Francesco Guccini e le sue creature sonore

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Francesco Guccini e le sue creature sonore
38 — l’altra musica
Francesco Guccini
e le sue
creature sonore
I
di John Vignola
l modo migliore per non morire giovani è invecchiare»: questo uno degli epitaffi (in vita, sia chiaro)
di Francesco Guccini, figura storica della canzone
d’autore che non si riconosce in una età – ha compiuto 69
anni lo scorso 14 giugno – da molti votata alla riflessione, o
al rimpianto. Invece, lo scrittore, poeta e musico continua
a pubblicare dischi, con giusta parsimonia, e a girare per
l’Italia. Il risultato è una vivacità di pensiero che va contro-
l’altra musica
«
invece che il mare sia importantissimo, che dalla lotta con
questa massa d’acqua comincino molte avventure. Certo,
Ulisse non è ai miei occhi un navigatore, ma un personaggio di Terra che reagisce alla vita, che si perde e si ritrova,
fino alla morte oltre le Colonne d’Ercole. Ne ho scritto, appunto, in «Odysseus».
Ulisse incarna quindi diverse qualità dell’uomo.
Esattamente; infatti nelle tradizioni che parlano di lui è
di volta in volta l’astuto, il temerario, il curioso, ma pure l’oppresso, quello che deve combattere lontano da casa.
Fra le varie sue «fotografie» recenti c’è anche quella di Piazza Alimonda, dove parla della morte di Carlo Giuliani, così come di una
città che si spegne, Genova. Si tratta di un brano politico?
Sì, e non aggiungo altro. C’è di sicuro un’accusa a un modo di gestire gli spazi «aperti» che tante volte è criminale.
I «cattivi», quelli che permettono un sacrificio del genere, sono le strategie, l’indifferenza, il voltare le spalle e rimanere freddi di fronte alle tragedie altrui. Genova non si
spegne, comunque. Ricomincia a vivere nonostante tutto,
corrente, anche rispetto ai cosiddetti giovani di oggi, sendopo la morte, in un ciclo perenne.
za risparmiarsi qualche piccola frecciata alle nuove generaCosa è cambiato rispetto ai tempi di «Primavera di Praga», per
zioni. Austeramente in disaccordo con le varie forme di reesempio?
sa, Guccini racconta senza remore quello che sa di se stesSi è ingrigito tutto. Allora sembrava che le linee guida
so e del proprio lavoro, «un che di artigianale, senza pretefossero chiare. Magari non era esattamente così, ma i blocse altissime, ma con una buona consapevolezza nei risultachi che si contrapponevano portavano a schierarsi. Adesso
ti: insomma, non si tirano giù frasi e note così, per inerzia».
ognuno sta solo, non sul cuore della Terra, come dice il PoIn alcune delle sue ultime canzoni, quelle di Ritratti (2004), si scaeta, ma nella sua cameretta, malevolente e inerte.
glia con molta convinzione contro i miti vacanzieri di questi tempi:
«Uscir di casa a vent’anni è quasi un obbligo»: parole sue.
per esempio il mare, le spiagge. Ha addirittura detto che «il mare può
È naturale che i ragazzi stiano all’aperto; ogni motivo
andarsene a quel paese».
è buono, e meno male… Mi preoccupa la
Si trattava di una frase, diciamo così,
tendenza che adesso li vorrebbe tutti a cad’impatto, che esprimeva in realtà un po’ di
sa alle otto di sera. Non funziona, non può
costernazione nei confronti della vacanza
Udine – Palasport Carnera
funzionare in questo modo: dovrebbero ricon gli ombrelloni e cose del genere. Penso
3 aprile, ore 21.00
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scritto, non sempre in accordo fra di loro. Rispetto al passato si sono modificati senz’altro i ritmi. La cernita delle frasi mi costa più tempo, una volta operavo maggiormente di getto. In fondo una canzone deve avere una trama, un punto d’arrivo e una fine. Deve avere una struttura poetica, ma anche una narrativa.…
In tempi piuttosto recenti è approdato alla pagina scritta, prima in
solitaria, poi con Loriano Machiavelli, sul versante del noir. I tempi erano maturi, oppure ha subito qualche pressione?
Rifuggo la noia, amo raccontare storie, in realtà sono
un romanziere in sedicesimo. Ecco perché, appena ne ho
avuto occasione, ho firmato libri. Non li trovo «diversi»
dalle canzoni, nel senso che si tratta di un percorso contiguo. Poi, è vero che la tecnica e gli spunti da sviluppare sono del tutto diversi. Trovo anche che il noir – grazie,
per esempio, a uno come Lucarelli – sia una forma di romanzo-verità sulla realtà cupa che stiamo attraversando
oggi. È un ambito che mi interessa molto, pure da lettore.
no venute fuori così tante… Non le dirò mai, però, la verità: è una specie di rispetto nei confronti delle proprie creature: uno le mette al mondo e poi non le può penalizzare. Fanno la loro strada da sole. In questo il pubblico, più
ancora dei giornalisti, è sovrano. Certo, io scrivo per ispirazione. La fortuna della mia produzione, comunque, non
dipende da me.
Una volta scrisse un’invettiva contro i critici, «L’avvelenata», che
se la prendeva in particolare con Riccardo Bertoncelli, reo di avere
scritto male di Stanze di vita quotidiana.
Fu uno sfogo, credo legittimo, rispetto a una continua
tensione che avvertivo intorno a me. Ne fece le spese un
critico che è poi diventato pure un buon conoscente, se
non addirittura un amico. Come le dicevo, le canzoni, una
volta incise e pubblicate restano. Uno non può mica ritrattare. Rappresentano però diverse fasi della vita del sotto-
Che rapporto ha con la televisione oggi?
Vedo soprattutto il telegiornale e Blob, di cui non perdo una puntata. Poi, molti film. A Pavana non riesco a
captare Raiuno, quindi faccio sempre a meno del suo tg.
So che la tv è un elettrodomestico ma le parlo piuttosto
spesso, per insultare chi c’è al di là del tubo catodico. ◼
l’altra musica
bellarsi a certe cose, un po’ di più.
Non le sembra che stia crescendo una generazione totalmente anaffettiva, almeno a livello politico? Gli stimoli latitano, un po’ da ogni
parte.
Direi che i segnali non sono confortanti, ma riguardano chi è già grandicello. La scommessa va fatta sui quindicenni, che vanno a scuola e sono nuovi alla vita. I genitori e i professori hanno grandi responsabilità. Non deve
passare l’idea di un mondo menefreghista, in cui chiunque fa il comodo suo. La generazione dei ventenni vive in
quell’universo lì, e, nonostante qualche onda, rischia di rimanere subissata da valori incredibilmente vuoti. Anzi, da
non-valori.
Cosa è cambiato in tutti questi anni «al servizio» delle canzoni,
nel suo modo di scriverle e concepirle? Ce n’è qualcuna in particolare che detesta?
Ce ne sono parecchie; cosa vuole, in quarant’anni – la prima che ha firmato è stata «Auschwitz», nel 1964, ndr – me ne so-
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Quella volta
che ho cantato con
Fabrizio De André
l’altra musica
H
di Gualtiero Bertelli
o incontrato una sola volta Fabrizio De André,
ma in una situazione così particolare che mi piace ricordarla.
Correva l’anno 1965: era esattamente martedì 7
settembre.
Alle nove in punto della mattina mi presentavo alla sede
centrale della Siae, all’Eur, con la mia fisarmonica in spalla
per sostenere gli esami di melodista non trascrittore.
Avevo viaggiato in treno tutta la notte, partendo in cuccetta di seconda classe da Venezia e arrivando a Roma Termini attorno alle sette e trenta.
Non avevo la minima idea di cosa mi
sarebbe capitato; mi aveva iscritto, assieme ad alcuni altri, la casa editrice
Bella Ciao, sorta per depositare e pubblicare i testi e le musiche che venivano raccolte nei «Dischi del sole», e questo epiteto di «melodista non trascrittore» mi era, fino ad allora, sconosciuto.
Qualche mese prima avevo sostenuto
l‘esame di paroliere, anzi di autore come
si dice alla Siae, a Milano, e per la seconda parte, quella che riguardava la musica, bisognava andare a Roma.
Un usciere mi indicò la stanza dove dovevo entrare e oltre la porta d’ingresso una saletta con delle sedie lungo
le pareti raccoglieva già sei o sette persone, destinate a diventare più o meno
una dozzina da lì a poco.
Uno sguardo, un saluto frettoloso e
ognuno al suo posto, con il suo strumento musicale tra le gambe o a terra.
Abbondavano le chitarre, ma c’era
anche la rappresentanza di altri strumenti: un flauto, un violino, qualcuno
non aveva nulla perché pensava di utilizzare il pianoforte; si poteva suonare con qualsiasi strumento. Era proibito soltanto il fischio; io esibivo l’unica
fisarmonica.
Mi guardai attorno per vedere se c’era qualcuno di mia
conoscenza, ma non ebbi conferme.
Dopo un po’ entrò, con un fare distaccato, direi quasi
quel fare altezzoso che mi sembrava di avergli attribuito
anche durante le esibizioni televisive, Tata Giacobetti del
quartetto Cetra, che salutò a fatica e si mise solitario in un
angolo. (Qualche anno dopo ho conosciuto Lucia Mannucci e Virgilio Savona, della stesso quartetto; be’, tutta
un’altra cosa.)
Di lì a poco entrò Fabrizio De André, venticinquenne, con il maglioncino e la chitarra sotto braccio, salutò e
si sedette. Qualcuno lo riconobbe e si aprì una piacevole
conversazione.
Lo avvicinai e gli chiesi, dopo essermi presentato: «Come mai non eri a Torino al folk festival la scorsa settimana?
Eppure la tua adesione era stata annunciata».
Un passo indietro.
Nei giorni 3, 4 e 5 settembre, cioè durante il fine settimana appena concluso, a Torino si era svolto il Folk Festival
1, organizzato da un gruppo di studenti universitari con
l’appoggio del Nuovo Canzoniere Italiano e delle case discografiche torinesi Cetra e Dng. Fu un avvenimento importante; per la prima volta sotto il termine folk, per la verità interpretato in modo molto «ampio», si presentarono
esecutori, autori, gruppi di ogni genere e provenienza. Si
andava dal coro delle Mondine di Vercelli a Enzo Jannacci, da Giovanna Marini alla banda La bersagliera di Tonco,
da Milly, Maria Monti, Sergio Endrigo al cantastorie Ciccio Busacca o ai genovesi Fratelli Carlio. Insomma un insieme di cantori e cantanti non convenzionali, o almeno i
meno convenzionali.
C’ero anch’io in quell’elenco ed ero al mio vero debutto;
ebbi gli onori di foto e articolo su «Famiglia Cristiana» come il più arrabbiato dei cantanti di protesta comparsi sulla scena torinese.
Gualtiero Bertelli
Tra gli altri, in un primo tempo, era stato annunciato anche De André che ritirò successivamente la sua adesione,
mentre non la ritirarono, ma non si fecero vedere, Gino
Paoli, Giorgio Gaber e Bruno Lauzi.
«Come mai non sei venuto a Torino e hai ritirato la tua
adesione?»
«Perché ho saputo che era diventata un’iniziativa promossa e gestita dai comunisti» fu, più o meno, la risposta
di Fabrizio, che continuò «e io non sono un comunista, sono un liberal». «Liberale?» gli chiesi per conferma. «No, liberal, all’inglese». Non avevo le idee molto chiare sulla differenza tra un liberal all’inglese e un liberale alla Malagodi, una «e» in meno non mi sembrava un granché, e Fabrizio non rappresentava ancora certamente l’icona anarchica
che poi sarebbe diventato, con il suo maglioncino, ma era
molto semplice e ci fu immediata reciproca simpatia, credo. «Effettivamente io sono comunista, però non mi pare
che tutti lo fossero» abbozzai, ma mi interessava molto di
più parlare d’altro.
Nel frattempo si era aggregato un genovese di cui ricordo solo il nome: Celso, un chitarrista che suonava con i migliori musicisti della sua città e che dimostrò, incredibile,
di conoscere le mie canzoni e il Nuovo Canzoniere. Intorno si erano raccolti gli altri, meno Tata che se ne stava in un
angolo per conto suo.
L’inizio dell’esame si stava spostando nel tempo; convocati per le nove, cominciammo, mi pare, attorno alle undici. Ma fu bello perché a un certo punti dissi: «Perché non
facciamo un po’ di musica?» «Qualcuno propose: «Fabrizio ci fai sentire tu Marinella?» L’aveva composta da poco, ma era già stata lanciata dall’interpretazione di Mina.
Fabrizio De André
Nessuno però l’aveva ancora sentita dalla bella voce calda
dell’autore. Fabrizio sfoderò la chitarra, controllò l’accordatura e cantò con quella calma e dolcezza che la mia voce
aspra di allora, ben più aspra di quella di oggi, non poteva
neanche immaginare.
«Be’ fai qualcosa tu!» propose Celso guardandomi, dopo
i dovuti complimenti a De André. Eseguii «I do piovani»
dall’Odineide composta su testi di Mario Isnenghi. La musica un po’ barocca e il testo con sontuose citazioni storiche mi sembravano «culturalmente» adeguati all’occasione
(«Nina» era ancora di là da venire). Celso ci fece ascoltare
un pezzo straordinario di chitarra e finalmente qualcuno
uscì dalla stanza adiacente a controllare che i presenti aves-
sero tutti i requisiti per sostenere l’esame. Lo stesso signore ci spiegò per bene cosa sarebbe accaduto e assicurò che
da lì a poco ci avrebbero chiamato in ordine di iscrizione.
Verificammo di aver capito: avremmo trovato nell’altra
stanza una commissione di una decina di maestri d’orchestra disposti attorno ad un tavolo a semicerchio per
ascoltare le nostre magnifiche improvvisazioni. Ognuno di noi, prima di entrare, doveva maturare una scelta
fondamentale, cioè scegliere il tipo di ritmo. Avremmo
trovato su un tavolino due schedari di legno, come quelli che si usavano prima del computer nelle biblioteche per
cercare i libri: su uno era scritto «ritmi moderni» e sull’altro «ritmi antichi». Ecco, questa era la scelta principale,
quella da cui dipendeva il buon esito della
prova: bisognava partire con il ritmo giusto. Ogni schedario aveva delle buste, in
ogni busta c’era un foglio pentagrammato con scritte 4 misure regolate dal ritmo
scelto (valzer, minuetto, gavotta, oppure
rock, slow, samba… a seconda che si fosse nel raggruppamento moderno o antico). Scegliendo la busta, sceglievi il motivo di partenza, appunto le 4 misure, sul
quale dovevi improvvisare uno sviluppo
complessivo di 16 misure; insomma dovevi continuare la musichetta che un maestro al pianoforte ti ripeteva un numero sufficiente di volte perché tu potessi
risuonarla con il tuo strumento e poi…
svilupparla.
Finalmente sapevo esattamente cosa
avrei dovuto fare: suonare a «orecchio»,
cosa tanto vituperata quanto praticata in
tutto il mondo.
«Che ritmi scegli?» chiesi a Fabrizio. «I
ritmi antichi!» «No, io preferisco quelli
moderni, sai ho fatto molta musica da ballo!» «Ma io me la cavo meglio con quelli
vecchi, li maneggio di più». Incominciarono le chiamate e il nostro interesse si
spostò ad ascoltare ciò che trapelava dalla porta.
Uscivano facce soddisfatte; non mi pare
ci fossero stati dei «fiaschi».
A ognuno le stesse domande: «Com’è la
prova… Come ti è andata…» A tutti, meno che a Tata che se ne andò com’era venuto, senza proferire parola.
«De Andrè Fabrizio…» sillabò il solito
signore facendo capolino.
Dopo dieci minuti Fabrizio uscì: «Com’è
andata?» «Bene, m’è uscita una polka. Ma
me la sono cavata bene, mi pare!» «Una polka!» pensai, «e
che ci facevo io con una polka?» Un rapido saluto a tutti e
«be’ chissà che non ci rivediamo da qualche parte!» e poi
via con la sua chitarra rapidamente rivestita. Non ci siamo mai più incontrati.
Dopo altre due chiamate il signore gentile sporse la testa: «Bertelli Gualtiero…» «Eccomi… ciao Celso, ci vediamo». Uno sguardo e un cenno ai tre o quattro rimasti.
«Prego, scelga una busta tra i ritmi antichi o moderni».
Infilo la mano ed esce una «beguine». Ne ho fatte mille
nelle mie serate con l’orchestrina, la cosa parte bene.
Il signore gentile, sempre lui, si siede al piano ed esegue le quattro misure che la sorte mi ha assegnato. ◼
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Messaggi
nelle parole,
messaggi
nella musica
torno alla vicenda di Maria prima della nascita del figlio, la seconda verte su Cristo morente. Attraverso il titolo, la prima
canzone del lato B (Maria nella bottega di un falegname) accentua lo
scarto tra l’una e l’altra. La tradizione vuole che Giuseppe, padre legale di Gesù, fosse un falegname. Ma qui il falegname è
quello che costruisce la croce. Così, dopo l’annuncio della gravidanza di Maria alla fine del lato A, ci si ritrova catapultati nelle fasi estreme della storia. Fra la prima e la seconda parte, la vita
di Cristo è come accantonata; inoltre, il protagonista non prende mai la parola, né viene mai descritto direttamente. Di lui sappiamo solo che è stato condannato perché «guerra insegnò a disertare». Per il resto, la sua vicenda è filtrata dalle esperienze di
quanti hanno intrecciato la propria vita con la sua: i sacerdoti,
Maria, Giuseppe, il falegname, la folla, le madri dei ladroni, Tito «il buon ladrone». Costoro sono l’umanità che da sempre De
di Paolo Somigli
André inserisce nelle proprie canzoni. Un’umanità nella quale è
A Giancarlo,
ben chiaro chi sono gli «ultimi», le vittime del potere; ma nella
che mi ha fatto scoprire
quale gli stessi ultimi possono farsi carnefici. Due esempi: i più
La buona novella,
con grata memoria
accaniti contro Gesù sulla via della croce sono i padri dei bimbi uccisi per ordine d’Erode; ai piedi della croce Maria non trova conforto nelle madri degli altri due crocifissi ma isolamento
a buona novella (1970) di Fabrizio De André è un cone incomprensione. La vicenda di Gesù s’amplia dunque a mocept album. Si basa sulla storia di Gesù riletta in termini
tivo per narrare una pluralità di storie, per mostrare con diversi
esclusivamente umani. De André vede in Gesù «il più
esempi le conseguenze della violenza e del potere sugli uomigrande rivoluzionario di tutti i tempi», un uomo che si batte
ni e sui rapporti umani.3
«contro gli abusi del potere, contro i soprusi in nome di un egualitarismo e di una fratellanza universaCom’è tipico d’un lavoro basato sul
le» per ragioni simili alle «istanze miconcorso attivo di musica e parola, la
gliori e più sensate della rivolta del ’68».
storia e il significato non sono veicoE poiché, come sempre De André ha
lati solo dalle parole. Prendono forma
affermato, «il grosso problema di ogni
dall’incontro dei testi con la musica. E
rivoluzione è che, una volta preso il
la musica può colorare quei testi di tinpotere, i rivoluzionari cessano di essete inattese.
re tali per diventare amministratori»,1
L’album fu il frutto d’una gestazione articolata. Oltre naturalmente a De
la scelta della storia di Gesù risulta emAndré, ad essa contribuirono fra gli alblematica. Da un punto di vista putri Michele Maisano e Corrado Castelramente umano, Gesù non ha visto
lari per Il testamento di Tito, Giampiero
compiuta la propria rivoluzione. Ma
Reverberi per Ave Maria, Tre madri e gli
proprio questa sua sconfitta può esarrangiamenti, «I Quelli» (poi PFM)
ser presa per la sua forza: ha permesper la concreta realizzazione. Il disco
so al suo insegnamento di mantenere
ha caratteristiche musicali quanto mai
la propria attualità e sopravvivere alla
curate. Non solo la musica sottolinea
successiva istituzionalizzazione.
specifici momenti; più in generale un
Nel progettare e incidere La buona
fitto tessuto di relazioni musicali e sonovella De André è in sintonia con una
nore percorre le canzoni, fa appello alsensibilità diffusa tra anni sessanta e
la memoria dell’ascoltatore e rivela il
settanta. In particolare, si nota un’affisenso dei singoli episodi e dell’alnità con Pasolini e il suo Vangelo sebum nell’insieme. Così la musica
condo Matteo (1964). Per De André,
dà un contributo determinante nel
il rivoluzionario Gesù viene ucciIn occasione del decennale della morte di
delineare la vicenda e il suo signifiso perché «guerra insegnò a diserFabrizio De André pubblichiamo questo
cato, suggerisce dettagli e prospettare» (Maria nella bottega di un falegnaintervento inedito su uno dei suoi dischi
tive di lettura.4
me). Anche per Pasolini Gesù rappiù belli e celebri.
presenta un rivoluzionario, messo
a morte per il messaggio di pace.2 Ma dal regista ed intellettuale e dalla sua opera De André si discosta perlomeno in un pa3 Cfr. P. Somigli, Laudate hominem. Appunti su Fabrizio De André, in «Rivista di
Studi Italiani», XXII, 2004/2, pp. 269-274.
io d’aspetti: sceglie come fonte i Vangeli apocrifi; non descrive
né fa mai parlare Gesù, addirittura assente per metà del lavoro.
4 Sulla realizzazione dell’album cfr. L. Viva, Non per un dio, cit., p. 147; le interviste di Bertoncelli a Giampiero Reverberi e Roberto Dané in Belìn, sei sicuro? Storia
Nella Buona novella la vicenda narrata dai testi è strutturata in
e canzoni di Fabrizio De André, a c. di R. Bertoncelli, Firenze, Giunti, 2003, pp. 71due parti corrispondenti ai due lati del 33 giri: la prima ruota at-
Una lettura
della «Buona novella»
di Fabrizio De André
l’altra musica
L
1 Fabrizio De André in L. Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco. Vita di Fabrizio De André, Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 149 e 156.
2 Si vedano le dichiarazioni di Pasolini in S. Murri, Pier Paolo Pasolini, Milano, Il
Castoro, 1994, p. 56.
83 e 85-95 (tra l’altro, Reverberi afferma: «Nella Buona novella, tutti i pezzi dove
c’è pianoforte sono chiaramente roba mia»: p. 73); le note di copertina (De André menziona «Corrado Castellari e Michele ai quali devo un’idea per la musica
del Testamento di Tito» e, forse con eccesso di modestia, Reverberi «che ancora una volta ha saputo vestire di musica la mia consueta balbuzie melodica»). Sul
rapporto musica-parola e sulle problematiche relative alla percezione musicale
è illuminante G. La Face Bianconi, La casa del mugnaio. Ascolto e interpretazione della
“Schöne Müllerin”, Firenze, Olschki, 2003.
Prima di tutto uno sguardo d’insieme. L’album è incorniciato da due brani basati sullo stesso materiale testuale e musicale ma esterni alla vicenda narrata. Essi costituiscono una
sorta di commento. Il primo brano (Laudate dominum) è un
coro scolastico su un basso discendente reiterato; esso, con
la ripetizione continua di due sole parole, risulta immagine
efficace della religione e del potere ufficiali, prigionieri del
rito e impermeabili alla vita. Il brano di chiusura (Laudate hominem) si svincola da questa rigidezza: il basso discendente
resta, ma su esso si edifica una struttura più libera e animata.
È un brano ambiguo. Per un verso ci ricorda che anche l’insegnamento di Gesù è stato travisato; ma per un altro evoca
la religione nuova, che porta l’uomo all’uomo. In quest’ottica, esso sancisce sia una disillusione rispetto a diciannove secoli di storia (lo dice Roberto Dané nelle nota di copertina) sia un messaggio di speranza, sottolineato dal balenio in extremis del
modo maggiore. In realtà questa conclusione
non disperata è
preparata dalla
canzone che precede: Il testamento di Tito, un brano dai caratteri
di protest song. Prima denuncia la
funzionalità della religione istituzionale al potere e poi apre alla
speranza: l’amore è l’insegnamento di Gesù. E l’insegnamento d’amore rende possibile (ma non per
questo automatica) la religione
nuova, che trova
nella centralità
dell’uomo il proprio compimento (Laudate hominem, appunto).
In questo quadro d’assieme, oltre a contribuire alla definizione del senso
complessivo, la musica concorre a delineare parecchi dettagli, fino a suggerire significati nascosti. Ne vedremo qui alcuni esempi. Per cominciare, prendiamo il blocco costituito da L’infanzia di Maria, Il ritorno di Giuseppe e Il sogno di Maria. Nell’Infanzia di Maria vediamo Maria trascorrere l’infanzia nel tempio finché i sacerdoti non la cacciano perché ormai «donna» (quindi fonte di tremenda tentazione) e la danno in sposa a Giuseppe. Di lui sappiamo che è «stanco d’essere stanco», carico di anni e di figli; non ha alcuna intenzione di sposarsi: gli eventi lo forzano. Deve sposare Maria
perché costretto. Giuseppe è vittima della sorte e del potere dei sacerdoti, come vittima del potere, dei genitori prima
e dei sacerdoti poi, è Maria. La musica sottolinea la mestizia
e la rassegnazione dell’uomo e del momento nel quale deve
prendere in sposa Maria: spicca soprattutto un controcanto
strumentale già apparso quando i sacerdoti avevano deciso
di cacciare la fanciulla.
Nella conclusione della canzone, De André c’informa
che dopo aver accettato in sposa la bambina Giuseppe se
ne va fuori dalla Giudea per quattro anni. Non ci dice dove. La musica s’insinua in questo vuoto d’informazione.
Il Ritorno di Giuseppe s’apre coi suoni d’uno strumento non
occidentale, si direbbe un sitar (manca nelle note di copertina l’elenco analitico degli strumenti). Essi creano un’atmosfera sonora orientaleggiante e ci suggeriscono allusivamente la meta taciuta dal testo. Inoltre, l’iridescente ambiente sonoro è quanto mai distante dai caratteri del brano
precedente, non ha quella invincibile rassegnazione e mostra Giuseppe in una luce più serena, a un tempo felice di
rivedere la sposa, che per lui è come una figlia, e immerso
nel ricordo d’un mondo amato. Appena rientrato scopre
che Maria è incinta, e dunque, ai suoi occhi, adultera. Ma
a differenza dei
sacerdoti che
l’avevano cacciata perché ormai donna, egli
non l’allontana da sé: anzi,
l’ascolta e poi
l’accoglie in un
abbraccio d i
grande tenerezza. La musica suggella l’abbraccio dei due
sposi e sottolinea la loro solidarietà: le medesime note accompagnano la
corsa di Maria
fra le braccia del
marito al termine del Ritorno di
Giuseppe e l’abbraccio di Giuseppe al termine del Sogno di
Maria. E proprio in quest’abbraccio Giuseppe mostra un
comportamento infinitamente lontano da quello degli uomini di potere;
rispetto a costoro, lui è radicalmente altro. La musica che lo
ha presentato all’inizio del suo ritorno quindi non restituisce solo una connotazione geografica; col suo improvviso e marcato carattere esotico, essa ci preannunzia qualcosa di più profondo, solo intuibile dal testo: l’eccentricità di
Giuseppe rispetto al mondo in cui vive, la sua radicale ed
irriducibile differenza interiore.
Prendiamo ora un altro esempio molto significativo. Riguarda due canzoni distanti: Ave Maria e Tre madri, rispettivamente al termine del lato A e al centro del lato B. Nelle note di copertina all’album, Roberto Dané dice che De
André pensa alla storia della Buona novella come a una favola: «alla favola sembra crederci, la porta avanti come se dovesse concludersi con il lieto fine, termina persino il primo
tempo con l’odore della felicità». In effetti, Ave Maria pare una celebrazione della maternità: Maria s’avvia a dare al-
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tenti”. Insomma, questo tratto musicale così favolistico potrebbe essere meno ingenuo di quanto non sembri. Coi suoi
caratteri dolciastri, anzi, sembra incrinare il trionfo di Maria
e d’ogni donna con lei, mettere in discussione la realtà della
bellezza dell’avvenimento narrato.
Ma c’è di più. Un ulteriore elemento musicale contribuisce a smontare dall’interno l’Ave Maria. È l’arpeggio pianistico. In tutto l’album esso torna solo in Tre madri. Tre madri è il lamento delle donne che vedono i figli morire sulla croce. La canzone presenta profonde relazioni coi brani
del lato A. Una relazione è data, da metà canzone in avanti, dall’enunciazione melodica strumentale e da un controcanto che rinvia al controcanto già ricordato a proposito
dell’Infanzia di Maria, quasi a riunire sotto il medesimo destino di dolore i tre membri della sacra famiglia. L’altro motivo di relazione è proprio l’arpeggio pianistico. Esso crea
l’altra musica
la luce un bimbo ed è felice per il proprio stato di grazia, per
l’essere diventata, ora sì, davvero donna. Il canto s’amplia a
canto della donna e della maternità nelle parole «Ave Maria, adesso che sei donna, / Ave alle donne, come te Maria, /
[…] Femmine un giorno e poi madri per sempre / Nella stagione che stagioni non sente». Basterebbe quest’ultima frase a insinuare il dubbio che il lieto fine sia solo un’illusione.
In fondo, essa ci dice che, malgrado tutte le solenni celebrazioni, la donna come persona non esiste: la donna esiste come «femmina», seduttrice e oggetto del desiderio maschile,
e come «madre per sempre», figura per intero ed in eterno
assorbita dai doveri verso la prole. Piuttosto che ad una gioia, tutto ciò finisce con l’assimilare la maternità ad un destino senza scampo, una condanna o addirittura una punizione che la donna si merita per l’esser stata, una volta nella vita, appunto «femmina».
Fabrizio De André
In apparenza quest’aspetto è del tutto rimosso dalla musica. Essa ha toni da tripudio. L’atmosfera da lieto fine è netta: il tono è maggiore (è la prima volta nell’album), il canto disteso, l’andamento spedito e solenne, mentre un coro
angelico sottolinea la felicità del momento. L’ascoltatore ha
incontrato un effetto corale simile nel Sogno di Maria sulle
parole «Lo chiameranno figlio di Dio», quando Maria scopre d’essere incinta. Ma proprio in questo dettaglio la musica può instillare il dubbio ed evocare una diversa lettura.
Un primo sospetto è suggerito da qualche affinità del Sogno
di Maria con una precedente canzone dello stesso De André: Leggenda di Natale di Tutti morimmo a stento (1968). Qui, in
un’atmosfera fiabesca e in un ambiente acustico più raccolto ma connotato dalla presenza d’un tappeto sonoro, una
bambina subisce addirittura violenza. Ma anche senza tenere conto di questa possibile analogia, i coretti del Sogno e
di Ave Maria assomigliano fin troppo ai cori finali delle favole animate, suggellati dal cartello “e vissero felici e con-
all’ascolto un legame retrospettivo fra lo strazio del momento, con Maria sola e isolata davanti al figlio morente, e lo stato d’esaltazione d’Ave Maria. Così, esso parrebbe denunciare cosa possa voler dire veramente essere donne ed essere
madri, al di là delle celebrazioni e dei luoghi comuni. Il trattamento musicale, insomma, fa trapelare dalla Buona novella un’accorata riflessione sulla condizione femminile e sulla maternità che non ha forse perso d’attualità. E se a molti nel 1970 l’album parve una fuga dal reale, basterebbe solo
quest’esempio a darne ancor oggi la misura di lavoro d’impegno etico, civile, politico. Un impegno che prende forma,
oltreché dal testo, dalla ricercatezza dell’assetto musicale. ◼
l’altra musica — 45
Il jazz originale
ed espressivo di
Riccardo Brazzale
Compie vent’anni
la Lydian Sound Orchestra
del musicista vicentino
Q
di Guido Michelone
uarantottenne, originario di Thiene, compositore e big
band leader, Riccardo Brazzale è senza dubbio il maggior jazzista vicentino e forse dell’intero Triveneto grazie a un’originalità
espressiva, mista di classicità e rinnovamento, di bebop e modal-jazz, che si manifesta in una freschissima direzione orchestrale con album quali Melodious Thunk, Timon of Athens, The Art of Arranging, Monk at Town Hall & More, Azurka, Back to Da Capo, Live in Appleby.
nie Tristano, Giampiero Cane, Pino Candini, Cesare Galla,
Paul Motian, Enrico Intra, Maurizio Franco.
Il Veneto è una sorta di isola felice per il jazz, dove operano tante realtà
non solo nei centri più grossi ma anche nei borghi più piccoli. Come ti spieghi queste bella realtà?
Non sono solo rose e fiori, però resta una buona terra per
gli uomini del jazz, per una tradizione che viene da lontano: il
Centro d’Arte dell’Università di Padova, il Caligola di Mestre
e le mille tradizioni di Verona, dalle big band alle estati del Teatro Romano. Ma è vero che la novità sta in provincia: penso
a cosa è riuscita a smuovere Lilian Terry a Bassano, con tutti i
positivi influssi su Marostica e sul Trevigiano.
E nel Vicentino?
Oltre l’opera della Gioventù Musicale di Vicenza, persino a
Valdagno c’era un clima incredibile. Oggi è un pullulare di locali, scuole, teatrini e luoghi jazz finanche improbabili. Oltre
le rose, ci sono anche le spine, fatte crescere dai poteri, che misurano tutto solo in euro. Ma è un problema non solo veneto.
E fra i tuoi colleghi, sempre veneti, con quali lavori di più o chi apprezzi maggiormente?
Ho sempre lavorato moltissimo con loro, perché fra i veneti ci sono musicisti di qualità assai elevata, da Pietro Tonolo a
l’altra musica
Riccardo Brazzale e la Lydian Sound Orchestra
Riccardo, anzitutto complimenti: hai vinto al Referendum Top Jazz
2008. Credo sia la prima volta per un musicista veneto. Come ci si sente?
La vita da jazzman continua come prima: è un riconoscimento che mi fa molto piacere, ottenuto con un numero alto di voti e distacco da colleghi da «storia del jazz italiano». Tra i veneti c’è un precedente: Paolo Birro, che vinse anni fa tra gli emergenti e che, meritatamente, oggi è fra i migliori pianisti; e fra i
«triveneti», da un paio d’anni il friulano Daniele D’Agaro si impone fra i sassofonisti-clarinettisti. Se consideri poi il secondo
posto della Lydian Sound Orchestra fra i gruppi, il jazz veneto
gode di ottima salute!
Questa tua vittoria premia anche un gioco di squadra? In fondo il tuo nome va di pari passo con la Lydian Orchestra…
Non v’è dubbio. La Lydian è la «mia» creatura e in questo
2009 compie vent’anni, un traguardo ragguardevole per una
formazione non piccola e non sostenuta da fondi pubblici.
Facciamo un passo indietro: la tua vita musicale in cinque righe?
Mi sono formato in parallelo all’Istituto di Jazz di Parma e
al Dams di Bologna. Poi, dopo l’apprendistato, l’incontro con
Claudio Fasoli, con cui si son messe le basi per la LSO. Quindi
tanti incontri con musicisti, addetti ai lavori, persone che per
me hanno significato molto.
Chi per esempio?
Così, alla rinfusa, oltre Fasoli, anche Franco D’Andrea, Len-
Birro. Il vicentino, in particolare, è terra di batteristi-percussionisti, Mauro Beggio, Roberto Dani, Gianni Bertoncini,
Franco Dal Monego, Saverio Tasca, quest’ultimo vibrafonista
davvero eccellente; e molto bravo è il chitarrista Michele Calgaro. Ma non dimentico gli americani del Veneto, dal contrabbassista «veneziano» Marc Abrams, al trombettista «veronese» Kyle Gregory e al sassofonista vicentino Robert Bonisolo.
Sei famoso anche per dirigere Vicenza Jazz, festival notevolissimo: quali le peculiarità? Di cosa vai fiero in tal senso?
Sono orgoglioso di aver portato il jazz dove prima non c’era:
in teatri, palazzi antichi, chiese, piazze, trattorie, vetrine dei
negozi. Sono felice di aver dato la possibilità di ascoltare «colonne portanti» della storia del jazz, fuori dalle consuetudini
del mercato. Soprattutto vado fiero che oggi si parla di jazz come di una cosa familiare. Un concerto? Quello che dà il nome
al festival «New Conversations»: il trio di pianisti Paul Bley, John Taylor e Rita Marcotulli che reinterpretavano le «Conversations» di Bill Evans.
Tuoi progetti presenti e futuri come musicista?
Il 2009 dovrebbe essere una buona annata con la registrazione del disco del ventennale, tutto con composizioni nuove, anche se qualcuna ispirata alla tradizione. Il progetto che non verrà mai meno sarà cercare sempre qualcosa di nuovo continuando a ripartire dalle tradizioni. ◼
46 — l’altra musica
Le anime di paese
di Davide
Van De Sfroos
Il cantautore
e cantastorie lombardo
approda in Veneto
N
dei dialetti italiani capita
di imbattersi in frasi che suonano totalmente altro
da ciò che in realtà significano, arrivando a volte a
sembrare espressione di lingue differenti: Van Des Froos,
ad esempio, potrebbe benissimo essere il cognome di un
qualche pittore fiammingo o di un nobile olandese, mentre in realtà corrisponde
a una traduzione ben poco valorosa come «vanno di frodo».
Davide Bernasconi ha
scelto questo curioso nome d’arte agli inizi degli anni novanta su ispirazione del proprio barbiere che commentava la nascita del gruppo
e con un inevitabile riferimento che va alla figura del contrabbandiere avventuriero di confine, che spesso troviamo
nelle sue canzoni. Dalle
prime esperienze con un
gruppo punk, arriva in
seguito la folgorazione e
l’ispirazione derivata soprattutto dall’ascolto di
Davide Van De Sfroos
Creuza de Ma di Fabrizio
de André, uno dei capolavori assoluti dell’artista
genovese. Se lì avevamo
mente scritto in dialetto e ambientato su un fantasioso Ladavanti un mare, qui c’è un lago ben più ridotto nelle digo di Como abitato da maghi, cavalieri e vescovi. Ancomensioni ma non meno carico di spunti e materiale su cui
ra il lago a far da scenario per Le Parole Sognate dai Pesci, rocostruire buona musica.
manzo che narra le avventure degli abitanti riuniti al bar
Nasce l’idea dell’uso del dialetto nella composizione mudel piccolo paese e per Il mio nome è Herbert Fannucci, ultimo
sicale: è il laghee ovvero la lingua parlata dagli abitanti del
libro uscito nel 2005, storia di un misterioso personaggio
lago di Como. Un mondo fatto di storie di pescatori, perche ritorna in paese dopo un’esistenza vissuta da rockstar.
sonaggi e leggende che ruotano attorno alla vita del lago
Un cantautore, un cantastorie, un acuto osservatore d’anie che diventano protagonisti inconsapevoli delle canzoni
me di paese Davide Van De Sfroos è tutto questo. Legato
perché, come dice lui stesso, «basta partire dal riconosceindissolubilmente alla sua terra, non si stanca di sviscerarre qualcosa di straordinario nella quotidianità di ognuno,
ne aspetti che altri non si fermerebbero nemmeno a guarbasta raschiare un po’ la superficie del paesino o del persodare. E se per i testi non serve allontanarsi dall’alta Lomnaggio più tranquillo per trovarci dentro una storia». I pribardia, per i suoni e la musica si viaggia aldilà dell’oceano
mi lavori, Ciulandàri e Vüf (che segnano la collaborazione
e oltre, mescolando rock, blues e reggae, Dylan, Springstecon i De Sfroos, che si scioglieranno nel 1996), sono una
en e Tom Waits (come quando nel 2002 trasforma «Frank’s
sorpresa che colpisce pubblico e critica: il dialetto comaWild Years» in «I Ann Selvadegh del
sco rivela tutta la sua inaspettata uniFrancu») fino al country più tradiversalità regalando a Davide e ai suoi
zionale, che ha anche ispirato il nomusicisti una popolarità che parte dal
Conegliano (Tv) – Teatro Accademia
me del suo fan club, i «cauboi». ◼
Canton Ticino e arriva all’estremo sud
13 marzo, ore 21.00
el complicato dedalo
l’altra musica
di Tommaso Gastaldi
della penisola. I nomi dei due venti che soffiano sul lago,
Brèva e Tivàn, ispirano il titolo del quarto disco che gli vale anche il premio Tenco come miglior artista emergente.
A conferma della grande attenzione che la critica riserva a
Davide, nel 2002 si ritrova sul palco dell’Ariston di Sanremo per ricevere la targa Tenco per il miglior album in dialetto, E semm Partii. Stesso premio che gli viene consegnato lo scorso anno per l’album Pica! sua ultima fatica discografica: è il lavoro più maturo e sentito, che se da un lato
ben rappresenta tutta la varietà di influenze musicali che
Davide ha assorbito negli anni, dall’altro conferma la sua
profonda e innata capacità di osservare e raccontare storie
di contrabbandieri, minatori o costruttori di motoscafi, il
tutto sempre attraverso la lingua lariana mescolata a volte
a passaggi cantati in italiano.
C’è anche un Davide a cui i quattro minuti di una canzone stanno stretti, che ha bisogno di raccontare storie più
lunghe, che possano riempire pagine di libri: Perdonato dalle Lucertole è una raccolta di poesie pubblicata nel 1997 seguita nel 2000 da Capitan Slaff, un poema epico rigorosa-