Copia di 111006 Michetta addio

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Copia di 111006 Michetta addio
Le nuove meraviglie di Milano
“Michetta addio”
Storie di una città madre
A cura di Luca Doninelli
Prefazione di Salvatore Carrubba
intervengono
Mario Botta, architetto
Luca Doninelli, curatore del libro
Salvatore Carrubba, giornalista
Andrée Ruth Shammah, regista
coordina
Camillo Fornasieri, direttore del Centro Culturale di Milano
Salone d’ Onore della Triennale di Milano – v.le Alemagna, 6
Giovedì 6 ottobre 2011, ore 18.30

Via Zebedia, 2 20123 Milano
tel. 0286455162-68 fax 0286455169
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Le nuove meraviglie di Milano: “Michetta addio” Storie di una città madre
CAMILLO FORNASIERI: Un caro benvenuto a tutti, buona sera. Cominciamo questo incontro in
occasione della seconda pubblicazione della collana del lavoro editoriale “Le nuove meraviglie di
Milano”. Presentiamo, nel salone triennale dove ci siamo ritrovati un anno e mezzo fa per il primo
volume, “Michetta addio. Milano, storie di una città madre".
Abbiamo con noi dei carissimi ospiti, molto importanti, che vorrei ringraziare a nome del Centro
Culturale di Milano e anche da parte di Luca Doninelli, con i quali cercheremo di presentare questo
secondo lavoro, ma anche di entrare un po' dentro la finalità e la mentalità in cui si pone questo
secondo volume. Avendovi partecipato e amandola molto, personalmente ringrazio quella che
ormai si chiama la redazione delle Nuove Meraviglie di Milano, che è fatta da studenti del corso che
tiene Luca Doninelli in Università Cattolica presso la facoltà di Sociologia, un corso di Etnografia
Narrativa, e dagli studenti anche professionisti, adulti, della scuola di scrittura creativa Flannery
O'Connor, che si nutre di nuove presenze ma ha un punto solido in quelli che hanno iniziato questo
percorso di racconto della città contemporanea.
Il primo volume era dedicato alle storie di trasformazione, cioè come si sta trasformando questa
nostra città. Mossi dalla curiosità di capire non solo che cosa accade, ma anche che tipo di uomo sta
vivendo all’interno di queste trasformazioni, avevamo messo in luce la forza della scelta di usare il
linguaggio della narrativa. Detto in estrema sintesi, il linguaggio della narrativa era un io che con
responsabilità si mette a raccontare in prima persona una realtà che non è sua totalmente; la sente
sua e dunque emergono ferite, simboli, cose che non vanno, novità. Questo è un punto di vista
nuovo rispetto ai linguaggi che oggi giustamente tentano di definire la realtà, ma che non sempre
mostrano il senso proprio del limite: il linguaggio giornalistico, il linguaggio della sociologia,
dell'economia e di altro.
Ho notato che questo secondo volume col suo lavoro - tra l'altro è quasi pronto il terzo perché c'è
una vivacissima dinamica di ritrovo tra questo gruppo di persone, altre vogliono parteciparvi, è
quindi una voce un po’ corale, simbolica, in un numero ristretto di persone, ma simbolica di una
realtà più vasta - questo secondo volume mette più al centro qual è la caratteristica. Ci si è
domandati quale fosse la caratteristica, il genus loci, della città ora. Io lo vorrei dire con delle
domande che si fa Doninelli nella premessa, perché le fa meglio, naturalmente, di me. Doninelli
parte dal desiderio di ridefinire come metropoli questa città, cioè come città madre, una città che
lascia un segno indelebile sui propri figli, un segno di originalità, di somiglianza, una comunanza
genetica, antropologica e culturale incancellabile. La meta, lo scopo, è quello di dare un giudizio
culturale. E dunque ecco le domande: «Cosa distingue la città madre, ossia una grande città, da tutte
le altre città? Non in generale, ma nel tempo in cui viviamo, cosa distingue oggi una metropoli?». E
riprendo anche un bellissimo spunto di Salvatore Carrubba, che ha firmato la prefazione, in cui
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diceva: «Siamo in un tempo che viene da vari decenni, in cui non è più dall’alto, dalla
rappresentatività, o come dice Doninelli, dai simboli, dai monumenti da cui puoi descrivere questo,
ma dal basso con un processo che non sale verso l’alto, verso vertici sempre meno rappresentativi;
ma si addentra orizzontalmente nei gangli di una rete urbana fatta di volontà, desideri, passioni,
interessi alla quale danno voce una miriade di iniziative, personaggi, associazioni; quelle nuove
meraviglie di Milano che vengono sintetizzate in questo slogan, che riprende il motto di Bonvesin
de la Riva che, forse come abbiamo detto, ripete spesso il curatore e autore, ha realizzato l’opera su
Milano più completa, perché presenta un punto di vista intero, cioè che non mette solo in luce le
eccellenze quasi come un progetto previo, ma che sa guardare di che cosa si tratta e cercare di
capirlo».
Abbiamo con noi, in ordine di intervento: Salvatore Carrubba, che con molta amicizia ha seguito
anche il lavoro precedente; è editorialista de Il sole 24 ore, presidente dell’Accademia di Brera e
docente presso l’Università IULM. L’architetto Mario Botta, fondatore dell’accademia di
architettura di Mendrisio, un pezzo di nuova società, una grande occasione che genera fatti. Il nostro
curatore e autore Luca, che ringraziamo e salutiamo; siamo affezionatissimi a questo lavoro che
svolge da tempo. Andrèe Shammah che ci raggiungerà intorno alle 19, a cui è molto caro questo
lavoro.
Do la parola a te, Salvatore, per delineare anche questo aspetto un po' politico, cioè di polis, che
hanno questi racconti, che sono sedici – dei quali sono qui presenti tutti gli autori -, per delineare
questo sfondo che ha e quindi anche questa pretesa, una buona pretesa.
SALVATORE CARRUBBA: Sì, la pretesa è buona e il risultato è migliore. Io ti ringrazio, Camillo,
per avermi chiesto di leggere in anticipo questo testo e di scrivere qualche riga di introduzione. Ti
ringrazio per l'invito di questa sera e ringrazio tutti voi per l'attenzione. Per rispondere alla tua
domanda, al tuo stimolo, mi rifaccio a un'esperienza che alcuni di noi hanno vissuto poche sere fa'
in occasione della presentazione che ha fatto il nuovo arcivescovo alla comunità degli intellettuali e
dei giornalisti. C' eravate anche voi, Luca, Camillo, c'erano altre persone, altri amici che sono qui
con noi. Mi hanno colpito in quella serata alcuni bagliori apocalittici che emergevano da alcuni
interventi che sono stati fatti prima che parlasse il Cardinale, non certo da quello di Giacomo, ma
insomma in qualche altro intervento c' era questo clima che emanava grande pessimismo e grande
preoccupazione.
Ora, io trovo che questo clima un po' apocalittico sia in contraddizione con la parola alla quale
credo che molti di voi, di noi, siamo affezionati e che ha dato uno spunto al più grande romanzo
della letteratura italiana di Milano, I promessi sposi, e la parola è “Provvidenza”.
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La Provvidenza evidentemente non è fatalismo, non è lo stellone, non è la fortuna, non è il lasciarsi
andare al destino, ma anzi è il contrario, è la convinzione che in base a una fede, a una regola di
vita, la propria vita può seguire un cammino che è segnato da un cambiamento, un cambiamento
che dipende da quello che ciascuno di noi fa e che può fare assieme agli altri, quindi un cammino di
libertà e di responsabilità.
Allora, perchè questa premessa? Perchè secondo me questa è sempre stata la forte convinzione che
ha animato gran parte della vita, anche sociale e associata, di Milano ed è una premessa che mi
permette di sottolineare un aspetto al quale mi sto affezionando sempre di più; e lo ripeto a costo di
essere monotono, cioè che Milano sia eccessivamente affezionata a questo clima leggermente
apocalittico di se stessa e che questo pessimismo che la permea renda difficile sempre di più per i
milanesi, per chi fa politica, per chi vuol capire la città, conoscerla e capirla, e questa è una cosa che
per esempio scrive anche Doninelli quando, nelle ultime righe della sua postfazione, sottolinea
come le meraviglie di Milano non sono affatto scomparse ma che noi siamo diventati incapaci di
vederle.
Io credo dunque che questo sia uno degli aspetti fondamentali e che emerga in modo evidente da
alcuni dei racconti che sono contenuti in questo volume. E’ vero quello che dice Doninelli, che le
meraviglie non sono scomparse ma che noi siamo diventati incapaci di vederle: ciò viene fuori, per
esempio, da quello che scrive Lucia Rossi nella sua esperienza fatta a Cerchiate, dove dice che nel
suo paese il centro non ha più niente da raccontare. Ecco, noi dobbiamo evitare che Milano diventi
una città che non ha, che si senta di non avere più nulla da raccontare, e prendere insegnamento da
quello che scrive la stessa Lucia Rossi, la quale qualche pagina dopo dice: "E’ Cerchiate ad essere
caduta in un sonno profondo, non i cerchiatesi". Allora questa ricchezza che c'è nelle città, nei
borghi, nei paesi, è una ricchezza nascosta, importante, straordinaria, che ha sempre costituito la
grande forza anche civile e sociale di Milano, perchè Milano è stata capace di cambiare senza
subire, addirittura anticipando e governando i propri grandi cambiamenti.
Questo progetto mi è sempre piaciuto-siamo al secondo volume-ne abbiamo parlato già l'anno
scorso con Camillo; mi è piaciuta l'iniziativa e mi piace il titolo che dà nome a questa iniziativa,
cioè Le nuove meraviglie di Milano, perchè riprende appunto la capacità di questo frate duecentesco
che inneggiava Milano e che riteneva che tutto fosse meraviglioso lì, tranne un paio di cose. Questo
mi solleva la domanda non di che cosa Bonvesin de la Riva scriverebbe oggi di bello su Milano, ma
se noi oggi a Milano abbiamo la forza di dare vita a un nuovo Bonvesin de la Riva, cioè a qualcuno
capace di parlare della nostra città nei termini realistici, ma non apocalittici, che essa merita. E mi
piace il metodo che segue questa collana, questa serie di libri, cioè una ricerca approfondita, una
sorta di reportage non folkloristico nella città, affidato a penne giovani, spesso certe, che ci danno
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finalmente di Milano un quadro insolito e vero, rispetto a quello tradizionale e un po' bacchettone
che leggiamo nelle cronache tradizionali dei giornali e che ascoltiamo nei salotti della Milano del
centro.
Ha ragione Doninelli quando dice: «Si respira un sentimento della vita che è diverso da quello che
la tv e la moda ci vorrebbero comunicare, un sentimento più triste e più duro forse ma più reale».
Doninelli sottolinea l'importanza di prendere spunto da questa mescolanza che è rappresentata dalla
città di Milano proprio per sviluppare un racconto vero.
«Milano - dice Simona Martini - è diventata una città intrattabile. Mi ha dato sempre fastidio –
scrive - il grigiore intellettuale in una città che ha perso il valore umano delle cose». E prima scrive
che si sente però “Tanto legata a te, città delle bugie. Sento che la mia città in vari momenti ha tirato
fuori cose interessanti ma adesso ti serve qualcosa - rivolta a Milano, dice - che mi faccia venir
voglia di togliermi le pantofole”. Questo, secondo me, è uno dei punti importanti, anzi Simona
Martini poi raccomanda una cosa alla quale mi sono adeguato venendo qua e cioè di passeggiare in
bicicletta per scoprire appunto questa città, perché proprio andando in bicicletta c'è la possibilità di
stare al livello dell' amore e di sentirsi milanesi.
C'è un curioso filo alimentare che lega questa iniziativa. L'anno scorso, vi ricordate, il volume si era
intitolato “Milano è una cozza”, quest'anno parliamo di “Michetta”. In questo volume si parla molto
di risotto giallo, ovviamente non troverete la ricetta del risotto giallo, ma è elemento, simbolo,
scrive la scheda introduttiva, “della territorializzazione dei sentimenti, dei sogni e dei pensieri”.
Quindi si è parlato di cozza, si è parlato di “Michetta”, si è parlato di risotto giallo, poi a un certo
punto si parla della dieta light di un grande centro fitness; e lo fa Tatiana Piras, e mi ha colpito
molto questa descrizione del menu light di un centro fitness, perché in questa specie di
testimonianza di nichilismo alimentare, ho trovato una specie di metafora di quello che sta
diventando Milano, perché “quel nichilismo alimentare -scrive l'autrice- è visto come ricetta per un
nuovo equilibrio corpo-spirito”. Ecco, allora nel momento in cui l'equilibrio corpo-spirito diventa
una questione legata esclusivamente a una scelta calorica e non a una scelta di vita, e quando
pensiamo che soltanto nelle palestre e nei loro ristoranti si possa trovare questo equilibrio e non per
esempio nelle biblioteche piuttosto che nelle chiese, io credo che una città e una società si debba
cominciare a preoccupare, a interrogare. E ripeto: questa descrizione di nichilismo calorico mi
sembra una metafora di un'illusione imperante nella nostra società, e cioè che il benessere si
raggiunga sottraendo. E quindi si sta meglio se la vita è senza bambini, si sta meglio se i grassi sono
eliminati dalla cucina, se i colori sono eliminati dalle case, se le idee sono eliminate dalla politica,
se i doveri sono eliminati dalla società. Ecco io credo che dovremmo avere il coraggio di fare una
svolta e dire che forse, per fare un po' più di benessere anche nella nostra società, avremmo bisogno
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di ri-aggiungere qualcosa, di recuperare un equilibrio fatto anche un po' di pieni, non soltanto di
vuoti, fatto di idee, di fede, di valori, di entusiasmi, di passioni che sono testimoniati in questo libro
e che emergono dalla vita quotidiana della città.
Questo è il punto: noi abbiamo di questa nostra città una visione che è deformata dal fatto che la
vediamo esclusivamente dal centro storico. Per questo ho raccomandato a Camillo di fare le altre
presentazioni in periferia, per rompere questo muro che non permette di capire veramente Milano.
Tutti questi fili che io ho trovato nei racconti di “Michetta addio” vengono tirati molto bene insieme
poi nella conclusione di Luca Doninelli, e io da questa conclusione - e concludo a mia volta - traggo
uno spunto. A un certo punto Doninelli dà un giudizio molto severo sull'Occidente e dice che
quest’ultimo è diventato incapace appunto di capirsi, di comprendersi, e credo che questa sia una
grossa sfida per Milano, che non a caso, infatti, ha come simbolo principale proprio la Madonnina;
e mi pare che appunto quello che Doninelli indica sia quello che noi stiamo cercando di evitare.
Scrive Doninelli: “Avremo dimenticato quella cura e quella benevolenza verso l'uomo di cui la
Madonna col bambino è l' emblema e che è la radice vera della nostra civiltà. L'Occidente ha
prodotto guerre, colonialismo e orrori a non finire ma non possiamo dimenticare che ha anche
prodotto quella cura, quella benevolenza, quella sollecitudine che attraverso mille vicende ci ha
condotto ad affermare l'uomo come radice inalienabile di tutti i diritti”.
Ecco, per recuperare questa tradizione dell'Occidente, di cui Milano è stata una delle capitali e lo
rimane, io credo che Milano debba trovare la capacità di vincere quel muro di conformismo che
invece la sta un po' aggredendo in questi ultimi anni. E' proprio il conformismo che non permette
alla città di cogliere queste proprie contraddizioni che sono poi il simbolo della sua grande vitalità,
della sua permanente vitalità, una vitalità che deve alimentare la speranza e appunto non anticipare
l' apocalisse. Del resto, questa capacità di resistere al conformismo oggi espressa dalla nebbia della
correttezza politica è stata sempre una caratteristica di Milano. Milano non è mai stata una città
conformista e non a caso Doninelli identifica Milano con il termine insurrezione. L'insurrezione di
Milano è sempre stata rompere gli equilibri e non adeguarsi agli schemi correnti. Quindi nella
possibilità di recuperare questa volontà e capacità insurrezionale sta la grande sfida di Milano.
Perciò io credo che questo libro ci indichi e ci offra dei motivi di riflessione molto profondi, che ci
permettono di guardare a Milano in modo insolito, inedito, ma molto stimolante, perché ci apre
degli squarci anche su realtà urbanistiche, sociali, su personaggi veri di cui ignoriamo, come spesso
accade, l'esistenza, e che poi sono ciò che rende grande Milano.
Siccome ho citato Alberto Savinio nella prefazione, concludo proprio con Alberto Savinio, con
alcune parole dello stesso libro che citavo, cioè “Ascolta il tuo cuore, città”; mi rifaccio a un
racconto di questi contenuti in “Michetta addio” di Maurice Defaux, che è un nome molto francese
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ma anche molto milanese, il quale fa il flaneur a Brera e allora questa sua passeggiata per Brera mi
ha fatto venire in mente la passeggiata che fece Savinio a Brera nella città di Milano distrutta dalla
guerra. In giro, guarda i palazzi abbattuti, i negozi chiusi, le saracinesche divelte e poi a un certo
punto scrive che si imbatte in un portone proprio in via Brera, forse dalle parti dove abita Andrèe
Shammah. «Sopra il portone del n.30 di via Brera, questa insegna: “Impresa Pulizia Speranza”. Che
aggiungere? E' detto tutto». Credo anch'io. Grazie.
C. FORNASIERI: Grazie. Grazie a Carrubba stiamo appunto entrando e avviandoci nel tentativo di
dare una risposta a quelle domande che ponevo all'inizio. Io vorrei ricordare che questo lavoro è
accompagnato da una delle meraviglie di Milano, che è la casa editrice Guerini. Saluto qui Angelo
Guerini che ha sposato questa iniziativa. Ecco, questo libro ha tre scansioni: persone, luoghi,
confini, che racchiudono i sedici spunti di narrativa. Io vorrei chiedere a Botta nel suo intervento, a
partire da una nota che fa Doninelli chiudendo la sua introduzione al libro, in cui dice che prova una
certa ansia nel pensare che Milano potrebbe finire come quelle città quasi tutte uguali le une alle
altre, come Amsterdam, Shangai, Madrid, Milwaukee, di spiegare questo processo di
globalizzazione rispetto alla fisionomia che sta assumendo Milano, di far capire cosa siano questi
anticorpi, o meglio quali siano le motivazioni reali che fanno parte di questo presente. Non si può
scappare né ritornare in un altro tempo, non è questo l'intento né del libro né del loro lavoro.
Appunto, volevo chiederle che fenomeno vivono le città che lei ha visitato, per le quali anche ha
lavorato e ha ricreato dei luoghi? Che cos'è questa somiglianza che diventa non luogo e come
invece la si recupera? Forse era già nelle sue tracce.
MARIO BOTTA: Grazie innanzi tutto dell'invito. Io ho aderito immediatamente quando Doninelli
mi ha chiesto di testimoniare sul problema della città in merito a questo suo libro, che poi ho
scoperto essere un collage di testimonianze molto interessanti, un vero spaccato antropologico che
dà uno sguardo sulla città complementare o diverso ma certamente molto più profondo dello
sguardo che può dare unicamente l'architetto. Milano è la mia città. Io abito a Mendrisio, che è
periferia di Milano. Se guardiamo un'immagine satellitare che io tengo sempre nel mio studio si
vede molto bene che la forza centrifuga e centripeta di Milano fa sì che tutto il contesto territoriale
dalle Prealpi giù fino a Milano è un unicum urbanizzato. La cosa che mi impressiona sempre è che
il più grande parco recintato d'Europa, il parco di Monza, in realtà sembra un giardinetto in mezzo
all'agglomerazione continua dell'insieme. Però volevo fare delle osservazioni utilizzando Milano
come archetipo della città europea. La prima osservazione da fare è che in una società attraversata
dalla globalizzazione, come quella in cui noi viviamo, la ricerca della propria identità passa
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necessariamente attraverso il senso di appartenenza ad un territorio. Noi abbiamo bisogno di un
territorio, di un contesto, che non è unicamente un contesto fisico, geografico; il contesto geografico
narra di un contesto di storia, di memoria, di cultura, che ci appartiene. Per essere veramente globali
noi abbiamo bisogno di essere profondamente locali. Tutti noi abbiamo il cellulare in tasca e
viviamo in tempo reale, almeno in taluni momenti, parti del mondo; però noi siamo e ci connota
un'identità che riconosciamo appartenere alla nostra storia, alla nostra cultura, al nostro territorio. Il
territorio fisico è molto importante. Parigi è un'altra realtà, Londra è ancora un'altra. Ecco, se è vera
questa possibile equazione, che l'identità passa attraverso il senso di appartenenza ad un territorio,
noi, anche senza che lo sappiamo in termini di coscienza critica, abbiamo bisogno di un'identità che
ci appartiene. Allora la città diventa importante; quando siamo in giro per il mondo: “Tu da dove
vieni?” “Io vengo da Milano”, “Io da Parigi”, “Da Amsterdam”, “Da New York”, “Da Pechino”. La
città esercita un fascino molto più importante e molto più forte perché legato all'identità delle
nazioni. Perché, individuando con l'identificazione di una città, si racconta molto di più di
un'appartenenza a un paese politico. La città è un modo per radicarci alla terra madre. Noi dicendo
il nome della nostra città riconosciamo il senso di appartenenza, ci leghiamo all'idea stessa di una
storia per cui ci riconosciamo come parte dell'umanità. Questo è molto importante in un momento
dove sembra che tutti vivano il globale. Noi ci riempiamo la bocca di globale ma viviamo nel
locale; questa è la prima osservazione. Questo è il mio intervento ed è un elogio a Milano attraverso
la sua idea di essere città e città madre. La seconda osservazione è che la città, ancor oggi, è la
forma di aggregazione umana, sociale, politica, più intelligente, più colta, più flessibile, che
l'umanità abbia mai costruito. Non c'é altra forma di aggregazione umana così performante. La
storia dell'umanità è fatta dal bisogno di aggregarsi per una serie di motivi, non ultimo il bisogno
inconscio di vincere il sentimento terribile della solitudine, per convivere delle storie, dei
turbamenti, degli amori, delle battaglie, delle sconfitte, che ci appartengono. Noi, in questo modo,
in città ci sentiamo partecipi di una storia che non è la storia privata nostra, ma che è la storia
privata della nostra parte di umanità. Allora da questo punto di vista è difficile anche sconfiggere la
città. Se io confronto il modello della città europea con il modello della città americana o il modello
della città asiatica, devo riconoscere il primato della città europea. La città europea rispetto al
modello della città asiatica è l'Everest. A cosa è dovuta questa capacità di avere degli anticorpi
talmente forti dal punto di vista intellettuale che ci fa dire che vi è questo primato? Non certo la
distribuzione tecnica o funzionale. Eccetto Rotterdam, per fare un esempio, o la periferia di
Rotterdam, o la periferia di Pechino, che dal punto di vista strettamente funzionale forse va meglio:
si arriva in auto, si può prendere l' ascensore, si arriva direttamente sul proprio letto. Ma quel che
noi cerchiamo nella città non è questo; ancora oggi, e mi sorprende, ogni volta che si parla con la
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gente e si cerca di farla parlare oltre ai luoghi comuni, si vede ad esempio che i cittadini
riconoscono la migliore qualità di vita all'interno dei centri storici, in particolare in Italia. Se noi
domandiamo a cento persone dove vi è la migliore qualità di vita, questi citano Parma, Treviso,
Venezia, Verona, il centro storico italiano. Paradossale, perchè sono le città che rispondono peggio
dal punto di vista tecnico-funzionale, sono le città dei morti, sono le città dei popoli estinti, sono le
città che rispondono ai nostri bisogni in termini di memoria, di storia, di cultura; non ci
abbandonano mai, all'interno di queste città non siamo mai soli, perchè possiamo vivere gli eventi,
le avventure, le lotte, le dispute che indirettamente ci appartengono. Ma dal punto di vista tecnicofunzionale dobbiamo lasciare la macchina al tronchetto, prendere un altro mezzo, andare a Venezia,
salire cinque piani sulle scale ripide. Con questa osservazione si comincia a far apparire come il
valore della città non sia dato dagli elementi tecnici e funzionali, ma ci siano altrove altri elementi,
ad esempio quelli della convivenza attraverso questa memoria. Io ad esempio ho detto che la mia
città è Milano; ma la mia città è Milano, risale a Milano quando mia nonna, una donna di servizio di
un signore di Luino, mi raccontava che veniva alla Scala di Milano col calesse, alla fine
dell'Ottocento, inizio del Novecento. Io bambino restavo incantato da questo viaggio iniziatico coi
servitori dietro sulle carrozze dei padroni, che poi rientravano alle tre, alle quattro di notte. Devo
dire che quando mi sono occupato della ristrutturazione della Scala di Milano questo ricordo ha
giocato un ruolo importante. Lo stesso edificio parlava dei signori padroni di mia nonna, parlava di
mia nonna; mia nonna faceva questi grandi sacrifici, era nel parterre, che era il luogo dei servitori,
in piedi, e viveva le stesse emozioni, ovviamente di forme espressive diverse, che io avevo il
privilegio di vivere cento e qualche anno dopo. Ecco, la città è anche questo; la città porta con sé
una serie di memorie che vanno oltre l'utilizzo e la critica che noi possiamo vedere attraverso un
consumo che ne abbiamo fatto nell' arco di qualche decennio. Non a caso, e mi è piaciuto, nel libro
di Doninelli vi è questa insistenza sul ruolo degli anziani all'interno della città. Gli anziani sono
ancora delle testimonianze vive, prima che le testimonianze di pietra parlino alle generazioni future
di questo. Però dobbiamo fare molta attenzione noi vecchi europei; perchè se noi non abbiamo cura
delle nostre città e disgreghiamo il nostro tessuto non buttiamo via solamente gli elementi
distributivi e tecnici, ma perdiamo una serie di valori, di anticorpi, che io ritengo fondamentali.
Vorrei dire di più: se questi valori di storia, stratificazione, cultura, che sono la terra madre della
città, non fossero così forti, probabilmente saremmo in balia della banalizzazione, del consumo,
dell'appiattimento, che inevitabilmente la cultura del globale porta. Noi possiamo godere del
globale perchè abbiamo queste radici così profonde. Si potrebbe spingere il discorso ancora oltre.
Vedere la città europea con questi valori che ho cercato di descrivere, come una forma di resistenza
alla follia della guerra. Se Milosevic avesse avuto la consapevolezza che la città aveva questa
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stratificazione di cui lui era parte, probabilmente non avrebbe distrutto la biblioteca di Sarajevo. La
logica perfino della guerra dovrebbe riconoscere la sacralità della città; perchè la città non
rappresenta il nemico. Il nemico è una presenza pro tempore; per caso c'era questo nemico, poi tra
dieci anni cambia, di questi tempi anche dopo qualche breve stagione, la connotazione della città.
Se noi riuscissimo a far sì che questa storia dell'umanità riemerga dalla città fisica, la città fisica poi
comporterebbe la città sociale. Anche le nostre critiche alla città fisica perchè vi sono le periferie
urbane, non vi è la qualità, etc… Ma come è possibile avere una città fisica idilliaca se la città
sociale è ghettizzante, è violenta ed esclude la partecipazione collettiva? Da questo punto di vista la
città è uno specchio impietoso, è lo specchio, è l'espressione formale della storia. La città dà forma
alla storia, infatti noi riconosciamo in tutte le città del mondo i diversi periodi storici; questa è l'altra
forza. Noi entriamo in città, non importa in quale, e riconosciamo immediatamente un tempo
storico: questi sono gli anni Ottanta (quando arriviamo dall' aeroporto), gli anni Sessanta, l'inizio
secolo, l'Ottocento, il Rinascimento, il Medioevo. Non importa in quale città. Questa è un'altra forza
incredibile: la città come testimone di una stratificazione, di un tempo storico che ci appartiene,
come territorio della nostra stessa identità. Se guardiamo Milano da questo punto di vista, io credo
che le osservazioni fatte siano straordinarie perchè corrispondono; la città sociale che è descritta,
questo spaccato antropologico, io l' ho letto cercando di immaginarlo nel tessuto, che non sempre
conoscevo, dei diversi quartieri, delle diverse strade, delle diverse piazze. La forma fisica diventa
un testimone di un qualcosa che, certo, si sta smarrendo, ma questo è l'altro grande equivoco: non
dobbiamo aver paura che la città cambi, la città nel cambiamento si rafforza. La città lascia una
certa configurazione, e quindi una certa destinazione d'uso, necessariamente da un tipo si trasforma
in un altro. Ma all'interno di questo cambiamento trova le sue risorse per rafforzarsi. Noi parliamo
di stratificazione storica: quello che era stato viene seppellito. Secondo me, la lezione di questo
bellissimo libro con queste testimonianze, consiste nel fatto che voci diverse, parlino tutte
indirettamente del grande bisogno della città, la città madre, la città che ci accoglie, la città che ci
consola, la città nella quale noi facciamo quotidianamente riferimento. Da questo punto di vista mi
sembra che questa carrellata, questa raccolta di saggi, dia un contributo molto importante. Ad
esempio il mio lavoro. Io mi sono sentito rafforzato rispetto alle idee che vi ho descritto, per la
grande dignità, la grande forza, il grande amore che soggiace a queste testimonianze. Queste
testimonianze parlano di un voler bene alla loro città e di riconoscerla anche nelle forme dei
cambiamenti. Il vero problema è quello che noi dobbiamo e non sappiamo costruire delle parti delle
città che hanno la stessa dignità. Io stasera sono arrivato qui all'inferno della fiera; è stato un inferno
arrivarci questa mattina, un inferno trovare i posteggi, un inferno ritornare.
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Quello che facciamo noi oggi è infernale. Allora nasce il desiderio della città. Quando sono partito
dalla fiera desideravo il palazzo del Muzio, desideravo la bellezza di questo salone. Desideravo di
poter trovare là le sembianze delle configurazioni che già conoscevo. Il vero problema, ora, è come
noi adesso stiamo trasformando questi spazi; perché l'evoluzione della vita e dei costumi è
inevitabile. La rivoluzione elettronica ha cambiato il nostro modello d' uso della città.
C. FORNASIERI: Grazie. Allargamento molto bello e molto descrittivo di quello che significa una
città. Questa idea forte e indistruttibile che non ha ancora trovato nessun sostituto. Forse niente
corrisponde a quella ampiezza e singolarità dell'animo umano, su cui si fonda ogni cultura. C’è
specularità tra città funzionale e città sociale. La città è in fondo questo specchio dell’esigenza
umana. Andrèe Ruth Shammah ci ha raggiunto e ci racconta che cosa ha scoperto in questo nuovo
lavoro.
ANDRÈE RUTH SHAMMAH: Innanzitutto mi scuso di essere arrivata in ritardo ma stavo
presentando un libro di Umberto Veronesi e la cosa che avevo notato è che quando lui, da bambino,
viveva con i suoi fratelli e sua madre in una cascina, diceva una cosa opposta rispetto a quello che
stavate dicendo. Per questo lo cito e mi colpisce. Diceva: «Come si fa davanti alla solitudine delle
famiglie più piccole, di papà e mamma con un solo figlio, senza tutta questa costruzione che è una
possibilità di non provare la solitudine che si prova dentro una città? Esiste un modo di stare con gli
altri e per gli altri e sapere che non si vive per sé?» Questo esempio mi fa dire: «Ma questo libro?».
Quando me l' hanno mandato ho detto: «Che cosa c'entra Doninelli? Sono tutti pezzi di ragazzi che
hanno imparato da lui, che hanno fatto questa scuola. Che cosa c'entra?» E poi ho letto una storia,
Osservando meglio la merce, e mi sono detta – ci sono delle considerazioni in questo racconto che
mi hanno molto colpito e che non dimenticherò mai più – che secondo me uno è maestro non perché
insegna a scrivere, ma perché guida quello che lei ha notato, cioè che dentro questi c'è un amore per
la città. Il motivo per cui c'è Doninelli è perchè questi scritti, senza che lo sappiano quelli stessi che
lo scrivevano, sono stati in qualche modo guidati da un modo di appartenenza a una famiglia, a un
concetto di non solitudine. Altrimenti, come è possibile? Voglio leggere una cosa che mi ha
sconvolto – scusate, sono sincera, ho parlato dopo certi relatori, io sono una teatrante, una povera
artigiana – un racconto di Laura, scritto da una donna, Elisabetta Di Maria; un bellissimo racconto e
bellissimo è anche il personaggio femminile che c'è in questo racconto: «Se ho incontrato la
bellezza quando ho conosciuto Laura è per una ormai rarissima identità di intenzioni tra la persona e
il luogo che la ospita». Già questo non è così ovvio:è un concetto che se uno non passa via come
identità tra la persona e il luogo. «La sua drogheria la rappresenta e si potrebbe dire anche il
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contrario. I suoi pensieri, che discendono dall'atteggiamento di Laura nei confronti della vita hanno
strettamente rifatto il suo negozio. Nel chiasso delle dissonie, dell'approssimazione, degli inevitabili
slittamenti che allontanano da sé e dal proprio sentimento, Laura invece coincide con i suoi
racconti, le sue decisioni, le sue malinconie, i suoi vestiti». I suoi vestiti! Una cosa straordinaria,
perchè questo essere in armonia in un mondo di dissonie è veramente forte. Sembra che si stia
descrivendo questa donna che esce con i suoi vestiti astratti. Esiste un' autenticità, una coincidenza,
un modo di avere il tuo quotidiano, le tue malinconie, le tue paure, che coincidono. La parola
coincidere! Ho detto: «Mamma mia!». «Ed emana una compattezza e una serenità che naturalmente
discendono da questa esatta corrispondenza con se stessi». Non leggo gli altri perchè altimenti
leggerei tutto: ma imbattendomi in questo e riflettendoci, rimanendo molto colpita da questa
osservazione ho detto: «Chapeau Doninelli!».
C. FORNASIERI: Chapeau Elisabetta!
A. R. SHAMMAH: No! Chapeau Elisabetta perché il racconto è bellissimo, è bellissima Laura; non
so se è vera o se è inventata, poco importa: è ben raccontata. Ma secondo me riesce a fare sentire
che sono cose importanti da raccontare, cioè mostra che le tue osservazioni, che il tuo modo di
vedere alcune cose, è un modo di costruire la grande città. Questo non è di tutti. È come se uno
dicesse: «Qualsiasi cosa voi vediate, qualsiasi dettaglio, non chiedetemi che cosa vuol dire,
cominciate a guardarlo, a osservare che cos'è, se diventa qualche cosa in piccolo – come diceva
prima del dettaglio in piccolo, di questo negozio, di questo vestito di Laura – e da lì, partendo da
questo piccolo, si può arrivare a fare una teoria del grande». Ecco credo che questo non sia di tutti i
giorni. Allora io ringrazio che mi abbiate dato questo libro, di averlo letto e di aver scoperto Laura
e tanti altri personaggi.
C. FORNASIERI: Grazie Andrèe. Luca, da quello che hai ascoltato che riflessione fai?
LUCA DONINELLI: Io non faccio nessuna sintesi, voglio dire alcune cose molto velocemente.
Spero di non essere molto più lungo di Andrèe, che è mia maestra in questo. Le persone qui presenti
non sono persone di cui io e Camillo ci siamo messi a
dire: «Ma chi invitiamo?» così,
astrattamente, ma sono persone che io ho incontrato nella mia vita, che abbiamo incontrato nella
nostra vita, che abbiamo intercettato facendo le cose. Con Salvatore, per esempio, questa stima, per
me imprevedibile, per il primo libro, per cui è stato spontaneo per me che si chiedesse a lui di fare
la prefazione. Anche perché ho scoperto che c’è una quantità enorme di fonti di contatto con quello
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che diciamo anche se magari viviamo vite diverse. Io e Mario ci siamo conosciuti a Roma. Io, negli
anni Ottanta, quando non ne potevo più di Milano e dell’Italia, emigravo a Lugano per andare a
vedere queste case strane, che però per me erano il segno di una architettura, di un modo di abitare,
di un modo di guardare la città che mi facevano venir voglia di innovazione. Mi mettevano il
desiderio di non sedermi su quel simbolismo della città, della big target, di vivere a Milano, in
Italia, e mi facevano venir voglia di scompigliare le carte, di cambiare i giochi. Devo dire che in
quel periodo avevo un grande amico, che era Giovanni Testori, un grande amico da cui è nata una
amicizia come la più grande ammirazione, una ammirazione conquistata con la forza, come dire, del
martello pneumatico che abbatte le diversità di vedute, le diverse estetiche e che mi fa trovare
questa grande compagna di cammino che è Andrèe. Per cui sono tutte persone incrociate.
Mario parlava della bellezza come fattore fondamentale. Adesso ho notato una cosa, scusate,
sembrerà una stupidaggine, ma l’Andrèe ha l’I-phone, io ho l’I-phone, Camillo ha l’I-phone e
Mario ha l’I-phone (perché lo so, adesso non ce l’ha qui, ma ho visto che ce l’ha). Parliamo della
morte di Steve Jobs. Io volevo dire una cosa: innanzitutto volevo dire che non avevo mai pensato
che mi dispiacesse così tanto della morte di una persona. Ma perché mi dispiace così tanto? Perché
Steve Jobs non ha vinto la battaglia, la sua battaglia con la tecnologia, perché io – a parte che non
me ne intendo – non penso però che un computer sarebbe tecnologicamente migliore di altri. Ha
vinto con la bellezza, ha vinto con l’umanesimo. Per questo immediatamente, quando penso a lui,
penso ad un segno di più, ad un uomo che ha portato sé, quindi tutta la catarsi, tutto il pessimismo,
la crisi economica e tutto quello che un uomo capace di mettere un segno di bellezza nella vita,
nella nostra vita, che è quello per cui è, secondo me, degno di essere ricordato, di essere amato.
Volevo dirlo perché mi sembra che la lingua della bellezza sia la lingua con la quale ci possiamo
ritenere come persone che vivono a Shanghai o quelle che vivono in Sud America, come persone
che vivono in Africa; io nella bellezza ci credo, spero sia un linguaggio con il quale è più facile
difendersi che non con il linguaggio delle regole. Io non sto parlando della bellezza di Naomi
Campbell, io parlo di ben altra bellezza. Secondo me, se uno non arriva a capire che tutto è bello,
secondo me è assolutamente inutile che Naomi Campbell sia bella, cioè è una osservazione così. È
in questo senso che volevo dirlo. Son state dette tante cose importanti e su cui io ho bisogno di
riflettere per continuare il mio lavoro. Volevo però sottolineare due cose: uno, volevo ringraziare
tantissimo le persone che hanno scritto questo libro insieme a me in questi mesi, che sono con me in
questa strada perché con ciascuno di loro c’è un rapporto particolare che è solo con quella persona
lì. Io li penso uno ad uno insomma, per me esistono uno a uno, io ho in mente delle cose da chieder
loro uno per uno e loro hanno un sì o un no per uno da dire a me. Questo è molto importante. Per
esempio se penso ad Elisabetta mi ricordo questa persona con gli occhi tristi. Ho capito che era
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molto importante per il nostro gruppo che si capisse che ci tenevamo l’uno all’altro, poi il tempo è
quello che è. Elisabetta è uscita con una delle cose forse meno tristi di questo libro, la cosa più
luminosa che è questo ritratto di Laura, della bellissima Laura, che è una signora di ottanta anni. Ma
questo vale per tutte le cose che sono state fatte per ciascuno, quindi prendo lo spunto di Elisabetta
perché mi parlava adesso al telefono.
Vorrei ora parlare riguardo a un punto che mi sta molto a cuore per la continuazione. Siccome
Salvatore prima parlava della continuazione del lavoro, io tenterò di farlo con quello che ho in testa,
considerando che dalla nostra redazione si producono molte più cose di quelle che si riescono a
mettere in un libro; tante volte sono cose bellissime, quindi secondo me con Camillo dobbiamo
inventare anche qualcosa d’altro, speriamo di riuscirci.
Si parte sempre con una preoccupazione quando si pensa un numero. Non è una scuola di scrittura,
nel senso che a me non interessa produrre degli scrittori, poiché non sono capace; inoltre non ho
mai capito bene se sono uno scrittore o no. Il fatto che pubblico molti libri mi fa dedurre che
probabilmente lo sono, ma uno lo è o non lo è. Però a me interessa fare libri, a me interessa fare
questi libri. Ci sono alcune persone nel mio gruppo che so che scrivono maledettamente bene, poi
non so se vogliono fare gli scrittori o meno: qualcuno lo so, qualcun’altro assolutamente no, e
questa è una cosa che mi diverte molto. Se noi vogliamo parlare della città dobbiamo parlare delle
cose che ci colpiscono ed in qualche modo ci feriscono, perché è sempre una ferita. I sedici racconti
sono sedici ferite e secondo me non si può parlare di una città così o fare l’analisi di questo o di
quello senza implicare una ferita. Quel vecchio cinema che Andrèe, Franco Parenti e Giovanni
Testori hanno preso e per cui è cominciata una delle avventure teatrali più belle del nostro paese, è
la ferita di una vita, giusto? Quindi non ho mai chiesto ad Andrèe di scrivermi un racconto, perché il
suo racconto è il Franco Parenti. Volevo invece dire quello che sta a cuore a me, poi magari non lo
faremo, ma io propongo ugualmente dei temi. Vorrei proporre per i prossimi numeri, o il prossimo,
il mio più caro amico, che quest’anno ho avuto il dolore e anche in qualche modo il privilegio di
seguire nella malattia; malattia che lo ha portato a morire. È una cosa che mi segnerà per sempre,
ma è talmente grande che non so in che modo avverrà. Tuttavia mi ha permesso di frequentare in
maniera più quotidiana il mondo della sofferenza, che non è solo il mondo della sofferenza, è anche
il mondo della speranza, del dolore e della morte, è anche la nascita. Questo l’ho visto in un
pezzettino di questo numero. Qualche mese fa ero andato a fare una radiografia. Mentre aspettavo
in sala d’ attesa che mi dessero il risultato, c’erano quattro mamme, che erano lì a fare il “tagliando”
del bambino, cioè la visita dopo il primo mese. Si vedeva che erano molto amiche tra di loro,
stavano tutte allattando il loro bambino. Erano una italiana, una araba – che non so da dove
provenisse, ma aveva il velo – una cinese e una sudamericana, con il tipico fisico un po’
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“tracagnotto”. Ridevano, si divertivano tra loro, si parlavano, si capiva che si sentivano spesso. Alla
fine si sono salutate dicendo: «Allora, andiamo a fare merenda in quel bar ?». Sui fili del dolore e
della sofferenza, della morte e della malattia, ma anche della nascita, secondo me si deciderà la
cultura.
Prima si diceva che la cultura di una città risiede nella coscienza che la città ha di se stessa e nella
forma che questa coscienza ha. Oggi quando qualcuno si ammala e va al Veronesi o in un altro
posto, non incontra soltanto un uomo da cui spera di essere liberato dal suo dolore, dal suo male e
dalla sua malattia, incontra anche un modo di concepire la sofferenza e il dolore. Non voglio parlare
di tutte le questioni sul fine-vita; ho però capito questa mia vicenda drammatica, che gli ospedali a
Milano oggi – io parlo sempre nel tempo e nello spazio – sono un luogo in cui non si va soltanto per
provare ad aggiustare quello che non funziona, ma sono un luogo in cui si produce cultura, perché è
nel momento del dolore e della sofferenza che l’uomo si trova nudo. Secondo me è così (non so dire
nel Settecento o nel Cinquecento quando l’uomo fosse a nudo, può essere anche nella esperienza
della gioia e della festa). In questo momento non sto teorizzando niente, ma è nell’esperienza del
disagio che si verifica questo. In mezzo a noi, per esempio, c’è Riccardo Bonaccina, fondatore ed
editore del settimanale Vita, che si occupa principalmente di questo. E anche questo è un lascito di
Giovanni Testori, perché è stato lui a leggere nel dolore di una città, in come noi stiamo di fronte al
dolore e alla vita, l’origine anche della sua antropologia. Mai come oggi (sarà per le vicende del San
Raffaele e non solo) il dolore, la sofferenza, ma anche, ripeto, la nascita sono al centro di un
dibattito che non è solo politico, ma è anche culturale. A me piacerebbe moltissimo, nella
continuazione del mio lavoro, affrontare queste cose. Scrissi un libro anni fa, prima di iniziare
questa avventura sul 1900, che si intitolava Il crollo delle aspettative, un libro che ritengo
precedente in tutti i sensi a questa avventura. Un medico dell’ospedale San Carlo che aveva letto il
libro mi ha detto: «Bello questo libro, però mancano gli ospedali». Ecco, io per anni ho riflettuto su
questa cosa e secondo me bisogna colmare questo vuoto; non per andare a descrivere il dolore,
permearci della vista della gente che soffre, ma per capire che quello è un mondo dove c’è un
pensiero, dove l’uomo pensa, dove l’uomo produce idee. È nostro dovere capire quanto sia decisivo
nel modo in cui poi tutta la città pensa a se stessa. Questo lo dico perché è un indirizzo, un maestro,
che io vorrei seguire continuando il mio lavoro. Grazie.
C. FORNASIERI: Io volevo che ci lasciassimo con tre brevissime sintesi degli interventi che sono
stati molto ricchi. Carrubba: non conosciamo la realtà, ma questa è la condizione permanente. Ma è
anche una condizione di dimenticanza dell’oggi, e quindi bisogna guardare con realismo. E questo è
un dato di questo lavoro interessante.
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La questione della città di Botta: la terra madre è bisogno ed evidenza di un fatto che ci ha precorso.
Abbiamo esigenza della città così come è nata, con una forma che è indistruttibile, ma questo
richiede responsabilità.
C’ è poi il tema di Ruth Shammah della città che nasce da una non solitudine, che è necessità di
coincidenza. Quella parola dal racconto di Maria mi ha molto colpito: che le cose coincidano con
sé, questo è il grande punto di saldatura degli ambienti, della persona e della loro corrispondenza.
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