temi e saggi - Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche

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temi e saggi - Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche
TEMI E SAGGI
Regionalismo (voce del Dizionario di
politica, 2004)
di Ettore Rotelli
1. Le accezioni del termine. Il termine r. ha perduto alla
fine del sec. XX, non solo in Italia, il significato e la valenza, in
genere non più negativa, che aveva vent’anni prima, quando
anche sui vocabolari della lingua italiana veniva identificato finalmente con la «tendenza politica di coloro che sono favorevoli alle autonomie regionali», cioè all’autonomia delle Regioni,
le istituzioni pubbliche territoriali immediatamente inferiori,
per dimensioni, cioè per superficie, allo Stato e comunque superiori, pure per superficie, a quelle delle comunità locali primarie (Comuni). Il r. invero ha cittadinanza pure nelle scienze
economiche, dove propriamente si parla di «economie regionali», peraltro quasi mai coincidenti con le circoscrizioni istituzionali, ma la applicazione prevalente del termine riguarda, per un
verso, la scienza giuridica e, per l’altro, la scienza politica, spesso utilizzate, purtroppo, come se fossero fungibili. Dunque, si
chiamava r. l’istanza, il movimento, appunto la tendenza di
quanti propugnavano la costituzione delle Regioni oppure, se
già esistenti, un rafforzamento della loro autonomia politica.
Questa consiste nella «capacità» di proprie politiche pubbliche e dipende dalla presenza di requisiti che, per la consistenza sempre diversa, sono contemporaneamente dei fattori:
l’autogoverno (anzitutto la elettività degli organi istituzionali), il
potere normativo (in primo luogo legislativo), il potere amministrativo (emissione di singoli atti), l’autonomia finanziaria (di
entrata e di spesa), la proprietà delle funzioni, che corrisponde
alla assenza di controlli cosiddetti di merito, da non confondere coi controlli cosiddetti di legittimità, relativi alla regolarità
formale del procedimento deliberativo seguito. Contano, altresì, pur senza assurgere a requisiti in senso stretto, l’autonomia
statutaria e organizzativa, la dimensione demografica e territoAMMINISTRARE / a. XXXIV, n. 3, dicembre 2004
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riale, oltre agli elementi di contesto sottesi, come il peso degli
interessi economici e sociali e dei vincoli culturali.
Agli inizi del sec. XXI siffatta materia politico-istituzionale,
che diventa costituzionale allorché trasfusa in Costituzione, si
preferisce definirla col termine «federalismo», privato nella
specie del suo valore ideologico e separato dalla sua perdurante estensione alle pratiche associative e organizzative, in primis
sindacali. Sia r. sia «federalismo» sono sostantivi che derivano
da aggettivi, nell’ordine «regionale» e «federale», ma tali aggettivi, a loro volta, derivano in un caso da una istituzione, la Regione, che impersona giuridicamente un territorio (regione), nei
cui confini è insediata una popolazione, e, nell’altro caso, da
un atto o una serie di atti («processo»), qual è il federarsi, per
dare vita a una istituzione prima inesistente come tale: soprattutto lo Stato, classificato per questo «federale», ma non soltanto lo Stato ché il risultato dell’atto o patto o processo federativo può essere anche infra-statale (p. es., la Regione stessa).
Il fenomeno per cui, in un quarto di secolo, la medesima
materia politico-costituzionale, oggetto di distribuzione del potere pubblico, è definita con due termini diversi, ha spiegazione sia nello svolgimento dei fatti sia nella comparazione che si
è tentata. Sull’intero pianeta, specie nell’Europa centrale e
orientale, è cresciuto enormemente il numero degli Stati sovrani, cioè degli Stati che, per stare alla definizione classica, si trovano nella posizione, beninteso giuridica, di non avere nulla sopra di sé (sovranità), ormai liberati dalla soggezione a un vincolo sovrastante, federale o non federale, magari autoritario.
Contemporaneamente in Europa occidentale istituzioni del più
alto livello infra-statale, «regionali» nel senso anzidetto, sono
state rafforzate o introdotte ex novo (Spagna e Gran Bretagna).
Così, vent’anni dopo, non sarebbe più proponibile lo stato
della «regionalizzazione» in Europa descritto nel 1982, contrapponendo Stati con Regioni cosiddette amministrative
(Francia e Gran Bretagna), Stati con Regioni costituzionali (Italia, Belgio e Spagna), Stati federali con Regioni quali Statimembri (Austria e Germania). Allora il divario di questi ultimi
dai primi due sembrava netto. Mentre Germania occidentale e
Austria constavano di dieci Länder (più Berlino) e, rispettivamente, nove, previsti nella Costituzione federale e dotati di
propria Costituzione, la Francia aveva appena trasformato ventidue Regioni da enti pubblici non territoriali in enti territoriali
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provvisti di autonomia solo amministrativa (legge 21 marzo
1982 e legge speciale per la Corsica) e la Gran Bretagna disponeva di dieci Regioni, intese però come uffici statali periferici
di coordinamento (otto in Inghilterra, uno in Scozia, un altro
in Galles), istituiti con legge statale. Se in Spagna le Comunità
autonome presentavano analogie con le venti Regioni italiane
(anche nella distinzione fra ordinarie e speciali), in Belgio si sovrapponevano due Comunità culturali, fiamminga e francese,
più una tedesca, a due Regioni amministrative, fiamminga e
vallone, più Bruxelles. Dei Cantoni svizzeri, pur Stati-membri
di Stato federale, si notava che avevano dimensioni demografiche generalmente inferiori agli enti locali territoriali di secondo
livello, come le Province italiane. Ma, rispetto a queste, non
erano molto difformi, per popolazione, anche se non per superficie, i Länder austriaci.
Si è preso a parlare di «federalismo», piuttosto che di r.,
pure in Europa perché, di fronte alla istituzione e maggiore autonomia delle Regioni (comunque denominate), il punto di riferimento, cui guardare, non poteva non restare il Nord-America,
in particolare gli Stati Uniti. Nonostante l’accentramento effettivo progressivamente seguito alla Costituzione del 1787, invariata nel testo, ma non nella applicazione, essi avevano continuato
a offrire l’esempio di una posizione di forza degli Stati membri
non attingibile né dalle Regioni, né dai Länder stessi. D’altra
parte, comprensibilmente, la letteratura politico-giuridica nordamericana, analizzando la propria forma di Stato e le sue interne trasformazioni, sempre si era espressa in termini di «federalismo». Non poteva abbandonare il suo linguaggio nel momento in cui, esaltando ed implicitamente esportando il modello,
affrontava su scala intercontinentale il tema delle relazioni centro-periferia, ormai universale e diffuso, quanto meno, nelle democrazie occidentali. Individuava, allora, molte specie di «federalismo territoriale», che avrebbe potuto designare e classificare
come altrettante specie di r. se, omettendo la genesi, avesse mirato alla misura dell’autonomia politica, sopra definita, di ciascun tipo di Regione o Land o Stato-membro (o Cantone).
Una analisi simile, che fosse condotta, s’imbatterebbe in
una questione che quasi sempre i giuspubblicisti europei hanno
trascurato, così come, di frequente, i politologi anglosassoni: la
rilevanza della dimensione territoriale-demografica. Gli Stati
Uniti d’America e la Confederazione elvetica sono reputati,
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ineccepibilmente, Stati federali. Ma non per questo l’autonomia
politica dei Cantoni svizzeri e quella degli Stati americani sono
equiparabili nella «capacità» di proprie politiche pubbliche.
Del resto, la rilevanza della dimensione, non semplicemente demografico-territoriale, emerge pure nel confronto fra Stato e
Stato, Land e Land, Cantone e Cantone, Regione e Regione, del
medesimo ordinamento.
«Federalismo» e r. sono agli antipodi, anzitutto, nel metodo, cioè nel procedimento, e solo di conseguenza sono diversi
nell’esito, peraltro mai definitivo. Col primo più Stati, prima
sovrani, si «federano», dando luogo a uno Stato sovrano. Col
secondo uno Stato sovrano suddivide al suo interno il potere
pubblico lasciandone una parte a istituzioni (regionali) che crea
o riconosce allo scopo. Tuttavia, non è scontato, almeno in via
di principio, che quanto conservano gli Stati che promuovono
lo Stato federale sia più di quanto alle Regioni (o ad alcune di
esse) viene assegnato dallo Stato ancora unico sovrano.
Fra lo «Stato federale» e lo «Stato regionale», come in Italia, sulla base del regime concesso all’Irlanda del Nord (Government Ireland Act, 1929), della Regione spagnola della Costituzione del 1931 e della Generalitat de Catalunya, fu identificato
negli anni Trenta del Novecento prima di trasferirlo nella Costituzione repubblicana del 1948, la differenza, insomma, è essenzialmente genetica. Non esiste, infatti, alcun elemento istituzionale positivo la cui presenza o assenza nell’ordinamento discrimini facendo includere o escludere uno Stato dal novero
degli Stati che sono definiti federali (anche quando non si definiscono essi stessi «federali» o «federati» in Costituzione, come
nel caso degli Stati Uniti d’America). Neppure la facoltà di secessione sarebbe determinante ove non prevista originariamente. La partecipazione delle Regioni a ogni revisione costituzionale è contemplata pure nelle costituzioni degli Stati che, appunto, non sono federali (art. 138 della Costituzione italiana).
Può non mancare in questi l’attribuzione in Costituzione delle
competenze alle Regioni e solo residualmente allo Stato, così
come una camera alta, dove siano rappresentate. Né decisiva è
la titolarità o meno di funzioni giudiziarie.
La contrapposizione fra «federalismo» e r. come metodi di
costruzione delle istituzioni politiche vale, mutatis mutandis, non
solo per lo Stato, ma anche all’interno del medesimo. Altro è
che, secondo Costituzione, Comuni si federino per dare luogo
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alla Regione (o a Province che danno luogo alla Regione), contestualmente conferendo ad essa poteri, e altro che la Regione
attribuisca poteri ai Comuni (o alle Province).
Che in Europa, particolarmente in Italia, si sia preferito da
ultimo adottare il termine «federalismo», sostituito a r. persino
nei processi di revisione costituzionale e nelle costituzioni monarchiche (onde il Belgio nel 1993 è diventato, per sua propria
definizione, «Stato federale formato da comunità e regioni»), si
comprende con l’esigenza, squisitamente politica, di persuadere
che all’istanza autonomistica insorgente è stata data la maggior
soddisfazione possibile. Ha mostrato, però, la sua debolezza e
gracilità quella scienza giuridica e politica, quasi mai disinteressata, che, in Europa e in Italia, si è prestata all’equivoco.
2. Il federalismo «classico» e le istituzioni regionali. Se tutto
quanto viene generalizzato agli inizi del sec. XXI sub specie di
«federalismo» fosse considerato invece sub specie di r., cioè
della genesi e della sussistenza di amministrazioni di grandi
«entità» territoriali (termine insoddisfacente, ma non meglio
fungibile), esponenziali di collettività locali, e si prescindesse
dalla definizione che di ciascuno Stato, in un modo o nell’altro
comunque unitario, dà la Costituzione rispettiva o, in mancanza, la sua giuspubblicistica, emergerebbe un quadro istituzionale meno inesatto. Di siffatte «entità» soltanto gli Stati membri
di Stati effettivamente federali sono davvero tali, cioè dotati di
parlamento (o Congresso), organi costituzionali separati, complessi amministrativi-pubblici poteri. Essi hanno potestà sicuramente limitate dalla contestuale presenza dello Stato federale,
più che dalla mancanza della sovranità, questione giuridica ormai astratta, dalla residualità formale delle competenze non trasferite, dalla spettanza della competenza delle competenze a organi dello Stato federale stesso.
In tale prospettiva non risultano «federali», nonostante la
definizione letterale, molti Stati latino-americani, come Messico, Venezuela, Brasile, Argentina, ecc., mentre lo rimangono
Stati Uniti d’America, nonché Canada e Australia, diversi,
però, nella genesi, che è quella del Commonwealth (britannico).
Se le tredici colonie nord-americane, con la «Dichiarazione di
indipendenza» (1776), si pongono come altrettanti Stati sovrani
prima di dare luogo a uno Stato federale (1789), vi pervengono
direttamente come dominions Canada e Australia. Gli Stati
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Uniti d’America si presentano, così, non solo come prototipo
del governo federale, il primo fondato da una Costituzione moderna del sec. XVIII, «rigida» e scritta, ma, per molto tempo,
anche come l’unico caso. A metà del XIX, nel 1848, si aggiunge la Svizzera, priva in precedenza di un’amministrazione centrale e con Cantoni che non erano certo, né mai sarebbero diventati, grandi «entità» territoriali.
Il racconto generalmente fatto della genesi e della lunga
durata della forma di Stato nord-americana tende ad attenuarne la peculiarità per far rientrare nel «federalismo» il maggior
numero possibile di esperienze, semmai distinguendone uno
che sarebbe classico da un altro che non lo sarebbe (ciò che
non è criterio di classificazione delle istituzioni politiche, né
per la scienza giuridica, né per la scienza politica). Si assume
allo scopo che il federalismo sia stato anzitutto un risalente
pensiero politico e che la Convenzione di Filadelfia, infine, lo
abbia messo in pratica con diligenza. Si dimentica, in tal modo,
la lezione impartita dall’unico federalista italiano, Carlo Cattaneo, quando federalista egli ancora non era: «Prima ché i fatti
vengano dai pensieri, i pensieri vengono dai fatti» (1846).
Gli articoli di James Madison, John Jay, Alexander Hamilton, poi raccolti nel Federalist, non furono compiuta teoria di
un governo federale, ma argomenti da loro selezionati e usati
per convincere a eleggere «convenzioni» (convention) degli Stati, in particolare a New York, che ratificassero la Costituzione
redatta nel 1787, come, in effetti, avvenne, sia pure per pochissimi voti, dati infine anche da anti-federalisti preoccupati che,
altrimenti, l’indipendenza, appena conquistata sul campo di
battaglia, andasse perduta. Alexander Hamilton non aveva avuto peso nella Convenzione di Filadelfia, dove, in minoranza
nella stessa delegazione del New York e lasciato solo a firmare,
si era limitato a proporre, in sostanza, la forma di governo inglese con l’unica variante di un presidente (in luogo del re) e
di senatori eletti l’uno e gli altri a vita e della riduzione degli
Stati a governo locale. James Madison, che, virginiano, aveva
svolto invece un ruolo determinante, continuò a dolersi, pur
dopo la firma, che non si fossero subordinate all’approvazione
del Congresso degli Stati Uniti le leggi dei singoli Stati, non
prevedendo egli allora la funzione che poi avrebbe assunto, anche al riguardo, la Corte suprema a presidenza John Marshall
(1801-1835). Avevano ritenuto entrambi che, nondimeno, la
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Costituzione venuta fuori fosse meglio di niente. Donde l’impegno attestato dal Federalist. Ma il perdurante potere legislativo,
esecutivo e giudiziario degli Stati, che ne avrebbe fatto per due
secoli il modello di federalismo, si deve alla reiezione, non già
all’accoglimento, delle loro originarie proposte da parte della
maggioranza delle delegazioni presenti a Filadelfia.
In quel contesto, dunque, «federalismo» significa centralismo dello Stato federale e il suo contrario autonomia politica
degli Stati federati. Se si desume il grado di democrazia dal
rapporto proporzionale fra rappresentanti e rappresentanti, il
federalismo, che implica trasferimento del potere pubblico dagli Stati al governo federale, appare, all’interno, meno democratico dell’antifederalismo. Ma, all’esterno, gli Stati Uniti d’America, organizzati dalla Costituzione del 1787, costituiscono,
all’epoca, anche l’unica forma di Stato, repubblicana e democratica, capace di non soccombere fra monarchie che sono imperi. Non si tratta di una lettura singolare della separazione dei
poteri, né della invenzione di un regime «presidenziale» opposto al «parlamentare», quale quello, invero presunto, della coeva monarchia costituzionale britannica. A parte i giudici, che
sarebbero rimasti in carica, come in Inghilterra, finché si fossero comportati bene (quamdiu bene se gesserint), la separazione
dei poteri consisteva essenzialmente nel divieto a deputati e senatori di cumulare altre funzioni, il potere esecutivo in ispecie.
La supremazia del parlamento (Congresso) era netta, anche
perché luogo, nella sua struttura bicamerale, della composizione degli interessi degli Stati piccoli e grandi. Il presidente degli
Stati Uniti non veniva eletto a suffragio universale e diretto, né
era un «monarca elettivo», ché la Costituzione del 1787 non gli
assegnava certo i poteri che da un quarto di secolo Giorgio III
esercitava nel suo regno per prerogativa regia residua. La differenza effettiva, per Costituzione, era, invece, che né poteva determinare il governo la durata in carica e la personificazione
del parlamento (come, in Inghilterra, per i Comuni e, rispettivamente, i Lords), né accadere l’inverso.
Nel quadro costituzionale così tracciato nell’essenziale, formalmente immutato nel tempo, interpretato e applicato però in
modo diverso, rappresentabile anche con la peculiare duplice
separazione, fra Stato federale e Stati membri e, in ambedue,
fra governo e parlamento, si svolge l’azione, la lotta politica, alterando via via l’equilibrio con esito piuttosto a favore della fe-
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derazione e del presidente, ma mai fino al punto della soggezione di una componente all’altra. Il che non si verificherà per
alcun caso di imitazione del modello o per alcun altro modello.
Entro tali invalicabili limiti vuol essere considerata ogni periodizzazione del federalismo americano, come la individuazione di una prima fase dualistica (1790-1860), una seconda centralistica (1860-1933), una terza cooperativa, forse seguita o accompagnata, a partire dagli anni Sessanta, da una quarta di più
accentuati vincoli federali. Il federalismo «collaborativo» è consistito essenzialmente di grants-in-aid, finanziamenti federali ai
governi statali e locali per determinati interventi pubblici, perseguiti necessariamente tramite loro (102 programmi tra 1941 e
1960). I successivi block grants sono stati, invece, finanziamenti
concessi in maniera automatica per programmi definiti genericamente, che lasciavano agli Stati maggiore autonomia.
Nel «federalismo» definito classico vengono inseriti di solito,
accanto al prototipo, i casi di origine ottocentesca della Svizzera
(1848), del Canada (1867) e della Germania (1870). Del primo,
come detto, è improbabile la comparabilità per le dimensioni
dei Cantoni, ma va sottolineata almeno l’analogia giuridica del
processo formativo, per il quale si è passati, come già negli Stati
Uniti, da un rapporto di «confederazione» a una «federazione»
vera e propria. Il sistema ha funzionato per un complesso di fattori: tensione fra francofoni e germanofoni; tre lingue, cioè tedesco, francese e italiano (oltre al romancio); uso di una sola in
ogni cantone (tranne tre) a tutela della identità francese e italiana rispetto alla maggioranza tedesca incombente; ampiezza delle
competenze e dell’imposizione fiscale dei Cantoni, ma anche
amministrazione cantonale e comunale dei programmi federali;
soprattutto, più che il Consiglio di Stato, dove i Cantoni sono
rappresentati, ma si contrappongono per linee partitiche, potere
locale esercitato tramite la democrazia diretta, che, in pratica, è
facoltà di veto sulla legislazione federale (cinquantamila elettori
o almeno otto Cantoni possono sottoporre a referendum popolare la legge del parlamento che non sia di spesa: non viene
considerata approvata se non con il voto della maggioranza dei
votanti). È stata contrastata, in tal modo, l’espansione delle
competenze federali. La nuova Costituzione, entrata in vigore
nel 2000, aumenta i poteri anche di tassazione della Confederazione, come il governo federale continua a chiamarsi.
Pure si è accennato alla genesi del federalismo canadese dal
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regime coloniale britannico. Con l’atto di Westminster la colonia, già francese, del Canada fu divisa, nel 1791, fra due Province con proprio parlamento, l’attuale Ontano e l’attuale Quebec, abitate in prevalenza da coloni inglesi e rispettivamente
francesi, i quali ultimi, in minoranza nel complesso, erano presenti anche sulla costa atlantica (New Brunswick, Nuova Scozia, Isola del principe Edoardo). Con l’Act of Union del 1841 si
dispose l’unificazione attribuendo alle due comunità ugual numero di deputati nell’unica assemblea elettiva e due diritti,
common law e civil law. Col 1848 fu consentita, a cominciare
dalla Nuova Scozia, la forma di governo parlamentare, ma la
pratica del governatore di nominare due primi ministri, con
raddoppio degli alti funzionali, comportò immobilismo. Con il
British North America, che l’8 marzo 1867 sancì quanto convenuto fra i delegati delle Province del Canada, delle Province
marittime e del governo britannico, si ebbe il nuovo assetto:
unico Dominion (capitale Ottawa), con quattro Province, Ontario e Quebec nuovamente divisi, New Brunswick e Nuova Scozia, cui altre se ne aggiungeranno (Manitoba 1870; British Columbia 1871; Prince Edward Island 1873; Alberta e Saskatchewan 1905; Terranova 1949). Ma, appunto, restava un Dominion, con un governatore generale, rappresentante della Corona, sebbene tenuto, secondo regime parlamentare, a nominare
primo ministro il leader del partito di maggioranza. Soltanto
nel 1982, con il Canada Act, si conseguono l’indipendenza e la
piena sovranità dello Stato, implicante, fra l’altro, l’acquisizione
del potere di revisione costituzionale.
Almeno due aspetti «strutturali», introdotti col British North
America del 1867 e conservati nel tempo, tradiscono, specie al
confronto con la Costituzione degli Stati Uniti, l’origine non
precisamente «federale», cioè democratica, dal «basso», della
forma di Stato canadese. Il primo, non decisivo di per sé, ma
variamente rilevante secondo la specifica definizione e applicazione, è l’attribuzione al parlamento federale della potestà legislativa residuale nelle materie non lasciate alle Province ed elencate espressamente (sanità, assistenza, educazione, agricoltura, immigrazione, oltre che giustizia e imposizione fiscale diretta sul reddito): sulla legislazione delle Province gravava, inoltre,
il controllo del governo centrale con eventuale annullamento
(nel sec. XX reservation e disallowance non sono stati più utilizzati). Il secondo è la nomina governativa dei senatori, fatta
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non per Province, ma per «divisioni» interne alle stesse: secondo l’Atto del 1867, ventiquattro dell’Ontario e altrettante del
Quebec, dodici del New Brunswick e altrettante della Nuova
Scozia. Manca così quell’equilibrio fra Stati (in Canada Province) nella struttura bicamerale del parlamento che nella Convenzione di Filadelfia (1787) era stato ottenuto col Connecticut
Compromise e valeva anche per la elezione del presidente. L’assenza di un senato elettivo e quindi davvero rappresentativo
non è compensata, d’altronde, dalla pratica convenzionale di
formare il governo federale, politicamente monopartitico, tenendo conto della estrazione provinciale dei ministri.
Non sorto per «patto» democratico di Stati sovrani, il federalismo canadese si caratterizza per il suo centralismo, sviluppato fino alla fine del sec. XIX dal lungo governo conservatore.
L’opposta tendenza, iniziata nel 1896 con l’avvento di un premier liberale francofono, è dipesa non tanto dalla giurisprudenza del Privy Council britannico, fino al 1949 ultimo grado di
giustizia per il Canada, il quale ha interpretato sempre in senso
restrittivo i poteri residui del governo centrale e la sua competenza in materia di commercio, quanto dalla permanenza di una
comunità di lingua francese difesa e rappresentata dalle istituzioni del Quebec. Ne è stata conseguenza il limitato accentramento
del sistema politico, bensì bipartitico (conservatori e liberali), ma
non senza partiti provinciali e partiti nazionali decentrati.
La ripresa del centralismo, connessa negli anni Trenta alla
Grande depressione e prolungata per tutti gli anni Cinquanta,
si avvale dei finanziamenti condizionati (conditional grants) per
l’attuazione dei programmi economico-sociali federali da parte
delle Province. Il cosiddetto federalismo «esecutivo» e il coinvolgimento nelle politiche statali attraverso le conferenze dei
capi di governo e dei ministri federali e provinciali come sedi
della negoziazione fra i due livelli, la rinuncia delle Province all’imposizione fiscale diretta in cambio di sussidi dello Stato,
hanno reso funzionante il sistema complessivo. Non consentono, però, di riconoscervi un’autonomia locale, una disponibilità
di strumenti e risorse per proprie politiche pubbliche, maggiore di quella di uno Stato reputato semplicemente «regionale»,
anziché «federale».
A sostenere l’immagine di «federalismo», dissimulato come
«esecutivo» e «cooperativo», è il profilo costituzionale del permanente «nazionalismo» del Quebec, rimasto estraneo e non
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accontentato, nelle sue rivendicazioni, dal Canada Act (1982).
Quando il Parti Québecois, fondato nel 1968 e tornato al potere nel 1994, ha promosso l’anno dopo il referendum che autorizzava l’assemblea provinciale a dichiarare l’indipendenza del
Quebec, solo l’esigua maggioranza del 50,6% si è pronunciata
in senso contrario (era stata del 60% nel referendum del 1980
sulla proposta di «sovranità-associazione»). Appare ancora imprevedibile, pertanto, che il «federalismo asimmetrico», come
quello canadese viene chiamato per la disparità di trattamento
a favore del Quebec, sia sufficiente a scongiurare per sempre la
secessione.
3. Le Regioni e i Länder dell’Europa occidentale. A parte la
Svizzera, solo la Germania viene considerata un caso europeo
di «federalismo classico», anzi il più importante, degno di imitazione. Quello austriaco, infatti, non risale al sec. XIX, ma alla
Costituzione del 1920 e già per le sue origini non appare federalismo in senso stretto. La genesi non è stata pattizia, i Länder
non erano Stati e, per di più, sono rimasti privi di poteri giurisdizionali, di una loro (seconda) camera, del diritto di partecipazione alla revisione costituzionale.
Nonostante l’articolo 20 della Grundsgesetz del 1949 per
cui la «Repubblica Federale di Germania è uno Stato federale
democratico e sociale», anche del federalismo tedesco, in quanto rigorosamente distinto, nella classificazione, dal r., si può
dubitare. Asserisce che sia federalismo chi, p. es. in Italia, sia
interessato ad assorbire l’istanza autonomistica insorgente con
la ricezione di qualcuno dei suoi elementi (il Bundesrat, composto dai Länder, accanto al Bundestag, la dieta federale), comunque conciliabili con un regime parlamentare (escluso, da
sempre, sia negli Stati Uniti sia in Svizzera). Lo nega, invece,
chi osserva che i Länder non sono equiparabili agli Stati membri, i campi di potestà legislativa esclusiva e concorrente del
Bund (art. 71-75) non sono affatto ristretti e quasi a ogni materia di competenza del Land corrisponde un ministero federale.
Per concludere che si tratta di federalismo bisogna ammettere
(e pure in Italia, in effetti, comunemente si ammette) che esso
presenta un carattere centralizzato e integrato, mantenuto tale,
se non accentuato, con l’unificazione (1990). Bisogna, inoltre,
farlo rientrare nella specie del «federalismo» che postula la
partecipazione dei Länder alle politiche pubbliche del Bund e
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sarebbe esecutivo e cooperativo: nel 1994 un emendamento costituzionale attribuisce al Bundesrat un potere di veto sulle questioni dell’Unione europea. Insomma, federalismo senza autonomia politica, senza tutti i necessari presupposti di politiche
pubbliche dei Länder.
Federale in senso classico, pattizio e paritario, non è stata,
del resto, nemmeno la genesi: non tanto perché capo del Reich
tedesco (1870) fosse il re di Prussia, che nominava il cancelliere federale, cioè il governo, non revocabile da parte del Reichstag elettivo, e non tanto perché la Repubblica di Weimar
(1919-1935), introducendo il regime parlamentare, aumentasse
il potere di intervento federale sui Länder, quanto perché la
Grundsgesetz è nel segno della soluzione di continuità. Viene
elaborata, su incarico dei governi alleati occidentali, dal Consiglio parlamentare, sessantacinque personalità che terminano il
loro lavoro l’8 maggio 1949. Si constata il 23, in seduta pubblica a Bonn, che la Grundsgesetz è stata ratificata, fra il 16 e il
22, dalle diete di oltre due terzi dei Länder partecipanti e, di
conseguenza, essa viene firmata e promulgata dallo stesso Consiglio parlamentare.
Gli undici Länder, menzionati nel preambolo, si sono limitati, dunque, a un atto di adesione. Con questo hanno accettato, per di più, un principio incompatibile con la genesi federale
di uno Stato federale. Per l’articolo 29 della Grundgesetz «il
territorio federale è da ristrutturare con legge federale» e «la
ristrutturazione territoriale deve creare dei Länder che, per
grandezza e per capacità produttiva, possano adempiere efficacemente ai compiti loro spettanti». La norma non è operante
prima della fine del regime d’occupazione (1955). Ma nel 1952,
con speciale procedura, i tre Länder sud-occidentali del Baden,
del Württemberg-Baden e del Württemberg-Hoenzollern vengono fusi nel Baden-Württemberg, che, con nove milioni di
abitanti, diventa il terzo, per popolazione, dei dodici Länder tedeschi, dopo Nordrhein-Westfalen (diciassette) e Baviera (quasi
undici). I maggiori, peraltro, sono penalizzati nella composizione del Bundesrat (art. 51), dove ogni Land ha tre voti, quelli
con più di due milioni di abitanti quattro, quelli con più di sei
milioni cinque (col trattato di unificazione tedesca del 31 agosto 1990 saranno sei per i Länder con più di sette milioni).
Solo nel 1976 il riordinamento territoriale verrà subordinato al
voto delle popolazioni interessate.
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Le Regioni costituite o ricostituite in Europa con diverse denominazioni nell’ultimo quarto del sec. XX vengono ricomprese
nel federalismo, ovviamente non «classico», con l’inversione del
movimento. Se la federazione procede dagli Stati allo Stato federale unitario, la «federalizzazione» (C.J. Friedrich) consisterebbe
nel procedere dallo Stato unitario, non federale, allo Stato federale attraverso una qualche riproduzione costituzionale dei suoi
istituti. La «devoluzione» (devolution) è trasferimento di poteri
e competenze dallo Stato alle Regioni (e, volendo, agli enti infraregionali), analogo a un decentramento, beninteso non meramente amministrativo (cioè dall’amministrazione centrale all’amministrazione periferica del medesimo ente). La differenza non è
solo etimologica. Mentre il decentramento muove esclusivamente dal centro alla periferia, la devoluzione, di per sé, può significare anche l’opposto, portare la decisione a un livello superiore.
Escludendo le Regioni italiane, sovrapposte dalla Costituzione repubblicana del 1948 a Comuni e Province, ma non costituite prima del 1970, a parte le cinque «speciali» (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia), è da considerare, anzitutto, la Spagna, dove, sulla base della Costituzione del 1978, si perviene anche al riconoscimento
delle risalenti identità culturali e linguistiche basca e catalana,
nonché galiziana, negate e conculcate dalla dittatura franchista
dopo la guerra civile (1936). Si offriva, precisamente, un esempio di federalismo infra-statale stabilendo che Province limitrofe o «di importanza regionale storica» potessero costituirsi in
Comunità autonome (art. 143), con propri statuti, approvati
dal parlamento (Cortes), nei quali figurassero le competenze assunte (art. 143) fra quelle non esclusive dello Stato (art. 148).
Nel 1983 tutte le Province risultavano già ordinate in diciassette Comunità autonome. Ma, avvalendosi di una facoltà concessa alle «regioni storiche» (art. 151), Catalogna, Paesi Baschi,
Galizia e Andalusia avevano raggiunto l’obiettivo e acquisito le
particolari competenze in materia linguistica-letteraria fra 1979
e 1981. Ne è derivato un assetto «asimmetrico» che il successivo trasferimento di competenze alle Regioni non storiche non
ha annullato, anche perché ogni incremento ulteriore deve avvenire attraverso singolo accordo bilaterale col governo centrale. Solo alcune Comunità, p. es., hanno sanità e istruzione e,
soprattutto, solo Paesi Baschi e Navarra godono pienamente di
autonoma imposizione fiscale. Per le altre è finanza da trasferi-
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ETTORE ROTELLI
mento statale, sia pure quantitativamente crescente (accordi del
1992 e 1996).
Il «federalismo fiscale», espressione chiamata a definire la
questione finanziaria sul versante dell’entrata, è, in sostanza,
l’imposizione fiscale di uno Stato federale, il quale, per essere
federale, la prevede per entrambi i livelli, lo Stato federale stesso e gli Stati membri, anzi, cronologicamente, in ordine inverso. Poiché essa è duplice, in qualche misura, pure negli Stati
che, per genesi, federali non sono, si parla per tutti di «federalismo fiscale» a significare che la risorsa finanziaria delle Regioni vuol essere propria e non prevalentemente trasferita, come
in Spagna e in Belgio.
Pure in questa monarchia, che, come detto, dal 1993 si definisce per Costituzione «Stato federale formato da comunità e
regioni», è la ridotta autonomia fiscale il limite strutturale negativo del «federalismo» proclamato. Per il resto, la complessità istituzionale del Belgio è data dalla giustapposizione di due
comunità culturali, francofona e fiamminga, e tre Regioni territoriali, vallona, fiamminga e Bruxelles-capitale, istituita, infine,
nel 1989. Ne è un riflesso la nuova complicata composizione
della camera alta: 40 senatori eletti direttamente (25 di lingua
fiamminga e 15 francofoni), 21 designati dai consigli delle tre
comunità (metà fiamminghi e metà francofoni) e 10 cooptati da
questi (6 fiamminghi e 4 valloni). Tuttavia i poteri legislativi
del Senato, prima paritari, sono stati ridotti. Per contro la elencazione delle competenze dello Stato ha reso residuali le altre:
economico-sociali delle Regioni e culturali delle comunità.
Né per la parzialità del territorio nazionale interessato, né
per la dimensione territoriale sottesa, possono reputarsi ordinamento regionale il Parlamento scozzese e l’Assemblea gallese
costituiti in Gran Bretagna nel 1997, con potere legislativo nelle materie non riservate al parlamento di Westminster il primo,
e con legislazione non primaria la seconda (di fatto comunque
sanità, istruzione, sviluppo economico, ecc.). Resta fuori, infatti, l’intera Inghilterra, alla quale erano stati uniti il Galles, nelle
sue dodici contee, nel 1536 e la Scozia nel 1707 (Regno di
Gran Bretagna) avendo già lo stesso re dal 1603 (il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda risale al 1800 e l’indipendenza di
questa, tranne la parte settentrionale, al 1919). Tanto meno si
tratta di «federalismo», a meno di non ricomprendere disinvoltamente nel termine la «federalizzazione» suddetta come specie
REGIONALISMO
(VOCE
DEL DIZIONARIO DI POLITICA,
2004)
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e la devolution come sottospecie. I due referendum del settembre 1997 sono stati di adesione. Galles e Scozia avevano da
tempo una forma distinta di governo locale, sebbene priva di
riconoscimento in una Costituzione, che, come atto scritto unitario, non esiste nel Regno Unito.
Infine, con la revisione deliberata definitivamente nel marzo 2003, ormai anche la Francia prevede le Regioni nella sua
Costituzione, senza che, naturalmente, possa parlarsi di «federalismo», anziché di semplice r. Si legge ora che la Repubblica
è «indivisibile», ma «la sua organizzazione è decentrata» (art.
1) e le collettività territoriali sono «i comuni, i dipartimenti, le
regioni», oltre alle collettività a statuto particolare e alle «collettività d’oltremare» (art. 72).
4. Le Regioni italiane. Le Regioni sono state inserite in Costituzione nel quadro di uno Stato ormai restaurato nel suo accentramento amministrativo tradizionale, risalente all’unificazione (1859-1865), e di una continuità istituzionale intaccata
solo dalla reiezione della monarchia col referendum del 2 giugno 1946. Nel secondo semestre del 1944, fra la liberazione di
Firenze guidata dal Comitato toscano di liberazione nazionale
(agosto), le «repubbliche partigiane», la proposta del Partito
d’azione Alta Italia (novembre) di istituzionalizzare a ogni livello, regionale soprattutto, i Cln già operanti nell’Italia occupata
per trattare poi paritariamente col governo di Roma, si era
consumata e perduta l’unica possibilità di rifondazione autonomistica e federalistica delle istituzioni che la storia politica
post-unitaria, con la Resistenza, avesse offerto. Per diversi, ma
convergenti interessi, estranei invece agli Alleati, i partiti nazionali al governo del Paese, dalla Democrazia cristiana al Partito
comunista, avevano optato, al momento, per la conservazione
dello Stato e della sua amministrazione centrale e periferica
(ministeri e prefetti).
«Il presente regime politico, può essere definito il fascismo
meno Mussolini più le regioni», scrisse nel 1949, all’indomani
dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, l’interprete più fedele del federalismo di Carlo Cattaneo, il meridionalista Gaetano Salvemini. Senza modificare l’ordinamento comunale e provinciale precedente (se non per il ripristino della
elettività dei consigli e, da parte di questi, degli esecutivi), sostituito non prima del 1990, erano state inserite in qualche
350
ETTORE ROTELLI
modo delle Regioni dotate in alcune materie, dall’agricoltura
all’urbanistica, dalla «istruzione artigiana e professionale» alla
«beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria ed ospedaliera»,
di una potestà legislativa cosiddetta concorrente, cioè sottoposta, da un lato, all’«interesse nazionale», e, dall’altro, ai «principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato» (art. 117), in
pratica tutto quanto il parlamento, col governo, avesse dichiarato «principî» e la Corte costituzionale riconosciuto tali, come
ampiamente sarebbe accaduto.
Aggiungere istituzioni secondo la linea di sviluppo, sempre
incrementale, finanziariamente pesante, della storia amministrativa italiana e definirle «costituite» in Costituzione, non significava, tuttavia, porle in essere. Le Regioni erano passate in Assemblea Costituente (giugno 1947) perché non potevano venire
abbandonate del tutto e all’improvviso dopo l’estromissione dal
governo e dalla maggioranza (maggio) dei comunisti e dei socialisti non usciti dal partito. Erano state, infatti, parte integrante e
precipua delle misure introdotte contro l’«onnipotenza» di un
parlamento che, alle urne, fosse risultato a maggioranza di sinistra: seconda camera (Senato) con gli stessi poteri della prima,
ma eletta non altrettanto proporzionalmente (o addirittura per
corporazioni), referendum popolare abrogativo delle leggi, Consiglio superiore della magistratura per l’indipendenza di questa,
Corte costituzionale stessa.
A parte le cinque Regioni a statuto speciale, differenziate fra
loro anche nella potestà legislativa, ostacolate altresì dalla giurisprudenza costituzionale, pressoché dissolte in un caso (Trentino-Alto Adige) a favore delle due Province «autonome» (Trento e Bolzano), l’ordinamento regionale viene attuato soltanto nel
1970, con ventidue anni di ritardo, senza effettiva autonomia
politica, ma a largo beneficio del personale professionale partitico. I movimenti collettivi del 1968-69 hanno suggerito di disperdere su più fronti istituzionali della periferia l’urto del conflitto
sociale, prima concentrato sul governo centrale. Ciò valeva il sacrificio dei governi regionali che, col voto, sicuramente sarebbero andati alla sinistra, in particolare comunista (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria). Allo scopo, non occorreva dotare le Regioni degli strumenti per proprie politiche pubbliche.
Coi decreti del 1972 vengono ritagliate, per essere trasferite, singole sub-materie e non viene soppresso alcun ministero,
alcuna direzione generale di ministero, alcun ente nazionale di
REGIONALISMO
(VOCE
DEL DIZIONARIO DI POLITICA,
2004)
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settore. Coi decreti delegati del 1977 (n. 616, 617, 618), meno
disorganici e incompiuti, ma implicanti riforme di là da venire
e di incerto contenuto decentralizzante, la seconda regionalizzazione, come viene chiamata, non segna una inversione di rotta. Non determina, con la conferenza Stato-Regioni, che un
coinvolgimento di queste nelle materie di loro competenza. Riflette la preclusione alle Regioni di un ruolo legislativo l’orientamento generalizzato verso l’amministrazione e la legislazione
puramente amministrativa, che comporta accentramento nei
confronti di Comuni e Province. Il territorio regionale è sezionato, materia per materia, difformemente, di fatto escludendoli
dall’organizzazione e attuazione delle politiche sociali essenziali
(la sanità, in primo luogo). Eppure il principio fondamentale
dell’autonomia locale, da promuovere incessantemente nella legislazione statale e regionale con l’unico limite invalicabile dell’unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.), concerneva paritariamente sia le Regioni «enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principi fissati nella Costituzione»
(art. 115) sia le Province e i Comuni «enti autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne
determinano le funzioni» (art. 128).
Come detto, soltanto nel 1990, con la legge 142, si sostituirà il testo unico comunale e provinciale del 1934, conservando
tuttavia l’impianto dei precedenti (dal primo del 1859), attribuendo alle Regioni, in aggiramento del citato articolo 128
Cost., la «organizzazione dell’esercizio» delle funzioni locali e
lasciando insoluti tutti i problemi degli enti territoriali, a cominciare dalla stabilità degli esecutivi, affrontata, con la elezione diretta dei sindaci (e dei presidenti delle Province), nel 1993
in tardivo e distorsivo accoglimento delle proposte alternative
avanzate organicamente fin dal 1988 (Isap).
La contestualità della elezione popolare dell’organo monocratico e della maggioranza dell’organo assembleare (consiglio),
congiunta alla regola simul stabunt et simul cadent, estesa
espressamente nel 1999, con revisione costituzionale (art. 121,
122, 123), alle Regioni, avrebbe comportato, infatti, secondo
una parabola annunciata, la inversione dei ruoli, la dipendenza
del secondo dal primo, sempre in grado di farlo sciogliere anzitempo, e la permanenza in carica di 128 mila consiglieri comunali, provinciali e regionali con funzioni istituzionali dichiarate
di «controllo», ma funzioni politiche effettive di necessario in-
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ETTORE ROTELLI
sediamento capillare e sostegno sul territorio di partiti ormai
destrutturati e ancor più frammentati.
Al termine della XIII legislatura (1996-2001), recependosi
sul punto il progetto di revisione approvato all’inizio dalla terza
commissione bicamerale per le riforme costituzionali (19971998) dopo l’insuccesso delle due precedenti, ma interrotto in
parlamento per il dissenso sulla forma di governo della Repubblica, si sostituivano nel 2001 tutti gli altri articoli del Titolo V.
Nel molto di «federalismo» scritto e detto, nel corso degli anni
Novanta, anche fra giuspubblicisti e politologi, si era imposta la
convinzione, invero fallace, che alla modificazione della Costituzione «in senso federalista», se non addirittura alla definizione di
«federale» per la Repubblica, conseguisse naturalmente la trasformazione di ciò che conta, l’amministrazione pubblica. Il che
certo non poteva essere, specie in un Paese aduso a non avere
per vincolanti né la Costituzione stessa (Regioni, 1948), né la legge generale della Repubblica (Città metropolitane, 1990).
Di «federalismo», almeno come metodo, vi è, nel nuovo Titolo V (2001), l’ouverture, l’articolo 114. Che «la Repubblica è
costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Regioni e dallo Stato» (con inopinato surrettizio inserimento delle Città metropolitane, in tal modo quinto livello di governo) non voleva essere
norma dettata per una semplice equiparazione delle istituzioni,
come l’interpretazione centralista premurosamente e precipitosamente avrebbe letto. Significava, piuttosto, nei termini così
proposti fin dal 1992, che i Comuni, rifatti dai cittadini in territorio, funzioni e risorse, avrebbero rifatto le Province e queste le Regioni oppure le Regioni stesse direttamente. Si sarebbe
invertita, in tal modo, la tendenza semi-secolare per cui l’Italia
rimaneva l’unico Paese che, da un lato, incrementasse di continuo il numero dei propri Comuni, mentre in tutta l’Europa
nord-occidentale, Germania compresa, era stato ridotto drasticamente senza ripensamenti successivi, e, dall’altro, pretendesse
nondimeno piena autonomia politica sia per quelli con meno di
diecimila abitanti (86,95% del totale) sia per Regioni, in parecchi casi inconsistenti, messe insieme artificiosamente nel dopoguerra e sostenute dalle altre, al Nord come al Sud, alla stregua
di enti assistiti. Non è «in senso federale», specie per la sua
concreta confezione, l’elencazione delle materie di competenza
statale che rende residuali, cioè generali, le restanti. Le prime
costituiscono una potestà legislativa esclusiva assai nutrita, oltre
REGIONALISMO
(VOCE
DEL DIZIONARIO DI POLITICA,
2004)
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che spesso interferente sulle seconde, le quali, nelle materie
davvero interessanti per la qualità della vita dei cittadini, non
hanno che potestà legislativa «concorrente».
Per parte loro, all’indomani del referendum confermativo e
dell’entrata in vigore, i «federalisti», che sulla parola avevano
professato e articolato un «federalismo preso sul serio», elevando al rango di Stati di una «Federazione» venti Regioni, che,
così configurate e lasciate intatte sul territorio, Stati sovrani
mai erano state (tranne forse la Toscana), hanno preso a obbiettare che la legislazione regionale non avrebbe avuto più limite alcuno, né l’«interesse nazionale» si sarebbe potuto far valere. Con il contrario preoccupato avviso di James Madison,
non in altro era consistito precisamente il prototipo del federalismo classico, inventato nella Convenzione di Filadelfia.
Regionalismo (voce del Dizionario di politica, I edizione, 1983)
1. Le accezioni del termine «regionalismo». Per R. si intende oggi – come riferiscono anche i vocabolari della lingua italiana – la «tendenza politica di coloro che sono
favorevoli alle autonomie regionali». Ma non sempre è stato così. Appena trent’anni fa
una definizione siffatta sarebbe parsa ben strana. Con la parola R. si indicava, allora,
soltanto l’atteggiamento di «eccessivo interesse e amore per la propria regione». E persino dopo il 1948, cioè dopo l’entrata in vigore di una costituzione che prevedeva l’ordinamento regionale e dopo l’effettiva istituzione di quattro Regioni (Sicilia, Sardegna,
Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta), è accaduto che continuasse ad essere quest’ultima
l’unica definizione datane. Se di recente vi si è venuta aggiungendo quella proposta all’inizio, è appunto perché la «tendenza politica favorevole alle autonomie regionali», ha
conseguito un successo, ormai non più trascurabile, nel momento in cui l’ordinamento
regionale, contemplato dalla costituzione repubblicana, ha ricevuto attuazione e tutte le
Regioni hanno preso a funzionare.
Le linee della vicenda precisano anche il significato specifico che la parola R., nel
senso anzidetto di tendenza favorevole alle autonomie regionali, è venuta via via assumendo. Finché l’istituto regionale non è entrato nell’ordinamento giuridico – e, dunque, nel periodo dell’Unità al fascismo – il R. è stato il movimento, più o meno consistente, di pensiero e di azione, di coloro che si proponevano anzitutto di pervenire a
tale inserimento. Allorché questo risultato è stato conseguito – ciò che si è verificato,
come detto, colla costituzione del 1948 –, il R. è diventato il movimento, più o meno
omogeneo, di coloro che hanno propugnato l’attuazione della costituzione stessa o, per
essere più esatti, della sua parte non ancora attuata (che era poi la parte «maggiore»
posto che inizialmente si attuarono esclusivamente le quattro Regioni summenzionate,
seguite più tardi nel 1963, dalla quinta e ultima delle Regioni cosiddette a statuto speciale: il Friuli-Venezia Giulia). Infine, quando sono state attuate anche le altre quindici
Regioni, cioè le Regioni cosiddette a statuto ordinario – il che è avvenuto colle elezioni
regionali del 7 giugno 1970 –, il R. si è identificato col movimento di coloro che si stavano battendo per una interpretazione dei rapporti fra Stato e Regioni che rispettasse il
più possibile l’autonomia costituzionale di queste.
Già tale precisazione del significato specifico, che la parola ha assunto nei diversi
periodi, mostra che il cammino del R. è stato lungo e faticoso. Certo, alla fine la tendenza è risultata, almeno entro certi limiti, vittoriosa, ché in effetti una sorta di ordina-
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ETTORE ROTELLI
mento regionale si è attuata. Ma gli esordi sono stati tutt’altro che facili. Probabilmente
la stessa circostanza che per indicare la tendenza dei fautori dell’autonomia regionale si
sia finito coll’usare il termine «R.», anziché il termine «regionismo», che pure nei primi
tempi dello Stato unitario non mancò talora di essere impiegato, cioè la stessa prevalenza del termine derivato dall’aggettivo («regionale») rispetto al termine derivato dal
sostantivo («regione»), potrebb’essere l’effetto e, insieme, il sintomo del giudizio negativo con cui a lungo tale tendenza fu guardata.
Riflessioni analoghe, del resto, suggerisce il termine «municipalismo», derivante
dall’aggettivo «municipale». Oggi esso viene presentato anche come la «tendenza a instaurare o sostenere le istituzioni autonome locali», cioè in una accezione, del tutto simile a quella suesposta di R., nella quale non v’è alcuna inflessione di giudizio negativo. Ma un tempo il «municipalismo» era soltanto l’attaccamento eccessivo al proprio
«municipio», così come il R. era soltanto l’«eccessivo interesse e amore per la propria
regione». Il parallelismo era, insomma, pressoché perfetto.
2. La componente politica del regionalismo. La ragione del prevalente giudizio negativo, di cui si è detto, consiste soprattutto nel fatto che R. e «regionalisti» erano considerati, sostanzialmente, come sinonimi di «anti-unitarismo» e «antiunitari». Tale equivalenza era errata in un senso, ma fondata in un altro. Era errata se intesa nel senso
che i regionalisti postulassero la revoca dell’unità nazionale, appena conquistata e con
tanta fatica: il R., infatti, non «allignava» soltanto fra i legittimisti cattolici e filo-borbonici, che effettivamente disconoscevano il «fatto compiuto» dell’unità e ne avrebbero
desiderato la crisi, ma anche fra i liberali al governo, che tendevano a una unificazione
rispettosa delle tradizioni degli Stati pre-unitari (basti pensare ai famosi progetti Cavour-Farini-Minghetti del 1860-61). Ma era fondata se intesa nel senso che il R. rappresentava un pericolo per l’unità nella misura in cui la concessione dell’autonomia
comportava l’attribuzione del potere locale in certe regioni a una classe politica non
omogenea rispetto a quella che deteneva il governo nazionale.
È noto che siffatta assenza di omogeneità politica si palesò in tutta la sua evidenza
con l’unificazione del Mezzogiorno. Fu allora che i progetti autonomisti e regionalisti
sopra ricordati andarono in crisi e vennero abbandonati. Su questo punto la storiografia è concorde. Ciò che la divide piuttosto è la valutazione della scelta, che di conseguenza si fece, per l’accentramento più rigido. Da una parte si ritiene che a indurre a
tale scelta fosse il timore della rivolta contadina, sicché essa non sarebbe stata che il riflesso dei rapporti di classe esistenti a quell’epoca nel paese. Dall’altra si ritiene che il
timore non fosse tanto la rivolta contadina in se stessa, quanto la sua utilizzazione ad
opera delle forze reazionarie anti-risorgimentali: nel qual caso si sarebbe trattato di una
scelta progressista. Qualunque sia la tesi giusta, è certo che l’instaurazione di un ordinamento autonomistico avrebbe determinato l’attribuzione del potere locale in diverse
regioni a una classe politica disomogenea rispetto a quella che aveva guidato il processo di unificazione nazionale.
Si delinea, così, fino dalla fase iniziale della storia del R. italiano, il rilievo che vi
assume la componente rappresentata dalla lotta politica e, sottesa a questa, della lotta
sociale. È una costante della intera vicenda, che si conferma poi con assoluta puntualità in ogni occasione successiva, soprattutto a partire dalla fine del secolo, allorquando,
colla formazione di grandi movimenti di massa, quello cattolico e quello socialista, la
richiesta di partecipazione della società civile si allarga enormemente, rendendo palese
che la conservazione del vecchio ristretto quadro politico-amministrativo non risponde
che all’esigenza di mantenere inalterati gli equilibri esistenti e lasciare ai margini della
vita dello Stato le nuove forze politiche e sociali emergenti.
Nella grave crisi, che si apre all’indomani della prima guerra mondiale, il distacco
fra Italia «legale» e Italia «reale» – è significativo che l’espressione, poi sfruttata dai
cattolici, sia stata coniata proprio da un regionalista, Stefano Jacini – si accentua sempre di più. Per colmarlo si rilancia anche l’idea dell’autonomia regionale e a proporla,
questa volta, non sono più, come un tempo, dei «profeti disarmati», cioè dei singoli
studiosi e pensatori, privi di qualsiasi rapporto con le masse organizzate. Sono, invece,
REGIONALISMO
(VOCE
DEL DIZIONARIO DI POLITICA,
2004)
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dei partiti politici che interpretano una parte cospicua di esse. È il caso, ad esempio,
del Partito Popolare Italiano e del Partito Sardo d’Azione.
La soluzione che prevale è, però, quella opposta. La dittatura fascista «supera» il
problema del rapporto tra paese legale e paese reale riaffermando i limiti istituzionali
dello Stato liberale. Anzi si serve di certi strumenti, presenti nell’ordinamento pre-fascista, per svilupparne le caratteristiche di Stato rigidamente accentrato. Nei Comuni e
nelle Provincie scompare la elettività delle cariche e la parola «regione» viene bandita
dagli atti ufficiali.
3. L’avvento della regione. Il successo, che l’idea-regione incontra dopo la caduta
del regime fascista, non si spiega soltanto col ritorno sulla scena politica delle forze politiche sconfitte vent’anni prima e colla loro capacità di adeguare i propri programmi ai
mutamenti intervenuti nel frattempo nell’economia e nella società italiana, né soltanto
coll’insorgere di crisi improvvise in particolari regioni della penisola, come la Sicilia, la
Valle d’Aosta e l’Alto Adige, bensì col proposito, che la Resistenza sicuramente coltivò,
di capovolgere l’ordinamento dello Stato fascista. Se questo era stato contraddistinto
da un estremo accentramento amministrativo e politico, si trattava di dar vita a uno
Stato che fosse ispirato al principio opposto, l’autonomia locale. E, poiché l’autonomia
locale sarebbe risultata tanto più vigorosa quanto più forte fosse stato l’ente al quale
essa avrebbe fatto capo, era naturale riferirsi a quella dimensione territoriale e, quindi,
economica, sociale e politica che, sovrastando tutte le altre, garantiva maggiormente
tale caratteristica: appunto la Regione.
Invero, allorché l’Assemblea Costituente, cui spettava di stabilire il nuovo ordinamento costituzionale dello Stato e perciò anche la questione regionale, cominciò a lavorare, la «spinta» innovatrice della Resistenza si era gravemente attenuata. I comitati di
liberazione nazionale (Cln) e, fra essi, i Cln regionali, che avevano preteso di anticipare, col loro modo di essere, l’autonomia regionale della costituzione repubblicana, erano un ricordo molto fresco, ma niente di più che un ricordo. Supplì, tuttavia, se così si
può dire, una certa «fortuna» giacché lo spietato «giuoco delle parti», che alla Costituente si svolse fra i diversi partiti, finì col giovare alla Regione. L’elemento decisivo
della vicenda fu l’incertezza, la «paura» che ciascuna delle due principali forze antagonistiche, la Democrazia Cristiana da un lato, il Partito Comunista e il Partito Socialista
dall’altro, ebbero in ordine alla propria sorte futura. In fondo, sia l’una che l’altra
avrebbero voluto disporre di entrambe le possibilità: le autonomie regionali per il caso
che si fossero trovate in minoranza al parlamento nazionale, l’assenza di autonomie regionali per il caso opposto. Sennonché, trattandosi di dettare una costituzione, non era
dato pretendere una cosa e, insieme, il suo contrario. Perciò i partiti oscillarono ampiamente. La «fortuna» della Regione consistette nel fatto che le oscillazioni furono sì ampie, ma non sincroniche. In particolare, colla estromissione dei partiti comunista e socialista dal governo, la Democrazia Cristiana cominciò ad avvertire l’opportunità, se
non di annullare, per lo meno di attenuare, il R. che essa aveva propugnato vigorosamente nella prima parte dei lavori della Costituente. Invece le sinistre, fino ad allora
propense a un R. alquanto moderato o addirittura all’antiregionalismo, che era comune
alle destre e quindi, per la composizione dell’assemblea, sostanzialmente maggioritario,
sentirono l’esigenza di garantirsi a livello locale con la istituzione di robuste autonomie
regionali.
Siccome chi aveva propugnato per mesi il R. non poteva dichiararsi all’improvviso
antiregionalista, la Regione passò. Ma passò male. Ciò che ebbe influenza sia sulla concreta configurazione dell’istituto nella costituzione sia sullo svolgimento successivo della vicenda.
Quanto al primo aspetto, è da rilevare la contraddittorietà della norma costituzionale, che, ad esempio, se da un lato esalta l’autonomia fino a conferire alla Regione la
potestà legislativa (art. 117 Cost.), da un altro la comprime fino a prevedere che la legge regionale possa essere giudicata nel merito, in rapporto all’interesse nazionale, o davanti alle Camere (art. 127 Cost.), cioè, di fatto, da parte della maggioranza parlamentare, o prima ancora, da una Corte costituzionale che, com’è poi avvenuto, abbia la
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ETTORE ROTELLI
possibilità di presentare l’interesse nazionale medesimo come un limite di competenza,
cioè di legittimità.
Quanto al secondo aspetto, si è già accennato all’inizio che le Regioni a statuto
ordinario, cioè Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzi, Molise, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, sono state attuate soltanto nel 1970, ventidue anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione.
Ora va aggiunto soltanto che, in precedenza, l’attuazione dell’ordinamento regionale è
stata impedita proprio dalle forze politiche al potere a livello nazionale.
La connessione dei due aspetti, che l’ordinamento regionale sia stato codificato
nel 1947 e sia stato attuato soltanto nel 1970, è ciò che carica di ambiguità il senso dell’istituto: non soltanto perché la Regione fu concepita e «costituzionalizzata» in rapporto ad una società che era prevalentemente agraria, mentre poi è venuta a effettiva esistenza nel contesto di una società ormai industrializzata, ma anche perché le ragioni
politiche e sociali, che di recente ne hanno dettato l’attuazione, appaiono molto diverse
da quelle che ispirarono le decisioni del costituente.