1 P. Raniero Cantalamessa, ofmcap. CON GESÙ NEL DESERTO

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1 P. Raniero Cantalamessa, ofmcap. CON GESÙ NEL DESERTO
P. Raniero Cantalamessa, ofmcap.
CON GESÙ NEL DESERTO
Lucca, Cattedrale, 16 Marzo 2012
La quaresima inizia ogni anno con il racconto di Gesù che si ritira nel deserto per quaranta
giorni. L’evangelista Marco, che ci accompagna in questo anno liturgico, riferisce il fatto in
maniera molto stringata: “ Subito dopo [il battesimo] lo Spirito lo sospinse nel deserto; e nel
deserto rimase per quaranta giorni, tentato da Satana. Stava tra le bestie selvatiche e gli angeli
lo servivano” (Mc 1,12-13).
Anche la Quaresima, come tutta la vita cristiana, deve essere una imitazione di Cristo. Il suo
scopo primario non è perciò di ordine morale: mortificarsi, fare rinunce, fare penitenza, ma
cristologico. Il nostro scopo in questa catechesi è dunque semplice: scoprire cosa Gesù ha
fatto in questo tempo, quali sono i temi presenti nel racconto, e cercare di applicarli alla nostra
vita.
1. “Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto”
Il primo tema è quello del deserto. Gesù ha appena ricevuto, nel Giordano, l’investitura
messianica per portare la buona novella ai poveri, sanare i cuori affranti, predicare il regno
(cf. Lc 4, 18 s). Ma non si affretta a fare nessuna di queste cose. Al contrario, obbedendo a un
impulso dello Spirito Santo, si ritira nel deserto dove rimane quaranta giorni. Il deserto in
questione è il deserto di Giuda che si estende da fuori le mura di Gerusalemme fino a Gerico,
nella valle del Giordano.
Nella storia vi sono state schiere di uomini e donne che hanno scelto di imitare questo Gesù
che si ritira nel deserto. In oriente, a cominciare da sant’Antonio Abate, si ritiravano nei
deserti dell’Egitto o della Palestina; in occidente, dove non esistevano deserti di sabbia, si
ritiravano in luoghi solitari, monti e valli remote.
Ma l’invito a seguire Gesù nel deserto non è rivolto solo ai monaci e agli eremiti. In forma
diversa, esso è rivolto a tutti. I monaci e gli eremiti hanno scelto uno spazio di deserto, noi
dobbiamo scegliere almeno un tempo di deserto.
La Quaresima è l’occasione che la Chiesa offre a tutti, indistintamente, per vivere un tempo di
deserto senza dovere per questo abbandonare le attività quotidiane. Vissuta bene, essa è una
specie di cura di disintossicazione dell’anima. Non c’è infatti sulla terra solo l’intossicazione
da ossido di carbonio; esiste anche l’intossicazione per eccesso di rumori e di luci. Siamo un
po’ tutti ubriachi di chiasso. Non sono solo i credenti a sentire il bisogno di tempi di
raccoglimento e di solitudine, ma ogni persona consapevole di avere uno spirito, un’anima, o
almeno una libertà, da custodire e difendere.
La tradizione biblica e patristica ha interpretato l’idea pasquale di “passaggio” in vari modi:
come “passaggio sopra” (hyperbasis), come “passaggio attraverso” (diabasis), come
“passaggio verso l’alto” (anabasis), come “passaggio fuori” (exodus), come “passaggio in
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avanti” (progressio) e perfino, in qualche caso, come “passaggio indietro” (reditus). La
Pasqua è un passaggio “sopra”, quando indica Dio che passa e risparmia o protegge; è un
passaggio “attraverso”, quando indica il popolo che passa dall’Egitto alla terra promessa,
dalla schiavitù alla libertà; è un passaggio “verso l’alto”, quando l’uomo passa dalle cose di
quaggiù alle cose di lassù; è un passaggio “fuori”, quando l’uomo passa fuori dal peccato o
esce dalla schiavitù; è un passaggio “in avanti”, quando l’uomo progredisce nella santità e nel
bene; infine, è un passaggio “indietro”, quando l’uomo passa dalla vecchiaia alla giovinezza
dello spirito, quando “ritorna” alle origini e rientra nel paradiso perduto.
Erano tutte “modulazioni” dell’idea di Pasqua che rispondevano a schemi e bisogni del loro
tempo. Oggi credo che dobbiamo cogliere una sfumatura nuova di questo dinamismo
pasquale, una nuova idea di passaggio: il “passaggio dentro”, l’introversione o
interiorizzazione! Il passaggio dall’esterno all’interno, da fuori a dentro di noi.
In che consiste questo “passaggio all’interno”, ce lo facciamo spiegare da sant’Agostino. Egli
lancia questo appassionato appello: “Rientrate nel vostro cuore! Dove volete andare lontano
da voi? Rientrate dal vostro vagabondaggio che vi ha portato fuori strada; ritornate al Signore.
Egli è pronto. Prima rientra nel tuo cuore, tu che sei diventato estraneo a te stesso, a forza di
vagabondare fuori: non conosci te stesso, e cerchi colui che ti ha creato! Torna, torna al cuore,
distaccati dal corpo... Rientra nel cuore: lì esamina quel che forse percepisci di Dio, perché lì
si trova l’immagine di Dio; nell’interiorità dell’uomo abita Cristo”.
L’interiorità è un valore in crisi. La “vita interiore” che un tempo era quasi sinonimo di vita
spirituale, ora tende invece a essere guardata con sospetto. Alcune cause di questa crisi sono
antiche e inerenti alla nostra stessa natura. La nostra “composizione”, cioè l’essere noi
costituiti di carne e spirito, fa sì che siamo come un piano inclinato, inclinato però verso
l’esterno, il visibile e il molteplice. Come l’universo, dopo l’esplosione iniziale (il famoso Big
bang), anche noi siamo in fase di espansione e di allontanamento dal centro. Siamo
perennemente “in uscita”, attraverso quelle cinque porte o finestre che sono i nostri sensi.
Altre cause sono invece più specifiche e attuali. Una è l’emergenza del “sociale” che è
certamente un valore positivo, dei nostri tempi, ma che, se non è riequilibrato, può accentuare
la proiezione all’esterno e la spersonalizzazione dell’uomo. Nella cultura secolarizzata e laica
dei nostri tempi il ruolo che svolgeva l’interiorità cristiana è stato assunto dalla psicologia e
dalla psicoanalisi, le quali si fermano però all’inconscio dell’uomo e comunque alla sua
soggettività, prescindendo dal suo intimo legame con Dio.
Come sempre, alla crisi di un valore tradizionale, nel cristianesimo si deve rispondere
attuando una ricapitolazione, cioè riprendendo le cose al loro principio per portarle a un
nuovo compimento. In altre parole, si tratta di ripartire dalla parola di Dio e, alla sua luce, di
ritrovare, nella stessa Tradizione, l’elemento vitale e perenne, liberandolo dagli elementi
caduti di cui si è rivestito lungo i secoli.
Che cosa troviamo nella Bibbia circa l’interiorità? Raccogliamo alcuni dati più significativi.
Già i profeti d’Israele avevano lottato per spostare l’interesse del popolo dalle pratiche
esteriori di culto e dal ritualismo, all’interiorità del rapporto con Dio. “Questo popolo –
leggiamo in Isaia – si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo
cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani” (Is 29, 13). Il
motivo è che “l’uomo guarda le apparenze, ma Dio scruta il cuore” (1 Sam 16, 7). “Laceratevi
il cuore, non le vesti, si legge in un altro profeta” (Gl 2, 13).
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È il tipo di riforma religiosa che Gesù ha ripreso e portato a compimento. Egli non si stanca di
richiamare a quell’ambito “segreto”, il “cuore”, dove si opera il vero contatto con Dio e con
la sua vivente volontà e da cui dipende il valore di ogni azione (cf Mt 15, 10 ss).
La motivazione che Gesù porta è che “Dio è Spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo
in spirito e verità” (Gv 4, 24). Come per entrare in contatto con il mondo, che è materia,
abbiamo bisogno di passare attraverso il nostro corpo, così per entrare in contatto con Dio che
è spirito abbiamo bisogno di passare attraverso il nostro cuore e la nostra anima che è spirito.
C’è anche una ragione soggettiva. Quello che si fa all’esterno è esposto al pericolo quasi
inevitabile dell’ipocrisia. Lo sguardo di altre persone ha il potere di far deviare la nostra
intenzione, come certi campi magnetici fanno deviare le onde. L’azione perde la sua
autenticità e la sua ricompensa. Il sembrare prende il sopravvento sull’essere. Per questo Gesù
invita a fare l’elemosina di nascosto e a pregare il Padre “nel segreto” (cf Mt 6, 1-4).
Il richiamo all’interiorità trova, infine, la sua motivazione biblica più profonda e oggettiva
nella dottrina della inabitazione di Dio nell’anima e nell’affermazione secondo cui il nostro
corpo è “tempio dello Spirito Santo” (1 Cor 6,19). Su questo sfondo evangelico si colloca
l’idea frequente nel Nuovo Testamento dell’“uomo interiore” o dell’“uomo nascosto nel
cuore” (cf Rm 7, 22; 2 Cor 4, 16; 1 Pt 3, 4).
Perché è urgente tornare a parlare di interiorità e riscoprire anzi il gusto di essa? Viviamo in
una civiltà tutta proiettata all’esterno, fuori. L’uomo invia le sue sonde fino alla periferia del
sistema solare, ma ignora il più delle volte quello che c’è nel suo stesso cuore. Evadere, cioè
uscire fuori, è una specie di parola d’ordine. Esiste perfino una letteratura di evasione,
spettacoli di evasione. L’evasione è, per così dire, istituzionalizzata. Il silenzio fa paura. Non
si riesce a vivere, lavorare, studiare senza qualche voce o musica intorno. C’è una specie di
horror vacui, di paura del vuoto, che spinge a stordirsi. Mai soli, è la parola d’ordine.
I giovani sono i più esposti a questo rischio. Ho avuto occasione di mettere piede una volta in
una discoteca, invitato a parlare ai giovani ivi raccolti. Mi è bastato per farmi un’idea di che
cosa vi regna: l’orgia del chiasso, il rumore assordante come droga. Sono state fatte inchieste
tra i giovani all’uscita della discoteca e alla domanda: “Perché vi riunite in questo luogo?”,
alcuni hanno risposto: “Per non pensare!”. Ma a quali manipolazioni non sono esposti dei
giovani che hanno rinunciato ormai a pensare?
“Pesi il lavoro su questi uomini e vi si trovino impegnati, così che non diano retta alle parole
di Mosè”, fu l’ordine del Faraone d’Egitto (cf Es 5, 9). L’ordine tacito, ma non meno
perentorio, dei faraoni moderni è: “Pesi il chiasso su questi giovani, ne siano storditi, cosicché
non pensino, non facciano delle scelte libere, ma seguano la moda che fa comodo a noi,
comprino quello che diciamo noi, pensino come vogliamo noi!”. Per un settore molto
influente della nostra società, quello dello spettacolo e della pubblicità, gli individui contano
solo in quanto sono “spettatori”, numeri che fanno salire la “audience” dei programmi.
Occorre opporsi con un risoluto “no!” a questo svuotamento. I giovani sono anche i più
generosi e pronti a ribellarsi alle schiavitù e infatti vi sono schiere di giovani che reagiscono a
questo assalto e, anziché fuggire, ricercano luoghi e tempi di silenzio e di contemplazione per
ritrovare ogni tanto se stessi e, in se stessi, Dio. Giovani che hanno scoperto la differenza che
c’è tra essere semplicemente “spettatori” e essere invece contemplativi. Essi hanno superato,
all’indietro, il “muro del suono”, questa terribile barriera tra sé e Dio.
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L’interiorità è la via a una vita autentica. Si parla tanto oggi di autenticità e se ne fa il criterio
di riuscita o meno della vita. Ma dov’è, per il cristiano, l’autenticità? Quand’è che un giovane
è veramente se stesso? Solo quando accoglie, come misura, Dio. “Un mandriano il quale, se
questo fosse possibile, è un io di fronte alle vacche, è un io molto basso; un sovrano che è un
io di fronte ai suoi servi, lo stesso. Nessuno dei due è un io; in ambedue i casi manca la
misura... Ma che realtà infinita non acquista l’io, acquistando coscienza di esistere davanti a
Dio, diventando un io umano, la cui misura è Dio!”. “Si parla tanto – scrive il filosofo or ora
citato – di vite sprecate. Ma sprecata è soltanto la vita di quell’uomo che mai si rese conto,
perché non ebbe mai, nel senso più profondo, l’impressione che esiste un Dio e che egli,
proprio egli, il suo io, sta davanti a questo Dio”. Veramente è nella solitudine che siamo meno
soli!
Non sono però solo i giovani a essere travolti dall’ondata di esteriorità. Lo sono anche le
persone più impegnate e attive nella Chiesa. Anche i religiosi! Dissipazione è il nome della
malattia mortale che ci insidia tutti. Si finisce per essere come un vestito rovesciato, con
l’anima esposta ai quattro venti. In un discorso tenuto ai superiori di un ordine religioso
contemplativo, Paolo VI disse: “Oggi siamo in un mondo che sembra alle prese con una
febbre che si infiltra perfino nel santuario e nella solitudine. Rumore e frastuono hanno invaso
pressoché ogni cosa. Le persone non riescono più a raccogliersi. In preda a mille distrazioni,
esse dissipano abitualmente le loro energie dietro le diverse forme della cultura moderna.
Giornali, riviste, libri invadono l’intimità delle nostre case e dei nostri cuori. È più difficile di
un tempo trovare l’opportunità per quel raccoglimento nel quale l’anima riesce a essere
pienamente occupata in Dio”.
Dell’importanza del silenzio è tornato a parlare papa Benedetto XVI nella catechesi della
settimana scorsa. “ Il silenzio – diceva - è capace di scavare uno spazio interiore nel profondo
di noi stessi, per farvi abitare Dio, perché la sua Parola rimanga in noi, perché l’amore per Lui
si radichi nella nostra mente e nel nostro cuore, e animi la nostra vita. Quindi la prima
direzione: reimparare il silenzio, l'apertura per l'ascolto, che ci apre all'altro, alla Parola di
Dio”.
Tutti abbiamo dunque bisogno di fare la Pasqua di cui stiamo parlando e che consiste in un
“passaggio dall’esterno all’interno”. L’esatta antitesi di questa Pasqua si chiama proprio la
dissipazione o l’evasione, cioè il riversarsi all’esterno. Santa Teresa d’Avila ha scritto
un’opera intitolata Il castello interiore che è certamente uno dei frutti più maturi della dottrina
cristiana dell’interiorità. Ma esiste, ahimè, anche un “castello esteriore” e oggi constatiamo
che è possibile essere chiusi anche in questo castello. Chiusi fuori casa, incapaci di rientrarvi.
Prigionieri dell’esteriorità!
Quanti di noi dovrebbero fare propria l’amara costatazione che Agostino faceva a proposito
della sua vita anteriore alla conversione: “Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova,
tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle
belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue
creature, inesistenti se non esistessero in te”.
Ma cerchiamo anche di vedere come fare, concretamente, per ritrovare e conservare
l’abitudine all’interiorità. Mosè era un uomo attivissimo. Ma si legge che si era fatta costruire
una tenda portatile e a ogni tappa dell’esodo fissava la tenda fuori dell’accampamento e
regolarmente entrava in essa per consultare il Signore. Lì, il Signore parlava con Mosè “faccia
a faccia, come un uomo parla con un altro” (Es 33, 11).
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Ma anche questo non sempre si può fare. Non sempre ci si può ritirare in una cappella o in un
luogo solitario per ritrovare il contatto con Dio. San Francesco d’Assisi suggerisce perciò un
altro accorgimento più a portata di mano. Mandando i suoi frati per le strade del mondo,
diceva: Noi abbiamo un eremitaggio sempre con noi dovunque andiamo e ogni volta che lo
vogliamo possiamo, come eremiti, rientrare in questo eremo. “Fratello corpo è l’eremo e
l’anima l’eremita che vi abita dentro per pregare Dio e meditare”. È come avere un deserto
sempre “sotto casa” o meglio “dentro casa”, in cui potersi ritirare con il pensiero in ogni
momento, anche andando per strada.
Concludiamo questa prima parte della nostra meditazione ascoltando, come rivolta a noi,
l’esortazione che Sant’Anselmo da Aosta rivolge al lettore in una sua opera:
“Orsù, misero mortale, fuggi via per breve tempo dalle tue occupazioni, lascia per un po’ i
tuoi pensieri tumultuosi. Allontana in questo momento i gravi affanni e metti da parte le tue
faticose attività. Attendi un poco a Dio e riposa in lui. Entra nell’intimo della tua anima,
escludi tutto, tranne Dio e quello che ti aiuta a cercarlo, e, richiusa la porta, di’ a Dio:
Cerco il tuo volto. Il tuo volto io cerco, Signore”.
2. I digiuni accetti a Dio
Passiamo ora al secondo grande tema presente nel racconto di Gesù nel deserto: il digiuno.
“Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame” (Mt 4, 1). In
questo modo, dopo averci invitato a seguirlo nel deserto, Gesù ci suggerisce anche il cammino
per raggiungerlo. Cosa significa per noi oggi imitare il digiuno di Gesù? Una volta, con la
parola digiuno si intendeva solo il limitarsi nei cibi e l’astenersi dalle carni. Questo digiuno
alimentare conserva tuttora la sua validità ed è altamente raccomandato, quando è fatto con
spirito di sacrificio, per mortificare la gola e avere qualcosa di più da condividere con chi
muore di fame, e non unicamente per mantenere la linea.
Tuttavia, questo non è oggi il digiuno più necessario. Nessun cibo, diceva Gesù, è, per sé,
impuro, e non è quello che entra nello stomaco che inquina l’uomo. Dobbiamo inventare
forme di digiuno ascetico nuove, corrispondenti alla vita di oggi che è diversa da quella di
venti o dieci secoli fa. Il digiuno classico, dagli alimenti, è diventato ambiguo nella nostra
società. Nell’antichità non si conosceva che il digiuno religioso; oggi esiste un digiuno
politico e sociale (scioperi della fame!), un digiuno patologico (anoressia), un digiuno estetico
per mantenere la linea...
La forma più necessaria e significativa di digiuno per noi oggi si chiama sobrietà. Privarsi
volontariamente di piccole o grandi comodità, di quanto è inutile e a volte anche dannoso alla
salute. Questo digiuno è solidarietà con la povertà di tanti. Chi non ricorda le parole di Isaia
che la liturgia ci fa ascoltare all’inizio di ogni Quaresima?
“ Il digiuno che io gradisco non è forse questo:
che tu divida il tuo pane con chi ha fame,
che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo,
che quando vedi uno nudo tu lo copra
e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne?” (Is 58, 6-7).
Un tale digiuno è anche contestazione di una mentalità consumistica. In un mondo, che ha
fatto della comodità superflua e inutile uno dei fini della propria attività, rinunciare al
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superfluo, saper fare a meno di qualcosa, frenarsi dal ricorrere sempre alla soluzione più
comoda, dallo scegliere la cosa più facile, l’oggetto di maggior lusso, vivere, insomma con
sobrietà, è più efficace che imporsi delle penitenze artificiali. È, oltretutto, giustizia verso le
generazioni che seguiranno la nostra che non devono essere ridotte a vivere delle ceneri di
quello che abbiamo consumato e sprecato noi. La sobrietà un valore ecologico, di rispetto del
creato.
Più necessario del digiuno dai cibi è oggi il digiuno dalle immagini. Viviamo in una civiltà
dell’immagine; siamo diventati divoratori di immagini. Attraverso la televisione, la stampa, la
realtà stessa, lasciamo entrare a fiotti immagini dentro di noi. Molte di esse sono malsane,
veicolano violenza e malizia, non fanno che aizzare i peggiori istinti che ci portiamo dentro.
Sono confezionate espressamente per sedurre. Ma forse il peggio è che dànno un’idea falsa e
irreale della vita, con tutte le conseguenze che ne derivano nell’impatto poi con la realtà. Si
pretende che la vita offra tutto ciò che la pubblicità presenta.
Se non creiamo un filtro, uno sbarramento, riduciamo in breve tempo la nostra fantasia e la
nostra anima a un immondezzaio. Le immagini cattive non muoiono appena giunte dentro di
noi, ma fermentano. Si trasformano in impulsi all’imitazione, condizionano terribilmente la
nostra libertà. Un filosofo materialista, Feuerbach, ha detto: “L’uomo è ciò che mangia”; oggi
bisognerebbe forse dire: “L’uomo è ciò che guarda”.
Una volta qualcuno mi obbiettò: “Ma non è Dio che ha creato l’occhio per guardare tutto ciò
che di bello c’è nel mondo?”. “Sì, gli risposi, ma lo stesso Dio che ha creato l’occhio per
guardare, ha anche creato la palpebra per coprirlo! Ed sapeva quello che faceva”.
Un altro di questi digiuni alternativi, che possiamo fare durante la Quaresima, è quello dalle
parole cattive. San Paolo raccomanda: “Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca, ma
piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli
che ascoltano” (Efesini 4, 29).
Un anno, all’inizio della Quaresima, si chiedeva una comunità di laici, che cosa fare, come
gesto comune, per santificare questo tempo. Dovettero scartare subito il digiuno dai cibi,
perché c’erano alcune mamme in attesa, o con bambini da allattare. Allora decisero di
prendere come programma quelle parole dell’Apostolo e di fare insieme un digiuno dalle
parole cattive. Ognuno scrisse quella frase di san Paolo e la affisse in un luogo ben visibile
della casa. E fu una Quaresima benedetta.
Parole cattive non sono solo le parolacce; sono anche le parole taglienti, negative che mettono
in luce sistematicamente il lato debole del fratello, parole di critica, di sarcasmo. Nella vita di
una famiglia o di una comunità, queste parole hanno il potere di far chiudere ognuno in se
stesso, di raggelare, creando amarezza e risentimento. Alla lettera, “mortificano”, cioè dànno
la morte. San Giacomo diceva che la lingua è piena di veleno mortale; con essa possiamo
benedire Dio o maledirlo, risuscitare un fratello o ucciderlo. Una parola può fare più male di
un pugno.
C’una infine forma di digiuno che riassume tutte le altre; un detto attribuito a Gesù nelle
fonti extra canoniche lo chiama il “digiunare dal mondo” (nesteuein to kosmo). San Paolo
esortava i cristiani a non “seguire l’andazzo di questo mondo, seguendo il principe delle
potenze dell’aria” (Ef 2,2). Mai questo accenno allo spirito “ che agisce nell’aria” è attuale
come oggi, quando l’etere è attraversato da tanti messaggi. Il mondo è maestro nel creare una
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mentalità, il cosiddetto “spirito del tempo”, e nel far ritenere disadattato, “out” come si dice
oggi, chi non si adegua ad esso.
Un’immagine efficace per descrivere questa azione del mondo è il virus dei computer. Per
quel poco che ne so io, il virus è un piccolo programma malignamente predisposto, che
penetra in un computer per le vie più insospettate (scambio di dischetti, di informazioni e di
programmi) e che una volta penetrato in esso, ne confonde o blocca il normale
funzionamento, alterando i cosiddetti “modelli operativi”. Lo spirito del mondo fa lo stesso:
penetra in noi in mille modi, con l’aria stessa che respiriamo, e, una volta dentro, cambia i
nostri modelli; al modello “Cristo”, sostituisce il modello “mondo”.
E’ pura illusione pretendere di mantenersi immuni dallo spirito del mondo, se quello che
entra a ondate in noi, dagli occhi e dalle orecchie, non è che lo sfavillio dei suoi colori, la
sensualità delle sue immagini, la falsa innocenza dei suoi “nudi”, la violenza delle sue
rappresentazioni. Il mondo più pericoloso non è quello che ci combatte, ma quello che ci
attira; non quello che ci odia, ma quello che ci lusinga. Il mondo sa bene, purtroppo, come far
circolare i suoi virus. Bisogna vigilare sui “programmi” che immettiamo nella nostra
“memoria”, intendendo a volte “programmi” nel senso che il termine ha nei mass- media, per
esempio, nel senso dei programmi televisivi.
3. Tentato da Satana
Questo ci ha già introdotti nel terzo elemento del racconto evangelico sul quale vogliamo
riflettere: la lotta di Gesù contro il demonio, le tentazioni.
Anzitutto una domanda: esiste il demonio? Cioè, la parola demonio indica davvero una
qualche realtà personale, dotata di intelligenza e volontà, o è semplicemente un simbolo, un
modo di dire per indicare la somma del male morale del mondo, l’inconscio collettivo,
l’alienazione collettiva e via dicendo? Molti, tra gli intellettuali, non credono nel demonio
inteso nel primo senso. Però si deve notare che grandi scrittori e pensatori, come Goethe,
Dostoevskij hanno preso assai sul serio l’esistenza di satana. Baudelaire, che non era certo
uno stinco di santo, ha detto che «la più grande astuzia del demonio è far credere che egli non
esiste».
La prova principale dell’esistenza del demonio nei Vangeli non è nei numerosi episodi di
liberazione di ossessi, perché nell’interpretare questi fatti possono aver influito le credenze
antiche sull’origine di certe malattie. Gesù che è tentato nel deserto dal demonio, questa è la
prova. La prova sono anche i tanti santi che hanno lottato nella vita con il principe delle
tenebre. Essi non sono dei «Don Chisciotte» che hanno lottato contro mulini a vento. Al
contrario, erano uomini molto concreti e dalla psicologia sanissima. San Francesco d’Assisi
una volta confidò a un compagno: “Se i frati sapessero quante e quali tribolazioni io ricevo
dai demoni, non ce ne sarebbe uno che non si metterebbe a piangere per me”.
Se tanti trovano assurdo credere nel demonio è perché si basano sui libri, passano la vita nelle
biblioteche o a tavolino, mentre al demonio non interessano i libri, ma le persone,
specialmente, appunto, i santi. Cosa può saperne su satana chi non ha mai avuto a che fare con
la realtà di satana, ma solo con la sua idea, cioè con le tradizioni culturali, religiose,
etnologiche su satana? Costoro trattano di solito questo argomento con grande sicurezza e
superiorità, liquidando tutto come «oscurantismo medievale». Ma è una falsa sicurezza. Come
chi si vantasse di non aver alcuna paura del leone, adducendo come prova il fatto che lo ha
visto tante volte dipinto o in fotografia è non si è mai spaventato.
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È del tutto normale e coerente che non creda nel diavolo, chi non crede in Dio. Sarebbe
addirittura tragico se qualcuno che non crede in Dio credesse nel diavolo! Eppure, a pensarci
bene, è quello che avviene nella nostra società. Il demonio, il satanismo e altri fenomeni
connessi sono oggi di grande attualità. Il nostro mondo tecnologico e industrializzato pullula
di maghi, stregoni di città, occultismo, spiritismo, dicitori di oroscopi, venditori di fatture, di
amuleti, nonché di sette sataniche vere e proprie. Scacciato dalla porta, il diavolo è rientrato
dalla finestra. Cioè, scacciato dalla fede, è rientrato con la superstizione.
La cosa più importante che la fede cristiana ha da dirci non è però che il demonio esiste, ma
che Cristo ha vinto il demonio. Cristo e il demonio non sono per i cristiani due princìpi uguali
e contrari, come in certe religioni dualistiche. Gesù è l’unico Signore; satana non è che una
creatura «andata a male». Se gli è concesso potere sugli uomini, è perché gli uomini abbiano
la possibilità di fare liberamente una scelta di campo e anche perché «non montino in
superbia» (cfr. 2 Corinzi 12,7), credendosi autosufficienti e senza bisogno di alcun redentore.
«Il vecchio satana è matto» dice un canto spiritual negro. «Ha sparato un colpo per
distruggere la mia anima, ma ha sbagliato mira e ha distrutto invece il mio peccato.»
Con Cristo non abbiamo nulla da temere. Niente e nessuno può farci del male, se noi stessi
non lo vogliamo. Satana, diceva un antico padre della Chiesa, dopo la venuta di Cristo, è
come un cane legato sull’aia: può latrare e avventarsi quanto vuole; ma, se non siamo noi ad
andargli vicino, non può mordere. Gesù nel deserto si è liberato da satana per liberarci da
satana!
Il racconto delle tentazione nel Vangelo di Marco, dicevo, è quanto mai stringato. Non dice
nulla del contenuto e del tenore delle tentazioni. Per questo dobbiamo ricorrere a Matteo e
Luca. Entrambi ci parlano di tre tentazioni: “Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino
pane”; “Se sei Figlio di Dio, gettati giù”; “Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi
adorerai”.
Esse hanno uno scopo unico e comune a tutte: distogliere Gesù dalla sua missione, distrarlo
dallo scopo per cui è venuto in terra; sostituire al piano del Padre un piano diverso. Nel
battesimo, il Padre aveva additato a Cristo la via del Servo obbediente che salva con l’umiltà
e la sofferenza; satana gli propone una via di gloria e di trionfo, la via che tutti allora si
aspettavano dal Messia.
Anche oggi tutto lo sforzo del demonio è di distogliere l’uomo dallo scopo per cui è al mondo
che è quello di conoscere, amare e servire Dio in questa vita per goderlo poi nell’altra. Distrarlo, cioè trarlo da una altra parte, in altra direzione.
Satana però è anche astuto; non compare di persona con tanto di corna e odore di zolfo
(sarebbe troppo facile riconoscerlo); si serve delle cose buone portandole all’eccesso,
assolutizzandole e facendone degli idoli. Il denaro è una cosa buona, come lo sono il piacere,
il sesso, il mangiare, il bere. Ma se essi diventano la cosa più importante della vita, il fine, non
più dei mezzi, allora diventano distruttivi per l’anima e spesso anche per il corpo.
Un esempio particolarmente attinente al tema è il divertimento, il distrarsi. Il gioco è una
dimensione nobile dell’essere umano; Dio stesso ha comandato il riposo. Il male è fare del
gioco lo scopo della vita, vivere la settimana come attesa del sabato notte o della partita allo
stadio della domenica, per non parlare di altri passatempo assai meno innocenti. In questo
caso il divertimento cambia segno e, anziché servire alla crescita umana e alleviare lo stress e
la fatica, li accresce.
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Un inno liturgico della Quaresima esorta a usare più parcamente, in questo tempo, di «parole,
cibi, bevande, sonno e divertimenti». Questo è un tempo per riscoprire perché siamo venuti al
mondo, da dove veniamo, dove andiamo, che rotta stiamo seguendo. Altrimenti ci può
capitare quello che capitò al Titanic o, più civino a noi nel tempo e nello spazio, alla Costa
Concordia.
Se ci accorgiamo che l’avvertimento ci riguarda, che c’è qualche cambiamento da fare nelle
nostre abitudini a questo riguardo, è importante farlo subito, alla prima occasione.
Kierkegaard che oltre che filosofo era anche un credente, fa questa osservazione acuta. A uno
– dice – la parola di Dio ha rivelato che il suo peccato è la passione del gioco; è questo ciò
che Dio gli chiede di sacrificargli. (L’esempio può essere esteso ad altre abitudini
peccaminose, come la droga, disordini nel bere, nel mangiare, un rancore, il dire bugie,
un’ipocrisia, una relazione illecita). Quell’uomo, convinto di peccato, decide di smettere e
dice: “Faccio voto solenne e sacro di non giocare mai più, mai più: questa sera sarà l’ultima
volta!”.
Naturalmente, non ha risolto nulla; egli continuerà a giocare come prima. Egli deve dire,
semmai, a se stesso: “D’accordo, tutto il resto della tua vita e tutti i giorni tu potrai giocare,
ma questa sera no!”. Se egli mantiene il suo proposito e quella sera non gioca, è salvo; non
giocherà probabilmente più per il resto della vita. La prima risoluzione è un brutto scherzo
che la passione gioca al peccatore; la seconda è, al contrario, un brutto scherzo che il
peccatore gioca alla passione
4. “Stava con le fiere e gli angeli lo servivano”
Ho cercato di mettere in luce gli insegnamenti e gli esempi che ci vengono da Gesù per questo
tempo di Quaresima, ma devo dire che ho omesso finora di parlare del più importante di tutti.
Perché Gesù, dopo il suo battesimo, si recò nel deserto? Per essere tentato da Satana? No, non
ci pensava nemmeno; nessuno va di proposito in cerca di tentazioni e lui stesso ci ha
insegnato a pregare di non essere indotti in tentazione. Le tentazioni furono un’iniziativa del
demonio, permessa dal Padre, per la gloria del suo Figlio e come insegnamento per noi. In tal
modo Gesù “si libera di satana per liberarci da satana”.
Andò nel deserto per digiunare? Anche, ma non principalmente per questo. Vi mandò per
ascoltare il Padre suo, per sintonizzarsi, come uomo, con la volontà divina, per approfondire
la missione che la voce del Padre, nel battesimo, gli aveva fatto intravvedere: la missione del
Servo obbediente chiamato a redimere il mondo con la sofferenza e l’umiliazione. Vi andò
insomma per pregare, per stare in intimità con il Padre suo. E questo è anche lo scopo
principale della nostra Quaresima.
Non si va nel deserto per lasciare qualcosa –il chiasso, il mondo, le occupazioni -; ci si va per
trovare qualcosa, anzi Qualcuno. Non ci si va solo per ritrovare se stessi, per mettersi in
contatto con il proprio io profondo, come in tante forme di meditazione non cristiane. Essere
soli con se stessi può significare trovarsi con la peggiore delle compagnie. Il credente va nel
deserto, scende nel proprio cuore, per riannodare il suo contatto con Dio, perché sa che
“nell’uomo interiore abita la Verità”.
È il segreto della felicità e della pace in questa vita. I santi ne sono a conoscenza tanto da far
esclamare a uno di essi: “Signore, basta con la gioia: il mio cuore non ne può contenere di
più!” Cosa desidera di più un innamorato se non stare da solo, in intimità, con la persona
amata? Dio è innamorato di noi e desidera che noi ci innamoriamo di lui. Parlando del suo
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popolo come di una sposa, Dio dice: “La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,
16).
Si sa qual è l’effetto dell’innamoramento: tutte le cose e tutte le altre persone passano di colpo
in secondo piano. C’è una presenza che riempie tutto. Non isola dagli altri, che anzi rende
ancora più attenti e disponibili verso gli altri, ma come di riflesso, per ridondanza di amore.
Oh, se i cristiani scoprissero quanto è vicina a loro, a portata di mano, la felicità e la pace che
cercano in questo mondo!
Il racconto di Marco termina con una frase misteriosa: “Stava tra le bestie selvatiche e gli
angeli lo servivano”. Ma il suo significato è chiaro: vinte le tentazioni del serpente, Gesù è il
nuovo Adamo che riapre per noi il cammino verso paradiso terrestre quando l’uomo godeva
dell’armonia con tutte le creature e della familiarità con Dio (gli angeli!).
Terminiamo la nostra meditazione con un inno liturgico che si recita nell’Ufficio delle letture
di questo tempo di Quaresima: vi troveremo riassunti quasi tutti i temi che abbiamo evocato.
È la santa Madre Chiesa che parla ai suoi figli:
Protesi alla gioia pasquale,
sulle orme di Cristo Signore,
seguiamo l’austero cammino
della santa Quaresima.
La legge e i profeti annunziarono
dei quaranta giorni il mistero;
Gesù consacrò nel deserto
questo tempo di grazia.
Sia parca e frugale la mensa,
sia sobria la lingua ed il cuore;
fratelli, è tempo di ascoltare
la voce dello Spirito.
Forti nella fede vigiliamo
contro le insidie del nemico:
ai servi fedeli è promessa
la corona di gloria.
Sia lode al Padre onnipotente,
al Figlio Gesù redentore,
allo Spirito Santo Amore,
nei secoli dei secoli. Amen.
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