veronica franco - ElevaMente al Cubo
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CARLO DARIOL VERONICA FRANCO, un monologo VERONICA FRANCO UN MONOLOGO NOTA: Veronica Franco nasce nel 1546 e muore nel 1591. Io immagino che parli nel 1586, quando ha 40 anni, ormai dimenticata da tutti. Ho quarant’anni. Sono una... Sono stata una cortigiana. Una cortigiana honesta, ci tengo a dirlo; perché a Venezia ci sono anche quelle di lume, dei ceti bassi, che vivono e praticano il mestiere vicino al Ponte di Rialto e che sono il maggior numero; loro sopravvivono, guadagnano quel tanto che basta per mantenere i figli che hanno deciso di serbare al mondo e non sono altro; noi, le cortigiane oneste, possiamo contare su lauti guadagni e protezioni influenti in virtù della nostra cultura e del talento artistico e letterario, che siamo state libere di esercitare pubblicamente in virtù della nostra condizione di donne libere. La distinzione potrà apparire ai più capziosa, sempre puttane siamo… Ma noi honeste abbiamo saputo volgere il destino a nostro favore. Nulla ricordo di mio padre Francesco, che abbandonò mia madre alla sua ventura. Se lo odio? Non odio chi non conosco. Nascere senza padre è ventura comune. Fu mia madre, Paola Fracassa, ad avviarmi giovanissima alla professione, lei che aveva esercitato la stessa attività. Mio padre era un cliente di passaggio, evidentemente un po’ maldestro. O senza scrupoli. Mia madre dunque mi apprese l’arte dell’amore e io fui buona discepola; a diciott’anni conquistai il cuore di un ricco medico, Paolo Panizza, che mi sembrò un buon partito: lo sposai ed ebbi subito un figlio; nel cuore di ognuna di noi c’è il 1 CARLO DARIOL VERONICA FRANCO, un monologo sogno di trovare l’uomo che fa per lei, colui che ci renderà la vita degna d’esser vissuta; ma il matrimonio finì altrettanto subito. Gelosia, disprezzo, vai a sapere… Non è facile essere il marito di una meretrice. Mi hanno più volte chiamato “meretrice”. Qualcuno me l’ha sbattuto in faccia con cattiveria. Non l’ho mai considerata un’offesa. E se ben “meretrice” mi chiamate, o volete inferir ch’io non vi sono, o che ve n’en tra tali di lodate. Quanto le meretrici hanno di buono quanto di grazioso e di gentile, esprime in me del parlar vostro il suono. Questa è una delle mie poesie. Io, di meretrice, mi cavai fuori e fui cortigiana honesta. E l’esser cortigiana m’ha permesso d’esser quel che fui. Perché io fui appunto honesta, cioè colta. L’esser cortigiana honesta mi permise di conoscere, di frequentare e di legarmi ad amicizia con gran parte della bella Venezia del mio tempo; mentre se fossi rimasta la moglie dell’oscuro dottor Panizza non avrei certo potuto annodare i legami di cultura e di affinità che hanno reso celebre la mia persona. La bellezza da sola non basta, ci vuole il carattere. È un mestiere che ruba l’anima, quello della meretrice. Io, figlia di meretrice, ci ero nata, si può dire: amavo piacere agli uomini e gli uomini presero a contendersi la mia persona, tanto che il mio nome era inserito ne Il Catalogo di tutte le principale et più honorate cortigiane di Venezia, che forniva il nome, l’indirizzo e le tariffe delle cortigiane più in vista di Venezia; “Veronica Franco, a Santa Maria Formosa, pieza so mare, scudi 2”, cioè bisognava versare due scudi a mia madre per venire con me, che avevo vent’anni. 2 CARLO DARIOL VERONICA FRANCO, un monologo Voi mi vedete adesso che ho quarant’anni... Sono ancora bella. Ma riuscite a immaginarvi com’era Veronica Franco a vent’anni? Una bellezza unica. E uno spirito indomito, e una forza altrettanto unica. Divennero miei amici uomini ricchi ed esponenti di spicco, le mie tariffe crebbero velocemente: un mio bacio costava 5 o sei scudi, il servizio completo 50 scudi. Gli uomini amavano passare il tempo con me anche per chiacchierare; mi abbracciavano e mi ascoltavano declamare versi o parlar di pittura. Li faceva impazzire la combinazione di più arti in me sola. Sapevo, so, scrivere e dipingere, non sono la donna di un’arte sola. Qualcuno andava matto per vedermi declamare nuda; io lo accontentavo. Il mio mentore fu Domenico Venier, che mi consentì di entrare nel circolo letterario di casa sua, il più famoso di Venezia, frequentato dai più illustri letterati veneziani del tempo, come Giorgio Grandenigo, Celio Magno, Bernardo Tasso, Sperone Speroni... Lui, Domenico, padrone di casa, era uomo “tenuto universalmente un miracolo d’ingegno,” non è un caso se persino Torquato Tasso volle sottoporre al suo giudizio il Rinaldo e parte della Gerusalemme liberata. Quante cose mi insegnò Domenico. Far l’amore con lui era far l’amore in tutti i sensi, il cervello andava in tutte le direzioni. Lui fu il mio primo vero sguardo sul mondo. Tutt’altro spirito di quel suo parente Maffio Venier, vescovo di Corfú, che veniva spesso al circolo e si dava arie di grand’uomo e mi trattava come oggetto di ludibrio e di feroci satire, disprezzando le mie origini. Dagli attacchi pesanti e volgari di Maffio Venier mi difesi per rima, dimostrandogli come la “femmina vile” sia, in quanto a garbo, savoir faire e autocontrollo, molto superiore al “gentiluomo,” discendente da famiglia di Dogi. Eppure mi scoprii ferita. M’ero illusa di aver asceso rapidamente l’Olimpo e le cattiverie di Maffio mi riportarono a terra. È vero, ero stata una bambina povera e ignorante, ma 3 CARLO DARIOL VERONICA FRANCO, un monologo io avevo studiato, avevo imparato, e tutti i giorni nel salon di Domenico studiavo e imparavo. Maffio diceva che nessuna patina di nobiltà avrebbe potuto nascondere la popolana che ero. Non corse mai buon sangue tra me e Maffio. Mi guardava altero, forse con disprezzo. In una lettera gli scrissi con altrettanta dignità: “'Fintanto io vi compassiono e non vi perdono. Credo che avrebbe voluto che gli elargissi i favori che elargivo al cugino, ma non voleva aver l’aria di chiederli, per lui sarebbe stata un’umiliazione. Così mi derideva. Più nobile, di quella casata varia e illustre, fu Marco, il più gentile con me, certamente molto galante, che arrivò persino a scrivermi (li ho ancora in mente quei versi): “Se io v’amo al par de la mia propria vita, / donna crudel, e voi perché non date / in tanto amor al mio tormento aita?”. Anch’io lo amavo, ma non ero certa dei suoi reali sentimenti. E se invero m’amate, assai mi duole che con effetti non vi discopriate, come chi veramente ama, far suole. Gli risposi che ero la donna di Domenico. A Domenico dovevo tanto, tantissimo. Ma Marco, lo confesso, mi piaceva. Che cosa non gli avrei dato di me se solo si fosse dimostrato sincero. Aperto il cor vi mostrerò nel petto, allor che ’l vostro non mi celerete, e sarà di piacervi il mio diletto… ne l’opere amorose grata a Venere più mi troverete... con questo, che mi diate la certezza del vostro amor con altro che con lodi, ch’esser da tai delusa io sono avvezza. 4 CARLO DARIOL VERONICA FRANCO, un monologo Non volevo da lui ducati o zecchini: questo sarebbe stato di una meretrice. E però quel, che da voi cerco adesso, non è che con argento o ver con oro il vostro amor voi mi facciate espresso; perché si disconvien troppo al decoro di chi non sia più che venal, far patto con uom gentil per trarne anco un tesoro. Di mia profession non è tal atto; ma ben for di parole, io ’l dico chiaro, voglio veder il vostro amor in fatto. Voi ben sapete quel che m’è più caro: seguite in ciò com’io v’ho detto ancora, ché mi sarete amante unico e raro. Ci voleva tanto a capire “quel che m’era più caro”? Glielo scrissi: Io bramo aver cagion vera d’amarvi, e questa ne l’arbitrio vostro è posta, sì che in ciò non potete lamentarvi. Dal merto la mercè non fia discosta, se mi darete quel che, benché vaglia al mio giudizio assai, nulla a voi costa. O dolce Marco, avrei voluto che mi guardasse, che mi tenesse tra le braccia così dolce e gustevole divento, quando mi trovo con persona in letto da cui amata e gradita mi sento che quel mio piacer vince ogni diletto. E ’l mio cantar e ’l mio scriver in carte 5 CARLO DARIOL VERONICA FRANCO, un monologo s’oblia da chi mi prova in quella guisa, ch’a’ suoi seguaci Venere comparte. Era una schermaglia senza posa. Oh, vederlo ai miei piedi dichiararsi vinto, e potermi a mia volta dichiararmi vinta! Non successe. Ah, Marco Marco, quanto mi fece soffrire... Nel “mio” salone, dove giungevano anche di lontano uomini di cultura per godere della mia compagnia, si discuteva di tutto “in lieta conversazione”, davanti a un “fiaschino di buona malvasia”; ci venivano letterati e pittori e fu durante una di queste piacevoli riunioni che conobbi Jacopo Robusti, il pittore, che volle ritrarmi, e non una ma più volte. Col “signor Tentoretto” discutemmo di pittura, e lo facemmo brevemente anche per lettera. Ero sempre “desiderosa d’imparare”. Sembrava brusco nei modi, ma ci sapeva fare col pennello. Godevo d’una vita piena e tranquilla. Poi, improvvisamente la mia fama si accrebbe enormemente per tutta Venezia quando nel 1574 l’appena nominato re di Francia Enrico III di Valois – allora semplicemente Enrico Waleski re di Polonia – essendo morto il fratello maggiore Carlo IX, si apprestava a tornare in patria per prenderne il posto. Veniva da Praga e da Vienna dove già aveva avviato il maggior numero di contatti diplomatici. Volle fare tappa a Venezia, fu accolto con grandi onori dal Doge e dai Dieci, da tutto il patriziato veneziano, e lui confessò ai suoi favoriti che intendeva passare una notte con me, forse l’idea gliel’aveva fatta balenare in mente uno dei miei protettori, il patrizio Andrea Tron. L’episodio mi elevò agli occhi dei miei concittadini, e non solo. Un re che vuole una cortigiana. Ci poteva stare. Un re che voleva me. mi raccontò del suo soggiorno in Polonia e di sua madre,la terribile Caterina de’ Medici, che l’attendeva in patria. Era personaggio di una raffinatezza senza pari. Non fui più la stessa. Donai al re la miniatura di un mio ritratto e due sonetti, accompagnati da una lettera: “All’altissimo favor che la Vostra Maestà s’è degnata di farmi, venendo all’umile abitazione mia, di 6 CARLO DARIOL VERONICA FRANCO, un monologo portarne seco il mio ritratto, in cambio di quella viva imagine che nel mezzo del mio cuore Ella ha lasciato delle sue virtù eroiche e del suo divino valore... io non sono bastevole di corrispondere”; è evidente a quali virtù e valore mi riferissi, dovevo compiacere il focoso monarca. Quello fu l’apice della mia popolarità di onesta cortigiana... Ma guai a chi vuole dedicarsi a quest’attività senza le necessarie doti. Occorre saper mentire, occorre saper lusingare. E sovente la miglior arte delle parole non basta. Due bei versi possono incantare, ma la bocca che li pronuncia è fondamentale, lo sguardo che li illumina è il vero conquistatore. A una madre, che mi chiedeva come avviare la figlia alla “carriera”, scrissi una lettera sincera: “è così poco bella... (mi riferivo alla ragazza) ed ha così poca grazia e poco spirito nel conversar, che le romperete il collo credendola far beata nella profession delle cortegiane, nella quale ha gran fatica di riuscir chi sia bella ed abbia maniera e giudizio e conoscenza di molte virtù”. Scongiurai la snaturata genitrice a non essere lei stessa il “macellaio” della propria figliola: “Troppo infelice cosa e troppo contraria al senso umano è l’obligar il corpo e l’industria di una tal servitù che spaventa solamente a pensarne. Darsi in preda di tanti, con rischio d’esser dispogliata, d’esser rubbata, d’esser uccisa, ch’un solo un dì ti tolga quanto con molti in molto tempo hai acquistato, con tant’altri pericoli e d’ingiurie e d’infermità contagiose e spaventose; mangiar con l’altrui bocca, dormir con gli occhi altrui, muoversi secondo l’altrui desiderio... qual maggior miseria?” Già, perché della vita di cortigiana, quand’anche honesta, si amano ricordare lusinghe e diletto… ma quanti sono gli incontri amari e gli scontri continui con gli uomini potenti, con l’orgoglio e la ferocia maschile, perché l’uomo sa essere principe e sa essere bestia, e spesso il primo maschera il secondo. Per vincer la miseria della bestialità ci voglion doti, e 7 CARLO DARIOL VERONICA FRANCO, un monologo carattere, e natura d’artista. Gli artisti sono sempre in lotta. Le donne sono indifese di fronte agli uomini. Solo con le loro arti seduttive riescono a star loro a pari, a governare il loro istinto di dominio su di noi. Questo è in fondo ciò che ho scritto nei miei versi, e perciò alcuni vi hanno visto il mio sostegno spassionato di donna di spirito verso le donne indifese, altri vi hanno letto le mie convinzioni rancorose sulle inevitabili e ineliminabili diseguaglianze tra uomini e donne e hanno interpretato la natura politica e seduttiva delle mie poesie quale mie strumento di lotta, dicendo che le ho scritte in versi e usando un linguaggio altamente erotico, l’unico che poteva colpire l’immaginario degli uomini, perché era l’unico modo che avessi di lottare contro queste disuguaglianze. In parte hanno ragione. La mia capacità di leggermi dentro, di leggere dentro l’animo di donne e uomini è stata la mia forza nei conflitti di potere tra maschi e femmine. Col mio fascino e la mia arguzia io ho rappresentato una minaccia per gli uomini contemporanei, per questo sono stata temuta, e cercata, e letta. Per questo, anche chi mi ha disprezzato, ha dovuto riconoscere che mi sono guadagnata uno scranno con le mie opere letterarie e le mie relazioni con gli intellettuali veneziani. “Se siamo armate e addestrate siamo in grado di convincere gli uomini che anche noi abbiamo mani, piedi e un cuore come il loro; e anche se siamo delicate e tenere, ci sono uomini delicati che possono essere anche forti e uomini volgari e violenti che sono dei codardi. Le donne non hanno ancora capito che dovrebbero comportarsi così, in questo modo riuscirebbero a combattere fino alla morte; e per dimostrare che ciò è vero, sarò la prima ad agire, ergendomi a modello”. In questa lotta col mondo maschile, si sorprenderà qualcuno che io sia madre. La maternità sfiorisce e indebolisce. Eppure sono madre, di sei figli, anche se tre sono morti in tenera età. I figli sono venuti per caso, era uno degli 8 CARLO DARIOL VERONICA FRANCO, un monologo inconvenienti del mio mestiere; eppur li ho amati e li ho seguiti meglio che ho potuto. Fui madre e fui donna. E per essere donna al cospetto degli uomini fui poetessa. Miei figli voluti furono i miei sonetti, miei figlie cercate furono le mie poesie. Nel 1575, grazie all’interessamento di Domenico, così entusiasta d’ogni cosa di quel che facevo, scrissi il mio primo volume di poesie, Terze rime, 18 capitoli scritti da me e 7 scritti da alcuni letterati in onore mio. Avrei voluto dedicarlo a re Enrico, che aveva fatto di me la cortigiana più rispettata di Venezia; ma Enrico ormai se n’era tornato in Francia e la dedica non mi sarebbe tornata né a vantaggio né a ricchezza. Finii per dedicarlo al Duca di Mantova. Per amore. Sempre per amore feci quel che feci. Per questo così tanti uomini mi amarono. La mia buona fama di scrittrice varcò il salotto in cui ricevevo i miei brillanti conversatori: il nobile Bartolomeo Zacco mi pregò, alla morte di una sua figliola, di volerne “onorare” la memoria “con alcuno suo scritto” e il conte di Malpaga, Francesco Martinengo, mi richiese di curare un insieme di componimenti poetici in onore del fratello Estore. E mantenni corrispondenza con più d’uno degli stimati letterati del mio tempo, i cui nomi già oggi stanno per essere dimenticati, e probabilmente così sarà di me. Li trattai da pari, li incoraggiai nelle loro fatiche letterarie e ne fui incoraggiata. Qualcuno voleva spingermi a comporre qualcosa di più alto; io stessa ne parlai con Muzio Manfredi, che se ne intende di poesia colta, pensai di accingermi a scrivere un poema epico, non l’ho ancora incominciato, forse lo incomincerò. Non fu colpa delle mie poesie, ma delle stelle, se quell’anno a Venezia si diffuse la peste che mi costrinse a lasciare la città: la mia casa fu saccheggiata e persi la maggior parte dei miei beni. Al mio ritorno, due anni dopo, fui accusata dall’Inquisizione di avere avvinto a me i miei amanti e di averli sottratti ai rispettivi doveri coniugali e civili, stregandoli con sortilegi e magie, un’accusa comune per le 9 CARLO DARIOL VERONICA FRANCO, un monologo cortigiane, la cui principale arte di maleficio è quella di tener testa agli uomini; ma io mi difesi brillantemente durante il processo; fui avvocata di me stessa, parlando in dialetto veneto, la lingua con cui dicevo e dico le cose che mi vengono dal cuore, parlai con accenti intensi e vibranti, che certamente colpirono l’uditorio, le accuse caddero e fui prosciolta dall’accusa. Dissero che erano stati i miei legami con la nobiltà veneziana a determinare la mia assoluzione. L’ottenni invece per la verità delle mie affermazioni. Ma, se ottenni la libertà, persi tutte le mie ricchezze e i miei beni materiali. Mi ritrovai povera. Proposi al consiglio cittadino di costruire una casa per donne indigenti e di affidarmene l’amministrazione, ma la proposta non ebbe successo. Non vi era più modo né possibilità per tornare quel che ero, né per condurre vita onorata. Che sarebbe rimasto di me al mondo? Che sarebbe rimasto di Veronica Franco, autrice delle Terze Rime, curatrice della raccolta di sonetti in onore di Estore Martinengo, ricercata e lusingata dagli scrittori, discepola del dotto Domenico Venier? Nulla? No, non voglio. Non voglio che il mondo mi dimentichi, voglio che le generazioni a venire sappiano chi io fui e quali alti e nobili ingegni mi avessero cercata, quale fiore della cultura veneziana avesse corrisposto con me. Nel 1580 detti alle stampe il mio epistolario, le mie Lettere familiari a diversi, una cinquantina di “lettere scritte in gioventù”, con i due sonetti in onore di re Enrico. Era il meglio della mia corrispondenza. Lì ci sono io. Se nelle Rime avevo discorso in poesia “delle cose che mi erano care, o che mi importavano”, con freschezza e con una levità di tocco da rendermi “ver unica,” qui ci sono io, qui c’è tutto il mio cuore. Diranno che qui ho sorvegliato troppo il mio stile, in passato “sovrabbondante”, che ho scritto soprattutto per rappresentare essenzialmente me stessa. Avranno ragione. Non sono più quella che ero. Se fui cortigiana ora sono donna, 10 CARLO DARIOL VERONICA FRANCO, un monologo madre premurosa, amica sensibile… Mi assilla il dubbio di non essere stata all’altezza. Perché sì, sono rimasta la donna di poco sapere che ero all’inizio di mia gioventù, profondamente ansiosa, desiderosa di apprendere: “io farei tutta la mia vita e spenderei tutto ’l mio tempo dolcemente nelle accademie degli uomini virtuosi”. Meretrice? Sì. Ma mi era più facile dirlo appena cinque anni fa, al tempo delle Rime. Oggi non avrei più la forza di rispondere a quell’odioso vescovo Maffio che mi trattò pubblicamente come “ver unica puttana”, la mia bellezza sfiorita com’è è un’arma spuntata che non me ne dà più la forza. È di tranquillità che ho bisogno adesso. Che cosa è rimasto della poetessa, svanita la ”semplicità di modi” in cui il mio Scrivano aveva ravvisato “il suo ideale più sicuro” di poetessa? Non ho rimpianti. Ho l’ansia di ripulire ciò che è stato, di nettare il racconto della mia vita, quasi di correggere i verdi che ho scritto, per cedere il passo a una ricerca umana e stilistica più complesse da identificare e definire. Svanite la forza e la volontà di sorprendere e colpire, mi è rimasto il desiderio di comunicare (non nasce ogni lettera con questo fine?), ma non “currenti calamo,” bensì il mio cuore mi dice che devo allontanarmi dal contingente e ridurre lo mio particolare al mondo più generale, oltre questo tempo di mia vita mortale, per permettergli di assurgere a valore universale. Questa è l’eredità che lascio. Mi sono ritirata in questa povera casa e ho fatto sparire ogni traccia di me. Mi occupo dei miei nipoti, rimasti orfani per la peste. Ripenso alla casa per donne indigenti che non ho potuto costruire, al bene che non ho potuto fare per chi ha avuto meno talenti di me. E ogni giorno ripenso alla vita grandiosa di me che sono e fui Veronica Franco. 11 CARLO DARIOL VERONICA FRANCO, un monologo CARLO DARIOL, 2012 (rivisto nel 2014) © Proprietà letteraria riservata 12