale - Indipendenza dall’ambito governativo - Promozione dello sviluppo attraverso strategie differenti (progetti di sviluppo, sensibilizzazione – educazione per lo sviluppo, pressione politica, commercio equo, risparmio etico, ricerca) 185 Il fondamento nell’azione delle ONG è la conoscenza dei problemi storici, politici, culturali che hanno determinato e determinano il divario esistente tra Nord e Sud del mondo; in quest’ottica, attuando un progetto di cooperazione, l’indice del prodotto interno lordo (PIL) pro capite non può e deve essere l’unico parametro per valutare lo stato reale della comunità assieme alla quale si esplica l’azione di cooperazione, in quanto non tiene conto della distribuzione del reddito, delle risorse e delle opportunità. Sono stati ad esso affiancati di recente altri parametri, tra cui l’indice di sviluppo umano (HDI), basato sul livello di vita (PIL pro capite), salute e benessere (speranza di vita alla nascita) e livello educativo (alfabetizzazione, scolarizzazione primaria e secondaria); tale indice, che va da 0 ad 1, viene pubblicato dal 1990 dall’UNDP (United Nations Development Program); ad esempio nel 2000 l’HDI della Norvegia era pari a 0,942, l’HDI della Sierra Leone era pari a 0,275; per il Madagascar il valore era di 0,469 (http:// www.geohive.com/index.php). Parallelamente all’HDI si considera l’indice di povertà (HPI), che presenta due variazioni: - HPI-1: indice di povertà per i paesi in via di sviluppo; si determina in base allo standard di vita sotto la soglia di accettabilità (percentuale della popolazione che non ha accesso a risorse idriche ufficiali e percentuale di bambini sottopeso di età inferiore a 5 anni), al tasso di analfabetismo, alla mancanza di salute (probabilità alla nascita di non sopravvivere oltre a 40 anni di età). - HPI-2: indice di povertà per i paesi OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico); si determina in base alla percentuale di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà (1 dollaro al giorno, aggiustato per ricreare la parità nel potere di acquisto), alla mancanza di salute (probabilità alla nascita di non sopravvivere oltre ai 60 anni di età) ed all’esclusione sociale, corrispondente al tasso di disoccupazione a lungo termine. Quanto segue è tratto dagli Appunti del Corso di Autoformazione sulla Cooperazione allo Sviluppo, ISF – Trento, aprile – giugno 2003. Un indice importante è quello di Gini, che misura quanto la distribuzione del reddito o del consumo per un individuo o una famiglia si discosta da una distribuzione perfettamente uguale per tutti. Negli ultimi anni si è inoltre affermato il concetto di “cooperazione decentrata”, ovvero di “un altro modo di fare cooperazione che mira a mettere gli attori (in tutta la loro diversità) al centro del processo di cooperazione coinvolgendoli, sin dall’inizio, in tutto il ciclo dell’intervento, specificando i ruoli e le responsabilità di ciascuno,conformemente al principio di sussidiarietà”, secondo la definizione della Commissione Europea. I principi 186 della cooperazione decentrata sono riassumibili nella partecipazione attiva e nel coinvolgimento della comunità, la complementarietà tra i diversi attori, la gestione decentralizzata, la priorità data al rafforzamento delle capacità della comunità. Le azioni di intervento particolarmente enfatizzate sono quindi il sostegno al dialogo politico e sociale, al processo di decentralizzazione e alle iniziative di sviluppo locale. 8.2.3 Il ciclo del progetto nella cooperazione per lo sviluppo (tratto da: A. Riba, S. Boni, 2003) Esistono diverse definizioni per un progetto di sviluppo: secondo l’agenzia di cooperazione tedesca GTZ (Deutsche Gesellshaft für Technische Zusammenarbait), una delle ONG europee più grandi nel settore tecnico, esso è il “compito innovatore che ha un obiettivo definito, dovendo essere effettuato in un certo periodo, in una certa zona geografica delimitata e per un gruppo di beneficiari, risolvendo in questa maniera problemi specifici o migliorando una situazione…”. Una concettualizzazione completa del progetto di cooperazione allo sviluppo deve quindi tener conto degli aspetti geografici e temporali e promuovere un processo di sviluppo in una determinata comunità mediante collaborazione e condizioni di uguaglianza tra i vari attori, secondo il concetto di cooperazione decentrata. A seconda dell’ampiezza degli obiettivi prefissati e del tempo impiegato per raggiungerli le attività di cooperazione si distinguono in piani, programmi e progetti. Il piano in un’ottica di cooperazione deve quindi essere solo il primo passo che definisce principi, fini e obiettivi ultimi, i mezzi per raggiungerli ed i limiti. I programmi facilitano il conseguimento delle mete e degli obiettivi definiti nel piano. Infine gli obiettivi specifici fissati nei programmi si raggiungono attraverso la realizzazione dei progetti. Si viene così a costruire una “pianificazione” capace di identificare tutte le fasi del progetto stesso e di verificarne poi la rispondenza agli obiettivi prefissati durante l’esecuzione (valutazione on – going) e successivamente (valutazione ex – post) valutare l’impatto a medio – lungo termine. Per la valutazione del progetto si utilizzano gli Indicatori Oggettivamente Verificabili (IOV), dei parametri che dovrebbero dare un’oggettiva indicazione dell’andamento dei lavori; nella realizzazione di una rete idrica, ad esempio, parametri di questo tipo potrebbero essere il numero di persone affette da patologie legate all’acqua prima e dopo la realizzazione del progetto, ma anche le spese sanitarie della comunità legate a questo problema, i casi di lavori abbandonati a causa delle patologie sopravvenute, ecc… 187 Nei paragrafi successivi si presenteranno gli IOV proposti dai referenti del progetto menzionato in questa tesi. Verrà fornito inoltre uno schema di ciclo di progetto, utilizzato tipicamente in quest’ambito, e lo schema del progetto specifico da attuare a Mahajanga. Nelle figure successive si espone uno schema di progetto, piano e programma ed un esempio pratico di pianificazione di un progetto polivalente di cooperazione. Figura 1.8: struttura e pianificazione di un progetto di cooperazione per lo sviluppo (PCS); piano, programma e progetto (A. Riba, S. Boni, 2003). 188 Figura 2.8: esempio di programmazione in una serie di progetti di cooperazione, strutturati all’interno di un programma e di un piano (A. Riba, S. Boni, 2003). E’utile pianificare un progetto in modo tale da identificare quali possono essere i beneficiari, gli esclusi ed i danneggiati della comunità, in modo da evitare possibili conflitti ed in definitiva un danno che metta in pericolo la fattibilità del progetto. Per quanto riguarda i beneficiari, di norma si distingue sempre tra beneficiari diretti ed indiretti; i beneficiari diretti sono costituiti dalla comunità destinataria, dai gruppi sociali specifici ai quali è stato destinato il lavoro, la controparte locale dell’azione, le persone contrattate da gruppi ed organismi di appoggio. I beneficiari indiretti sono i gruppi che traggono vantaggio in modo non diretto del progetto, ma ne usufruiscono in modo diverso dai beneficiari o in un secondo momento. Si ritiene utile inserire l’idea dei principi generali che un progetto di cooperazione deve perseguire, per quella che è l’idea e la prassi comune degli organismi che cooperano in questo campo. Si possono distinguere 3 tipi di principi; gli aspetti del primo saranno successivamente ripresi, in particolare nel discorso sulle tecnologie appropriate: - principi di carattere tecnico e tecnologico: i progetti devono essere come concezione integrali, devono partire da una visione a lungo termine, devono generare uno sviluppo umano e ambientalmente sostenibile e devono utilizzare tecnologie appropriate - principi di carattere sociale rispetto alla comunità beneficiaria: il progetto deve essere pianificato in modo da garantire partecipazione e responsabilità della comunità; si deve tener conto in tutte le azioni che determinano il progetto della 189 realtà socio – economica e socio – culturale dei beneficiari; se possibile si dovrebbe utilizzare manodopera qualificata locale (o in caso formarla); il progetto andrebbe realizzato assieme a controparti appartenenti alla società civile locale (ad esempio un’ONG locale), per favorire la costruzione o il miglioramento del tessuto sociale. - Principi di carattere sociale rispetto alla comunità del paese “donatore” (Nord del mondo): il progetto deve poter contribuire al consolidamento della nostra stessa società civile, deve promuovere la sensibilizzazione e l’educazione per lo sviluppo e una forma di interculturalità. Partecipazione della comunità locale alle scelte e alla realizzazione dell’opera su un piano di parità rispetto al paese donatore, pianificazione che tenga conto della realtà peculiare del paese e della comunità, approccio multidisciplinare al problema sono i principali obiettivi della cooperazione intesa in senso moderno; accanto a ciò l’obiettivo primario di soddisfare le necessità reali della popolazione, in modo tale che l’attività sia la conseguenza naturale di una domanda che viene direttamente dalla comunità per soddisfare un bisogno sentito; questo fattore è rilevante, poiché in molti casi i bisogni di una comunità del Sud non sono gli stessi di quelli della popolazione di una grande realtà industriale. Un progetto di cooperazione dimostra alla fine tanta validità quanto si dimostra, con il passare del tempo, che il beneficio attuato si mantiene od evolve nel tempo anche quando l’aiuto esterno scompare. Viene a questo punto inserito uno schema di ciclo di progetto, particolarmente in uso nella pianificazione di attività nei Paesi del Sud del Mondo, siano attività di cooperazione e volontariato o meno. Vale la pena di affermare come in modo analogo in questo contesto anche gli altri concetti appena esposti siano di largo uso nell’ambito di studi e lavori di tipo scientifico analoghi a quello presentato in questa tesi, in quanto argomenti che apparentemente non sembrano collegati alle scelte tecniche hanno in realtà una forte incidenza sulla riuscita del lavoro; ciò grazie o a causa delle peculiari condizioni tecnologiche, sociali, politiche ed economiche di realtà diverse da quella del Mondo Occidentale. Nel prosieguo del capitolo a titolo esemplificativo verranno esposti gli indicatori oggettivamente verificabili dello studio in questione, nonché i beneficiari diretti ed indiretti e gli obiettivi del progetto, così come sono stati presentati nella descrizione del progetto al FADES da parte della Facoltà di Scienze locale. 190 Figura 3.8: fasi di un progetto di cooperazione (A. Riba, S. Boni, 2003). Ad una fase diagnostica di identificazione del problema (conoscenza dell’ambiente, caratterizzazione delle interazioni tra i vari elementi e identificazione dei fattori chiave per la realizzazione) segue la determinazione degli obiettivi, dei risultati possibili e degli indicatori (IOV), dei fattori esterni e dei risultati; in questa fase si inizia a concretizzare quello che si conosce come progetto di ingegneria più usuale; vi è poi l’analisi di fattibilità (politica, sociale – culturale, economico – finanziaria, tecnologica, ambientale) e la programmazione di tempi, risorse, costi (attraverso ad esempio diagrammi di Gantt), il finanziamento in cui si realizza la strutturazione dei fondi e può richiedere una formulazione determinata per le entità finanziarie che dispongono i bandi di sovvenzione; si ha poi la fase esecutiva, durante la quale si attua il controllo, che è anche un mezzo di amministrazione e permette di conoscere più a fondo l’ambiente locale. Alla fine di queste singole azioni si ha il processo di valutazione di efficacia, efficienza, impatto, fattibilità e partecipazione/soddisfazione dei beneficiari. A questo punto si è chiuso solo un ciclo di un progetto; è possibile ed auspicabile che vengano fatti passi ulteriori per allargare o rafforzare l’azione ad altri beneficiari o altre comunità limitrofe. Lo studio oggetto della tesi come progetto di cooperazione allo sviluppo 191 Si espongono ora in modo riassuntivo gli obiettivi del progetto di Mahajanga, denominato “Contributo alla ricerca dei processi di trattamento delle acque reflue della città di Mahajanga”; i contenuti sono estrapolati dal documento che Jean Louis, futuro responsabile del laboratorio di analisi locale e della gestione del reattore pilota, ha inviato a Trento nel dicembre 2002; la redazione di un documento simile è anche finalizzata all’ottenimento del finanziamento necessario, in questo caso un fondo del FADES (vedi capitolo 3). Vengono preliminarmente elencati i partecipanti al progetto, cioè i ricercatori della Facoltà di Scienze ma anche gli esperti esterni e tutti i soggetti coinvolti (ivi compreso il ruolo di Trento), con ruoli ed obiettivi prefissati. Vi è un periodo ed una scadenza temporale per le diverse attività, indicativa in quanto sono sopraggiunti diversi problemi legati alle attività e ai finanziamenti a causa della guerra; infatti un altro problema da tener presente in modo generale è l’alto tasso di imprevedibilità nei progetti nel Sud del mondo, legato ad instabilità politiche ed economiche. Si espongono gli obiettivi del sottoprogetto, cioè “…contribuire allo studio e alla definizione dei processi di trattamento dei diversi tipi di reflui della città di Mahajanga, con lo scopo di mettere a disposizione del comune un mezzo utile alla gestione delle acque di rifiuto della città.” I risultati attesi sono la costruzione di un laboratorio, la caratterizzazione quantitativa e qualitativa delle acque reflue, proporre una strategia di trattamento delle acque reflue, formare i ricercatori e gli studenti, pubblicare i risultati. Dal punto di vista del ciclo del progetto, in questo caso il programma è la realizzazione in scala reale, a partire da questo studio, di un sistema di raccolta e depurazione delle acque reflue dei quartieri cittadini e delle aree industriali. Il piano più generale è il risanamento ambientale della zona, per il quale collaborano tra l’altro diversi enti ed ONG (tra cui la GTZ tedesca), tanto che è stato già svolto uno studio in merito al problema dei rifiuti solidi. I beneficiari diretti indicati in questo progetto sono: - la Facoltà di Scienze, che usufruirà di un nuovo laboratorio, di materiali e del reattore pilota utile alla ricerca - gli insegnanti – ricercatori che verranno formati sulle tecnologie relative al trattamento reflui e sullo studio di impatto ambientale - gli studenti di biotecnologie e trattamento dei reflui della DEA (vedi il capitolo 3) - gli altri partner: il comune e la SEIM, a cui vengono messi a disposizione i risultati dello studio sui processi di trattamento 192 I beneficiari indiretti sono tutti gli abitanti della città, in quanto vi è la speranza che questo studio dia la possibilità di giustificare un altro finanziamento atto alla realizzazione del progetto. E’da rimarcare inoltre la possibilità per il personale tecnico di ricevere una formazione adeguata che potrà poi essere utile alla comunità per gestire il problema in maniera autonoma. Segue un bilancio dei costi dei materiali (parte relativa alla formulazione e al finanziamento del progetto), mentre a parte è stato fornito un bilancio provvisorio dei costi relativi a tutte le missioni. Viene infine esposta la parte relativa al controllo sulla gestione del progetto, quindi sono elencati gli IOV proposti all’interno del quadro logico del progetto. Alle pagine seguenti vengono esposte le tabelle relative al quadro logico, tradotto in italiano; alcune date sono indicative poiché si riferiscono alle previsioni dell’inverno 2002. 193 194 195 196 8.3 Scelte ingegneristiche, problemi extra – ingegneristici nel settore dell’ingegneria sanitaria nei PVS e ruolo dell’ingegnere Nell’ingegneria ambientale, ed in particolare nel settore riguardante i problemi di approvvigionamento idrico e il trattamento dei reflui, più che in altri settori l’intreccio tra problematiche di tipo tecnico e sociologico è quanto mai complesso; l’esperienza degli ultimi decenni ha mostrato come i progetti riguardanti questo settore nei PVS abbiano funzionato meglio quando integrati da un approccio sociologico durante ogni fase del progetto, dall’identificazione del problema e del partner sino alla pianificazione e alla fase operativa (E. Dahi, 1990). Nell’ambito della cooperazione, ma anche di un qualsiasi progetto ingegneristico nei PVS è fondamentale, per la riuscita dell’opera, che l’ingegnere preveda di dover affrontare aspetti non prettamente tecnici nel suo lavoro, o, meglio, di avere la possibilità di collaborare con una equipe multidisciplinare. Spesso le scelte non tecniche possono rivelarsi di importanza fondamentale; l’ingegnere in tali casi dovrebbe possedere delle conoscenze di base tali da poter avere sufficiente comprensione del problema e cercare un supporto esterno. L’analisi della struttura sociale di una comunità, dei possibili conflitti interni e della possibilità o meno di accettare le nuove tecnologie e quindi i nuovi modi di vita da parte della popolazione, nonché la necessità di non stravolgere usanze e tessuto sociale delle comunità sono dei fattori che dovrebbero condizionare le scelte ingegneristiche. Nei vari studi nel campo dell’ingegneria ambientale nei PVS (P.Deverill, S. Bibly, A. Wedgwood, I. Smout, 2001) si sottolinea l’importanza di “andare incontro alla domanda”, cioè di cercare per quanto possibile di comprendere e mettere in pratica quelle che sono le necessità sentite dalla comunità e, nel caso in cui ciò sia necessario, prevedere la necessità di istruire la popolazione su ciò che sta per coinvolgerla. In generale si ritiene fondamentale la partecipazione attiva della popolazione nel ciclo del progetto anche per ciò che riguarda le scelte tecniche, nonché la loro informazione riguardo ai rischi e alle patologie legate all’acqua e all’igiene (E. Dahi, 1990, J. Pickford et al., 1993); si è dimostrata utile allo scopo in vari casi l’istituzione di comitati di quartiere. In molte zone è importante il ruolo ed il coinvolgimento delle donne, in quanto attive nel mantenimento dell’igiene della casa, nell’approvvigionamento dell’acqua 197 potabile e in quanto a causa di usi e tradizioni potrebbero venire escluse dal processo partecipativo (E. Dahi, 1990). In un approccio convenzionale, l’ingegnere considera conclusa la sua opera nel momento in cui ha operato, spesso in modo autonomo, delle scelte sulla base delle opportunità tecniche a disposizione e le ha messe in opera. Non sempre si attua un approccio del tipo domanda – risposta con la comunità ricevente (P.Deverill, S. Bibly, A. Wedgwood, I. Smout, 2001), mentre lavorare con le comunità (coinvolgendo anche le più svantaggiate o vulnerabili) e con organizzazioni di supporto locali può dare maggiori garanzie di successo. E’importante prendere familiarità con più tipi di opzioni possibili, anche non convenzionali e a basso costo, adattando gli standard alla situazione (vedi capitolo 2 riguardo all’individuazione degli standard per le acque reflue). Nel caso del progetto in questione si dovrà dare particolare importanza allo studio di usi e costumi delle comunità coinvolte; l’area è infatti interessata da degrado ambientale e da diversi tipi di patologie; vi sono inoltre diverse etnie che convivono (è da rimarcare la cospicua presenza di Comoriani, di religione musulmana, con i quali vi sono stati degli scontri negli anni ‘70). E’importante non considerare tutti i membri della società come un'unica entità con esigenze e bisogni uniformi. Non vi è da dimenticare che la presenza di tradizioni religiose di tipo animista in Madagascar comporta il radicamento nella popolazione di tabù particolari (fady), come il culto dei morti, che comporta la sacralità e l’inviolabilità di molti luoghi. Questo è un aspetto fondamentale per non andare incontro al risentimento della popolazione nelle fasi di sperimentazione e soprattutto, nell’ottica di realizzare dei sistemi di evacuazione e trattamento delle acque reflue. Riguardo all’approccio multidisciplinare al problema, a Mahajanga è previsto, già nell’attuazione del sotto – progetto, il coinvolgimento di altri enti e figure con diversa competenza; in primo luogo la già menzionata GTZ, che ha già collaborato a studi su problemi ambientali della zona; l’ONE (Organismo Nazionale per l’Ambiente), il Comune, come già menzionato, l’IRCOD (Organizzazione di Strasburgo che collabora con il Comune e si è già occupata del problema del risanamento della città) e gli esperti esteri (tra cui i docenti – studenti – ricercatori del Dipartimento di Ingegneria Civile – Ambientale dell’Università di Trento per conto di ISF – Trento, l’Università di Strasburgo e l’istituto Polden INSAVALOR di Lione). Tecnologie appropriate: 198 Si fa ora un breve accenno al concetto di tecnologie appropriate, con successivo riferimento al caso di studio in questione. Una tecnologia appropriata deve essere (A. Riba, S. Boni, 2003): 1. una tecnologia che promuove e rafforza il ruolo delle organizzazioni locali affinché possano prendere il controllo di scelte e gestione delle tecnologie 2. una tecnologia funzionante in modo affidabile 3. una tecnologia che potrà essere mantenuta, gestita, implementata senza interventi esterni da abitanti ed organizzazioni locali 4. una tecnologia compatibile e rispettosa di tradizioni, gusti e culture di chi ne usufruisce 5. una tecnologia che possa minimizzare i grossi investimenti di capitale (investimenti che rischiano di gravare sulla comunità) Riguardo all’ultimo punto è possibile aggiungere che un utilizzo appropriato di una tecnologia tiene in debita considerazione i fattori economici che ne determinano la sostenibilità economica; in molti casi ingenti finanziamenti per grandi opere nel campo della cooperazione non hanno portato i risultati voluti ed hanno creato un’ulteriore forma di dipendenza dall’esterno, in quanto il debito contratto a causa del finanziamento ha continuato a gravare sul bilancio dello stato (A. Riba, S. Boni, 2003). Se possibile, infine, la scelta dovrebbe ricadere su tecnologie che consentano l’impiego di materiali disponibili sul posto e di manodopera locale, qualificata o da qualificare, in modo tale da porre le basi per una replicabilità del processo di sviluppo e creare lavoro (E. Dahi, 1990). Nel progetto di Mahajanga è apparso subito chiaro che un trattamento dei reflui tradizionale, medianti fanghi attivi, non poteva essere proposto a causa degli alti costi e della difficoltà gestionale, relativamente alle condizioni e alle possibilità del paese. La difficoltà principale nella scelta della tecnologia da proporre è stata il reperimento del materiale bibliografico, in quanto non solo il Madagascar, ma in pratica il continente africano è una zona in cui la depurazione delle acque reflue è praticamente assente. Si è scelto un tipo di tecnologia già sperimentato ed implementato con successo in altri PVS, in Asia ed Africa; è una tecnologia che, se trasferita su scala reale, consente di azzerare le spese di gestione ed è gestibile in modo relativamente semplice. Come già accennato, l’unica opzione alternativa ed economica, di cui si hanno per la verità esempi concreti anche in Africa, il lagunaggio, è stata scartata a causa del fatto che nella regione, 199 di per sé paludosa, la malaria è endemica e un utilizzo di questa tecnologia potrebbe comportare un aumento delle zanzare. Un altro vantaggio di questa tecnologia è la produzione di biogas, non solo perché il suo sfruttamento energetico contribuirebbe ad azzerare i costi gestionali, ma anche perché l’ipotesi di un surplus energetico (possibile almeno per quanto riguarda il trattamento dei reflui industriali, caratterizzati da carichi organici più consistenti) potrebbe interessare direttamente le aziende nella depurazione del refluo prodotto, tanto è vero che la SEIM e alcune delle sue aziende verranno coinvolte nella sperimentazione. Per quanto riguarda i reflui urbani, di cui sono da verificare portate e concentrazioni, l’eventuale scelta di realizzare un impianto di trattamento potrebbe essere avvalorata, se non dal ritorno economico, dall’interessamento diretto del Comune per il risanamento ambientale della zona, in quanto la situazione sanitaria locale potrebbe essere migliorata, riducendo le spese. I materiali da impiegare dovranno essere resistenti alla corrosione: acciaio inossidabile, ma soprattutto cemento non corrodibile e laterizio. A valle della sperimentazione sul posto con il reattore pilota da 10 litri, una volta che i ricercatori e il personale locale abbia appreso la metodologia di trattamento e la gestione dell’impianto, è auspicabile la realizzazione di un altro pilota più grande (50 – 100 l) dal quale poter realizzare lo scale – up. 8.4 Il progetto a Mahajanga: possibili opzioni e programma futuro 8.4.1 Situazione attuale e programmi a breve termine Al momento (settembre – ottobre 2003), il finanziamento da parte del FADES al progetto è stato sbloccato, ma il materiale necessario alla costruzione del laboratorio non è ancora disponibile. Le missioni degli insegnanti – ricercatori in Europa, che hanno lo scopo di rafforzare le relazioni di parternariato tra i soggetti coinvolti, formare i ricercatori in merito allo studio di impatto ambientale, sulle tecniche per le analisi di laboratorio e sulle tecnologie relative al trattamento dei reflui sono slittate più volte a causa di problemi burocratici (difficoltà di ottenere il visto di ingresso da paesi extracomunitari a causa dell’entrata di 200 nuove leggi sull’immigrazione), di problemi nelle comunicazioni e della non tempestiva stipula dei contratti. Quindi si è deciso, da parte di ISF – Trento, di intraprendere una missione esplorativa tra il 28 settembre e il 6 ottobre ’03, allo scopo di definire la collaborazione, visitare i siti contaminati, i quartieri degradati, la situazione dei canali a cielo aperto e dei punti di approvvigionamento idrico (prelevando dei campioni delle acque da poter analizzare) ed incontrare soggetti, istituzioni ed esperti coinvolti. Si cercherà di reperire quante più informazioni possibili su tutti gli aspetti politici, sociali, economici, culturali ed antropologici utili alle scelte progettuali successive. In questo modo risulterà più agevole predisporre la seconda fase sperimentale da svolgersi sul posto. A questa missione partecipiamo il sottoscritto ed il professor Marco Ragazzi, responsabile del progetto per conto del Dipartimento di Ingegneria Civile – Ambientale e di ISF - Trento. Nel frattempo il reattore pilota rimarrebbe, funzionante, a Trento per accumulare dati sperimentali e per eseguire la fase di prove a temperatura variabile. In un periodo successivo (ottobre – novembre) è prevista la missione dei primi due ricercatori malgasci in Italia della durata di due settimane: Virginie Razafindravola in qualità di esperta di impatto ambientale, e Jean Louis, futuro responsabile del laboratorio e del reattore pilota durante la sperimentazione a Mahajanga. Di seguito avrebbero luogo un’altra missione a Trento di Emilienne Rasoanandrasana, la responsabile del progetto, allo scopo di rafforzare le relazioni di parternariato, e di Martial Zozime Rasolonjatovo, allo scopo di conoscere le moderne tecniche di analisi. La missione seguente, della durata presunta di un’altra settimana, sarà svolta dal sottoscritto e dal professor Ragazzi, oltre che dall’ingegner Maurizio Righetti, docente di costruzioni idrauliche, e dall’ingegner Giuseppe Guglielmi, esperto di trattamento anaerobico dei reflui e membro del consiglio direttivo di ISF – Trento. La missione avrà lo scopo di raccogliere ulteriori informazioni sul territorio e sulle opzioni possibili per il trasferimento su scala reale, di trasferire il reattore e la coltura batterica per l’inoculo, predisporre ed avviare la sperimentazione. 8.4.2 Le possibilità riguardo al trasferimento su scala reale 201 Le possibilità concrete affinché il progetto si sposti dal piano sperimentale e di studio di fattibilità alla realizzazione finale è che sulla base del lavoro svolto e dei risultati ottenuti vi sia lo spazio per un finanziamento più cospicuo. Rimane poi da stabilire sulla base dei risultati conseguiti dalla sperimentazione quali siano gli scarichi industriali (o civili) più impattanti, come valga la pena trattarli (e in quante unità) e dove scaricarli. E’prevedibile la necessità di un trattamento separato dei reflui industriali. Riguardo al problema degli scarichi fognari è possibile anche che risulti più sostenibile un semplice progetto per l’impermeabilizzazione dei canali a cielo aperto con conseguente scarico a mare, il che impedirebbe l’infiltrazione nelle falde. Preliminarmente è comunque necessario conoscere i sistemi di evacuazione delle acque reflue civili disponibili attualmente dalla popolazione non servita da impianti fognari. Va previsto anche il problema, tipico di alcuni paesi tropicali, di una stagione monsonica di 4 mesi in cui vi sono 1500 mm di precipitazioni, con i rimanenti mesi dell’anno in cui non piove. Mentre nell’ipotesi di una nuova sistemazione dei canali di scolo si potrebbe pensare ad un dimensionamento di vasche di laminazione che nella stagione secca potrebbero funzionare da sedimentatori, nella realizzazione di un sistema fognario è necessario considerare se effettuare il dimensionamento sulla base del periodo di piogge, o progettare semplicemente un sistema – collettore di acque reflue. Inoltre un sistema fognario che possa coprire le zone urbane escluse da questo servizio prevede quasi necessariamente l’introduzione dell’acqua corrente nelle case, quindi di una rete idrica capillare; l’introduzione di una simile innovazione nelle zone periferiche della città, se opportuna, dovrebbe essere seguita da un’azione volta ad istruire la popolazione sul corretto uso delle risorse idriche e dei sistemi di evacuazione delle acque reflue. Per quanto riguarda l’approvvigionamento idrico, sarà necessario svolgere delle indagini continue sulla qualità delle acque allo scopo di verificare la situazione nel tempo. 8.4.3 Il trattamento del biogas, le possibili opzioni per i post – trattamenti e lo smaltimento dei fanghi 202 Il biogas prodotto dalla digestione anaerobica, come visto nel capitolo 4, contiene una miscela di gas; in particolare l’idrogeno solforato (H2S), che oltre a dare potenziali problemi dal punto di vista ambientale (rilascio di SOX nell’atmosfera) ha la capacità di corrodere le camere di combustione, i camini, i bruciatori. Anche se esistono impianti in cui la combustione è attuata senza alcun trattamento del biogas, è necessario prevedere un sistema di rimozione dell’H2S economico e realizzabile con un’efficienza accettabile a Mahajanga. I pretrattamenti da effettuare sull’influente prima del trattamento anaerobico possono essere una rimozione dei solidi più grossolani, mediante grigliatura o anche sedimentazione primaria ove necessario. Un altro punto importante riguarda gli eventuali post – trattamenti che dovrebbero essere effettuati sull’effluente in uscita dal reattore UASB, specie se si tratta di un refluo con un COD ancora troppo elevato, con alto contenuto di azoto o fosforo (come già visto, la rimozione di questi due elementi in un sistema UASB spesso è insufficiente). Vi è inoltre da rimarcare il fatto che il sistema UASB non rimuove in maniera efficace gli agenti patogeni che potrebbero essere presenti nei reflui, in particolare in quelli civili (vedi capitolo 4). In diversi casi si è proposto l’accoppiamento di un reattore UASB con stagni di maturazione (P. F. Cavalcanti Catunda, A. C. van Haandel, 1996), che hanno il pregio di rimuovere agenti patogeni, fosforo ed azoto. Un sistema alternativo che possa limitare la presenza di odori, insetti e vermi è l’infiltrazione sub-superficiale (M. von Sperling, 1996); si ha infatti un flusso sommerso orizzontale attraverso un mezzo poroso e sistemi di fitodepurazione di tipo diverso; il sistema non richiede un dispendio energetico e grossi costi di produzione, è esteticamente vantaggioso ed è in pratica indipendente dal tipo di clima o dal periodo climatico dell’anno; va tuttavia effettuata una scelta appropriata del tipo di suolo per evitare infiltrazioni in falde ad uso potabile. 203 Figura 4.8: immagine di uno schema di infiltrazione sub – superficiale (tratta dal sito sulla fitodepurazione: http://www.comune.siena.it/itenoagr/fito.htm) Un ultimo accenno riguarda lo smaltimento dei fanghi; i fanghi prodotti da un reattore UASB sono in genere ben stabilizzati e il volume prodotto è molto basso (vedi capitolo 4), pari a 0,1 – 0,2 kgSST / kg COD rimosso, o, riguardo alla quantità di fanghi prodotta per abitanti equivalenti esso è pari a circa di 0,05 m³/ anno (M. von Sperling, 1996). Una tecnica semplice ed economicamente vantaggiosa può essere l’essiccamento in letti appositi; va comunque verificata l’eventuale presenza di agenti patogeni nei fanghi essiccati prima della dispersione nell’ambiente o del loro eventuale utilizzo in agricoltura. 8.5 Replicabilità e trasferibilità del sistema in altri contesti Lo studio di una tecnologia sostenibile ed applicabile nella sperimentazione a Mahajanga è stato svolto anche nell’ottica di una possibile replicabilità del metodo in diversi contesti da PVS; i vantaggi del sistema UASB possono essere sfruttati anche in altri progetti di cooperazione in questi paesi, data l’efficacia del sistema e la supposta validità del metodo di trasferimento. In particolare si segnalano due progetti in cui ISF è coinvolta, nei quali l’applicazione del sistema UASB potrà essere oggetto di futuri studi e sperimentazioni. 8.5.1 Replicabilità a Beira (Mozambico) Il primo progetto a cui ISF ha partecipato è stato condotto in Mozambico, in particolare nel distretto di Caia, situato nel nord della provincia di Sofala; il progetto è partito nel 2001 e comporta un’analisi territoriale allo scopo di fornire proposte sostenibili di interesse socio – ambientale, attuata in collaborazione con l’Associazione non governativa – ONLUS Sottosopra di Trento ed altre associazioni trentine attualmente organizzate nel Consorzio con il Mozambico. Sono state attivate due tesi di ISF in merito, e conseguentemente i due co-tesisti ed un terso studente hanno partecipato a due missione sul posto (C. Deola, T. Tamanini, 2001, L. Rizzoli, 2003). Inoltre il progetto, ancora in corso, prevede ulteriori sviluppi. In seguito, grazie ai contatti con l’Università Cattolica di Beira (città costiera di circa 500000 abitanti, capoluogo della provincia di Sofala) è stata prevista l’attivazione di un nuovo progetto, per la definizione del quale è stata realizzata una nuova tesi (M. Agostini, 204 2003) . Esso prevede come risultato finale la progettazione per la sistemazione della rete fognaria a Beira, e uno studio sul possibile trattamento dei reflui civili ed industriali. ISF Trento ha inizialmente deciso di avviare un progetto congiunto che coinvolga assieme le università di Beira e di Mahajanga: i due progetti in realtà sono analoghi e partono dalle stesse esigenze (il problema è per ambedue la drammatica situazione sanitaria). Le prospettive di partenza sono diverse, ma conciliabili; infatti a Beira il progetto inizia con uno studio preliminare per la progettazione del completamento/sistemazione della rete fognaria, mentre a Mahajanga lo studio è inizialmente centrato sul processo di trattamento dei reflui. Le due università posseggono competenze tecniche che, implementate e rinnovate, possono integrarsi vicendevolmente. Ciò comporterebbe anche uno scambio di conoscenze, tramite una collaborazione proficua tra gli istituti dei due paesi, cosa che normalmente avviene di rado in simili realtà. A Beira vi sono competenze riguardo l’elaborazione cartografica e la gestione di dati territoriali; vi sono alcune competenze ingegneristiche civili, vi è un laboratorio di analisi per le acque attivo. A Mahajanga la Facoltà di Scienze è in grado di gestire processi biologici e analisi di acque. A conclusione di ciò, si può aggiungere il fatto che le due città sono vicine, separate dal Canale del Mozambico; vi è una similitudine di tipo climatico, le due città sono entrambe ubicate sul mare, hanno conosciuto un disordinato sviluppo urbanistico e demografico, vi è nei due casi la presenza di numerose industrie che scaricano in mare i reflui non trattati, e sono infine mancanti di sistemi fognari e di depurazione dei reflui civili. Ciò comporta, sia per Beira, sia per Mahajanga, l’insorgere tra la popolazione delle gravi patologie già descritte. Per i motivi esposti, il progetto, nella sua complessità, potrebbe individuare una metodologia di approccio comune alle due realtà; nel caso del trattamento degli effluenti, si proporrà, ove possibile, una tipologia di studio e di intervento successivo mediante il medesimo processo. In questo momento l’idea del progetto congiunto è rimasta una possibilità per il futuro, a causa dei problemi che hanno interessato separatamente i due progetti e ad un mancato finanziamento che avrebbe potuto sostenere i due progetti in simbiosi. L’opzione di un’attività portata avanti parallelamente sarebbe quanto mai interessante per le due città, sia perché le tipologie di intervento potrebbero essere straordinariamente simili a causa di una serie di condizioni, sia perché potrebbe trattarsi di un non diffuso esempio di cooperazione internazionale in cui più partner locali collaborano assieme ad un progetto. 205 La città di Beira: descrizione generale, quadro urbanistico e realtà industriale Beira è la seconda città del Mozambico per dimensioni, dopo la capitale Maputo. Capoluogo della provincia di Sofala, si affaccia sul Canale del Mozambico alla foce del fiume Pungwe, che è navigabile nella sua parte terminale. Fondata nel 1884 come base portoghese per provvedere una connessione con l’entroterra e per gestire il traffico proveniente da Malawi, Zambia e Zimbabwe, la città è oggi un importante porto commerciale, e un movimentato nodo ferroviario. Le principali esportazioni sono zucchero, tabacco, mais, cotone, rame, carbone e piombo. Il settore industriale, come si vedrà in seguito, è relativamente sviluppato. La città ha conosciuto una rapida crescita e una forte trasformazione da quando il Paese ha ottenuto l’indipendenza nel 1975 dopo la caduta della dittatura in Portogallo e con la fine dell’esperienza coloniale. Dai 215.000 abitanti del 1980 si è passati ai 300.000 del 1990 e poi velocemente ai 409.260 del 1997. Questa veloce crescita non è stata senza conseguenze, ma ha provocato una diffusa disoccupazione, gravi disfunzioni nei servizi elementari, forte degrado ambientale e pressanti problemi di alloggio. Le cause di questa situazione possono essere ricercate in due elementi che caratterizzano la città. Il primo elemento condizionante è la collocazione geografica, alla confluenza dei fiumi Pungwe e Buzi, in una zona paludosa con uno scarso drenaggio naturale. Per assicurare un buon funzionamento della città le autorità coloniali costruirono una rete di raccolta delle acque con canali in parte sotterranei ed in parte a cielo aperto. Il sistema funzionò adeguatamente durante il periodo di amministrazione portoghese perché esistevano controlli e manutenzione e perché non c’era l’interesse ad estendere i benefici dei servizi alle periferie, in cui vivevano i cittadini di origine locale. Ma dopo l’indipendenza i sistemi di drenaggio furono trascurati, caddero in rovina e divennero inutilizzabili. Le aree limitrofe al centro abitato tornarono ben presto paludose, e sono tuttora facilmente soggette ad alluvioni ed allagamenti. Più dell’80% di queste aree sono considerate ecologicamente vulnerabili. Inoltre Beira è una città a rischio di erosione costiera, pericolo probabilmente incrementato dalla continua rimozione delle foreste di mangrovie e dalla scarsa manutenzione delle spiagge. Il secondo elemento condizionante lo sviluppo della città è il suo retaggio coloniale che ha prodotto una sorta di segregazione spaziale: solide infrastrutture e buoni alloggi per l’enclave europea, situazione precaria per la parte abitata da africani. Dal 1975, quando i 206 portoghesi abbandonarono frettolosamente Beira, la densità di popolazione crebbe per l’arrivo di molti immigranti in cerca di opportunità, mentre la città era impreparata a rapportarsi con le esigenze elementari dei suoi nuovi abitanti sia per la mancanza di fondi sia per la mancanza di capacità istituzionale. Le abitazioni esistenti e le infrastrutture si deteriorarono o si danneggiarono per mancanza di manutenzione, e come conseguenza l’accesso all’acqua potabile ed alla fognatura nella città vecchia divenne un particolare problema sanitario. Per quanto riguarda il comparto industriale, le principali aziende attive a Beira sono agroalimentari, tessili, siderurgiche, petrolifere / chimiche, cementifici,oltre a numerose attività legate al legno. Vi sono numerosi problemi legati a tali attività, che si possono riassumere in: nessuna delle imprese censite effettua un trattamento delle acque reflue che vengono scaricate spesso in contesti ecologicamente molto fragili se non addirittura in aree abitate o coltivate, con forte rischio per la salute dei cittadini; il sistema di drenaggio delle acque di scarico, composto in prevalenza da canali a cielo aperto che attraversano aree abitate o coltivate, non è adatto allo smaltimento di acque fortemente inquinate come quelle derivanti da alcune produzioni industriali; esiste un forte rischio che le falde acquifere nelle vicinanze del comparto industriale siano inquinate; gli impianti di drenaggio delle acque meteoriche di molte aziende non sono funzionanti, sia per la mancanza di manutenzione, sia per l’inefficienza delle rete fognaria in cui confluiscono; durante la stagione delle piogge in molte aziende si verificano allagamenti e ristagni di acqua che possono portare alla formazione dell’habitat adatto alle mosche della malaria; i rifiuti solidi industriali di alcune imprese sono conferiti alla discarica municipale, mentre gli altri non sono smaltiti in nessun modo; la zona del porto e del terminal industriale si trova in una situazione fortemente degradata e le aziende che vi operano costituiscono un rischio per la salute dei cittadini delle aree circostanti e per l’equilibrio dell’ecosistema. Stato delle infrastrutture 207 Attualmente solo il 43% dei cittadini di Beira ha accesso all’acquedotto e di questi solo il 60% ha accesso ad acqua che rispetta i minimi standard di potabilità per il W.H.O.. In Mozambico l’accesso ad acqua potabile è garantito solo al 50% della popolazione, ma si stima che solo per il 39% sia disponibile acqua trattata in conformità agli standard W.H.O.. L’inquinamento delle fonti di approvvigionamento idrico associato alle deficienze del sistema fognario, l’insufficiente drenaggio, la pressione di edificazione nelle aree sensibili all’allagamento, l’uso di latrine ha reso gli abitanti di Beira particolarmente esposti al rischio di epidemie. Per esempio, nel 1997, più di 11.000 persone sono state colpite da dissenteria, ed un numero ugualmente importante di persone è stato esposto al colera che ha causato 600 morti. La soluzione di questi problemi è stata indubbiamente ostacolata dalla guerra civile che ha devastato il Paese per due decenni. In quel periodo ci fu una forte immigrazione verso Beira dalle province rurali che portò ad un incremento della popolazione del 95%, includendo l’area metropolitana di Dondo. L’attuale tasso di crescita della popolazione è del 6,4% annuo, uno dei più elevati dell’Africa Subsahariana. Una porzione significante degli immigrati trova riparo in costruzioni abusive ai margini della città in aree fortemente sensibili dal punto di vista ecologico, senza alcun accesso alle infrastrutture, ai servizi elementari, ed alle opportunità di miglioramento economico e sociale. Nel 1983 la città di Beira tentò di affrontare il problema commissionando il Beira Structure Plan, con l’ambizioso proposito di potenziare ed espandere le infrastrutture urbane esistenti, migliorare le opportunità economiche ed affrontare il problema degli abusivi nelle zone ecologicamente sensibili. Il piano non poté mai essere adottato ed implementato a causa della guerra civile e della mancanza di risorse. (http://encarta.msn.com, http://beira.geo.wvu.edu/, C. Deola, T. Tamanini, 2001). Per un sommario inquadramento della realtà del paese in cui si svolge il progetto, presento infine una tabella riassuntiva su alcuni dati del Mozambico e della sua popolazione. Tabella1.8: informazioni generali relative al Mozambico; informazioni tratte dal sito: http://www.cia.gov/cia/publications/factbook/geos/mz.html) Forma di governo Capitale Superficie Clima Rischi ambientali Repubblica Maputo 801590 km² Tropicale / subtropicale Cicloni, alluvioni, siccità 208 Abitanti Tasso di mortalità inf. (su 1000 nati) Religioni 19600000 138,55 Credenze indigene Alfabetizzazione Impiego Bilancio dello stato musulmani 20 % 42,3 % Agricoltura 81%, industria 6%, servizi 13% Entrate: 393,1 milioni di U.S. $; uscite: 1025 50%, cristiani 30%, milioni di U.S. $ L’uso della tecnologia UASB a Beira La città è priva di un sistema di depurazione delle acque reflue; l’evacuazione delle acque civili è affidata solo in parte ad un sistema fognario inadeguato e soggetto a notevoli problemi di manutenzione (M. Agostini, 2003). Oltre al problema della sistemazione di una rete fognaria adeguatamente dimensionata vi è anche la necessità di risolvere il problema ambientale costituito dalle acque reflue non depurate; il sistema UASB risulterebbe una scelta possibile in quanto i reflui scaricati non sono dissimili a quelli di Mahajanga, avendo le due città una realtà industriale simile. Altri reflui problematici per Beira, come quelli petrolchimici, possono essere trattati preliminarmente anche con questo sistema (vedi capitolo 4). E’auspicabile uno studio seguito da una sperimentazione sul posto allo scopo di verificare la fattibilità del trasferimento tecnologico. 8.5.2 Replicabilità ad Ulaanbaatar (Mongolia) Questo studio di ISF, in collaborazione con l’Accademia delle Scienze di Ulaanbaatar è attualmente ancora in fase di definizione. Viene presentato in questa tesi come esempio di replicabilità dell’approccio in un PVS non tropicale. Il tesista dell’Università di Trento Daniele Amistadi, che ha collaborato con il sottoscritto nelle ultime fasi sperimentali a Trento, avrà in futuro il compito di occuparsi dello studio, della progettazione e della costruzione di un nuovo reattore, nonché di una prima fase sperimentale da svolgersi a Trento. Successivamente, nel 2004, il reattore verrà utilizzato da un borsista mongolo che ha già partecipato all’iniziativa e potrà essere trasportato in Mongolia per un periodo di sperimentazione sul posto. La sperimentazione nella prima fase sarà volta a testare il sistema su un refluo sintetico che simuli le acque di scarico conciarie. Le concerie mongole costituiscono infatti un serio problema per l’inquinamento delle fonti di approvvigionamento idrico. Una difficoltà peculiare è rappresentata dalla presenza di metalli come il cromo, pericoloso per l’uomo, ma tossico 209 ad elevate concentrazioni anche per i batteri presenti in un impianto di depurazione. Lo studio in Mongolia avrebbe inoltre anche lo scopo di occuparsi dei reflui civili, attualmente non trattati. Gli scarichi dell’area delle industrie conciarie di Ulanbaatar subiscono infatti un trattamento chimico - fisico, che sembra tuttavia insufficiente, e vengono poi scaricati nella rete fognaria cittadina, che scarica poi il refluo misto grezzo direttamente nel fiume Tuul , utilizzato per l’approvvigionamento idrico Il problema è di interesse dal punto di vista sperimentale anche perché il clima della Mongolia è molto diverso da quello del Madagascar, con notevoli escursioni termiche giornaliere, un’estate relativamente calda ed un inverno molto freddo. Quindi risulterebbero utili delle prove sperimentali a diverse temperature, per valutare quale possa essere il dispendio energetico atto a termostatare convenientemente il sistema. Il progetto si avvarrebbe anche della collaborazione di Undrakh Nergui, chimico ricercatore dell’università di Ulaanbaatar, che ha già svolto un periodo di studio a Trento presso il Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale ed ha collaborato con il sottoscritto in tutta la fase iniziale della sperimentazione. La tabella 2.8 illustra le caratteristiche del refluo misto che viene generato dall’area delle concerie. Tale determinazione è stata effettuata su un campione inviato in Italia (refrigerato) con corriere internazionale, in quanto l’Accademia delle Scienze non dispone di laboratori. Particolarmente alto appare il valore del pH, che dovrà essere corretto se si vorrà procedere con un trattamento biologico. Tabella 2.8: caratteristiche del refluo proveniente dall’area delle industrie conciarie. Valori in ingresso COD(mg/l) 2727 BOD5 (mg/l) 1094 3 SST (kg/m ) 2.0 SSV (%) 70.60 N-NH4 (mg/l) 33.70 N-NO2 (mg/l) 0.03 N-NO3 (mg/l) 1.70 Norg (mg/l) 78.00 Porto (mg/l) 2.80 Ptotal (mg/l) 8.50 CODsf (mg/l) 1545 ST (g/l) 4.40 SV (%) 38.10 Parametri Valori in ingresso 210 Al3+ (mg/l) 8.02 Ba2+ (mg/l) 0.116 Sn (mg/l) <0.03 Cd2+ (mg/l) <0.005 Cr tot(mg/l) 14.109 Cu2+ (mg/l) 0.025 Fetotal (mg/l) 6.73 B(mg/l) 0.127 2+ Zn (mg/l) 0.134 Mntotal (mg/l) 0.278 As (mg/l) <0.08 2+ Ni (mg/l) <0.02 2- 374.50 - 737.36 SO4 (mg/l) Cl (mg/l) 2- S (mg/l) 0.692 pH 11.20 211