L`Osservatore Romano - Arcidiocesi di Catanzaro

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L`Osservatore Romano - Arcidiocesi di Catanzaro
05 agosto 2015
Durante la Missione cittadina voluta nel 1957 a Milano dall’arcivescovo
Quel perdono chiesto ai lontani
di VINCENZO BERTOLONE
Sembra ormai lontana l’eco dell’accorato appello che oltre mezzo secolo fa, il 7 novembre del
1957, Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano, rivolgeva ai «lontani» di quel grande
crocevia di popoli che è la diocesi di Milano. All’inizio della Missione per gli adulti, egli si
rivolgeva a tutti coloro, credenti e no, a chi non varcava più le porte di una chiesa, a chi aveva la
«coscienza triste» per qualche peccato o fosse frastornato dalle faccende mondane. Tuttavia,
soggiungeva il futuro Pontefice e beato Paolo VI, «se una voce si potesse far loro pervenire per
prima sarebbe quella di chiedere loro amichevolmente perdono. Sì, noi a loro; prima che loro a
Dio».
Mai definizione fu più efficace per descrivere qualcosa che nell’ordine spaziale e temporale confini
non ha: il «lontano», che attende una parola di riconciliazione e di misericordia. Nel suo Messaggio
ai lontani, questo termine viene riferito rispetto alla comunità, che lo ha allontanato; infatti, è colui
«che non è stato abbastanza amato»; ancor più «colui che non è stato abbastanza curato, istruito,
introdotto nella gioia della fede». Se chi è lontano si avvicina grazie a un nostro primo passo, non
potrà non provocare in noi l’unico sentimento possibile: il rimorso, il rimpianto nel non esser
riusciti ad avvicinarlo prima, a farsi conoscere per ciò che si è e non per ciò che l’agire manifesta. Il
lontano — soggiunge Montini — «ha giudicato la fede dalle nostre persone, che la predicano e la
rappresentano; e dai nostri difetti ha imparato forse ad avere qualcosa di meglio rispetto a noi, a
disprezzare, a odiare la religione. Perché ha ascoltato più rimproveri, che ammonimenti ed inviti.
Perché ha intravisto, forse qualche interesse inferiore nel nostro ministero, e ne ha patito scandalo».
I like Christ; I dislike christians for they are unlike Christ ( “Cristo mi piace, non mi piacciono i
cristiani perché essi sono diversi da Cristo”). Questo il concetto del Mahatma Gandhi, così come
riferisce lo stesso Paolo VI in un’udienza del 27 novembre del 1974, raccogliendone
l’insegnamento anche per un’autentica sequela Christi, quasi all’inizio dell’anno santo del 1975.
«Un’idea dev’essere vissuta, se pretende di convincere chi ne ascolta l’annuncio (...) Tutto questo ci
ammonisce che pensiero e azione devono camminare insieme, che fede e morale devono essere
consonanti, che la professione d’un’idea implica una condotta pratica», che chi sta nella verità
cristiana deve compiere il primo passo che dona misericordia. E ciò vale innanzitutto per l’unità
interiore, per l’armonia esteriore della coscienza personale. Chiamiamo comunemente serietà questa
coerenza di comportamento, questa corrispondenza fra la verità professata, e la vita vissuta (cfr.
Efesini. 4, 15): la santità, a ben guardare, è appunto questa sintesi di fede convinta ed operante e di
carità attiva e generosa».
Pensiero e azione, fede convinta e carità attiva, rinnovamento e riconciliazione, furono i binomi che
accompagnarono quel giubileo. Dopo quaranta anni l’«unità interiore» e l’«armonia esteriore»
appaiono le due direttrici sulle quali egli condusse la Chiesa post-conciliare e che possono ancora
indirizzare la Chiesa di oggi. La credibilità del cristiano, sosteneva con forza, passa per un autentico
rinnovamento, e perché questo sia effettivo e duraturo deve essere la «risultante da una nuova
coerenza interiore ed esteriore, che chiamiamo conversione, metanoia (e che dovremo poi
riconsiderare). Ma la credibilità si riferisce di solito all’opinione pubblica, che ci giudica, non
sempre saggiamente, ma sempre severamente».
L’altrui giudizio, infatti, per quanto sferzante, può giovare all’autocritica (anche Benedetto XVI
parlerà, in Spe salvi, di «autocritica cristiana del moderno»): «Esso ci vuole coerenti tanto nella
parola che nella condotta: lo siamo? Ci vuole onesti e disinteressati: lo siamo? Ci vuole semplici e
sinceri: lo siamo?» si chiedeva Montini in quella udienza generale alla vigilia dell’anno santo. Si è
insomma credenti se si è credibili e la credibilità si gioca sulla nostra coerenza di fede creduta e di
vita vissuta, che sa fare il primo passo nella direzione dell’altro. «Sì, noi, se siamo cristiani fedeli e
coerenti, dobbiamo guardare ai bisogni del nostro mondo, ai bisogni dei nostri fratelli, che sono gli
uomini del nostro tempo, e dobbiamo misurare i nostri cuori con la realtà della società e della storia.
E allora, le prime grandi necessità che ci devono interessare sono la giustizia e la pace. L’anno
santo ci parla appunto di riconciliazione».
Ecco perché un giubileo — dirà all’Angelus il 2 marzo 1975 — «non è coreografia, non è turismo
puramente ricreativo, non è mimetismo pietistico e archeologico. È uno spirito nuovo, che inonda
questa pacifica e inerme gente, la quale ricupera voce nel canto, pace nel cuore, vigore nei propositi,
bontà nella vita». Il rinnovamento interiore è la strada maestra della riconciliazione con Dio, visto
nella sua paternità misericordiosa; con se stessi, riportando l’ordine nelle proprie coscienze; con gli
altri, non vedendoli come stranieri, nemici, «lontani», come ripeterà il 17 settembre 1975 in un
discorso per i caduti di tutte le guerre.
A sua volta, la riconciliazione parte da un atto di grande umiltà e da una richiesta di perdono se non
si è stati capaci di farsi comprendere, se è stato più facile respingere che accogliere, se non si è stati
«maestri di spirito e medici delle anime», ma giudici che infliggono pene più che elargire Grazia. Se
«non siamo stati capaci di parlarvi di Dio come si doveva, se vi abbiamo trattato con l’ironia, con il
dileggio, con la polemica, oggi vi chiediamo perdono» si legge ancora nel Messaggio ai lontani del
novembre 1957.
Papa Montini ne era certo: la riconciliazione non può prescindere dal riconoscersi miseri dinanzi a
Colui che ci ha donato la sua infinita misericordia: «Sulla terra abbonda la miseria dell’uomo,
sovrabbonda la misericordia del Signore: della miseria dell’uomo e della misericordia del Signore è
piena la terra» scriveva sant’Agostino nelle Enarrationes in Psalmos (32, II, 2, 4). In queste parole
— commenta Paolo VI il 9 aprile 1966 durante la veglia pasquale — il vescovo di Ippona «ha la
parola ardita, sintetica e sublime che riassume tutto l’eccelso poema, benché spesso è in noi un
dramma continuo. Enuncia i due poli, due parole immense: una riferita a Dio e si chiama
misericordia; l’altra riferita all’uomo e si chiama miseria». In questo incontro, la nostra gioia e il
nostro impegno. Non si può essere operatori di misericordia se non si riceve la misericordia, che è
il percepirsi cuori mendicanti d’amore: «Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi
porto» scrive ancora Agostino nelle Confessioni (13,9,10). Non è forse anche questa la giusta
premessa per il nuovo anno santo voluto da Papa Francesco, da svolgere all’insegna della
misericordia e del perdono?