talenti per il futuro

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talenti per il futuro
Liceo classico “Antonio Canova”
Liceo scientifico “Leonardo Da Vinci”
Treviso
TALENTI PER IL FUTURO
Concorso di scrittura
IIa edizione - 2012
Simone Maria Bonin
PAROLE D’UN SOLITARIO AMANTE
Marco Buso
LE STREGHE DI EASTBOURNE
Elia Russo
SCENE TAGLIATE
Talenti per il futuro
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Talenti per il futuro
Concorso di scrittura - IIa edizione
Liceo classico “Antonio Canova”
Liceo scientifico “Leonardo Da Vinci”
Treviso
Simone Maria Bonin
Parole d’un solitario amante
Marco Buso
Le streghe di Eastbourne
Elia Russo
Scene tagliate
Appendice
Serena Cavasin
I racconti dell’inanimato
© Liceo classico “Antonio Canova” - Treviso
dicembre 2012
Pubblicazione a cura di Clelia De Vecchi
Veneto Banca promuove la crescita non solo economica ma anche
sociale e culturale dei territori in cui opera, direttamente ed anche
mediante la Fondazione Veneto Banca, ente che ogni anno effettua
numerose iniziative filantropiche, specie nel Veneto.
Nell’ambito dei suoi interventi in favore del mondo giovanile, la
Fondazione finanzia diversi premi per studenti meritevoli, sostiene
qualificati viaggi e soggiorni di studio all’estero, mette in contatto i
giovani del “suo territorio” con realtà culturali di valore nazionale,
aiuta numerose associazioni sportive dilettantistiche.
Con particolare riguardo all’incoraggiamento dei giovani talenti,
è stato dato avvio ad una collaborazione con il Liceo Ginnasio Antonio Canova di Treviso che ha comportato il sostegno di alcune iniziative di grande qualità in favore dei suoi migliori studenti, quali i
“certamina di latino” e questo premio letterario Talenti per il Futuro,
concorso che ha visto la produzione di elaborati di pregio per i quali
vivamente ci si felicità con i partecipanti ed i loro insegnanti.
Fondazione Veneto Banca
Gianquinto Perissinotto
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Prefazione
Avviato nell’anno scolastico 2010-2011, il Concorso letterario
Talenti per il futuro è al suo secondo anno di realizzazione e vede ancora una volta il Liceo Classico Canova di Treviso e Fondazione Veneto
Banca alleati in un percorso di scoperta e valorizzazione delle potenzialità (i talenti) spesso inespresse a scuola ma pure vive e vibranti nei
giovani studenti di oggi.
Anche quest’anno l’iniziativa ha dimostrato un’elevata vitalità
non solo per l’alto numero di partecipanti ma soprattutto per la
qualità dei lavori in concorso.
La novità di questa seconda edizione è stata anche quella di aver
voluto “aprire” l’iniziativa al territorio, accogliendo lavori di studenti provenienti da un diverso percorso di studi (quello scientifico)
nella convinzione che il piacere della scrittura superi i vincoli degli
ambienti scolastici di riferimento e sviluppi sinergie e collaborazioni
inedite.
I componimenti presentati affrontano una vasta gamma di tematiche esistenziali che rivelano il sentire profondo e spesso nascosto
dei giovani e dimostrano quanto l’interesse per lo scrivere non sia
disgiunto da chiare capacità tecniche maturate nel corso degli anni
di studio sui banchi di scuola, da originalità, freschezza espositiva.
I testi qui raccolti, che hanno saputo inserirsi nel solco di generi
e filoni narrativi e poetici, sono la testimonianza del bisogno dei
giovani di esprimersi anche attraverso la scrittura e di trovare nella
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Talenti per il futuro
stessa un modo per comunicare le proprie emozioni partendo dal
vissuto di ciascuno; la personalità di ognuno di loro traspare mediata
attraverso un patrimonio culturale che non è fatto solo di nozioni
ma di riflessioni, di conoscenze assimilate e rielaborate, di pensiero
autonomo, di cultura classica che viene reinterpretata e riscritta.
Così l’Iliade, l’Odissea, la Divina Commedia rivivono in termini
teatrali, in una lingua poetica e raffinata e gli spazi vuoti di Omero e
Dante si riempiono di giovani impulsi come nel lavoro qui pubblicato, Scene tagliate, di Elia Russo.
Uno sfondo storico ben documentato diventa, invece, scenario
per il racconto di Marco Buso Le streghe di Eastbourne e il testo poetico Parole d’un solitario amante di Simone Bonin ci rivela un uso
sapiente della scrittura, la capacità di andare oltre la parola del quotidiano, di sospendere il tempo e di mutare la natura e la funzione
del luogo nel quale la poesia viene prodotta o al quale ci riconduce.
Ci si accorge di quanto la lettura scolastica dei classici porti gran
parte degli adolescenti e dei ragazzi a stabilire una relazione più autentica con la poesia, e li spinga a cimentarsi in proprio con la scrittura. L’ambito scolastico, infatti, può e deve mantenere un ruolo
decisivo affinchè lo studio della poesia o della letteratura per gli adolescenti non sia solo un fatto strumentale, quanto piuttosto il veicolo
di un’esperienza profonda che si ponga oltre il (pure indispensabile)
vincolo dell’analisi strutturale.
Il lavoro qui presentato ha, quindi, una forte valenza educativa
e ha inteso esplorare la possibilità di integrare nell’offerta formativa
del Liceo significative esperienze, occasioni di apprendimenti e possibilità di sviluppo negli studenti di competenze e potenzialità individuali capaci di arricchire e potenziare anche il patrimonio culturale
italiano dei prossimi anni.
Il Liceo vuole così ribadire la valenza culturale del processo di
insegnamento-apprendimento ponendosi come risorsa per la formazione degli studenti che dimostrino interessi e attitudini per un
percorso di studio a lungo termine e creando opportunità per rispondere all’esigenza dei giovani di non vivere passivamente le trasformazioni in corso ma di esserne protagonisti consapevoli.
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Prefazione
L’auspicio è che le Istituzioni presenti nel territorio siano sempre
più attente ai processi innovativi presenti nelle scuole e li sostengano
investendo risorse e che nella scuola sempre più docenti possano
avviare percorsi didattici capaci di sviluppare negli studenti abilità e
interessi utili per la comprensione del proprio futuro e che, d’altro
canto, sempre più studenti superino le paure del confronto con gli
altri e decidano di crescere e “mettersi in gioco” per scoprire il senso
e la bellezza della propria esistenza anche attraverso il piacere della
scrittura.
Treviso, 12 ottobre 2012
M. Giuseppina Vincitorio
Dirigente Scolastico Reggente Liceo Canova
nell’anno scolastico 2011-12
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Introduzione
Visto il successo dello scorso anno, si è ritenuto opportuno rinnovare il concorso di scrittura Talenti per il futuro, estendendo la
competizione agli studenti del Liceo Scientifico Leonardo Da Vinci.
Anche la seconda edizione è stata promossa grazie al sostegno e
finanziamento della Fondazione Veneto Banca, rappresentata in commissione dal dott. Gianquinto Perissinotto. La commissione giudicatrice dell’edizione 2011-12 è stata inoltre composta dalla Preside,
prof. Giuseppina Vincitorio, dirigente di entrambi i licei, le proff.
Manuela Chiarante, Clelia De Vecchi, Gigliola Rossini (liceo Canova), Paola Bellin (liceo Da Vinci) e come membri esterni l’avv.
Giovanna Cordova, l’ex preside prof. Paolo Corbucci e la prof. Irina
Possamai.
Come nella precedente edizione, lo scopo del concorso è stato
quello di favorire la passione per la scrittura creativa, incoraggiando
la produzione di testi di diverse tipologie.
All’edizione attuale hanno partecipato 33 allievi, 24 del Canova
e 9 del Da Vinci.
I lavori presentati sono stati vari, sia per il genere letterario che
per gli argomenti trattati. Hanno comunque evidenziato l’impegno
di questi ragazzi e, in qualche caso, una vera e propria passione per
la scrittura.
Il concorso prevedeva due sezioni, una denominata Minor (opere
con numero di pagine inferiore a dieci) e una Maior (oltre le dieci
pagine).
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Talenti per il futuro
Si dà qui di seguito un resoconto dei risultati e delle motivazioni
individuate dalla giuria
Sezione Maior
Il primo premio è stato assegnato al testo poetico Parole d’un
solitario amante di Simone Bonin (classe V F del liceo Da Vinci)
con la seguente motivazione:
I testi poetici sul tema dell’assenza risultano originali e ben costruiti.
Dimostrano una propensione dell'autore per la scrittura poetica e
la capacità di esprimere i moti interiori dell'io grazie all'uso della
parola, eletta a strumento di reminiscenza, e all'abilità tecnica nel
condurre giochi fonici e retorici.
Il secondo premio è stato attribuito al racconto Le streghe di
Eastbourne di Marco Buso (classe III E classico del liceo Canova)
con la seguente motivazione:
Racconto ben strutturato, inserito in uno sfondo storico documentato,
rivela una buona padronanza delle tecniche narrative, la capacità
di articolare coerentemente ed efficacemente fatti e delineare con ricchezza di particolari personaggi nonché un uso sicuro della lingua
nei suoi vari registri.
Il terzo premio è stato attribuito al lavoro Scene tagliate di Elia
Russo (classe V A ginnasio del liceo Canova)
con la seguente motivazione:
Lavoro molto buono perché sa cogliere agevolmente il linguaggio con
ottima capacità mimetica.
E’ stato apprezzato il procedimento metateatrale contemporaneo utilizzato. Dopo aver riconsiderato Iliade, Odissea e Divina Commedia in termini teatrali, l’autore ha immaginato e riscritto, in una
lingua poetica raffinata, gli spazi vuoti lasciati da Omero e Dante.
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Introduzione
La Commissione inoltre ha ritenuto di assegnare la menzione
d’onore al seguente lavoro, per l’elaborazione originale di argomenti
di studio:
Imperium di Riccardo Bresolini (III G del liceo Da Vinci)
con la seguente motivazione:
La riscrittura molto visiva del De bello gallico di Cesare risulta
nell’insieme avvincente. Il testo ha la caratteristica di una sceneggiatura e potrebbe essere il soggetto ideale per un film. E’ stato riconosciuto anche il notevole impegno dell’autore.
Sezione Minor
La giuria ha deciso di assegnare solo il primo premio, che è stato
attribuito ai Racconti dell’inanimato di Serena Cavasin (IV a linguistico del liceo Canova),
con la seguente motivazione:
Lavoro originale fin dal titolo e nell’ideazione, dimostra grande maturità nella scrittura, rivela padronanza e ricchezza del linguaggio,
anche per le implicazioni filosofiche presenti nel testo.
Clelia De Vecchi
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Simone Maria Bonin
Parole d’un solitario amante
Simone Maria Bonin
Simone Maria Bonin nasce a Venezia Mestre il 10 novembre 1993. Figlio
unico, in tenera età si trasferisce a Paese dove attualmente risiede.
All’età di 15 anni trascorre sei mesi della propria vita in Costa Rica e nel
luglio 2012 si diploma al liceo scientifico “Leonardo da Vinci” di Treviso, ora
studia Matematica ed Economia in Inghilterra, presso l’Università di Warwick.
Dopo un contatto giovanile ed acerbo con la poesia francese, da cui trae
ispirazione e forma la presente raccolta, ha cominciato a occuparsi di letteratura angloamericana traducendo poeti modernisti e romantici, e vivacchia
trascorrendo parte del suo tempo libero in cucina, tra i fornelli, di cui è grande
appassionato, o in qualche viaggio sempre dietro l’angolo.
non ho molto
da offrirti
quattro lacrime d’oro
spigolate dalla
notte
e fosse poco
spero solo di
toccarti il volto
Parole d’un solitario amante
alla tua lontananza
A volte disprezzo
questo corpo che
oscura il foglio,
si espone nudo e tuo
al mondo.
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Talenti per il futuro
Mi ricordi quando il vento
spostava le nuvole incimurrite
e fra le mani io tenevo una farfalla;
un raggio di luce me la chiese
e la sciolsi alla vita, lì, nell’aria...
e mi ricordi di quella farfalla
a danzare spavalda nell’oro
del sole, orgogliosa di gioia
e di quell’ape, ricordi, che ronzando
paffuta fra i sospiri smeraldo
mi colse come fiore al vento,
prendendomi con sé in un viaggio eterno.
Mi accolgono ora le voci dell’alba, ascolto
suoni e canti d’altro mondo e mi ricordi
del fremere di quella notte d’inverno,
di un mattino sognato in lacrime
combattute fra realtà e sogno.
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Simone Maria Bonin - Parole d’un solitario amante
Non mi appaga che il tuo
prendere la vita fra le mani
e lanciarla a denti serrati
nel baratro ignoto della tempesta.
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Talenti per il futuro
Vorrei fossimo due
flebili scintille, dimenticate
dal fuoco e portate via, lontano,
verso nuvole dense di spezie,
sentire pieno lì il cuore
del ricco odore di zafferano o
stuzzicarci il naso il pizzichìo
amaranto del pepe.
Vorrei tessere il tempo nell’oceano
diamante, senza più nomi che
plasmino quest’animo informe
sulle armoniche calde del Sole...
Ci tufferemmo nell’acqua dorata
di mari lontani, disegnando la vita
in un’onda leggera, seguiti
dalle azzurre schiume d’estate...
vorrei che fossimo la luce, raggiungere
ogni cosa in un unico istante ed
ergersi contro l’ombra del vuoto
in un sorriso smeraldo timoroso di niente.
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Simone Maria Bonin - Parole d’un solitario amante
Camminerò su fili di rame
tesi fra nuvole e ombre
su strade e sentieri battuti dai
venti. Sospinto ai confini del mondo
sarò tramonto d’una foglia d’autunno.
E non sarà tregua né stancherà il passo,
con ali zingare soppeserò il silenzio,
trascinato dall’odore dell’erba, da volti
immensi e privi di luce.
Non pronuncerò parola, non
un solo grammo d’aria strapperò al cielo
e uno spirito errante e trasognato sarò
fra le folli braccia del mondo.
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Talenti per il futuro
“Mancherà per molto tempo”
Dissi.
“Portale dei biscotti” riempiendomene un cartoccio
“dei suoi preferiti al curry e di nuovi poi, al mirtillo
rosso”.
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Simone Maria Bonin - Parole d’un solitario amante
Eri solita dar baci in corsa,
salutarmi con crucci sdruccioli:
un su e giù di voci e umori, come canti
al giunger sera, amarmi a tempi.
Mi manca il tuo cercarmi.
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Talenti per il futuro
Solo, nei chiari sentieri d’alba,
do inizio ad altro giorno
Tu, conquistandomi il pensiero,
lo penetri poco per volta
come gelida brezza di ricordo
dai forma al presente vagabondo.
Poi improvvisa te ne vai
solitaria, seguendo nuvole e nebbia,
Via per riapparire al mio sguardo
velata dal lungo silenzio, la notte.
Ed entusiasta ti spoglio, ti
svesto istante per istante
per rivederti nuda, e affamato
assaporare il tuo cuore
Raggiungo ogni parola non detta
ogni emozione dispersa
Sono un pittore di immagini
un artista dell’aria
Di sogni mi nutro
fino a che, forte di braccio,
una tua mano mi
riporta certezze
che il silenzio, perenne tramonto,
indebolito aveva con docile dubbio
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Simone Maria Bonin - Parole d’un solitario amante
Si è stranieri a
calpestare l’immenso
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Talenti per il futuro
La notte mi
preme le ossa e
non più il tuo corpo,
signorina farfalla
mi opprime un silenzio
macchiato di rosso,
soffocante e freddo,
le immobili labbra
di un morto.
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Simone Maria Bonin - Parole d’un solitario amante
Mi si è persa la parola
fra le dense nubi della vita, voce
che tace, mesta, in sentieri infradiciti dal piombo.
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Talenti per il futuro
Poesia
hai sempre fame ed io
non so che darti.
Donna dolce e vorace
tu mi strappi la carne
quando il cielo è senza stelle
e tace.
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Simone Maria Bonin - Parole d’un solitario amante
Sussurro fiocchi di lacrime
sciolti come ghiaccio al mormorare
del fuoco, così languido,
così sdrucciolo e per nulla tiepido
stasera, come morto.
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Talenti per il futuro
Non c’è sguardo
che dia volto
al silenzio
Né parola
che conceda
un tuo assenso
- E s’era folle quel sogno
che a me dolce
ti trasse
O s’era folle quel vento
che in due labbra
ti avvolse al mondo
io
adesso
chiedo solo
del tempo
per amarti
e amarti ancora,
sciocco,
non più verso
ma corpo.
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Simone Maria Bonin - Parole d’un solitario amante
Potesse afferrarti la mia parola
sarebbe una lancia di ghiaccio, fiamma
densa di fango, sarebbe esile
odore di pioggia o maestoso fulmine
a trattenere per un solo istante
questo Tutto in fuga.
Potesse afferrarti la mia parola
e non far piangere lacrime amare
al saperti lontano, potesse afferrarti, dico,
e sogno e realtà m’abbraccerebbero
insieme in un mondo più nuovo.
Parola storpia, parola amata, insignificante
nulla a colorare un’anima
d’ambra, potesse sfiorarti, toccarti,
amarti quest’esile parola
d’un verde non più verde come
la giada morta.
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Talenti per il futuro
Un rimorso mai colto sta
a marcire quale il grano
nelle fradice piogge d’autunno
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Simone Maria Bonin - Parole d’un solitario amante
Finì
come finisce
ogni sogno,
come il giorno,
la notte del mondo
e una paura grande
e il tuo cantare
rotto
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Marco Buso
Le streghe di Eastbourne
Marco Buso
Marco Buso è nato il 24 settembre 1993 a Treviso, dove tuttora risiede. Ex
studente del liceo classico “A. Canova”, coltiva al momento la propria passione
per la storia a livello universitario. Ama il disegno e la scrittura, e sogna di
diventare giornalista.
Appassionato lettore, ha iniziato a scrivere brevi racconti a diciassette anni.
Tra gli scrittori che lo hanno maggiormente influenzato vi sono Edgar Allan Poe e Stephen King. Le streghe di Eastbourne è il suo secondo racconto.
Le streghe di Eastbourne
I.
The Devil thus Irritated,
immediately try’d all sorts of Methods
to overturn this poor Plantation...
Cotton Mather, The Wonders of The Invisible World (1692)
Giunse in silenzio, all’improvviso, ed altrettanto repentinamente
se ne andò. Come la fugace sagoma di una nuvola che passa veloce
sul prato, e per un attimo getta sull’erba splendente un velo cupo e
funesto, soffocando ogni colore sotto la propria ombra livida.
Il viandante camminava con passo lento e sicuro sulla terra battuta del sentiero. Tra le verdi chiome dei faggi si intravedeva l’azzurro
accecante del cielo, ma in basso, là dove le felci prosperavano rigogliose, erano ben pochi i raggi che giungevano a rischiarare la fitta
penombra. Un profondo silenzio pervadeva il sottobosco, interrotto
soltanto dal lieve scalpiccio ritmato delle calzature del viandante sul
terreno morbido e cedevole della pista.
L’uomo non era né giovane né vecchio, ma il suo viso, seminascosto sotto l’ampio cappuccio di un mantello nero come la pece, era del
tutto simile alla facciata di un edificio troppo vecchio e trascurato,
che porti su di sé i segni dell’inesorabile scorrere del tempo. Le sue
scarne guance erano butterate e l’intero viso era cosparso di piccole
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Talenti per il futuro
cicatrici bianche, nascoste solo in parte dai lunghi capelli corvini che
gli ricadevano in folte ciocche sulla fronte e sulle tempie. Occhi di
un nero profondo si posavano con calma sulle cose – le alte chiome
ondeggianti dei faggi, due lucertole guizzanti su per la corteccia di
un albero, un ramo spezzato sulla sabbia del sentiero –, indagandole
attentamente. La postura, i movimenti e gli occhi dell’uomo rivelavano un animo forte e sicuro... eppure, ad uno sguardo più attento, i
medesimi occhi avrebbero potuto a tratti lasciar trapelare un guizzo
di latente ferocia, di nascosta malvagità. Quasi che l’oscurità di cui
era pervaso il corpo dell’uomo – dai capelli, agli occhi, fino all’ampio
mantello – ne avesse raggiunta, contaminandola, l’anima stessa.
Il viandante affrettò il passo, calcando con forza il terreno. Superò
una curva del sentiero, poi un’altra, ed infine si fermò. Di fronte a
lui, attraverso i tronchi e i rami degli alberi, era finalmente visibile la
costa. Il mare era calmo, laggiù, e si poteva scorgere un’imbarcazione
che faceva lentamente ritorno nella piccola insenatura. Il viandante
spostò lo sguardo verso la terraferma. In riva all’acqua, oltre il limitare della foresta, biancheggiava svettante il campanile di una chiesa.
Tutt’attorno, massicci camini rossastri ed aguzzi tetti d’ardesia.
Il viandante sorrise. Poi, con calma, riprese il proprio cammino.
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Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
II.
La tranquilla cittadina di Eastbourne, nell’estate dell’anno del Signore 1692, era – secondo un’opinione approvata dalla quasi completa totalità della sua cittadinanza – uno dei porti più prosperi ed
agiati della Nuova Inghilterra. Non di rado, alla Taverna del Re, i
pescatori trascorrevano intere serate vantando la straordinaria vitalità commerciale della cittadina – i merluzzi, stando a quanto affermavano numerosi proprietari di imbarcazioni da pesca, erano più
abbondanti nelle acque di fronte a Eastbourne che in qualsiasi altra
zona del Golfo, da Falmouth fino a Nantucket, ed andavano letteralmente a ruba tra i mercantili che facevano periodicamente scalo nel
porto –, e chiunque si fosse concesso anche solo una breve passeggiata nei tortuosi vicoli del centro cittadino avrebbe potuto facilmente
individuare tutti quei piccoli dettagli che tradiscono un’insolita agiatezza negli abitanti di un austera ed intransigente colonia puritana:
nella zona immediatamente a sud di Thompson Lane, ad esempio,
a vecchie cascine dalle pareti asimmetriche e piccoli appezzamenti
recintati si alternavano, in quantità considerevole, ampie case rivestite in legno di quercia coronate da un gran numero di frontoni
ed abbaini, e la vecchia meeting house nella piazza principale di
Eastbourne era adornata, lungo tutte le pareti perimetrali, da ampie
vetrate in un vetro della migliore qualità, in totale spregio alla grave
penuria di tale materiale che afflisse le colonie inglesi d’oltremare per
tutto il secolo decimo settimo, costringendo i poveri carpentieri del
Nuovo Mondo a fornire tutte le abitazioni, anche le più prestigiose,
di anguste aperture – più simili a minuscole botole che ad altro, in
verità – in guisa di finestre.
Eastbourne sorgeva in riva al mare, adagiata in fondo ad una delle tante piccole insenature che costellano la costa settentrionale del
Massachusetts. Alle spalle dei moli di pietra e degli edifici del porto,
addossati gli uni agli altri in una caotica congerie di legno e mattoni
crudi, una piccola cintura di campi coltivati segnava il confine tra la
placida quiete della colonia e le vaste regioni selvagge delle foreste
interne, popolate da tribù indiane feroci e bellicose che il fiero im43
Talenti per il futuro
peto della civiltà avanzante non era ancora stato in grado di sottomettere. Nessuna palizzata difendeva il piccolo abitato dal pericolo
di un assalto dei nativi, ed il porto sarebbe risultato completamente
indifeso ed abbandonato a sé stesso, se non fosse stato per la piccola
guarnigione di soldati di Sua Maestà che occupava un ampio e basso
edificio adiacente al palazzo del Vicegovernatore; anche se, ad esser
sinceri, tale esigua milizia adempiva prevalentemente alla mera funzione di rappresentare simbolicamente il controllo, protettivo ma al
contempo severo, dell’amata Madrepatria d’oltremare, reprimendo
sul nascere iniziative troppo illecite ed ingiustificati impeti di ribellione. Era opinione comune che quel minuscolo pugno di soldati
non facesse nulla di utile per una buona parte della settimana, gozzovigliando nelle immediate vicinanze della Taverna – quando non
era al suo interno – e preoccupandosi di farsi vedere con elmo ed
alabarda solo in occasione della messa della domenica, allorché il
manipolo si schierava impettito ai lati dell’ingresso della chiesa, e
nelle poche occasioni in cui Eastbourne riceveva l’onore della breve visita di un alto dignitario. Ma tali occasioni, occorre ribadirlo,
erano estremamente rare e straordinarie, poiché non vi erano molte
valide motivazioni in grado di spingere un uomo a recarsi presso una
cittadina così monotona e chiusa in sé stessa, ove la maggiore fonte
d’interesse era costituita dal settimanale rientro in porto delle imbarcazioni cariche di merluzzi freschi: tant’è che, nell’arco di mezzo
secolo, l’unica visita di un certo rilievo che gli abitanti di Eastbourne
avevano ricevuto era stata quella di Sir Edmund Andros, all’epoca
Governatore della Nuova Inghilterra, che un improvviso e violento
temporale aveva sorpreso durante il viaggio di rientro a Boston – si
era recato a Portsmouth, assieme alla sua delegazione, per discutere
alcune questioni diplomatiche assieme a dei capi mohawk –, costringendolo a rifugiarsi in tutta fretta nella più vicina locanda del più
vicino centro abitato che, per puro caso, era proprio la Taverna del
Re di Eastbourne (perché ogni taverna che si rispetti, all’occorrenza,
diviene per l’ospite pagante una confortevole locanda). Si era trattenuto nella sua camera al primo piano dell’edificio per due giorni,
attendendo che la pioggia lieve ma continua in cui si era trasformato
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Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
il forte acquazzone cessasse definitivamente, in preda all’orribile malumore che il maltempo infonde a troppe persone, e quando il sole
tornò a fare capolino tra le nubi cineree, scaldando le pietre umide
dei selciati, era già pronto per partire: fu così che l’ospite più illustre
che Eastbourne avesse mai accolto se ne andò, scortato dai propri
gendarmi, senza nemmeno salutare il Vicegovernatore cittadino Simon Wakefield – che ebbe molto da dire su una simile scortesia –,
e la sua apparizione fu in seguito ricordata quasi come un fugace
miraggio, acquisendo con il tempo sempre più i contorni di una
leggenda.
Di tempo non ne era ancora passato molto, in quella placida estate del 1692 – il Dominion si era dissolto solo da pochi anni, ed erano ancora in molti a ricordarsi di quell’insolita visita –, ma il buon
Edmund Andros era nel frattempo riuscito a farsi cacciare a pedate
da Boston, farsi riaccogliere benevolmente alla Corte d’oltreoceano
ed ottenere il governatorato della meno turbolenta Virginia, per la
quale si sarebbe imbarcato di lì a pochi mesi. Ad Eastbourne, invece,
non era successo proprio nulla, e non un’altra insolita visita aveva
turbato la tranquilla monotonia del piccolo porto: tutti gli abitanti,
primo fra tutti il Vicegovernatore, concordavano nell’affermare che
la cittadina era un vero e proprio paradiso in terra, e che nemmeno
il Diavolo in persona sarebbe mai riuscito ad intaccare l’atmosfera di
pace ed armonia che vi regnava.
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Talenti per il futuro
III.
Il sole era alto nel cielo e le ombre delle case non avevano ancora
iniziato ad allungarsi in direzione del mare, quando il viandante fece
il proprio ingresso in città. Percorse lentamente il rozzo selciato di
Prince Street, dirigendosi verso la nivea guglia del campanile della
chiesa cittadina; giunto nella piazza principale, Dock Square – cinta
su tre lati da bassi edifici in legno e dalla solida facciata della chiesa
puritana, recentemente ricostruita in mattoni, ed affacciata sul rimanente lato verso le banchine del lungomare –, rivolta una rapida
occhiata attorno a sé ed individuata una piccola insegna dipinta con
colori vivaci non ancora sbiaditi dalle intemperie, si diresse senza indugio verso un ampio fabbricato dotato di una bella porta d’ingresso
in legno di quercia rinforzata con borchie di ferro – fabbricato ben
conosciuto dal popolino locale con l’altisonante nome di Taverna
del Re. Sarà bene ora, per amor di verità, precisare al lettore quale
sia la vera origine di un nome tanto patriottico ed evocativo: si dà
infatti il caso che, affissa sulla parete in fondo al locale, dietro al
lungo bancone dell’oste e a fianco della ripida scala che conduceva al
piano superiore, troneggiasse la grande riproduzione di un’incisione
raffigurante un primate – la notevole grossolanità della mano dell’artista che aveva prodotto un’opera tanto ignobile non permetteva di
capire se l’animale rappresentato fosse un orango, un babbuino o
finanche un essere umano dai connotati particolarmente deformi ed
animaleschi –, recante sul capo una corona, assiso su di un alto trono
scolpito e con in pugno un enorme scettro; tale grottesca figura era
sormontata dall’eloquente didascalia «Il Re d’Inghilterra».1 Fu solo
grazie alla straordinaria prontezza di riflessi dell’oste, il corpulento e
baffuto Ben Oyster, che quando Sir Edmund Andros fece irruzione
nella Taverna per scampare ad un tremendo nubifragio durante un
1.
Questo piccolo aneddoto costituisce una chiara dimostrazione del fatto che,
in quegli ambienti che hanno visto la civiltà svilupparsi in tempi relativamente
recenti, anche il senso dello humour – così come lo stile di vita – risulta immancabilmente più primitivo e grossolano, quasi che le difficili condizioni cui è sottoposto il fisico vadano purtroppo a minare inesorabilmente anche alcune delle più
indispensabili facoltà intellettive.
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Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
cupo pomeriggio di metà ottobre, nel dirigersi verso la sua stanza al
primo piano il Governatore della Nuova Inghilterra vide affissi alla
parete di legno solo quattro piccoli triangoli di carta, fissati ciascuno
con un chiodo e malamente strappati lungo il lato più lungo.
Il viandante prese in mano la grande maniglia in ferro battuto e la
tirò con forza verso di sé, facendo ruotare la massiccia porta su cardini mal oliati. Entrò lentamente, richiuse piano il battente alle proprie spalle e fece qualche passo verso il centro dell’ampia sala. Ebbe
bisogno di alcuni istanti per abituare la vista alla fitta penombra che
regnava nel locale. Chiuse gli occhi, poi li riaprì e si guardò attorno.
Si trovava in un vasto ambiente che occupava gran parte del piano
terra dell’edificio, ingombro per quasi tutta la sua ampiezza di lunghi tavolacci e panche di legno. In fondo alla sala faceva bella mostra
di sé un bancone bellamente scolpito: il viandante lo notò subito,
poiché a chiunque sarebbe risultato alquanto singolare e curioso il
contrasto tra un così raffinato pezzo d’arredamento e il triste squallore della sala in cui si trovava. Ai due lati del bel bancone il viandante
notò due strette porte: una era aperta e mostrava un’oscurità ancora
più densa di quella della vasta stanza principale; l’altra era chiusa. Il
soffitto era basso e opprimente – una consuetudine, negli edifici di
quell’epoca – e da esso scendevano, in corrispondenza dei quattro
angoli della sala e pressappoco al centro di essa, cinque catene in
ferro battuto agganciate ad altrettante piccole lanterne, ad indicare
quanta poca importanza i rudi coloni riservassero all’illuminazione
degli ambienti interni.
La sala era immersa nel silenzio – solo in lontananza si udiva il
debole ronzio di una mosca. Il viandante si sfilò il nero cappuccio,
si passò una mano sui lunghi capelli ed esplorò con lo sguardo tra
le file di panche e tavoli, in cerca di un segno di vita. Non lo trovò.
– Ehi, di casa! – urlò con voce possente. Nessuna risposta.
– Di casa! – ripeté con più forza.
Un improvviso clangore di stoviglie. La porta chiusa a lato del
bancone si spalancò – i cardini cigolarono rumorosamente – e un
imponente uomo fece precipitosamente ingresso nella sala, farfugliando confusamente e riducendo i già piccoli occhi a due fessure,
47
Talenti per il futuro
nel tentativo di distinguere qualcosa attraverso la penombra. Lì per
lì il nerboruto individuo non vide nulla, ma quando si accorse della
nera figura che lo osservava dal centro della sala, stretta in un mantello color carbone, si prese – è il caso di dirlo – un grande spavento.
I suoi folti baffi fremettero, lo stomaco gli si contrasse all’interno
dell’ampio ventre, e tante piccole goccioline di sudore freddo comparvero all’istante sulla lucida superficie del suo capo calvo.
– Cosa... Cosa desiderate, egregio signore? – chiese con voce tremante, avvicinandosi rapidamente alla ben nota incisione satirica e
nascondendo dietro alla propria larga schiena la porzione di parete
su cui il compromettente documento era affisso. L’oste si deterse con
un braccio la fronte madida di sudore.
Il viandante scoppiò a ridere. – Non temete, buon uomo, – disse
avvicinandosi al bancone. – Quelle cose non mi danno certo fastidio. Sono un semplice uomo di passaggio, in cerca di un tetto
per qualche giorno. E pago in sterline –. Estrasse dalla bisaccia che
portava a tracolla un pesante sacchetto di velluto scuro e lo posò sul
bancone, facendone tintinnare sonoramente il contenuto.
Gli occhi dell’oste brillarono. L’uomo slegò con le sue grandi
mani tozze la cordicella che chiudeva il sacchetto, e tra le pieghe del
velluto comparve il seducente luccichio dell’argento.
– Molto bene, – disse l’oste, richiudendo il prezioso involucro e
restituendolo al viandante. Osservò con interesse quell’uomo magro
e pallido, tentando di intuirne l’identità e la provenienza. “Non sembra un brigante”, rifletté. “E nemmeno un uomo del Re. Potrebbe
essere un Francese, ma la pronuncia non è quella... Mah, lo saprà il
Diavolo chi è costui”.
– Permettetemi, buon uomo, – gli disse il viandante. – Vorrei sistemare subito i miei bagagli e riposarmi. Ho fatto un viaggio molto
faticoso, e avrei bisogno di chiudere gli occhi per qualche ora.
– Certamente, signore. È da qualche tempo che non affitto più
stanze, qui alla Taverna, dato che capita raramente che un forestiero
si faccia vivo a Eastbourne... Sapete, siamo un po’ isolati, quaggiù.
Ma per voi non c’è problema. Vado subito a prendere le chiavi della
camera migliore.
48
Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
L’oste scomparve dietro alla porta da cui era entrato e fece ritorno
dopo qualche minuto, con una grande chiave rossa di ruggine. –
Ecco qui, – disse. – La vostra stanza è subito a destra delle scale, lungo il corridoio. Forse la chiave non gira molto bene nella serratura...
se non riuscite ad aprire la porta, chiamatemi subito.
Il viandante prese in mano il pesante pezzo di ferro rugginoso e
ringraziò. Stava salendo lentamente lo stretto e buio vano delle scale,
quando la voce cavernosa dell’oste lo fece voltare. – Rivolgetevi a
me per qualsiasi necessità, signore. Mi chiamo Ben Oyster, sono il
proprietario della Taverna e... sarei onorato di avervi a cena quaggiù,
stasera.
Il viandante sorrise. – Vi ringrazio, signor Oyster. Scenderò più
tardi.
***
La chiave – nonostante fosse completamente ossidata – girò nella
serratura, e la porta si aprì. Il viandante non perse tempo a valutare
la qualità dell’alloggio: posò la propria bisaccia sulle tavole del pavimento, ne estrasse due voluminosi involti di tela grezza e depose con
cura questi ultimi sotto al letto. Poi si tolse il mantello nero, lo appese a un gancio sul muro, si adagiò sulle coperte polverose e chiuse gli
occhi. Rimase così, vestito, ad aspettare che la stanchezza lo facesse
sprofondare in un sonno ristoratore. Doveva rilassarsi e recuperare
le forze: c’era del lavoro che lo attendeva, nella pacifica Eastbourne.
***
L’oste lavava i boccali di peltro, in attesa che i primi avventori
della sera si facessero vivi, ed intanto pensava allo strano individuo
in cui si era imbattuto poche ore prima. Sorrise sotto i folti baffi castani, ricordando il terrore che lo aveva assalito in un primo
momento. Quanto sciocco era stato! Si era comportato come un
bambino. In effetti, riflettendoci, non era affatto strano che avesse
scambiato quel misterioso uomo per un funzionario della Corona, o
49
Talenti per il futuro
per qualcosa di simile: l’espressione vagamente accigliata, e l’ampio
mantello nero in cui era avvolto, avevano ampiamente contribuito
ad alimentare quella terribile suggestione. Ciò di cui Ben Oyster non
riusciva a capacitarsi era qualcos’altro: era, per la precisione, quel
brivido gelido che gli era nato tra le scapole e che poi era sceso lungo
tutta la schiena, facendogli accapponare la pelle, nel primo istante
in cui aveva intravisto l’uomo nella penombra della sala. Era una
vaga impressione – o forse unicamente un’illusione – che lo aveva
portato a credere, anche se solo per un attimo, di trovarsi di fronte
al Diavolo in persona.
50
Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
IV.
Furono le voci provenienti dalla sala della Taverna a svegliarlo.
Quando aprì gli occhi la stanza era immersa nell’oscurità, e la fresca
brezza della sera vi entrava in brevi folate dalla finestra aperta; dalla
strada giungevano rauchi richiami di marinai. Il viandante sbadigliò,
scese dal basso letto e iniziò a camminare con prudenza nel buio: si
diresse verso il quadrato poco luminoso della finestra e vi si affacciò
brevemente, inspirando l’aria salmastra del porto ed osservando il
debole chiarore del cielo terso, che diveniva sempre più tenue verso
oriente per sfumare nel nero profondo del lontano orizzonte; poi
chiuse gli scuri e si diresse a tentoni verso la porta. Trovò senza fatica
la maniglia ed aprì lentamente il battente, affacciandosi sul corridoio
silenzioso e oscuro. Il vano delle scale era fiocamente illuminato da
un debole chiarore proveniente dalla sala al piano basso, da cui giungeva ben chiaro il brusio – a tratti interrotto dallo scoppio di una
fragorosa risata collettiva – di numerose voci. Il viandante sbadigliò
di nuovo, e prese a scendere le scale.
La Taverna del Re, come in ogni venerdì sera della settimana, era
affollata da un rumoroso gruppo di pescatori. Si trattava – per la
maggior parte – di gente gioviale e semplice, temprata nel fisico dalla
fatica del lavoro e dall’abitudine a trascorrere gran parte della vita tra
le fredde acque pescose dell’Oceano. Le loro conversazioni, per le
quali era indispensabile la presenza di almeno un boccale di schiumante birra a testa, erano sempre incentrate pressoché esclusivamente su tematiche molto settoriali – pesca, imbarcazioni, merluzzi e
condizioni atmosferiche –, ma Eastbourne era un porto tranquillo e
poco frequentato, per cui sarebbe stato estremamente difficile trovare qualche altro argomento di cui discutere. Ed era proprio questo
il motivo per cui, quella sera, tutti ascoltavano con interesse Ben
Oyster mentre raccontava loro i particolari dell’insolita visita che
aveva ricevuto quel pomeriggio. Ben presto i pescatori più loquaci
avevano iniziato a fare congetture più o meno serie sulla presunta
identità del misterioso visitatore della Taverna – il giovane Thomas
Adams aveva addirittura ipotizzato che si trattasse del temibile Cot51
Talenti per il futuro
ton Mather, giunto ad Eastbourne in incognito per smascherare e
punire tutti i peccatori della città, suscitando l’ilarità generale –, ma
il silenzio era improvvisamente calato e tutti si erano voltati verso le
scale quando l’oggetto della loro animata discussione era comparso
in cima ai gradini.
Il viandante si fermò a lato del bancone, mentre una quindicina
di rubiconde facce barbute lo fissava insistentemente. “Pescatori”,
pensò, osservando con curiosità il gruppo di massicci uomini radunati attorno ad uno dei tavoli centrali, sotto la tremolante luce calda
della lampada a olio. In piedi, vicino al tavolo, c’era Ben Oyster, il
voluminoso ventre coperto da un vecchio grembiule grigio sporco, le
labbra celate dai folti baffi. Fu lui a rivolgergli la parola, rompendo
il silenzio della sala.
– Buona sera, signore. Spero che abbiate riposato sufficientemente bene.
– Non c’è male, signor Oyster, – rispose il viandante, avvicinandosi al tavolo dei pescatori. Sbadigliò rumorosamente. – Ho sentito
le voci che provenivano da quaggiù, e mi sono deciso a scendere per
dare un’occhiata. Vedo con piacere che la vostra taverna non manca
di avventori. – Si sedette in fondo al tavolo, con tutti gli occhi puntati addosso.
– Desiderate bere qualcosa, signore? – gli chiese l’oste.
– Un boccale della buona birra che bevono questi signori. Mi
fido del loro gusto. – Il viandante rivolse un’occhiata incuriosita al
silenzioso gruppo di pescatori. Ben Oyster si allontanò a grandi passi
verso il bancone.
Alcuni pescatori continuarono ad osservarlo, altri si sporsero per
sussurrare qualcosa all’orecchio del vicino. Molti si scambiarono occhiate fugaci.
Fu uno degli uomini più anziani a rivolgergli la parola. Una barba
grigia e bianca gli incorniciava la linea del mento, e l’ampia fronte
era solcata da profonde rughe. Si schiarì la gola, poi rivolse al viandante i suoi occhi sbiaditi. – Chi siete? – disse. – Cosa vi porta qui
a Eastbourne?
Il viandante abbassò lo sguardo sulla superficie opaca e cosparsa
52
Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
di graffi del tavolo. Tutti lo stavano fissando, tutti attendevano la
sua risposta. Rialzò la testa. – Il mio nome è Samuel Winterbottom,
– disse infine, rivolto all’uomo che si era fatto portavoce di tutti gli
avventori. – Sono un uomo onesto, di fede puritana, e vengo da
Lynn. Mi sto recando a nord, a Newburyport, per affari. Ma non ho
fretta di arrivarci. Mi piace fermarmi nelle città che incontro man
mano, riposarmi per qualche giorno, e scambiare qualche parola con
la gente che ci vive. È per questo che sono qui.
Le parole pronunciate dal viandante sembrarono sortire un effetto positivo: dalle facce dei pescatori scomparvero le espressioni
più apertamente diffidenti, e gli sguardi iniziarono a lasciar trapelare
solo una viva e sincera curiosità. Ma il vecchio dalla barba grigia lo
interrogò di nuovo, con fronte corrugata e sguardo indagatore.
– Il viaggio da Lynn a Newburyport non è breve. Dov’è il vostro
cavallo?
– Non viaggio a cavallo. La strada è lunga, questo è vero, ma non
ho per niente fretta di arrivare a destinazione. Sono giunto fin qui a
piedi, e rimarrò in città quanto basta per riposarmi. Poi riprenderò
il mio cammino.
Un vivace mormorio percorse la tavolata.
– Da Lynn a qui in solitudine, e senza nemmeno un cavallo! –
proruppe un uomo dalla lunga chioma bionda. – Con tutto il rispetto dovuto, signore, voi dovete essere pazzo!
– Pazzo o suicida, – intervenne un altro, puntando contro il viandante il proprio boccale. – Mi rifiuto di credere, signor Winterbottom, che voi non sappiate quali rischi corre un uomo che si addentra
in queste foreste da solo, e per giunta a piedi!
– In fede mia, egregi signori, – rispose il viandante sorridendo,
– posso assicurarvi che non mi sono esposto ad alcun rischio. Ho
percorso sentieri battuti e... certo, non posso dire di aver incontrato
molti altri viaggiatori a piedi, ma non ho mai dovuto affrontare imprevisti di alcun tipo.
– Beh, è solo questione di tempo! – disse l’uomo dalla chioma
bionda, alzando la voce. – Prima o poi sbatterà il naso contro qualche indiano assetato di sangue cristiano, e allora...
53
Talenti per il futuro
– Basta dire sciocchezze, Jake! – lo zittì il vecchio che per primo si
era rivolto al viandante. – Il forestiero non ha tutti i torti. Di questi
tempi i sentieri che attraversano i boschi non sono più pericolosi come una volta... Il problema è a trenta miglia a ovest, lontano
dalla costa. È lì che i coloni se la passano male. – Tacque, bevve un
sorso di birra e riprese. – Sono passati sedici anni dalla morte di re
Filippo,2 e gli indiani ricordano ancora bene la lezione che gli abbiamo dato. Ora non si azzardano più ad avvicinarsi troppo alla baia,
e figuriamoci se sarebbero ancora in grado di assediare una grande
città... Un tempo eravamo indifesi, ed era difficile fronteggiare un
attacco indiano ben portato: è così che quei bastardi hanno raso al
suolo Falmouth, Swansea e Springfield, e per poco non ci riuscivano anche a Plymouth. Ma i tempi sono cambiati, signori, eccome!
Boston è diventata una grande città, ed è abbastanza vicina da far
passare a quei diavoli la voglia di mettere il naso da queste parti. Lo
ripeto: quelli che se la passano davvero male non siamo noi, ma i
coloni dell’entroterra. Verso le montagne non esistono ancora città
vere e proprie, si vive in mezzo agli alberi, e le fattorie isolate sono
troppo facili da attaccare e razziare... – Il vecchio scosse piano il
capo, e si portò il boccale alle labbra.
– Hai ragione, Tom, – intervenne un altro pescatore dal volto
solcato dalle rughe, – ma dimentichi i dannati Francesi. Anche loro
non scherzano, se è vero che due anni fa hanno distrutto Falmouth
per la seconda volta. Ho sentito dire che più a nord...
Il viandante ascoltava con interesse l’acceso dibattito che era nato
tra i pescatori più loquaci, sorseggiando la birra che gli aveva portato l’oste e godendosi il piacevole tepore della sala. Quando ebbe
vuotato il boccale lo posò sul tavolo e chiuse gli occhi, assaporando
il gusto della birra che gli era rimasto sul palato: oltre la cortina
rossastra delle sue palpebre, voci sonore continuavano a discutere
2.
Fu questo l’appellativo con cui i coloni europei “battezzarono” Metacomet
(ca. 1639 – 1676), comandante militare degli indiani Wampanoag e principale
esponente dello schieramento anti-inglese nella guerra (1675 – 1676) che contrappose coloni britannici e nativi americani; tale conflitto, uno dei più cruenti del
periodo coloniale americano, è ricordato proprio con il nome di King Philip’s War.
54
Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
animatamente. Un dolce torpore si stava insinuando in lui.
– Ehi, signore!
Il viandante riaprì gli occhi, immediatamente vigile.
– Non era mia intenzione disturbarvi, signor Winterbottom –. A
parlare era ancora il vecchio dalla barba grigia. – È solo che... beh,
prima avete detto di venire da Lynn, e quindi abbiamo pensato che
dovete essere per forza passato per Salem durante il vostro viaggio...
I pescatori avevano smesso di parlare tra loro, ed osservavano il
viandante con serietà. Ben Oyster aveva lasciato il bancone e si stava
dirigendo verso il gruppo, strofinandosi le mani con uno straccio sudicio. Il vecchio si schiarì la voce e riprese a parlare, gli occhi sbiaditi
fissi in quelli del viandante.
– Beh, qui a Eastbourne siamo un po’ isolati, lo ammetto, – vi
furono brevi cenni di assenso tra i pescatori, – ma certe notizie ci
arrivano comunque. E abbiamo sentito voci che, lo dico con onestà,
sembrano uscite in tutto e per tutto dalla bocca di un pazzo –. Gli
uomini assentirono di nuovo, in silenzio. Avevano occhi solo per il
viandante. – La verità è che mi vergogno un poco di doverlo dire a
un uomo colto e istruito quale voi certamente siete, signor Winterbottom, però... beh, ecco, molti di noi hanno udito racconti di cose
strane e terribili successe a Salem: processi alle streghe, impiccagioni
e altro ancora...
Il viandante assunse un atteggiamento composto e grave, preparandosi a rispondere. Si sarebbe potuto dire che avesse atteso quel
momento per tutta la serata.
– È vero. Sono stato al Villaggio di Salem,3 prima di giungere
qui, – disse. – E ho avuto modo di assistere personalmente ai tragici
avvenimenti che vi sono recentemente accaduti.
Un silenzio quasi religioso regnava nella sala.
– Vi prego, parlate, – disse il vecchio. – Vogliamo sapere.
– Accadde di sabato. Certo, di indizi ve ne erano stati in abbondanza, nelle settimane precedenti, eppure fu solo durante quella
3.
Salem Village (l’odierna Danvers), piccolo insediamento sorto a poca distanza dalla più antica e popolosa Salem Town (oggi conosciuta semplicemente
con il toponimo “Salem”), fu il luogo in cui ebbe effettivamente inizio la caccia
alle streghe, nel febbraio del 1692.
55
Talenti per il futuro
oscura notte che le cose si rivelarono per quello che erano.
– Di sabato, avete detto?
– Esattamente. Dovete sapere che proprio nella notte di sabato le
streghe si davano segretamente appuntamento per unirsi con il loro
oscuro Signore, nei tempi bui della vecchia Europa.
Un tacito brivido percorse la tavolata.
– Fu il fuoco ad insospettire i gendarmi. Un grande falò rosseggiante che illuminava il bosco a nord del Villaggio. Cotton Mather in persona radunò un manipolo di soldati e semplici cittadini,
muniti di fiaccole ed armi, e guidò il gruppo verso il bagliore delle
fiamme. Io ero tra coloro che giunsero per primi nella radura, e fui
testimone del turpe spettacolo che vi stava avendo luogo.
– E cosa vedeste? – lo incalzò il vecchio.
– Ancora oggi reprimo a fatica il disgusto che mi assale al ricordo di quelle oscenità –. il viandante fece una pausa commossa,
poi riprese il proprio racconto. – Tutte le streghe del Villaggio di
Salem erano riunite attorno al falò: erano le donne più turpi, laide
e dissolute che avessero dimora nella cittadina o immediatamente al
di fuori di essa, individui emarginati e privi di morale, ma che solo
in quel momento si rivelarono ai nostri occhi nella loro demoniaca
natura. Erano impegnate in una sorta di danza rituale, per quanto
riuscimmo a discernere in quei concitati momenti, ma all’apparire
dei gendarmi e di noialtri semplici cittadini, armati di fiaccole e forche, interruppero immediatamente il loro rito satanico. Iniziarono a
fuggire in tutte le direzioni, dirigendosi verso i più oscuri recessi del
bosco. I gendarmi si gettarono subito al loro inseguimento: purtroppo riuscirono a catturarne soltanto una, che fu imprigionata senza
indugio nella prigione cittadina, mentre le altre si dileguarono nella
notte. Ma non fu tutto. Certo, l’orrore fu grande, durante quei terribili istanti, e ciò nondimeno un orrore di proporzioni ben maggiori
si impadronì di tutti noi, allorché ci accingemmo a perlustrare il
terreno su cui l’orrido ritrovo aveva avuto luogo
La tensione era palpabile, nell’aria densa e calda della Taverna.
– Il suolo era disseminato delle tracce di nefandezze troppo grandi per poter essere contemplate. Simboli sacri distrutti e profanati.
56
Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
Croci spezzate, Bibbie bruciate. Trovammo coppe colme di sangue
animale.
I volti dei pacifici pescatori erano deformati dal disgusto. Rochi
sussurri contrariati si levavano dalla tavolata.
– Ma fui proprio io a scoprire la traccia più orribile che quel
rituale sacrilego aveva lasciato sul suolo di quella radura. Fu una
scoperta sconvolgente, che fece vacillare tutte le più solide certezze
su cui poggia il mio spirito. Una scoperta di cui ancora oggi, sebbene
siano trascorse diverse settimane dai fatti che vi ho narrato, non ho
il coraggio di far parola con estranei.
Gli avventori della Taverna attendevano ansiosi che il forestiero
parlasse di nuovo. Con i polmoni contratti, trattenevano il respiro.
Ma il viandante tacque.
Intervenne ancora una volta il vecchio, l’unico che osasse aprir
bocca dopo il tremendo racconto.
– Cosa trovaste, signor Winterbottom?
Il viandante non si degnò di rispondere. Si passò una mano sul
volto, lentamente, coprendosi gli occhi. Respirò a fondo. Finalmente, con lo sguardo fisso sul tavolo, riprese a parlare.
– La prigioniera fu interrogata per tutto il resto della notte.
Si chiamava Bridget Bishop, ed in capo a poche ore confessò
i crimini da lei commessi. Fece un resoconto dettagliato delle
pratiche sacrileghe che da mesi eseguiva segretamente, nel cuore
del bosco, quando il Diavolo assumeva il controllo della sua anima. Quando giunse l’alba, aveva già confessato i nomi delle altre
streghe che con lei avevano partecipato al rituale della notte precedente –. Il viandante tacque ancora per un momento, e lanciò
ai pescatori che più gli erano vicini uno sguardo penetrante. – A
mezzogiorno, dinnanzi alla cittadinanza riunita, Bridget Bishop
fu impiccata. Non vi fu nemmeno bisogno di un regolare processo: la sventurata era ben conscia dei propri misfatti, ed accettò
di buon grado la sentenza comminatale. Poche ore dopo, anche
le altre streghe che avevano preso parte all’immondo convegno
furono prelevate dalle loro abitazioni e portate nella casa delle
adunanze del Villaggio, al cospetto di Jonathan Corwin e John
57
Talenti per il futuro
Hathorne,4 i magistrati locali: molte, di fronte ad accuse tanto terribili, negarono a gran voce il loro coinvolgimento e si professarono
innocenti... ma la confessione di Bridget Bishop, le cui labbra avevano pronunciato i loro stessi nomi, le inchiodarono alle tremende responsabilità di cui si erano macchiate. Al tramonto, furono anch’esse
giustiziate.
Un’altra interminabile pausa.
– In poche ore la notizia giunse fino alle città vicine. La gente comune iniziò a sospettare di persone che, sino a quel momento, non
avevano degnato neppure di uno sguardo... Fu come un morbo, un
orrido cancro messo improvvisamente a nudo: gli uomini riuscirono
finalmente a vedere la realtà con occhi nuovi. Altre donne furono
accusate di stregoneria, altri processi furono istruiti. Quando lasciai
il Villaggio per riprendere il mio cammino, nemmeno venti giorni
dopo la notte dell’orribile rito, anche Salem Città si apprestava ad
ospitare le prime esecuzioni di streghe. Da allora ho camminato a
lungo, ma la notizia dei processi nel Villaggio di Salem viaggiava più
velocemente di me... anche a The Hamlet,5 dove mi sono fermato
prima di giungere qui, la gente conosceva con esattezza i tragici fatti
di cui ero stato testimone.
I pescatori tacevano cupamente, con gli occhi bassi. Il vecchio
incalzò nuovamente il viandante.
– Cosa trovaste, signor Winterbottom?
– Come dite?
– Suvvia, parlate. Tutti, in questa dannata taverna, vogliono che
finiate il vostro racconto. Cosa trovaste nella radura, quella notte?
Il viandante sembrò riflettere per un momento. Poi, con lentezza
esasperante, riprese il proprio racconto.
– Feci la terribile scoperta al margine della radura. I gendarmi avevano spento il fuoco al centro del prato, ed ora solo il debole pallore
4.
Trisavolo del celebre scrittore Nathaniel Hawthorne, John Hathorne (1641
– 1717), magistrato e membro del Governor’s Council, fu realmente implicato nei
processi alle streghe di Salem del 1692, rendendosi responsabile di numerose condanne a morte. Fu proprio per liberarsi dal fardello dell’oscuro passato dell’avo che
Nathaniel decise di modificare il proprio cognome, aggiungendovi la lettera “w”.
5.
Antico nome di Hamilton, cittadina della contea di Essex, in Massachusetts.
58
Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
della luna rischiarava fiocamente il bosco. Mi allontanai dal luogo in
cui si era svolto il rituale satanico, addentrandomi tra i tronchi degli
alberi, nel tentativo di dimenticare, anche solo per pochi istanti, le
Bibbie profanate e gli altri atroci resti del diabolico ritrovo... l’orrore
di tali empietà mi aveva a tal punto turbato da spingermi a cercare
l’isolamento. L’odore fu la prima cosa che percepii, camminando
nel buio della notte. Aleggiava tra le piante del sottobosco, denso e
penetrante: era un odore selvatico e sporco.
La voce del viandante stava gradualmente divenendo un sussurro.
Dal fondo della tavolata molti pescatori si sporsero, nel tentativo di
udire meglio.
– Abbassai lo sguardo ai miei piedi, in cerca dell’origine di quel
fetore tanto intenso. Mi aspettavo di trovare la carcassa di qualche
animale morto, o degli escrementi, ma non vidi nulla: sotto le verdi
felci si celava solo un sottile strato di foglie secche. Eppure il lezzo
nauseabondo che impregnava l’aria era a tal punto insopportabile,
che fui costretto a fare ritorno verso la radura. Mentre dirigevo i miei
passi in direzione del prato illuminato dal plenilunio, la mia veste si
impigliò nell’intrico di un grande ramo spezzato che emergeva tra
le felci del sottobosco; mentre tentavo di liberarmi, il mio sguardo
cadde su alcuni folti ciuffi di pelo che sporgevano dalla nera corteccia della frasca. Ne presi uno in mano, pensando che un animale dei
boschi, passando di lì, avesse lasciato sulla ruvida scorza del ramo
parte del suo vello; ma non appena accostai il ciuffo di pelo alle mie
narici, il mio stomaco si contrasse improvvisamente, e caddi bocconi
in preda al ribrezzo. Quel pelame emanava lo stesso nauseante odore
che avevo percepito poco prima, tra gli alberi, ma con un’intensità
ancora maggiore: vi prego di credermi, signori, quando affermo che
fui sul punto di svenire dal disgusto.
Il viandante tacque per un istante, rabbrividendo vistosamente
al ricordo.
– Non appena mi riebbi, mi rimisi in piedi e tornai al margine
della radura. I soldati e gli altri uomini che avevano preso parte alla
spedizione nel bosco stavano ripulendo il prato dagli immondi resti
del ritrovo delle streghe... udivo i loro richiami sussurrati, vedevo le
59
Talenti per il futuro
loro fiaccole vagare nella notte. Un improvviso capogiro mi costrinse
a piegarmi al suolo – ancora una volta, avevo le narici impregnate di
quell’orrido lezzo... e fu proprio allora che le vidi. Un fascio di luce
lunare rischiarava il terreno ai miei piedi, rivelando alcune impronte
di zoccoli. Pensai che fossero le tracce dello stesso animale che aveva lasciato parte della sua maleodorante pelliccia sulla corteccia del
ramo: gettai loro un’occhiata priva di interesse... eppure quel rapido
sguardo bastò ad infondermi un angoscioso senso d’inquietudine, di
orribile apprensione: non fui capace di darmi una spiegazione per
quel sentimento, eppure sentii che vi era qualcosa di profondamente
innaturale in quelle orme.
Il viandante fece un’ultima breve pausa, prima di terminare il
racconto.
– Chiamai a gran voce Cotton Mather, e gli indicai le tracce sul
terreno. Il pastore le illuminò con la sua fiaccola, osservandole con
sguardo perplesso; poi tornò verso il centro della radura, esaminando attentamente l’erba folta attorno ai resti ancora fumanti del falò.
Infine fece ritorno da me. Mi disse che le tracce degli zoccoli provenivano dal punto in cui si era svolto il festino delle streghe, dirigendosi verso il bosco. All’inizio pensai che la bestia, catturata dalle
fattucchiere per essere sacrificata durante il rituale, fosse riuscita a
fuggire dalle loro mani e a rifugiarsi nella foresta... Ma Cotton Mather, mostrandomi le orme, mi fece comprendere l’orrenda verità: le
impronte procedevano quasi in linea retta, lontane l’una dall’altra,
seguendo un’andatura incomprensibile... Come se l’animale avesse
camminato su due piedi.
60
Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
V.
Quando il viandante uscì sotto il cielo stellato della notte, nella
grande sala della Taverna regnava ancora un silenzio sbigottito. I
pescatori erano divenuti lugubremente taciturni: sedevano al tavolo
con il capo chino, fissando ognuno il proprio boccale, oppure si appoggiavano stancamente al bancone, con lo sguardo perso nel vuoto.
Il viandante inspirò profondamente e contemplò brevemente
Dock Square: la sconnessa distesa di ciottoli levigati, le ombre scure
degli edifici tutt’attorno, il tenue biancheggiare del campanile della
chiesa nell’oscurità. Poi si diresse verso il mare, in cerca di un fresco
refolo di brezza.
Si sedette su una bitta di legno, rivolto verso oriente. Sotto di lui,
piccole onde si infrangevano placidamente sulle pietre sdrucciolose
della banchina. Un’ombra gli scivolò in silenzio accanto, si appoggiò
a un’altra bitta e rimase lì, immobile, osservando il nero oceano.
– Chi siete? – chiese il viandante.
– Un abitante di Eastbourne. Passavo per caso davanti alla Taverna del Re, e ho udito la vostra storia... Devo complimentarmi con
voi: parlate in modo eccellente.
– Vi ringrazio.
I due tacquero, ascoltando lo sciabordio delle onde. Il viandante
parlò di nuovo allo sconosciuto.
– Non ho visto persone entrare nella Taverna, mentre conversavo
con i pescatori...
– È vero, sono rimasto fuori dalla porta ad ascoltare.
– Perché non siete entrato?
Lo sconosciuto alzò le spalle. – Non amo la compagnia di quella
gente. Ma vi confesso che provo questo sentimento per tutta la città.
– Eastbourne non vi piace?
– È una città dominata dall’ipocrisia. Osservate i suoi abitanti:
gente rispettabile, puritana, fedele alla Corona. Eppure...
– Quali segreti nasconde? – Il viandante era incuriosito. Forse
quell’individuo avrebbe potuto rivelargli preziose informazioni.
– Non posso farne parola con voi, signore, – disse l’uomo scuo61
Talenti per il futuro
tendo la testa.
Il viandante scostò un lembo del proprio mantello e infilò la
mano in una tasca della giubba. Quando la estrasse, sul palmo luccicavano due ghinee. Lo sconosciuto sembrò esitare per un istante,
prima di afferrare le monete d’oro; quando riprese a parlare, tuttavia,
sembrava più a suo agio.
– Voi non potete saperlo, signore, ma Eastbourne è un covo di
peccatori. Potrete percorrere in lungo e in largo l’intera colonia, senza trovare un simile luogo di perdizione: le autorità non sono ancora
a conoscenza dei misfatti che avvengono qui, ma...
– A quali misfatti vi riferite?
– Vilipendio alla Corona! Se alloggiate alla Taverna del Re non
potete esservi accorto che...
– Sì, ho notato quella stampa, – lo interruppe bruscamente il
viandante. – Vi riferivate solamente a ciò?
– Assolutamente no! A Eastbourne avvengono quotidianamente
cose ben più compromettenti, e per giunta alla luce del sole! Guardate gli edifici alla vostra destra, – disse l’uomo, indicando alcuni
fabbricati di legno prospicienti la banchina. – Non notate nulla di
strano?
Il viandante osservò le nere sagome delle costruzioni, poi scosse il
capo in segno di dissenso.
– Hanno il tetto piatto... E sapete cosa significa?
– No, – rispose il viandante, innervosito. Iniziava a sospettare
che lo sconosciuto volesse ricevere altro denaro, prima di rivelare i
propri segreti.
– Ogni due settimane, delle navi fanno scalo in questo porto, –
spiegò l’uomo. – Provengono dai Caraibi. Scaricano decine di grandi
botti, e caricano chili e chili di merluzzi. Ovviamente nessuno sa di
questi traffici, all’infuori degli abitanti di Eastbourne.
Lo sconosciuto si guardò attorno con circospezione, poi riprese
a parlare.
– Gli schiavi degli Spagnoli vanno matti per i merluzzi essiccati.
Non mangiano praticamente altro...
– I pescatori di Eastbourne commerciano con gli Spagnoli?
62
Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
– Proprio così. Forniscono loro cibo a basso prezzo per gli schiavi... e, in cambio, gli Spagnoli scaricano barili di melassa.
– Melassa?
– Già, – disse l’uomo. – Melassa prodotta nelle piantagioni caraibiche. Quando arrivano, le botti vengono subito issate sui tetti
di quegli edifici... Ora capite perché sono piatti? La melassa viene
mescolata con acqua e lasciata fermentare al sole... e quando tornano
giù, i barili sono colmi di liquore!
Il viandante ascoltava stupito.
– Lo sapete che i cittadini di Eastbourne, in spregio alle leggi della Corona,6 riforniscono tutte le bettole clandestine del North End?7
Ecco perché sono così ricchi... Ognuno ha un ruolo nel contrabbando: chi pesca i merluzzi, chi tratta con gli Spagnoli, chi si occupa
della fermentazione della melassa, chi vende il liquore. I guadagni
vengono spartiti tra quasi tutti gli abitanti.
– E voi, – domandò il viandante, – che ruolo avete in tutto ciò?
– Io sono uno dei pochi uomini onesti, in questo luogo di peccato, assieme al buon reverendo Baxter. Noi critichiamo e disprezziamo quei malvagi traffici, eppure le nostre voci rimangono inascoltate! Persino il Vicegovernatore della città, Wakefield...
– Anche lui è coinvolto?
– Lui? No, no... quello spregevole individuo è troppo pavido, sia
per trasgredire alle leggi che per farle rispettare! È un uomo indegno
e pusillanime: si mormora persino che abbia dotato la propria casa
di una stanza segreta, così da potervisi rifugiare in caso di attacco
indiano... – Lo sconosciuto si esibì in una smorfia di disprezzo. – Il
reverendo ed io abbiamo più volte tentato di spingerlo a prendere
provvedimenti contro il contrabbando del liquore, eppure lui si è
sempre rifiutato di intervenire. Affermava di non poter agire contro
la cittadinanza! Ma in fondo non ci si può aspettare nulla da chi
protegge donne criminali...
– Cosa intendete dire? – intervenne il viandante. L’argomento
6.
Un decreto del parlamento inglese, per tutelare i distillatori britannici, vietava il commercio di liquori nelle colonie.
7.
Antico quartiere di Boston, nella parte settentrionale della città.
63
Talenti per il futuro
sembrava interessarlo più di tutto quanto ascoltato fino ad allora.
– Wakefield si professa di fede puritana... eppure non incarcera
nemmeno chi meriterebbe la morte! Ha scelto di esiliare ai margini della città tutte le donne che avevano commesso furti, e persino
quelle colpevoli di fornicazione o adulterio! Esse vivono in capanne
al limitare della foresta, impunite e felici, grazie a quell’uomo!
Il viandante si alzò in piedi, raggiante in viso. – Signore, vi sono
enormemente grato di quanto mi avete rivelato questa sera. Ora,
però, temo di dovermene andare. – Si allontanò di qualche passo
dalla banchina, poi si girò verso il suo anonimo informatore. – Sono
spiacevole di doverle comunicare, in ogni caso, che non sono un
emissario della Corona.
– Cosa? – esclamò l’uomo. – Un momento, io pensavo...
– Non preoccupatevi, buon uomo: da parte mia potete aspettarvi
solo un sincero ringraziamento. Le informazioni che mi avete così
generosamente elargito mi torneranno sicuramente utili... non temete, saprò farne buon uso.
64
Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
VI.
L’indomani, il viandante si svegliò quando ormai il sole splendeva
alto nel cielo. Si alzò dal letto, socchiudendo le palpebre di fronte
all’accecante bagliore dei raggi che illuminavano la stanza, si vestì e
scese al piano basso.
Ben Oyster lo accolse con un sorriso.
– Buon giorno, signor Winterbottom! Spero che vi siate riposato a sufficienza, stanotte! – Ridacchiò sotto i baffi, facendo tremare
l’ampio ventre. – Ieri sera li avete proprio spaventati, signore! Non
c’è che dire! Un’intera brigata di intrepidi pescatori messa a tacere da
una storia di streghe e diavoli... – L’oste proruppe in una fragorosa
risata. – Certo che avete talento, nel raccontare storie...
– Già, – rispose il viandante, serio in volto. – Specialmente quando non sono di mia invenzione.
Ben Oyster tacque.
***
Il viandante aveva trascorso l’intera mattinata e gran parte del pomeriggio nei boschi attorno a Eastbourne. Tornò in città sul far della
sera, avvolto nel suo ampio mantello nero, percorrendo lentamente
una deserta Prince Street in direzione della piazza principale. I suoi
occhi guizzavano in ogni direzione, irrequieti, senza posa.
Si fermò all’imbocco di un angusto vicolo laterale, osservando due
ragazzini che giocavano schiamazzando nel fango. Rimase a guardarli per qualche minuto, poi li chiamò a sé con un fischio. I due
interruppero il loro gioco e gli si avvicinarono con circospezione,
fissandolo sospettosamente.
– Salve, ragazzi. Come va? – disse loro il viandante, ammiccando
furbescamente. – Vi va di guadagnare un bel po’ di soldi?
I ragazzini continuavano a fissarlo. – Di che si tratta? – chiese uno
dei due.
– Di una specie di caccia al tesoro, – rispose il viandante in un
sussurro.
65
Talenti per il futuro
– Una caccia al tesoro? – esclamarono all’unisono i ragazzini.
– Più o meno. Ma ho bisogno del vostro aiuto.
– Ah! – proruppe il ragazzo che per primo aveva parlato al viandante. – E tu, in cambio, cosa ci offri?
– Siete furbi, voi due. – Il viandante frugò in una tasca della propria veste, e ne trasse due scellini. – Questi sono per voi. Ma naturalmente si tratta solamente un anticipo. Potrete averne molti altri...
se solo farete due cose per me.
I ragazzi rigiravano l’argento rilucente nei piccoli palmi incrostati
di fango, ipnotizzati.
– Il vostro primo compito, – proseguì il viandante, – è mantenere
il segreto su tutto quanto vi dirò. Non dovete rivelare a nessuno che
vi ho dato quei soldi, né che ho preso accordi con voi. Intesi?
I due annuirono.
– Il secondo incarico che vi affido è il più importante. Questa
notte, dopo che i vostri genitori saranno andati a dormire, dovrete
recarvi di nascosto in Dock Square. Se troverete la Taverna del Re
ancora aperta, rimarrete ad aspettare nei dintorni, badando a non
farvi vedere. Avete capito?
I ragazzi annuirono ancora.
– Bene. Quando sentirete il richiamo di un gabbiano, avvicinatevi
al portone della Taverna: io sarò lì ad aspettarvi. Vi darò altri tre scellini a testa e, in cambio, voi dovrete seguire le istruzioni che vi darò.
Avrete un po’ di lavoro da fare, tra stanotte e domani mattina, ma vi
garantisco che ci sarà da divertirsi. Allora, siamo d’accordo?
***
Il sole era ormai tramontato e la calma regnava sovrana, nella piazza principale di Eastbourne. Ben Oyster era da poco uscito dalla Taverna a scuotere con vigore le briciole da una larga tovaglia lacera e,
in capo a pochi minuti, era ricomparso per accostare i battenti della
porta d’ingresso. Ora solamente dolci suoni sommessi riempivano la
calda aria della notte: il debole sciabordio dei flutti sulle banchine,
il lento cigolare dell’insegna della Taverna, un garrito di gabbiano, il
66
Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
lontano canto delle cicale.
La piazza era immersa in un sonno profondo; non un solo segno
di vita, nel cuore della città.
Eppure...
Se qualcuno si fosse affacciato su Dock Square dalla finestra della
propria casa, in quel preciso istante della notte, avrebbe forse potuto
scorgere due piccole ombre veloci attraversare il largo ed accostarsi
al portone della Taverna; avrebbe visto, quasi nello stesso istante, il
portone schiudersi ed una terza ombra fare capolino dalla soglia, recando in mano due voluminosi involti di tela; avrebbe anche potuto
osservare quest’ultima ombra confabulare a lungo con le due ombre
più piccole, prima di consegnare gli involti nelle loro mani; infine
avrebbe potuto seguire le due piccole ombre allontanarsi lungo Prince Street, e la terza scomparire in silenzio all’interno della Taverna
richiudendo il portone dietro di sé.
Ma tutti dormivano, in quella calda notte d’estate, e non un solo
volto si affacciò alla finestra.
67
Talenti per il futuro
VII.
Le campane suonavano festosamente, nell’aria limpida della domenica mattina. L’onesta cittadinanza di Eastbourne sedeva su panche di legno scuro sotto la bassa navata della chiesa puritana, ascoltando con viva partecipazione la fervida omelia del reverendo Baxter
– incentrata, come sempre, sull’importanza di redimersi dai propri
peccati e di redimere quelli altrui – ed ammirando con sguardo fiero
la bellezza delle ampie vetrate policrome che illuminavano l’interno
dell’edificio, recentemente importate dalla Spagna.
Il viandante, avvolto nel suo mantello, assisteva alla messa in posizione defilata, in piedi di fianco all’ampia arcata d’ingresso. Osservava con sguardo annoiato il reverendo Baxter, che urlava con
foga le parole del proprio discorso in faccia ai fedeli delle prime file;
contemplava la svettante bianca mole della parrucca che ornava il
calvo capo del Vicegovernatore cittadino Wakefield, assiso con postura eretta e mento alzato su di un apposito scranno intarsiato ai
piedi dell’altare; adocchiava gli sbadigli dei popolani seduti nelle
ultime file, gli unici a proprio agio nel palesare il proprio stato di
intorpidimento mattutino. E fu il primo a lanciare un’esclamazione
di viva sorpresa, allorché due ragazzini ansanti fecero irruzione correndo all’interno della chiesa.
Il reverendo Baxter interruppe la propria omelia nel bel mezzo di
una feroce invettiva contro i peccatori, facendo piombare la sala nel
silenzio più assoluto, e tutti i fedeli si voltarono verso i due piccoli
disturbatori lanciando loro sguardi di aperto biasimo.
Uno dei ragazzi parlò con voce incerta, affermando di aver visto
strane cose nei boschi fuori città, e ciò bastò al reverendo per chiedergli stentoreamente, dall’alto del suo altare: – Per amor del cielo,
figliolo, cosa hai visto di tanto importante da spingerti ad entrare
nella casa di Dio, interrompendo la sacra messa?
– Le streghe, – rispose il ragazzo con un filo di voce.
Scoppiò il caos. Il reverendo Baxter scese precipitosamente dall’ara, mentre i fedeli balzavano in piedi ed accerchiavano i due ragazzini; Simon Wakefield tentava, dal canto suo, di mantenere il proprio
68
Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
riserbo di uomo di comando, richiamando invano i concittadini alla
calma. Il viandante osservava impassibile il tutto.
Baxter sembrava aver assunto il controllo della situazione. – Silenzio! – gridò. – Chiamate le guardie! E voi, ragazzi, conducetele sul
luogo in cui avete visto le streghe!
I soldati impettiti, schierati ai lati dell’ingresso della chiesa, trovarono così un’occasione per rendersi utili. Alcuni di loro corsero alla
stalla della caserma e vi fecero poco dopo ritorno, in sella ai cavalli
d’ordinanza; altri si occuparono di contenere l’impeto della folla,
impedendo ai fedeli di uscire dalla porta della chiesa e reprimendo i
tentativi di evasione con calci e schiaffi sapientemente menati. Due
guardie a cavallo prelevarono i ragazzini e li issarono in sella, per
poi partire al galoppo in direzione della foresta; alla popolazione fu
finalmente concesso di uscire alla luce del sole, e subito si formò un
manipolo di uomini che, capeggiato dal reverendo, dal Vicegovernatore e dai soldati a piedi, si mosse senza indugio seguendo la nube di
polvere sollevata dai cavalli.
***
Il drappello si fermò in una radura, e subito le guardie si sparpagliarono in varie direzioni, allontanandosi tra gli alberi alla ricerca
dei soldati a cavallo. Gli uomini si sdraiarono sull’erba, stanchi e
sudati per la camminata sostenuta. Il reverendo Baxter era l’unico a
non sembrare minimamente affaticato, e non colse certo l’occasione
per tacere.
– Spero per voi, Wakefield, – disse rivolgendosi al Vicegovernatore, – che si tratti solo della bravata di due ragazzini... Perché tutti
sappiamo chi abita in questi boschi, e se in questa faccenda di streghe fossero coinvolte le persone a cui sto pensando...
– Non dite sciocchezze, reverendo! – esclamò Wakefield, togliendosi la parrucca e detergendosi la lucida fronte madida di sudore con
un lembo della manica. – Quelle povere donne non c’entrano nulla,
e sono pronto a giurarlo! Se soltanto la smetteste di manifestare il
vostro aperto ed ingiustificato odio nei confronti di quelle creature
69
Talenti per il futuro
povere e sfortunate, che senza la mia protezione andrebbero incontro ad una miserevole fine...
– Il mio odio è giusto e legittimo! Siete voi che andate contro i
dettami della religione! Come se adulterio e fornicazione non fossero
crimini punibili con la morte!
La lite tra i due sarebbe presto degenerata in aperto scontro, se
l’improvviso sopraggiungere delle guardie nella radura non vi avesse
immediatamente posto termine.
I soldati a cavallo procedevano a passo d’uomo, scortati dagli altri
militi e dai due ragazzini a piedi, e recavano con sé cinque donne,
incatenate con le mani dietro ai polsi. Giunsero al centro della radura, in silenzio, e lì si fermarono. Il reverendo, il Vicegovernatore e gli
altri civili assistevano in piedi alla scena, con il fiato sospeso.
Un soldato scese da cavallo, pallido in viso. – Signore, – disse inchinandosi di fronte a Wakefield, – abbiamo alcune cose da riverirvi.
– Parlate! – disse il Vicegovernatore, con voce tremante.
– I due ragazzi ci hanno confessato di aver visto le streghe ieri
sera, nella foresta, mentre compivano strani rituali. Hanno detto che
si trattava di cinque donne. Abbiamo accompagnato i due ragazzi sul
luogo in cui affermavano di aver assistito ai riti: si tratta di una zona
poco frequentata della foresta, lontana dai campi coltivati e molto
vicina alle abitazioni di queste criminali.
Il labbro superiore di Wakefield tremò. – Come ti permetti, soldato? Quelle donne non sono affatto delle criminali, e voi non avete
il diritto di trascinarle in catene! Liberatele immediatamente!
– Tacete, e lasciate che quest’uomo dica ciò che ha da dire! – gridò il reverendo Baxter.
Il Vicegovernatore sembrò per un attimo voler rispondere a tono,
ma infine tacque.
– I fatti erano troppo sospetti perché non indagassimo, – proseguì il soldato. – Abbiamo fatto visita alle donne, una per una, con
l’intento di prelevarle per un interrogatorio. E tutto si sarebbe risolto
in un nulla di fatto, se non fosse stato per l’aiuto provvidenziale dei
ragazzi. Sono stati proprio loro a scoprire le prove della colpevolezza
di queste streghe!
70
Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
– Quali prove? Di cosa diavolo state parlando? – chiese il Vicegovernatore.
Il soldato fece un breve cenno ad altre due guardie, che avanzarono di qualche passo. Portavano in grembo una gran quantità di
oggetti, che riversarono a terra.
L’erba ai piedi di Wakefield fu coperta da Bibbie bruciate e strappate, croci di legno spezzate in più parti, ciotole incrostate di sangue
rappreso. Alcuni uomini, alla vista di tutto ciò, impallidirono improvvisamente: si trattava dei medesimi pescatori che, due giorni prima,
avevano ascoltato il racconto del viandante alla Taverna del Re.
– I ragazzi hanno scoperto quest’immondizia nei pressi delle capanne delle fattucchiere, nascosta tra l’erba alta e sotto le radici degli alberi. Nelle vicinanze abbiamo trovato anche grandi quantità di
questa strana peluria nera, – disse il soldato, mostrando un grosso
ciuffo di lanugine estratto dalla cintura.
– Il Diavolo! – proruppe il reverendo Baxter. – Sono tracce del
Diavolo! Non c’è alcun dubbio! Queste donne, oltre ad essere delle
criminali, sono anche delle streghe! Dovete giustiziarle!
– Fandonie! – rispose Wakefield. – Non c’è alcuna prova! Questi
oggetti potrebbero essere stati nascosti lì da chiunque!
– Aiutateci voi, signor Vicegovernatore! – gemette una delle donne legate. – Sapete che siamo tutte innocenti! Non abbiamo fatto
nulla di male!
– Silenzio!
Il viandante avanzò tra la folla. Nessuno sembrava essersi accorto
di lui, fino a quel momento; eppure era sempre stato presente, ed
aveva osservato in silenzio ogni cosa.
– È giunto il momento che tutti voi sappiate, – disse. – Sono un
forestiero e non soggiorno da molto tempo in città, ma ho avuto
modo di vedere e comprendere molte cose... Eastbourne è in preda
alla corruzione! – Gettò uno sguardo d’accusa ai presenti. – Ho visto
cose del genere accadere in molti luoghi: la debolezza dell’animo
umano ci spinge a ricercare il guadagno, ad assecondare i nostri più
turpi desideri. La brama di ricchezze ci induce a dimenticare i comandamenti di Dio, e ad intraprendere la via del peccato! Voi tutti
71
Talenti per il futuro
ne siete consapevoli... avete ignorato le parole del Signore, abbandonandovi all’avidità per mezzo di traffici illeciti ed esecrabili!
Tutti gli astanti, con l’esclusione del reverendo Baxter, abbassarono il capo con imbarazzo. Simon Wakefield era rosso dalla vergogna.
– Ma ciò non vi è bastato... vi siete spinti ancora oltre! Siete giunti a tollerare che delle criminali, macchiate dalla colpa di peccati impronunciabili, vivessero in libertà nei pressi delle vostre abitazioni, a
contatto con i vostri figli!
Il silenzio era sceso nella radura. Nessuno osava interrompere il
discorso del viandante.
– Dio non tollera tutto ciò. Egli vede e provvede, castigando i
peccatori nel modo più orribile. È così che ha permesso che queste
sventurate cadessero nelle grinfie del Demonio, perdendo la ragione
e dedicandosi a tali turpitudini, – disse il viandante, indicando gli
oggetti sparsi sull’erba. – Che ciò funga da monito per tutti voi! Non
si insulta l’Onnipotente senza ricevere un adeguato castigo... Non
dimenticate che tutti noi, in questi luoghi selvaggi e lontani dalla
civiltà, operiamo sotto la Sua benevola protezione! Fu lo stesso Cotton Mather a ripetermi più volte che siamo gente di Dio stabilita in
territori già appartenuti al Diavolo: è il nostro Signore a proteggerci
nella sacra opera di evangelizzazione, e ad abbandonarci qualora noi
decidiamo di ignorare il Suo potere!
Il viandante tacque per un attimo.
– Non ho altro da dirvi, se non questo: seguite le indicazioni del
reverendo Baxter! È Dio stesso, attraverso la bocca di quest’uomo, a
rivolgersi a voi!
Il reverendo non attendeva altro. Iniziò ad urlare a voce alta: – A
morte le streghe! Liberiamoci dai loro peccati! A morte! A morte!
Lentamente, anche la folla iniziò a gridare. In breve una moltitudine di voci si alzò al cielo, intonando un terribile inno purificatore:
– A morte! A morte! A morte!
Le cinque donne singhiozzavano in silenzio, e Simon Wakefield
con loro.
72
Marco Buso - Le streghe di Eastbourne
VIII.
Il viandante lasciò Eastbourne all’alba del giorno dopo. Uscì dal
portone della Taverna e rimase lì, immobile, osservando alcuni carpentieri che innalzavano con fatica una pesante forca sul patibolo
eretto al centro di Dock Square. Due erano già pronte, ed altre due
ne mancavano.
Il viandante sorrise. Il suo compito era terminato, nella pacifica
Eastbourne. Ora poteva riprendere il proprio viaggio verso nord.
Si fermò ancora per qualche istante a contemplare il sorgere del
sole sul piatto orizzonte dell’oceano. Poi, con il suo passo lento e
cadenzato, prese a camminare lungo Prince Street.
Nota
Questo racconto non ha la benché minima pretesa di essere storicamente valido, né tantomeno verosimile. Alcuni dei personaggi da me inseriti nella narrazione – Edmund Andros, Cotton Mather, Bridget Bishop, Jonathan Corwin e John
Hathorne – sono realmente esistiti; tutto il resto, compresa la città di Eastbourne,
è opera della mia fantasia.
Mi preme solo far notare che i tragici fatti occorsi nel periodo compreso tra
aprile e novembre del 1692 in numerose città del Massachusetts, ben noti con
la definizione di caccia alle streghe – definizione divenuta, con il tempo, proverbiale –, causarono la morte di donne e uomini innocenti; tali esecrabili fatti, ben
prima di giungere ad avere i connotati di una psicosi collettiva, videro con ogni
probabilità la propria origine in dispute ed antipatie tra coloni, oltre che nel comportamento irresponsabile e malvagio di alcuni individui. È stato appurato che le
tante paure e superstizioni dell’epoca furono abilmente sfruttate da certuni per
convogliare l’odio della comunità contro individui considerati “scomodi”.
Fu così che venne attuata una sistematica opera di epurazione e di “purificazione” della società: purtroppo, quando tale opera ebbe finalmente fine, venti
innocenti avevano perso la vita.
73
Elia Russo
Scene tagliate
Elia Russo è nato l’8 Marzo 1996 a Treviso. Sin da quando era in fasce,
mamma e papà si alternavano nel leggergli o raccontargli fiabe e favole.
Gli piace molto inventare storie, o inserire personaggi da lui immaginati
nei libri che legge; questa passione è ed è stata molto incoraggiata da alcuni
suoi insegnanti. L’interesse per la mitologia si deve però in particolare al maestro di matematica della scuola elementare che un po’ spiegava, un po’ raccontava di Achille ed Ulisse.
Non ha particolari hobby, ma l’abitare in una casa con un giardino gli
permette di lavorare il legno e costruire le armi utilizzate dagli antichi eroi.
La materia scolastica in cui riesce meglio e che preferisce è l’italiano, ma
nutre interesse anche per la storia e le scienze naturali. Non sa cosa il futuro
abbia in serbo per lui, comunque ama immaginarsi scrittore, in giro per il
mondo...
Dall’Iliade
Achille ha appena ucciso Ettore, principe dei Teucri, per vendicare la
morte di Patroclo e ne ha scempiato il cadavere attaccandolo alla biga e
compiendo tre giri intorno alle mura di Troia. Priamo, re di Ilio, commosso
alla vista dell’eroica spoglia del figlio, decide di andare dal re dei Mirmidoni
ad implorarne la restituzione.
Nell’Iliade Achille riceve il vecchio re e accoglie la sua richiesta. Ma se
il personaggio fosse stato coerente con se stesso, se si fosse comportato con la
stessa sanguinaria furia che lo accompagnava sul campo di battaglia, cosa
sarebbe successo?
Ma, come fulmine di Zeus potente, il suo sguardo volse
all’antica testa.
“No vecchio!”
rabbiosa la voce del Pelìde parlò profonda.
“Non mi pregare, né pei ginocchi, né per il padre, né per tutti i
Numi dell’Olimpo glorioso.
La tua tremula voce stancò, enumerando tutti i figli che il bronzo
nemico t’uccise spietato, il mio udito.
Voi che per primi il sacro vincolo dell’ospitalità stroncaste,
77
Talenti per il futuro
voi che per primi giovani vite nell’Ade mandaste,
più pietà di un cane rabbioso non meritate di mendicare.
Esci ora da codesta tenda ché già troppo ivi rimanesti,
vattene!
Corri più veloce di Ermete dagli alati piedi, se vuoi che non lascino i miei servi sulla tua schiena dei loro bastoni il ricordo”.
Così rispose Achille piè veloce, con un calcio scostandosi dal
misero re, ora nella grigia polvere giacente.
“Se tu sei re”,
urlò il teucro Priamo con voce dal pianto velata,
“se tu sei re, la tua pietà è pari solo all’acuta lancia di Ares
sanguinario;
ah, gloriati, perché di un guerriero migliore di te hai le spoglie,
finché il Fato lo permette;
anche al figlio di Pelèo un giorno l’Acheronte spetterà di varcare,
e bada che tremenda fama lo precede e troppo poco onore adorna
l’alma sua perché, avanti Ade, dei Campi Elisi venga giudicata
degna”.
Tremò di sdegno l’eroe acheo;
il bronzo, che avido già aveva bevuto al collo del figlio, spezzò della vita
del padre il debole filo tra le sagge mani delle Moire che tutto sanno,
e la canuta testa di Priamo, re di Ilio, come macabro nunzio su di una
picca scura venne innalzata dal Pelìde,
sì che il teucro sangue in acqua mutasse, e di donne teucre l’amara terra
fiumi di lacrime suggesse.
78
Dall’Odissea
Nel II canto dell’Odissea gli dei si riuniscono a consiglio per decretare la sorte
di Ulisse, vagherà ancora per lungo tempo lontano dalla sua amata e petrosa
Itaca? Potrà rivedere il padre, la moglie, il figlio? Queste sono le domande che la
dea Atena rivolge a suo padre Zeus commuovendolo per la sorte dell’eroe acheo.
Zeus decide di liberare Ulisse dall’isola di Ogigia dove era tenuto prigioniero
per amore della ninfa Calipso. Questa decisione viene presa in assenza del dio
del mare Poseidone, fratello di Zeus, poiché lui detestava l’eroe Acheo da quando
suo figlio, il ciclope Polifemo, era stato accecato per mano del Laertide.
Il nume marino, quando Zeus mandò Ermes a liberare Ulisse, si trovava
presso gli etiopi, ad assistere a un’ecatombe di tori in suo onore. Ma se fosse stato
presente? Come avrebbe reagito alla decisione del fratello?
Ma, tremò dell’ira del marino nume la bruna pelle della madre Gea
per tre volte la terra si agitò violenta, come sotto i ferri di un malvagio
carnefice,
per tre volte come destrieri imbizzarriti si innalzarono, i nembi scuri
toccando, le onde dalle bianche schiume,
per tre volte esili voci mortali al cupo cielo ruggente, preghiere rivolsero
imploranti.
Il tridente vigorosamente scuotendo, nella sala di Zeus Olimpio, l’iracondo Poseidone apparve con fragore di tuono, da flutti di tempesta e violenti
soffi di gelido vento accompagnato.
79
Talenti per il futuro
“Dell’uomo traditore che al figlio mio negò di veder l’aurora la
libertà bramate.
Dell’ingannatore infido e astuto come il serpente volete la salvezza.
Alla volontà vostra pensate costringermi, l’onore mio, che alla
vendetta s’impegnò, malignamente macchiando.
No fratello! Anche degli etiopi lontani e bruciati dal sole ho abbandonato il banchetto, e cento, mille, diecimila volte lo rifarei
pur di non veder del Laertide che il sangue del mio sangue accecò,
la fine dell’esilio.
Il mio orecchio accolse di Polifemo gemiti, grida e preghiere, preghiere che, per il mare profondo di cui sono nume, esaudirò, pure
se le mie decisioni la tua saggia figlia disturbano.”
Così parlò Poseidone, che scuote la terra, al consiglio degli dei, e così Atena dalle bianche braccia rispose al furibondo.
“Poseidone, figlio di Crono, fratello del mio genitore, quanto ancora questa inutile ed insensata persecuzione, indegna di un così
saggio nume, si protrarrà nel tempo?
Già sono dieci gli anni che la sventura accompagna pel mare il
prode Odisseo,
dov’è finito l’ardore con cui difendevi a Troia i soldati achei dal
bronzo nemico?
Dove sono finiti i sacrifici e il coraggio che l’astuto ci dedicò in
guerra?
No, fratelli, no padre e divini parenti, no Poseidone, il figlio di
Laerte da parte tua tale barbaro comportamento non merita.
Dei alzatevi e parlate, svelate ciò che nel profondo del cuore vostro
si cela,
Odisseo ramingo lontano vaga dalla sua petrosa Itaca,
per un’ingiusta giustizia le sue forti braccia ancora non hanno cinto i fianchi della sua moglie leggiadra,
né le sue mani callose da marinaio hanno esplorato i cambiamenti
sul volto del figlio Telemaco, che aveva lasciato infante ed ora è
uomo,
80
Elia Russo - Scene tagliate
né la sua bruna schiena ha aiutato il vecchio padre nel lavoro nei
campi.
Da troppo tempo il leone manca dalla sua tana, e iene e sciacalli
vogliono usurpargli il regale posto.
Odisseo deve tornare a baciare la sua aspra ma a lungo da lui sognata terra”.
Per prima parlò, con voce ferma nell’antica sala, Era dagli occhi bovini
sposa e sorella di Zeus, adunatore di nembi.
“Mi è indifferente che il Laertide faccia o meno ritorno alla sua
patria, troppo poco conosco le sue gesta ed il suo coraggio in battaglia, ma delle donne sposate io sono la protettrice, e la fedeltà di
Penelope con l’avverarsi dei suoi desideri va premiata,
Odisseo deve tornare, il Fato lo vuole, io lo voglio”.
Queste parole rivolse Era all’iracondo fratello, che ancor più nel possente
pugno aveva stretto rabbioso il tridente.
Si alzò allora Demetra che disse saggia
“Più volte Odisseo col bronzo ha difeso la terra da lui amata.
Con fedeltà, senza arrendersi davanti alle asperità itacesi, ha gettato i suoi semi che hanno attecchito, ora, per la ventesima volta,
stanno germogliando senza la sua presenza.
Solo per l’attaccamento e l’amore profondo per la terra da lui coltivata,
Odisseo deve tornare, il Fato lo vuole, io lo voglio”.
Con voce pari al sussurro affranto con cui un’ anima lascia la terra, intervenne Ade il canuto, che, silente, aveva assistito al furibondo litigio tra
i suoi fratelli.
“Oh, ne ho di morti nel mio cupo e tristo regno per il suo acuto
bronzo bevitore di sangue,
molti di essi ne implorano la rovina, ma il numero di coloro che al
81
Talenti per il futuro
tartaro o nei Campi Elisi amano e stimano il figlio di Laerte e ne
chiedono il ritorno in patria, soverchia anche
quello di coloro che lo detestano, ciò altro non può che farmi
ammirare un eroe di tal fatta,
Odisseo deve tornare, il Fato lo vuole, io lo voglio”.
Ecco che lo zoppo Efesto decise, dopo le parole del divino Ade, di intervenire anche lui, con schiette ma gentili frasi, a favore dell’eroe acheo.
“Le abilità guerriere di un uomo non è nel mio interesse attentamente considerare,
di quello già il mio spietato fratello e la mia saggia sorella si occupano, ma la morte di un condottiero così ingegnoso non posso permetterla, lo scaltro una fine del genere minimamente non merita,
Odisseo deve tornare, il Fato lo vuole, io lo voglio”.
Ancor dovevasi estinguere l’eco della calda e profonda voce di Efesto dalle
abili mani, che già i due lucenti gemelli figli di Latona al giudizio prendevano parte, innalzando nell’aria le loro musicali parole.
“Odisseo non ha eguali fra i mortali arcieri, nemmeno noi due
numi sapremmo dire se sono più letali le sue puntute frecce o la
sua lingua ricca d’astuzie o ancora la sua mente dall’intelligenza
profonda.
Le nostre feste, i suoi obblighi presso i nostri templi, ha sempre
onorato, lui ha ricondotto Criseide fra le braccia di Crise, non
abbiamo motivo alcuno di voler male ad un uomo e un guerriero
così formidabile,
Odisseo deve tornare, il Fato lo vuole, noi lo vogliamo”.
A infranger la poesia che nel conciliabolo si era creata, giunse una voce
secca e roca che solo di guerra e morte portava il ricordo.
“Io Ares, che nel mezzo della battaglia infurio sanguinario, mai
ho giudicato il Laertide essermi inferiore per coraggio o strategia,
82
Elia Russo - Scene tagliate
mai permetterò che un uomo simile non possa ciò che più gli
aggrada,
Odisseo deve tornare, il Fato lo vuole, io lo voglio”.
Splendida e come un fiore delicata, la sua amante non pronunciò un
differente responso.
“L’amore che Calipso per Odisseo nutre profondo è grande, ma
ancor più grande è quello che Odisseo prova per la patria e la moglie Penelope, io ciò veramente non posso ignorare,
Odisseo deve tornare, il Fato lo vuole, io lo voglio”.
I numi gloriosi, seduti sugli scranni dell’alto Olimpo, da quella soave voce
riscaldati, un’altra, ben più fredda e acuta dovettero ascoltare.
Eolo parlò.
“Mai tentai di Odisseo il ritorno ostacolare, furono i suoi compagni sciagurati ad attirare sui loro capi la sventura di dover vedere
la loro nave trasportata in mari lontani da un vento iracondo, ma
molte volte di aiutare il figlio di Laerte mi posi l’onere, continuerò
a farlo,
Odisseo deve tornare, il Fato lo vuole, io lo voglio”.
Altre parole, non così gelide, ma ugualmente rapide e fugaci, s’involarono
nell’ampia sala.
“Dei ladri e dei vagabondi sono il signore, come potrei, io, Ermes
dagli alati piedi, un uomo di cotal ingegno non proteggere?
Come potrei non garantire ad un ramingo viaggiatore un felice
ritorno a casa?
Odisseo deve tornare, il Fato lo vuole, io lo voglio”.
“Non mi ha mai insultato il Laertide, ha sempre celebrato il mio
nome con ecatombi di buoi, è un uomo retto e giusto, di molti
altri migliore,
83
Talenti per il futuro
Odisseo deve tornare, il Fato lo vuole, io, Dioniso, lo voglio”.
Tutti i numi gloriosi d’un sol colpo in trepidante attesa tacquero.
Zeus adunatore di nembi, lento e pacato dal suo scranno d’oro e argento,
in tutta la sua imponente statura si erse maestoso, la sua voce di rombo di
tuono per tutta la terra risuonò potente.
“Cessi dunque la tua persecuzione, fratello mio, nei confronti di
Odisseo Laertide, troppo a lungo durò la sua assenza dal trono,
che vi faccia ritorno, che il figlio e la moglie a lungo sognati rincontri,
Ermes, che celere il vento da Calipso ti porti, recale il nostro messaggio ed i nostri ordini,
Odisseo deve tornare, il Fato lo vuole, io lo voglio”.
Bieco guardandolo, Poseidone chinò la testa, ciò che gli altri dei avevano
deciso di malanimo accettando.
84
Skropas
Nella reggia di Itaca i proci fanno da padroni, ma, nonostante le loro smargiassate, non riescono ad ottenere l’ambita mano di Penelope.
Alcuni dei principi, soprattutto Antinoo, ignorano il volere della moglie di
Ulisse e i loro servitori, incoraggiati dal comportamento strafottente dei padroni, si permettono anch’essi di insultare una regina della quale, un tempo, non
avrebbero osato neppure sfidare lo sguardo.
Skropas è un personaggio inventato che incarna la bruttezza e la capacità
oratoria di Tersite, come pure il servilismo e l’arroganza di Ino, lo schiavo che
sfidò Ulisse per il posto di “mendicante di corte”.
La situazione è la seguente: l’inganno della tela è appena stato scoperto e
raccontato a Telemaco che aveva rimproverato Antinoo e gli altri pretendenti
al trono di sperperare irrispettosamente le ricchezze del padre e di trattare male
la madre.
Non ancora di Antinoo le violente parole nell’antica sala erano svanite
D’ira e di stupore fugace, forti pennellate il volto del principe Telemaco,
come il morente sole alle nubi dà colore, avevano pitturato.
La bocca, come d’un pigolante pulcino affamato il becco, invano si schiudeva e si chiudeva senza proferir verbo alcuno.
Altre voci però empirono quelle vuote sillabe.
Come un leone sempre è seguito da sciacalli ululanti, così principi nobili
di sola nomea da adulatori gaglioffi sono di ombra forniti.
85
Talenti per il futuro
Tale era Skropas, l’avvoltoio dal naso aquilino e dagli occhi d’uovo,
di ossa e stracci pareva fatto, ma di vini pregiati e tenere carni grandi
quantità l’empio gargarozzo colmava,
neppure una fiera la fibrosa carne vecchia dell’avvoltoio avrebbe gradito,
meno viscido del suo, il sangue di un’oliva,
meno fastidiosa la voce di un corvo che la sua,
meno veleno abitava le zanne di un serpente che la sua lingua forcuta.
Skropas parlò.
“Oh Antinoo, principe dei principi, eroe degli eroi.
Quale donna al tuo fascino non si arrenderebbe? Perché darsi per
questa tanta pena, lascia perdere!
Fanciulle bianche come spuma e i loro occhi come le nere navi
ardite, per brama di lei lasciasti,
sì che di fine sete eburnei adornando i corpi,
di profumati e costosi oli il nero e fluente crine ungendo leggiadre,
di preziosi monili splendenti come lo stesso Iperone le bianche
braccia ed i colli eleganti decorando, un tuo forte sguardo di approvazione ricolmo chiedevano supplici.
Principe dei principi, eroe degli eroi, la pazzia ha colto chi non
ti ammira, tu, che della stessa Afrodite sei figlio per passione, tu
che in ardore lo stesso Ares eguagli, tu che sei sulla terra ciò che il
divino Zeus è nell’alto cielo.
Re dei re, alle suppliche di un infame presta il tuo nobile orecchio,
io, ma chi? Chi non vorrebbe il tuo bene, oh mio re? Io voglio
solo la tua felicità, una gentile sposa al tuo fianco con tutte le mie
strenue forze bramo di ammirare.
Oh munifico, io…”
“Taci Skropas! Che uomo è chi da una sfida sfugge, chi un obiettivo abbandona, chi oserebbe gettare lo scudo nel bel mezzo di
una battaglia per correr via a morir di vergogna, no avvoltoio, no
compagni, o Penelope o nessuna!”.
86
Elia Russo - Scene tagliate
Come lupi alla luna innalzando canti, i principi con urla di belluino
apprezzamento innalzarono al cielo i loro pareri, le parole del principe
ripetendo
“O Penelope o nessuna”.
Lo sciacallo, lo scarno petto gonfiando, quel braciere si curò
ancora d’attizzare con la speranza di suscitare un incendio,
perché in questo il dono e la maledizione cupa dei mediocri
consiste, di veleno sono le loro parole e di freddo bronzo il loro cuore,
solo grandi fuochi riescono a portar in quell’oscura spelonca una perversa
gioia.
Nella moltitudine coraggioso fece udire la sua voce di gracchio.
“Oh Penelope Regina di demeriti, moglie infame, male accogli i
tuoi ospiti e male amministri i beni di uno sposo oramai oltre i
flutti scomparso.
Quante volte di noi hai sognato la morte? Quante volte questi
nobili principi col cuore colmo di speranza e colmi di leghe i loro
piedi hai rifiutato sprezzante? Ed ora l’ennesimo inganno, l’ennesimo rinvio, no, tu della casa dello sposo tuo, proprio non hai
rispetto.
Come Aracne, reti tu tessi, ma di bugie e menzogne e non di tela,
reti di congiure, ma pare che durante la notte esse di disfare tu
non tenti.
Nessuno dei miei signori tu meriti, né Antinoo il bello, né il forte
Noèmone dalla folta chioma, né tutti gli altri principi. Vergogna!
Il fior fiore di tutta la Grecia ai tuoi piedi giace, e tu lo allontani
così, come dalla zuppa allontaneresti uno scarafaggio, e intanto la
casa del tuo sposo in piccoli pezzi si disgrega”.
“Basta Skropas!Abbastanza per oggi hai parlato”
furibonda lo zittì Penelope
“Il primo dovere di una moglie è quello di essere fedele allo sposo,
87
Talenti per il futuro
come in vita così in morte.
Troppo a lungo, cane, i tuoi padroni sono qui rimasti a desinare,
di larga misura superando la cortesia che al padrone di una casa
si deve,
troppo a lungo tu e i parassiti tuoi nella cenere del focolare vi siete rotolati di ogni avanzo il ventre riempiendo e, se sognare devo
qualcuno,
di dolci ricordi sul mio sposo, Morfeo la mente mi riempie e non
del tuo orrido volto grifagno, neppur per sognare della tua morte.
Che tutti ne abbiano ricordo, loro sono i principi, ma io ancora il
posto di regina occupo”.
La sciarpa di altezzose parole avvolgendo sulla bianca sua persona, dalla
sala Penelope uscì.
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Diomede (dalla Divina Commedia)
Dante con la sua guida spirituale (il poeta Virgilio) nel XXVI canto dell’inferno incontra le anime di due eroi achei avvolti nella stessa fiamma biforcuta,
uniti in morte come lo erano stati in vita: Ulisse e Diomede.
L’astuto re di Itaca racconta a Dante e Virgilio di come la sua curiosità
lo condannò ad una morte prematura per volere divino. Superate le Colonne
d’Ercole stava per raggiungere il monte del Purgatorio, ma la sua nave venne
affondata da un enorme pezzo di roccia caduto dalla montagna.
Per tutto questo tempo Diomede tace, ma cosa sarebbe successo se Diomede
avesse preso la parola al posto di Ulisse? Conoscendo il focoso temperamento
dell’eroe acheo, che parole sarebbero giunte alle orecchie di Dante? Perché Dante
scelse Ulisse come interlocutore e di trascrivere nella Divina Commedia il suo
dialogo?
“Maestro” chiesi “chi tra quelle orride fiamme si contorce e grida?
Chi in questa valle di perdizione non pianto né lamenti, bensì tremende bestemmie e grida d’odio profondo a questo cielo di pece e
fumo innalza?”
Il sommo poeta, l’alma su cui si era perso il guardo mio presentò.
“Questi è il figlio di Tideo, il feroce Diomede, che due dei in
più del grande Licurgo sfidò, col bronzo acuto versando, il divi89
Talenti per il futuro
no icore sulla terra di Ilio e dello stesso Zeus luminoso i fulmini
schernendo.
Lo stesso fuoco che divorò la bianca città dei nostri progenitori,
l’alma sua ora arde, e gli stessi fulmini che ignorò da vivo ora da
morto lo colpiscono, com’egli stesso la dolce Venere ed Ares sanguinario colpì”.
Ma ecco che l’eroica fiamma al suono di aspre parole sprezzanti come alga
d’impetuoso fiume o di mare profondo, a crollarsi iniziava.
“Limbico, in me ancora abbastanza fiato si cela, senza di intermediari provare il bisogno”.
Ed elli a me si rivolse con invidioso disprezzo, attaccandomi.
“Vivente, il forte ulivo secolare come leggera canna alla violenta
sferza del vento non si piega.
Thanatos solo una parte di me in volo precipitò nello squallido abisso, ma l’altra ora siede tra gli dei immortali, immortale
anch’essa.
Come la biforcuta fiamma che le mie e le carni del mio astuto e
taciturno compagno Odisseo, condannato per la troppa curiosità,
rode, sono diviso.
Anche se gli artigli della morte millenni fa mi ghermirono, sono
immortale.
Il fuoco in cui gettato fui è il bruciante testimone delle gesta famose che ancora nelle orecchie di tutti fortissime ed invulnerabili
al tempo riecheggiano.
Non è così mortale?!
Non è così gloriosi e maledettissimi numi?!
Non è così, o Zeus magnifico nell’ingiustizia tua?!”
La guida mia di cupo cipiglio tra me e l’acheo, violentemente ponendosi,
inveì.
90
Elia Russo - Scene tagliate
“Basta Diomede, basta pazzo e sciagurato bestemmiatore, non il
fuoco e le fiamme, non i fulmini di Zeus adunatore di nembi, ma
la tua follia è la giusta punizione per il nero animo tuo che anche
la lucentezza di questo rogo oscura.
Cane! Racconta piuttosto a chi ha mostrato un po’ di pietà nei
confronti tuoi di come il cammino della perdizione imboccasti,
affinché future generazioni da codesto pazzo male siano preservate.”
“La mia storia in questo nero antro con parole di sangue su papiri
di umana pelle è da secoli scritta.
Quando di Zeus olimpio il fulmine mi sprofondò in un baratro
oscuro con un tal fragor da far tremare tre e ancora tre volte la
madre terra e questo mondo lontano, eppure non più distante di
un cubito per ogni malvagio, tutto ciò e molto altro successe il
giorno della morte mia.
Le stesse furie dai capelli di serpe e Ade il taciturno tremarono,
Cerbero cessò di mugghiare e i sei occhi serrò tremante nel freddo
fango, ove bianchi vermi, porci e uomini che meriterebbero d’esserlo, alle loro sporcizie e sudici icori avvinti nuotano.
Tantalo la torturante fame nell’oblio ripose, le mele un dispettoso
vento non allontanò ancora, dimentico dell’acqua stessa, non più
distante dalle protese mani, il mangiatore di figli avrebbe potuto
la mostruosa gola sciacquarsi.
Sisifo non più per un momento lo schiacciante peso della sua condanna avvertì sulle robuste spalle,
ben contento fu anzi il dannato del gravoso masso ché nascosto e
riparato come da un gigantesco scudo roccioso stava.
Ricordo, alte quel giorno le grida s’innalzavano nel cielo d’un
turchino irridente, mentre fiumi di sangue scorrevano impetuosi
sulla rena nera dal fuoco bruciata, sibilavano frecce quasi ne’ rumori soverchiando i tonfi cupi di lance assassine, i corpi mortali
brutalmente trucidando.
Il mio braccio, di spada pesante, a lungo con vigore menò
sanguinosi colpi sciogliendo dei soldati nemici i ginocchi.
91
Talenti per il futuro
Simile ad un contadino, dalla bella Cerere premiato, come steli
tranciai le nemiche lance,
scudi frantumò il bronzo violento,
armature schiantò con rombo di tuono al vento gettando perle di
rubino sanguigno ruotando e piroettando nella gagliarda mano.
Lacrime e sudore divennero mare,
di braccia, gambe e teste recise, pile alte come montagne svettarono nei cieli.
Simile a fabbro, ad Efesto sacro che stagno e rame alla calda luce
della forgia martellando violento appiattisce,
così la potente scure di cervella affamata, rabbioso menai sugli
elmi dagli alti pennacchi incrostati di fango e lerciume,
sì che l’Orco anzitempo abbattesse come boscaiolo impietoso, le
giovani speranze di ancor più giovani eroi tra polvere e corpi.
Lo scudo per il battagliero furor distrussi,
la lancia puntuta spezzai contro il bronzeo chitone del mio avversario,
i compagni miei nella mortale carica insistendo persi,
la mia lama compagna di morte nel pugno si storse, come se di
una pietra scura avesse voluto assaggiare il duro sangue,
l’ascia abbandonata giacque sull’avversario petto che, come amante, si era scelta.
Io, Diomede, il forte, il temerario, mai mi arresi, non mi arrendo
e non mi arrenderò. Mai persi una battaglia,
a chi la resa intimò, con feroci dita la gola staccai quel giorno,
i forti denti il potente sapore del sangue conobbero,
attaccai e attaccai di nuovo, come lupo, come leone, come orso
ringhiante, ché meglio del dono di Dioniso il dono di Prometeo
in gola scorre.
Mille e dieci volte mille di quel nettare mi sciacquai il labbro e le
fauci, come un’allegra ballerina dai leggiadri veli saltando e danzando ai gemiti e alle orrende grida che gli agonizzanti emettevano, scuotevo l’armatura di cuoio e oro lucente robusta.
Ah Zeus! Maledetto te e la tua stirpe di cani,
sì che molti da giovane immolai tori e montoni dal morbido
92
Elia Russo - Scene tagliate
manto,
con una lama nel mezzo di una tempesta di lame pregavo
perché il mio trapasso venisse,
una spada in pugno ed una nel cuore dall’ardore bruciato,
quale altro modo per morire è il migliore?
Non come una bestia dai dardi abbattuta!
Dio dei citaredi, di un arma da vili e conigli, come già dissi a Paride, sei il patrono, tu le mani che le fatali frecce scoccarono guidasti
alle mie giovanili preghiere insensibile, di bruciare in queste stesse
fiamme che l’alma mia hanno accolto meriteresti.
Le gesta mie comunque immortale, come già dissi, mi rendono,
nessuno può dimenticare l’opra mia, sia essa orribile o immane
agli occhi del pavido uomo.
Ha! Io vi maledico o dei per quello che mi avete fatto,
ma i vostri fulmini non son per me che carezzevoli piume,
i vostri gelidi venti le ossa non più di una fievole brezza primaverile mi toccano, tu, tu Limbico della mia follia la bocca riempi, follia che, nella mia mente, coraggio viene chiamata e riempir
pergamene con vuote parole nulla vale al cospetto del mio ardire.
“Anima”,
risposi con voce severa, non vintadall’impetuoso fiume di parole nel quale
rischiò di affogare.
Al maestro mio di te chiesi per pura curiosità, o Diomede, se così
ti chiami, maledetto.
Nessun ricordo in me rievoca il nome che tu pronunci con così
fiera voce.
La mia mente riecheggia di nomi come Ettore, Achille, Agamennone e Paride. Questi e molti altri studiai di quando Ilio splendeva
sorridente ancora su di un’altura, ma il tuo, o misero bestemmiatore, a lor non s’accompagna.
Del tuo racconto memoria io e il popolo mio non serbiamo,
sì che tali ferine gesta orrore ancora dovrebbero suscitare
93
Talenti per il futuro
nelle atterrite genti, ben ti sta, scellerato, il meritato castigo
che Minosse quel giorno a te attribuì, sappi però questo: io son
poeta e…”
“Forse dici la verità, vivente?
Forse che sulla brulla terra mi hanno dimenticato?
Tu dici “son poeta” la penna prendi e scrivi,
scrivi della mia follia ché io possa nuovamente essere da tutti temuto.
Pensa, dei sommi allori verrai magari per questa tua scelta decorato.
La gente, la gente impazzisce dinnanzi alla potente violenza,
che le altrui membra in segno di rispetto fa tremare.
Meglio a lui che a noi, sembrano dire i loro occhi larghi come
piattini, mentre l’agonizzante morte di un loro pari ammirano,
intanto, intanto dello spettacolo godiamo.
D’oro lucente e di luminoso argento ricopriranno la tua persona,
i re e le corti sanguinosamente si batteranno per averti al loro fianco,
a te bramose le fanciulle offriranno fazzoletti profumati,
ma tu, tu corteggerai solo la fama e la gloria immortale ed esse
come amanti corteggeranno te.
Fa che non mi dimentichino e nessuno di te mai si dimenticherà”.
“Poc’anzi”
risposi io esitante, un cenno del mio maestro d’approvazione aspettando
“Poc’anzi mi dicesti che più importante del vuoto poetar è una
grande follia, beh, follemente io quest’allettante offerta declino”.
Ci allontanammo quindi, inseguiti come da una muta di selvaggi cani,
al tremendo fragor d’imprecazioni e furibondi pianti.
94
Appendice
Serena Cavasin
I racconti dell’inanimato
Serena Cavasin nasce a Treviso nella mezzanotte del 10 novembre 1994,
attualmente risiede a Roncade con la sua famiglia ed è maturanda al liceo
Canova indirizzo linguistico.
Inizia a scrivere a sei anni un diario sgrammaticato che tiene ancora come
ricordo e a otto anni vince un concorso di poesia per bambini.
Continua a scrivere traendo ispirazione in particolare dalla letteratura inglese ottocentesca: i suoi libri preferiti sono Cime tempestose di Emily Bronte
e I racconti del terrore di Edgar Allan Poe.
A partire da settembre 2013 studierà filosofia nel Regno Unito. Nel frattempo condivide la stanza con Bizet, il gattone di dieci anni, decisamente in
sovrappeso, a cui è molto legata.
I racconti dell’inanimato
Cara Nives,
le scrivo persuaso che, nonostante tutti questi anni, lei si ricordi tanto nitidamente di me quanto io di lei. In questo pacco vi è un oggetto che sono certo
troverà familiare. Sono troppo vecchio, ahimè, per rammentare cosa sia andato
storto tra lei e mia figlia; tutto e niente, presumo: magari vi sarete allontanate
progressivamente, un po’ come accade alla maggior parte della gente.
Ma ora la prego di perdonare questa mia vena nostalgica e smemorata: veniamo al dunque. Ho ritrovato per caso l’oggetto in questione mentre mettevo
ordine alla soffitta. Quel taccuino di cuoio era finito in mezzo alle bambole,
nella scatola dei giochi. Effettivamente era un gioco, no? Lo chiamavate “mettersi nei panni dei panni”, mi pare. Dopotutto, a quei tempi non avevate che
la fantasia e vi divertivate a descrivere il mondo sulla base di come avrebbero
potuto vederlo certi oggetti bizzarri in cui sceglievate di penetrare. Lo riconobbi subito sebbene mi fossi completamente dimenticato della sua esistenza.
Quante volte sarete venute in caserma brandendo quel quadernetto, “I racconti
dell’inanimato” come li chiamavate, intenzionate a denunciare l’ingiustizia
per la quale gli oggetti non possono parlare!
Come immagino che lei sappia, mia figlia Agata ha lasciato il paese da
ormai cinque anni recidendo ogni legame che la potesse trattenere; la sento
ogni mese al telefono e talvolta io e mia moglie prendiamo l’aereo per andare
a trovare lei, nostro genero ed i nostri nipoti: più volte le ho chiesto perché non
volesse venire a farci visita, ma per qualche strana ragione anche solo l’idea di
ritornare pare spaventarla. Per tale ragione ho deciso di lasciare a lei la custodia di questo frammento della vostra giovinezza, di quando eravate ancora
inseparabili ed in perfetta simbiosi. Fortunatamente, scripta manent. Confido
che le vostre mani siano un deposito migliore delle mie.
99
Talenti per il futuro
Lasciandola alla lettura dei risultati del vostro gioco, le auguro tutta la
felicità possibile.
Vostro, R. B.
P.S.: Nel caso in cui vi trovaste a Valnuova, sappiate che saremmo molto
lieti di averla come ospite: mia moglie fa ancora la millefoglie che lei tanto
amava.
100
Serena Cavasin - I racconti dell’inanimato
La tegola del villino
Me ne sto stretta a contatto con le mie compagne, sorelle gemelle rosse,
di terracotta. Così fragili, così esposte. Nelle rare volte in cui grandina
spesso qualcuna di noi si rompe, quando nevica invece, quel manto candido ci opprime. La pioggia non ci disturba, scorre via come la vita delle
cose animate: batte rumoreggiando per un po’ e poi cessa, talvolta lentamente, talvolta all’improvviso. Il nostro vero nemico è il vento. Non quello
delicato e carezzevole delle brezze, bensì quello impetuoso e ululante delle
tempeste, quello furioso e indomabile di trombe d’aria, cicloni, tornado,
uragani. Quel vento che ci rapisce, spezza e abbandona lontano da casa.
Amiamo il sole, che ci illumina e scalda, adoriamo le notti tranquille in cui
il buio ci avvolge nel suo abbraccio e la luna ci accarezza con i suoi pallidi
raggi. Noi non ci muoviamo mai una volta poste sul tetto, sono sempre
cause esterne le responsabili dei nostri eventuali spostamenti. Ci piace osservare tutto dall’alto. Il panorama non è mai lo stesso, cambia in base a
piccoli fattori: passanti, gente affacciata alle finestre, animali che corrono per i cortili, automobili nelle strade, vecchietti e studenti alla fermata
dell’autobus, uccelli e aeroplani nel cielo, nuovi edifici innalzati, cantieri
aperti, eccetera. Tutto si mescola, sfoca e si perde verso l’orizzonte in una
leggera nebbia cerulea. Noi siamo le elette spettatrici del ciclo delle stagioni, dell’acqua, della vita; da quassù controlliamo il divenire. Potremmo
raccontare e descrivere all’infinito, addentrarci in ogni singolo particolare
in modo tale da approfondire il microscopico ed incantevole. Potremmo
trattare tutti quei dettagli insignificanti come il tremolio delle foglie, ma
non troveremo nessuno disposto ad ascoltarci perché siamo senz’anima ed
il nostro linguaggio non è comprensibile da coloro che un’anima la possiedono. L’osservazione è l’unico colloquio che ci è concesso: loro osservano
noi tanto quanto noi osserviamo loro.
I cancelli del cimitero
Essendo questo un paese di poche anime, ormai da qualche tempo il
curato ha deciso di mantenerci sempre aperti, anche di notte. Sorgeremmo in una collocazione felice, visto che ci abbraccia un antico muretto
di sassi piuttosto basso e davanti a noi corre una stradina di terra battuta.
101
Talenti per il futuro
Non fosse che alle nostre spalle si estende il camposanto, una distesa di
croci e lapidi monumentali con angeli affranti e strutture architettoniche
improvvisate su cui amano poggiarsi i corvi e crescere l’edera. Un tipico e
pittoresco cimitero di campagna in cui regna la quiete, il medesimo silenzio con cui se ne va la vita e viene la morte. Il nostro freddo ferro è avvezzo
alla vista di anziane vedove malinconiche, neri feretri introdotti da cupi
becchini e figli che portano corone ai compianti padri, ma talvolta capita
anche che qualche coppia di amanti segreti o giovani innamorati ingentilisca l’abituale atmosfera luttuosa mediante carezze scambiate all’ombra
dei mausolei; dopotutto non è che l’antico connubio, la remota danza di
amore e morte. Per non parlare poi degli innumerevoli segreti di cui gli
alti cipressi si rendono custodi! Non esiste maggiore scrigno di un sepolcro
per quanto riguarda menzogne, inganni, tradimenti e delitti mai svelati.
Eppure a noi non importa nulla, accogliamo tutti senza discriminazioni: il
vegliardo riposa poco lontano dall’infante, il miscredente vicino al bigotto,
la vergine alla prostituta, il poeta all’ubriacone, la mente brillante allo scemo del villaggio, il ricco al mendicante, e così via. La morte è uguaglianza.
In fin dei conti tutti si riducono a povere e fragili ossa che il cielo plumbeo
compiange nelle sue chiare lacrime piovane.
Il collare a catena
Le catene non dovrebbero simboleggiare rapporti di amicizia e fedeltà,
perché è come se fossero una sorta di memento schiavista. Io poi, con
i miei anelli ed il mio acciaio lucido assomiglio troppo ad una catena.
Cingo il collo di un delizioso Rottweiler, una razza da tanti considerata
pericolosa e aggressiva. Eppure passare anche solo una decina di minuti
con Bobby (questo almeno è il nome che reco inciso, gli altri nomignoli
affettuosi che gli umani appioppano a questa povera bestia non sono affar
mio) sarebbe sufficiente a collocarlo idealmente tra i cani più affettuosi
al mondo. Amante delle coccole qual è, alla vista di una qualsiasi faccia
simpatica si sdraia immediatamente sul dorso. Idolatra follemente il suo
padrone e fortunatamente la sua devozione è corrisposta. Per tale ragione
mi meraviglio del fatto che per collare costui gli abbia posto una catena.
Tra tutti i tipi disponibili ha dovuto scegliere proprio la catena! Per Bobby
per giunta, un cane che non ha mai avuto bisogno di essere represso ed
instupidito da addestramenti di sorta, sempre obbediente e fedele in modo
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Serena Cavasin - I racconti dell’inanimato
disinteressato. Perché allora incatenarlo? Magari intendeva semplicemente
dimostrare il legame molto stretto che li lega. Deve essere così. Mi risulta
semplice avvertire l’affetto che entrambi nutrono l’uno per l’altra. Lo sento
nel pulsare del collo, in quelle frementi fibre muscolari irrorate dal sangue
e coperte dal pelo corto e ruvido che si insinua tra i miei anelli, sferzato dall’aria nell’imponderabile slancio assunto da quelle membra possenti
ogni qualvolta le labbra dell’umano scandiscano amorevolmente, persino a
considerabile distanza e sommessamente: “Vieni qui, Bobby”.
Il quaderno adottato
Nel vecchio e grigio armadio nel bagno delle ragazze al primo piano
vivono abbandonate alla polvere parole di anche vent’anni fa: libri, testi didattici dimenticati da studenti ingrati o semplicemente distratti. L’ultimo
giorno di scuola, prima che comincino le vacanze estive, i bidelli li ripongono lì, su quei freddi scaffali di acciaio. Ivi restano per tutta l’estate e l’anno scolastico successivo, a meno che qualche studentessa curiosa non vada
a ficcanasare nello sgabuzzino incappando nel vecchio mucchio di pagine.
Ogni tanto qualche testo viene pure adottato; la Divina Commedia con le
sue tre cantiche è quella che lascia per prima il nostro orfanotrofio cartaceo. Altri invece restano sempre lì, non li sceglie né se li porta via nessuno:
troppo brutti, troppo vecchi, troppo ingombranti, decisamente obsoleti.
La speranza di noi quaderni – perché abbandonano pure noi- è quella di
non essere stati scritti troppo: meno pagine sono state riempite dalle gallinacee calligrafie dei nostri precedenti proprietari meglio è. Di maggior
valore sono quelli con una bella copertina cartonata ed i fogli strappabili.
Nonostante facessi parte di quell’eletto gruppo rimasi nell’armadio per due
anni prima di essere “adottato”, in effetti ero stato ricoperto da arcaiche
edizioni di alcuni libri di chimica che non interessavano a nessuno. Mi
scoprì una studentessa magrolina e ansiosa che venne a rovistare proprio
nel nostro mucchio. Sotto le sue dita le pagine fremevano e, se avessero
potuto parlare, sicuramente si sarebbero sprecate in disperate suppliche
affinché le sottraesse a quella perenne condizione di oblio. La smorfia che
fece non trovando il libro che cercava ci scoraggiò, ma per me non tutto
era perduto: seccata mi prelevò e sfogliò appurando il mio buono stato. Da
quando si accontentò del magro risarcimento che costituii, mi scribacchia
e riempie di disegnini. Io non posso lamentarmi, ma mi rendo conto che
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Talenti per il futuro
i fogli a quadri in mio possesso diminuiscono di giorno in giorno e non
posso fare a meno di chiedermi cosa ne sarà di me di qui a poco.
La lampada del vetraio
Correva il primo dopoguerra quando mi fabbricò un baffuto vetraio
francese. Andava così fiero di me che mi teneva in bella vista sul bancone
del negozio e rifiutava di vendermi a chiunque chiedesse di acquistarmi;
talvolta gli proponevano persino somme importanti, però respingeva ogni
offerta. Non so per quale ragione, ma pareva che avessi un valore inestimabile, probabilmente legato alla fotografia di una giovane ragazza bionda
che mi affiancava. Ero sicuramente la sua creazione migliore, quasi un feticcio che con enorme dedizione curava. Un granello di polvere non faceva
neanche in tempo a posarsi sul cristallo che subito lo spazzava via con un
colpo di strofinaccio. Non conoscevo la ragione di tutte quelle attenzioni,
so solo che finii per abituarmici e quando, ormai vecchio e stanco, il mio
creatore morì, mi ritrovai disorientata. La sorella vendette ogni articolo
presente nella bottega ad un antiquario, il quale posò subito gli occhi su di
me e sganciò una bella sommetta. L’antiquario passava decine di minuti ad
ammirarmi da vicino sfiorando le linee del piombo che, deliziato, elogiava
in tutta la loro perfezione e cura. Versava
fiumi di lodi anche per il vetro con le sue tonalità varie e sapientemente
accostate. Ma per costui non ero che oggetto di profitto e mi vendette ad
il miglior acquirente, un collezionista buffo, il quale mi scambiò per un
portagioielli di fine Ottocento. Entrai in una rete continua di scambi, finché ad un’asta non mi comprò ad alto costo una donna di grande bellezza
ed eleganza che mi pose ad illuminare il suo raffinato salottino marsigliese.
Aveva dei tratti familiari e frequentava persone educate e di buon gusto, le
quali spesso si soffermavano a studiarmi complimentandosi per la grande
cura con cui ero stata tenuta. Un giorno aprì una spessa scatola d’ebano
intarsiato piena di immagini, fotografie vintage per lo più. Rovistava con
attenzione, leggeva ogni data riportata sul retro. Stringeva una fotografia
tra le lunghe mani sottili quando cominciò a spostare lo sguardo verso di
me e poi di nuovo all’istantanea. Restava immobile senza mai smettere di
fissarci. Portò una mano alla bocca e gli occhi le divennero lucidi. Lasciò la
stanza per prendere un’ elaborata cornice in argento e vi inserì la fotografia,
ponendola infine vicino a me. Si trattava di un ritratto del mio creatore.
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Serena Cavasin - I racconti dell’inanimato
Fu allora che riconobbi nella mia nuova proprietaria i tratti della ragazza
nella foto della bottega e fu come tornare in famiglia dopo molto tempo,
seppure questo sia un privilegio che non spetta a noi oggetti, è pur sempre
bello pensarlo.
L’abito da sposa
Cosa resta ormai di me se non un debole candore ingrigito dalla polvere?
Il velo giace abbandonato e celato dalle tenebre. Da tempo immane non
vedo più la luce, neppure il cereo e algido barlume lunare. Mi chiedo se
sia questo il prezzo da pagare per aver contemplato tanto scintillio e tanta
bellezza in un unico momento. Quanto risplendeva il lucido marmo dei
riflessi colorati delle antiche vetrate! Quel meraviglioso riverbero vivace e
solenne che ornava come un immenso gioiello la gonna gonfia, soffice e
candida, mentre percorreva la navata! Procedeva con passo spedito ed impaziente, talvolta levando lo sguardo verso gli squarci di cielo limpido; un
giorno perfetto per un matrimonio, una bellissima sposa infelice. Il banchetto poi fu grande e fastoso, l’argenteria riluceva accecante quanto le stelle
nell’esplosione della loro agonia. Quando la festa finì era già sera inoltrata
e non mi accorsi neanche del tramonto. Volle fare una passeggiata verso il
laghetto, mano nella mano con il novello sposo per cui gli occhi le brillavano d’amore. Ai raggi del plenilunio appariva avvolta da un’aura eterea ed
impalpabile che da me scaturiva e lo specchio d’acqua, infine, pareva una
distesa di diamanti purissimi e lavorati. Questi ricordi restano nella mia
cinerea coltre, dallo stretto ripostiglio in cui mi trovo non uscirò mai più.
Non vedrò null’altro che il buio legno di cui sono prigioniero, lo so per
certo. E dire che quando mi teneva ancora nel suo armadio le piaceva tanto
ammirarmi, ricordare quel giorno, mentre io godevo ancora dell’essere avvolto dalla luce. Ma ora che l’amore è sfumato mi ha relegato qui, lontano
dagli occhi e dal cuore.
L’acchiappasogni indiano
Fu un’anziana indiana ad intessermi con cura nella sua capanna all’interno di una riserva. Tra un intreccio e l’altro aggiungeva una perla lignea e
colorata. Quelli come me costituivano la sua unica fonte di reddito, creati
105
Talenti per il futuro
per essere venduti agli sporadici turisti amanti degli oggetti etnici e pittoreschi. Eppure eravamo speciali. Interamente realizzati a mano e plasmati al sottofondo di antiche cantilene, incantesimi di magia ancestrale.
Fui acquistato da una coppia bizzarra, due bohemien in tutto e per tutto.
Viaggiammo per parecchi giorni prima di arrivare alla loro casa, giorni in
cui fecero l’autostop, suonarono l’armonica lungo le strade di cittadine
semideserte elemosinando qualche spicciolo con cui pagare una corsa su
un vecchio autobus sgangherato. Si lavavano nei fiumi, dormivano sotto le
stelle e mangiavano cibo in scatola alla luce di un fuoco improvvisato. Io
ero sempre lì, all’interno della borsa di canapa di lei, circondato da strana
chincaglieria ed un vago odore di erba. Quando arrivammo infine alla
loro casetta bianca mi si presentarono un giardino incolto, della mobilia
insolita e carica di polvere ed un forte odore di chiuso dovuti al loro largo peregrinare, di cui io compresi appartenere ad una delle ultime tappe.
Appena aprirono gli scuri potei osservare meglio l’ambiente da cui ero
circondato: vi erano
souvenir provenienti da ogni parte del mondo, gigantografie e polaroid
di splendidi panorami appese ai muri assieme a maschere africane ed elaborate collane, tre incensieri e una ventina di stecche di incenso, nonché
intrecciati contenitori stracolmi di spezie e buste di ogni genere di tè. Lei
mi estrasse dalla borsa e mi legò alla testiera di un lettino in ferro battuto, in una stanza spoglia ma dalle pareti tinte con tutte le sfumature del
giallo e dell’arancione. Arredarono progressivamente la camera con reperti di viaggi successivi, smettendo definitivamente di vagare per il mondo
appena fu completata. Dopo un paio d’anni ottennero l’adozione di una
bambina indiana di quattro anni. Era bellissima, gli occhi grandi e neri, la
pelle del colore della polvere di cacao, i capelli d’ebano lucido ed avrebbe
riposato vicino a me. Non mi resta che confessare che sin dalla prima notte
di sonno per me fu un lavoraccio. Ogni volta che scendevano le tenebre e
si addormentava rapivo da lei incubi strazianti, ricordi di abbandono e solitudine, rumore, caos e violenza, memorie il cui fardello un bambino non
dovrebbe mai portare sulle proprie spalle. Li imprigionai tutti nella mia
rete per anni, li catturavo appena vedevo quel bel faccino corrucciarsi o la
vedevo fremere. E sinceramente ho motivo di credere che si sia resa conto
di ciò che faccio per lei, visto che ogni volta che deve dormire fuori casa o
partire in viaggio slaccia il nodo che mi lega alla testiera per portarmi via
con lei, a vegliare il suo sonno.
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Serena Cavasin - I racconti dell’inanimato
Il vecchio specchio
Stava sempre qui davanti a sistemarsi ogni singolo ciuffo e a ritoccarsi
impercettibilmente il trucco. La vedevo così spesso da non poterne più.
Una volta ne ero innamorato, amavo riflettere i suoi occhi limpidi e radiosi, quella chioma fulgida e vezzosamente arricciata, quell’incarnato roseo
privo di imperfezioni. Pretendeva di trovarmi sempre lucido, cosicché il
suo sorriso perlaceo potesse riflettersi su di me in tutta la sua brillantezza;
la povera domestica era costretta a lustrarmi ogni giorno. In occasione
del bagno, prima di immergersi nell’acqua calda e profumata, si spogliava
mostrandomi le splendide forme. Ma il vapore ben presto mi oscurava la
vista per restituirmela quando ormai si era già rivestita consentendomi al
massimo di contemplare il bel volto incorniciato dai capelli umidi. Si mirava e rimirava soddisfatta e io ne giovo: non a tutti gli specchi è concesso
ammirare da vicino tanta bellezza. Per anni il mio amore non perse in vigore, finché non cominciò a controllarsi sempre meno frequentemente, sorridendo debolmente alla sua stessa vista. Un giorno scoppiò in lacrime. Un
filo argenteo le era comparso tra i capelli color rame. Risolse il problema
con una tinta, ma poi vennero le zampe di gallina e la buccia d’arancia. Si
ricopriva di creme, di maschere, le tentava tutte. Arrivò a coprirmi con un
asciugamano prima di svestirsi pur di non vedersi. Io volevo dirle che per
me era ancora bellissima, ma potevo solamente riflettere la sua disperazione. Da diverso tempo la domestica non mi lustra più ed il mio vetro si sta
progressivamente ingiallendo, offuscando, macchiando. Non credevo che
si potesse attribuire tanta importanza all’aspetto fisico, diedi troppo valore
a quelle manifestazioni di vanità ed ora di me non resta che un vecchio
specchio annebbiato, l’innamorato deluso di una donna vuota.
La fontana nel parco
“Linfa vitale”, che bella parola! Essa appartiene agli alberi, alle persone
e agli animali, tutto ciò da cui sono circondata insomma, se si esclude l’acciottolato del suolo e ovviamente me stessa. Proprio io che sono al centro di
tutto, che sono il punto nevralgico del parco attorno a cui molti si radunano,
che mi innalzo nel mezzo dei viventi imponendomi alla vista. Proprio a me
doveva mancare questa benedetta linfa vitale! Il mio solo decoro e unico velo
è il continuo flusso di acqua lucida, scintillante, tanto alla luce del sole quan-
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Talenti per il futuro
to al chiarore argenteo della luna. I flutti che coprono il mio nudo granito
sono simili agli abiti lunghi e leggeri delle eleganti signore che talvolta passano di qua. Costoro procedono con passo spedito e danzante, e allo stesso
modo ricade su di me la pioggia di gocce. Ogni tanto arriva qualche turista,
fotografo improvvisato. Qualche altra volta sopraggiunge un uomo dal volto
malinconico oppure una donna dalle guance umide e sporche di trucco:
gettano una moneta di poco valore, auspicando un minimo di fortuna in cui
per primi non hanno fiducia.
Osservandoli provo compassione, ma posso offrire loro solamente lo
spettacolo delle lacrime che scorrono sulla mia fredda pelle. Sono più utile ai
senzatetto che certe notti alla luce degli astri si addormentano ai miei piedi.
Almeno il sonno di costoro può essere cullato dalla continua ninnananna
liquida che creano il fluire e l’infrangersi delle stille. Anche gli uccellini traggono vantaggio dalla mia acqua, tant’è che non è raro scorgerli inzupparsi
le piccole teste e scrollare le ali in un’apprezzata pulizia occasionale. Tuttavia non mi è affatto possibile celare lo strazio che ogni inverno mi provoca, quando il freddo in arrivo costringe il guardiano a chiudere i rubinetti
dell’acqua ed io appaio alla vista spogliata, scarna e triste. Allora qualche
incivile getta nel mio bacino svuotato una lattina vuota, un mozzicone di
sigaretta o una busta di plastica a cui si aggiungono foglie morenti portate
dal vento in questo inglorioso sepolcro. Tale condizione non muta finché
regna il gelo ed ogni anno si ripete accendendo sofferenze sempre nuove,
come la delusione del gattino assetato che invano gratta la linguetta ruvida
contro la pietra ricercando una qualche improbabile goccia d’acqua, anche
solo piovana, che non sia già stata congelata.
La pietra di piazza
Anni, lustri, decenni e secoli ci scorrono addosso come la pioggia; le venature della fredda e dura pietra imprigionano calde memorie di chiunque
vi si sia mai appoggiato. Vite intere sfilarono, sfilano e sfileranno davanti a
noi in un corteo incessante. Gli uomini, le donne, i buoi di quattrocento
anni fa ed il cagnolino legato al palo di oggi. Tanto per noi tutto permane e
se ne va allo stesso modo. L’orologio della torre è l’unico indice dello scorrere del tempo. Eppure pulsano ancora nella nostra lapidica memoria gli
echi di eventi insoliti: quando tutta la piazza crollò a causa di un terremoto,
quando in diverse occasioni scorse sangue sui ciottoli della pavimentazione,
108
Serena Cavasin - I racconti dell’inanimato
quando la forza pubblica presidiò queste vecchie mura di fronte a possibili
minacce, quando parte dell’architettura rovinò sotto i colpi delle bombe,
quando dalle finestre dei palazzi uscirono fiamme d’incendio, a quando, più
volte, la popolazione insorse o manifestò. Dentro la materia pulsano ancora
quelle grida, quei pianti, assieme alle risate e alla gioia che animano la città
nei tempi di festa. Tuttavia si tratta di suoni che non sono udibili, forse
neppure all’orecchio più attento. Abbiamo osservato ogni cambiamento,
abbiamo visto crescere persone e innalzare edifici. Siamo i pilastri della civiltà. In questa piazza, in queste vie, sotto questi portici, si è fatta la storia
e noi di tutto ciò siamo le mute testimoni erose dal tempo, dall’acqua,
illuminate dalle luce, battute dal vento e, ahimè, scarabocchiate da qualche
idiota annoiato.
Agata e Nives
109
Indice
Intervento
del Presidente della Fondazione Veneto Banca
5
Prefazione
di M. Giuseppina Vincitorio, Dirigente scolastico regg. Liceo Canova 2011-12 7
Introduzione
di Clelia De Vecchi
11
Simone Maria Bonin
Parole d’un solitario amante
15
Marco Buso
Le streghe di Eastbourne
39
Elia Russo
Scene tagliate
75
Appendice
Serena Cavasin
I racconti dell’inanimato
97
“I componimenti presentati affrontano una vasta
gamma di tematiche esistenziali che rivelano il sentire
profondo e spesso nascosto dei giovani e dimostrano
quanto l’interesse per lo scrivere non sia disgiunto da
chiare capacità tecniche maturate nel corso degli anni
di studio sui banchi di scuola, da originalità e freschezza
espositiva.
I testi qui raccolti [...] sono la testimonianza del bisogno
dei giovani di esprimersi anche attraverso la scrittura
e di trovare nella stessa un modo per comunicare le
proprie emozioni partendo dal vissuto di ciascuno: la
personalità di ognuno di loro traspare mediata attraverso
un patrimonio culturale che non è fatto solo di nozioni
ma di riflessioni, di conoscenze assimilate e rielaborate,
di pensiero autonomo, di cultura classica che viene
reinterpretata e riscritta.”
(dalla Prefazione di M. Giuseppina Vincitorio, Dirigente Scolastico
Reggente del Liceo Canova nell’anno 2011-12)