Diritto comparato e comunitario dell`antidiscriminazione

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Diritto comparato e comunitario dell`antidiscriminazione
Principio di uguaglianza e divieto di discriminazione
1. Il principio di uguaglianza formale: “la legge è uguale per
tutti”.
Il principio di eguaglianza (formale) degli individui si configura
quale uno dei pilastri ideologici della Rivoluzione francese in
reazione alle diversità
normative vigenti nel pregresso
assetto d’antico regime in ragione dello status dei singoli e
dei ceti (così come delle differenziazioni normative dei
territori).
1.1 DICHIARAZIONE
CITTADINO (1789)
DEI
DIRITTI
DELL’UOMO
E
DEL
ART. 1 Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei
diritti. Le distinzioni sociali possono essere fondate solo
sull’utilità comune.
ART. 6 La Legge è l’espressione della volontà generale […]
Essa deve essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che
punisca. Tutti i Cittadini, essendo uguali davanti ad essa, sono
ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi
pubblici secondo la loro capacità e senza altra distinzione che
quella delle loro virtù e dei loro talenti.
1.2 PREAMBOLO DELLA COSTITUZIONE FRANCESE (1946)
[…] il popolo francese proclama nuovamente che ciascun
essere umano, senza distinzione di razza, di religione, o di
fede, possiede alcuni diritti inalienabili e sacri […].
1.3 COSTITUZIONE FRANCESE (1958)
ART. 1 La Francia è una Repubblica indivisibile, laica,
democratica e sociale. Essa assicura l’uguaglianza dinanzi
alla legge di tutti i cittadini senza distinzione di origine, di
razza o di religione. Essa rispetta tutte le fedi.
1.4 Cost. Italiana, Art. 3.1°
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali
davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di
lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali.
1.5 CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE
EUROPEA (2000)
CAPO III UGUAGLIANZA
ART. 20 UGUAGLIANZA DAVANTI ALLA LEGGE
Tutte le persone sono uguali davanti alla legge.
2. Dall’uguaglianza formale all’uguaglianza sostanziale.
2.1 Cost. Italiana Art. 3.2°
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
2.2 PREAMBOLO DELLA COSTITUZIONE FRANCESE (1946)
(N.B.: si individuano espressamente categorie di cittadini in
situazione di svantaggio strutturale)
Esso proclama inoltre, come particolarmente necessari ai
nostri tempi, i principi politici, economici e sociali che
seguono:
La legge garantisce alla donna, in tutti i campi, diritti uguali a
quelli dell’uomo […] La nazione garantisce a tutti,
particolarmente al fanciullo, alla madre ed ai lavoratori
anziani, le erogazione dei servizi sanitari, la sicurezza
materiale, il riposo e l’impiego del tempo libero. Tutti gli esseri
umani che, a causa dell’età, dello stato fisico e mentale, della
situazione economica, si trovano nell’impossibilità di lavorare,
hanno il diritto di ottenere dalla collettività i mezzi per
un’esistenza dignitosa […] La nazione garantisce l’uguale
accesso del fanciullo e dell’adulto all’istruzione, alla
formazione professionale ed alla cultura. L’organizzazione
dell’insegnamento pubblico gratuito e laico [garanzia di
uguaglianza] in tutti i gradi è un dovere dello Stato.
2.3 COSTITUZIONE PAESI BASSI (1983)
ART. 1. Tutte le persone che si trovano nei Paesi Bassi sono
trattate in modo eguale in circostanze eguali. E’ vietata ogni
discriminazione fondata sulla religione, le convinzioni
personali, le opinioni politiche, la razza, il sesso o ogni altro
motivo.
(N.B.: si inserisce una clausola di apertura negando il
carattere
tassativo
discriminazione)
dell’indicazione
dei
fattori
di
3. Dall’uguaglianza sostanziale al divieto di discriminazione.
3.1 CARTA DEI
EUROPEA (2000)
DIRITTI
FONDAMENTALI
DELL’UNIONE
CAPO III UGUAGLIANZA
ART. 21 NON DISCRIMINAZIONE
1. E’ vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in
particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine
etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la
religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di
qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza
nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le
tendenze sessuali.
2. Nell’ambito d’applicazione del trattato che istituisce la
Comunità europea e del trattato sull’Unione europea è vietata
qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza [dello
Stato membro], fatte salve le disposizioni particolari
contenute nei trattati stessi.
3.2 TRATTATO COMUNITA’ EUROPEA
ART. 13 […[ il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta
della Commissione e previa consultazione del Parlamento
europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per
combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o
l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli
handicap, l’età o le tendenze sessuali.
4. Dal divieto di discriminazione alle pari opportunità (azioni
positive).
4.1 CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE
EUROPEA (2000)
ART. 23 PARITA’ TRA UOMINI E DONNE
La parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i
campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di
retribuzione. Il principio della parità non osta al mantenimento
o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a
favore del sesso sottorappresentato.
Art. 26 INSERIMENTO DEI DISABILI
L’Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di
beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia,
l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla
vita della comunità.
4.2 CEDU
4.2.1 Article 14 – Prohibition of discrimination
The enjoyment of the rights and freedoms set forth in this
Convention shall be secured without discrimination on any
ground such as sex, race, colour, language, religion, political or
other opinion, national or social origin, association with a
national minority, property, birth or other status.
4.2.2 PROTOCOL No. 12 TO THE CONVENTION FOR THE
PROTECTION OF HUMAN RIGHTS AND FUNDAMENTAL
FREEDOMS
Rome, 4.XI.2000
The member States of the Council of Europe signatory hereto,
Having regard to the fundamental principle according to which
all persons are equal before the law and are entitled to the
equal protection of the law;
Being resolved to take further steps to promote the equality of
all persons through the collective enforcement of a general
prohibition of discrimination by means of the Convention for
the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms
signed at Rome on 4 November 1950 (hereinafter referred to
as “the Convention”);
Reaffirming that the principle of non-discrimination does not
prevent States Parties from taking measures in order to
promote full and effective equality, provided that there is an
objective and reasonable justification for those measures,
Have agreed as follows:
Article 1 – General prohibition of discrimination
1 The enjoyment of any right set forth by law shall be
secured without discrimination on any ground such as sex,
race, colour, language, religion, political or other opinion,
national or social origin, association with a national minority,
property, birth or other status.
2 No one shall be discriminated against by any public
authority on any ground such as those mentioned in paragraph
1.
4.3 CONSTITUTION ACT, 1982
CANADIAN CHARTER OF RIGHTS AND FREEDOMS
Equality Rights
15. (1) Every individual is equal before the and
under the law and has the right to the equal protection and
equal benefit of the law without discrimination and, in
particular, without discrimination based on race, national or
ethnic
origin,
colour,
religion,
sex,
age,
or
mental or physical disability.
(2) Subsection (1) does not preclude any law,
program or activity that has as its object the amelioration of
conditions of disadvantaged individuals or groups including
those that are disadvantaged because of race, national or
ethnic origin, colour, religion, sex, age, or mental or physical
disability.
Mobility Rights
6. (1) Every citizen of Canada has the right to
enter, remain in, and leave Canada.
(2) Every citizen of Canada and every person
who has the status of a permanent resident of Canada has the
right
(a) to move to and take up residence in any
province; and
(b) to pursue the gaining of livelihood in any
province.
(3) The rights specified in subsection (2) are
subject to
(a) any laws or practices of general
application in force in a province other than those that
discriminate among persons primarily on the basis of present
or previous residence; and
(b) any laws providing for reasonable
residency requirements as a qualification for the receipt of
publicly provided social services.
(4) Subsections (2) and (3) do not preclude any
law, program or activity that has as its object the amelioration
in a province of conditions of individuals in that province who
are socially or economically disadvantaged if the rate of
employment in that province is below the rate of employment
in Canada.
5. Dalle pari opportunità alla tutela delle diversità: il nuovo
nome dell’uguaglianza.
CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA
(2000)
ART. 22 DIVERSITA’ CULTURALE, RELIGIOSA E LINGUISTICA
L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica.
5. La legislazione antidiscriminatoria ha acquisito nel corso
degli anni un rilievo sempre crescente negli ordinamenti
giuridici contemporanei, come riflesso degli indirizzi politici
prevalenti, volti sia a garantire la valorizzazione delle diversità
sociali e di identità sia a “rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”
(art. 3 comma 2° Cost. It.).
Lo sviluppo della legislazione antidiscriminatoria è stato
anche favorito dall’intervento del legislatore comunitario e
della Corte di Giustizia, ponendo specifici problemi di
armonizzazione della disciplina normativa in materia.
L’ordinamento federale degli Stati Uniti viene considerato
come il sistema originario che ha generato l’intervento
normativo antidiscriminatorio, anche sotto la specifica forma
dell’azione positiva (affirmative action), e che, con il
contributo di una rilevante giurisprudenza, ha provveduto
altresì a delinearne profili e limiti costitutivi.
Sent. 16 dicembre 1968, n. 126
La Corte Costituzionale ha pronunciato la seguente
Sentenza
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 559 del
Codice penale, promossi con le seguenti ordinanze: […]
Considerato in diritto […]
3. - Con la sentenza n. 64 del 23 novembre 1961, questa Corte
ha dichiarato non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 559, primo comma, del codice penale,
in riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione. L'ordinanza
del Tribunale di Ascoli Piceno prima, e le altre
successivamente hanno riproposto la questione ulteriormente
argomentando e sostenendo che, negli ultimi anni, è
sostanzialmente mutata in materia la coscienza collettiva. Di
conseguenza sarebbe necessario accertare se nell'attuale
momento storico sociale continui a sussistere oppur no quella
diversità obbiettiva di situazione che nella precedente
sentenza la Corte ritenne di riscontrare sì da giustificare il
differente
trattamento,
fatto
dal
legislatore
penale
all'adulterio della moglie rispetto a quello del marito.
La Corte ritiene che la questione meriti di essere riesaminata.
4. - Il principio che il marito possa violare impunemente
l'obbligo della fedeltà coniugale, mentre la moglie debba
essere punita - più o meno severamente - rimonta ai tempi
remoti nei quali la donna, considerata perfino giuridicamente
incapace e privata di molti diritti, si trovava in stato di
soggezione alla potestà maritale. Da allora molto è mutato
nella vita sociale: la donna ha acquistato pienezza di diritti e
la sua partecipazione alla vita economica e sociale della
famiglia e della intera collettività è diventata molto più
intensa, fino a raggiungere piena parità con l'uomo; mentre il
trattamento differenziato in tema di adulterio è rimasto
immutato, nonostante che in alcuni stati di avanzata civiltà
sia prevalso il principio della non ingerenza del legislatore
nella
delicata
materia.
5. - Non appare molto appropriato il riferimento fatto dalle
ordinanze di rimessione all'art. 3 della Costituzione per il
quale tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali
di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di
lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e simili. Questa norma, che tende ad escludere
privilegi e disposizioni discriminatorie tra i cittadini, prende in
considerazione l'uomo e la donna come soggetti singoli, che,
nei rapporti sociali, godono di eguali diritti ed eguali doveri.
Essa tutela la sfera giuridica della donna ponendola in
condizioni di perfetta eguaglianza con l'uomo rispetto ai diritti
di libertà, alla immissione nella vita pubblica, alla
partecipazione alla vita economica ed ai rapporti di lavoro,
ecc. E la differenza di sesso è richiamata nel detto articolo
con riferimento ai diritti e doveri dei cittadini nella vita
sociale, e non anche con riferimento ai rapporti di famiglia.
6. - I rapporti fra coniugi sono disciplinati invece dall'art. 29
della Costituzione, che riconosce i diritti della famiglia come
società naturale fondata sul matrimonio, afferma l'eguaglianza
morale e giuridica dei coniugi e dispone che questa
eguaglianza possa subire limitazioni soltanto a garanzia
dell'unita familiare. Nel sancire dunque sia l'eguaglianza fra
coniugi, sia l'unità familiare, la Costituzione proclama la
prevalenza dell'unità sul principio di eguaglianza, ma solo se e
quando un trattamento di parità tra i coniugi la ponga in
pericolo.
Come è stato precisato nella precedente giurisprudenza di
questa Corte, non vi è dubbio che, fra i limiti al principio di
eguaglianza, siano da annoverare quelli che riguardano le
esigenze di organizzazione della famiglia, e che, senza creare
alcuna inferiorità a carico della moglie, fanno tuttora del
marito, per taluni aspetti, il punto di convergenza dell'unità
familiare, e della posizione della famiglia nella vita sociale.
Ciò indubbiamente autorizza il legislatore ad adottare, a
garanzia dell'unità familiare, talune misure di difesa contro
influenze
negative
e
disgregatrici.
Queste considerazioni tuttavia non spiegano né giustificano la
discriminazione sanzionata dalla norma impugnata.
È questione di politica legislativa quella relativa alla punibilità
dell'adulterio. Ma, poiché la discriminazione fatta in proposito
dall'attuale legge penale viola il principio di eguaglianza fra
coniugi il quale rimane pur sempre la regola generale occorre
esaminare se essa sia essenziale alla unità familiare. Infatti
solo in tal caso sarebbe ammissibile il sacrificio di quel
principio di base nel nostro ordinamento.
Ritiene la Corte, alla stregua dell'attuale realtà sociale, che la
discriminazione, lungi dall'essere utile, è di grave nocumento
alla concordia ed alla unità della famiglia. La legge, non
attribuendo rilevanza all'adulterio del marito e punendo invece
quello della moglie, pone in stato di inferiorità quest'ultima, la
quale viene lesa nella sua dignità, è costretta a sopportare
l'infedeltà e l'ingiuria, e non ha alcuna tutela in sede penale.
Per l'unità familiare costituisce indubbiamente un pericolo
l'adulterio del marito e della moglie, ma, quando la legge
faccia un differente trattamento, questo pericolo assume
proporzioni più gravi, sia per i riflessi sul comportamento di
entrambi i coniugi, sia per le conseguenze psicologiche sui
soggetti.
La Corte ritiene pertanto che la discriminazione sancita dal
primo comma dell'art. 559 del codice penale non garantisca
l'unità familiare, ma sia più che altro un privilegio assicurato
al marito; e, come tutti i privilegi, violi il principio di parità. È
chiaro che, il riconoscimento della illegittimità del primo
comma investe anche il secondo comma dell'art. 559 del
codice penale, per il quale è punito il correo della moglie
adultera.
Per questi motivi la Corte Costituzionale
dichiara l'illegittimità costituzionale del primo e del secondo
comma
dell'art.
559
del
codice
penale.
Così deciso in Roma, in Camera di Consiglio, nella sede della
Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1
968.
SENTENZA N. 163 del 1993
La Corte Costituzionale ha pronunciato la seguente Sentenza
Considerato in diritto
l.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe il pretore di Trento ha
sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4
della legge provinciale 15 febbraio 1980, n. 3 (Norme
concernenti il trasferimento alla Provincia autonoma di Trento
del personale della Regione Trentino-Alto Adige addetto agli
uffici dell'ispettorato provinciale del servizio antincendi e di
quello appartenente al corpo permanente dei Vigili del Fuoco
di Trento e altre disposizioni riguardanti il personale
provinciale), il quale ha modificato la legge provinciale 23
agosto 1963, n. 8, aggiungendovi, come art. 56-bis, l'insieme
delle disposizioni contenute nello stesso art. 4.
Secondo il giudice rimettente, l'articolo impugnato, nel
prevedere, fra i requisiti particolari per l'accesso alle carriere
direttive e di concetto del ruolo tecnico del servizio
antincendi, la condizione che i candidati, siano essi
indifferentemente uomo o donna, abbiano una statura non
inferiore a metri 1,65, si porrebbe in contrasto con l'art. 3
della Costituzione, primo e secondo comma, e l'art. 37, primo
comma, della Costituzione, nonché con gli artt. 4 e 8 del
D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Statuto speciale per il TrentinoAlto Adige) (competenze legislative e amministrative in
materia di personale dei propri uffici, attribuite in via
esclusiva alle Province autonome), in connessione con l'art. 1
della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra
uomini e donne in materia di lavoro) e con l'art. 4 della legge
10 aprile 1991, n. 125, primo e secondo comma (Azioni
positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel
lavoro). […]
[Art. 37. La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di
lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.
Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della
sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al
bambino una speciale adeguata protezione.
La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro
salariato.
La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e
garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di
retribuzione.]
3.- La questione è fondata.
L'art. 3, primo comma, della Costituzione pone un principio
avente un valore fondante, e perciò inviolabile, diretto a
garantire l'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e
a vietare che il sesso - al pari della razza, della lingua, della
religione, delle opinioni politiche e delle condizioni personali e
sociali - costituisca fonte di qualsivoglia discriminazione nel
trattamento giuridico delle persone. Il secondo comma dello
stesso art. 3 della Costituzione - oltre a stabilire un autonomo
principio di eguaglianza "sostanziale" e di parità delle
opportunità fra tutti i cittadini nella vita sociale, economica e
politica - esprime un criterio interpretativo che si riflette
anche sulla latitudine e sull'attuazione da dare al principio di
eguaglianza "formale", nel senso che ne qualifica la garanzia
in relazione ai risultati effettivi prodotti o producibili nei
concreti rapporti della vita, grazie al primario imperativo
costituzionale di rimuovere i limiti "di fatto" all'eguaglianza (e
alla libertà) e di perseguire l'obiettivo finale della "piena"
autodeterminazione della persona e quello della "effettiva"
partecipazione alla vita comunitaria.
Il principio di eguaglianza - con il conseguente divieto di
discriminazione, diretta o indiretta, in base al sesso - ha una
generale applicazione nei rapporti della vita, considerati nella
loro concreta conformazione. La Costituzione, comunque,
conferisce uno specifico risalto a determinate applicazioni di
quel principio in ordine alle relazioni sociali ritenute più
significative. Con riferimento ai rapporti di lavoro, l'art. 37
della Costituzione ribadisce il principio di parità di
trattamento fra uomo e donna. Inoltre, l'art. 51 della
Costituzione sottolinea lo stesso principio in relazione
all'accesso agli uffici pubblici. Ma, una volta riconosciuto il
diritto alla parità di trattamento fra uomo e donna, la stessa
Costituzione prevede, all'art. 37, che il legislatore, nel dare
attuazione a quel diritto, sia tenuto a bilanciarlo con altri
valori costituzionali e, in particolare, con quelli connessi alle
norme che tutelano la maternità e i "diritti della famiglia", in
modo che sia assicurato alla donna il diritto-dovere di
adempiere alla sua essenziale funzione familiare (v. sent. n.
210 del 1986, sent. n. 137 del 1986 e sent. n. 123 del 1969).
In definitiva, fermo restando il particolare ruolo sociale della
donna in riferimento ai valori costituzionali positivamente
collegati a quel ruolo (maternità, famiglia, etc.), dall'insieme
dei
principi
appena
ricordati
deriva
il
divieto
significativamente enunciato in termini analoghi anche in
ambito europeo (v. artt. 2 e 3 della direttiva n. 76/207/CEE 9
febbraio 1976) - volto a impedire qualsiasi discriminazione
basata sul sesso in relazione alle condizioni di accesso nel
posto di lavoro e, in particolare, nei pubblici uffici.
4.- Il principio di eguaglianza comporta che a una categoria di
persone, definita secondo caratteristiche identiche o
ragionevolmente omogenee in relazione al fine obiettivo cui è
indirizzata la disciplina normativa considerata, deve essere
imputato un trattamento giuridico identico od omogeneo,
ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali
in ragione delle quali è stata definita quella determinata
categoria di persone. Al contrario, ove i soggetti considerati
da una certa norma, diretta a disciplinare una determinata
fattispecie, diano luogo a una classe di persone dotate di
caratteristiche non omogenee rispetto al fine obiettivo
perseguito con il trattamento giuridico ad essi riservato,
quest'ultimo sarà conforme al principio di eguaglianza
soltanto nel caso che risulti ragionevolmente differenziato in
relazione
alle
distinte
caratteristiche
proprie
delle
sottocategorie di persone che quella classe compongono.
In breve, il principio di eguaglianza pone al giudice di
costituzionalità l'esigenza di verificare che non sussista
violazione di alcuno dei seguenti criteri:
a) la correttezza della classificazione operata dal legislatore
in relazione ai soggetti considerati, tenuto conto della
disciplina normativa apprestata;
b) la previsione da parte dello stesso legislatore di un
trattamento
giuridico
omogeneo,
ragionevolmente
commisurato alle caratteristiche essenziali della classe (o
delle classi) di persone cui quel trattamento è riferito;
c) la proporzionalità del trattamento giuridico previsto rispetto
alla classificazione operata dal legislatore, tenendo conto del
fine obiettivo insito nella disciplina normativa considerata:
proporzionalità che va esaminata in relazione agli effetti
pratici prodotti o producibili nei concreti rapporti della vita.
5.- La disposizione contestata si inserisce in un articolo di
legge (provinciale) diretto a stabilire i requisiti particolari per
l'accesso alle carriere direttiva e di concetto del ruolo tecnico
del servizio antincendi della Provincia autonoma di Trento. Più
precisamente, essa è specificamente rivolta a prevedere
come criterio di selezione nel relativo concorso pubblico il
possesso da parte dei candidati - tanto se di sesso maschile,
quanto se di sesso femminile - di una determinata statura
minima (pari a metri 1,65). La previsione di tale requisito fisico
non è contestata in sé, in ragione del fatto che il personale
considerato, pur se è destinato a svolgere normalmente
funzioni direttive o impiegatizie, può tuttavia essere adibito, in
determinate circostanze, anche a compiti operativi, compiti
che, per le caratteristiche delle attività di cui constano,
esigono nei soggetti chiamati ad espletarli una certa
prestanza fisica. Ciò che si contesta, invece, è che la
previsione di una statura minima identica per gli uomini e per
le donne costituirebbe un'irragionevole sottoposizione a un
trattamento giuridico uniforme di categorie di persone
caratterizzate, in base ai dati desumibili da una media
statistica, da stature differenti. Con la conseguenza che le
candidate al concorso pubblico precedentemente ricordato
sarebbero penalizzate in ragione del sesso, dovendo subire, in
conseguenza della disposizione contestata, quella che l'art. 4,
secondo comma, della legge n. 125 del 1991 definisce una
"discriminazione indiretta".
La fondatezza della doglianza deriva dalla corretta
applicazione al caso di specie dei criteri di giudizio, indicati al
punto precedente, riconducibili al principio di eguaglianza. Nel
condizionare la partecipazione al concorso pubblico sopra
detto al possesso del requisito fisico di una determinata
statura minima, identica per gli uomini e per le donne, il
legislatore provinciale ha individuato come destinataria del
precetto normativo contestato una generalità di cittadini,
senza distinguere all'interno della categoria le persone di
sesso femminile da quelle di sesso maschile. Tale
classificazione risponde evidentemente a una valutazione
legislativa che è basata su un presupposto di fatto erroneo,
vale a dire l'insussistenza di una statura fisica mediamente
differenziata tra uomo e donna, ovvero è fondata su una
valutazione altrettanto erronea, concernente la supposta
irrilevanza, ai fini del trattamento giuridico (uniforme)
previsto, della differenza di statura fisica ipoteticamente
ritenuta come sussistente nella realtà naturale.
Nel primo caso, la violazione del principio di eguaglianza,
stabilito dall'art. 3, primo comma, della Costituzione, è
indubitabile, per aver il legislatore classificato una categoria
di persone in relazione a caratteristiche fisiche non
rispondenti all'ordine naturale, avuto presente che il fine
obiettivo della disciplina normativa in esame è quello di
selezionare l'accesso al posto di lavoro sulla base di criteri
attinenti alla statura fisica.
Non meno evidente è la violazione dello stesso principio
costituzionale nel secondo caso: in quest'ultima ipotesi,
infatti, l'aver previsto un requisito fisico identico per l'uno e
per l'altro sesso sul presupposto della irrilevanza, ai fini
dell'accesso al posto di lavoro, della diversità di statura fisica
tra l'uomo e la donna - mediamente consistente, come risulta
da
rilevazioni
antropometriche,
in
una
differenza
considerevole a sfavore delle persone di sesso femminile comporta la produzione sistematica di effetti concreti
proporzionalmente più svantaggiosi per i candidati di sesso
femminile, proprio in ragione del loro sesso. In altri termini,
l'adozione di un trattamento giuri dico uniforme - cioè la
previsione di un requisito fisico per l'accesso al posto di
lavoro, che è identico per gli uomini e per le donne, - è causa
di una "discriminazione indiretta" a sfavore delle persone di
sesso femminile, poiché svantaggia queste ultime in modo
proporzionalmente
maggiore
rispetto
agli
uomini,
in
considerazione di una differenza fisica statisticamente
riscontrabile e obiettivamente dipendente dal sesso.
6.- La violazione, da parte della disposizione di legge
contestata, del principio costituzionale di eguaglianza rende
superfluo l'esame della compatibilità della stessa disposizione
in riferimento agli altri parametri invocati dal giudice "a quo".
Allo stesso modo è superfluo prendere in considerazione la
direttiva della Comunità Economica Europea n. 76/207/CEE,
precedentemente citata, per il fatto che, limitatamente agli
articoli rilevanti per la fattispecie ora esaminata (artt. 2 e 3),
la direttiva in questione, per un verso, pone un principio
analogo a quello contenuto negli artt. 3, 37 e 51 della
Costituzione (v. artt. 2, primo comma; 3, primo comma) e, per
altro verso, stabilisce indirizzi rivolti agli Stati membri
affinché questi ultimi, nell'adozione della disciplina normativa
nazionale conseguente, si conformino al principio sopra
enunciato (v. artt. 2, secondo, terzo e quarto comma; 3,
secondo comma).
Per questi motivi
La Corte Costituzionale
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, n. 2, della
legge provinciale 15 febbraio 1980, n. 3 della Provincia
autonoma di Trento (Norme concernenti il trasferimento alla
Provincia autonoma di Trento del personale della Regione
Trentino-Alto Adige addetto agli uffici dell'ispettorato
provinciale del servizio antincendi e di quello appartenente al
corpo permanente dei vigili del fuoco di Trento e altre
disposizioni riguardanti il personale provinciale), nella parte in
cui prevede, tra i requisiti per l'accesso alle carriere direttive
e di concetto del ruolo tecnico del servizio antincendi della
Provincia di Trento, il possesso di una statura fisica minima
indifferenziata per uomini e donne.
SENTENZA N. 109 del 1993
La Corte Costituzionale la pronunciato la seguente Sentenza
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 6, 8 e
12 della legge 25 febbraio 1992, n. 215 (Azioni positive per
l'imprenditoria femminile), promossi con ricorsi della Provincia
autonoma di Trento e della Regione Lombardia, notificati il 6
aprile 1992, depositati in cancelleria il 13 successivo ed
iscritti ai nn. 45 e 46 del registro ricorsi 1992. […]
Considerato in diritto
2.- Una prima censura riguarda gli artt. 2, 4 e 8 della legge n.
215 del 1992, i quali determinano, rispettivamente, i soggetti
che possono accedere ai benefici disposti dalla predetta legge
(art. 2) e le agevolazioni previste al fine di incentivare la
promozione di nuove imprenditorialità femminili e di
permettere l'acquisizione di servizi reali da parte dei soggetti
precedentemente indicati (artt. 4 e 8). […]
Le questioni non sono fondate.
Al fine di decidere i dubbi di costituzionalità sollevati nei
confronti degli artt. 2, 4 e 8 della legge impugnata, occorre
prima precisare in cosa consistono le "azioni positive" a
favore delle donne nel campo imprenditoriale.
2.l.- Ai sensi dell'art. 1, secondo comma, della legge n. 215 del
1992,
le
disposizioni
contenute
nell'atto
contestato
perseguono le seguenti finalità:
a) favorire la creazione e lo sviluppo dell'imprenditoria
femminile, anche in forma cooperativa;
b) promuovere la formazione imprenditoriale e qualificare la
professionalità delle donne imprenditrici;
c) agevolare l'accesso al credito per le imprese a conduzione
o a prevalente partecipazione femminile;
d) favorire la qualificazione imprenditoriale e la gestione delle
imprese familiari da parte delle donne;
e) promuovere la presenza delle imprese a conduzione o a
prevalente partecipazione femminile nei comparti più
innovativi dei diversi settori produttivi.
In vista della realizzazione di tali fini, l'impugnato art. 2
individua, quali soggetti che possono accedere ai benefici
indicati in altre disposizioni della stessa legge, le società
cooperative e di persone costituite in misura non inferiore al
sessanta per cento da donne, le società di capitali le cui
quote di partecipazione appartengano in misura non inferiore
ai due terzi a donne e i cui organi di amministrazione siano
costituiti per almeno i due terzi da donne, le imprese
individuali gestite da donne operanti nei settori dell'industria,
dell'artigianato, dell'agricoltura, del commercio, del turismo e
dei servizi (lettera a). Lo stesso articolo, alla lettera b),
aggiunge che ai medesimi benefici possono accedere le
imprese o i loro consorzi, le associazioni, gli enti, le società di
promozione imprenditoriale, anche a capitale misto pubblico e
privato, i centri di formazione imprenditoriale o eroganti
servizi di consulenza e di assistenza tecnica e manageriale
riservati, per una quota non inferiore al settanta per cento, a
donne.
In relazione alle distinte categorie di soggetti indicati nelle
due lettere dell'art. 2, l'art. 4 determina, poi, le agevolazioni di
cui quei soggetti possono beneficiare. Le società e le imprese
indicati nella lettera a), sempreché siano costituite dopo
l'entrata in vigore della legge n. 215 del 1992, possono
usufruire di contributi in conto capitale fino al cinquanta per
cento delle spese per impianti e attrezzature sostenute per
l'avvio dell'impresa ovvero per l'acquisto di attività
commerciali e turistiche o di attività nel settore dell'industria,
dell'artigianato, del commercio o dei servizi, nonché per i
progetti aziendali connessi all'introduzione di qualificazione e
di innovazione attinenti ai prodotti, alle tecnologie o
all'organizzazione. Inoltre, gli stessi soggetti ora considerati
possono beneficiare di contributi fino al trenta per cento delle
spese sostenute per l'acquisizione di servizi destinati
all'aumento della produttività, all'innovazione organizzativa, al
trasferimento delle tecnologie, alla ricerca di nuovi mercati
per il collocamento dei prodotti, all'acquisizione di nuove
tecniche di produzione, di gestione e di commercializzazione,
nonché per lo sviluppo di sistemi di qualità.
I soggetti indicati nell'art. 2, lettera b), possono usufruire, a
norma dell'art. 4, terzo comma, di contributi fino al cinquanta
per cento delle spese sostenute per le attività descritte dallo
stesso art. 2.
Infine, l'art. 8 dispone che ai soggetti indicati nell'art. 2,
lettera a), possono essere concessi finanziamenti agevolati, di
importo non superiore a trecento milioni e di durata non
superiore a cinque anni, ad un tasso di interesse pari al
cinquanta per cento del tasso di riferimento in vigore per il
settore cui appartiene l'impresa beneficiaria.
2.2.- Dalla descrizione ora compiuta si desume che le
disposizioni impugnate prevedono incentivazioni finanziarie a
favore di imprese a prevalente partecipazione femminile
ovvero a favore di istituzioni volte a promuovere
l'imprenditorialità femminile, al chiaro scopo di agevolarne lo
sviluppo, con riferimento ai momenti più importanti del ciclo
produttivo, nei vari settori merceologici in cui operano. Si
tratta, più precisamente, di interventi di carattere positivo
diretti a colmare o, comunque, ad attenuare un evidente
squilibrio a sfavore delle donne, che, a causa di
discriminazioni accumulatesi nel corso della storia passata
per il dominio di determinati comportamenti sociali e modelli
culturali, ha portato a favorire le persone di sesso maschile
nell'occupazione delle posizioni di imprenditore o di dirigente
d'azienda.
In altri termini, le finalità perseguite dalle disposizioni
impugnate
sono
svolgimento
immediato
del
dovere
fondamentale - che l'art. 3, secondo comma, della
Costituzione assegna alla Repubblica - di "rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto
la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di
tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e
sociale del Paese". Le "azioni positive", infatti, sono il più
potente strumento a disposizione del legislatore, che, nel
rispetto della libertà e dell'autonomia dei singoli individui,
tende a innalzare la soglia di partenza per le singole categorie
di persone socialmente svantaggiate - fondamentalmente
quelle riconducibili ai divieti di discriminazione espressi nel
primo comma dello stesso art. 3 (sesso, razza, lingua,
religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali) - al
fine di assicurare alle categorie medesime uno statuto
effettivo di pari opportunità di inserimento sociale, economico
e politico.
Nel caso di specie, le "azioni positive" disciplinate dalle
disposizioni impugnate sono dirette a superare il rischio che
diversità di carattere naturale o biologico si trasformino
arbitrariamente in discriminazioni di destino sociale. A tal fine
è prevista, in relazione a un settore di attività caratterizzato
da una composizione personale che rivela un manifesto
squilibrio a danno dei soggetti di sesso femminile, l'adozione
di un trattamento di favore nei confronti di una categoria di
persone, le donne, che, sulla base di una non irragionevole
valutazione operata dal legislatore, hanno subìto in passato
discriminazioni di ordine sociale e culturale e, tuttora, sono
soggette al pericolo di analoghe discriminazioni.
Trattandosi di misure dirette a trasformare una situazione di
effettiva disparità di condizioni in una connotata da una
sostanziale parità di opportunità, le "azioni positive"
comportano l'adozione di discipline giuridiche differenziate a
favore delle categorie sociali svantaggiate, anche in deroga al
generale principio di formale parità di trattamento, stabilito
nell'art. 3, primo comma, della Costituzione. Ma tali
differenziazioni, proprio perché presuppongono l'esistenza
storica di discriminazioni attinenti al ruolo sociale di
determinate categorie di persone e proprio perché sono
dirette a superare discriminazioni afferenti a condizioni
personali (sesso) in ragione della garanzia effettiva del valore
costituzionale primario della "pari dignità sociale", esigono
che la loro attuazione non possa subire difformità o deroghe in
relazione alle diverse aree geografiche e politiche del Paese.
Per questi motivi La Corte Costituzionale riuniti i giudizi […]
- dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
]…]
SENTENZA N. 233 ANNO 1994
La Corte Costituzionale ha pronunciato la seguente Sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale della delibera
legislativa riapprovata il 24 settembre 1993 dal Consiglio
regionale del Trentino-Alto Adige, avente per oggetto:
"Modifiche ed integrazioni al t.u. delle leggi regionali per
l'elezione del Consiglio regionale, approvato con decreto del
Presidente della Giunta regionale 29 gennaio 1987, n. 2/L, al
fine di consentire la rappresentanza delle popolazioni ladine
della Provincia di Trento nel Consiglio regionale e
provinciale", promosso con ricorso del Presidente del
Consiglio dei ministri, notificato il 14 ottobre 1993, depositato
in cancelleria il 25 successivo ed iscritto al n. 61 del registro
ricorsi 1993.
Visto l'atto di costituzione della Regione Trentino-Alto Adige;
udito nell'udienza pubblica del 12 aprile 1994 il Giudice
relatore Fernando Santosuosso;
uditi l'Avvocato dello Stato Antonio Bruno, per il ricorrente, e
l'avv.
Giandomenico Falcon per la Regione.
Considerato in diritto
1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto ricorso,
in riferimento agli artt. 62 e 102 dello Statuto del Trentino Alto Adige (d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670), della delibera
legislativa riapprovata dal Consiglio regionale del Trentino Alto Adige in data 24 settembre 1993, contenente "Modifiche
ed integrazioni al t.u. delle leggi regionali per l'elezione del
Consiglio regionale, approvato con decreto del Presidente
della Giunta regionale 29 gennaio 1987, n.2/L, al fine di
consentire la rappresentanza delle popolazioni ladine della
provincia di Trento nel Consiglio regionale e provinciale". Per
conseguire questo fine, il sistema che la legge impugnata
intende introdurre prevede, tra l'altro, che il candidato con la
più alta cifra individuale di preferenze ottenute nel
comprensorio ladino della Val di Fassa "prende il posto del
candidato che, sulla base della graduatoria delle cifre
individuali, dovrebbe essere l'ultimo degli eletti della lista".
[…]
3. - Prima di passare ad esaminare il problema specifico sul
quale si appunta la presente questione, occorre premettere, ai
fini di una sua migliore comprensione, un breve cenno sulla
realtà storico-sociale cui si riferisce la normativa oggetto del
ricorso.
La minoranza linguistica che la proposta di legge in esame
mira a garantire fa parte della comunità ladino-dolomitica
(comprendente le popolazioni che abitano le valli che si
dipartono dal massiccio del Sella), a sua volta componente
della più ampia entità della c.d. Grande Ladinia, che
comprende altresì i reto-romanci residenti nelle valli dei
Grigioni in Svizzera ed i friulani della omonima regione
italiana.
L'origine di tale entità suol farsi risalire all'epoca in cui le
legioni romane assoggettarono le zone nordiche sino al
Danubio, dando luogo al processo di romanizzazione delle
popolazioni residenti nell'arco alpino, mentre il momento
storico in cui risulta esistente una realtà "ladina" concepita
come tale viene rinvenuto nella costituzione del Vescovado di
Bressanone, nell'anno 1027.
Attualmente la comunità ladino-dolomitica é frazionata, sul
piano amministrativo, in tre parti: una, residente nelle valli
Gardena e Badia, fa capo alla Provincia di Bolzano; l'altra,
stanziata nelle valli di Livinallongo ed Ampezzo, fa capo alla
Regione Veneto (ed alla provincia di Belluno); la terza, infine,
residente nella valle di Fassa, rientra nel territorio
amministrativo della provincia di Trento.
Questa separazione amministrativa, perseguita in un certo
periodo con probabili intenti assimilatori e successivamente
mantenuta nonostante reiterate richieste contrarie, ha forse
comportato una riduzione del senso di appartenenza di tali
popolazioni ad una medesima comunità (con riflessi
sull'aspetto linguistico- culturale), non riuscendo tuttavia a far
venir meno i motivi di collegamento tra i suoi vari segmenti,
che aspirano ad un recupero e ad un riconoscimento della loro
dimensione comune.
4. - In ordine al nucleo centrale del problema giuridico
costituzionale del presente giudizio, va ricordato ancora come
soltanto il segmento del gruppo linguistico ladino che risiede
nella provincia di Bolzano ha ottenuto, in sede di approvazione
dello Statuto regionale, una ulteriore particolare tutela,
stabilendosi (art. 62) che in seno al Consiglio di quella
Provincia
deve
essere
in
ogni
caso
garantita
la
rappresentanza di detto gruppo linguistico; e poiché i
consiglieri delle province di Trento e Bolzano sono gli stessi
che compongono il Consiglio regionale (art. 84 dello Statuto),
il consigliere di lingua ladina finisce per rappresentare di fatto
in quest'ultimo Consiglio la minoranza ladina residente nella
Regione.
Non é questa la sede per analizzare la citata norma, né
ipotizzare i motivi (numerici, di rapporti con altre minoranze, o
di altre ragioni socio-politiche) che hanno indotto il legislatore
statutario a garantire la rappresentanza del gruppo
unicamente per la provincia di Bolzano, sia pure con la
conseguenziale inclusione di un rappresentante ladino nel
Consiglio regionale.
Certo é che per gli appartenenti alla minoranza ladina
residenti nella provincia di Trento lo Statuto prevede, in forma
specifica, solo le garanzie indicate nell'art. 102, e
precisamente quelle di cui al primo comma, relative a tutte le
popolazioni ladine ("valorizzazione delle proprie iniziative ed
attività culturali, di stampa, ricreative, nonché al rispetto
della toponomastica e delle tradizioni delle popolazioni
stesse"), e quelle, di cui al secondo comma, riguardanti più in
particolare le popolazioni ladine residenti nella provincia di
Trento ("nelle scuole dei comuni della provincia di Trento ove
é parlato il ladino é garantito l'insegnamento della lingua e
della cultura ladina").
5. - Va tuttavia segnalato come, successivamente alla
revisione dello Statuto operata nel 1971, é andata via via
crescendo l'attenzione ad una maggiore tutela del segmento
del gruppo ladino residente in detta provincia, sia per quanto
riguarda gli aspetti più propriamente linguistico-culturali, sia
per ciò che attiene specificamente l'esigenza di una
rappresentanza all'interno degli organi politico-amministrativi.
Per il primo aspetto, va segnalata anzitutto l'istituzione
(mediante la legge provinciale 16 giugno 1977, n. 16) di un
apposito Comprensorio della Valle di Fassa, il cui Statuto
prevede tra le proprie finalità "lo sviluppo e l'attuazione della
civiltà ladina"; in secondo luogo, l'istituzione, sempre con
legge provinciale (14 agosto 1975, n. 29) dell'Istituto culturale
ladino, avente come scopo la conservazione, la difesa e la
valorizzazione della cultura, tradizione e parlata della civiltà
ladina nel Trentino. Accanto alla normativa provinciale, va
segnalata l'evoluzione della normativa di attuazione dello
Statuto speciale, di cui sono espressione -in particolare- l'art.
14 del d.P.R.15 luglio 1988, n. 405, con cui viene disciplinato
l'insegnamento della lingua e della cultura ladina nelle scuole
elementari e secondarie dei comuni della provincia di Trento
ove é parlato il ladino; e il recente decreto legislativo 16
dicembre 1993, n.592, che riconosce il diritto delle popolazioni
ladine della provincia di Trento ad usare la propria lingua,
oltre a prevedere altre misure relative alle scuole ed agli uffici
pubblici situati nella valle di Fassa.
Per quanto riguarda il secondo versante, quello che qui più da
vicino interessa, va rilevato come, fin dalla VII legislatura, sia
stata presentata una proposta di legge (di natura
costituzionale) tendente a modificare lo Statuto al fine di
garantire anche al segmento della comunità ladino-dolomitica
residente nella provincia di Trento una rappresentanza in seno
al Consiglio provinciale. Tale proposta non é giunta ad
approvazione, né lo sono state le analoghe proposte
ripresentate ad ogni legislatura (da ultimo, il disegno di legge
costituzionale n. 539 presentato al Senato della Repubblica il
5 agosto 1992).
6. - La legge regionale in questa sede impugnata, "al fine di
consentire la rappresentanza delle popolazioni ladine della
provincia di Trento", dispone che i candidati i quali abbiano
reso la dichiarazione di appartenenza al gruppo linguistico
ladino sono inseriti in una graduatoria formata sulla base della
rispettiva cifra individuale, ottenuta nelle sezioni elettorali dei
comuni del Comprensorio della Valle di Fassa, stabilendosi
che, nel caso in cui nessuno di detti candidati risulti eletto, il
più votato tra essi "prende il posto del candidato che, sulla
base della graduatoria delle cifre individuali, dovrebbe essere
l'ultimo degli eletti".
Questo sistema normativo é stato fatto oggetto del presente
ricorso dal Presidente del Consiglio dei ministri per
incostituzionalità sotto i due profili sopra individuati, che sono
sinteticamente enunciabili nel senso che i limiti di tutela delle
minoranze linguistiche nella provincia di Trento - risultanti
dalle citate norme statutarie- non potevano essere superati
con una ordinaria legge regionale.
7. - Il ricorso, nonostante qualche imprecisione, risulta
fondato.
Va premesso in generale che la Regione Trentino- Alto Adige
ha poteri legislativi in materia di elezioni regionali e
provinciali (art. 25 dello Statuto), ovviamente nel rispetto dei
limiti statutari e costituzionali. Inoltre l'art. 6 della
Costituzione é stato interpretato dalla più recente
giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 242 del 1989 e
289 del 1987) nel senso di individuare in esso un interesse (la
tutela delle minoranze etnico-linguistiche) da perseguire ad
opera di una potestà legislativa concorrente, dello Stato e
delle regioni.
Nell'ottica di tale disposizione costituzionale é stato pure
affermato da questa Corte che la tutela di dette minoranze
può richiedere la predisposizione di un trattamento
specificamente differenziato (sentenza n.86 del 1975), in forza
del principio di "eguaglianza sostanziale" e della connessa
esigenza di forme di tutela positiva.
É stato, in proposito, riconosciuto di recente (sentenza n. 438
del 1993) che alle minoranze (nella specie, di lingua tedesca e
ladina) é costituzionalmente garantito anche il diritto di
esprimere in condizioni di effettiva parità la propria
rappresentanza politica. E, come si é sopra accennato, le
popolazioni ladine, di antichissima tradizione e portatrici di
preziosi valori culturali, meritano indubbiamente ampio
riconoscimento.
Va infine rilevata la tendenza, di cui é espressione la recente
legge costituzionale 23 novembre 1993, n. 2, ad estendere
l'ambito di tutela delle minoranze linguistiche anche oltre i
gruppi minoritari fino ad oggi considerati.
Ma é altrettanto evidente che tale tutela non può superare
certi limiti, dovuti ad una serie di diverse considerazioni
(anche di proporzionalità numerica) e soprattutto al
necessario contemperamento di questa esigenza con altri
valori parimenti meritevoli di tutela.
8. - Nel quadro del predetto bilanciamento di valori
costituzionalmente rilevanti si colloca il combinato disposto
degli artt. 62 e 102 dello Statuto di autonomia del TrentinoAlto Adige.
In particolare, solo a questo livello di normazione, é stato
ritenuto, non sul piano astratto dei principi ma comparando
concretamente le diverse circostanze, che il valore della
rappresentanza del gruppo linguistico ladino nel Consiglio
provinciale di Bolzano (e quindi anche in quello regionale)
dovesse essere garantito -in ipotesi- a scapito di candidati che
avessero ottenuto un maggior numero di voti, e quindi
derogando ad altri valori costituzionali, quali l'eguaglianza del
voto (artt. 3 e 48 della Costituzione e art. 25 dello Statuto).
Quest'ultimo principio fondamentale si traduce -come è notonel riconoscimento della pari efficacia di ciascun voto nella
formazione degli organi elettivi (sentenze nn. 60 del 1963 e 43
del 1961 di questa Corte).
Ora, se il menzionato art. 62, con la sua forza di fonte
costituzionale, ha potuto introdurre nell'ordinamento la tutela
di un particolare valore (della obbligatoria rappresentanza
della minoranza linguistica ladina nel Consiglio provinciale di
Bolzano) con eccezionale prevalenza sul predetto principio
generale, non appare consentito che la stessa operazione di
bilanciamento possa essere compiuta anche da parte del
legislatore regionale con l'introduzione di una ulteriore
deroga.
Né può sostenersi che una siffatta legge regionale,
nell'estendere la stessa norma di prevalenza della tutela delle
minoranze ad altri frammenti di gruppi linguistici, sia legittima
in forza della vis expansiva di un principio, già riconosciuto
per un caso simile, ancorché questo sviluppo non goda di pari
copertura costituzionale.
Ed invero la possibilità di deroga a norme costituzionali non
può realizzarsi se non mediante norme della stessa natura.
Inoltre, dal momento che queste norme - sia che si ritengano
modificative delle norme statutarie, sia che si qualifichino
meramente additive - non perdono in ogni caso la loro natura
derogatoria dei menzionati valori costituzionali generali, ne
deriva che, anche in forza del noto criterio di stretta
interpretazione delle norme eccezionali, non si possa
legittimamente sviluppare il contenuto di una disposizione
(derogatoria) di natura costituzionale mediante altre norme di
diversa forza.
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale della delibera legislativa
della Regione Trentino-Alto Adige, riapprovata il 24 settembre
1993, recante "Modifiche ed integrazioni al t.u. delle leggi
regionali per l'elezione del Consiglio regionale, approvato con
decreto del Presidente della Giunta regionale 29 gennaio
1987, n. 2/L, al fine di consentire la rappresentanza delle
popolazioni ladine della provincia di Trento nel Consiglio
regionale e provinciale".
SENTENZA N. 422 del 1995
La Corte Costituzionale ha pronunciato la seguente Sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 2,
ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione
diretta del sindaco, del presidente della provincia, del
consiglio comunale e del consiglio provinciale), promosso con
ordinanza emessa il 27 maggio 1994 dal Consiglio di Stato sul
ricorso proposto da Maio Giovanni contro il Ministero
dell'Interno ed altri, iscritta al n. 700 del registro ordinanze
1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.
49, prima serie speciale, dell'anno 1994.
Visto l'atto di costituzione di Maio Giovanni;
udito nell'udienza pubblica del 27 giugno 1995 il Giudice
relatore Mauro Ferri.
Considerato in diritto
1. -- Il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell'art. 5, comma 2, ultimo periodo, della legge
25 marzo 1993, n. 81 dal titolo "Elezione diretta del sindaco,
del presidente della provincia, del consiglio comunale e del
consiglio provinciale". La disposizione, che si riferisce
all'elezione dei consiglieri comunali nei comuni con
popolazione sino a 15.000 abitanti, recita: "Nelle liste dei
candidati nessuno dei due sessi può essere di norma
rappresentato in misura superiore a due terzi". Ad avviso del
giudice remittente detta norma contrasterebbe con gli artt. 3,
primo comma, 49 e 51, primo comma, della Costituzione.
Questa Corte, pertanto, è chiamata a decidere se la norma
che stabilisce una riserva di quote per l'uno e per l'altro sesso
nelle liste dei candidati, sia compatibile col principio di
eguaglianza enunciato nel primo comma dell'art. 3 e
confermato, per quanto riguarda specificamente l'accesso agli
uffici pubblici e alle cariche elettive, dal primo comma dell'art.
51; nonchè col diritto di tutti i cittadini, garantito dall'art. 49,
"di associarsi liberamente in partiti per concorrere con
metodo democratico a determinare la politica nazionale";
diritto di cui la presentazione delle liste dei candidati alle
elezioni costituisce essenziale estrinsecazione.
2. -- Il Consiglio di Stato si è dato carico, in primo luogo,
dell'interpretazione della norma; questione del resto posta
come unico motivo d'appello contro la sentenza del TAR della
Basilicata sul quale il giudice a quo deve pronunciarsi.
Il legislatore, nello stabilire la quota di riserva per l'uno e per
l'altro sesso nelle liste dei candidati al consiglio comunale, ha
usato la locuzione "di norma", espressione che, secondo il
giudice di primo grado, indicava il carattere solo
programmatico e d'indirizzo della disposizione. Il giudice
d'appello, invece, uniformandosi a proprie precedenti
decisioni, ritiene che essa abbia carattere precettivo, e che
tale lettura venga confermata dalla successiva modifica
legislativa intervenuta con la legge 15 ottobre 1993, n. 72.
Non vi sono motivi per discostarsi da questa interpretazione,
del resto già enunciata dall'Adunanza generale del Consiglio di
Stato.
3. -- Si può quindi passare all'esame del merito della
questione, valutando in primo luogo, congiuntamente, per la
loro intima connessione, i profili di violazione dell'art.
3, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione.
La questione è fondata.
Sostiene il giudice remittente che il principio di eguaglianza
secondo cui "tutti sono uguali davanti alla legge senza
distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali" (art. 3, primo
comma) si pone "prima di tutto come regola di irrilevanza
giuridica del sesso e delle altre diversità contemplate".
Tale regola, è a sua volta ribadita, in materia di elettorato
passivo, dall'art. 51, primo comma: "tutti i cittadini dell'uno e
dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle
cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i
requisiti stabiliti dalla legge"; eguaglianza che, secondo il
giudice remittente, non può avere significato diverso da quello
dell'indifferenza del sesso ai fini considerati.
Detta lettura del dettato costituzionale non può non essere
condivisa. Essa corrisponde infatti al significato letterale ed
esplicito della formula adottata, ed al suo collegamento con il
primo comma dell'art. 3.
Anzi, proprio con riferimento alla formulazione di questa
norma, potrebbe apparire superflua la specificazione "dell'uno
e dell'altro sesso", essendo di per sè sufficiente l'espressione
"tutti i cittadini"; ma è invece comprensibile che i costituenti - così come già nell'art. 48 avevano ribadito "sono elettori tutti
i cittadini, uomini e donne, ..." -- abbiano voluto rafforzare, in
riferimento agli uffici pubblici e alle cariche elettive, il
precetto esplicito dell'eguaglianza fra i due sessi. Va tenuto
conto del contesto storico in cui essi operavano: le leggi
vigenti escludevano le donne da buona parte degli uffici
pubblici, e l'elettorato attivo e passivo, concesso loro nel 1945
(decreto legislativo luogotenenziale 1o febbraio 1945, n. 23),
era stato per la prima volta esercitato in sede politica con la
elezione della stessa Assemblea costituente.
Anche dai lavori preparatori e dal raffronto del testo della
Carta costituzionale con quello proposto dalla commissione
dei settantacinque, si ricava che si volle sottolineare
l'eguaglianza fra i due sessi, nel significato prima ricordato,
senza possibilità di dubbi: fu aggiunta la menzione delle
cariche elettive, e fu soppresso l'inciso "conformemente alle
loro attitudini" nel timore che potesse giustificare il
mantenimento di esclusioni discriminatrici nei confronti delle
donne.
4. -- Posto dunque che l'art. 3, primo comma, e soprattutto
l'art. 51, primo comma, garantiscono l'assoluta eguaglianza
fra i due sessi nella possibilità di accedere alle cariche
pubbliche elettive, nel senso che l'appartenenza all'uno o
all'altro sesso non può mai essere assunta come requisito di
eleggibilità, ne consegue che altrettanto deve affermarsi per
quanto riguarda la "candidabilità". Infatti, la possibilità di
essere presentato candidato da coloro ai quali (siano essi
organi di partito, o gruppi di elettori) le diverse leggi elettorali,
amministrative, regionali o politiche attribuiscono la facoltà di
presentare liste di candidati o candidature singole, a seconda
dei diversi sistemi elettorali in vigore, non è che la condizione
pregiudiziale e necessaria per poter essere eletto, per
beneficiare quindi in concreto del diritto di elettorato passivo
sancito dal richiamato primo comma dell'art. 51. Viene
pertanto a porsi in contrasto con gli invocati parametri
costituzionali la norma di legge che impone nella
presentazione delle candidature alle cariche pubbliche
elettive qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei
candidati.
5. -- Tanto basta per dichiarare la illegittimità costituzionale
della norma sottoposta al giudizio di questa Corte, nondimeno
alcune ulteriori considerazioni possono chiarire ancor meglio
altri aspetti della questione.
Risulta dai lavori preparatori, che la disposizione che impone
una riserva di quota in ragione del sesso dei candidati,
seppure formulata in modo per così dire "neutro", nei confronti
sia degli uomini che delle donne, è stata proposta e votata
(dopo ampio e contrastato dibattito) con la dichiarata finalità
di assicurare alle donne una riserva di posti nelle liste dei
candidati, al fine di favorire le condizioni per un riequilibrio
della rappresentanza dei sessi nelle assemblee comunali.
Nell'intendimento del legislatore, pertanto, la norma tendeva a
configurare una sorta di azione positiva volta a favorire il
raggiungimento di una parità non soltanto formale, bensì
anche sostanziale, fra i due sessi nell'accesso alle cariche
pubbliche elettive; in tal senso essa avrebbe dovuto trarre la
sua legittimazione dal secondo comma dell'art. 3 della
Costituzione.
6. -- Non è questa la sede per soffermarsi sul dibattito
dottrinale, storico e politico che si è sviluppato intorno ai
concetti di eguaglianza formale e di eguaglianza sostanziale, e
conseguentemente al nesso che intercorre fra il primo ed il
secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.
Certamente fra le cosiddette azioni positive intese a
"rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la
effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione
politica, economica e sociale del Paese", vanno comprese
quelle misure che, in vario modo, il legislatore ha adottato per
promuovere il raggiungimento di una situazione di pari
opportunità fra i sessi: ultime tra queste quelle previste dalla
legge 10 aprile 1991, n. 125 (Azioni positive per la
realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro) e dalla legge
25 febbraio 1992, n. 215 (Azioni positive per l'imprenditoria
femminile). Ma se tali misure legislative, volutamente
diseguali, possono certamente essere adottate per eliminare
situazioni di inferiorità sociale ed economica, o, più in
generale, per compensare e rimuovere le diseguaglianze
materiali tra gli individui (quale presupposto del pieno
esercizio dei diritti fondamentali), non possono invece
incidere direttamente sul contenuto stesso di quei medesimi
diritti, rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i
cittadini in quanto tali.
In particolare, in tema di diritto all'elettorato passivo, la
regola inderogabile stabilita dallo stesso Costituente, con il
primo comma dell'art. 51, è quella dell'assoluta parità, sicchè
ogni differenziazione in ragione del sesso non può che
risultare oggettivamente discriminatoria, diminuendo per
taluni cittadini il contenuto concreto di un diritto
fondamentale in favore di altri, appartenenti ad un gruppo che
si ritiene svantaggiato.
È ancora il caso di aggiungere, come ha già avvertito parte
della dottrina nell'ampio dibattito sinora sviluppatosi in tema
di "azioni positive", che misure quali quella in esame non
appaiono affatto coerenti con le finalità indicate dal secondo
comma dell'art.3 della Costituzione, dato che esse non si
propongono di "rimuovere" gli ostacoli che impediscono alle
donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire
loro direttamente quei risultati medesimi: la ravvisata
disparità di condizioni, in breve, non viene rimossa, ma
costituisce solo il motivo che legittima una tutela
preferenziale in base al sesso. Ma proprio questo, come si è
posto in evidenza, è il tipo di risultato espressamente escluso
dal già ricordato art. 51 della Costituzione, finendo per creare
discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni
passate.
7. -- Questa Corte nel corso degli anni dal suo insediamento ad
oggi, ogni qual volta sono state sottoposte al suo esame
questioni suscettibili di pregiudicare il principio di parità fra
uomo e donna, ha operato al fine di eliminare ogni forma di
discriminazione, giudicando favorevolmente ogni misura
intesa a favorire la parità effettiva. Ma, val la pena ripetere, si
è sempre trattato di misure non direttamente incidenti sui
diritti fondamentali, ma piuttosto volte a promuovere
l'eguaglianza dei punti di partenza e a realizzare la pari dignità
sociale di tutti i cittadini, secondo i dettami della Carta
costituzionale.
C'è ancora da ricordare che misure quali quella in esame si
pongono irrimediabilmente in contrasto con i principi che
regolano la rappresentanza politica, quali si configurano in un
sistema fondato sulla democrazia pluralistica, connotato
essenziale e principio supremo della nostra Repubblica.
È
opportuno,
infine,
osservare
che
misure
siffatte,
costituzionalmente illegittime in quanto imposte per legge,
possono
invece
essere
valutate
positivamente
ove
liberamente adottate da partiti politici, associazioni o gruppi
che partecipano alle elezioni, anche con apposite previsioni
dei
rispettivi
statuti
o
regolamenti
concernenti
la
presentazione delle candidature. A risultati validi si può quindi
pervenire con un'intensa azione di crescita culturale che porti
partiti e forze politiche a riconoscere la necessità
improcrastinabile di perseguire l'effettiva presenza paritaria
delle
donne
nella
vita
pubblica,
e
nelle
cariche
rappresentative in particolare. Determinante in tal senso può
risultare il diretto impegno dell'elettorato femminile ed i suoi
conseguenti comportamenti.
Del resto, mentre la convenzione sui diritti politici delle donne,
adottata a New York il 31 marzo 1953, e la Convenzione
sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione, adottata
anch'essa a New York il 18 dicembre 1979, prevedono per le
donne il diritto di votare e di essere elette in condizioni di
parità con gli uomini, il Par lamento europeo, con la
risoluzione n. 169 del 1988, ha invitato i partiti politici a
stabilire quote di riserva per le candidature femminili; è
significativo che l'appello sia stato indirizzato ai partiti politici
e non ai governi e ai parlamenti nazionali, riconoscendo così,
in questo campo, l'impraticabilità della via di soluzioni
legislative.
Spetta invece al legislatore individuare interventi di altro tipo,
certamente possibili sotto il profilo dello sviluppo della
persona umana, per favorire l'effettivo riequilibrio fra i sessi
nel conseguimento delle cariche pubbliche elettive, dal
momento che molte misure, come si è detto, possono essere
in grado di agire sulle differenze di condizioni culturali,
economiche e sociali.
Resta comunque escluso che sui principi di eguaglianza
contenuti nell'art. 51, primo comma, possano incidere
direttamente, modificandone i caratteri essenziali, misure
dirette a raggiungere i fini previsti dal secondo comma
dell'art. 3 della Costituzione.
8. -- Va pertanto dichiarata l'illegittimità costituzionale della
norma impugnata, per violazione degli artt. 3 e 51 della
Costituzione,
restando
assorbito
l'ulteriore
profilo
d'illegittimità costituzionale sollevato in ordine all'art. 49.
In applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la
dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa all'art.7,
comma 1, ultimo periodo della stessa legge 25 marzo 1993, n.
81, che contiene l'identica prescrizione per le liste dei
candidati nei Comuni con popolazione superiore ai 15.000
abitanti. Trattandosi di disposizioni sostitutive contenenti
misure analoghe in contrasto coi principi affermati nella
odierna decisione devono parimenti essere dichiarate
costituzionalmente illegittime le nuove formulazioni degli
stessi art. 5, comma 2, ultimo periodo, e art. 7, comma 1,
ultimo periodo, introdotte dall'art. 2 della legge 15 ottobre
1993, n. 415.
Ritiene inoltre la Corte che debba esser fatta ulteriore
applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953 nei
confronti delle misure che prevedono limiti, vincoli o riserve
nelle liste dei candidati in ragione del loro sesso; misure,
introdotte nelle leggi elettorali politiche, regionali o
amministrative ivi comprese quelle contenute in leggi
regionali, la cui illegittimità costituzionale deve ritenersi
conseguenziale per la sostanziale identità dei contenuti
normativi, non potendo certamente essere lasciati spazi di
incostituzionalità (da cui discenderebbero incertezze e
contenzioso diffuso) in materia quale quella elettorale, dove la
certezza del diritto è di importanza fondamentale per il
funzionamento dello Stato democratico.
Va pertanto dichiarata l'illegittimità costituzionale anche delle
norme seguenti:
-- articolo 4, comma 2, n. 2, ultimo periodo, del d.P.R. 30 marzo
1957, n. 361 (Testo unico delle leggi recanti norme per la
elezione della Camera dei deputati), come modificato dall'art.
1, della legge 4 agosto 1993, n. 277;
-- articolo 1, comma 6, della legge 23 febbraio 1995, n. 43
(Nuove norme per la elezione dei consigli delle Regioni a
statuto ordinario);
-- articoli 41, comma 3, 42, comma 3 e 43, comma 4, ultimo
periodo, e comma 5, ultimo periodo, (corrispondenti alle
rispettive norme degli articoli 18, 19 e 20 della legge regionale
Trentino-Alto Adige 30 novembre 1994, n. 3) del Decreto del
Presidente della Giunta Regionale del Trentino-Alto Adige 13
gennaio 1995, n. 1/L (Testo unico delle leggi regionali sulla
composizione ed elezione degli organi delle amministrazioni
comunali);
-- articolo 6, comma 1, ultimo periodo, della legge regionale
Friuli-Venezia Giulia 9 marzo 1995, n. 14 (Norme per le elezioni
comunali nel territorio della Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia, nonchè modificazioni alla legge regionale 12 settembre
1991, n. 49);
-- articolo 32, commi 3 e 4, della legge regionale Valle d'Aosta
9 febbraio 1995, n. 4 (Elezione diretta del sindaco, del vice
sindaco e del consiglio comunale).
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, comma 2,
ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione
diretta del sindaco, del presidente della provincia, del
consiglio comunale e del consiglio provinciale);
dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
l'illegittimità costituzionale delle seguenti disposizioni:
-- art. 7, comma 1, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993,
n. 81;
-- art. 2 della legge 15 ottobre 1993, n. 415 (Modifiche ed
integrazioni alla legge 25 marzo 1993, n. 81);
-- art. 4, comma 2, n. 2, ultimo periodo, del d.P.R. 30 marzo
1957, n. 361, come modificato dall'art. 1, della legge 4 agosto
1993, n. 277, (Testo unico delle leggi recanti norme per la
elezione della Camera dei deputati);
-- art. 1, comma 6, della legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove
norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto
ordinario);
-- artt. 41, comma 3, 42, comma 3 e 43, comma 4, ultimo
periodo, e comma 5, ultimo periodo (corrispondenti alle
rispettive norme degli articoli 18, 19 e 20 della legge regionale
Trentino-Alto Adige 30 novembre 1994, n. 3) del Decreto del
Presidente della Giunta regionale del Trentino-Alto Adige 13
gennaio 1995, n. 1/L (Testo unico delle leggi regionali sulla
composizione ed elezione degli organi delle amministrazioni
comunali);
-- art. 6, comma 1, ultimo periodo, della legge regionale FriuliVenezia Giulia 9 marzo 1995, n. 14 (Norme per le elezioni
comunali nel territorio della Regione Autonoma Friuli- Venezia
Giulia, nonchè modificazioni alla legge regionale 12 settembre
1991, n. 49);
-- art. 32, commi 3 e 4, della legge regionale Valle d'Aosta 9
febbraio 1995, n. 4 (Elezione diretta del sindaco, del vice
sindaco e del consiglio comunale).
art. 117 novellato Cost. ("al fine di conseguire l'equilibrio della
rappresentanza dei sessi", la legge regionale "promuove
condizioni di parità per l'accesso alle consultazioni
elettorali"),
SENTENZA N. 49del ANNO 2003
LA CORTE COSTITUZIONALE ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 7
della deliberazione legislativa statutaria della Regione Valle
d’Aosta/Vallée d’Aoste, approvata il 25 luglio 2002, recante
"Modificazioni alla legge regionale 12 gennaio 1993, n. 3
(Norme per l’elezione del Consiglio regionale della Valle
d’Aosta), già modificata dalle leggi regionali 11 marzo 1993, n.
13 e 1° settembre 1997, n. 31, e alla legge regionale 19 agosto
1998, n. 47 (Salvaguardia delle caratteristiche e tradizioni
linguistiche e culturali delle popolazioni walser della valle del
Lys)" promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei
ministri, notificato il 2 settembre 2002, depositato in
cancelleria il 12 successivo ed iscritto al n. 53 del registro
ricorsi 2002.
[…]
Considerato in diritto
1.– Il Governo, con ricorso proposto ai sensi dell’articolo 15,
terzo comma, dello statuto speciale per la Valle d’Aosta/Vallée
d’Aoste, come modificato dall’art. 2 della legge costituzionale
n. 2 del 2001, ha promosso questione di legittimità
costituzionale degli articoli 2, comma 2, e 7, comma 1, della
legge regionale della Valle d’Aosta recante "Modificazioni alla
legge regionale 12 gennaio 1993, n. 3 (Norme per l'elezione del
Consiglio regionale della Valle d'Aosta), già modificata dalle
leggi regionali 11 marzo 1993, n. 13 e 1° settembre 1997, n.
31, e alla legge regionale 19 agosto 1998, n. 47 (Salvaguardia
delle caratteristiche e tradizioni linguistiche e culturali delle
popolazioni walser della valle del Lys)", approvata dal
Consiglio regionale a maggioranza di due terzi dei componenti
il 25 luglio 2002, e pubblicata per notizia nel Bollettino
Ufficiale della Regione del 2 agosto 2002. Successivamente
alla proposizione del ricorso la legge regionale impugnata –
una volta decorso il termine per la richiesta di referendum – è
stata promulgata e pubblicata come legge regionale 13
novembre 2002, n. 21.
Le disposizioni impugnate, rispettivamente, inseriscono l’art.
3-bis e sostituiscono l’art. 9, comma 1, lettera a, nella legge
regionale 12 gennaio 1993, n. 3 (Norme per l’elezione del
Consiglio regionale della Valle d’Aosta).
Precisamente, il nuovo art. 3-bis della legge sull’elezione del
Consiglio, inserito dall’art. 2 della legge impugnata, stabilisce,
al comma 2, che le liste elettorali devono comprendere
"candidati di entrambi i sessi"; a sua volta il nuovo art. 9,
comma 1, lettera a della legge elettorale, sostituito dall’art. 7,
comma 1, della legge impugnata, prevede che vengano
dichiarate non valide dall’ufficio elettorale regionale le liste
presentate che non corrispondano alle condizioni stabilite, fra
cui quella "che nelle stesse siano presenti candidati di
entrambi i sessi".
Tali disposizioni sono censurate dal ricorrente per contrasto
con gli articoli 3, primo comma, e 51, primo comma, della
Costituzione.
Sostiene il Governo che le predette disposizioni – l’art. 7 in
quanto espressamente condiziona la validità delle liste alla
presenza di candidati di entrambi i sessi, l’art. 2 in quanto
venga
interpretato
non
come
semplice
indicazione
programmatica, ma come disposizione vincolante in sede di
controllo della validità delle liste presentate – limitano di fatto
il diritto di elettorato passivo. Richiamandosi alla sentenza di
questa Corte n. 422 del 1995 (che dichiarò l’illegittimità
costituzionale di diverse disposizioni di legge prevedenti
l’obbligo di riservare a candidati di ciascuno dei due sessi
quote minime di posti nelle liste per le elezioni delle Camere e
dei Consigli regionali e comunali), il Governo osserva che
l’appartenenza all’uno o all’altro sesso non può mai essere
assunta come requisito di eleggibilità, né quindi come
requisito
di
"candidabilità",
poiché
questa
sarebbe
presupposto della eleggibilità; e che pertanto contrasterebbe
con il principio di eguaglianza nell’accesso alle cariche
elettive, sancito dall’art. 3, primo comma, e dall’art. 51, primo
comma, della Costituzione, una norma di legge che imponga
nella presentazione delle candidature "qualsiasi forma di
quote in ragione del sesso dei candidati". Ad avviso del
ricorrente, anche la semplice previsione – come contenuta
nella legge impugnata – della necessaria presenza in ogni lista
di candidati dei due sessi non si differenzierebbe
sostanzialmente, da questo punto di vista, dalla previsione di
una "quota" di riserva di candidature all’uno e all’altro sesso.
Il ricorrente richiama bensì la norma, contenuta nell’articolo
15, secondo comma, secondo periodo, dello statuto della Valle
d’Aosta (come modificato dall’art. 2 della legge costituzionale
n. 2 del 2001), secondo cui, "al fine di conseguire l’equilibrio
della rappresentanza dei sessi", la legge che stabilisce le
modalità di elezione del Consiglio regionale "promuove
condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali":
ma ritiene che si tratti di una "enunciazione programmatica",
onde la norma di legge regionale, secondo cui ogni lista di
candidati all’elezione del Consiglio regionale deve prevedere
la presenza di candidati di entrambi i sessi, potrebbe ritenersi
legittima e conforme allo spirito della disposizione statutaria
solo se intesa come "norma meramente propositiva, quasi un
auspicio"; mentre sarebbe irrimediabilmente illegittima la
norma che condiziona a tale presenza la validità delle liste.
2.–
Deve
essere,
anzitutto,
dichiarato
inammissibile
l’intervento spiegato in giudizio dalle Consulte femminili della
Campania e della Valle d’Aosta: nei giudizi di legittimità
costituzionale promossi in via principale non è prevista la
possibilità di intervento di soggetti diversi dal titolare delle
competenze legislative in contestazione o con queste
comunque connesse (cfr. sentenze n. 353 del 2001 e n. 533 del
2002).
3.– La questione è infondata.
3.1.– In primo luogo, deve osservarsi che le disposizioni
contestate non pongono l’appartenenza all’uno o all’altro
sesso come requisito ulteriore di eleggibilità, e nemmeno di
"candidabilità" dei singoli cittadini. L’obbligo imposto dalla
legge, e la conseguente sanzione di invalidità, concernono
solo le liste e i soggetti che le presentano.
In secondo luogo, la misura prevista dalla legge impugnata
non può qualificarsi come una di quelle "misure legislative,
volutamente diseguali", che "possono certamente essere
adottate per eliminare situazioni di inferiorità sociale ed
economica, o, più in generale, per compensare e rimuovere le
disuguaglianze materiali tra gli individui (quale presupposto
del pieno esercizio dei diritti fondamentali)", ma che questa
Corte ha ritenuto non possano "incidere direttamente sul
contenuto stesso di quei medesimi diritti, rigorosamente
garantiti in egual misura a tutti i cittadini in quanto tali", tra
cui, in particolare, il diritto di elettorato passivo (sentenza n.
422 del 1995).
Non è qui prevista, infatti, alcuna misura di "disuguaglianza"
allo scopo di favorire individui appartenenti a gruppi
svantaggiati, o di "compensare" tali svantaggi attraverso
vantaggi legislativamente attribuiti.
Non vi è, insomma, nessuna incidenza diretta sul contenuto
dei diritti fondamentali dei cittadini, dell’uno o dell’altro sesso,
tutti egualmente eleggibili sulla base dei soli ed eguali
requisiti prescritti.
Nemmeno potrebbe parlarsi di una incidenza su un ipotetico
diritto di aspiranti candidati ad essere inclusi in lista, posto
che la formazione delle liste rimane interamente rimessa alle
libere scelte dei presentatori e degli stessi candidati in sede
di necessaria accettazione della candidatura (cfr. sentenza n.
203 del 1975). Non si realizza, in tale sede, alcun metodo
"concorsuale" in relazione al quale un soggetto non incluso
nelle liste possa vantare una posizione giuridica di priorità
ingiustamente sacrificata a favore di un altro soggetto in essa
incluso.
In altri termini, le disposizioni in esame stabiliscono un
vincolo non già all’esercizio del voto o all’esplicazione dei
diritti dei cittadini eleggibili, ma alla formazione delle libere
scelte dei partiti e dei gruppi che formano e presentano le
liste elettorali, precludendo loro (solo) la possibilità di
presentare liste formate da candidati tutti dello stesso sesso.
Tale vincolo negativo opera soltanto nella fase anteriore alla
vera e propria competizione elettorale, e non incide su di
essa. La scelta degli elettori tra le liste e fra i candidati, e
l’elezione di questi, non sono in alcun modo condizionate dal
sesso dei candidati: tanto meno in quanto, nel caso di specie,
l’elettore può esprimere voti di preferenza, e l’ordine di
elezione dei candidati di una stessa lista è determinato dal
numero di voti di preferenza da ciascuno ottenuti (cfr. articoli
34 e 51 della legge regionale n. 3 del 1993). A sua volta, la
parità di chances fra le liste e fra i candidati della stessa lista
non subisce alcuna menomazione.
3.2.– Non può, d’altronde, dirsi che la disciplina così imposta
non rispetti la parità dei sessi, cioè introduca differenziazioni
in relazione al sesso dei candidati o degli aspiranti alla
candidatura:
sia
perché
la
legge
fa
riferimento
indifferentemente a candidati "di entrambi i sessi", sia perché
da essa non discende alcun trattamento diverso di un
candidato rispetto all’altro in ragione del sesso.
3.3.– Neppure, infine, è intaccato il carattere unitario della
rappresentanza elettiva che si esprime nel Consiglio
regionale, non costituendosi alcuna relazione giuridicamente
rilevante fra gli elettori, dell’uno e dell’altro sesso e gli eletti
dello stesso sesso.
4.– Il vincolo che la normativa impugnata introduce alla libertà
dei partiti e dei gruppi che presentano le liste deve essere
valutato oggi anche alla luce di un quadro costituzionale di
riferimento che si è evoluto rispetto a quello in vigore
all’epoca della pronuncia di questa Corte invocata dal
ricorrente a sostegno dell’odierna questione di legittimità
costituzionale.
La legge costituzionale n. 2 del 2001, integrando gli statuti
delle Regioni ad autonomia differenziata, ha espressamente
attribuito alle leggi elettorali delle Regioni il compito di
promuovere "condizioni di parità per l’accesso alle
consultazioni elettorali", e ciò proprio "al fine di conseguire
l’equilibrio della rappresentanza dei sessi" (art. 15, secondo
comma, secondo periodo, statuto Valle d’Aosta; e nello stesso
senso, anche testualmente, art. 3, primo comma, secondo
periodo, statuto speciale per la Sicilia, modificato dall’art. 1
della legge costituzionale n. 2 del 2001; art. 15, secondo
comma, secondo periodo, statuto speciale per la Sardegna,
modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 2 del 2001;
art. 47, secondo comma, secondo periodo, statuto speciale
per il Trentino-Alto Adige/Südtirol, modificato dall’art. 4 della
legge costituzionale n. 2 del 2001; art. 12, secondo comma,
secondo periodo, statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia,
modificato dall’art. 5 della legge costituzionale n. 2 del 2001).
Le nuove disposizioni costituzionali (cui si aggiunge l’analoga,
anche se non identica, previsione del nuovo art. 117, settimo
comma, della Costituzione, come modificato dalla legge
costituzionale n. 3 del 2001) pongono dunque esplicitamente
l’obiettivo del riequilibrio e stabiliscono come doverosa
l’azione promozionale per la parità di accesso alle
consultazioni, riferendoli specificamente alla legislazione
elettorale.
Questa Corte ha riconosciuto che la finalità di conseguire una
"parità effettiva" (sentenza n. 422 del 1995) fra uomini e donne
anche
nell’accesso
alla
rappresentanza
elettiva
è
positivamente apprezzabile dal punto di vista costituzionale.
Si tratta, invero, di una finalità – che trova larghi
riconoscimenti
e
realizzazioni
in
molti
ordinamenti
democratici, e anche negli indirizzi espressi dagli organi
dell’Unione
europea
–
collegata
alla
constatazione,
storicamente incontrovertibile, di uno squilibrio di fatto
tuttora esistente nella presenza dei due sessi nelle assemblee
rappresentative, a sfavore delle donne. Squilibrio riconducibile
sia al permanere degli effetti storici del periodo nel quale alle
donne erano negati o limitati i diritti politici, sia al permanere,
tuttora, di ben noti ostacoli di ordine economico, sociale e di
costume suscettibili di impedirne una effettiva partecipazione
all’organizzazione politica del Paese.
Un aspetto, se non decisivo, certo assai influente del
fenomeno è costituito dai comportamenti di fatto prevalenti
nell’ambito dei partiti e dei gruppi politici che operano per
organizzare la partecipazione politica dei cittadini, anche e
principalmente attraverso la selezione e la indicazione dei
candidati per le cariche elettive. Così che, già in passato, la
Corte ha espresso una valutazione positiva di misure –
tendenti ad assicurare "l’effettiva presenza paritaria delle
donne (…) nelle cariche rappresentative" – "liberamente
adottate da partiti politici, associazioni o gruppi che
partecipano alle elezioni, anche con apposite previsioni dei
rispettivi statuti o regolamenti concernenti la presentazione
delle candidature" (sentenza n. 422 del 1995), sul modello di
iniziative diffuse in altri paesi europei.
Le disposizioni impugnate della legge elettorale della Valle
d’Aosta operano su questo terreno, introducendo un vincolo
legale rispetto alle scelte di chi forma e presenta le liste.
Quello che, insomma, già si auspicava potesse avvenire
attraverso scelte statutarie o regolamentari dei partiti (i quali
però, finora, in genere non hanno mostrato grande
propensione a tradurle spontaneamente in atto con regole di
autodisciplina previste ed effettivamente seguite) è qui
perseguito come effetto di un vincolo di legge. Un vincolo che
si giustifica pienamente alla luce della finalità promozionale
oggi espressamente prevista dalla norma statutaria.
4.1.– Deve peraltro osservarsi che, nella specie, il vincolo
imposto, per la sua portata oggettiva, non appare nemmeno
tale da incidere propriamente, in modo significativo, sulla
realizzazione
dell’obiettivo
di
un
riequilibrio
nella
composizione per sesso della rappresentanza. Infatti esso si
esaurisce nell’impedire che, nel momento in cui si esplicano le
libere scelte di ciascuno dei partiti e dei gruppi in vista della
formazione delle liste, si attui una discriminazione sfavorevole
ad uno dei due sessi, attraverso la totale esclusione di
candidati ad esso appartenenti. Le "condizioni di parità" fra i
sessi, che la norma costituzionale richiede di promuovere,
sono qui imposte nella misura minima di una non
discriminazione, ai fini della candidatura, a sfavore dei
cittadini di uno dei due sessi.
5.– In definitiva – ribadito che il vincolo resta limitato al
momento della formazione delle liste, e non incide in alcun
modo sui diritti dei cittadini, sulla libertà di voto degli elettori
e sulla parità di chances delle liste e dei candidati e delle
candidate nella competizione elettorale, né sul carattere
unitario della rappresentanza elettiva – la misura disposta può
senz’altro ritenersi una legittima espressione sul piano
legislativo dell’intento di realizzare la finalità promozionale
espressamente sancita dallo statuto speciale in vista
dell’obiettivo di equilibrio della rappresentanza.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli articoli 2, comma 1, e 7, comma 1, della legge regionale
della Valle d’Aosta 13 novembre 2002, n. 21, recante:
"Modificazioni alla legge regionale 12 gennaio 1993, n. 3
(Norme per l'elezione del Consiglio regionale della Valle
d'Aosta), già modificata dalle leggi regionali 11 marzo 1993, n.
13 e 1° settembre 1997, n. 31, e alla legge regionale 19 agosto
1998, n. 47 (Salvaguardia delle caratteristiche e tradizioni
linguistiche e culturali delle popolazioni walser della valle del
Lys)", sollevata, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e
51, primo comma, della Costituzione, dal Governo con il
ricorso in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 2003.
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 13 febbraio 2003.