Progetto formativo - Centro Servizi Sociali "Villa Serena"

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Progetto formativo - Centro Servizi Sociali "Villa Serena"
Progetto formativo
“Villa Serena”
Quando l’anziano entra nella struttura “residenza per anziani” incontra un sistema organizzato nel
quale coesistono diversi protagonisti: gli anziani, i familiari, gli operatori e le operatrici (o.s.s., infermieri, medici, ass.sociali, fisioterapisti, logopedisti, terapisti occupazionali, educatori…), i quali
lo accolgono con i vissuti del proprio mondo interno, vissuti che hanno spesso a che fare con la
perdita-separazione, e con tutto ciò che ad essa compete come risposta emozionale complessa.
L’anziano, investito da esigenze estranee persecutorie (talvolta la malattia stessa può essere vissuta come tale), è invitato a separarsi da una sorta di comunità non solo esterna a
sé, ma interna e dinamica, e dalle relazioni oggettuali significative in cui è incluso e di cui
è protagonista.
La famiglia, nel momento in cui l’anziano entra nella struttura residenziale, subisce al suo interno
ripercussioni emozionali profonde che la coinvolgono enormemente e la mettono sulla stessa
lunghezza d’onda della sofferenza che il proprio familiare sta vivendo. Emergono solitamente stati
di sofferenza per il pesante senso di colpa.
Questo dolore della famiglia può essere totalmente negato, attraverso meccanismi di difesa quali
la rimozione e la negazione o la razionalizzazione e l’idealizzazione, per cui la casa di riposo è
vissuta e raccontata come “il meglio”. Da questo deriva, probabilmente, l’eufemismo “casa di
riposo” per indicare realtà che talvolta sono luoghi di emarginazione e medicalizzazione dell’età
avanzata, età che necessiterebbe invece dell’inclusione sociale. È tuttavia innegabile il dato statistico che parla di un allungamento in termini più quantitativi che qualitativi della vita e quindi
risulta talvolta insostenibile, da parte della famiglia, il carico assistenziale di uno o più anziani, tutti
estremamente bisognosi di assistenza a 360 gradi, ventiquattro ore su ventiquattro.
Da quanto detto finora si comprende come anche la famiglia può entrare in una condizione di
disagio ed “ammalarsi”.
L’anziano che varca la soglia della casa di riposo dovrebbe poter trovare una nuova possibilità
d’incontro, un’accoglienza che in qualche modo lo “tenga”, che non comunichi abbandono, rifiuto
o burocratica indifferenza; un’accoglienza rassicurante, protettiva, che lo aiuti a sentirsi persona
anche in un momento deprivante. Idealmente l’anziano va cercando la stessa accoglienza che si
è sempre aspettato nel corso della vita, nel contesto delle sue relazioni familiari, oppure la stessa
accoglienza che da bambino cercava nel rapporto con la sua coppia-madre.
Questo bisogno si attiva a partire dalla separazione dal contesto familiare, promuovendo movimenti profondamente regressivi.
L’anziano diventa particolarmente attento e sensibile ad ogni input verbale e fisico che l’operatore
a cui è affidato gli rimanda in questi momenti, al fine di trarne conforto e rassicurazione; di tali
input si appropria, anche se poi continua ad essere triste, depresso, disorientato e confuso.
Crediamo che l’istituzione dove non ci sia un profondo lavoro di formazione “su misura”, basato
cioè sui casi clinici e sui vissuti individuali e di gruppo di chi vi opera, non possegga gli strumenti
per capire ed accogliere il bisogno autentico di questo nuovo incontro.
In presenza di tanto dolore e difficoltà, si può infatti assistere alla messa in atto consapevole da
parte dell’intera istituzione di un sistema difensivo che si esprime nella ritualità di una burocrazia
che scandisce poi tutta la vita della persona.
Le cure verranno quindi difensivamente costruite sugli aspetti medicalizzati, cosa che serve soprattutto
alla gestione della colpa per le proprie inadeguatezze. Queste difese nevrotiche vengono attivate in
risposta agli agiti aggressivi di perdita, dell’anziano e dei suoi familiari.
Se l’età anziana è fatta oggetto di terapie e non di relazioni e valorizzazione sociale è anche perché,
in questo modo, si ha l’illusione di prendersene cura attivamente; si fornisce un’assistenza che tacita
meglio il senso di colpa, di inadeguatezza ed impotenza alla quale la vecchiaia ci espone.
L’istituzione, dunque, con le sue procedure, con le sue strutture tecniche e normative ritualizzate è la
risultanza di un insieme difensivo che cerca di proteggere chi vi lavora da scompensi psicoemozionali.
Tuttavia proprio questo processo conduce paradossalmente verso la “malattia”, non solo dell’utente
e della sua famiglia, ma anche di chi lavora in tale contesto. Se l’operatore viene sospinto verso l’efficientismo e considerato solamente in quanto capace di produrre lavoro concreto, manuale, tangibile, va incontro alla sindrome del Burn-out. Laddove l’elaborazione del dolore e della perdita legati
all’esperienza, vengono negati emergono sintomi quali la demotivazione, la depressione, l’aggressività,
l’abbandono del campo, i vissuti paranoidi e i comportamenti anti-sociali; i gruppi di reparto si attivano patologicamente su ondate emozionali, che conducono ad agiti slegati dal contenimento fornito
dall’esame di realtà. L’istituzione, pertanto, nevrotizza chi vi opera, sospingendolo a negare e rimuovere
stati anche gravi di sofferenza, pretendendo comunque una buona performance produttiva.
Alla luce di queste considerazioni ed osservazioni, a partire dal 1998 è iniziata presso il Centro Servizi
Sociali “Villa Serena”, un progetto formativo rivolto a tutto il personale operante nella struttura. Tale progetto è articolato attraverso i Gruppi Balint e la Supervisione professionale, di seguito brevemente
illustrati.
Il Gruppo Balint è una metodica introdotta dallo psicoanalista Michael Balint per aiutare i medici di
base nella valutazione dell’intervento di relazione con i pazienti.
I gruppi affrontano una problematica clinica cercando di capire gli elementi relazionali che si ritrovano
all’interno dell’intervento diagnostico e terapeutico, mettendo quindi in discussione il loro stesso agire
professionale.
Se si assume la relazione come punto nodale dell’interazione sana fra ospite e operatore, si comprende come sia fondamentale garantire una buona consapevolezza delle dinamiche psicologiche in essa
implicate.
I Gruppi Balint possono trattare sia casi clinici riguardanti l’anziano, sia le difficoltà relazionali che emergono nel rapporto ospite-operatore, oppure nel gruppo di lavoro.
È importante sottolineare due aspetti:
- non si tratta di un gruppo terapeutico: tutto ciò che emerge è rigorosamente coperto da segreto professionale e destinato unicamente al buon funzionamento delle interazioni e dei vissuti operativi;
- la partecipazione è su base volontaria, non vincola le valutazioni individuali e non è preclusiva di altre
proposte formative.
“Formare” un gruppo di operatori si è dimostrato sostanzialmente diverso dal semplice fornire informazioni, dal calare il sapere dall’alto. Sono molteplici i riscontri positivi di questa modalità formativa: il personale partecipa con competenza alla progettazione, i sintomi di burn-out diminuiscono, la conflittualità
con i familiari nella gestione assistenziale dei loro cari si riduce.
I gruppi Balint sono stati ben presto affiancati dalla supervisione professionale.
La partecipazione alla supervisione è volontaria, avviene in orario di servizio con cadenza bimestrale.
Che cos’è la supervisione: la supervisione può essere considerata un sovrasistema di pensiero sull’azione
professionale e sulla progettazione.
È uno spazio ed un tempo di sospensione dove ritrovare, attraverso la riflessione guidata di un esperto,
una distanza equilibrata dal fare, dove analizzare sia la dimensione emotiva sia la dimensione metodologica dell’azione professionale, per ricollocare l’intervento in una dimensione corretta, con spirito critico
e di ricerca.
Supervisione
Come sopra accennato, affiancata ai Balint è successivamente nata la supervisione, inizialmente
riservata ai Coordinatori di Reparto, al Coordinatore di altre figure professionali (fisioterapista, logopedista, educatori) poi estesa agli Assistenti Sociali, al Settore Amministrativo ed ai Medici. Anche in
questo caso la partecipazione è su base volontaria (in orario di lavoro).
Il Direttore della struttura partecipa sia alla supervisione con la responsabile dell’Area Socio-Sanitaria
che con il personale amministrativo.
La supervisione dei coordinatori ha cadenza settimanale, le altre figure si incontrano ogni quindici
giorni, per un’ora (i Medici un’ora e mezza).
I coordinatori hanno visto nascere questa loro qualifica a partire dal “vecchio” approccio del caporeparto, ma “coordinare” è qualcosa di ben più complesso: significa infatti acquisire la capacità di
elaborazione, conduzione e promozione del pensiero assistenziale; abilità che un tempo non erano
richieste in quanto il “modo” di fare assistenza veniva calato dall’alto e tenuto sotto controllo grazie a
sistemi coercitivi di controllo.
Un coordinatore formato dovrebbe essere in grado di far crescere il proprio gruppo di lavoro partendo
da solide basi tecniche, integrate con un pensiero progettuale specifico rivolto all’ospite. Dovrebbe
altresì essere in grado di leggere e governare i conflitti interni al gruppo di operatori, aiutandoli a non
cadere in contrapposizioni polemiche e sterili o in movimenti emozionali distruttivi.
Nella supervisione, pertanto, il coordinatore si confronta con i colleghi, e con il supervisore nel tentativo di ampliare la conoscenza di sé, delle proprie possibilità e dei propri limiti. Questi ultimi potranno
essere condivisi al fine di trovare strategie per far sì che le difficoltà personali non si traducano in una
fonte di frustrazione e demotivazione.
La supervisone rivolta agli assistenti sociali ha lo scopo di formarli per essere in grado di condurre
un colloquio professionale con l’ospite e con i suoi familiari e, in questo caso, accogliere e gestire
situazioni di criticità.
La formazione a loro rivolta dovrebbe inoltre metterli in grado di raccogliere una scheda sociale che
bene si integra con i lavori successivi in U.O.I. , Gruppo Balint o riunione di nucleo.
Il supporto tecnico del supervisore fornisce a queste figure professionali lettura inedite sulle dinamiche
interpersonali, familiari e di gruppo.
La supervisione del personale amministrativo è relativamente recente e può sembrare originale in
quanto non è facile comprendere la connessione tra interpretazione psicodinamica e settori apparentemente scevri da implicazioni emozionali, dinamiche e relazionali, ma anche all’interno di un ufficio
amministrativo si producono ansie e tensioni non riconducibili al solo piano di realtà. Il contesto “Casa
di Riposo” richiede inoltre uno sforzo aggiuntivo per accogliere istanze provenienti da chi è a diretto
contatto con l’ospite. Ciò implica una buona capacità identificatoria, la possibilità di mettersi nei panni
dell’altro che può essere, di volta in volta, un coordinatore, un terapista, un membro di un altro ufficio,
servizio o un familiare.
Se viene meno questa possibilità di interazione e accoglimento, se i vissuti di fatica e frustrazione non
possono essere portati alla luce e risolti, le nuove soluzioni non emergono e si assiste ad una contrapposizione e chiusura classica fra settore socio-sanitario-assistenziale e settore amministrativocontabile-gestionale.
Inutile sottolineare i danni che possono derivare da tale dicotomia.
Anche in questo caso la supervisione parte dall’invito rivolto ai partecipanti di presentare situazioni
critiche e di sofferenza suffragate da dati, e dall’esposizione dei vissuti conflittuali per favorirne la consapevolezza e la gestione.
Per quanto concerne i medici della struttura va sottolineata la loro assidua presenza nei gruppi Balint,
nei quali si incontrano trasversalmente tutte le figure che operano con l’ospite all’interno della Casa di
Riposo: questo facilita un linguaggio comune e condiviso a livello profondo.
Non è retorico affermare che qui le informazioni ed i punti di vista sono circolari e costituiscono il valido
substrato alla progettazione. Nella supervisione a loro riservata, si elaborano gli aspetti relazionali, etici
ed emozionali vissuti nella relazione con il paziente.
La formazione li aiuta a condividere approcci diagnostici, spesso apre la possibilità di confronto
sull’enorme responsabilità di gestire quotidianamente situazioni sempre più complesse (nelle case di
riposo sempre più spesso accedono persone non in età geriatrica) che, se vissute senza supporto,
possono condurre ad un piano difensivo indesiderato, con il conseguente isolamento della figura sanitaria rispetto al resto del personale.
Il Direttore della struttura, pur trovandosi gerarchicamente a capo del sistema decisionale, è disponibile, attraverso lo strumento della Supervisione, a mettersi in gioco con le figure con cui entra quotidianamente in contatto/collisione nello svolgimento del suo lavoro tecnico, elaborandone vissuti ed
emozioni proprie.
La supervisione assieme alla responsabile di area è il luogo in cui si contempla la possibilità progettuale a partire dal dato di realtà, e in cui si producono strategie organizzative e di gestione condivise e
sintoniche.
È altresì la sede in cui i vissuti personali legati ad accadimenti della vita lavorativa trovano espressione,
accoglimento e possibilità di elaborazione.
Maggio 2010