Tra letteratura e storia. Goldoni, Venezia e la questione feudale

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Tra letteratura e storia. Goldoni, Venezia e la questione feudale
Tra letteratura e storia.
Goldoni, Venezia e la questione feudale
Sergio Zamperetti
Durante il Carnevale del 1752, accolta da un buon successo di pubblico e
destinata ad incontrarne altrettanto anche in Austria e in Germania, debuttava a Venezia al Teatro Sant’Angelo la commedia in tre atti di Carlo Goldoni
Il feudatario. Già pochi anni prima, nel dittico composto da La putta onorata
e La buona moglie (1748-1750), la viziosa e per molti versi anacronistica
protervia del conte Ottavio, paradigma di una certa nobiltà decaduta, immiserita e tuttavia tenacemente tracotante, era stata bensì oggetto di feroce
e sarcastica attenzione.1 Ma fu proprio nel Feudatario che la vicenda finiva
per toccare direttamente un tema assai più delicato come quello delle giurisdizioni feudali, che cominciavano sì, come vedremo soprattutto altrove, ad
apparire come residuali e magari anacronistici retaggi del passato, ma che
finivano però per interessare come ben altra protagonista un’aristocrazia
non sempre o non ancora impoverita e marginalizzata.
Ambientata in ogni caso nel feudo di Montefosco, in quel regno di Napoli che tutti sapevano infestato da feudatari e baroni, l’azione scenica,
con al centro la presa di possesso del feudo da parte dell’altezzoso nuovo
marchese Florindo e il confronto tra le sue rinnovate e assai ampie pretese, anche erotiche beninteso, e le resistenze dei tre rappresentanti del
paese, virava quindi sin dall’inizio su toni parodistici e burleschi, volti a
suscitare più il riso e lo sberleffo che la civile indignazione.
D’altra parte il tema era scottante. Se la famiglia del patrizio Francesco Canal, cui la commedia era stata dedicata, era titolare solo di
un paio di rendite feudali,2 tra le più influenti schiatte del patriziato
veneziano non erano in realtà poche quelle invece in possesso di ampie
1. Per le tre commedie citate mi sono avvalso del testo G. Ortolani (a cura di), Tutte
le opere di Carlo Goldoni, iv, Milano, Mondadori, 1940. Si sofferma su Il feudatario anche
G. Gullino, I patrizi veneziani di fronte alla proprietà feudale (secoli xvi-xviii), «Quaderni
Storici», 43, 1980, p. 162.
2. Gullino, I patrizi veneziani, p. 162.
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giurisdizioni, per le quali oltretutto rivendicavano da tempo caratteri di
indipendenza da quello stato che pur esse stesse dirigevano e per molti
aspetti impersonavano. I Pisani a Solesino, Stanghella e Boara, i Morosini a Sant’Anna, i Donà a Villa del Dose, i Dolfin a Villa del Buso, i Gritti
nel contado di Zumelle o i Gabriel a San Polo ed Aviano, tanto per citarne
alcune, esercitavano nei loro luoghi giurisdizioni plenarie, tenacemente
refrattarie ad ogni limitazione e controllo statale.3 Mentre il Consorzio
di patrizi veneziani che governava quella giurisdizione pochi anni dopo,
nel 1760, avrebbe addirittura dato alle stampe uno Statuto di Latisana
in cui della Repubblica di Venezia, la loro repubblica, neppure si faceva
menzione.4 Così come, benché con minor intensità rispetto ad un secolo
prima, l’approdo nei ranghi della feudalità continuava a costituire una
sorta di obbiettivo irrinunciabile per molte famiglie di nuova o recente
nobilitazione, fermamente persuase che l’esercizio di prerogative giurisdizionali costituiva l’unico «marchio d’honore» veramente in grado di
mondare l’origine talvolta oscura di patrimoni e fortune.
Di pertinenza di famiglie del patriziato della Dominante e di schiatte
antiche e recenti delle aristocrazie suddite, il patrimonio di giurisdizioni
feudali si estendeva insomma sin da principio un po’ in tutto lo Stato
veneto. Nel 1645 e poi nel 1647 le esigenze finanziarie della Repubblica,
drammatiche in quei decenni centrali del xvii secolo a causa della guerra
di Candia, avevano oltretutto finito per comportare alcuni provvedimenti
legislativi con i quali, prima in Friuli e poi in tutte le altre province dello
Stato, si era messa in vendita a beneficio di chiunque se lo fosse potuto
permettere la possibilità di acquisire nuove giurisdizioni feudali e gli «iura regalia» ad esse connessi.5 Era un periodo, a detta dell’ormai anziano
consultore in iure Gasparo Lonigo, in cui si finiva per dover vendere «il
3. Su questo tema rinvio in generale a S. Zamperetti, I piccoli principi. Signorie locali, feudi
e comunità soggette nello stato regionale veneto dall’espansione territoriale ai primi decenni
del ’600, Venezia-Treviso, Fondazione Benetton Studi Ricerche-Il Cardo, 1991, e più in part. a
S. Zamperetti, Patriziato e giurisdizioni private, in G. Benzoni, G. Cozzi (a cura di), Storia di
Venezia, vii, La Venezia barocca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1997, pp. 201-223.
4. Cfr. Statuto della giurisdizione della Tisana, Venezia, 1760. Vedi sull’argomento
S. Zamperetti, Autorità statale, poteri signorili e comunità soggette nello Stato regionale
veneto del ’700: il caso di Latisana, in L. Berlinguer, F. Colao (a cura di), La «Leopoldina».
Criminalità e giustizia criminale nelle riforme del Settecento europeo, ix, Crimine, giustizia
e società veneta in età moderna, Milano, A. Giuffrè Editore, 1989, pp. 155-184.
5. Per entrambe le leggi rinvio al Codice feudale della Serenissima Repubblica di
Venezia, Bologna, Forni, 1970 (Venezia, Pinelli, 1780), p. 106, 31 ottobre 1645, per il primo
provvedimento relativo solo al Friuli, e pp. 110-111, 12 settembre 1647, per l’estensione delle
vendite a tutte le altre province dello Stato.
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non vendibile».6 E se in alcune province, il Vicentino in primis, le immediate e diffuse resistenze locali annullarono del tutto o circoscrissero
di molto gli esiti di quei provvedimenti governativi, sicché in esse le
giurisdizioni feudali continuarono nonostante tutto a rappresentare quel
fenomeno marginale che erano sempre state, in altre assumevano invece ben altra dimensione. Nuovi giusdicenti feudali, pochi per la verità,
comparvero anche nel Veronese, nel Bresciano, in Istria o nel Padovano.
Ma fu soprattutto in Friuli che le alienazioni si svolsero senza particolari
remore, riducendo via via a poca cosa il territorio non infeudato.7 Secondo il computo operato dall’avvocato fiscale di Udine Francesco Fistulario,
solo 19 saranno nel 1771 le «ville comuni», quelle cioè non sottoposte a
giusdicenti feudali,8 in una situazione complessiva che non aveva nulla
da invidiare, nemmeno dal punto di vista quantitativo, alla realtà di altri
e ben più notoriamente «feudali» stati italiani.9
Non sarebbe dunque stato necessario spingersi sino al regno di Napoli,
cercare insomma un altrove, per situare in un contesto credibile l’azione
del Feudatario. Una fortissima contrapposizione tra neogiusdicenti e cives locali si stava ad esempio verificando in quegli stessi anni a Parenzo,
dove la decisione statale di conferire nel gennaio del 1750 ai Becich la
giurisdizione civile e criminale minore su un paio di ville del contado di
quella città aveva e stava suscitando ancora un tutt’altro che facilmente circoscrivibile sommovimento, destinato poi, nel 1753, a sfociare in
inevitabili e insidiosissime cause penali.10
6. L’affermazione di Gasparo Lonigo è tratta da un consulto dell’agosto del 1650, quando
era stato chiamato come d’uso ad esprimere il suo parere sulla proposta d’acquisto
della plenaria giurisdizione di due ville friulane presentata dai fratelli Carli nel febbraio
precedente. Proprio perché era solo questione «di prezzo», quanto offrivano gli aspiranti
giusdicenti meritava a veder suo un’attenta valutazione. Alla fine, in Friuli beninteso, questa
fu una delle poche richieste non accolte: Venezia, Archivio di Stato (=asve), Provveditori
sopra feudi (=Provv. Feudi), b. 754, cc. 229-246 per tutta la vicenda, c. 244 per la frase citata.
7. Si può agevolmente sostenere che le nuove giurisdizioni furono istituite soprattutto in
Friuli sulla base dell’esame comparato di due diverse e complementari fonti archivistiche.
Quella che ci dà conto delle giurisdizioni richieste (asve, Provv. Feudi, b. 754) e quella che
ci informa invece delle giurisdizioni effettivamente concesse in quel periodo (asve, Provv.
Feudi, b. 776). Sulle vendite in Friuli cfr. anche L. Cargnelutti, Riflessi della guerra di
Candia in Friuli: vecchia e nuova nobiltà, in G. Bergamini, P. Goi (a cura di), Antonio Carneo
(1637-1692), Portogruaro, s.n.t., 1995 e G. Trebbi, Il Friuli dal 1420 al 1797. La storia politica
e sociale, Udine, Casamassima, 1998, pp. 295 sgg.
8. asve, Provv. Feudi, b. 965, fasc. 4, cc. 16-18. Su questi temi vedi comunque S. Zamperetti,
La figura del feudatario nella Repubblica di Venezia di fine ’700, «Acta Histriae», 15-1, 2007,
pp. 235-248.
9. Cfr., ad es., R. Ago, La feudalità in età moderna, Bari, Laterza, 1994.
10. Per tutta la vicenda rinvio a S. Zamperetti, Investiture feudali e conflitti locali
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Numerose, benché quasi mai foriere di tali complicazioni, le situazioni assai simili che si stavano in ogni caso verificando ancora più vicino.
D’altra parte, paventando una possibile «renitenza al concorso negli
acquisti de Feudi resi vacanti nello Stato», un calo d’entusiasmo insomma degli aspiranti giusdicenti feudali in grado di infliggere al pubblico
erario danni facilmente immaginabili, lo stesso Senato veneziano aveva
stabilito poco prima, nel marzo del 1747, che non era più possibile conseguire anche «il solo titolo di nobile» senza «tenere feudi qualificati
per nobili nelle loro investiture», oppure senza possedere «Feudi giurisdizionali consistenti nell’esercizio dei Regali maggiori del Principato».11
Sicché nel maggio del 1747 e nel marzo del 1750 anche gli abitanti di
Asparedo e di Cavalcaselle, nel Veronese, avevano ad esempio visto arrivare in paese i loro nuovi giusdicenti, rispettivamente i fratelli Soldati e
i fratelli Mosconi, tutti di Bergamo, cui da quel momento doveva inoltre
spettare il titolo di conti.12 Né la forzata conoscenza con i nuovi feudatari
era stata risparmiata alla popolazione della vicina San Bonifacio, che
nell’agosto del 1752 aveva dovuto accogliere i fratelli Bernini, originari
di Salò ma ormai stabilitisi a Verona, che vantavano sì il possesso di ben
due giurisdizioni plenarie in Slesia, ma che lì si sarebbero comunque
dovuti accontentare di sentenziare solo in appello.13
E se limitate al civile erano tutto sommato le facoltà giurisdizionali di
costoro, molto più ampie, comprendenti l’ambitissimo merum et mixtum
imperium, erano invece le prerogative che nello stesso torno di tempo
altri neogiusdicenti stavano acquisendo in Friuli. Estinti i precedenti
vassalli, il governo veneto incontrava ora meno difficoltà a mettere subito in vendita gli iura regalia devoluti, costringendo quindi le popolazioni
interessate a inevitabili e probabilmente sgradite conoscenze con i loro
nuovi giusdicenti. Come il bresciano Ascanio Boffa Negrini, dal febbraio
1749 investito, benché solo di un carato, della giurisdizione di San Pietro
nell’Istria del ’700: il caso dei conti Becich e della città di Parenzo, «Acta Histriae», 3,
1994, pp. 71-82.
11. asve, Provv. Feudi, b. 775, 11 marzo 1747, alla data.
12. Per i fratelli Soldati, che secondo le autorità governative si erano insigniti di molti
meriti, e non mancavano neppure di «molti fregi» concessi loro da «Principi esterni», cfr.
asve, Provv. Feudi, b. 1147, c. 579, che riporta sia il decreto del Senato del 27 aprile 1747
che l’effettiva investitura del 25 maggio successivo. Giovanni Maria e Benedetto Mosconi
(asve, Provv. Feudi, b. 1148, c. 597) avevano invece ottenuto il decreto di conferimento da
parte del Senato il 7 febbraio 1750 e l’investitura definitiva il 2 marzo seguente.
13. asve, Provv. Feudi, b. 1148, c. 617 per il decreto del Senato del 15 maggio 1752 e
l’investitura dei Provveditori sopra feudi dell’11 agosto dello stesso anno.
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in Tarcella,14 o come i bresciani fratelli Lecchi nel 1749, i vicentini fratelli
Salvi nel 1750 e i veronesi fratelli Scanagatti nel 1752, tutti acquirenti di
un carato giurisdizionale di volta in volta devoluto della Meduna e della
quarantina di ville annesse.15
In ogni caso, pur costituendo essi la maggioranza dei neogiusdicenti,
non solo tra questi sudditi facoltosi bramosi di «marchi d’Honore» andavano ricercati i nuovi appartenenti al ceto feudale. Morto nel novembre del 1762 Ludovico iv Rangoni, ultimo della sua stirpe, e risultando
quindi devoluta la plenaria giurisdizione di Cordignano, di pertinenza
della casata dal lontano 1451, con un investimento di circa 10.000 ducati
approdarono nei ranghi della feudalità i membri di una delle principali
famiglie dello stesso patriziato veneziano, i Mocenigo, un cui esponente, Alvise iv, poco dopo assurgerà alla carica dogale e anzi costituirà in
quei luoghi, alla Villa in particolare, una sorta di corte rinascimentale
con tanto di artisti e letterati ad allietarne i periodi di «villeggiatura».16
Ma pur nella sua prudenza, di ambientazione e di tono, la commedia di
Carlo Goldoni era tuttavia destinata a costituire un’eccezione, in pratica
a rimanere, nell’intero panorama letterario del secondo Settecento veneziano, l’unica opera dedicata a questo tema, che d’altronde nemmeno nel
dibattito e nella riflessione politica costituirà mai argomento particolarmente frequentato. Nello Stato veneto della seconda metà del xviii secolo,
e non perché non ce ne fossero, feudi e diritti feudali non saranno infatti
14. asve, Provv. Feudi, b. 1148, c. 593 per il decreto del Senato del 18 gennaio 1749 e
l’investitura del 6 febbraio successivo.
15. Alla Meduna per le famiglie titolari di uno o più «carati di giurisdizione» quelli pare
fossero anni sfortunati. Nel 1749, con la morte di Pietro, si estinse la famiglia Lorando
«senza posterità mascolina». Identica sorte toccò nel 1750 ai Provaglio e nel 1752 ai
Franzoni. Messi subito in vendita, i diritti giurisdizionali tornati momentaneamente di
ragione pubblica trovarono assai presto nuovi acquirenti. Il carato giurisdizionale già dei
Lorando, con decreto del Senato del 27 marzo 1749 e investitura del 19 aprile seguente,
passò quindi a Pietro e Angelo Lecchi. Quello dei Provaglio, decreto del 5 dicembre e
investitura del 12 dicembre 1750, fu acquistato da Giovanni Battista, Lodovico e Gian
Antonio fratelli Salvi, e infine quello dei Franzoni, decreto del 6 maggio e investitura del
13 maggio 1752, passò a sua volta «per prezzo» a Nicolò, Antonio e Giuseppe Scanagatti:
asve, Provv. Feudi, risp. b. 1147, c. 569 e b. 1148, cc. 604 e 613. Angelo Lecchi e Lodovico
Salvi erano abati, mentre Giuseppe Scanagatti era un canonico. Benché la loro condizione
ecclesiastica fosse de iure incompatibile con la nuova condizione di vassalli giurisdizionali,
nessuno ebbe nulla da obbiettare circa la loro presenza nei diplomi d’investitura.
16. Per il feudo di Cordignano dei Rangoni rinvio a Zamperetti, I piccoli principi, pp. 8485, 230, 325-326, 343-344. asve, Provv. Feudi, b. 211 per le vicende connesse all’acquisto del
1763. Il 14 gennaio 1764 (asve, Provv. Feudi, b. 751, alla data) il giusdicente risultava essere
Pietro Mocenigo. Tuttavia il 26 maggio 1780, morto il doge Alvise iv Mocenigo, l’investitura
stabiliva che gli eredi legittimi, come tali nuovi giusdicenti di Cordignano, erano proprio i
suoi figli Alvise i e Alvise ii.
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mai al centro delle discussioni e degli attacchi diffusi invece con ben altra
ampiezza e vigore in altri stati italiani o più generalmente europei.17
A partire dagli anni Settanta del secolo anche all’interno del Senato
veneziano avevano bensì iniziato a serpeggiare in materia nuove posizioni. L’opera di redenzione delle regalie nella vicina Lombardia austriaca
aveva incontrato anche nel governo marciano ancorché cauti ammiratori,
e pertanto erano talora emersi orientamenti volti al contenimento ulteriore, se non proprio all’abolizione, delle giurisdizioni feudali.18
Prospettive di tale portata finirono comunque per rientrare in gran
fretta, e in ogni caso non trovarono terreno propizio per propagarsi. Gli
stessi rettori delle province di Terraferma, incaricati nella tarda estate
del 1770 di produrre un resoconto della situazione feudale riscontrabile
nelle zone di loro competenza, finirono quasi tutti, dal podestà di Bergamo a quello di Brescia, da quello di Treviso a quelli di Rovigo e Verona,
per convenire che il problema non esisteva. Certo, taluni confessavano,
complice la distanza e una certa separatezza di quei luoghi, di non disporre di molte informazioni di prima mano. Ma tutto sommato, convenivano pressoché concordi, era tuttavia opinione comune che i giusdicenti
feudali trattavano con «paterna benevolenza» i loro sudditi, né in ogni
caso erano mai giunte lamentele tali da far supporre il contrario.19
Unica eccezione in questo coro apologetico i dispacci provenienti dal
Friuli. Di ben altro tenore apparivano infatti le osservazioni con le quali il
già citato avvocato fiscale Francesco Fistulario descriveva la situazione
«sub specie feudi» della regione. Tribunali privati inadatti ai loro compiti,
cause gestite da giudici incompetenti, giusdicenti che oscillavano dalla
soperchieria alla pura e semplice ignavia, questo e molto altro ancora
concorreva insomma a dimostrare il risultato di quel generalizzato e
mai sufficientemente deprecato conferimento a privati dell’esercizio di
diritti pubblici.20
Neppure l’invio, nel 1770 e nel 1771, di queste relazioni comportò tuttavia un reale intervento da parte delle autorità governative. I propositi
17. Ago, La feudalità in età moderna; R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino, Stato e
feudalità in Sicilia. Economia e diritto in un dibattito di fine Settecento, Napoli, Jovene, 1992;
J. Godechot et al., L’abolition de la «feodalité» dans le monde occidental, Paris, cnrs, 1971.
18. C. Magni, Il tramonto del feudo lombardo, Milano, A. Giuffrè Editore, 1937 e, per
il Veneto, G. Fasoli, Lineamenti di politica e legislazione feudale veneziana in terraferma,
«Rivista di storia del diritto italiano», 25, 1952, pp. 61-94.
19. Cfr. Zamperetti, La figura del feudatario, pp. 236-238.
20. Secondo l’avvocato fiscale udinese sui diritti feudali c’era comunque poco da
discutere. Erano «un retaggio dei secoli Barbari» e basta. La scrittura citata, del 16 febbraio
1771, è in asve, Provv. Feudi, b. 965, fz. 4, cc. 16-18.
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riformatori, dopo quel breve accenno iniziale, si erano in gran fretta
assopiti. Di più, a chiudere sul nascere la questione, nel 1773 gli stessi
Provveditori sopra feudi veneziani avevano ufficialmente concluso che
dalle informazioni raccolte appariva evidente che le popolazioni interessate ricevevano «più felicità che detrimento dal feudale governo».21
Qualcosa ancora si fece. Si raccolsero informazioni più dettagliate.
Tra le altre cose si decise pure, nel 1776, di non attribuire più il «criminale» alle giurisdizioni concesse da quel momento in avanti, e nel
1780, accanto alla decisione di abolire le seconde istanze, solo beninteso
quelle indebitamente introdotte, venne infine dato alle stampe, mosso da
intenti di razionalizzazione e frutto del lavoro di quel periodo, il Codice
Feudale della Serenissima Repubblica di Venezia.22 Seguito nel dicembre
del 1782 dal cosiddetto Piano di disciplina feudale.23 Oltre però non si
andò. Che le giurisdizioni feudali fossero un retaggio dei secoli barbari,
un sempre più intollerabile residuo del passato, nello Stato veneto di
quel periodo, tra coloro ovviamente che erano in grado di far sentire la
loro opinione, non sembravano poi in molti a ritenerlo. Tra governanti e
funzionari statali il solo Francesco Fistulario sembrava appunto pensarla
a quel modo.24
Pressoché ignorate dalle autorità di governo per le quali erano state
concepite, le sue relazioni erano tuttavia destinate a postumi e probabilmente involontari riconoscimenti. In molti punti, nel tono e nei contenuti,
nel sottolineare la natura prima di tutto anacronistica e residuale delle
giurisdizioni feudali, gli scritti dell’avvocato fiscale di Udine sembrano
infatti anticipare certe pagine che Ippolito Nievo, poco meno di un secolo dopo però, dedicherà al castello e alla giurisdizione friulana di Fratta.25
21. Tutte le scritture dei Provveditori sopra feudi sulla questione in asve, Provv. Feudi,
b. 771. Si sofferma su queste vicende anche Fasoli, Lineamenti di politica e legislazione
feudale, pp. 88-90.
22. Zamperetti, La figura del feudatario, pp. 242-243.
23. Leggi riguardanti gli obblighi de’ Giusdicenti e loro ministri, Venezia, Pinelli, 1782.
Dato alle stampe il 9 dicembre, dopo l’approvazione del Senato di quattro giorni prima, il
volumetto, che nella documentazione coeva prese da subito ad essere indicato appunto
come Piano di disciplina feudale, aveva in realtà obbiettivi assai ambiziosi. Stampato
in 2.500 copie, doveva costituire una sorta di piccolo compendio al voluminoso e ai più
sconosciuto Codice Feudale. Quanto ai contenuti, nessuna novità sostanziale vi veniva
tuttavia prospettata. Cfr. Zamperetti, La figura del feudatario, pp. 243-244.
24. Zamperetti, La figura del feudatario, pp. 243-244.
25. Ippolito Nievo, Le confessioni d’un italiano, Firenze, Le Monnier, 1867 (1858).
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